Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2021

 

LA GIUSTIZIA

 

TERZA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le condanne.

Cucchi e gli altri.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Massimo Bossetti è innocente?

Il DNA.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpevoli per sempre.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Morire di TSO.

Parliamo di Bibbiano.

Nelle more di un divorzio.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

L’alienazione parentale.

La Pedofilia e la Pedopornografia.

Gli Stalker.

Scomparsi.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?

La Giustizia non è di questo Mondo.

Magistratura. L’anomalia italiana…

Il Diritto di Difesa vale meno…

Figli di Trojan: Le Intercettazioni.

A proposito della Prescrizione.

La giustizia lumaca e la Legge Pinto.

A Proposito di Assoluzioni.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Verità dei Ris

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Le Mie Prigioni.

I responsabili dei suicidi in carcere.

I non imputabili. I Vizi della Volontà.

Gli scherzi della memoria.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

La responsabilità professionale delle toghe.

Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Adolfo Meciani.

Alessandro Limaccio.

Daniela Poggiali.

Domenico Morrone.

Francesca Picilli.

Francesco Casillo.

Franco Bernardini.

Gennaro Oliviero.

Gianni Alemanno.

Giosi Ferrandino.

Giovanni Bazoli.

Giovanni Novi.

Giovanni Paolo Bernini.

Giuseppe Gulotta. 

Jonella Ligresti.

Leandra D'Angelo.

Luciano Cantone.

Marcello Dell’Utri.

Mario Marino.

Mario Tirozzi.

Massimo Luca Guarischi.

Michael Giffoni.

Nunzia De Girolamo.

Pierdomenico Garrone.

Pietro Paolo Melis.

Raffaele Chiummariello.

Raffaele Fedocci.

Rocco Femia.

Sergio De Gregorio.

Simone Uggetti.

Ugo de Flaviis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’uso politico della giustizia.

Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.

Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".

I Giustizialisti.

I Garantisti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Avvocati specializzati.

Le Toghe Candidate.

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Le Intimidazioni.

Palamaragate.

Figli di Trojan.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Magistratopoli.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giornalistopoli.

Le Toghe Comuniste.

Le Toghe Criminali.

I Colletti Bianchi.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della Moby Prince.

Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.

L’affaire Modigliani.

L’omicidio di Milena Sutter.

La Vicenda di Sabrina Beccalli.

Il Mistero della morte di Christa Wanninger.

Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.

Il Mistero di Marta Russo.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Charles Sobhraj.

Il Mistero di Manson.

Il Caso Morrone.

Il Caso Pipitone.

Il Caso di Marco Valerio Corini.

Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.

Il Caso Claps.

Il Caso Mattei.

Il Mistero di Roberto Calvi.

Il Mistero di Paola Landini.

Il Mistero di Pietro Beggi.

Il Mistero della Uno Bianca.

Il Mistero di Novi Ligure.

Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.

Il mistero del delitto del Morrone.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Mistero del Mostro di Milano.

Il Mistero del Mostro di Udine.

Il Mistero del Mostro di Bolzano.

Il Mistero della morte di Luigi Tenco.

Il Giallo di Attilio Manca.

Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.

Il Mistero dell’omicidio Varani.

Il Mistero di Mario Biondo.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il Mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Cranio Randagio.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.

Il Mistero di Saman Abbas.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.

Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.

Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.

Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.

Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.

Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.

Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.

Il Mistero di Roberto Straccia.

Il Mistero di Carlotta Benusiglio.

Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.

Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.

Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.

Il Giallo di Sebastiano Bianchi.

Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.

Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il Mistero della "Signora in rosso".

Il Mistero di Polina Kochelenko.

Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.

Il Mistero di Giulia Maccaroni.

Il Mistero di Tatiana Tulissi.

Il Mistero delle sorelle Viceconte.

Il Mistero di Marco Perini.

Il Mistero di Emanuele Scieri.

Il Mistero di Massimo Manni.

Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.

Il Mistero di Bruna Bovino.

Il Mistero di Serena Fasan.

Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.

Il Mistero della morte di Vittorio Carità.

Il Mistero della morte di Massimo Melluso.

Il Mistero di Francesco Pantaleo.

Il Mistero di Laura Ziliani.

Il Mistero di Roberta Martucci.

Il Mistero di Mauro Romano.

Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo. 

Il Mistero di Wilma Montesi.

Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.

Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.

Il Mistero di Maurizio Gucci.

Il Mistero di Maria Chindamo.

Il Mistero di Dora Lagreca.

Il Mistero di Martina Rossi.

Il Mistero di Emanuela Orlandi.

Il Mistero di Gloria Rosboch.

Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".

Il Mistero del delitto di Garlasco.

Il Mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.

Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.

Il giallo di Stefano Ansaldi.

Il Giallo di Mithun.

Il Mistero di Stefano Barilli.

Il Mistero di Biagio Carabellò.

Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.

Il Caso Imane.

Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero di Serena Mollicone.

Il Mistero di Teodosio Losito.

Il Caso di Antonio Natale.

Il Mistero di Barbara Corvi.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Roberta Siragusa.

Il Caso di Niccolò Ciatti.

Il Caso del massacro del Circeo.

Il Caso Antonio De Marco.

Il Giallo Mattarelli.

Il Giallo di Bolzano.

Il Mistero di Luca Ventre.

Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.

Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.

Il Mistero di Federico Tedeschi.

Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.

Il Mistero di Gianmarco Pozzi.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della strage di Bologna.

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.

Strage di Viareggio, la Cassazione: prescritti gli omicidi colposi. Il Dubbio l'8 gennaio 2021. Nuovo processo di Appello per disastro colposo nei confronti degli ex vertici delle ferrovie, tra cui Mauro Moretti, ex ad. Prescrizione per gli omicidi colposi e nuovo processo di Appello per disastro colposo nei confronti degli ex vertici delle ferrovie, tra cui Mauro Moretti, ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana ed ex ad di Ferrovie dello Stato. È la decisione della Corte di Cassazione sul processo per la strage di Viareggio avvenuta 11 anni e mezzo fa, la notte del 29 giugno del 2009, e costata la vita a 32 persone. I giudici della Quarta sezione penale di Piazza Cavour hanno ribaltato la sentenza di Appello, facendo cadere l’aggravante sulle norme di sicurezza e dichiarando quindi prescritti gli omicidi colposi. Ci sarà però un nuovo processo per rivalutare alcuni profili di colpa nei confronti di Moretti e di Michele Mario Elia, ex ad Rfi. In Appello Moretti, ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana ed ex ad di Ferrovie dello Stato, era stato condannato a 7 anni di reclusione, con Michele Mario Elia, ex ad Rfi, e Vincenzo Soprano, ex ad Trenitalia, a 6 anni di reclusione. Il sostituto procuratore generale Pasquale Fimiani aveva chiesto un nuovo processo di Appello per l’ex ad Moretti e per altri tre ex dirigenti di Rfi, Francesco Favo, ex responsabile certificazione sicurezza, condannato in appello a 4 anni, e per Giovanni Costa e Giorgio Di Marco, per i quali sono state confermate le assoluzioni. Un verdetto che «colpisce in modo radicale la sentenza d’appello: di fronte alla catastrofe che la sentenza d’appello rappresentava mi pare che la Cassazione abbia rimesso molte cose a posto», ha dichiarato il professor Franco Coppi, difensore di Mauro Moretti, lasciando l’Aula magna della Cassazione dopo la lettura del verdetto. «Grande amarezza» per la decisione della Cassazione, ma «non è finita qui», ha dichiarato Tiziano Nicoletti, avvocato di familiari delle vittime, lasciando piazza Cavour, sottolineando che «non è tutto da rifare, ma in gran parte sì. Vedremo le motivazioni, per noi la cosa più grave è stato l’annullamento dell’aggravante sulla sicurezza sul lavoro».

Il procuratore Liguori: «Viareggio, il magistrato deve spiegare quale verità ha trovato». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 gennaio 2021. Secondo il procuratore di Terni Alberto Liguori in una vicenda come quella di Viareggio sarà chiarito che alcuni reati si sono estinti ma esistono. «Serve trasparenza. Solo in questo modo si può pensare di restituire ai cittadini la necessaria serenità e l’indispensabile fiducia nella giustizia». Alberto Liguori, procuratore di Terni, interviene sulle polemiche degli ultimi giorni che hanno accompagnato la decisione assunta la scorsa settimana dalla Corte di Cassazione di dichiarare prescritti gli omicidi colposi per la strage di Viareggio, a seguito dell’esclusione dell’aggravante della violazione delle norme sulla sicurezza nel lavoro. Piazza Cavour ha, poi, rinviato alla Corte d’Appello di Firenze la riapertura dell’appello bis, anche per l’ex amministratore delegato di Fs e Rfi, Mauro Moretti. Il provvedimento, come si ricorderà, era stato accolto fra le urla di disperazione dei familiari delle 32 vittime. Durissime le critiche anche da parte di numerosi esponenti politici. “Profondamente amareggiato”, si era dichiarato il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani. “È una vergogna”, aveva affermato Matteo Salvini. “In un Paese civile non può esistere che la morte orribile di 32 persone resti senza colpevoli”, era stato il commento del sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti Roberto Traversi, del Movimento 5 Stelle.

Procuratore Liguori, da cittadino, oltreché da magistrato, come giudica queste reazioni?

«Premesso che conosco l’accaduto solo dalla lettura dei giornali, credo sia opportuno partire dal dettato costituzionale».

Prego.

«Noi tutti, mi riferisco a noi magistrati, abbiamo un obbligo verso il cittadino. E questo obbligo discende proprio dall’articolo 111 della Costituzione, che prevede la motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali. Ed è un fatto importantissimo che spesso viene sottovalutato e non tenuto in debita considerazione».

E perché questo avviene, secondo lei?

«Intanto lo strumento di democrazia e di controllo dell’Autorità giudiziaria, autonoma e indipendente, è affidato proprio alla motivazione dei suoi provvedimenti. Questo deve essere ben chiaro».

La mancanza di motivazione è un pericolo? Si potrebbe creare un vulnus?

«Mi spiego. La motivazione deve essere resa intelligibile all’esterno. Certo. Ma è difficile spiegare ai familiari delle vittime di Viareggio che non c’è alcun colpevole».

Lei mi sta domandando come rispondere alla loro sete di giustizia e se questa sete di giustizia è stata soddisfatta o meno?

«Esatto. La cittadinanza di Viareggio ha, al momento, solo un dato a propria disposizione: il fatto si è prescritto.

Questa informazione offre una lettura leggibile all’esterno di quanto accaduto?

«Sembra proprio di no. Ecco, appunto. Le faccio un esempio. Io quando sono arrivato alla Procura di Terni ho trovato molti fascicoli per omicidi colposi che si erano prescritti. Ho scritto alla stampa per spiegare cosa era accaduto. Non spettava a me verificare come mai fosse successo, ma era giusto informare la cittadinanza del perché i fascicoli si erano prescritti».

Qui, però, si entra nel campo della responsabilità professionale. Un terreno minato.

«Possiamo anche affrontare il tema del decorso del tempo. Quanto tempo ha “consumato” il pm e quanto il giudice. Ma qui ci sono in gioco anche gli indirizzi di politica giudiziaria da parte del legislatore».

Torniamo, allora, alla motivazione.

«Noi motiviamo i nostri provvedimenti. In America no. Se un cittadino americano vuole che il provvedimento del giudice sia motivato deve pagare».

Come si lega la motivazione con la prescrizione?

«La legge prevede, anche se il fatto è prescritto, se dagli atti emerge la piena responsabilità, che ciò vada indicato».

Quindi anche se l’istituto che presidia il diritto all’oblio impedisce di andare avanti.

«Ripeto, le parti offese hanno diritto a una verità processuale per soddisfare quello che viene comunemente definito “diritto soggettivo alla conoscenza”. Il tutto, però, non in “giuridichese” spinto ma in un linguaggio che sia facilmente comprensibile a tutti».

E torniamo alla motivazione come forma di controllo democratico.

«Certamente. Nel caso di Viareggio, ma in qualsiasi altro caso, i cittadini che sono parti offese hanno il pieno diritto di conoscere cosa sia successo».

Si potrebbe prevedere una forma disciplinare ad hoc per il magistrato? In caso di ritardo ingiustificato?

«Penso si possa aprire una riflessione in tale senso. Ad esempio per la fase delle indagini preliminari. Il diritto all’oblio va sempre motivato. Anche perché la prescrizione rimane comunque una grande sconfitta da parte dello Stato».

«La giustizia non può sposare del tutto le attese delle vittime». Parola di penalista. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 gennaio 2021. Ennio Amodio, avvocato penalista, dopo le polemiche sulla sentenza di Viareggio: «Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo». Per Ennio Amodio, avvocato penalista, professore emerito di procedura penale all’Università di Milano e autore, tra l’altro, di A furor di popolo (Donzelli editore), la risposta alle aspettative delle vittime di giustizia è semplice: «Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo». Dietro questa frase c’è tutta la cultura illuminista e garantista di giudice con la bilancia in mano.

Professore, alla decisione della Cassazione di prescrivere alcuni reati, diversi parenti delle vittime della strage di Viareggio hanno urlato: “la nostra battaglia la continuiamo ugualmente, perché una battaglia di civiltà, di giustizia, quella vera”. In un altro caso la madre di una vittima, per una condanna lieve all’omicida di suo figlio, gridò al giudici “Vergognatevi”. Con quale sentimento dobbiamo affrontare queste rivendicazioni?

«Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo. Non si può pensare che per il solo fatto di essere vicini alla persona che ha subìto il reato si abbia la legittimazione a costruire un processo personale, di famiglia che si sostituisce, in ragione del dolore che si è provato, alla giustizia degli uomini in toga che applicano la legge. Nella storia giuridica si è avuto il passaggio da uno spirito vendicativo ad uno che è rappresentato dal giudice con la bilancia in mano, che interpreta anche il volere dei parenti delle vittime di avere una risposta. Ma se la giustizia in toga finisce per sposare interamente le attese delle vittime viene completamente travisato il significato e pure la funzione del processo che è incentrata nella nostra storia del mondo occidentale sull’equilibrio e sulla ragionevolezza anche delle pene».

Secondo lei la funzione del processo penale – di garanzia per l’imputato – è compatibile con il ruolo sempre più preponderante che la vittima del reato ha assunto nel nostro sistema processualpenalistico? C’è chi ritiene infatti che la presenza del danneggiato nel processo, come protagonista e parte, può alterare la rigorosa parità tra accusa e difesa che si deve realizzare innanzi a un giudice terzo e imparziale. È giusta questa analisi?

«Non solo è giusta, ma questa esigenza di equilibrio viene incarnata nel processo del Common Law con l’assenza in dibattimento di un rappresentante della persona offesa o di quella che chiede il risarcimento del danno. Ciò viene giustificato dai giuristi inglesi e americani con il fatto che se ci fosse anche la presenza di questo soggetto si altererebbe l’equilibrio perché nel processo l’imputato avrebbe due controparti: il pm che rappresenta la collettività e un rappresentante della persona offesa. Ha dunque un fondamento la tesi secondo cui oggi come oggi nel processo penale la presenza della parte civile costituisce un aspetto incompatibile con il rito che abbiamo adottato nel 1988, ossia quello accusatorio. Persino il Presidente della Commissione redigente, il professor Gian Domenico Pisapia, diceva sempre che il Parlamento ha voluto confermare la parte civile in questo nuovo processo ma la presenza della parte civile è incompatibile con il ruolo garantistico che deve avere il processo accusatorio».

A questo giornale Giorgio Spangher ha detto: “tutto il processo viene sempre governato dall’imputazione del pm”, intendendo che il peso assegnato alle conclusioni del pubblico ministero orienta pesantemente le aspettative di giustizia delle vittime dei reati. È d’accordo con questo pensiero?

«Sì, è così. Esiste una aspettativa che è popolare e che è riflessa in una massima che ho imparato da un giurista americano secondo cui la collettività, le persone che non fanno parte dell’apparato della giustizia pensano sempre che una accusa abbia un qualche fondamento, in quanto la popular mind, cioè la credenza popolare va nel senso che se è stata sollevata una accusa allora qualche cosa ci deve essere. Ed ecco che quindi nasce la spinta populista a ritenere che laddove il giudice nella sua ricerca, ovviamente mirata e regolata dal sistema delle prove, ritenga che l’imputato sia innocente tradisce quella spinta iniziale e quella posizione di partenza che è contrassegnata dall’accusa del pm. Ma questo è un modo di riscrivere e di concepire il processo che la nostra cultura occidentale ha superato con l’Il-luminismo, quando si è affermato il principio che le pene ci devono essere ma devono essere equilibrate, che c’è una presunzione di innocenza, che la prova sta al centro del processo penale e che le spinte emotive non possono superare la razionalità dell’accertamento. Il populismo finisce per derogare da questo impianto razionale e passare ad un sistema che è quello emotivo che pone a fondamento dell’edificio della procedura la risposta vendicativa».

Ritiene che i giudici siano immuni dalla condizione emotiva che la vittima può esercitare sulla correttezza dei processi decisionali?

«Nella maggioranza dei casi direi di sì. Tuttavia ci sono dei fatti che sono talmente gravi che evidentemente e naturalmente suscitano delle impressioni nel giudice. E quindi a volte i giudici, non dico che sono fuorviati, ma sono influenzati dall’impatto emotivo che un certo reato ha sulla società».

A suo parere il processo penale può ancora raggiungere i suoi scopi se la comunità in cui si celebra non ne condivide le regole ed i valori fondanti?

«Ma certo, è sempre stato così. Oggi viviamo in un’epoca in cui sotto la spinta del populismo la bandiera delle vittime sventola in alto, sostenuta anche dalla stampa, e si finisce per cercare una risposta contro il garantismo e contro gli ideali di una giustizia con la bilancia in mano. Credo che nel nostro sistema nonostante queste spinte la gran parte della nostra magistratura è ancora capace di consegnare alla collettività uno strumento come il processo penale in grado di compiere un accertamento equilibrato e di dare una sentenza giusta».

Nel suo libro “A furor di popolo” lei scrive: “è una giustizia senza bilancia, figlia di umori e paure, che si muove sotto la spinta della collera e di una insaziabile sete di vendetta”. Quali sono gli anticorpi a questo fenomeno?

«Una operazione di tipo culturale e politico: non bastano le norme di legge perché la spinta populista di certi partiti ha i suoi effetti. Ma c’è anche una parte che desidera che il Paese venga guidato per quanto attiene alla giustizia con la ragionevolezza e non con la vendetta. Del resto è stato sempre così storicamente: ad un processo come quello dell’ancient regime, dove le persone erano presunti colpevoli, è subentrato poi il pensiero dell’Illuminismo, a cui principi si ispirano i nostri codici. Ora ritorna una forte spinta emotiva ma se pensiamo ai principi della Costituzione e a quelli europei ci rendiamo conto che essi promuovono una giustizia che deve muoversi in modo equilibrato per colpire sì la criminalità ma senza gli eccessi dovuti alla paura, all’ansia della collettività con le sue richieste di pene gravissime e carcere per tutti».

I familiari della Moby Prince sulla strage di Viareggio: “Tolta giustizia”. Il Dubbio l'11 gennaio 2021. “E’ impensabile e inaccettabile che con un colpo di spugna della Cassazione si cancelli anni di lavoro della magistratura, ma questo è il risultato che troppe volte abbiamo subito…”. Loris Rispoli presidente dell’Associazione ‘140’ della tragedia del Moby Prince ha scritto su Fb ai familiari della strage ferroviaria di Viareggio. “Sono amare le parole pronunciate da Marco Piagentini, Daniela Rombi e gli altri familiari della strage di Viareggio, è esprimere il dolore di chi si vede scippato del diritto ad ottenere Giustizia, è impensabile e inaccettabile che con un colpo di spugna della Cassazione si cancelli anni di lavoro della magistratura, ma questo è il risultato che troppe volte abbiamo subito…”.

“I familiari, i cittadini di Viareggio sapevano che non sarebbe stato facile, avevano assimilato divorato le altrui esperienze precedenti e ne avevano fatto tesoro – aggiunge Rispoli – Ricordo la prima sentenza per noi vedere condannati i responsabili era una vittoria, per loro no, condanne più pesanti avrebbero forse messo fine al dolore, chiuso quelle ferite che in tutti noi continuano a sanguinare, ma era una sentenza equilibrata, forte da essere replicata in Appello, e allora acquisti fiducia, diventi esempio per gli altri da imitare, sei ricordato da tutti con ‘almeno Viareggio ha avuto Giustizia’ e tutti noi, tutte le associazioni ci siamo sentiti più forti, ci siamo persino sentiti di vivere in un Paese dove chi sbaglia paga. Ma non è stato così, la Cassazione ha cambiato le carte in tavola, ha cassato i reati per annullare le condanne, ci siamo sentiti tutti pervasi dal dolore-rabbia di chi si vede togliere un diritto. Marco, Daniela, Claudio, Riccardo e tutti gli altri sapete che noi siamo qui, vigili e pronti per scrivere un capitolo di una storia che non può finire così”.

Il dolore delle vittime è sacro, ma la base del processo è il diritto. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 15 gennaio 2021. La rabbia dei familiari dopo la sentenza sulla Strage di Viareggio. Il processo penale non consuma vendette né pubbliche né private. Meglio. Non dovrebbe consumarne e, soprattutto, non dovrebbe essere percepito come il luogo in cui chi ha subito un torto vede necessariamente affermate le proprie ragioni con le manette ai polsi del colpevole. Per il ristoro delle vittime esistono i tribunali civili ove, in tutto il mondo, chi ha subito un danno qualunque trascina il responsabile per ottenere un equo risarcimento a prescindere da ogni condanna penale. Come non ricordare il caso di O. J. Simpson, assolto dall’accusa di aver ucciso la moglie e un amico di questa, eppure obbligato in sede civile a risarcire con otto milioni di dollari i parenti dell’uomo. Era il 5 febbraio 1997 quando una giuria civile riconobbe ai parenti di Ronald Goldman, trucidato assieme a Nicole Brown Simpson il 12 giugno 1994, l’enorme somma di denaro. «Giustizia è finalmente fatta» ebbe a dichiarare come riportano le agenzie del tempo – «con la voce spezzata dal pianto il padre di Ronald Goldman». Un contegno impensabile nel nostro paese in cui è lecito immaginare piuttosto il risentimento e la rabbia dei parenti per l’assoluzione di un presunto colpevole che avrebbero avuto le prime pagine dei giornali, delle news e dei talk show.

Sentenza di Viareggio, la decisione della Cassazione tra dolore e diritto. Tenere distanti e distinte le vittime dei delitti dal processo penale è una scelta di civiltà che il nostro ordinamento non ha mai voluto operare e che troppi casi di cronaca ci consegnano come probabilmente necessaria. La parte civile partecipa al processo penale aspirando, non solo al giusto risarcimento dei danni subiti, ma anche alla condanna dell’imputato, meglio se esemplare. E’ una posizione che, da sempre, è stata considerata ambigua e fonte di incertezze. Esponenti di primo piano della scienza giuridica processuale sono stati accaniti oppositori della presenza della parte civile nei giudizi penali. Carnelutti e Amodio, sopra tutti, a più riprese avevano messo in guardia dal pericolo che la presenza del danneggiato nel processo, come protagonista e parte, potesse alterare la rigorosa parità tra accusa e difesa che si deve realizzare innanzi a un giudice terzo e imparziale. Al punto da annotare che l’intervento della parte civile «provocherebbe uno sbilanciamento degli interessi in gioco a favore dell’accusa tale da potere compromettere la serenità del decidere, anche tenuto conto del fatto che il giudice potrebbe subire una pressione inconscia a rendere comunque giustizia alla vittima del reato costituita parte civile». Naturalmente è una sintesi estrema e poco circostanziata che corre il rischio di riversare sul giudice il sospetto di un silente condizionamento “ambientale” a rimedio del quale il codice di procedura penale prevede, in effetti, qualche mezzo di tutela, sebbene largamente insufficiente: si pensi alla cd. remissione per legittima suspicione che può determinare la scelta di un tribunale diverso da quello previsto per legge a decidere del caso. Se non fosse che, in una società multimediale e ipercomunicativa, non esiste alcun ambiente circoscritto e al riparo da influenze esterne; non esiste un mondo davvero distante da una scena del delitto moltiplicata all’infinito negli schermi delle televisioni. L’attenzione mediatica su un caso lo rende di per sé esposto al rischio di condizionamenti e pressioni con cui la macchina giudiziaria è chiamata a fare i conti.

Il circuito mediatico. Due le questioni salienti. E’ evidente che il peso assegnato alle conclusioni del pubblico ministero – lo ha ben ricordato il professor Spangher su queste pagine – orienta pesantemente le aspettative di giustizia delle vittime dei reati. Il doloroso e inenarrabile calvario dei parenti trova un punto di approdo, un appiglio, forse anche una parziale mitigazione nelle convinzioni dell’accusa pubblica che addita un colpevole e lo esibisce, troppe volte, con voluttuosa prepotenza mediatica. Uno modo d’agire rispetto al quale, poi, non può certo criticarsi l’atteggiamento di chi, nella sofferenza, si muova in sintonia con quelle convinzioni e partecipi al giudizio nella assoluta certezza di avere alla sbarra il colpevole. Il pregiudizio che il pubblico ministero esprime sulla colpevolezza del proprio imputato è certamente un fattore ineliminabile del processo penale che si muove proprio per la verifica di una tale ipotesi. Quel che agita polemiche e innesca devianze e distonie è l’accompagnare la doverosa iniziativa processuale con un circuito mediatico che, per un verso, gratifica la bravura degli inquirenti giunti alla scoperta del “colpevole” e, per altro, addita alle vittime come concluso il percorso di ricerca della verità. Proprio quando quel percorso deve ancora iniziare innanzi al giudice. Nessuno lo ammetterà mai, ma certo aprire le gabbie per colui che per mesi o per anni è stato indicato pubblicamente come il certo colpevole di un reato non deve essere semplice, né scontato. Soprattutto se si corre il rischio di manifestazioni e urla di protesta dentro e fuori delle aule. La questione è complessa, ma a occhio e croce si può escludere che qualche giudice inserisca nel proprio percorso curriculare una clamorosa assoluzione. In genere fanno titolo le condanne, non le assoluzioni, per la carriera delle toghe. Il secondo punto è che, in una società pur fortemente secolarizzata, materialista e anche semi- scolarizzata, ha acquistato spazio la convinzione – invero tutta ideologica – che il processo penale, come la democrazia, sia «un gioco sempre truccato, dominato da una volontà occulta che impone di ascoltare sempre la voce di alcuni e mai degli altri» e, con essa, è cresciuta la «sensazione rabbiosa di essere condannati per principio ad essere sempre dalla parte del torto» (come scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 13 gennaio). E soprattutto quando una verità acquisita come immutabile e incontrovertibile trova l’ostacolo di una sentenza che la nega e la contraddice. Non si tratta, si badi bene, solo dei processi che vedono tante vittime innocenti, ma anche di quelli che – pompati mediaticamente – si infrangono infine sugli scranni di corti imparziali e libere. La folla di coreuti che sorregge le verità provvisorie di tanti indagini o, addirittura, di tante semplici suggestioni investigative e le alimenta irresponsabilmente additandole come i fatti oggettivi che inesplicati poteri oscuri intenderebbero negare o sovvertire non è altro che una componente di quel più vasto mondo di complottisti, terrapiattisti, ufologi e negazionisti che affollano social network e mezzi di telecomunicazione parlando di verità nascoste, occultate e negate. Quando questa «sensazione rabbiosa» di impotenza investe il processo penale e si impadronisce di vittime innocenti la tentazione di dover dare una risposta a qualunque costo bussa alla porta del giudice e ignorarla non è solo un atteggiamento morale della singola toga, ma il risultato di oggettivi accorgimenti processuali che diano al dolore nelle aule di giustizia la giusta enfasi per decidere semmai dell’entità di una pena non una condanna.

·        Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 29 settembre 2021. Nuova sonora bocciatura per la Procura di Milano e per il suo dipartimento «reati economici e transnazionali». Ieri il Tribunale di Milano ha assolto perchè il «fatto non sussiste» tutti i vertici di Saipem, ad iniziare dall'ex ad Pietro Tali, accusati di aggiotaggio. Secondo i pm i manager di Saipem avrebbero pianificato una manipolazione del mercato, al momento della quotazione in borsa della società, attraverso la diffusione di comunicati stampa ed altre informazioni non corrette. Per i pm non sarebbe stato rappresentato in maniera esatto lo stato dei conti del gruppo ed in particolare sarebbero stati nascosti al mercato le previsioni interne che vedevano un calo dell'Ebit di circa miliardo di euro. I pm avevano contestato anche il falso in bilancio in quanto Saipem non avrebbe segnalato extra costi per penali che l'azienda doveva pagare. Assolta anche la stessa società che era imputata per violazione della legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti in relazione ai reati di manipolazione del mercato e false comunicazioni sociali. La Procura aveva chiesto condanne fino a 4 anni di reclusione e sanzioni superiori ai 600mila euro. Le indagini, condotte dalla guardia di finanza di Milano, erano state coordinate dall'allora procuratore aggiunto Francesco Greco e dal pm Giordano Baggio. La Consob all'epoca aveva avviato un procedimento sanzionatorio, contestando a Saipem di aver reso noto "con ritardo" la revisione al ribasso delle stime sugli utili, trasmettendo la relazione agli inquirenti. La Procura aveva inizialmente aperto un fascicolo sulla vicenda, senza ipotesi di reato né indagati. L'inchiesta, poi, si era concentrata sui reati di aggiotaggio e insider trading e falso in bilancio. Lo scorso dicembre la Cassazione aveva assolto in via definitiva i vertici di Saipem che erano finiti, in un’altra indagine, a processo con l'accusa di aver pagato una tangente di 197 milioni di dollari, versati tra il 2007 e il 2010, a persone che gravitavano nell'entourage dell'allora ministro algerino dell'Energia Chekib Khel per l'utilizzo di alcune concessioni. «Siamo pienamente soddisfatti della sentenza che dimostra che anche gli ulteriori accertamenti della Procura sulle vicende algerine hanno portato al riconoscimento della totale insussistenza dei fatti di reato» ha commentato l'avvocato Enrico Giarda, legale di Saipem, dopo la decisione della decima sezione penale di Milano di assolvere tutti gli imputati. Nelle scorse settimane erano stati assolti, da accuse simili, nello specifico di aver pagato tangenti ai membri del governo nigeriano per l'utilizzo di un giacimento petrolifero, i vertici dell'Eni. Il dipartimento reati economici e transnazionali, quelle delle «tangenti senza confine», è stato espressamente voluto dal procuratore Francesco Greco. La creazione di questo dipartimento aveva fatto storcere il naso a tanti pm della Procura del capoluogo lombardo. Per condurre queste maxi inchieste, poi finite in un nulla di fatto, Greco avrebbe distribuito i carichi di lavoro in maniera non omogenea. Greco andrà in pensione fra poco meno di un mese e mezzo. Chi verrà dopo di lui, in pole ci sono il procuratore generale di Firenze Marcello Viola e il procuratore di Bologna Gimmy Amato, avrà il compito di raccogliere i cocci e di realizzare un piano organizzativo che metta uno stop a queste inchieste, dispendiose, che si concludono in nulla di fatto

Caso Saipem, a Milano il maxiprocesso finisce nel nulla dopo 8 anni: Ennesimo flop della Procura dopo l'inchiesta Eni.  Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 30 settembre 2021. Nuova sonora bocciatura per la Procura di Milano e per il suo dipartimento «reati economici e transnazionali». Ieri il Tribunale di Milano ha assolto perchè il «fatto non sussiste» tutti i vertici di Saipem, ad iniziare dall'ex ad Pietro Tali, accusati di aggiotaggio. Secondo i pm i manager di Saipem avrebbero pianificato una manipolazione del mercato, al momento della quotazione in borsa della società, attraverso la diffusione di comunicati stampa ed altre informazioni non corrette. Per i pm non sarebbe stato rappresentato in maniera esatta lo stato dei conti del gruppo ed in particolare sarebbero stati nascosti al mercato le previsioni interne che vedevano un calo dell'Ebit di circa miliardo di euro. I pm avevano contestato anche il falso in bilancio in quanto Saipem non avrebbe segnalato extra costi per penali che l'azienda doveva pagare.  Assolta anche la stessa società che era imputata per violazione della legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti in relazione ai reati di manipolazione del mercato e false comunicazioni sociali. La Procura aveva chiesto condanne fino a 4 anni di reclusione e sanzioni superiori ai 600mila euro. Le indagini, condotte dalla guardia di finanza di Milano, erano state coordinate dall'allora procuratore aggiunto Francesco Greco e dal pm Giordano Baggio. La Consob all'epoca aveva avviato un procedimento sanzionatorio, contestando a Saipem di aver reso noto "con ritardo" la revisione al ribasso delle stime sugli utili, trasmettendo la relazione agli inquirenti. La Procura aveva inizialmente aperto un fascicolo sulla vicenda, senza ipotesi di reato né indagati. L'inchiesta, poi, si era concentrata sui reati di aggiotaggio e insider trading e falso in bilancio. Lo scorso dicembre la Cassazione aveva assolto in via definitiva i vertici di Saipem che erano finiti, in un’altra indagine, a processo con l'accusa di aver pagato una tangente di 197 milioni di dollari, versati tra il 2007 e il 2010, a persone che gravitavano nell'entourage dell'allora ministro algerino dell'Energia Chekib Khel per l'utilizzo di alcune concessioni. «Siamo pienamente soddisfatti della sentenza che dimostra che anche gli ulteriori accertamenti della Procura sulle vicende algerine hanno portato al riconoscimento della totale insussistenza dei fatti di reato» ha commentato l'avvocato Enrico Giarda, legale di Saipem, dopo la decisione della decima sezione penale di Milano di assolvere tutti gli imputati. Nelle scorse settimane erano stati assolti, da accuse simili, nello specifico di aver pagato tangenti ai membri del governo nigeriano per l'utilizzo di un giacimento petrolifero, i vertici dell'Eni. Il dipartimento reati economici e transnazionali, quelle delle «tangenti senza confine», è stato espressamente voluto dal procuratore Francesco Greco. La creazione di questo dipartimento aveva fatto storcere il naso a tanti pm della Procura del capoluogo lombardo. Per condurre queste maxi inchieste, poi finite in un nulla di fatto, Greco avrebbe distribuito i carichi di lavoro in maniera non omogenea. Greco andrà in pensione fra poco meno di un mese e mezzo. Chi verrà dopo di lui, in pole ci sono il procuratore generale di Firenze Marcello Viola e il procuratore di Bologna Gimmy Amato, avrà il compito di raccogliere i cocci e di realizzare un piano organizzativo che metta uno stop a queste inchieste, dispendiose, che si concludono in nulla.

·        Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Giacomo Amadori Alessandro Da Rold per “La Verità” il 19 giugno 2021. Il terzo testimone nigeriano portato dal procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale al processo Opl 245 non era la persona descritta dal grande accusatore Vincenzo Armanna. Isaac Eke, infatti - il fantomatico terzo Victor che avrebbe dovuto confermare il pagamento di tangenti intorno alla licenza di esplorazione per il giacimento petrolifero in Nigeria -, non aveva alcun incarico nell'intelligence di Abuja, né rapporti con il presidente Goodluck Jonathan. Si tratta di un signore che con il Nigeriagate non c'entra nulla. È quanto emerge tra i documenti depositati la scorsa settimana nel procedimento sul falso complotto, appena chiuso dal procuratore aggiunto Laura Pedio, con la contestazione di reati che vanno dall'associazione per delinquere all'intralcio alla giustizia, dalla truffa alla calunnia, dalla frode in commercio al reimpiego di denaro di provenienza illecita, dalla corruzione tra privati al favoreggiamento. Contestazioni a carico, tra gli altri, del faccendiere Piero Amara, dello stesso Armanna, dell'ex capo dei legali di Eni Massimo Mantovani, dell'ex numero 2 della compagnia petrolifera Antonio Vella, dell'ex manager Alessandro Des Dorides. Coinvolte anche per reati societari l'Eni trading & shipping in liquidazione, la Napag e la Oando. In questo filone di indagine l'amministratore delegato Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata sono considerate «persone offese». Tra gli atti spunta così un report molto dettagliato, commissionato da Eni alla propria security nigeriana, su Isaac Chnononyerem Eke, quello che fu chiamato da Armanna dopo che De Pasquale aveva già interrogato un altro Victor Nwafor, anche questo presunta fonte della mazzetta da 1 miliardo di dollari. Va infatti ricordato che la Procura aveva già interrogato un Victor che, secondo Armanna, avrebbe dovuto confermare il passaggio delle tangenti. Ma l'uomo, durante il processo, aveva negato di «aver mai conosciuto Armanna o altri manager dell'Eni». Così era spuntato un secondo testimone che, però, era stato rigettato da tribunale. A questo punto Armanna aveva proposto di portare Eke (sostenendo avesse il soprannome di Victor) che, citato da De Pasquale, era stato ammesso in aula. Fu portato a Milano con tanto di scorta e pernottamento in un albergo del centro, dove gli furono sequestrati quattro telefoni, poi spariti dall'indagine. Il giudice Marco Tremolada protestò perché la foto del documento esibito era coperta da una pecetta e De Pasquale aveva chiesto di farlo deporre protetto da un paravento. Alla fine anche Eke smentì Armanna e Eni decise di far preparare un dossier dalla propria security per dimostrare l'inattendibilità del grande accusatore. Nel report depositato viene evidenziato come Eke non avesse alcun rapporto con i servizi segreti nigeriani al contrario di quanto sostenuto dall'ex manager Eni. Anzi, l'unica vera vicinanza del terzo falso Victor era con la società Fenog, l'azienda nigeriana che aveva riconosciuto il pagamento di 6,6 milioni di dollari ad Armanna e 1 milione ad Amara. Ma nell'avviso di chiusura delle indagini c'è un altro colpo durissimo al castello accusatorio di De Pasquale e riguarda il cosiddetto «accordo della Rinascente», di cui hanno parlato ai pm Armanna, Amara e il suo sodale Giuseppe Calafiore. I tre avrebbero inventato la storia del patto del centro commerciale sul quale La Verità aveva già scritto anticipando le conclusioni alle quali ora è giunta anche la Procura meneghina.Alla Rinascente di Roma Amara e Armanna avrebbero incontrato il manager Eni Granata per negoziare la ritrattazione delle accuse da parte dello stesso Armanna contro i vertici dell'Eni e per De Pasquale l'esistenza di quell'accordo era ulteriore prova della colpevolezza di Descalzi. Infatti l'Ad, era questa l'ipotesi accusatoria, avrebbe cercato di «comprare il testimone» Armanna proprio per impedire che costui riferisse sulla corruzione dei pubblici ufficiali nigeriani da parte dell'Eni. Oggi ricostruzione ipotesi investigativa è stata minata alle fondamenta dalle risultanze del fascicolo parallelo sul presunto complotto. L'inesistenza del patto, in realtà, doveva essere sembrato palese ai pm di questo secondo filone d'indagine già da almeno due anni, quando, nell'interrogatorio del 2 dicembre 2019, la Pedio e il collega Paolo Storari chiedono ad Amara di spiegare un improvviso affollarsi di testimonianze convergenti: «Le facciamo notare» dicono quel giorno, «che c'è una coincidenza temporale tra il momento in cui ha deciso di rendere dichiarazioni e il momento in cui Armanna ha deciso di raccontare il cosiddetto "accordo della Rinascente" nel corso del dibattimento []. La memoria che ha inviato all'Ufficio di Procura è di poco precedente alle dichiarazioni dibattimentali di Armanna. C'è stato un accordo tra di voi? O quantomeno lei ha avuto notizia da Armanna della sua decisione di rendere dichiarazioni raccontando come si sono effettivamente svolti i fatti?». Due anni dopo, concluso il processo Eni Nigeria che si reggeva anche sulle balle di Amara, arriva ora l'avviso di conclusione delle indagini firmato dalla stessa Pedio che smonta quella coincidenza. L'avviso di conclusione delle indagini presenta, però, anche dei lati oscuri. In particolare relativamente ai rapporti dell'Eni con la Napag, società calabrese di import-export di succhi di frutta riconvertita nel trading di prodotti petroliferi. Per l'Eni e per l'ex pm di Roma Stefano Fava socio di fatto della Napag sarebbe stato Amara, ma gli inquirenti milanesi non si spingono ad affermarlo, limitandosi a contestare i reati commessi attraverso la Napag anche ad Amara senza specificarne il ruolo in commedia. Ad Amara, Francesco Mazzagatti e Giuseppe Cambareri, gli ultimi due soci effettivi di Napag, viene contestata una ipotesi di «riciclaggio-reimpiego di denaro di provenienza illecita per l'importo di quasi 26 milioni di euro» per avere costoro ricevuto il denaro dall'Eni quale profitto dei reati di intralcio alla giustizia e corruzione tra privati per poi utilizzarlo per l'acquisto di un impianto petrolchimico in Iran. Va detto che quei 26 milioni di euro erano già stati contestati ad Amara dall'ex pm Fava che nella sua richiesta cautelare dell'8 febbraio 2019, mai inoltrata dall'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dai suoi aggiunti al Gip, in cui aveva scritto con quasi tre anni di anticipo che l'avvocato siracusano aveva commesso il reato di autoriciclaggio investendo denari nel petrolchimico iraniano, ma non direttamente, bensì attraverso l'acquisto del capitale sociale di una società di Singapore. Una specificazione che nell'avviso di chiusura delle indagini di Milano non compare. Anzi gli inquirenti restano vaghi e parlano addirittura di un «greggio di incerta origine» a proposito del carico acquistato dalla Napag e che sostò oltre un mese davanti alle coste italiane a bordo della petroliera White moon in attesa di un sequestro che non è mai stato effettuato, nonostante le denunce dell'Eni. Sarà per questa indeterminatezza che la Procura meneghina non ha chiesto l'arresto di Amara né, soprattutto, il sequestro dei 26 milioni di euro, al contrario di quanto fatto, senza fortuna, da Fava. Ma i codici insegnano che il sequestro del corpo del reato è obbligatorio, a maggior ragione nel caso di riciclaggio-reimpiego, delitto contestato, come detto, ad Amara, Mazzagatti e Cambareri: di fronte a questa fattispecie di reato la legge lo impone anche nella forma «per equivalente», cioè attraverso il recupero di beni dello stesso valore. Il codice prescrive anche che per certi reati, come il riciclaggio-reimpiego, in presenza di un'«incongruenza» tra redditi dichiarati e patrimonio posseduto, il giudice debba procedere alla cosiddetta «confisca allargata», non solo cioè del provento del reato, ma di tutto i beni dell'indagato.Invece Amara, durante le feste, per quanto sia costretto in cella, si potrà consolare contando, per addormentarsi, anziché le pecorelle, i milioni di euro che non gli sono mai stati sequestrati.

Il video segreto. Report Rai PUNTATA DEL 13/12/2021 di Luca Chianca. Collaborazione di Alessia Marzi  

Report torna a raccontare le vicende legate al giacimento petrolifero nigeriano OPL 245.

L'OPL 245 è uno dei più ricchi blocchi petroliferi della Nigeria. Della storia Report si è occupata più volte, da quando i magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro della procura di Milano avevano aperto un fascicolo per corruzione internazionale nel 2014. L'ipotesi era che l'Eni avesse pagato oltre 1 miliardo di dollari di tangenti per comprare i diritti di esplorazione del blocco petrolifero OPL 245. A marzo 2021 però il tribunale di Milano dà torto ai magistrati e ragione all'Eni assolvendo tutti gli imputati. La procura di Brescia apre un fascicolo contro i due magistrati per aver nascosto all'Eni un video che la sentenza di assoluzione definisce dirompente perché sarebbe stato utile per la difesa. Ma l'Eni e gli avvocati dei dirigenti dell'Eni erano o no a conoscenza di questo video? 

Precisiamo che il Dott. Andrea Peruzy e il Dott. Paolo Quinto, presenti nel video con Piero Amara e Vincenzo Armanna sono del tutto estranei alle vicende giudiziarie citate Da Report, nonché a qualsivoglia altra indagine ad esse connesse.

IL VIDEO SEGRETO Di Luca Chianca Collaborazione Alessia Marzi Grafica Sebastiano Onano

MARCO TREMOLADA – PRESIDENTE COLLEGIO SENTENZA OPL245 Nel nome del popolo italiano il tribunale assolve: Scaroni Paolo, Descalzi Claudio, Casula Roberto, Armanna Vincenzo, Pagano Ciro Antonio, Bisignani Luigi, Falcioni Gianfranco, Etete Dan, Eni Spa, Royal Dutch Shell perché il fatto non sussiste.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tutti assolti, i vertici di Eni e Shell. Per i giudici non è stata pagata alcuna tangente per acquisire l'Opl245, uno dei più ricchi blocchi petroliferi della Nigeria. E i magistrati De Pasquale e Spadaro che avevano condotto l’inchiesta, rischiano di finire sul banco degli imputati perché secondo i giudici non hanno depositato questo video che sarebbe stato molto utile per la difesa.

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI La valanga di merda che io faccio arrivate in questo momento…(ride)...

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A parlare, è quello che sarebbe diventato il grande accusatore: è l’ex dirigente Eni, Vincenzo Armanna. Secondo i giudici, anticipando la volontà di andarli a denunciare in procura durante quest'incontro avrebbe cercato di ricattare i vertici dell'Eni. Con lui c'è Piero Amara, all'epoca avvocato dell'Eni, oggi noto alle cronache per aver parlato dell’esistenza della loggia segreta Ungheria.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Armanna io lo incontro con Paolo Quinto e Andrea Peruzy, in realtà sono loro che creano questo appuntamento

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mai indagati. Paolo Quinto, all'epoca assistente della senatrice Pd Anna Finocchiaro e Andrea Peruzy, l'allora segretario della fondazione ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Al centro dell'incontro la vendita di un asset petrolifero da parte di Eni, con l'obiettivo di farlo comprare a un noto imprenditore nigeriano Kola Karim, in codice Kappa Kappa.

STUDIO SIGFRIDO Allora questo è un filmato inedito, buonasera, che Report vi propone in esclusiva. E riguarda la registrazione avvenuta nello studio di Ezio Bigotti, che è un imprenditore che si occupa di facility management per gli appalti della Consip. Avviene questa registrazione in una stanza che doveva essere a prova di intercettazione e riguarderebbe la avviata trattativa per la cessione di un asset petrolifero dell’Eni a un imprenditore nigeriano molto ricco. L’anomalia qual è? Che a quel tavolo non sono seduti alti dirigenti dell’Eni. C’è l’assistente allora della senatrice Finocchiaro, Paolo Quinto, e Andrea Peruzy, all’epoca segretario della Fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. Poi c’è anche Piero Amara, un avvocato che ha lavorato a lungo per Eni e lui che sta lì, sembrerebbe parlare per conto di Eni, Eni smentisce, dice “Non ha alcun titolo”, ed è Amara che dice “Io ho registrato Armanna”, ex dirigente Eni anche lui presente all’incontro per screditarlo in previsione della sua testimonianza contro Descalzi e Scaroni, che sarebbe avvenuta da lì a poco tempo, nel momento in cui li avrebbe accusati di essere i percettori di una parte di una tangente per la cessione del giacimento petrolifero in Nigeria, procedimento che è finito in primo grado con l’assoluzione dei protagonisti. Eni dice: “Se ha registrato Amara non l’ha fatto certo per nostro conto”. Ora però questo video è finito al centro di un intrigo giudiziario. Ora De Pasquale e Spadaro, che avevano aperto il fascicolo con l’accusa di corruzione internazionale nei confronti di Scaroni e Descalzi, al momento di depositare gli atti non depositano il video, secondo loro perché sarebbe stato ininfluente nello svolgimento delle indagini. Non la pensano ugualmente invece il giudice di primo grado e l’Eni, secondo i quali poter prendere visione integrale di quel video avrebbe facilitato il diritto alla difesa. Ora proprio per non aver depositato quest’atto, anche per non aver depositato quest’atto, De Pasquale e Spadaro sono finiti indagati dalla procura di Brescia che è competente su quella di Milano. Ma è vero che i legali dell’Eni non avessero proprio contezza di questo video? Il nostro Luca Chianca.

ANDREA PERUZY Lui vede l’uomo di Kappa Kappa su tue istruzioni, lo vede per chiudere il contratto...

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI Per chiudere il contratto

ANDREA PERUZY Poi vede Kappa Kappa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il mediatore dell’imprenditore nigeriano Kappa Kappa di cui parla l’allora segretario della fondazione di D'Alema Andrea Peruzy, è Luca Fracassi. Riusciamo ad incontrarlo qualche settimana fa in piazza del Duomo a Milano.

LUCA FRACASSI Io cercavo di agevolare l'incontro tra le due parti fine dopo logicamente se l'incontro Kola Karim aveva successo e di quel asset lì fa profitto io lavoro su performance e avrei tratto magari la mia fee, te lo scrivo qua e te lo confermo.

LUCA CHIANCA Come gli altri?

LUCA FRACASSI Gli altri in quella fase lì erano dell'Eni. Per me Armanna, per me lui era Eni 100%. Ho dato per scontato che se uno mi dice parliamone ci sono i presupposti per parlarne.

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI Meno persone possibili devono sapere le cose, la sicurezza di tutti noi è che non sappiamo un cazzo.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Ok PAOLO QUINTO Profili sempre bassissimi come...

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI E solo con le persone di fiducia su...

PAOLO QUINTO Noi, noi punto...

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Prima dell'arrivo di Armanna, l’ex segretario della fondazione di D’Alema, l’ex assistente della Finocchiaro e l’ex avvocato Eni Amara, cercano di attivare un'apparecchiatura per garantire una maggiore sicurezza all'interno della stanza, lontano da orecchie indiscrete.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Oh ragazzi tiriamo fuori i cellulari e basta ANDREA PERUZY Poi non vorrei romperglielo questo.

PAOLO QUINTO Per il resto Ezio qui fa controlli costanti che non ci siano... microspie...

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Al suo arrivo, anche Armanna nasconde il cellulare sotto il divano per paura di essere intercettato, un gesto inutile perché non sa che qualcuno sta registrando già tutto l'incontro, cosa che Armanna capirà solo alla fine.

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI Cazzo c'è la telecamera, cazzo c’è la telecamera là.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Come la telecamera là?...

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI Sì, sì scommettiamo?

ANDREA PERUZY Quello è un allarme.

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI No, quella e una telecamera... vedi quel buchino?

ANDREA PERUZY Eh VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI Quella è una telecamera!

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Emergerà solo dopo, che a registrarlo era Piero Amara, l’ex avvocato Eni. E il motivo, secondo Amara, era quello di cercare di screditare Armanna, screditare cioè colui che sarebbe diventato il grande accusatore di Scaroni e Descalzi nel procedimento che si era aperto per la presunta tangente del blocco petrolifero in Nigeria.

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Lo abbiamo registrato durante tutte le conversazioni perché ritenevamo di avere delle informazioni che potevano essere utili per la vicenda Opl 245.

LUCA CHIANCA Contro di lui?

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Contro Armanna certo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Solo due giorni dopo quest'incontro, l'ex dirigente Eni Armanna andrà in procura a fare dichiarazioni sull'acquisto del blocco Opl245 da parte di Eni per cui verranno indagati Descalzi e Scaroni, ma in quell’incontro Armanna si lascia ad una anticipazione.

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI Però con la valanga di merda che sta arrivando

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'avvocato Amara cerca di capire cosa accadrà

PIERO AMARA – EX AVVOCATO ENI Ma che sta arrivando scusa?

VINCENZO ARMANNA – EX MANAGER ENI Non escluderei che arrivi un avviso di garanzia, mi adopero perchè gli arrivi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Le versioni di Amara e Armanna, sul perché sia avvenuta la registrazione di questo video, sono ancora tutte da dimostrare. I magistrati De Pasquale e Spadaro quando avevano aperto il fascicolo sulla presunta corruzione internazionale e indagato Scaroni e Descalzi, non l’avevano depositato. Paola Severino, avvocato di Claudio Descalzi, accusa i pm di non averli messi in condizione di difendersi.

DA RADIO RADICALE - 23/07/2019 UDIENZA PROCESSO OPL245 PAOLA SEVERINO – AVVOCATO CLAUDIO DESCALZI AMMINISTRATORE DELEGATO ENI Questo è un elemento importante signor presidente. Io poi non so poi tutto il resto non avendo avuto né la video registrazione e né la trascrizione della videoregistrazione, però vedo che questo vulnus si è verificato oggi, e che dunque attendere la fine del processo per riparare a questo vulnus non sia giusto

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma sempre il 23 luglio 2019 c’è un altro avvocato di un alto dirigente Eni che prende la parola durante il processo.

DA RADIO RADICALE - 23/7/2019 UDIENZA PROCESSO OPL245 GIUSEPPE FORNARI – AVVOCATO ROBERTO CASULA DIRIGENTE ENI Io, Presidente, sono in possesso di un documento, è una relazione di Polizia Giudiziaria, è un documento di cui sono entrato in possesso nell’ambito di un procedimento penale in cui assisto un coimputato di Bigotti(...). La Procura ha ritenuto, il Dottor De Pasquale, il Dottor Spadaro, hanno ritenuto di non depositarlo nel loro fascicolo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Scopriamo così che l'avvocato Fornari, che rappresenta un funzionario Eni, è in possesso della trascrizione integrale del video a partire già dal marzo 2018. Tuttavia neppure lui deposita la trascrizione quando a nome di tutti i colleghi che difendono l'Eni e i suoi dirigenti, inizia il processo.

ANTONIO TRICARICO – RECOMMON Esatto nel settembre del 2018 le difese Eni coordinate dall'avvocato Fornari presentano sostanzialmente una mole ingente di prove ma non la trascrizione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Passano solo due giorni e il 20 settembre 2018 l'Eni consegna in un altro procedimento aperto presso la Procura di Milano un audit interno fatto da Kpmg in cui si parla e si analizza l'incontro avvenuto il 28 luglio 2014. Allora perché pur conoscendone il contenuto si decide di non depositare nulla nel processo Opl 245?

ANTONIO TRICARICO – RE - COMMON Nel video ci sono riferimenti a questioni che pongono un problema di reputazione per il funzionamento dell'azienda, in primis Andrea Peruzy definisce Amara come sensore dentro l’azienda.

ANDREA PERUZY Questo è importante perché tu sei il sensore dentro l'azienda, quindi fondamentale per capire...

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Amara infatti all’epoca risulta secondo l'audit di Kpmg, uno degli avvocati più pagati dall'azienda. In Sicilia segue i guai giudiziari dell’Eni per la Raffineria di Gela, nel video dice di avere il mandato per risolvere il problema, e la soluzione sarebbe quella di vendere ai sauditi per arrivare all’impunità nei processi ambientali

VINCENZO ARMANNA Cioè io sono pronta a metterti sul tavolo un Gruppo Industriale che si prenda il 50 per cento delle raffinerie dell’Eni

PIERO AMARA Io c'ho il mandato

PAOLO QUINTO Il mandato ce l’ha lui eh

PIERO AMARA Se tu hai qualcuno che sì prende Gela

VINCENZO ARMANNA Ce l‘ho, i Sauditi

PIERO AMARA Però, cioè mi carichi le passività ambientali

VINCENZO ARMANNA Sì va beh, arresta un saudita

ANTONIO TRICARICO – RE – COMMON Lo stesso Armanna sottolinea come ovviamente la presenza dei sauditi poi renderebbe molto più difficile fare andare avanti questi procedimenti e lo dice ad Amara, il quale Amara era coinvolto nella difesa nei vari procedimenti in corso a Gela, quindi anche questo, a prescindere se illecito o no, pone un rischio di reputazione per l'azienda.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma c’è di più, ben 3 mesi prima dell’udienza del 23 luglio 2019, dove i legali Eni e dei suoi dirigenti dichiarano di non conoscere quasi nulla dei contenuti del video, c’era stato uno scambio di mail tra l’Eni e Report. Nell’aprile 2019, Report viene a conoscenza dell’esistenza della registrazione di Armanna, e chiede conto a ENI che risponde: “il contenuto di tale incontro (che si ricava dalla lettura della trascrizione o visione della videoregistrazione) è di natura completamente diversa da quella che Amara cerca ora di accreditare”. Dopo aver letto sul nostro sito la risposta dell’Eni l'avvocato di Armanna, Michele D'Agostino decide di depositarla nel processo come prova per dimostrare che gli avvocati dell'Eni sapessero dell'esistenza del video.

MICHELE D'AGOSTINO – AVVOCATO VINCENZO ARMANNA La deposito perché lo scrivono loro che ne sono a conoscenza quantomeno da aprile del 2019

LUCA CHIANCA Secondo lei era pacifica questa cosa

MICHELE D'AGOSTINO – AVVOCATO VINCENZO ARMANNA Ma si, anche perché torno a ripete nessuno si è opposto a questo deposito o sono state fatte delle questioni, delle eccezioni, mi sembrava scontato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’avvocato Paola Severino, legale di Descalzi, ci tiene a dirlo, non dell’Eni, sollecitata da noi sottolinea anche il fatto di non aver avuto né il video né la trascrizione integrale prima dell’udienza del 23 luglio del 2019. Scrive anche di aver insistito, nella loro udienza, per il loro deposito al fine di poterne pienamente valutare la rilevanza probatoria. Ovviamente le crediamo. Tuttavia è un fatto che altri legali che stavano tutelando altri dirigenti dell’Eni avessero contezza dei contenuti di quel video. Lo dice lo stesso avvocato Giuseppe Fornari, che tutela un altro dirigente dell’Eni. Dice: io ho la trascrizione dal marzo del 2018. Non spiega perché invece non l’ha depositata quando inizia il processo, cioè a settembre del 2018, se quel documento è così importante per la difesa dell’Eni. E anche l’ufficio legale dell’Eni poi, il 20 settembre, sempre del 2018, consegnerà alla procura di Milano, in un altro procedimento, un audit di Kpmg, che aveva analizzato nei dettagli quell’incontro che era stato registrato nel video. Poi un ruolo lo abbiamo avuto anche noi di Report perché tre mesi prima dell’udienza, quella del luglio del 2019, cioè ad aprile, il nostro Luca Chianca viene in possesso della trascrizione di quel video e legittimamente chiede conto a Eni. Che risponde così: il contenuto di tale incontro (che si ricava dalla lettura della trascrizione o visione della videoregistrazione) è di natura completamente diversa da quella che Amara cerca ora di accreditare. Ecco è un giudizio talmente perentorio che legittima il pensiero che Eni avesse visto quel video o comunque che avesse letto la trascrizione completa. E invece no, dice che abbiamo capito male, interpretato male, anzi accusa il nostro Luca Chianca di aver inquinato le prove. Perché avrebbe chiesto poi le conferme ad Amara e Armanna, mostrando il documento, avrebbe consentito loro di coordinarsi nella versione da dare ai magistrati. Insomma, Luca complice dei due: niente di più falso. Luca ha semplicemente svolto magnificamente il suo lavoro di cronista, verificando le informazioni direttamente alle fonti, lo ha fatto anche con Eni. Funziona così nei paesi democratici. Per rimettere le cose apposto l’avvocato Amara, che ha patteggiato un’accusa di corruzione e di calunnia, e Armanna che è indagato per calunnia, oggi sono finiti anche sotto indagine per aver ordito un complotto, un falso complotto contro Descalzi, calunniandolo pur sapendolo era innocente. E lo avrebbero ordito insieme ad altri dirigenti apicali dell’Eni: Vella e anche l’ex responsabile dell’ufficio legale Mantovani. Comunque ecco, per rimettere le cose al loro posto, Amara e Armanna hanno lavorato per anni per Eni, non certo per Report.

Alfredo Faieta per editorialedomani.it il 10 dicembre 2021. La procura di Milano ha ufficialmente chiuso le indagini sul cosiddetto «complotto» organizzato per depistare le indagini dei pm milanesi legate alle presunte tangenti che Eni (e Shell) avrebbero pagato Nigeria e in Algeria. Sono 12 le persone fisiche ufficialmente indagate cui si aggiungono 5 persone giuridiche ai sensi della legge 231 del 2001. Tra queste anche la Eni Trading & Shipping, controllata della multinazionale petrolifera statale. I reati ipotizzati a vario titolo sono l'associazione per delinquere, l'induzione a rendere false dichiarazioni, la truffa, la frode in commercio, la ricettazione e altri. Nell'elenco degli indagati figurano volti ormai noti negli ultimi, travagliati, anni della società del Cane a sei zampe, a partire dall'ex dirigente Vincenzo Armanna per passare all'ex avvocato esterno Piero Amara – un uomo al centro di molte trame misteriose tra le quali la presunta Loggia Ungheria – e poi l'ex capo del legale Massimo Mantovani o l'ex numero due della società Antonio Vella quando era amministratore delegato Paolo Scaroni. Mancano due nomi importanti di questa vicenda, ovvero l'attuale a.d. Claudio Descalzi e il suo vice Claudio Granata, che erano stati indagati ma non sono presenti in questo atto di chiusura indagini. 

 Monica Serra per “la Stampa” l'11 dicembre 2021. Dopo oltre quattro anni di inchiesta e il durissimo scontro che si è consumato in procura, anche i magistrati milanesi lo hanno confermato: l'ex legale esterno di Eni Piero Amara è un «calunniatore». Mentendo avrebbe condizionato indagini e processi non per conto, ma ai danni dell'amministratore delegato del Cane a sei zampe Claudio Descalzi. Tant' è che la posizione di Descalzi, che inizialmente figurava tra gli indagati, è stata stralciata dai pm e sembrerebbe destinata all'archiviazione. È tutto messo nero su bianco nell'avviso di conclusione delle indagini sul cosiddetto falso complotto Eni. Un'inchiesta lunga e intricata nel corso della quale Amara ha parlato della presunta «Loggia Ungheria», dando il via ai contrasti sfociati nelle indagini su quattro magistrati milanesi a Brescia (mentre per il procuratore in pensione Francesco Greco è stata chiesta l'archiviazione). Tra loro il pm Paolo Storari, inizialmente titolare delle indagini sul complotto con l'aggiunta Laura Pedio e convinto, già un anno e mezzo fa, della necessità di arrestare Amara e l'ex dirigente Eni Vincenzo Armanna per calunnia. La sua linea, che all'epoca non persuase i vertici della procura, è stata di fatto adottata dai nuovi titolari dell'inchiesta: i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, che ieri hanno firmato il provvedimento con Pedio. Sono diciassette in tutto gli indagati. Tra loro figurano, oltre ad Amara e Armanna, l'ex presidente di Eni Trading e Shipping (Ets) ed ex capo dell'ufficio legale, Massimo Mantovani e il dirigente del Cane sei zampe, Antonio Vella. Sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla calunnia, diffamazione, intralcio alla giustizia, induzione a non rendere dichiarazioni o a mentire all'autorità giudiziaria, false dichiarazioni al pm, favoreggiamento e corruzione tra privati. Il loro obiettivo, secondo le indagini condotte dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, era quello di «inquinare lo svolgimento dei procedimenti in corso contro Eni a Milano»; screditare attraverso «esposti anonimi» anche davanti alle procure di Trani e Siracusa, i consiglieri indipendenti Luigi Zingales e Karina Litvack facendoli estromettere dal cda della società e dando il via alle indagini sul finto complotto; «strumentalizzare» gli organi di stampa. Vella e Mantovani, per l'accusa, «finanziavano» Amara e Armanna tramite le società del gruppo Napag (indagate e in cui Amara aveva forti interessi) e tramite la Fenog Nigeria Ltd. Nelle tasche del primo sarebbero finiti almeno due milioni di euro, più di sei milioni e mezzo al secondo. I due, in cambio, avrebbero detto il falso raccontando «che Granata, su incarico di Descalzi, avrebbe promesso ad Armanna la riassunzione in Eni e 1,5 milioni di euro all'anno affinché» l'ex manager «attenuasse le dichiarazioni accusatorie rese nei confronti dell'ad Descalzi». Dall'atto spunta anche un'altra presunta calunnia di Armanna nei confronti di Descalzi e altri basata su una denuncia che l'ex manager depositò a Roma nel 2020, inventando interventi «sulla mia persona» e presunte false minacce per «farmi desistere dal deporre».

Eni, falso complotto: Descalzi scagionato. Fu Amara a cercare di incastrarlo. Affari Italiani, Sabato, 11 dicembre 2021. Si sgretola il presunto complotto. "Amara riferì falsità pur sapendo dell'innocenza di Descalzi". La Procura di Milano ha chiuso le indagini sul presunto complotto finalizzato a "inquinare procedimenti in corso davanti all'autorità giudiziaria milanese nei confronti di Eni e di suoi dirigenti ed apicali", in particolare quello sulle presunte tangenti pagate per la licenza del giacimento Opl-245 in Nigeria. L'atto che chiude l'inchiesta è stato notificato a 17 persone fisiche e giuridiche. Tra queste non c'è l'ad di Eni Claudio Descalzi, che era indagato, la cui posizione dunque verrà stralciata in vista dell'archiviazione.  Come scrive Repubblica, si sarebbe trattato dunque di "un piano ordito dall’avvocato Piero Amara e dall’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, il grande accusatore del “Cane a sei zampe” nel processo Eni-Nigeria (conclusosi con le assoluzioni di tutti gli imputati), contro l’ad di Eni Claudio Descalzi e il manager Claudio Granata, per sostenere che i vertici di Eni avrebbero promesso allo stesso Armanna varie utilità per ritrattare le sue accuse".  L'ad di Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata, anche lui verso l'archiviazione perché non figura nell'avviso di chiusura, sarebbero stati vittime di calunnia da parte dell'avvocato Pietro Amara e dell'ex manager del gruppo, Vincenzo Armanna. I due avrebbero riferito falsità sul loro conto "pur sapendoli innocenti" nell'ambito di alcuni interrogatori tra il luglio e il dicembre del 2019. Nell'atto che precede, di solito, la richiesta di processo, sono presenti tra le persone fisiche, oltre ad Amara e Armanna, anche Massimo Mantovani nelle vesti di presidente del cda di Eni Trading & Shipping spa, controllata di Eni, e questa stessa società' che è indagata per la violazione della legge 231 del 2001 sulla responsabilità' per i reati commessi dai propri dipendenti. Indagini chiuse anche per Michele Bianco e Vincenzo La Rocca, dirigenti dell'ufficio legale dell'Eni che avrebbero "contribuito a inquinare lo svolgimento dei processi Eni" e a "screditare i consiglieri indipendenti di Eni Luigi Zingales e Karina Litvak". 

Eni, l’inchiesta sui processi depistatiI pm: «L’ad Descalzi fu calunniato». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. Dall’estate 2014 al dicembre 2019 un depistaggio giudiziario ha inquinato i processi milanesi a Eni per corruzione internazionale, poi conclusisi con assoluzioni, ma a commissionarlo all’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna e all’ex avvocato esterno dei processi ambientali Eni Piero Amara non è stata — tira ora le somme la Procura di Milano dopo 4 anni di travagliate indagini — l’indagata società Eni spa, e tantomeno è stato il suo pure indagato amministratore delegato Claudio Descalzi, il quale anzi è stato calunniato da Armanna e Amara al pari del capo del personale Eni Claudio Granata. Invece questo complotto è stato ordito per i pm da Amara e Armanna nell’interesse di una associazione a delinquere dentro il colosso energetico: quella formata dal tandem con l’indagato ex capo affari legali Eni 2005-2016 Massimo Mantovani (poi a.d. Gas&Power fino a essere licenziato nel 2018 da Eni), e dall’ex n.2 Eni Antonio Vella, dal 2014 a capo degli idrocarburi fin quando nel 2020 (dopo milionaria buonuscita) è passato consulente dei russi di Lukoil.

A far cambiare idea al procuratore aggiunto Laura Pedio — di recente affiancata dai pm Stefano Civardi e Monia Di Marco da quando è indagata dai pm di Brescia proprio nell’ipotesi che non abbia tempestivamente incriminato Armanna per calunnia di Descalzi in forza degli elementi segnalati a cavallo del 2020/2021 dal collega pm Paolo Storari a lei, al procuratore Francesco Greco e all’altro vice Fabio De Pasquale — è stato decisivo l’esito due mesi fa della consulenza informatica del perito dei pm, Maurizio Bedarida, sulla falsificazione di tre chat nel cellulare di Armanna: quelle che Armanna asseriva d’aver intrattenuto nel 2015 con Descalzi e Granata, a riprova che fossero stati loro a indurlo a ridimensionare le proprie accuse di tangenti in Nigeria, in cambio della promessa di rientro in Eni o di «ritorni» economici triangolati da due società (la Napag dell’imprenditore Francesco Mazzagatti e la nigeriana Fenog) vicine ad Amara-Armanna e beneficiarie di commesse della londinese Eni Trading&Shipping, presieduta da Mantovani e poi liquidata da Eni durante l’inchiesta. Una girandola di ritrattazioni che nel processo Eni-Nigeria non aveva impedito al pm De Pasquale di ancora molto valorizzare il peso di Amara coimputato-accusatore di Descalzi: sino a proporre al Tribunale l’equazione per la quale «il tentativo di inquinare il processo ad opera di Descalzi» fosse «indice di reità» del n.1 Eni, perciò candidato dalla requisitoria a 8 anni di condanna per tangenti, e intanto indagato appunto per intralcio alla giustizia.

La Procura arriva quindi a ricalcare ora la medesima lettura per la quale il pm Storari un anno fa proponeva l’arresto di Amara e Armanna ai colleghi, i quali invece all’epoca valutavano non risolutivi o inutilizzabili quelle stesse prove dalle quali Storari traeva già in via logica la calunniosità del tandem e del sodale Giuseppe Calafiore, a cominciare dalle false chat.

Ora i pm, oltre ad avviarsi a chiedere al gip di archiviare Eni-Descalzi-Granata e di processare invece per calunnia Amara-Armanna, contestano ai due ex big della multinazionale Vella e Mantovani, nonché a due legali interni Eni (Michele Bianco e Vincenzo Larocca), di essersi associati con Armanna e Amara («finanziati con 6,6 e 1,9 milioni») per inquinare i processi milanesi cercando di suscitarne «cloni» controllabili nelle Procure di Trani e Siracusa con romanzesche denunce di un «complotto anti-Descalzi»: false denunce indirizzate ai compiacenti pm poi arrestati Carlo Maria Capristo a Trani e Giancarlo Longo a Siracusa, e accreditate «strumentalizzando alcuni organi di stampa» (specie un quotidiano e una trasmissione tv) «al fine di dare risalto mediatico alle false accuse». Sempre questa sorta di macchina del fango intra-aziendale avrebbe operato per diffamare e estromettere i consiglieri indipendenti Eni Luigi Zingales e Karina Litvack, o far accusare da anonimi l’ex dirigente Pietro Varone di aver reso false dichiarazioni nel processo Eni-Algeria su Vella e l’ex a.d. Paolo Scaroni.

LA PROCURA DI MILANO CHIUDE LE INDAGINI SUL FALSO COMPLOTTO ENI-NIGERIA ARCHITETTATO DA AMARA ED ARMANNA. Il Corriere del Giorno l'11 Dicembre 2021. L’ inchiesta era iniziata nel 2017 con un fascicolo finito al centro dello scontro tra pm milanesi, che ha dato origine a un filone a Brescia. Non compaiono tra gli indagati Claudio Descalzi e Claudio Granata, rispettivamente ad e capo del personale Eni. Sono 12 le persone fisiche ufficialmente indagate insieme a 5 persone giuridiche (cioè società) in applicazione della legge 231 del 2001. Tra le società compare la Eni Trading & Shipping, una controllata della multinazionale petrolifera statale, e quelle del gruppo Napag . La Procura di Milano ha quindi chiuso ufficialmente le indagini sul cosiddetto «complotto» organizzato per cercare di depistare le indagini dei magistrati milanesi collegate alle presunte tangenti che l’Eni e la Shell avrebbero versato in Algeria e Nigeria. I reati ipotizzati a vario titolo sono l’associazione per delinquere, l’induzione a rendere false dichiarazioni, la truffa, la frode in commercio, la ricettazione e altri. 

Nell’elenco degli indagati compaiono nomi ormai noti negli ultimi anni della società petrolifera statale, a partire dall’ex dirigente Vincenzo Armanna per arrivare all’ex avvocato esterno Piero Amara faccendiere al centro di molte trame che sanno più di fantasie che di mistero misteriose tra le quali la fantomatica Loggia Ungheria, coinvolgendo capo ufficio legale del gruppo (poi licenziato) Massimo Mantovani ed Antonio Vella ex numero due della società quando Paolo Scaroni era l’ amministratore delegato, l’avvocato Michele Bianco e Vincenzo Larocca, “quali dirigenti dell’Ufficio legale dell’Eni”, e poi ancora, tra gli altri Giuseppe Calafiore, socio-collaboratore di Amara.

Come risulta dall’imputazione di associazione per delinquere, Amara, Armanna, Mantovani, Larocca, Bianco e Vella, si sarebbero associati per “commettere più delitti di calunnia, diffamazione, intralcio alla giustizia” e anche di “corruzione tra privati”. Tutto ciò per “inquinare lo svolgimento – scrivono i pm – dei procedimenti in corso avanti all’Autorità giudiziaria milanese nei confronti di Eni spa e di suoi dirigenti ed apicali per fatti di corruzione internazionale relativi ad attività economiche in Algeria e Nigeria”. Nello specifico, avrebbero anche puntato a screditare con le loro ‘manovre’ gli allora “consiglieri indipendenti di Eni Zingales Luigi e Litvack Karina”. E tutto ciò anche attraverso le ormai note denunce anonime su un complotto inesistente contro l’ad Claudio Descalzi presentate alle procure di Trani e Siracusa. 

Nel 2019 Amara, Armanna e Calafiore avrebbero detto il falso raccontando “che Granata, su incarico di Descalzi, avrebbe promesso ad Armanna la riassunzione in Eni” e somme per 1,5 milioni all’anno “attraverso la società nigeriana Fenog, affinché l’ex manager “attenuasse le dichiarazioni accusatorie rese nei confronti dell’ad”. Dall’atto spunta un’altra presunta calunnia di Armanna nei confronti di Descalzi e altri basata su una denuncia che l’ex manager depositò a Roma nel 2020, dove parlava di interventi “sulla mia persona” e presunte false minacce per “farmi desistere dal deporre”.

Nell’elenco dell’ avviso di chiusura dell’inchiesta, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, firmato dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dai pm Stefano Civardi e Monia Di Marco che sono entrati nell’indagine solo pochi mesi fa, non compaiono due nomi illustri di questa inchiesta, cioè l’attuale amministratore delegato dell’ ENI Claudio Descalzi ed il capo del personale Claudio Granata, che inizialmente erano stati indagati ma in questo avviso di chiusura delle indagini non sono presenti. Descalzi e Granata, le cui posizioni sono state stralciate in vista di una richiesta di archiviazione, sono “persone offese” in un’imputazione di calunnia contestata all’avvocato Piero Amara e all’ex manager del gruppo Vincenzo Armanna, grande accusatore dei vertici dell’ ENI nel processo sul caso nigeriano conclusosi con 15 assoluzioni, come emerge dall’avviso di chiusura dell’inchiesta sul "falso complotto". 

Imputazione che segue la linea che aveva intrapreso il pm Paolo Storari, ex titolare del fascicolo che voleva arrestare Amara e Armanna e che abbandonò il fascicolo l’indagine a seguito dello scontro avuto con i vertici della Procura milanese, che ha originato le indagini della Procura di Brescia, competente sugli uffici giudiziari milanesi. L’aggiunto Laura Pedio è indagata a Brescia anche per le modalità con cui avrebbe gestito le loro posizioni. Storari, ha messo a verbale a Brescia che quei due non potevano essere toccati perché “erano utili” per il processo sul caso Nigeria. 

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 10 novembre 2021. Questo invito è personale, come la responsabilità penale. La Signoria Vostra, procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, è invitata alla mostra «Giorgio Strehler alla Scala» (dal 5 novembre 2021 al 5 gennaio 2022) presso l'omonimo museo nell'omonima Piazza, laddove l'omonimo procuratore potrà rammentare quando inquisì l'omonimo regista per truffa alla comunità europea, e chiese il massimo della pena. Era l'autunno del 1992 e fu uno scandalo internazionale: Strehler annunciò che si sarebbe «dimesso da italiano» prima di trasferirsi a Lugano, e disse che sarebbe rientrato solo da innocente. La Signoria Vostra, nella requisitoria, adottò toni durissimi e per filmare la sentenza mandarono le telecamere sin da Vienna, ove Giorgio Strehler aveva appena messo in scena Pirandello. Il Maestro del teatro italiano, in data 10 marzo 1995, fu assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste» e dunque rientrò in Italia: ma morì meno di due anni dopo durante le prove del «Così fan tutte», sua prima regia al rinnovato Piccolo Teatro ch' egli non avrebbe mai inaugurato. La Signoria Vostra, già allora, non partecipò ai funerali ai quali accorsero in migliaia tra cittadini e autorità: Ella presenzi almeno alla citata mostra, se non è troppo impegnato a farsi inquisire e a fronteggiare la nemesi storica. Da martedì a domenica, dalle 10 alle 18, interi 9 euro. I magistrati pagano. Per una volta.  

Luca Fazzo per “il Giornale” il 10 novembre 2021. Alcune informazioni contenute nel telefono, non inerenti al procedimento in corso, qualora divulgate a terzi potrebbero essere fonte di gravi danni alla mia professione e all'azienda per cui lavoro che in molti paesi è concorrente dell'Eni»: firmato Vincenzo Armanna. Sono le 10,41 del 29 settembre scorso quando al giudice milanese Anna Magelli arriva la lunga mail dell'avvocato siciliano divenuto, insieme al collega Piero Amara, uno dei principali testimoni d'accusa del processo Eni-Nigeria: un testimone, si è scoperto nel frattempo, specializzato in falsi e calunnie, definito dalla Procura generale un «avvelenatore di pozzi». Il telefono di Armanna, sequestratogli dal pm Paolo Storari, è stato finalmente aperto dalla Guardia di finanza. Dentro c'era la falsa chat con l'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, costruita da Armanna per cercare di incastrare i vertici dell'azienda di Stato. Ma c'era anche molto altro, anni di affari pubblici e privati dell'avvocato-faccendiere. Con la sua mail al giudice Magelli, Armanna il 29 settembre cerca di scongiurare il pericolo « che l'intero contenuto del suo telefono venga consegnato in copia ai legali di Eni, che ne hanno fatto richiesta formale. Armanna spiega al giudice che dentro ci sono le sue vicende private, «chat e mail relative a tensioni squisitamente personali della mia famiglia», «analisi mediche», «informazioni sulle mie abitudini». E all'ultimo punto aggiunge il dettaglio cruciale, la necessità di tutelare la sua attività professionale per una azienda «che in molti paesi è concorrente di Eni». È questo il passaggio che ha fatto suonare un campanello d'allarme negli uffici legali del cane a sei zampe. Perché, senza entrare nei dettagli, Armanna rivela di lavorare per un concorrente del gruppo. Un'azienda straniera, visto che in Italia il colosso pubblico non ha sostanzialmente rivali. Scoprire che uno dei principali accusatori dei suoi vertici lavora per la concorrenza ha rinfocolato i dubbi di Eni intorno a una domanda per ora senza risposta: chi ha ispirato il falso «pentimento» di Armanna e Amara, due professionisti legati per anni al gruppo e divenuti improvvisamente i testimoni chiave della Procura della Repubblica? Ora che anche i pm milanesi paiono avere preso le distanze dai due, tanto da avere chiesto nei giorni scorsi il loro rinvio a giudizio per calunnia, gli interrogativi sui mandanti dell'operazione diventano cruciali. Anche perché Armanna non è l'unico tra gli ex di Eni a essere passato alla concorrenza: c'è anche Antonio Vella, ex numero due di Eni, uscito malvolentieri dal gruppo alla fine del 2019, processato e poi assolto per le presunte tangenti in Algeria. Nel suo interrogatorio del mese scorso davanti al Procuratore di Milano, Amara indica in Vella uno dei suoi interlocutori privilegiati dentro Eni. E dov' è oggi Vella? Guida i servizi logistici di Lukoil, il colosso energetico russo. Ce n'è abbastanza, come si vede, per ipotizzare che «manine» straniere abbiano ispirato o almeno usato ai propri fini le accuse e i processi contro Eni. Sarebbe interessante capire se nel telefono di Armanna ci siano risposte a questi interrogativi. Ma il giudice Magelli, dopo avere ricevuto la mail di Armanna e il parere negativo anche della Procura della Repubblica, ha rifiutato di consegnare a Eni il contenuto integrale dell'apparecchio. E ci sono altri telefoni di cui non si conosce il contenuto: i quattro apparecchi sequestrati al poliziotto nigeriano chiamato «Victor» dopo il suo interrogatorio nell'aula del processo: e di cui non si sa che fine abbiano fatto. 

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" l'8 novembre 2021. Sono un clamoroso falso fabbricato a tavolino da Vincenzo Armanna - accerta ora la perizia informatica sul suo telefonino disposta a luglio dal procuratore aggiunto Laura Pedio nell'indagine sui variegati depistaggi Eni dei processi milanesi sul colosso energetico - i messaggi Whatsapp che l'indagato ex manager Eni (immancabilmente «raddoppiato» dalle conferme dell'ex avvocato esterno Eni nei processi ambientali Piero Amara) mostrava sul proprio telefonino e sosteneva di aver scambiato nel 2013 con il direttore generale e oggi amministratore delegato Eni, Claudio Descalzi, e con il capo del personale Claudio Granata, a riscontro del ruolo che gli attribuiva. E cioè a riprova del fatto che fossero stati proprio Descalzi e Granata a indurre Armanna, in cambio della promessa di riassunzione in Eni e della prospettiva di cospicui guadagni veicolati tramite la società nigeriana Fenog, a ritrattare o attenuare le proprie iniziali accuse di corruzione internazionale Eni in Nigeria nel 2011, a lungo valorizzate dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale ai fini della richiesta di condanna a 8 anni di Descalzi, poi invece assolto lo scorso 17 marzo dal Tribunale assieme a tutti gli altri coimputati (tra cui lo stesso Armanna) «perché il fatto non sussiste». Questa storia delle chat con dirigenti Eni, evocate da Armanna sia nei tanti interrogatori resi negli ultimi due anni sia a trasmissioni tv e giornali, ha una accelerazione il 2 novembre 2020 quando un giornalista del Fatto Quotidiano , a seguito dell'intervista che il 30 ottobre Armanna ora si intuisce avesse scelto come strumento per introdurre di sponda nel circuito giudiziario le chat con Descalzi e Granata, consegna alla Procura gli screenshot delle chat, dategli da Armanna in precedenti colloqui e filmate dal giornalista per documentare che stessero davvero sul telefonino di Armanna. Tre giorni dopo il pm Paolo Storari (coassegnatario di Pedio) si fa consegnare da Armanna il telefonino, che negli anni non era mai stato sequestrato dalla Procura e di cui nel luglio 2021 il 100% dei contenuti e dei metadati è stato acquisito con un software di una società israeliana a Monaco di Baviera, e affidato poi per lo studio al consulente Maurizio Bedarida. Non aveva dunque torto il pm Storari quando all'inizio del 2021 aveva ipotizzato ai colleghi anche la falsità di queste chat tra sei possibili indizi di calunniosità di Armanna (a suo avviso da arrestare con Amara), elementi che invitava i colleghi a depositare per correttezza ai giudici del processo Eni-Nigeria: inascoltato dai pm De Pasquale e Spadaro, i quali con Pedio sono indagati a Brescia per l'ipotesi di rifiuto o omissione d'atto d'ufficio. Quella falsità Storari curiosamente deduceva, a prescindere da complesse perizie come l'attuale, già dalla banale verifica che i numeri di telefono, ascritti a Descalzi e Granata negli apparenti messaggi con Armanna, nemmeno fossero attivi nel 2013, risultando utenze «in pancia» a Vodafone che non potevano produrre traffico. Argomento al quale però il procuratore Francesco Greco e Pedio avevano obiettato a Storari che in teoria potessero essere stati indefiniti servizi segreti (affini all'universo Eni) a far così sembrare negli archivi di Vodafone. Con l'esito-choc della consulenza informatica viene dunque meno quello che doveva essere il principale riscontro documentale alle dichiarazioni del tandem Armanna-Amara su Descalzi e Granata, indagati da tempo per le ipotesi di associazione a delinquere finalizzata al depistaggio giudiziario. Ora Pedio, e i due colleghi (Stefano Civardi e Monia Di Marco) affiancatile da Greco, dovranno valutare se altri elementi sinora segreti consentano lo stesso di chiedere il rinvio a giudizio di Descalzi e Granata, o inducano a chiederne l'archiviazione.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 9 novembre 2021. Quindici procuratori dai quattro angoli del mondo, dalla Francia al Brasile, dagli Stati Uniti alla Germania, scrivono all'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo) della loro preoccupazione per l'attacco di cui ritengono vittima la procura di Milano, e chiedono se non se ne deduca un infiacchimento della lotta alla corruzione in Italia. In particolare li allarma che a Brescia siano indagati due rilevanti pm milanesi, poiché nell'ultimo processo all'Eni, secondo il giudice, trascurarono di depositare degli atti straordinariamente favorevoli agli imputati. La combinazione vuole che nelle stesse ore esca un'altra notizia, sempre a proposito dello stesso processo Eni: alcune chat portate come prova da un testimone dell'accusa erano dei falsi di stampo cinese, provenivano da numeri nemmeno attivi. Un collega dei due pm in questione segnalò l'anomalia, ma i due pm di nuovo trascurarono. Sarà una bizza da garantisti ma, se penso allo stato della giustizia, a me fa un pochino più impressione mettermi nei panni degli imputati Eni, fra tanta trascuratezza, diciamo così, che mettermi in quelli dei pm, a cui comunque auguro di uscire prosciolti. Sull'infiacchimento della lotta alla corruzione non saprei, posso riportare qualche numero tratto dagli ultimi disponibili al ministero: nel 2016 di 117 processi di primo grado per concussione, il 32 per cento si è chiuso con sole condanne, il 22 per cento con condanne e assoluzioni, il 31 per cento con sole assoluzioni e il 15 per cento con processo sfumato per motivi diversi. È un vero peccato che la lotta sia vigorosa, ma si infiacchisca da sé quando arriva la sentenza.

(ANSA il 23 novembre 2021) - Il procuratore di Brescia, Francesco Prete, e il pm Donato Greco hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e del pm milanese Paolo Storari, indagati per rivelazione del segreto d'ufficio in merito alla vicenda dei verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. Fissati per settimana prossima in sede di chiusura indagini gli interrogatori del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm ora alla procura europea Sergio Spadaro, indagati per rifiuto d'atti d'ufficio per la gestione di Vincenzo Armanna, 'accusatore' nel processo per il caso Nigeria. Sarà un gup di Brescia, dopo la richiesta di rinvio a giudizio depositata stamani, a dover decidere se mandare a processo Davigo e Storari. Il pm milanese consegnò i verbali dell'ex legale esterno di Eni, resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020, a Davigo nell'aprile 2020 per autotutelarsi, a suo dire, dall'inerzia dei vertici della Procura "nell'avvio" delle indagini su quelle dichiarazioni. Davigo, come si legge nell'imputazione, avrebbe ricevuto "una proposta di incontro" da parte di Storari, "rassicurandolo di essere autorizzato a ricevere copia" dei verbali e dicendogli che "il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm". Sarebbe così entrato "in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo". E lo avrebbe fatto al di fuori di una "procedura formale", mentre Storari avrebbe dovuto "investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell'indagine". L'allora componente del Csm avrebbe svelato, poi, il contenuto di quelle carte ad alcune persone, tra cui colleghi del Csm. Le avrebbe date anche al vicepresidente David Ermini che "ritenendo irricevibili quegli atti" immediatamente "distruggeva" la "documentazione". Negli altri filoni dell'inchiesta bresciana, scaturita dal caso 'verbali Amara' e dalle denunce di Storari sulla gestione dei procedimenti Eni, la Procura ha chiesto l'archiviazione per l'ormai ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d'ufficio per i ritardi sulle indagini su Amara. La prossima settimana, dopo la chiusura indagini e su loro richiesta, i pm interrogheranno De Pasquale e Spadaro, accusati di non aver depositato prove favorevoli, trovate da Storari, agli imputati del processo Eni-Shell/Nigeria. Ancora aperto, infine, il filone nel quale il procuratore aggiunto Laura Pedio è accusata di omissione di atti d'ufficio per le tardive iscrizioni su 'Ungheria' e per la gestione dell'ex manager dell'Eni Armanna. 

La richiesta firmata dai magistrati di Brescia. Loggia Ungheria, chiesto il processo per Davigo e Storari: “Rivelazione del segreto d’ufficio sui verbali di Amara”. Redazione su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Il terremoto nella Procura di Milano continua. Francesco Prete e Donato Greco, rispettivamente procuratore e pm a Brescia, hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e per il pm di Milano Paolo Storari: i due sono indagati per rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito della vicenda dei verbali secretati dell’avvocato Piero Amara, che aveva svelato l’esistenza della presunta Loggia Ungheria. Il fascicolo arriverà quindi davanti a un giudice di Brescia che fisserà l’udienza preliminare, col Gup che deciderà sull’eventuale processo per Storari e Davigo. Sono invece fissati per la prossima settimana, entro il primo dicembre, gli interrogatori del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, entrambi indagati per rifiuto in atti d’ufficio per il caso Eni-Nigeria. Entrambi i magistrati hanno chiesto di essere ascoltati dai pm di Brescia prima della conclusione delle indagini. Negli altri filoni dell’inchiesta bresciana, scaturita dal caso ‘verbali Amara’ e dalle denunce di Storari sulla gestione dei procedimenti Eni, la Procura ha chiesto l’archiviazione per l’ormai ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d’ufficio per i ritardi sulle indagini su Amara.

LE ACCUSE A STORARI E DAVIGO – Secondo la tesi della procura di Brescia il pm Paolo Storari consegnò i verbali resi tra dicembre e gennaio 2020 di Amara, ex legale esterno di Eni, a Davigo. Un passaggio che sarebbe avvenuto nell’aprile 2020 per “autotutelarsi” da quella che Storari riteneva l’inerzia dei vertici della Procura di Milano nell’avviare indagini sulle dichiarazioni di Amara. Davigo, all’epoca consigliere del Csm, avrebbe ricevuto “una proposta di incontro” da parte di Storari, “rassicurandolo di essere autorizzato a ricevere copia” dei verbali e dicendogli che “il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm”, si legge nell’imputazione riportata dall’Ansa. Secondo l’accusa quindi Davigo sarebbe entrato “in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo”, fuori da una “procedura formale”, mentre secondo i magistrati bresciani Storari avrebbe dovuto “investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell’indagine”. Sempre Davigo avrebbe svelato il contenuto delle carte passategli da Storari ad altri colleghi del Csm, tra cui anche il vicepresidente David Ermini che “ritenendo irricevibili quegli atti” immediatamente “distruggeva” la “documentazione”.

LA DIFESA DI STORARI – Richiesta di rinvio a giudizio che non preoccupata l’avvocato Paolo Della Sala, legale del pm di Milano Paolo Storari. “Siamo assolutamente sereni riguardo alla nostra posizione che porteremo davanti al giudice dell’udienza preliminare, confidando che la totale innocenza venga dimostrata nelle varie sedi giurisdizionali“, ha commentato all’Ansa.

«Processate Davigo!». La richiesta dei magistrati di Brescia. Per la procura di Brescia, i due avrebbero violato il segreto d’ufficio. Previsti la prossima settimana gli interrogatori dei pm De Pasquale e Spadaro, indagati per rifiuto d’atti d’ufficio. Simona Musco  su Il Dubbio il 24 novembre 2021. Il procuratore di Brescia, Francesco Prete, e il pm Donato Greco hanno chiesto il rinvio a giudizio dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e del pm milanese Paolo Storari, indagati per rivelazione del segreto d’ufficio per aver fatto circolare i verbali secretati di Piero Amara sulla presunta “Loggia Ungheria”.

I verbali di Amara visti da Storari e Davigo

La vicenda è l’ormai nota “consegna” dei verbali di Amara a Davigo: ad aprile 2020 Storari, che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, consegnò quei documenti al consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunta Laura Pedio nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Per l’ex pm di Mani Pulite, tutto sarebbe avvenuto nel rispetto della legge: è stato lui, infatti, a rassicurare il pm milanese sulla liceità di quella procedura, richiamandosi ad alcune circolari del Csm stando alle quali «il segreto investigativo non è opponibile al Csm». Per la procura di Brescia, però, le due circolari non sono applicabili al caso specifico: esse non fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Storari, dunque, avrebbe agito «in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari».

Il commento dell’avvocato Paolo Della Sala

«Ho saputo dai giornali della richiesta di rinvio a giudizio – ha dichiarato al Dubbio Paolo Della Sala, legale di Storari -. Noi riteniamo di avere degli argomenti molto solidi e li presenteremo davanti al giudice con grande fiducia, nel pieno rispetto delle scelte della procura. Quello che va chiarito è che ciò che viene contestato al dottor Storari è la violazione di un iter procedimentale che formalmente non è stato rispettato e che si ritiene andasse seguito, ma in nessun modo, da nessuna parte, è in gioco la correttezza del suo operato da magistrato».

Le presunte condotte illecite di Davigo

Davigo, dal canto suo, avrebbe violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara. E non si limitò a ricevere i verbali, ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», che in realtà è precedente alla vicenda Amara.

I consiglieri del Csm che avrebbero saputo dei verbali di Amara

L’ex pm ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera, Ilaria Pepe, per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli. A vederli sarebbe stato anche il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione», pur riferendo il fatto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Morra informato da Davigo

Ad essere informati furono anche Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita, e le due segretarie di Davigo, Marcella Contrafatto – che secondo la procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo e alla stampa – e Giulia Befera.

C’è anche il caso Eni-Nigeria

La procura di Brescia indaga però anche su altri componenti dell’ufficio di procura: dopo aver chiesto l’archiviazione dell’ormai ex procuratore Greco, accusato di omissione di atti d’ufficio per aver ritardato le iscrizioni dei primi nomi a seguito del racconto di Amara, continuano le indagini su Pedio, indagata per lo stesso reato e per la gestione dell’ex manager Eni Vincenzo Armanna, presunto calunniatore, secondo quanto segnalato da Storari a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, i due pm che hanno rappresentato l’accusa al processo Eni-Nigeria.

Segnalazione che trova un riscontro almeno nel caso delle chat che Armanna ha dichiarato di aver scambiato con l’ad di Eni, Claudio Descalzi, e il capo del personale, Claudio Granata, per dimostrare come gli stessi gli avrebbero chiesto di ritrattare o attenuare le accuse di corruzione nel caso Opl245 in cambio della riassunzione. Secondo la perizia informatica richiesta da Pedio, infatti, quelle chat sarebbero un falso clamoroso.

Dal canto loro, De Pasquale e Spadaro verranno interrogati la prossima settimana, a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini per «rifiuto d’atti d’ufficio»: secondo la procura di Brescia, i due pm avrebbero tenuto le difese degli imputati del processo Eni-Nigeria all’oscuro delle prove potenzialmente favorevoli segnalate da Storari, depositando comunque le chat false e omettendo la circostanza del presunto pagamento di un testimone da parte di Armanna.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2021. «Se io ho commesso il delitto di rivelazione di segreto d'ufficio - si difende l'ex consigliere Csm Piercamillo Davigo nel suo interrogatorio -, allora loro (cioè i vertici del Csm e della Procura generale di Cassazione, ndr ) avrebbero dovuto denunciarmi», visto che «l'omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato», e dunque «dovrebbero essere incriminati per omissione d'atti d'ufficio», ma «a nessuno di loro venne in mente di doverlo fare perché nessuno di loro pensò che il mio fosse un reato». Ma la linea difensiva dell'ex pm di Mani Pulite non convince la Procura di Brescia, che chiede al gip di processarlo con il pm milanese Paolo Storari per «rivelazione di segreto». Cioè per aver, nella primavera 2020, fatto circolare tra quei «loro» (il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini, il pg della Cassazione Giovanni Salvi, cinque consiglieri Csm e il presidente allora 5 Stelle della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra) i verbali segreti resi, tra fine dicembre 2019 e metà gennaio 2020, dall'ex avvocato esterno Eni Piero Amara su una associazione segreta denominata «loggia Ungheria» e condizionante alte burocrazie. La consegna di questi files word da Storari a Davigo, invece, per il procuratore bresciano Francesco Prete e il pm Donato Greco non può essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con il procuratore Francesco Greco e la coassegnataria vice Laura Pedio sui ritardi (a suo avviso) nell'avviare concrete indagini, per i quali Brescia ha chiesto l'archiviazione di Greco in attesa di valutazione del gip. Ermini ha deposto ai pm bresciani d'aver parlato con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella di quanto rivelatogli da Davigo, dal quale ha confermato di aver anche ricevuto copia dei verbali di Amara, aggiungendo però di averli distrutti ritenendoli irricevibili. «Bravo... complimenti... - contrattacca Davigo nel proprio interrogatorio - Ermini evidentemente non è precisamente un cuor di leone: se io avessi commesso un reato, era la prova del reato, dovevi trasmetterla all'autorità giudiziaria, se no è favoreggiamento personale», e aggiunge la domanda retorica che altri invece gli ritorcono contro proprio per la sua condotta, e cioè «sono impazzito io o sono ancora queste le regole del gioco?». In dicembre chiederanno di essere interrogati a Brescia il procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, destinatari di un avviso di conclusione indagini per «rifiuto d'atti d'ufficio», nell'ipotesi abbiano tenuto il Tribunale del processo Eni-Nigeria all'oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura dell'ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, coimputato ma anche accusatore di Eni valorizzato da De Pasquale nel processo Eni-Nigeria e da Pedio (pure indagata per l'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio) nell'inchiesta milanese tuttora in corso sui depistaggi giudiziari attribuiti a Eni.

Un magistrato non si processa mai...De Pasquale non va processato, lobby internazionale per difendere il Pm anti-Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Giù le mani da Fabio De Pasquale. Come si permette la Procura di Brescia di portarlo a giudizio come imputato, proprio lui che era riuscito a far condannare Craxi e Berlusconi e che ha messo in piedi la più grande inchiesta di corruzione internazionale contro Eni? Sorvolando sul fatto che quel processo il pm De Pasquale l’ha perso, scendono in campo a gamba tesa in suo favore 15 membri del gruppo “Corruption Hunters Network” -magistrati e investigatori- di cui lo stesso pm milanese fa parte. Suoi colleghi e amici, insomma. Agguerriti e informatissimi sull’Italia. Sembrano una corrente dell’Anm. C’è un americano, una francese, un tedesco, un brasiliano, una svizzera, in gran parte esponenti di Stati in cui la pubblica accusa dipende dal governo e che, in nome dell’esecutivo, lottano contro i fenomeni criminali. Cosa che non è consentita ai rappresentanti delle Procure italiane, la cui autonomia dal potere politico è difesa con le unghie e i denti dalle toghe di ogni ordine. E che oggi farebbero bene a insorgere contro questa intromissione nella loro indipendenza sacra e inviolabile. I quindici vestono i panni degli indignati. Ma fanno politica contro l’Italia. Contro l’autonomia e l’indipendenza della sua magistratura. Denunciano il nostro Paese, rivolgendosi all’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che nei prossimi mesi dovrebbe secondo loro dare una valutazione preoccupata sull’Italia. La tesi è la seguente: «La procura di Milano è ora sotto attacco per aver perseguito casi di corruzione internazionale», e si cita il solo caso Eni. Ma sotto attacco da parte di chi? I magistrati di Brescia che hanno aperto l’inchiesta su De Pasquale, si suppone. Ma si dovrebbe dire prima di tutto che sono altri investigatori, in totale autonomia, a indagare, non “la Procura di Milano”, ma singole persone, un aggiunto, Fabio De Pasquale appunto, e un sostituto, Sergio Spadaro. L’inchiesta aperta a Brescia sarebbe il frutto, sostengono i quindici, dell’iniziativa diretta della “corruzione”. Cioè il soggetto astratto indicherebbe gli uomini di potere, politico ed economico, che si starebbe vendicando del coraggioso magistrato che da anni è in prima linea nel combattere la corruzione. L’Ocse, secondo questi magistrati nominati in gran parte dai loro governi, dovrebbe accertare se il comportamento dell’Italia nei confronti della lotta alla corruzione è ancora limpido e deciso. «E stabilire cosa c’è dietro le accuse infondate che stanno per essere mosse a De Pasquale e Spadaro. Se, come temiamo, si tratta di un caso di contrattacco da parte della corruzione, dovrebbe chiarirlo nella sua valutazione». Dunque, ricapitolando: le ipotesi di omissione o rifiuto di atti di ufficio per cui i due pm sono indagati a Brescia, sono “infondate”, ma ci sarebbe un complotto ordito dagli ambienti della “corruzione” per mettere il bavaglio ai magistrati coraggiosi. E chi sarebbero coloro che vogliono far tacere De Pasquale e Spadaro? I dirigenti Eni usciti assolti dal processo su tangenti in Nigeria perché “il fatto non sussiste”? Il presidente Tremolada che insieme ai due colleghi ha emesso la sentenza? Il procuratore Prete di Brescia? È su di loro che dovrebbe indagare l’Ocse prima di dare una valutazione sull’Italia e la sua capacità di combattere la corruzione, nazionale e internazionale? La cosa strana è che, se i quindici colleghi di De Pasquale paiono ignorare le regole del sistema giudiziario italiano, sembrano invece informatissimi sul processo Eni. Le loro argomentazioni contro i fatti per cui i due pm milanesi sono indagati sembrano quasi dei motivi d’appello contro la sentenza con cui nel marzo scorso i dirigenti del colosso idrocarburi sono stati assolti nonostante le manchevolezze dei magistrati dell’accusa. Fabio De Pasquale nel proprio ricorso aveva sostenuto che la settima sezione del tribunale presieduta da Marco Tremolada aveva trattato il grave fatto di corruzione internazionale con cui Eni aveva cercato di ottenere le concessioni sul giacimento Opl-245, come “bagatelle”, con argomenti “veramente esili” e “illogici”. I suoi colleghi internazionali affondano il coltello su quelle che il tribunale aveva considerato gravi mancanze da parte di chi aveva sostenuto in aula l’accusa. Non aver messo a disposizione della difesa per esempio il video in cui l’ex manager Armanna preannuncia all’avvocato Amara e altre due persone le calunnie che si apprestava a riversare sui vertici Eni. Il video avrebbe dimostrato l’inattendibilità di un teste caro alla procura. Lo stesso De Pasquale, nel suo ricorso per l’appello, dedica ben otto pagine a quel video, per definire tra l’altro le parole di Armanna delle “spacconate”. I suoi quindici colleghi internazionali gli copiano l’argomento fondamentale, e sostengono che gli uomini di Eni avessero già in mano da anni quel video, così come un’informativa della Guardia di finanza che il tribunale di Milano aveva ritenuto altrettanto importante. L’ufficio stampa del colosso petrolifero ha sempre smentito. Ma c’è da domandarsi come mai questo processo sia stato seguito (magari indiretta streaming e con l’interprete simultaneo) con tanta attenzione negli Stati Uniti e nei Paesi europei rappresentati dai quindici giuristi, visto che questi sembrano al corrente di ogni particolare. Non sembrano però essere informati (o forse la loro fonte non lo ha ritenuto interessante) di quella polpetta avvelenata che era stata preparata per portare il presidente Tremolada a doversi astenere dal processo, quando era stato accusato dall’avvocato Amara di essere “avvicinabile” dagli avvocati difensori dell’ ad di Eni Claudio De Scalzi e del suo predecessore Paolo Scaroni. Strano che di questo episodio i quindici non siano stati informati, anche perché questo processo, oltre che per il clamore delle assoluzioni dopo settantaquattro udienze, verrà ricordato proprio per quella stilla di veleno. Che avrà anche un suo seguito perché il procuratore capo di Milano Francesco Greco e la sua fedele aggiunta Laura Pedio si erano affrettati a inviare gli atti a Brescia perché si verificasse se qualche giudice avesse commesso i reati di traffico di influenze e abuso d’ufficio. Se qualcuno ci aveva contato, gli è andata male. Archiviato. Ma i quindici non conoscono solo le carte, se pur, come abbiamo visto, in modo molto selettivo. Si preoccupano anche della prossima nomina di chi prenderà il posto di Francesco Greco a capo della procura più famosa, nel bene e (spesso) nel male, d’Italia. «Il suo capo da lungo tempo – scrivono – persona rispettata, l’unico sopravvissuto dei membri del famoso pool Mani Pulite, andrà in pensione tra pochi giorni. Ci sono notizie che il suo successore sarà un magistrato che nutre dubbi sul fatto che sia necessario attivamente perseguire le società italiane per corruzione internazionale». A questo punto, di fronte a accuse così gravi, c’è qualcuno, magistrato o politico, o organismi sempre pronti con le pratiche di autotutela, a strillare un po’ su questa indecente intromissione da parte di magistrati di nomina governativa di Stati stranieri? Qualcuno vuole difendere l’ignoto futuro procuratore di Milano dall’accusa di essere un colluso dei corrotti? Per la cronaca, negli stessi giorni in cui i quindici sputavano il loro veleno ergendosi a difensori d’ufficio (informatissimi, anche sulle indiscrezioni) di un pubblico ministero italiano contro altri pm italiani, arriva la notizia che tutti i messaggi whatsapp che l’ex manager Eni Pietro Armanna mostrava sul proprio telefonino contrabbandandoli per scambio di opinioni con l’ad (allora direttore generale) Claudio De Scalzi, erano un falso clamoroso, fabbricato a tavolino. Lo ha stabilito una perizia della procura disposta qualche mese fa dall’aggiunta Laura Pedio all’interno dell’indagine sui depistaggi, che in questo processo l’hanno spesso fatta da padrone. Ma Armanna, come Amara, è sempre stato considerato un teste attendibile dall’accusa. Ed evidentemente il pm De Pasquale crede ancora nei suoi testimoni, e non si arrende alla prima sentenza che lo ha visto sconfitto. Infatti, non solo ha firmato il ricorso in appello, ma ha anche chiesto di essere applicato a sostenere personalmente l’accusa nel secondo processo, forse perché non ha molta fiducia in quella procura generale che in un’altra causa aveva definito l’ex manager Armanna un “avvelenatore di pozzi”. Bene, anche di questo si preoccupano i suoi quindici colleghi internazionali. Temono che non gli sarà concesso di andare di nuovo in aula contro Eni, se andrà avanti l’inchiesta di Brescia. Ma come sono informati!

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Federica Olivo per huffingtonpost.it il 4 novembre 2021. Assoluzione definitiva per il primo filone di Eni-Nigeria e mezzo processo Ruby ter in bilico, perché le ragazze sentite come testimoni avrebbero dovuto essere indagate, già nel lontano 2012. E, quindi, ricevere garanzie che non hanno avuto. È una doppia sconfitta quella che arriva, nel giro di pochi giorni, sulle spalle della procura di Milano. E pesa tanto, perché arriva proprio nei due procedimenti che sono stati quasi un cavallo di battaglia per gli uffici requirenti del capoluogo lombardo. Nel primo caso parliamo del processo fatto con rito abbreviato nei confronti di Emeka Obi e Gianluca di Nardo, i mediatori che erano stati condannati in primo grado per corruzione internazionale a quattro anni, ma assolti con formula piena in appello, su richiesta della procura generale, che in secondo grado rappresenta l’accusa. Sul fascicolo viene messa una pietra tombale, perché la pg Francesca Nanni non ha fatto ricorso in Cassazione, respingendo la richiesta del governo nigeriano, e ha ribadito quello che in sostanza aveva già detto il giudice: il fatto non sussiste. Non ci sono elementi per ritenere sussistente la corruzione. È l’ennesima picconata al filone Eni Nigeria, che già aveva ricevuto una battuta d’arresto a marzo, con l’assoluzione in primo grado di Descalzi e Scaroni. Il verdetto di marzo non era stato preso benissimo dalla procura di Milano. Le cronache locali segnalavano uno scontro in chat tra i pm, con tanto di frasi come “Francesco, non ci prendere in giro”, rivolte al capo, Francesco Greco. Fosse stata un’assoluzione come le altre, in pochi giorni la polemica si sarebbe smorzata. Però poi sono arrivate le motivazioni della sentenza. E di lì a poco gli inquirenti sono diventati indagati. Secondo il giudice di primo grado, infatti, il Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, hanno omesso delle prove su Vincenzo Armanna, che avrebbero potuto scagionare gli imputati. Il grande accusatore, infatti, secondo questi elementi che l’accusa non portò in dibattimento, avrebbe parlato solo per screditare Descalzi e Scaroni. De Pasquale ha ammesso durante il processo di essere a conoscenza di questo materiale - una registrazione - ma di non averlo portato in giudizio perché lo riteneva irrilevante. Un comportamento che ha fatto scattare per lui e per Spadaro un’inchiesta per rifiuto di atti d’ufficio, davanti alla procura di Brescia. Quest’ultima vicenda non si è ancora conclusa. La sentenza di primo grado, invece, è stata impugnata. Per capire se l’appello confermerà l’assoluzione ci vorrà ancora del tempo. Probabilmente meno tempo, invece, passerà prima che arrivi a conclusione un altro processo. Il Ruby ter, che però ieri è stato smontato a metà. Nel procedimento che vede indagato Silvio Berlusconi e 28 persone - tra queste le ragazze che partecipavano alle cene di Arcore e venivano chiamate Olgettine ai tempi in cui di questa vicenda erano piene le prime pagine dei giornali -  per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza non potranno essere utilizzate le dichiarazioni che alcune di queste ragazze avevano fatto nei primi due filoni di questa lunga vicenda: il Ruby uno e il Ruby bis. Il motivo è molto semplice, e lo ha spiegato il giudice nell’udienza di ieri: quelle ragazze non dovevano essere ascoltate come testimoni, ma avrebbero dovuto già essere indagate. Non ieri o pochi giorni fa, ma già dalla primavera del 2012. “Tutte le deposizioni dei Ruby 1 e 2 sono affette da un vizio patologico e non possono essere usate in questo processo”, ha dichiarato Federico Cecconi, avvocato di Berlusconi. La questione sembra tecnica, ma è di sostanza: se le ragazze fossero state indagate, infatti, avrebbero dovuto essere assistite da un avvocato. E avrebbero potuto avvalersi della facoltà di non rispondere. Quando l’accusa era sostenuta da Ilda Boccassini, insomma - è il senso dell’ordinanza del giudice di Milano - fu fatto un errore. Perché, si legge nelle carte, la Procura “aveva elementi indizianti le elargizioni di Berlusconi in favore delle ragazze” indicate come testimoni, mentre in realtà erano già “sottoposte ad indagini”. Gli elementi per sospettare che avessero accettato denaro o regali in cambio di una falsa testimonianza - e quindi per far diventare indagate anche le ragazze, che avevano accettato lo scambio - c’erano tutti, sostiene il giudice. E quindi la loro posizione avrebbe dovuto essere valutata già da allora diversamente. Che conseguenze avrà l’inutilizzabilità di quegli atti? Intanto sono prossime a crollare le accuse di falsa testimonianza - perché le ragazze non avrebbero dovuto essere testimoni - che comunque erano prossime alla prescrizione. Resta in piedi la corruzione in atti giudiziari. Indubbiamente, però, per i pm Tiziana Siciliano e Luca Gagli, senza una parte degli atti, il lavoro sarà molto più difficile. In pochi giorni, per due volte, il lavoro della procura di Milano viene messo seriamente in discussione da un’altra toga. A poche settimane dal pensionamento di Francesco Greco, che aprirà le danze di una successione che già si annuncia complicata, l’ennesima tegola, che certamente lascerà il segno. 

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 4 novembre 2021. Bisogna attendere la sentenza per capire se e come avrà influito sul processo Ruby ter, ma di certo la decisione di ieri del Tribunale di Milano di considerare inutilizzabili le testimonianze rese da 18 delle giovani ospiti alle cene e ai dopocena di Silvio Berlusconi ad Arcore ai tempi del Bunga Bunga apre una crepa in un processo che da tre anni faticosamente si trascina avanti. I giudici della settima sezione penale, presidente Marco Tremolada, hanno accolto l'eccezione con cui nel lontano 14 gennaio 2019 il difensore dell'ex premier, l'avvocato Federico Cecconi, sostenne che le testimonianze a partire dalla primavera del 2012 nei processi Ruby uno (a Berlusconi, assolto) e Ruby due a Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti (condannati) di quelle che oggi sono tra i 22 imputati non potevano essere utilizzate in questo processo Ruby ter in quanto le stesse 18 donne, tra cui Karima «Ruby» El Mahroug, avrebbero dovuto essere tutte sentite come indagate, quindi assistite da un avvocato, e non come testimoni. Questo perché, quando furono inserite dalle difese nelle liste di coloro che avrebbero testimoniato davanti ai giudici di quei due processi, la Procura sapeva già che venivano regolarmente pagate da Silvio Berlusconi con un assegno di 2.500 euro al mense e con altre somme aggiuntive, anche molto consistenti. Ciò configurava il reato di corruzione in atti giudiziari a carico di Berlusconi, come corruttore, e delle testi, come corrotte, che poi è l'accusa principale del processo Ruby ter. La quale, secondo un'interpretazione diffusa, rimarrebbe comunque in piedi perché per ipotizzarla è sufficiente che il teste accetti l'accordo corruttivo a prescindere da che fine facciano poi le sue dichiarazioni nel processo. Si tratta, scrivono i giudici, di una «violazione delle garanzie di legge poste a presidio del divieto di auto incriminazione» che potrebbe portare all'assoluzione delle 18 imputate dall'accusa di falsa testimonianza, peraltro vicinissima alla prescrizione. Per la Procura, invece, non c'erano elementi sufficienti per ipotizzare un'accusa di una qualche consistenza. Un nodo giuridico che mai è emerso in anni di processi chiusi con pronunce definitive in Cassazione e nei quali le stesse testimonianze non hanno mai avuto un peso proprio perché ritenute inattendibili. «Questa ordinanza è importantissima», dichiara l'avvocato Cecconi che di recente ha incassato l'assoluzione di Berlusconi dalla stessa accusa di corruzione in un pezzo del processo finito a Siena. Si torna in aula il 17 novembre quando saranno interrogati i primi imputati. Berlusconi, spiega Cecconi, sta valutando se e quando presentarsi per fare dichiarazioni spontanee.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 4 novembre 2021. La corruzione da parte di Eni di esponenti del governo nigeriano, il caso che ha portato la Procura di Milano a processare i vertici del colosso energetico di Stato, non è mai avvenuta. A dirlo non sono gli avvocati difensori e neanche i giudici di primo o secondo grado, ma il massimo rappresentante dell'accusa nel capoluogo lombardo: il procuratore generale Francesca Nanni, che con un provvedimento depositato martedì ha comunicato ufficialmente la sua decisione di non presentare appello contro la assoluzione dei due uomini d'affari che per il pm Fabio De Pasquale erano stati il tramite della gigantesca tangente targata Eni. L'assoluzione dei due mediatori diventa così definitiva. E diventa un precedente quasi tombale per il processo a Claudio Descalzi e Paolo Scaroni, il numero 1 di Eni e il suo predecessore, già assolti in primo grado con formula piena e in attesa del giudizio d'appello. Nel suo provvedimento, infatti, la pg Nanni non si limita a respingere l'invito del governo nigeriano - rappresentato dall'avvocato Lucio Lucia - ad impugnare in Cassazione l'assoluzione dei mediatori, ma affronta direttamente il cuore del processo, ovvero l'esistenza o meno della gigantesca corruzione ipotizzata dai pm: i due imputati andavano assolti perchè «non ci sono gli elementi per ritenere sussistente il fatto», e sia l'andamento che le conclusioni delle trattative tra Eni e autorità nigeriane per la concessione del giacimento Opl245 offrono un «significativo riscontro» alle tesi delle difese. «Non sussiste alcuna prova - conclude la Nanni - di accordi illeciti»; «non si può dubitare che i manager Eni siano estranei alla condotta tipica del reato di corruzione». È una bocciatura esplicita delle tesi del pm De Pasquale, che ai processi sulle presunte tangenti Eni ha dedicato anni di lavoro, innescando un lungo e aspro braccio di ferro con i vertici dell'azienda e i loro agguerriti collegi difensivi. Affossando l'inchiesta di De Pasquale, il provvedimento della Procura generale segna una nuova puntata dello scontro che lacera la magistratura milanese, e che ha portato De Pasquale e il suo collega Sergio Spadaro sotto procedimento penale a Brescia con l'accusa di avere occultato prove favorevoli alla difesa. Proprio dalla gestione del processo Eni, d'altronde, scaturiscono le tensioni che hanno portato il pm Paolo Storari a consegnare a Piercamillo Davigo, allora membro del Csm, i verbali dello pseudopentito Pietro Amara sulla cosiddetta «loggia Ungheria». Per Storari, quei verbali facevano capire che l'avvocato Amara e il suo collega Vincenzo Armanna potevano essere dei pericolosi calunniatori, degli avvelenatori di pozzi inutilizzabili come testimoni d'accusa. Ma a De Pasquale invece Amara e Armanna servivano, perché proprio le loro dichiarazioni contro i vertici di Eni erano una delle travi portanti del processo per le tangenti nigeriane. Ora Armanna dovrebbe essere sotto inchiesta per calunnia, ma a condurre l'indagine dovrebbe essere la stessa procura che lo ha valorizzato per anni come teste d'accusa. Situazione, come si vede, piuttosto paradossale. Sullo sfondo, due scadenze ravvicinate: l'addio alla Procura da parte del suo capo, Francesco Greco, che va in pensione tra dieci giorni. E il processo d'appello a Scaroni e De Scalzi, per i quali la Procura generale è chiaramente orientata a chiedere la conferma dell'assoluzione.

Alessandro Da Rold per “La Verità” il 4 novembre 2021. Vincenzo Armanna, il grande accusatore delle tangenti nel processo Opl245 (dove sono stati tutti assolti perché il fatto non sussiste), lavora per un'azienda estera rivale del Cane a sei zampe. La notizia non arriva da un report dei servizi segreti o da un'intercettazione della Guardia di finanza in una delle numerose inchieste dove il manager siciliano è indagato. A rivelarlo è stato lo stesso Armanna. Il 30 settembre scorso, infatti, l'ex dirigente licenziato dall'Eni nel 2013, ha deciso di inviare una mail da posta certificata a 2 toghe della Procura di Milano, il gip Anna Magelli e soprattutto il pm Laura Pedio, quest' ultima titolare di ben 2 procedimenti dove Armanna è coinvolto (il falso complotto e la calunnia nei confronti del suo ex avvocato Luca Santamaria). Nella missiva Armanna si oppone alle richieste di Eni di acquisire copia dei contenuti dei telefoni che gli sono stati sequestrati. «Sono qui ad evidenziare, scusandomi per la forma irrituale, che sono venuto a conoscenza dell'istanza delle difese del dottor Descalzi e del dottor Granata solamente tramite lanci di agenzia di stampa e che nessuna notifica mi è stata fatta. Mi oppongo fermamente all'acquisizione dell'intero contenuto della copia forense da parte delle altre difese poiché al suo interno sono presenti informazioni, chat e mail con i miei avvocati relative ai diversi procedimenti che mi vedono coinvolto e in particolare e non solo al presente procedimento». Armanna si riferisce all'inchiesta, ancora aperta, sul falso complotto, quello che vede indagato anche l'avvocato Piero Amara (ora in carcere), suo sodale nel voler sfruttare il processo sul giacimento nigeriano come dimostrato in un video del 28 luglio 2014, pubblicato dalla Verità il 16 marzo scorso. Non va dimenticato che Armanna viene ancora considerato «attendibile» nel ricorso promosso dal pm Fabio De Pasquale contro l'assoluzione di primo grado contro tutti gli imputati nel processo Opl245. E questo nonostante sia considerata definitiva l'assoluzione dei due presunti intermediari Emeka Obi e Gianluca Di Naro. Dopo essere stati assolti in appello perché il fatto non sussiste, la Procura generale ha deciso di non fare più ricorso in Cassazione. Di fatto, la rivelazione fatta da Armanna nella mail, potrebbe aprire nuovi scenari sui motivi dietro all'inchiesta sulla licenza di esplorazione per la quale, secondo l'accusa, sarebbe transitata una tangente da più di un miliardo di euro. Armanna lo scrive esplicitamente a Mangelli e Pedio. «Alcune informazioni contenute nel telefono» si legge «non inerenti al procedimento in corso, qualora divulgate a terzi potrebbero essere fonte di gravi danni alla mia professione e alla azienda per cui lavoro che in molti Paesi è concorrente dell'Eni». Non solo, aggiunge Armanna: «Altre informazioni contenute qualora divulgate sarebbero gravemente lesive della mia privacy e della privacy delle persone coinvolte». Che cosa nasconde Armanna? Di certo, tra i vari protagonisti di cui si è parlato nel processo Eni-Shell, ce n'è uno che ha deciso di lavorare per un'azienda estera. È Antonio Vella, ex numero 3 dell'azienda di San Donato, dal febbraio del 2020 in forza ai russi di Lukoil: è responsabile del centro servizi, la direzione operativa per la logistica. Vella viene citato da Armanna e Amara nel video del luglio del 2014. Doveva essere lui ad aiutarli nell'acquisto dei blocchi onshore (a terra) di Eni in Nigeria. Non va inoltre dimenticato che Vella e Amara sono indagati entrambi per insider trading a Milano dal 2019: secondo le indagini delle fiamme gialle il primo avrebbe inviato informazioni riservate al secondo per fare investimenti. Ma oltre a questo va anche citata un'altra azienda, che lavora all'estero, la Napag, che ha avuto un ruolo centrale in tutta l'inchiesta per traffico di petrolio iraniano sotto embargo. Amara e Armanna avevano interessi economici in Iran. L'avvocato è titolare anche di uno studio a Dubai e lo stesso ex manager Eni aveva lavorato in quelle zone, stringendo accordi non concordati con l'azienda. Tutti particolari che, dopo le rivelazioni nella mail, potrebbero riscrivere la storia del processo Opl245.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2021. Passa in giudicato la «non sussistenza» della corruzione internazionale imputata a Eni in Nigeria nel 2011 dalla Procura della Repubblica di Milano, dopo che ieri la Procura generale ha detto no alla Nigeria che, quale parte offesa, le chiedeva di ricorrere in Cassazione contro l'assoluzione dei supposti intermediari Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, decisa dalla Corte d'Appello il 24 giugno ribaltando la condanna di primo grado a 4 anni e 100 milioni di confisca. L'ufficio rappresentante l'accusa in secondo grado si smarca quindi di nuovo dalla Procura dell'aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, e rimarca di «condividere le conclusioni della sentenza, peraltro conformi alla richiesta del pg delegato» Celestina Gravina, e di «non condividere» invece «il giudizio sulla rilevanza delle prove» che ad avviso dei legali della Nigeria, Lucio Lucia e Valentina Alberta, erano state «trascurate». Anzi, motiva il proprio no il procuratore generale Francesca Nanni, non solo nell'assoluzione non c'è «alcuna erronea applicazione della legge», ma anzi «non si può dubitare che i manager Eni, così come gli intermediari, siano estranei alla condotta tipica del reato di corruzione». 

Giacomo Amadori Alessandro Da Rold per "la Verità" il 29 ottobre 2021. Siamo arrivati allo scontro finale, dove quel che resta della Procura di Milano tenta gli ultimi colpi di coda per rianimare il processo Opl 245 contro i vertici dell'Eni, conclusosi in primo grado con l'assoluzione di tutti gli imputati. Il procuratore Francesco Greco, a un mese dalla pensione, ha deciso di prendere personalmente il controllo della situazione, dopo aver scaricato le colpe sulla mancata messa a disposizione degli atti alle difese sull'aggiunto Fabio De Pasquale (che ha ricevuto un avviso di chiusura delle indagini). Greco ha convinto la Procura di Brescia anche della sua buona fede nella ritardata iscrizione degli indagati sulla vicenda della loggia Ungheria e ringalluzzito, il 13 ottobre, si è recato nel carcere di Terni a torchiare (si fa per dire) il pentito fasullo Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, che ogni sei mesi ha nuovi ricordi legati alle stagioni, ai pm e alla situazione contingente (testimone, imputato, o carcerato). Quindi l'appuntamento del 13 ottobre è diventato l'occasione per una sorta di rivincita per i partecipanti all'incontro: procuratori azzoppati e testi considerati ormai inattendibili (Amara è indagato per calunnia). Ma esaminiamo al rallentatore questa sfida tra vecchie glorie. All'inizio il procuratore, affiancato dal pm Stefano Civardi, spiega ad Amara che «compare quale persona sottoposta a indagini» per calunnia ai danni del difensore di Vincenzo Armanna, accusatore di lungo corso dell'ad di Eni Claudio Descalzi. Ma il fascicolo è nuovo e, viste le domande, sembra nato per riaprire vecchi cassetti. Infatti Greco chiede conferma ad Amara delle dichiarazioni rese sino a oggi. E l'avvocato risponde di sì, ma anche no, perché spiega di dover «precisare diverse circostanze e fornire un'esatta ricostruzione storica degli avvenimenti, dal momento che gli interrogatori che ho reso hanno avuto un'evoluzione e che le cose che ho dichiarato nel 2018 sono state ampliate e rese diverse nell'interrogatorio nel 2019». Una circonlocuzione per ammettere di aver raccontato balle. Fa notare che nel 2018 si è assunto tutta la responsabilità e che nel 2019 ha indicato «altre persone con le quali avevo operato per realizzare delle condotte». Le domande di Greco e Civardi vertono intorno al falso complotto ai danni di Descalzi che sarebbe stato messo in piedi da Amara; il primo quesito riguarda il presunto incarico ben remunerato che l'indagato avrebbe ricevuto per il «controllo» di Armanna e per «la costruzione di finti processi penali» a Trani e Siracusa. Lì picchia l'accusa. L'interrogatorio inizia alle 10.57, ma viene sospeso nemmeno un'ora dopo, alle 11.52. Alle 12.02 ricomincia e Amara parte a razzo sul suo presunto ruolo nella nomina di Descalzi nel marzo 2014. Racconta di incontri con Antonio Vella e Claudio Granata, in quel momento manager di punta della società petrolifera e, a dire dell'avvocato, interessati a cercare in lui uno sponsor per l'attuale ad. «Dal momento che si sapeva» sostiene Amara «che avevo buone entrature negli ambienti renziani attraverso Lotti, Bacci e il padre di Renzi, Tiziano, nonché con Verdini». Amara descrive anche un incontro a casa di Granata, coinvolto nelle nuove dichiarazioni, con una «donna che ci preparò un tè». Nessuno gli chiede di descrivere casa, né donna. Amara indica nell'interrogatorio di Vincenzo Larocca, ex dipendente Eni, «un riscontro» alle sue affermazioni. Ma anche in questo caso nessuno gli domanda come faccia a sapere «dell'interrogatorio di Larocca», inserito, ci risulta, in un fascicolo coperto da segreto. Ma la vera questione è che quando Amara si sarebbe adoperato per la nomina di Descalzi, il manager era in realtà già stato scelto dalla società cacciatrice di teste Korn Ferry (come previsto dalla direttiva sulle nomine pubbliche) che il 25 marzo 2014 lo posizionò al primo posto dei possibili contendenti per il ruolo di successore di Paolo Scaroni e solo l'1 aprile Descalzi incontrò Renzi a Londra. Amara di fronte a Greco ricorda il faccia a faccia, ma si vede che non è a conoscenza della selezione da parte della Korn Ferry. Un'altra parte dell'interrogatorio è dedicato al video del 28 luglio 2014 negli uffici dell'imprenditore Ezio Bigotti, messo a disposizione delle difese nel processo Eni-Nigeria fuori tempo massimo, tanto che De Pasquale e il pm Sergio Spadaro hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini preliminari dalla Procura di Brescia. L'argomento non ha nulla a che vedere con l'oggetto dell'interrogatorio, ma nessuno interrompe l'indagato. Amara dice: «D'accordo con Granata, decisi di controllare le mosse di Armanna e di videoregistrarlo, potendolo fare con l'aiuto di Bigotti. Infatti quest' ultimo aveva una stanza dotata di un'apparecchiatura che utilizzava per registrare rapporti riservati». Siamo nel 2014. Secondo Amara, il numero 2 dell'Eni, Granata, gli avrebbe chiesto di monitorare Armanna e, quindi, il piano dovrebbe essere di avere il filmato per mostrare come l'ex manager licenziato stesse tramando contro i suoi ex capi. Visto che nessuno lo interrompe, Amara racconta l'ennesima «favola di Pinocchio», come dice lui, e di «avere ricevuto in anteprima (sic!) il file relativo al video di Bigotti [] sul finire del 2017», cioè tre anni dopo la registrazione, «in quanto allegato a una relazione della Guardia di Finanza» ottenuta «in anteprima tramite una consegna di Francesco Sarcina che è un dipendente dell'Aisi», i servizi segreti interni. Sarcina è un nome che Amara ha già sfoderato in passato indicandolo come presunta fonte. Nessuno gli domanda come facesse Sarcina, un carabiniere, ad avere una «relazione della Guardia di Finanza»; nessuno gli contesta le dichiarazioni di Sarcina, che nel merito lo ha smentito. Amara aggiunge di aver fatto una riunione con il sodale Giuseppe Calafiore e con Armanna e di aver deciso di consegnare il video al capo della security di Eni Alfio Rapisarda, perché lui, l'indagato, si è sempre «sentito sino in fondo un "uomo Eni"». Nessuno gli chiede perché di tutto ciò nulla abbiano mai riferito lo stesso Amara, Calafiore e Armanna in tre anni di «collaborazione» e neppure nel dibattimento milanese Eni/Nigeria dove Armanna e Amara sono stati sentiti. L'interrogato espone poi un argomento «assolutorio» per l'imputazione che pende nei confronti di De Pasquale e Spadaro, i quali si sono sempre difesi dicendo che di quel video si era parlato in qualche Riesame del procedimento Opl 245, senza che però il file fosse mai stato depositato. Amara gli lancia una ciambella di salvataggio, affermando che, oltre che essere stato visionato in anteprima dall'Eni, «il video è stato allegato e diffuso nell'ordinanza di custodia cautelare del marzo 2018 e al Riesame era circolato ed era stato visto da parecchia gente». Nessuno gli chiede a quale ordinanza si riferisca, chi fosse quella «gente» e in che «riesame» fosse circolato.Nell'interrogatorio Amara regala chicche anche sulla cosiddetta «Operazione Odessa», nata per fermare Armanna e le sue dichiarazioni anti Descalzi, e cita anche un fedelissimo di Massimo D'Alema, Roberto De Santis, che avrebbe gestito la «ritrattazione» di un altro «problema dell'Eni» (Pietro Varone, ex manager di una partecipata) con l'aiuto del petroliere Gabriele Volpi. Infine Amara parla di un progetto anti pm che avrebbe ideato lui stesso: «Ebbi un incontro con Lotti per verificare la possibilità di far presentare dall'Eni un esposto al Csm contro De Pasquale». Un'idea che sarebbe stata, però, bocciata dagli avvocati dell'Eni. È chiaro che ci troviamo di fronte ad accuse indimostrabili, ma nelle partite tra vecchie glorie tutto può far spettacolo.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 28 ottobre 2021. Galeotto fu il servizio clienti della Apple nel 2018. Perché solo per «colpa» di questo piccolo imprevisto commerciale emerge ora che l’ex manager Eni Vincenzo Armanna - quando nel 2016, nel procedimento per le contestate tangenti Eni in Nigeria, aveva dato come riscontro al pm milanese Fabio De Pasquale il numero di telefono dell’asserito agente segreto nigeriano Victor Nwafor in grado di confermare la narrata scena-madre della consegna in Nigeria nel 2011 al manager Eni Roberto Casula di due trolley onusti di banconote in contanti per 50 milioni di dollari poi imbarcato su un jet privato -, al magistrato aveva in realtà rifilato il numero di telefono di un dipendente di una società di un suo amico imprenditore nigeriano, Matthew Tonlagha. Lo stesso imprenditore, peraltro, al quale poi nel 2019 Armanna avrebbe raccomandato cosa rispondere alle domande su altri temi del procuratore aggiunto Laura Pedio in rogatoria internazionale. 

Uno, nessuno, centomila Victor

La gustosa scoperta è l’ultima (per adesso) puntata dell’avvincente telenovela del teste Victor Nawfor, sulla quale il processo Eni-Nigeria presieduto dal giudice Marco Tremolada aveva dovuto consumare molte udienze: prima per aspettare che questo supposto capo della sicurezza dell’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan si facesse interrogare a Milano o in videoconferenza, nell’interesse sia della difesa di Armanna sia della prospettazione della Procura; poi per assistere con sconcerto alla scena di un primo Victor che (benché garantito come tale dai pm sulla base delle assicurazioni dei colleghi nigeriani) aveva spiegato di non essere mai stato il capo della sicurezza presidenziale e di neanche aver mai visto in vita sua Armanna, il quale allora lo aveva additato al Tribunale come il Victor sbagliato;

poi, nel frattempo, per dibattere lungamente tra periti sulla possibilità tecnica o meno di quel tipo di jet di imbarcare nella stiva quel carico di banconote; e in ultimo per interrogare finalmente un secondo Victor, quello in teoria giusto, che in una lettera al Tribunale era sembrato pronto a rafforzare la versione di Armanna, ma che dal vivo invece davanti ai giudici aveva risposto di aver solo firmato quello che un amico di Armanna gli aveva fatto scrivere sotto dettatura. Con il risultato che, finita l’udienza, questo secondo teste Victor (al secolo Isaac Eke) era stato indagato e perquisito dai pm De Pasquale e Sergio Spadaro per falsa testimonianza nell’ipotesi che qualcuno ne avesse comprato in extremis il silenzio, fascicolo di cui a distanza di 1 anno e 9 mesi non si ha notizia di una definizione, né di rinvio a giudizio né di archiviazione. 

L’intercettazione casuale sullo scontrino

In compenso adesso - dagli atti che la Procura di Brescia ha raccolto nell’inchiesta sulle accuse incrociate tra pm milanesi nella gestione delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, tanto sulla associazione segreta «Ungheria» quanto sul depistaggio giudiziario che i vertici Eni Claudio Descalzi e Claudio Granata sono accusati di aver orchestrato per far ritrattare le iniziali dichiarazioni accusatorie di Armanna – viene a galla che il pm milanese Paolo Storari quantomeno dal 20 febbraio 2021 aveva segnalato a De Pasquale, a Pedio e al procuratore Francesco Greco l’urgenza di depositare al Tribunale del processo Eni-Nigeria, fra una serie di possibili prove della calunniosità di Armanna, proprio anche questa scoperta. E cioè che Armanna, mentre era intercettato il 18 maggio 2019, aveva commissionato un ordine d’acquisto del valore di 60.000 euro alla Apple, il cui servizio clienti, vista l’entità della somma, gli aveva chiesto se a pagare fosse lui: Armanna aveva allora risposto che a pagare sarebbe stata un’altra persona destinataria, di cui dunque il servizio clienti Apple aveva chiesto un riferimento telefonico. Ed era stato qui che Armanna aveva fornito un certo numero di telefono, corrispondente a un impiegato nigeriano (tale Victor Okoli) della società Fenog di un imprenditore nigeriano amico di Armanna, Matthew Tonlagha: incredibilmente lo stesso numero che il 4 maggio 2016 Armanna aveva invece spacciato al pm De Pasquale come telefono a riscontro dell’esistenza e della reperibilità del famoso Victor testimone oculare della consegna dei due trolley con i 50 milioni in contanti al top manager Eni Casula. Uno spaccato che a un romanziere cinico farebbe quasi rimpiangere che situazione si sarebbe potuta creare se per caso il Tribunale, invece di assolvere nel merito il 17 marzo 2021 tutti gli imputati di corruzione internazionale Eni in Nigeria, avesse condannato Eni, Descalzi e Casula valorizzando magari proprio la consegna dei 50 milioni in contanti che per Armanna poteva essere confermata dallo 007 Victor. 

Il plico anonimo lasciato sullo zerbino dell’Eni

Di certo va riconosciuto ai magistrati della Procura di Milano, comunque la si pensi sulle loro scelte di lavoro, la difficoltà e a tratti quasi l’angoscia di doversi districare tra «mine» (spesso oltretutto di matrice anonima) una più insidiosa dell’altra sotto le inchieste sull’Eni. Basti pensare a un’altra inedita storia che pure affiora adesso dagli atti raccolti dalla Procura di Brescia. Non si era infatti mai saputa la ragione di una visita in Procura nel 2020 del nuovo capo dell’ufficio legale del colosso energetico (Stefano Speroni) subentrato a Massimo Mantovani, cioè all’alto dirigente Eni indagato da anni con Amara e Armanna per il primo tentato «depistaggio» che nel 2015-2016, fingendo di voler accreditare un complotto anti-Descalzi, aveva sfruttato la sponda di pm compiacenti (e poi arrestati) a Potenza e a Siracusa per provare a interferire sul processo milanese Eni-Nigeria. Quel giorno Speroni consegna ai pm milanesi un plico anonimo che spiega di aver trovato sullo zerbino di casa, contenente alcune contabili bancarie. Sono carte che accreditano la riferibilità a Mantovani di una società di Dubai, Taha Limited, la quale su un conto bancario in un paradiso fiscale avrebbe 30 milioni. Sembra il perfetto materializzarsi di ciò che può fare ingolosire l’Eni post-Mantovani, teorizzatrice proprio dell’essere stata oggetto dell’infedeltà di una cordata interna Mantovani-Amara-Armanna; e anche di ciò che può molto interessare anche alla Procura, pure al lavoro sull’ipotesi che una serie di manager e avvocati interni al gruppo abbiano potuto allinearsi in una costellazione che dai maneggi giudiziari pro-Eni avrebbe ricavato corposi profitti personali. 

Una polpetta avvelenata (e una coincidenza)

Peccato – ecco il colpo di scena – che, quando il procuratore Greco e i suoi pm iniziano a verificare i documenti sfruttando anche i canali dell’Uif-Ufficio informazioni finanziarie, scoprono che quelle contabili bancarie sono false, «fabbricate» ad arte per fare sembrare che Mantovani abbia in quella società di Dubai quel bottino. Qui si apre un altro mondo di specchi e controspecchi, giacché tra i magistrati – che all’epoca avevano aperto un fascicolo a carico di ignoti per l’ipotesi di riciclaggio - si riflette se lo scopo della costruzione di quel falso puntasse a colpire Mantovani, cercando di incastrarlo o quantomeno di suggerire ai pm una pista investigativa per inchiodarlo, oppure volesse più sottilmente (e paradossalmente) aiutarlo, facendolo figurare vittima appunto di un killeraggio. Qualunque dovesse risultare la risposta allorché saranno finite le indagini, una curiosa coincidenza già adesso resta, e riguarda il nome della società, Taha. Perché il pm Storari segnala ai suoi capi che nelle intercettazioni di Armanna era capitato di ascoltarlo mentre, parlando con un amico di una somma da ricevere, gli diceva «dobbiamo incassare questi soldi... li incassiamo sul conto Taha». Chiosa Storari nell’interrogatorio ai pm bresciani: «Allora, io non arrivo a dire che è stato lui a mandare questi estratti conto tarocchi… Però questo elemento proprio nulla non è…».

Fabio Amendolara per "la Verità" il 25 ottobre 2021. Con rettifica del 22 ottobre 2021 l'Eni ha preannunciato azioni legali nei confronti del Fatto Quotidiano poiché si sarebbe «reso portavoce di calunnie e falsità» con la pubblicazione dell'articolo «Agende ritoccate. La frase non arrivò al pm del caso Eni», secondo cui il dirigente Eni Claudio Granata avrebbe incontrato il faccendiere Piero Amara e il sodale Vincenzo Armanna per «aggiustare» la testimonianza di quest' ultimo nel processo Opl 245, salvo poi modificare la propria agenda per non fare risultare l'incontro, ribattezzato da Amara come «il patto della Rinascente». È chiaro che per il quotidiano le sentenze di assoluzione della Corte di appello e del Tribunale di Milano non debbono essere risultate convincenti poiché continuano a perorare le tesi dell'accusa anche laddove si basano sulle dichiarazioni del controverso faccendiere Amara. L'Eni ha inteso precisare che le indagini hanno accertato come «falso storico» quel presunto patto e ciò risulta non solo dall'agenda di Granata, ma anche da altre prove raccolte dai pm. In ogni caso l'articolo del 22 ottobre addossa al pm Paolo Storari la responsabilità di avere sottaciuto elementi favorevoli all'accusa rappresentata da Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, e segue e precede altri articoli dello stesso tenore che tendono a individuare proprio in Storari colui che, anche prima dell'aprile 2020, avrebbe fatto circolare i verbali di Amara con l'intenzione di danneggiare l'indagine che invece il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio volevano svolgere nella più assoluta segretezza tanto da non iscrivere alcun indagato. Così il 20 ottobre 2021 viene pubblicato l'articolo: «Date incontri e colloqui. Storari parla e accusa, ma non tutto torna» nel quale si ipotizza che Storari non abbia detto la verità ai pm di Brescia sulla data della consegna dei verbali a Piercamillo Davigo. Sullo stesso argomento il giorno successivo Il Fatto pubblica: «Amara: i verbali usciti due mesi prima che li ricevesse Davigo» dove si legge: «I documenti sono nove, circolavano già all'inizio del 2020 prima che Storari li consegnasse (in questo caso solo sei, ndr) a Davigo. E continuano a girare». Anche perché, ci viene da dire, le Procure di Milano, Roma e Perugia nulla hanno fatto per impedirlo tanto che non li hanno sequestrati neppure ai giornalisti che li avevano ricevuti da un anonimo corvo.Nello stesso articolo l'inviato Antonio Massari fa sapere di avere visionato i nove verbali «non in formato word, firmati dai pm dall'indagato, dal suo avvocato», mentre quelli consegnati da Storari a Davigo ad aprile 2020 sono in formato word e non firmati. L'autore dell'articolo aggiunge anche che non è stato né un pm, né un investigatore a farglieli vedere, ma che questi nove verbali sottoscritti «erano altrove» senz' altro aggiungere se non un «indizio» per il lettore: Armanna, durante un interrogatorio del febbraio 2020 davanti a Storari e alla Pedio, sventola un «foglietto» che Storari nell'interrogatorio a Brescia descrive come «una pagina dell'interrogatorio dell'11 gennaio 2020 di Piero Amara dove si parla di Ungheria» che, ancora una volta, non viene sequestrato e quindi si «lascia in circolazione». Armanna fa, però, il nome di Filippo Paradiso che viene perquisito senza esito. Il Fatto quotidiano mostra anche un paio di foto: ritraggono due pagine dei suddetti verbali. Sono «lavorati», cioè chiosati e sottolineati. In una delle immagini si vedono i simboli dello schermo di un pc. Probabilmente quello di uno dei pm. Chi ha fatto quelle istantanee e le ha fatte girare? È stato uno degli indagati durante uno degli interrogatori? Lo ha potuto fare perché uno dei magistrati ha chiuso un occhio, favorendo così la fuga di notizie? Da tale incastro Massari arguisce che già nel febbraio del 2020, momento in cui Armanna sventola il verbale, tutti i nove verbali, timbrati e sottoscritti, fossero già «in circolazione» e quindi Davigo non può che essere ritenuto innocente avendo divulgato ciò che di fatto era già pubblico da oltre due mesi e che le tre Procure interessate non hanno mai fatto sequestrare. A noi viene da dire: cui prodest? Amara e Armanna non avrebbero potuto rivelare quanto raccontato ai pm senza bisogno di fotografare lo schermo del pc? E quante pagine immortalate di nascosto sono state divulgate? Noi possiamo testimoniare che a fine aprile su alcune chat di giornalisti ha iniziato a girare una versione del verbale reso da Amara il 6 dicembre 2019 senza firme e al Fatto e alla Repubblica nei mesi precedenti erano arrivate copie simili. Insomma la vera fuga di notizie è avvenuta con verbali uguali a quelli consegnati ad aprile del 2020 da Storari a Davigo. Il resto sono elucubrazioni.

Da ilsussidiario.net il 16 settembre 2021. Secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano, Piercamillo Davigo avrebbe denunciato il procuratore di Milano Francesco Greco, in seguito all’intervista rilasciata da quest’ultimo al Corriere della sera nella quale ha sganciato una serie di “bombe” e pesanti accuse nei confronti dell’ex collega del pool di Mani pulite. “In realtà la notizia della denuncia l’ha data solo Il Fatto Quotidiano” ci ha detto in questa intervista Frank Cimini, giornalista già al Manifesto, Mattino, Agcom, Tmnews e attualmente autore del blog giustiziami.it, “ma Il Fatto Quotidiano e Davigo sono una cosa unica, per cui sarà senz’altro vero”. Siamo all’ultimo scontro, quello finale, alla resa dei conti all’interno di una Procura, quella di Milano, sconvolta ormai da mesi da lotte intestine e indagini penali e disciplinari. Una frana che si porta dietro anche Mani pulite, considerata per anni il volto buono della giustizia italiana: “Mani pulite avrebbe dovuto scomparire già nel 1993 – sottolinea Cimini – ma allora i magistrati avevano il consenso di milioni di italiani che si erano fatti abbindolare. Anche Berlusconi ci credeva, poi l’ha pagata in prima persona. Greco nella sua intervista ha detto un sacco di sciocchezze, è la fine di una bruttissima pagina della giustizia, ma in realtà con una politica incapace di prendere decisioni non ne veniamo fuori”.

A che livello siamo arrivati in questo scontro tra magistrati?

Siamo arrivati alla fine che queste persone dovevano già fare nel 1993. 

Perché non successe allora?

Non successe perché avevano il consenso di 50 milioni di persone, che non capivano nulla e che si sono fatte abbindolare. Avevano un consenso popolare assolutamente immotivato e ingiustificato, che però fu lo strumento con cui sono andati avanti, udienza dopo udienza, per trent’anni.

I magistrati di Mani pulite non erano sinceramente convinti di essere super partes, di fare un’opera di pulizia?

No, loro volevano il potere. E la politica, con le decisioni assunte negli anni del terrorismo, li aveva aiutati. Per cui i magistrati volevano riscuotere quel credito e volevano il potere. Ci fu la famosa intervista di Borrelli in cui disse al Corriere: “se dovessimo essere chiamati per una missione di complemento noi saremmo pronti”. 

Una roba stile dittatura sudamericana?

In nessun paese del mondo civile può succedere una cosa del genere. I magistrati sono dei vincitori di un concorso che devono indagare le prove e portare le persone davanti a un tribunale. 

Invece?

Questi pensavano a tutt’altro. 

Davanti a tutto quello che stiamo vedendo, si può dire oggi che Berlusconi è stato perseguitato?

Sono vere le due cose. Berlusconi ha avuto delle colpe precise, sto parlando di evasione fiscale. Però è vero che ce l’avevano con lui ed è anche vero che se l’80% dei processi erano fondati, l’altro 20%, ad esempio quello su Ruby, ha dimostrato che c’era accanimento nei suoi confronti. Berlusconi non aveva capito niente, all’inizio Mani pulite andava bene anche a lui, quando le sue televisioni con Brosio dietro al tram facevano da megafono al pool. In realtà tutto divenne chiaro dall’estate del ’93 quando arrestarono il manager Fininvest Aldo Brancher, un ex sacerdote braccio destro di Fedele Confalonieri. Berlusconi invece aveva detto che c’era bisogno di Mani pulite perché c’era bisogno di pulizia, ma la pulizia non si fa così, indagando dove si vuole e chi si vuole, con sponde politiche, lasciando fuori dalle indagini Pci e Pds, e i poteri forti come Mediobanca e Fiat.

Adesso si scannano tra loro, è così?

Quello che sta succedendo adesso è la giusta fine di questa storia. Litigano fra loro, l’uso delle carte giudiziarie contro gli avversari lo praticano anche loro e lo praticano tra loro. 

Greco con l’intervista al Corriere ha sparato diverse “bombe”, però fra due mesi va in pensione e sparisce dalla scena…

Greco considera quell’intervista il suo testamento morale e dice un sacco di cose che non stanno in piedi.

Ad esempio, sostiene di aver recuperato un sacco di soldi per l’erario, ma in realtà ha abdicato alla sua funzione sostituendosi all’Agenzie delle entrate nelle vicende dei colossi del web e questi hanno pagato un decimo di quello che avrebbero pagato se fossero andati a processo. 

E comunque il compito di un procuratore non è quello di recuperare soldi per il fisco, ma di portare le persone in tribunale per appurare se sono colpevoli o innocenti. 

Se ne va auto-incensandosi?

Straparla di questo pool dei reati transnazionali, che in realtà ha incassato in tribunale un sacco di sconfitte. La cosa brutta non è tanto questa, quanto il fatto che per cercare di rivoltare la frittata hanno mandato a Brescia delle fandonie di Amara che mettevano in cattiva luce il presidente del tribunale nella speranza che si astenesse dal processo, in modo che fosse svolto da un altro. E sperando così di vincerlo. Hanno fatto manovre da magliari.

Ci sarebbe da ridere se in mezzo non ci fossero i cittadini italiani e la giustizia.

Mi ricordo le parole di D’Ambrosio quando una volta gli dissi: ma Greco che cavolo combina? 

Cosa rispose?

Disse: sulle cose che fa Greco nessuno di noi ha il coraggio di dire qualcosa. Un’altra volta Greco, per la storia di toghe sporche, fu avvicinato a Roma dal magistrato Francesco Misiani che voleva sapere di chi era la microspia trovata nel bar Tombini di Roma (intercettazioni telefoniche tra l’allora capo della Procura di Roma, Michele Coiro, e il capo dei gip, Renato Squillante, ndr).

Greco non rispose, giustamente mantenendo il segreto, però tornato a Milano denunciò Misiani a Borrelli. Gli dissi: ma non ti vergogni a denunciare il magistrato di cui sei stato uditore giudiziario? Lui rispose: se non l’avessi fatto, la Boccassini mi avrebbe arrestato.

Però, proprio un bell’ambientino…

Sto parlando del 1996, erano già pronti ad arrestarsi fra loro.

Di tutto questo, a noi cittadini cosa resta?

Bella domanda. Intanto l’Italia ci ha messo trent’anni a capire che razza di gente erano davvero, e poi non è proprio così. L’intervista a Greco è stata liquidata in poche righe dall’Ansa, nessun politico ha fatto un commento. Purtroppo siamo in una fase storica in cui la politica non esiste, esiste solo Draghi. 

(Paolo Vites)

(ANSA l'8 ottobre 2021) - La procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione per il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d'ufficio per il caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Chiuse invece le indagini, come riportano alcuni quotidiani, per l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e per il pm milanese Paolo Storari e per l'aggiunto Fabio De Pasquale e il pm, ora alla procura europea, Sergio Spadaro.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 22 ottobre 2021. In Procura a Milano non hanno ancora finito di interrogare sia l'ex avvocato esterno Eni Piero Amara sia il suo sodale ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, tacciati d'essere calunniatori dal pm Paolo Storari e al centro anche del terremoto creato dal modo (contestato da Storari ma rivendicato dai suoi capi) con il quale la Procura di Milano scelse nel 2019-2020 di temporeggiare sulle dichiarazioni di Amara circa la presunta associazione segreta «Ungheria». Ma la notizia non è questa, perché è stato un diritto di Amara e Armanna chiedere di farsi di nuovo interrogare su un altro segmento d'imputazione, notificata in luglio dal procuratore aggiunto Laura Pedio su pungolo dell'avocazione chiesta dall'ex avvocato di Armanna, Luca Santa Maria: l'aver cioè calunniato Santa Maria nel 2017 per far ritrattare le accuse di Armanna ai vertici Eni e sperare di far innescare un processo disciplinare contro il pm Fabio De Pasquale. L'aspetto interessante degli interrogatori è invece chi è andato a farli: il procuratore Francesco Greco quello di Amara in carcere a Terni, la sua vice Pedio quello di Armanna. È infatti proprio per omissione d'atti d'ufficio sui verbali 2019-2020 di Amara che Greco è stato indagato in estate dalla Procura di Brescia, la quale di recente ha chiesto una archiviazione che attende di essere accolta o respinta dal gip. Il che non ha quindi fatto sentire a disagio il procuratore, il quale, come di rado accade, ha scelto di compiere direttamente un atto di indagine in una inchiesta di cui non è titolare, evidentemente per non sovraesporre la titolare Pedio: alla quale ha affiancato nel fascicolo due pm (Stefano Civardi, presente all'interrogatorio con Greco, e Monia Di Marco), e verso la quale Amara nel programma tv «Piazza Pulita» si era sperticato in elogi («La donna più intelligente mai incontrata») inversamente proporzionali al risentimento ostentato verso Storari. Armanna è stato invece interrogato proprio da Pedio, anch' ella dunque non sentitasi condizionata dal fatto di essere in questo momento indagata dalla Procura di Brescia per l'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio appunto su Armanna: cioè per non averlo indagato per calunnia dei vertici Eni sulla base delle prove segnalate dal coassegnatario pm Storari a lei, a Greco e (tramite Greco) a De Pasquale.

L’accusa di Storari: «Non dovevo danneggiare il processo Eni». Le dichiarazioni del pm Storari ai colleghi di Brescia: «Operazione chirurgica di selezione delle cose che facevano comodo» a De Pasquale nel dibattimento. Simona Musco su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. Una guerra senza esclusione di colpi. E accuse incrociate, che confermano quello che ormai per tutti è chiaro: la procura di Milano è un colabrodo. Al centro di tutto sempre la vicenda Eni e il ruolo di Piero Amara, ex avvocato esterno della società, che con le sue dichiarazioni ha tirato in ballo mezzo mondo delle istituzioni. Lo ha fatto parlando della presunta “Loggia Ungheria”, sulla quale il pm milanese Paolo Storari avrebbe voluto fare chiarezza, non riuscendoci, a suo dire, per il presunto ostracismo dei vertici della procura. E il motivo, secondo quanto racconta il magistrato davanti ai colleghi di Brescia, è uno solo: non far morire il processo Eni- Nigeria screditando il grande accusatore Vincenzo Armanna. Il processo si è concluso comunque con l’assoluzione di tutti gli imputati. Ma stando ai verbali di Brescia, l’indagine sulla presunta associazione segreta sarebbe dovuta rimanere ferma «almeno due anni». O almeno questa sarebbe stata la richiesta, secondo Storari, avanzata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che nel processo a Eni rappresentava l’accusa assieme al collega Sergio Spadaro. Le posizioni di tutte le parti in causa sono ora cristallizzate nei verbali raccolti dalla procura di Brescia, che nei giorni scorsi ha chiuso le indagini su Storari e Piercamillo Davigo (che ha ricevuto dal primo i verbali di Amara come forma di «autotutela»), accusati di rivelazioni di atti d’ufficio, nonché su De Pasquale e Spadaro ( nel frattempo passato alla procura europea) per rifiuto d’atti d’ufficio. In ballo rimane anche l’aggiunta Laura Pedio, sulla quale sono ancora in corso le indagini per omissione d’atti d’ufficio per non aver proceduto con le iscrizioni dei primi indagati in relazione alla vicenda Ungheria. Accusa che era stata mossa anche nei confronti del procuratore Francesco Greco, l’unico la cui posizione è stata archiviata, ma le cui dichiarazioni sono non per questo secondarie. «Io per De Pasquale sono sempre stato un soggetto da tenere alla larga su questa vicenda perché più volte (…) diceva che io gli rovinavo il processo. Perché per lui Armanna (Vincenzo, grande accusatore di Eni, ndr) era un soggetto un po’ particolare ma che a lui credeva. Dicevo: “Guarda Fabio… secondo me è un calunniatore”», raccontava a maggio scorso Storari davanti al procuratore bresciano Francesco Prete. Secondo il pm, i suoi superiori non volevano dunque «disturbare» il processo Eni- Nigeria. E Pedio, che con lui condivideva il fascicolo sul “Falso complotto Eni”, nel quale erano confluite le dichiarazioni di Amara su Ungheria, prima della sentenza di assoluzione avrebbe riferito «l’insofferenza di De Pasquale», cristallizzata nella frase «la devi smettere di intralciare il mio processo» e nella richiesta «di non dire in giro» che Armanna era da considerare poco credibile, in quanto «crea un clima ostile» in aula. «Questa indagine deve rimanere ferma due anni», avrebbe fatto sapere De Pasquale a Storari tramite la collega, come emerso dall’interrogatorio dello scorso 15 settembre di Pedio davanti al procuratore Prete e al pm Donato Greco. Storari aveva puntato il dito contro lei e il procuratore Greco, rei, a suo dire, di «selezionare e trasmettere a De Pasquale quello che gli serve nel processo Eni- Nigeria e a non trasmettere quel che lo danneggia». Come, ad esempio, le accuse di Amara al presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada, ma non le presunte falsificazioni di chat e il presunto pagamento di un testimone. E per confermare la sua posizione, Storari avrebbe tirato fuori una mail di De Pasquale riguardo a dei verbali finiti nel fascicolo sul complotto: «Mi raccomando – avrebbe detto l’aggiunto – io le parti evidenziate in giallo le voglio… non fate troppe storie… me le dovete trasmettere». Insomma, «una operazione chirurgica di selezione delle cose che fanno comodo» a De Pasquale nel dibattimento e un’esclusione a priori di tutto ciò che, invece, lo avrebbe danneggiato. Pedio, però, ha evidenziato che «Storari cominciò a mandare degli elaborati… anche abbastanza complessi» di «100, 150 pagine l’uno (…) Molto di difficile lettura – ha riferito -. A me francamente non era chiaro cosa dovevano depositare i colleghi in dibattimento». Punto sul quale anche il procuratore Greco si è detto d’accordo. Pedio ha spiegato anche il suo atteggiamento in relazione all’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria. «Rispetto a una notizia di reato così fluida, quindi noi mettevamo sotto intercettazione tutte le istituzioni italiane (…) andavamo dal Papa in giù? Questo era quello che si doveva fare? Secondo me no. E lo rivendico», ha affermato. Secondo Storari, invece, proprio quella genericità avrebbe richiesto un approfondimento, ma i vertici della procura «non intendevano fare nulla». I primi tre nomi quelli di Amara, Giuseppe Calafiore e Fabrizio Centofanti – vennero iscritti il 12 maggio 2020, cinque mesi dopo l’ultimo verbale dell’ex legale di Eni. Ma dai verbali di Brescia emerge anche un altro dettaglio: secondo quanto testimoniato da un investigatore, quando da alcune chat era emerso che Armanna avrebbe pagato dei testimoni, Pedio avrebbe chiesto di «espungere» il riferimento a quegli accertamenti dalla relazione. «In pratica – ha affermato l’investigatore – ci chiese di verificare il riscontro della dazione per vedere se fosse vero che Armanna aveva fatto pervenire 50mila dollari a Ayah ( un teste nigeriano, ndr). Aderimmo alla richiesta della dottoressa Pedio e depositammo la relazione definitiva espungendo la frase (…) togliemmo dalla definitiva anche i paragrafi relativi al pagamento, informando Storari che decise di emettere un ordine di indagine europeo per verificare questo pagamento». Insomma, quando dagli accertamenti sul telefono di Armanna «vengono fuori una serie di falsità, si cerca di creare uno schermo per evitare che queste falsità» vengano «messe a conoscenza delle difese e anche del Tribunale che stava celebrando il processo Eni- Nigeria». 

Alfredo Faita per editorialedomani.it il 22 ottobre 2021. «Amara ha bevuto questa notte. Ha ancora tempo di fare le sue considerazioni». Queste poche parole celano uno dei tanti misteri e delle tante inquietudini che avvolgono l’inchiesta bresciana sul procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, indagato per rifiuto d’atti ufficio insieme al collega Sergio Spadaro. I due pubblici ministeri che hanno retto l’accusa nel processo per corruzione internazionale Eni–Shell Nigeria (tutti assolti) e che ora si trovano indagati loro stessi dai colleghi bresciani proprio per la conduzione di quel processo. Piero Amara è l’ex legale esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della presunta loggia Ungheria per la quale risulta adesso indagato dalla procura di Perugia insieme al politico di Forza Italia Denis Verdini e a Luigi Bisignani, tra gli altri. Quelle poche parole, contenute in una mail, risultavano inviate da “Fabio De Pasquale” a Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni poi allontanato che è stato imputato nel processo nigeriano dell’Eni nel quale ha anche accusato i vertici della sua ex società di aver pagato una maxi tangente per ottenere i diritti di sfruttamento del giacimento Opl 245. Chi inviava la mail voleva avvertire Armanna dell’arresto di Amara. E quindi il procuratore aggiunto di Milano si sarebbe messo al servizio di un suo imputato per avvertirlo dei guai dell’avvocato siciliano? Questo è quello che ha sospettato il pm milanese Paolo Storari, che dal 2019 indagava sul famoso «complotto» ai danni della procura (Armanna è anche in questa indagine) e dalle cui accuse a Brescia è nato il procedimento a carico di De Pasquale, oltre che quello sul procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio accusati di inerzia nelle indagini sulla loggia Ungheria. Per verificare quella mail Storari ha messo in piedi un’intelligence corposa – ben tre relazioni sul caso – ma non autorizzata, chiedendo alla Guardia di Finanza di verificare questa clamorosa ipotesi, finendo poi per scoprire che l’indirizzo email associato a quella mail era di un omonimo del magistrato iscritto all’Aire e con dimora a Dubai. Caso chiuso e un bel respiro di sollievo per tutti? Non proprio, perché questa circostanza è comunque finita in una famosa bozza compilata dalla Gdf contenente tutta una serie di rilievi su Vincenzo Armanna, in particolar modo sulla sua volontà di procurarsi prove e testimonianze utili alla sua linea processuale di attacco ai vertici Eni pagando 50 mila dollari a personaggi nigeriani. Bozza nella quale non si è dato conto del fatto che l’email non era riferibile a De Pasquale e che è stata inviata lo scorso 15 febbraio a De Pasquale e Spadaro, a pochi giorni dalla sentenza Eni Nigeria, chiedendo loro di avvertire il Tribunale delle manovre oscure che aveva messo in piedi Armanna in modo da riconsiderare la sua posizione. I due pm non fecero nulla di ciò, considerando quella bozza un’accozzaglia di elementi messa sul loro tavolo in modo «pretestuoso» e «inusitato», «una polpetta avvelenata» come ha detto lo stesso De Pasquale al procuratore di Brescia Francesco Prete durante un interrogatorio lo scorso 27 settembre. Per De Pasquale quella bozza era «assurda interferenza nel nostro processo» che si sarebbe concluso i lì a breve, che cozzava contro l’articolo 53 del codice di procedura penale che sancisce l’autonomia del pubblico ministero in udienza. Una norma importante quando i processi sono di grande rilevanza, come quello nigeriano che discende da accordi Ocse, e di grande buonsenso in verità: si pensi a cosa potrebbe succedere se ogni pm potesse intervenire nei procedimenti dei colleghi interferendo sulla loro linea processuale e sulle prove riversate nel fascicolo del tribunale. Sarebbe il caos ovviamente. Ma perché Storari si è spinto fino al punto di voler intervenire con quella mail il 15 febbraio «senza un’anticipazione verbale, senza una richiesta di confronto» in un procedimento di cui, peraltro, non conosceva nulla come ha sottolineato il magistrato milanese al collega bresciano che lo interrogava? La risposta di De Pasquale è molto dura sul punto: «Ha fatto la difesa dell’Eni, ha fatto una cosa utile alla difesa, punto e basta». Anche sui 50mila euro di Armanna, che avrebbero dovuto pagare i testimoni e le prove a supporto della sua tesi, De Pasquale ha risposto in modo preciso. «Abbiamo detto 100 volte durante la requisitoria che Armanna non era credibile», chiedendo per lui una pena di 6 anni e 8 mesi durante le conclusioni, e lo stesso Prete ha riportato le parole di Storari, dicendo che il pm accusatore «non ha per onestà mai detto che i 50mila dollari fossero per corrompere un testimone», ma che la promessa di pagamento era un «fatto» di cui il tribunale andava messo al corrente. Una marcia indietro rispetto alle prime accuse, come ha fatto notare a Prete anche lo stesso De Pasquale. Il quale ha anche ribadito la sua posizione su un altro elemento considerato forte nel processo nigeriano: il famoso video girato da Amara ad Armanna nel quale quest’ultimo minacciava di far scendere «una montagna di merda» sui vertici dell’Eni se non lo avessero accontentato. Le difese degli imputati avevano contestato ai due pm che quel video non era stato depositato dall’accusa a inizio procedimento, sottraendolo al giudizio del giudice. Ma sia Eni sia il collegio presieduto dal giudice Marco Tremolada erano al corrente della sua esistenza. L’elenco delle pesanti inquietudini intorno all’inchiesta nata dalle accuse di Storari tocca anche la pm Laura Pedio, attualmente indagata mentre la sua inchiesta sul complotto e depistaggio ai danni dei colleghi che investigavano su Eni e Saipem è ancora aperta. «Rispetto a una notizia di reato così fluida (le rivelazioni di Amara su Ungheria, ndr), quindi noi mettevamo sotto intercettazione tutte le istituzioni italiane, noi prendevamo i tabulati di tutte le istituzioni italiane, andavamo dal Papa in giù? Questo era quello che si doveva fare? Secondo me no. E lo rivendico» ha detto ai magistrati bresciani. 

Frank Cimini per giustiziami.it il 22 ottobre 2021. A poco meno di un mese dalla pensione il procuratore Francesco Greco si occupa personalmente dell’interrogatorio dell’avvocato Piero Amara, ex legale dell’Eni nonostante la gestione relativa sui verbali delle precedenti deposizioni sia costata al magistrato l’indagine per omissione in atti d’ufficio. La procura di Brescia ha chiesto l’archiviaziobe e si è in attesa della decisione del gip. Ma il problema riguardo alle scelte di Greco non è prettamente penale. Anzi. Ragioni di opportunità avrebbero dovuto indurre il procuratore a fare a meno di procedere lui al nuovo interrogatorio chiesto da Amara. C’è un evidente conflitto di interessi dal momento che Greco è il suo aggiunto Laura Pedio sono finiti nei guai proprio perché non aver proceduto alle iscrizioni sul registro degli indagati delle persone accusate da Amara di far parte dell’ormai famosa loggia Ungheria. E come se non bastasse l’aggiunto Pedio ha interrogato Vincenzo Armanna il sodale di Amara. Sia Armanda sia Amara erano stati tirati in ballo dal pm Paolo Storari come “calunniatori” ma i vertici della procura facevano finta di niente perché entrambi erano testimoni di accusa al processo Eni/Nigeria poi finito con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il quadro che emerge è quello di una procura allo sbando dove i pm si accusano tra loro a verbale davanti ai colleghi di Brescia e dove il capo dell’ufficio si comporta come se non fosse accaduto nulla. Il tutto in attesa che il Csm decida il nome del successore di Francesco Greco. Ma il cosiddetto organo di autogoverno dei magistrati si occuperà prima della procura di Roma dove dovrà scegliere il successore di Michele Prestipino attualmente in carica la nomina del quale è stata bocciata dal TAR e dal Consiglio di Stato. I tempi insomma per il caso Milano non si annunciano brevissimi. Nel frattempo la procura del capoluogo lombardo vedrà coincidere il trentesimo anniversario di Mani pulite con il periodo più buio della sua storia. Forse è l’ennesima occasione per avviare una riflessione seria per capire che quella del 1992 1993 non fu vera gloria. 

La faida tra magistrati per la procura di Milano. Già in moto i "cecchini". Luca Fazzo il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. Greco in pensione a novembre: silurato Amato, tra i papabili alla sua successione. I l copione si ripete immutabile, da anni. Ogni volta che all'interno della magistratura iniziano le manovre per la assegnazione di una poltrona importante, una carica in grado di controllare processi e inchieste, arriva quello che Luca Palamara nel suo libro chiama «il Cecchino». Contro uno dei candidati, mani misteriose fanno inevitabilmente partire scoop e voci. Il risultato viene quasi sempre raggiunto: il candidato viene azzoppato, la strada viene aperta ad altri nomi. È quanto sta accadendo anche nella partita per una delle nomine più importanti della magistratura italiana: la nomina del Procuratore di Milano, il successore di Francesco Greco, l'attuale capo che andrà in pensione il prossimo 13 novembre. E a venire preso di mira è uno dei più autorevoli candidati alla carica: Giuseppe «Jimmy» Amato, attuale capo della Procura di Bologna. Un magistrato esperto ed equilibrato, uscito immacolato anche dalle chat di Palamara (nonostante appartenesse alla sua stessa corrente, Unicost). E ora alle prese con noie disciplinari quanto mai tempestive. I problemi nascono dalle carte inviate al Consiglio superiore della magistratura dalla Procura di Trento, guidata da Sandro Raimondi. Raimondi dirige una indagine delicata sul lato oscuro della Cantina di Mezzocorona, uno dei colossi del vino trentino, protagonista dell'acquisto di alcuni terreni in Sicilia riconducibili ad ambienti mafiosi: tra cui il famoso «Feudo Arancio», che avrebbe portato al superlatitante Matteo Messina Denaro. La Procura di Trento sequestra i terreni, il presidente della Mezzocorona Luca Rigotti fa ricorso al Riesame e vince. Rigotti è amico del presidente del tribunale, Guglielo Avolio, che si astiene dall'udienza. Ma l'autista di Rigotti viene intercettato mentre parla con un avvocato: salta fuori che Avolio «ci ha confezionato un collegio sicuro». La Procura di Trento trasmette le intercettazioni al Csm. E il presidente Avolio viene rimosso dall'incarico. Ma nelle intercettazioni partite per Roma c'è anche dell'altro. Sono conversazioni dove appare anche Jimmy Amato, che conosce bene l'ambiente trentino perché sotto la Paganella ha lavorato per anni. Amato pare che venga intercettato mentre parla con Rigotti: è una conversazione che la Procura di Trento considera neutra, irrilevante, e che trasmette a Roma solo per completezza. Ma qui qualcuno la nota, e decide di usarla contro Amato. E parte il tam tam. La corsa per la Procura milanese ufficialmente è ferma ai blocchi di partenza. Prima di metterla all'ordine del giorno, il Csm deve risolvere un'altra faccenda spinosa, la nomina del procuratore di Roma, dopo che la scelta dell'attuale capo Michele Prestipino è stata annullata dal Tar. Il fascicolo su Roma a quanto pare non verrà chiuso prima della fine di novembre, e solo a quel punto inizierà la discussione sul nuovo capo di Milano: scelta delicata, perché si tratta di portare la Procura ambrosiana fuori dalla palude di veleni in cui è affondata negli ultimi mesi. Infatti dietro le quinte le grandi manovre sono già iniziate intorno alle nove candidature arrivate al Csm. Tre appaiono in pole position: quelle di Amato, del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e del procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. Ma Viola è destinato verosimilmente a Roma, e Romanelli rischia di essere penalizzato dall'avere compiuto a Milano quasi tutta la sua carriera: una volta sarebbe stato un vantaggio, con l'aria che tira è divenuto un handicap. Così la candidatura di Amato sembrava presentarsi come la scelta più naturale. Fino a quando è arrivato il Cecchino.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Sandro De Riccardis e Luca De Vito per “la Repubblica” il 21 ottobre 2021. Una procura devastata dalla gestione dei procedimenti Eni Nigeria, "falso complotto Eni" e loggia Ungheria. Con il pm Paolo Storari che accusa i colleghi - il capo della procura Francesco Greco e gli aggiunti Fabio De Pasquale e Laura Pedio - di non aver voluto prendere atto dell'inattendibilità del principale testimone (e imputato) del processo contro Eni, l'ex manager Vincenzo Armanna. E di non aver voluto indagare sui presunti iscritti alla loggia svelati dall'avvocato Piero Amara. «Mi sono fatto un'idea che almeno con riferimento al processo del falso complotto, i nostri Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori», scrive in una mail ai colleghi Storari. «Calunniatori delinquenti». E di De Pasquale, in un interrogatorio a Brescia, dice: «È la visione del tunnel che lo ha preso, cioè lui poteva avere la prova che Armanna non.. lui andava dritto.. io l'ho studiata questa visione del tunnel.. uno entra in una spirale che tu puoi fargli vedere quello che vuoi.. ma lui sara sempre negativo. De Pasquale ha la visione del tunnel». Il procuratore aggiunto De Pasquale (indagato per rifiuto di atti d'ufficio con Spadaro), a sua volta, davanti ai pm bresciani non risparmia critiche al collega. «Lui (Storari, ndr ) ha fatto la difesa dell'Eni... ha fatto una cosa che tornava utile alla difesa, punto e basta... in una maniera molto impropria (). Storari non è la misura del diritto, cioè lui non è il codice di procedura penale, non è che uno deve fare quello che dice Storari..». E sull'attendibilità di Armanna, il pm Spadaro nel suo interrogatorio rivendica come avessero già fatto la tara ad Armanna: «il suo ruolo per il processo è stato fortemente esaltato dai media, dalla vulgata che ne è venuta fuori.. ma nella realtà è stato limitato.. ridimensionato da quello che è successo nel dibattimento». «Indagine due anni nel cassetto» Davanti al procuratore di Brescia Francesco Prete e al pm Donato Greco, Storari (indagato per rivelazione di atti d'ufficio) ricorda l'interrogatorio del socio di Amara, Giuseppe Calafiore, che aveva confermato l'esistenza della loggia. «Amara e Calafiore.. e a tre mesi dalle dichiarazioni, noi non si iscrive nessuno e non si fa nessuna attività investigativa, nonostante almeno due si autoaccusano. Io dico: vogliamo iscriverli per la legge Anselmi? Oppure per calunnia. Ma qualcosa dobbiamo iniziare a fare ». In un altro passaggio Storari ricorda: «De Pasquale mi disse: "questo fascicolo dobbiamo tenerlo nel cassetto per due anni"». Ieri la procura di Perugia ha indagato i primi cinque soggetti nell'inchiesta sulla "Ungheria", tra cui Luigi Bisignani e Denis Verdini. Le chat con il procuratore Storari racconta dell'appunto che manda all'aggiunto Laura Pedio (indagata per omissione di atti d'ufficio). «Direi che a stretto giro protremmo iniziare a iscrivere e fare tabulati ». le scrive. Storari prepara una scheda di iscrizione funzionale ai tabulati di Amara. «Ho letto il tuo provvedimento e se non ho capito male hai disposto iscrizioni senza concordarla con il pm codelegato - gli scrive in chat Greco - . Francamente lo trovo sconcertante, non lo avevo mai visto prima». La guerra dei depositi Sullo sfondo della vicenda Amara, c'è il processo Eni Nigeria. Elementi sulla scarsa credibilità di Armanna, arrivano ai titolari dell'inchiesta, Spadaro e De Pasquale, da Storari che sul complotto con Pedio. Dice De Pasquale, rispondendo alle domande dei pm bresciani: «Eravamo al 19 (febbraio, ndr ), mi metti in mano una polpetta avvelenata, una trappola.. abbiamo detto: cosa significa questa cosa scritta così?».  Il riferimento è alla mail arrivata a ridosso della prevista sentenza (che vedrà assolti i vertici di Eni): «questa iniziativa era fortemente sospetta.. una trappola». I pm bresciani chiedono perché quegli elementi non siano stati messi a disposizione del tribunale e delle difese. «C'è una norma del codice che dice che il pubblico ministero si assume la responsabilità di quello che fa nel processo.. - dice De Pasquale - . Mi sarebbe sembrato un modo di ridicolizzare la pubblica accusa, e fare degli accertamenti su qualcosa che il tribunale aveva giudicato irrilevante. E perché questi accertamenti li stava già facendo Storari».

Storari e il caso Amara: "De Pasquale mi fermò". Luca Fazzo il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il Pm rivela le pressioni subite per il fascicolo sulla loggia Ungheria: "Resti 2 anni nel cassetto". Che nella Procura di Milano stessero volando gli stracci, conclusione ingloriosa di una stagione durata trent'anni, era chiaro. Ma nessuno poteva immaginare che lo scontro fratricida avesse raggiunto asprezze come quelle che emergono dai verbali di interrogatorio dei protagonisti dello scontro: il procuratore Francesco Greco, i suoi «vice» Fabio De Pasquale e Laura Pedio, il pm Paolo Storari. Tutti incriminati per un motivo o per l'altro dalla Procura di Brescia (ma per Greco è imminente l'archiviazione) e tutti interrogati nelle settimane scorse. Alla fine tutto verte sullo stesso tema, la gestione da parte di De Pasquale del processo all'Eni e i suoi tentativi di salvare la faccia dell'avvocato Pietro Amara, da lui utilizzato come superteste. E che invece con le sue rivelazioni a Storari sulla presunta loggia Ungheria appariva sempre più come un avvelenatore di pozzi, un calunniatore di mestiere al servizio di manovre e interessi oscuri. Non c'era solo, si scopre ora, da salvare il processo Eni. Storari rivela (e Greco in parte lo conferma) come il guaio fosse che Amara chiamava in causa come membro della loggia il generale Giuseppe Zafarana, comandante della Guardia di finanza. Storari racconta così un colloquio con Greco: «Gli dico: Francesco, ma tu a ste robe che dice Amara ci credi? Sì, Paolo, io ci credo, però lì dentro si parla di Zafarana, e io adesso Zafarana non lo voglio toccare... non voglio rompere le balle perché mi serve per sistemare il colonnello Giordano che deve andare al Nucleo di Polizia Valutaria di Roma». Si tratta di Vito Giordano, oggi generale, l'investigatore di fiducia della Procura di Milano. Greco invece la racconta così: «Il mio problema era: a chi facciamo fare le indagini? Avevo un problema di esposizione degli uomini. Perché non volevo esporre gli uomini del Nucleo GdF di Milano a un problema non marginale, se dire o no qualcosa a Zafarana, che se poi non lo dicono vengono sparpagliati tra Pantelleria e Lampedusa». Qualunque sia il vero motivo, il risultato è che l'indagine invocata da Storari non parte: né su Amara né su Zafarana e gli altri presunti «ungheresi». L'indagine non parte perchè non doveva partire. Storari dice di averlo appreso esplicitamente dal procuratore aggiunto De Pasquale: che non si fidava di lui, «ero da tenere alla larga, diceva che gli rovinavo il processo Eni». «A dicembre 2019 ho un interlocuzione con il dottor De Pasquale, Amara sta parlando di Ungheria da un paio di settimane e De Pasquale mi dice: questo fascicolo deve rimanere per due anni nel cassetto». «Mi ero sentito dire di infrattare il fascicolo», sintetizza Storari. Un ordine di una gravità inaudita, al quale Storari racconta di avere reagito chiedendo aiuto a Piercamillo Davigo. Ma, interrogato, anche lui a Brescia, De Pasquale nega tutto. E ribalta su Storari l'accusa di essersi schierato di fatto dalla parte dei vertici Eni sotto accusa (ma poi assolti) per corruzione internazionale: «Storari ha fatto la difesa dell'Eni. Una cosa che tornava utile alla difesa, in una maniera molto impropria». Come e quando si possa uscire da questa palude di accuse reciproche è impossibile prevederlo. Nel frattempo, per capire il clima che i verbali di Amara avevano creato in una Procura già allora disorientata e divisa, la deposizione più chiara è quella del procuratore aggiunto Laura Pedio. É l'unica, dei magistrati milanesi inquisiti, di cui la Procura di Brescia non abbia ancora deciso la sorte. Interrogata sulla sua gestione dei verbali sulla loggia, la Pedio dice: «Rispetto a una notizia di reato cosi' fluida, quindi noi mettevamo sotto intercettazione tutte le istituzioni italiane, noi prendevamo i tabulati di tutte le istituzioni italiane, andavamo dal Papa in giù? Tutti i tabulati? Questo era quello che si doveva fare? Secondo me no. E lo rivendico». Ci sta. Ma c'era un'altra strada: incriminare Amara e i suoi compari per calunnia. Ma così si sarebbe rovinato il processo Eni...

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'obiettivo? Tutelare Amara da possibili accuse di calunnia. Loggia Ungheria, la rivelazione di Storari: “De Pasquale decise di insabbiare l’indagine”. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. «Questo fascicolo dobbiamo tenerlo chiuso nel cassetto per due anni». A dirlo sarebbe stato il procuratore di Milano Fabio De Pasquale rivolgendosi al pm Paolo Storari che voleva fare indagini sulla loggia Ungheria. La circostanza, incredibile in Paese dove vige l’obbligatorietà dell’azione penale, è stata raccontata nelle scorse settimane dallo stesso Storari ai pm di Brescia che hanno indagato De Pasquale ed il suo vice Sergio Spadaro per omissione d’atti d’ufficio. Le parole di Storari, in attesa di riscontri, aprono scenari inquietanti sulla gestione dei fascicoli da parte della Procura di Milano. Piero Amara, interrogato alla fine di dicembre del 2019 da Storari e dalla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio, aveva rivelato, come più volte ricordato, l’esistenza di questo sodalizio paramassonico finalizzato alle nomine dei magistrati e a condizionare i processi. Amara aveva elencato oltre quaranta nomi fra alti magistrati, generali, professionisti, avvocati, che avrebbero fatto parte di questa loggia super segreta. Storari, tra i più stretti collaboratori di Ilda Boccassini all’antimafia, come riferito ai colleghi bresciani, conclusi gli interrogatori di Amara, aveva chiesto ai suoi capi di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e l’acquisizione dei tabulati telefonici a riscontro delle parole dell’avvocato siciliano. La risposta sarebbe stata un rifiuto. Il motivo? Lo spiega sempre Storari secondo il quale ci sarebbe stata all’epoca una precisa linea da parte dei vertici della Procura di Milano che prevedeva di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, perché quest’ultimo sarebbe tornato utile come teste. Allo stesso modo, sempre secondo Storari, tutte le prove raccolte sull’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, tra cui chat falsificate e molto altro, nel fascicolo sul cosiddetto “falso complotto Eni” non vennero prese in considerazione da Greco, De Pasquale, Pedio e Spadaro, senza essere depositate nel processo. Anche in questo caso perchè Armanna, “grande accusatore”, non poteva essere “screditato”. Una parte della lunga testimonianza di Amara, però, era stata utilizzata da De Pasquale contro il presidente del collegio che stava giudicando in quel momento i vertici dell’Eni, innescando così un procedimento penale a Brescia proprio alla vigilia della sentenza del processo per corruzione internazionale da parte del colosso petrolifero. Amara, in particolare, aveva affermato che l’avvocato Paola Severino avrebbe avuto “accesso”, unitamente all’avvocato Nerio Diodà, al giudice Marco Tremolada, presidente del collegio. Accesso “tale da assicurare l’assoluzione” degli imputati Paolo Scaroni e Claudio De Scalzi, ad di Eni. La circostanza era stata riferita da Amara non per conoscenza diretta, ma per averla appresa dall’avvocato dell’Eni Michele Bianco e dall’ex collega di studio Alessandra Geraci. I due, però, interrogati al riguardo avevano smentito totalmente l’avvocato siciliano. Storari era poi finito sotto il tiro del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi secondo il quale il suo comportamento avrebbe gettato “discredito” su Greco e sulla vice Pedio, «non messi anticipatamente al corrente di un effettivo e formalizzato dissenso sulla conduzione dell’indagini», poi oggetto di una «una sotterranea campagna di discredito oggettivamente posta in essere da Storari, per giunta all’interno del Csm». Il pm milanese, dopo aver interrogato Amara e vista l’inerzia dei propri capi ad approfondire, aveva consegnato i verbali all’allora componente del Csm Piercamillo Davigo. Storari aveva sempre respinto l’accusa di non aver «formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine», affermando di avere più volte fatto solleciti “a voce” a Pedio, Greco e De Pasquale. Il Csm gli aveva creduto. In attesa che si chiarisca questa intricata vicenda, può De Pasquale rimanere comunque a capo del “dipartimento reati economici transazionali” della Procura di Milano? E Spadaro può continuare a svolgere il ruolo di procuratore europeo delegato per i crimini contro la Ue? Un provvedimento del Consiglio superiore della magistratura, dopo aver creduto alla ricostruzione di Storari, sarebbe quanto mai opportuno. E a proposito di Csm, è saltato ieri l’incontro sulla riforma dell’organo di autogoverno delle toghe fra la Guardasigilli Marta Cartabia e i capigruppo della maggioranza in Commissione giustizia alla Camera. Paolo Comi

Procura Milano, i veleni tra pm. De Pasquale accusa: “Una trappola da Storari”. Sandro De Riccardis,  Luca De Vito La Repubblica il 21 ottobre 2021. Negli atti dell’inchiesta la replica ai rilievi del collega secondo cui il procuratore aggiunto dava ascolto a un teste screditato ed era “finito in un tunnel”. Una procura devastata dalla gestione dei procedimenti Eni Nigeria, "falso complotto Eni" e loggia Ungheria. Con il pm Paolo Storari che accusa i colleghi - il capo della procura Francesco Greco e gli aggiunti Fabio De Pasquale e Laura Pedio - di non aver voluto prendere atto dell'inattendibilità del principale testimone (e imputato) del processo contro Eni, l'ex manager Vincenzo Armanna.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2021. Scrive il pm Paolo Storari il 4 febbraio ai suoi vertici Francesco Greco e Laura Pedio: «Vi allego una breve ulteriore memoria da dove emerge che Vincenzo Armanna» (coimputato-accusatore di Eni) «ha pagato 50 mila dollari a due testi del processo Eni-Nigeria. Vi avevo già scritto il 18 gennaio e il 23 gennaio sollecitando di comunicare a De Pasquale (altro vice di Greco e pm di Eni-Nigeria, ndr ), alle difese e al Tribunale questi fatti molto gravi, non possiamo consentire che la decisione del Tribunale, qualunque sia, si fondi su calunnie, testi pagati o documenti falsi. E tralascio eventuali profili non solo disciplinari. La stessa tempestività e solerzia avuta nel trasmettere i verbali di Amara e Armanna a De Pasquale, nonché nel trasmettere alla Procura di Brescia le dichiarazioni su Tremolada (giudice di Eni-Nigeria, ndr ), dovremmo averla anche quando le indagini portano elementi che smentiscono. Rimango in attesa». La mai arrivatagli risposta arriva, indiretta, ora che Greco ribatte al pm bresciano Francesco Prete: «Sono sicuro che, se andiamo a rastrellare il fondo del barile, troviamo tante cose da depositare in Tribunale, altrettante se rastrello per i corridoi della Procura... Il problema è che Storari aveva mandato 100 pagine illeggibili, non faceva capire cosa si doveva depositare...»: e peraltro per De Pasquale e Pedio non era processualmente spendibile il non ancora concluso esame del telefonino di Armanna, «da 3.000 le mail sono diventate 16.000». Prete riassume allora a Greco il punto: Storari chiedeva di avvisare il Tribunale che Armanna, nel produrre al Tribunale alcune sue chat con il mitologico 007 nigeriano Victor che avrebbe dovuto confermarne le accuse a Eni, le aveva però amputate della parte in cui discuteva col teste di 50.000 euro. Una notizia da dire, a prescindere che Armanna coi soldi volesse procurarsi un certo file (come interpretava De Pasquale nel motivare a Greco il no al deposito) o comprare il teste (come sospettava Storari). «Non voglio entrare su questa storia qua perché francamente non sono neanche in grado di farlo... - ripiega qui Greco su De Pasquale -. Dico solo che le mail di Storari non permettevano il deposito di alcunché. Punto. Poi... francamente ognuno si assume le proprie responsabilità, Spadaro e De Pasquale hanno detto la loro posizione, uno la potrà giudicare o meno. Trovo singolare che un pm (Storari, ndr ) si dedichi a fare una controindagine su un processo in corso e sulla discrezionalità di un altro pm in udienza. Il pm in udienza è autonomo, neanche il procuratore può imporre nulla. Perciò la risposta di De Pasquale non l'ho girata a Storari ma l'ho tenuta io e messa a protocollo riservato». Altro tema posto da Storari era che le chat mostrate nel 2019 da Armanna al Fatto Quotidiano per accreditare messaggi da Descalzi e Granata volti nel 2013 a comprarne la ritrattazione processuale, erano false già solo perché i loro apparenti numeri telefonici erano in quel 2013 utenze inattive in pancia a Vodafone. Ma ora Greco controdomanda ai pm di Brescia: «No, chi l'ha detto che le chat sono false?». Vodafone - rileva Prete - comunica che nel 2013 i numeri non esistevano. Greco: «Ma perché, tu ti fidi?». Perché no? «Che ne so io...». Obiezione che anche Storari ricorda fattagli da Greco e Pedio nel 2020: «Dicevano: "Ma sai, ci sono i servizi segreti... potrebbero aver utilizzato queste utenze nonostante fossero in pancia di Vodafone". Di fronte a risposte così, ma che gli vuoi dire? Perché a quel punto vale tutto...». Pedio, invece, insiste tutt' oggi. Premette «che certo non competeva a me, Laura Pedio, stabilire se quel materiale provvisorio doveva... se era utile per il processo Eni-Nigeria o no», e si dice scandalizzata dal ritrovarsi indagata per omissione: «Mi state dicendo allora che, se non fai una misura cautelare che il tuo collega vuole, commetti un reato? Io quella bozza di richiesta di Storari (arrestare Armanna e Amara per calunnia dei vertici Eni) non l'ho condivisa allora, e dico che ancora oggi non ci sono le condizioni. Io l'ho bocciata, e Storari si deve fare persuaso che quel che pensa lui non è sempre la verità scesa in terra... Forse nelle sue esperienze precedenti (l'Antimafia con Ilda Boccassini, ndr ) era stato abituato a dettare le regole».

Le mail del pm Storari a Greco: «Quelle chat scagionano l’Eni». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Il pm al procuratore: informiamo i giudici. La replica: erano 100 pagine illeggibili. Tra i reati contestati nell’inchiesta sulla Fondazione, corruzione e finanziamento illecito. Scrive il pm Paolo Storari il 4 febbraio ai suoi vertici Francesco Greco e Laura Pedio: «Vi allego una breve ulteriore memoria da dove emerge che Vincenzo Armanna» (coimputato-accusatore di Eni) «ha pagato 50 mila dollari a due testi del processo Eni-Nigeria. Vi avevo già scritto il 18 gennaio e il 23 gennaio sollecitando di comunicare a De Pasquale (altro vice di Greco e pm di Eni-Nigeria, ndr), alle difese e al Tribunale questi fatti molto gravi, non possiamo consentire che la decisione del Tribunale, qualunque sia, si fondi su calunnie, testi pagati o documenti falsi. E tralascio eventuali profili non solo disciplinari. La stessa tempestività e solerzia avuta nel trasmettere i verbali di Amara e Armanna a De Pasquale, nonché nel trasmettere alla Procura di Brescia le dichiarazioni su Tremolada (giudice di Eni-Nigeria, ndr), dovremmo averla anche quando le indagini portano elementi che smentiscono. Rimango in attesa».

La risposta

La mai arrivatagli risposta arriva, indiretta, ora che Greco ribatte al pm bresciano Francesco Prete: «Sono sicuro che, se andiamo a rastrellare il fondo del barile, troviamo tante cose da depositare in Tribunale, altrettante se rastrello per i corridoi della Procura... Il problema è che Storari aveva mandato 100 pagine illeggibili, non faceva capire cosa si doveva depositare...»: e peraltro per De Pasquale e Pedio non era processualmente spendibile il non ancora concluso esame del telefonino di Armanna, «da 3.000 le mail sono diventate 16.000». Prete riassume allora a Greco il punto: Storari chiedeva di avvisare il Tribunale che Armanna, nel produrre al Tribunale alcune sue chat con il mitologico 007 nigeriano Victor che avrebbe dovuto confermarne le accuse a Eni, le aveva però amputate della parte in cui discuteva col teste di 50.000 euro. Una notizia da dire, a prescindere che Armanna coi soldi volesse procurarsi un certo file (come interpretava De Pasquale nel motivare a Greco il no al deposito) o comprare il teste (come sospettava Storari). «Non voglio entrare su questa storia qua perché francamente non sono neanche in grado di farlo... — ripiega qui Greco su De Pasquale —. Dico solo che le mail di Storari non permettevano il deposito di alcunché. Punto. Poi... francamente ognuno si assume le proprie responsabilità, Spadaro e De Pasquale hanno detto la loro posizione, uno la potrà giudicare o meno. Trovo singolare che un pm (Storari, ndr) si dedichi a fare una controindagine su un processo in corso e sulla discrezionalità di un altro pm in udienza. Il pm in udienza è autonomo, neanche il procuratore può imporre nulla. Perciò la risposta di De Pasquale non l’ho girata a Storari ma l’ho tenuta io e messa a protocollo riservato». Altro tema posto da Storari era che le chat mostrate nel 2019 da Armanna al Fatto Quotidiano per accreditare messaggi da Descalzi e Granata volti nel 2013 a comprarne la ritrattazione processuale, erano false già solo perché i loro apparenti numeri telefonici erano in quel 2013 utenze inattive in pancia a Vodafone. Ma ora Greco controdomanda ai pm di Brescia: «No, chi l’ha detto che le chat sono false?». Vodafone — rileva Prete — comunica che nel 2013 i numeri non esistevano. Greco: «Ma perché, tu ti fidi?». Perché no? «Che ne so io...». Obiezione che anche Storari ricorda fattagli da Greco e Pedio nel 2020: «Dicevano: “Ma sai, ci sono i servizi segreti... potrebbero aver utilizzato queste utenze nonostante fossero in pancia di Vodafone”. Di fronte a risposte così, ma che gli vuoi dire? Perché a quel punto vale tutto...». Pedio, invece, insiste tutt’oggi. Premette «che certo non competeva a me, Laura Pedio, stabilire se quel materiale provvisorio doveva... se era utile per il processo Eni-Nigeria o no», e si dice scandalizzata dal ritrovarsi indagata per omissione: «Mi state dicendo allora che, se non fai una misura cautelare che il tuo collega vuole, commetti un reato? Io quella bozza di richiesta di Storari (arrestare Armanna e Amara per calunnia dei vertici Eni) non l’ho condivisa allora, e dico che ancora oggi non ci sono le condizioni. Io l’ho bocciata, e Storari si deve fare persuaso che quel che pensa lui non è sempre la verità scesa in terra... Forse nelle sue esperienze precedenti (l’Antimafia con Ilda Boccassini, ndr) era stato abituato a dettare le regole».

Monica Serra per "la Stampa" l'8 ottobre 2021. Si chiudono le prime due partite dell'inchiesta di Brescia sullo scontro fratricida nella procura di Milano. E sulla graticola di una possibile richiesta di rinvio a giudizio finiscono da una parte il pm Paolo Storari e l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per la "fuga" dei verbali dell'avvocato Piero Amara sulla presunta "loggia Ungheria", e dall'altra il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, per la gestione delle prove al processo Eni-Nigeria, che si è concluso poi con una clamorosa assoluzione di tutti gli imputati. Non pervenuta invece la decisione sugli altri magistrati indagati per omissione di atti d'ufficio, ovvero il procuratore milanese Francesco Greco e l'aggiunta Laura Pedio. Ma è chiaro che la procura bresciana dovrà sciogliere la riserva anche su di loro, sebbene ieri sera il procuratore Greco, oramai a un passo dalla pensione, ostentasse tranquillità: «Io sto aspettando solo una cosa: l'archiviazione». Nell'avviso di conclusione indagini notificato ieri, Brescia ipotizza per Davigo e Storari il reato all'articolo 326 del codice penale, ovvero rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio. La storia ormai è nota. A Storari viene contestato di «aver consegnato i verbali dell'avvocato Piero Amara» resi di fronte a lui e alla collega Laura Pedio tra il 6 dicembre del 2019 e l'11 gennaio del 2020, sotto forma di file contenuti in una chiavetta Usb, al collega Piercamillo Davigo «nei primi giorni del mese di aprile del 2020 nei pressi dell'abitazione di quest' ultimo». La contestazione a Davigo è più articolata perché non solo li avrebbe ricevuti illecitamente, autorizzando il collega a darglieli, ma li avrebbe anche «diffusi» a Roma. Non soltanto infatti li avrebbe consegnati a membri del Csm, come il vicepresidente David Ermini, e ne avrebbe parlato con il Pg di Cassazione Giovanni Salvi (titolare dell'azione disciplinare), ma li avrebbe mostrati o ne avrebbe riferito pure a Giuseppe Cascini, Giuseppe Gigliotti, Stefano Cavanna, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, tutti del Csm. Nonché al presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra (5Stelle).

L'accusa di rifiuto di atti d'ufficio ipotizzata, in un altro provvedimento di chiusura inchiesta per gli altri due magistrati, ovvero Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, racconta invece l'altra faccia della medaglia di questa storia. Quando nel maggio scorso Storari viene interrogato a Brescia, con mail e documenti alla mano, spiega infatti di aver consegnato quei verbali di Amara a Davigo per «autotutelarsi» dalla presunta «inerzia della procura». «Inerzia» che, secondo il procuratore di Brescia Francesco Prete, si tradusse, per quanto riguarda De Pasquale e Spadaro, nel non aver portato a conoscenza delle difese Eni-Nigeria alcune prove che erano state raccolte da Storari nell'indagine con la collega Pedio sul presunto «complotto Eni». A partire dalle chat telefoniche che dimostrerebbero come il coimputato e teste dell'accusa Vincenzo Armanna, ex manager Eni, avesse promesso 50 mila dollari a un poliziotto nigeriano per indurlo a una falsa testimonianza. Evidentemente a nulla sono servite le spiegazioni fornite a Brescia da De Pasquale e Spadaro, che sostenevano come quegli accertamenti fossero «incompleti». Ora tutti e quattro i magistrati rischiano di finire a processo.  

Milano, trent’anni dopo Mani Pulite mezzo pool rischia di finire a processo: si salva solo Greco. Chiuse le indagini sulla consegna dei verbali a Davigo e sulle prove nascoste al processo Eni. L’ex consigliere del Csm e Storari indagati per rivelazione di atti d’ufficio. Per De Pasquale e Spadaro l’accusa di rifiuto d’atti d’ufficio. Continuano le indagini su Pedio. Simona Musco su Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Mezzo pool di Mani pulite rischia il processo. A trent’anni dall’inchiesta che segnò la politica del Paese, questa volta a finire al centro della scena – da accusati e non da accusatori – sono proprio loro: i pm milanesi. Il tutto mentre si avvicina il giorno dell’addio alla procura meneghina di Francesco Greco, che invece è l’unico, al momento, a poter tirare un respiro di sollievo, grazie alla richiesta di archiviazione avanzata dal collega Francesco Prete, a capo della procura di Brescia, per l’accusa di omissione d’atti d’ufficio. La stessa procura ha notificato giovedì l’avviso di conclusione delle indagini a carico di Piercamillo Davigo e Paolo Storari, accusati di rivelazioni di atti d’ufficio, nonché a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro (nel frattempo passato alla procura europea) per rifiuto d’atti d’ufficio. Vicende distinte, ma legate tra di loro da un filo sottile che porta il nome di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha fatto esplodere la procura di Milano e sulla cui credibilità ci sono ancora non pochi dubbi. La vicenda è l’ormai nota “consegna” dei verbali di Amara a Davigo: ad aprile 2020 Storari, che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, consegnò documenti senza firma e senza timbro al consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte dei vertici della procura nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Storari, dunque, non si affidò alle vie formali, le uniche, secondo il Csm, lecite. Ma per l’ex pm di Mani Pulite, tutto sarebbe avvenuto nel rispetto della legge: è stato lui, infatti, a rassicurare il pm milanese sulla liceità di quella procedura. «Storari preliminarmente mi chiese se poteva parlare con me – ha raccontato Davigo ai pm di Brescia -. Io gli dissi che c’erano specifiche circolari del Csm che prevedono che il segreto d’ufficio, segnatamente il segreto investigativo, non è opponibile al Csm e gli dissi che avrei potuto fare da tramite con il comitato di presidenza. In relazione a ciò, ho ricevuto da Storari copia di documenti in formato word, non firmati». Le due circolari, però, in nessun caso fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. E dello stesso avviso è il procuratore di Brescia, secondo cui la procedura descritta da quelle circolari del ’94 e ’95 non è applicabile al caso specifico. Storari, dunque, avrebbe dovuto «investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell’indagine» e agì, perciò, «al di fuori di ogni procedura formale, per lamentare presunti contrasti insorti con il procuratore della Repubblica ed il procuratore aggiunto co-assegnatario del procedimento – tenuti peraltro all’oscuro dell’iniziativa». Un atto compiuto con il fine di reagire a «un asserito ritardo nelle iscrizioni e nell’avvio delle indagini», ma fatto, secondo l’accusa, «in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari». Il pm avrebbe dunque violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» e abusato della «sua qualità» consegnando a Davigo «copia in formato word dei verbali degli interrogatori» resi il 6, 14, 15, 16 dicembre 2019 e l’11 gennaio 2020 e copia delle «trascrizioni di tre file audio di conversazioni tra presenti prodotti nel corso delle indagini «dall’indagato Giuseppe Calafiore», collaboratore di Amara, e anche questi relativi alla presunta «associazione segreta» loggia Ungheria. Davigo, dal canto suo, avrebbe «rafforzato il proposito criminoso di Storari» entrando «in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo» violando «i doveri inerenti alle proprie funzioni» e abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Piero Amara. L’ex pm di Mani Pulite, infatti, non si limitò a ricevere i verbali ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra. E Prete sembra avere un’idea precisa del perché: quella consegna avrebbe avuto come solo scopo quello «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», che in realtà è precedente alla vicenda Amara. A Marra Davigo avrebbe chiesto «di custodirli e di consegnarli al comitato di Presidenza, qualora glieli avesse richiesti». Ma di quanto riferito da Amara ai pm milanesi Davigo avrebbe raccontato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli. A vederli sarebbe stato anche il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione». Ad essere informato fu anche un componente esterno al Csm, Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita. E proprio Ardita, dunque, sembra giocare un ruolo centrale nella vicenda, pur essendo già stata smentita la sua appartenenza alla presunta “loggia Ungheria”. Dopo il pensionamento di Davigo, infatti, i verbali sono stati spediti alla stampa, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che nel corso di un plenum ha reso pubblica la vicenda, denunciando il tentativo di screditare Ardita. Secondo la procura di Roma, a spedire quei verbali sarebbe stata Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo licenziata dal Csm pur senza attendere l’esito della vicenda giudiziaria. E secondo la procura di Brescia, Davigo avrebbe riferito il contenuto di quegli atti segreti anche ad un’altra delle sue collaboratrici, Giulia Befera. Se Greco è uscito pulito da questa storia – secondo i pm bresciani non spettava a lui procedere con le iscrizioni, richieste nel 2019 ed effettuate infine a maggio dell’anno scorso -, la posizione di Pedio rimane ancora in ballo. L’aggiunta è infatti indagata non solo per omissione d’atti d’ufficio, ma anche per la gestione dell’ex manager della compagnia petrolifera Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati in primo grado) e presunto calunniatore, secondo quanto segnalato dallo stesso Storari a De Pasquale e Spadaro, che nonostante ciò lo avrebbero usato come teste chiave dell’accusa. E a chiudere il cerchio nella polveriera milanese ci sono proprio i due accusatori di Eni, indagati per rifiuto di atti d’ufficio. L’indagine si basa sulla gestione delle prove nel processo sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni versata ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245, tangente mai provata in quanto mancano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato», si legge nella sentenza di assoluzione. E tra le questioni scandagliate dalla procura di Brescia c’è quella del video favorevole agli imputati tenuto nascosto dalla procura. Il filmato era stato girato in maniera clandestina da Amara e testimonierebbe la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni per gettare su di loro «valanghe di merda» e avviare una devastante campagna mediatica. De Pasquale, nel corso del processo, ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuto non rilevante». Ma per il tribunale si trattava di elementi fondamentali, al punto che per i giudici risulta «incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati». Ma non solo: Storari aveva trasmesso ai pm del caso Opl 245 delle chat trovate nel telefono di Armanna, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro. «Ne prendiamo atto. È la chiusura di un primo capitolo che poi troverà eventualmente, ammesso che ci sia la richiesta di rinvio a giudizio, in una sede processuale la sua verifica», ha affermato Paolo Della Sala, difensore del pm Storari.  «Con tutto il fango buttato addosso al dottor Storari, in realtà poi il suo fatto resta circoscritto a questo episodio, che era noto, e che non ha buchi di ricostruzione. È un problema giuridico, delicato, che noi confidiamo di risolvere positivamente», ha concluso. «Commenteremo dopo aver letto attentamente gli atti», ha invece spiegato il legale Francesco Borasi, avvocato di  Davigo.

Loggia Ungheria, Davigo e De Pasquale verso il processo. Brescia ha chiuso le indagini. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera l’8 Ottobre 2021. L’ex pm è indagato con il pm Storari per la diffusione dei verbali di Amara sulla «loggia Ungheria». Il procuratore aggiunto è sotto accusa con il pm Spadaro per rifiuto d’atti d’ufficio nell’ambito del caso Eni-Nigeria. L’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo e il pm milanese Paolo Storari vanno verso il processo per aver fatto circolare i verbali segreti di Piero Amara sulla «loggia Ungheria»; mentre il procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro vanno verso il processo per aver tenuto gli imputati e il Tribunale del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese. È quanto si ricava dai quattro «avvisi di conclusione delle indagini e deposito degli atti» notificati ieri dalla Procura di Brescia a Davigo e Storari per l’ipotesi di «rivelazione di segreto», e a De Pasquale (uno dei vice del procuratore Francesco Greco) e Spadaro per l’ipotesi di «rifiuto d’atti d’ufficio». Notifiche che di solito preludono dopo 20 giorni alla richiesta di processo, salvo spiazzanti controdeduzioni difensive che qui però gli indagati hanno già proposto. Nessuna decisione invece allo stato sugli altri due indagati per omissione d’atti d’ufficio, Greco e il procuratore aggiunto Laura Pedio.

Loggia «Ungheria». La consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi a fine 2019 dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara sull’asserita associazione segreta «Ungheria» non può essere, per il procuratore Francesco Prete e il pm Donato Greco, scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con il procuratore Greco e la coassegnataria Pedio sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini. Tra le successive rivelazioni di segreto imputate a Davigo è interessante che Brescia indichi quelle non al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio, ma quella al vicepresidente del Csm David Ermini, che al pari di Salvi e Curzio compone il Comitato di Presidenza del Csm: Ermini ricevette da Davigo anche copia dei verbali, che — si scopre ora — si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili. Come rivelazioni di segreto sono poi contestate a Davigo quelle ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel M5S) Nicola Morra, in un colloquio privato, fuori (per i pm) da qualunque regola, e solo per motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita.

L’impatto sulla procura. Impatta invece sul lavoro della Procura di Milano l’accusa al braccio destro di Greco, il capo del pool affari internazionali De Pasquale: non aver depositato, nel processo sulle tangenti Eni in Nigeria sfociato poi in tutte assoluzioni, indizi trovati da Storari (e inoltratigli da Greco) sulla possibile calunniosità (ai danni di Eni, dell’a.d. Descalzi e del n.3 Granata) di Vincenzo Armanna, coimputato-accusatore di Eni, assai valorizzato da De Pasquale nel processo e da Pedio nell’indagine sui depistaggi Eni. Taciuti a difese e giudici, oltre al video dell’imprenditore Ezio Bigotti sulla matrice psicologica delle accuse di Armanna, per Brescia furono la falsità di alcune chat prodotte da Armanna; e il rapporto di soldi (50.000 dollari dati o promessi) tra Armanna e l’asserito superteste nigeriano da lui evocato a riscontro delle proprie accuse a Eni.

Verbali Amara al Csm, chiuse le indagini su Davigo e Storari. La procura di Brescia contesta a Davigo e Storari la rivelazione del segreto d'ufficio in merito ai verbali di Amara. Chiuse le indagini anche su De Pasquale. Il Dubbio l’8 ottobre 2021. La procura della Repubblica di Brescia ha chiuso le indagini sull’ex consigliere togato del Csm, Piercamillo Davigo, sui pm Paolo Storari e Sergio Spadaro e sul procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. gli ultimi tre in servizio presso la procura di Milano. Si tratta della doppia inchiesta sulla circolazione dei verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, e del processo sulla presunta tangente “Eni-Nigeria”, in cui sono stati assolti tutti gli imputati. I pm bresciani contestano a Davigo e Storari la rivelazione del segreto d’ufficio, mentre a Spadaro e De Pasquale il rifiuto d’atti d’ufficio. Ora, come prevede la procedura, gli indagati avranno la possibilità di farsi interrogare o presentare una memoria difensiva. Il rischio, tuttavia, è che tutti e quattro vadano a processo, qualora il gup, una volta ricevuta la richiesta dell’accusa, decidesse per il rinvio a giudizio.  Nello specifico, la procura di Bresccia ritiene che le condotte di Davigo e Storari non possano giustificarsi in alcun modo rispetto alla vicenda della presunta loggia “Ungheria“, la cui indagine stentava a decollare, secondo Storari, per alcuni contrasti interni all’ufficio inquirente meneghino. Inoltre, la pubblica accusa, in riferimento alla rivelazione del segreto d’ufficio, indica quali destinatari di tale comportamento illecito non il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, e il presidente della Cassazione, Pietro Curzio, ma il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, che insieme agli altri due, compone il comitato di Presidenza di Palazzo dei Marescialli. Per la procura di Brescia, Davigo avrebbe rivelato i contenuti delle dichiarazioni di Amara ai consiglieri del Csm, Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, ma anche al senatore, ex M5S, Nicola Morra, nonché alle due collaboratrici Marcella Contraffatto e Giulia Befera. Per quanto riguarda la storia del processo “Eni-Nigeria“, la procura di Brescia contesta a De Pasquale di non aver depositato gli indizi rinvenuti dal pm Storari le presunte dichiarazioni calunniose da parte dell’accusatore di Eni, Vincenzo Armanna.

Dagoreport il 27 settembre 2021. Tra una "loggia Ungheria" e l’altra, spunta un secondo video che solletica nuovi interrogativi sull’avvocato Piero Amara, che tanto sta facendo arrabbiare ampi settori delle istituzioni. Si tratta - udite, udite - di un nuovo video che porterebbe acqua al mulino di Eni nell’ambito delle indagini sul cosiddetto depistaggio, ma che finora è stato tenuto ben riservato. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro e ricordare un primo video a favore di Eni, quello rintracciato per puro caso da un avvocato difensore del processo Eni-Nigeria, che il pm Fabio De Pasquale giudicò irrilevante ma che il Tribunale di Milano, nella sua sentenza di assoluzione con formula piena, considerò di una certa importanza. In quel documento, l’imputato Vincenzo Armanna, in presenza di Piero Amara, prometteva di fare arrivare avvisi di garanzia ai vertici di Eni con l’obiettivo di eliminare gli ostacoli, i manager stessi, che separavano lui e lo stesso avvocato Amara dal guadagnare bei soldoni dalla compravendita di impianti nigeriani della compagnia. In questo nuovo video, invece, è Amara che, riferendosi al manager di Eni, Umberto Vergine, si lascia andare confessando che “costituisce il nemico giurato dei miei e così pienamente togliamo di …”. Esprimendo gestualmente la volontà di eliminarlo (da Eni). E, guarda caso, proprio Vergine fu una delle prime vittime degli esposti e avvisi di garanzia nati nell’ambito della vicenda del cosiddetto depistaggio. Insomma, un’affermazione, quella di Amara, che certo non confligge con l’ipotesi di un’alleanza con Vincenzino Armanna e altri compagnoni volta a guadagnare alle spalle del povero cane a sei zampe e dei suoi manager che avrebbero potuto rovinare i piani. Ma chi sono “i miei” ai quali si riferisce Amara? Dalle segrete stanze delle indiscrezioni filtrano nomi di ex manager della compagnia poi silurati da Claudio Descalzi, a cominciare da Massimo Mantovani e Antonio Vella. Qualcuno ha sostenuto che il primo video l’abbia commissionato la stessa Eni ad Amara per ricattare Armanna e farlo tacere sull’Opl245, ma questo secondo video smentisce quella ipotesi: era il padrone di casa Enzo Bigotti a registrare tutti gli incontri che avvenivano nella propria sede, e non Piero Amara. E dunque, quanto sono attendibili le dichiarazioni dell'avvocato siciliano? Non si sa. Quello che è certo è che questo secondo video esiste ed è in mano alla Procura di Milano, dalla quale si attende da molto tempo la chiusura delle indagini sul cosiddetto depistaggio. Indagini che forse dovrebbero avere un altro nome. 

Quella catena di scelte errate del Csm che adesso travolge la procura di Milano. Luca Fazzo l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. Per oltre dieci anni il potere è rimasto in mano alla stessa cerchia di toghe. Ora si volterà pagina: in pole per la successione a Greco il pg di Firenze Viola. Una lunga serie di occasioni perdute, di scelte cruciali compiute un po' per quieto vivere e un po' per convenienza: sta in questa catena di decisioni sbagliate del Consiglio superiore della magistratura la vera radice del dramma che travolge in questi giorni la Procura della Repubblica di Milano, lacerata al suo interno, con un capo sotto inchiesta e un futuro tutto da disegnare. I dettagli, i passaggi tecnici della vicenda dei verbali di Piero Amara, pseudo-pentito del caso Eni, sono complicati, già quasi tutti noti, e alla fine quasi irrilevanti. Ciò che conta è che l'ufficio giudiziario forse più importante del paese è allo sbando. Ed è difficile non indicarne una causa nella continuità di potere garantita per più di dieci anni dal Csm alla stessa cerchia di magistrati, legati da vincoli personali più ancora che di corrente. Per anni il Csm ha impedito non solo l'arrivo a Milano come procuratore di un «papa straniero», di un capo proveniente da fuori, ma ha anche che al vertice dell'ufficio arrivassero magistrati che pure nel capoluogo lombardo avevano fatto tutta la loro carriera, ma che portavano come pecca la estraneità al gruppo dominante. Se si fosse data aria alle stanze, non si sarebbe mai consolidata la rete di contiguità dentro cui è potuta maturare l'incredibile vicenda dei verbali di Amara, imboscati dalla Procura per salvare il traballante processo Eni. Per due volte, il Csm ha avuto la possibilità di girare pagina a Milano. La prima volta quando si trovò a scegliere il successore del procuratore Manlio Minale tra due candidati di punta: Ferdinando Pomarici, procuratore aggiunto, una vita in prima linea contro terrorismo e mafia, ma fama di scontroso e soprattutto di destrorso. E dall'altra parte Edmondo Bruti Liberati, esperienza sul campo vicina allo zero, ma leader di Magistratura Democratica ed ex presidente dell'Associazione magistrati. Sulla carta non c'era partita, ma il Csm - Forza Italia compresa, e con la benedizione del Quirinale - nomina Bruti. È lì che comincia a prendere forma il «cerchio magico» di cui parlerà spesso Alfredo Robledo, unico procuratore aggiunto estraneo al mondo del capo. La scena si ripete quando Bruti se ne va, dopo lo scontro furibondo con Robledo, e ci sono già richieste perché nella procura milanese approdi un capo da fuori. Scendono in campo candidati autorevoli come Giovanni Melillo e Giuseppe Amato, ma entrambi si convincono a rinunciare. Alla fine a giocarsela sono due milanesi: Francesco Greco, l'uomo della continuità, e Alberto Nobili, veterano della procura milanese, uomo di trincea come lo era Pomarici. E come Pomarici anche Nobili viene sconfitto. Il Csm insedia Greco ma non solo: due anni dopo gli permette di scegliersi personalmente i suoi vice uno per uno. Compreso Fabio De Pasquale, il pm che con la sua gestione del processo Eni svolge un ruolo decisivo dei pasticci di oggi. Perché nessuno, centrodestra compreso, abbia voluto girare pagina a Milano è uno di quei misteri fatti di riti romani e di presunte astuzie impossibili da sciogliere. Adesso che i risultati sono sotto gli occhi di tutti, il paradosso è che il Csm questa responsabilità dovrà prendersela per forza. Perché quest'autunno, quando le inchieste sul caso Eni saranno presumibilmente tutte ancora aperte, andrà scelto il successore di Greco, che va in pensione. E per la prima volta sul tavolo non ci sarà nessuna candidatura che possa mantenere al comando lo stesso gruppo di potere. Ieri si ufficializzano le candidature alla successione a Greco: ci sono delle sorprese, prime tra tutte la scomparsa dall'elenco degli aspiranti dei procuratori di Napoli e Catanzaro, Giovanni Melillo e Nicola Gratteri, che sarebbero stati dei top player. Restano nove nomi in tutto, sei con zero speranze, tre in pista davvero: il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato, e poi Maurizio Romanelli: che dei tre è l'unico in servizio a Milano, ma è un allievo di Pomarici e di Armando Spataro, lontano anni luce dal cerchio magico (e interrogato venerdì dal Csm pare si sia dichiarato all'oscuro di quanto emerso nel caso Amara). Qualunque sia la scelta, per Milano sarà l'addio a una generazione che ha regnato indisturbata. Ma non sarà merito del Csm.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Da “il Messaggero” il 7 settembre 2021. Si apre un nuovo fronte a margine dello scontro interno alla procura di Milano tra il procuratore Francesco Greco e il sostituto Paolo Storari, che ha per sfondo la vicenda Eni e il caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Anche nei confronti di Greco, che però andrà in pensione a novembre, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell'azione disciplinare, ha avviato accertamenti preliminari. Si tratta di un atto dovuto e che consegue automaticamente all'iscrizione del nome di Greco sul registro degli indagati per omissione in atti d'ufficio da parte della procura di Brescia, come sottolinea la stessa procura generale della Cassazione in una nota, spiegando che si tratta di indagini pre-disciplinari. La stessa cosa era accaduta per il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e per il sostituto Sergio Spadaro, ora in forza alla procura europea, finiti sotto inchiesta a Brescia per rifiuto di atti d'ufficio. All'origine delle inchieste penali, le dichiarazioni di Storari a sua volta indagato dalla procura di Brescia per rivelazione di segreto d'ufficio per avere consegnato i verbali di Amara all'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, anche lui finito sotto inchiesta per la stessa ipotesi di reato. Al momento solo per Storari, in questa vicenda, pende già un procedimento disciplinare, che va avanti, come evidenzia la stessa procura generale. Salvi ha invece ha rinunciato, per «valutazioni tecniche», a impugnare l'ordinanza della Sezione disciplinare del Csm che aveva rigettato la sua richiesta di trasferire in via cautelare Storari da Milano e dalle sue funzioni di pm

(ANSA l'8 settembre 2021) Rischia di dover lasciare Milano o le sue funzioni il procuratore aggiunto del capoluogo lombardo Fabio De Pasquale. La Prima Commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti la procedura di trasferimento d'ufficio per incompatibilità. L'iniziativa arriva dopo le audizioni dei magistrati milanesi disposte dalla Commissione all'indomani delle tensioni esplose sulla vicenda Eni, che riguardano da un lato i verbali dell'avvocato Piero Amara e dall'altro il presunto mancato deposito di prove favorevoli agli imputati, poi tutti assolti, nel processo sul caso nigeriano e le tensioni con i giudici del dibattimento.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 9 settembre 2021. Le audizioni al Csm dei giudici e pm milanesi, convocati a Roma in luglio sulle tensioni in Procura a Milano, producono il primo effetto: la I Commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sui casi di «incompatibilità ambientale», ha aperto una procedura di valutazione dell'eventuale trasferimento d'ufficio da Milano del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, uno dei vice di Francesco Greco e titolare delle inchieste per corruzione internazionale sull'Eni (due assoluzioni nei processi Algeria e Nigeria, e un patteggiamento di Eni a 11,8 milioni per induzione indebita a dare o promettere utilità in Congo). De Pasquale è già indagato dalla Procura di Brescia per «rifiuto d'atto d'ufficio» nell'ipotesi che non avesse messo a disposizione del Tribunale del processo Eni-Nigeria talune prove: quelle che, evidenziate ai capi dal pm Paolo Storari tra fine 2020 e inizio 2021 in un fascicolo con l'altra vice Laura Pedio, facevano traballare l'attendibilità dell'accusatore di Eni, il coimputato/dichiarante Vincenzo Armanna, molto valorizzato dalla Procura milanese sia nel processo Eni-Nigeria sia (con Amara) nell'indagine tuttora a carico anche del n°1 Eni Descalzi per ipotesi di depistaggio giudiziario. L'incompatibilità ambientale non va confusa né con un procedimento disciplinare né con l'indagine penale, scaturita a Brescia dalle carte del pm Storari a sua volta indagato per rivelazione (all'allora consigliere Csm Davigo) dei verbali segretati dell'ex avvocato esterno Eni Piero Amara sulla presunta «loggia Ungheria»: verbali su cui l'inerzia dei vertici milanesi è sinora costata anche a Greco la messa sotto inchiesta per «omissione d'atto d'ufficio». Mentre i procedimenti penale e disciplinare richiedono che un magistrato abbia commesso qualche illecito codificato, il Csm può invece ravvisare l'incompatibilità ambientale di magistrati anche senza che abbiano violato qualche norma, e cioè già solo «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa, nella sede occupata non possono svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità». La Commissione svolgerà una istruttoria e poi formulerà una proposta di trasferimento o meno del pm, che il plenum del Csm potrà accogliere o ribaltare.

Incompatibilità per il procuratore del processo Eni. Caso Eni-Amara, bufera a Milano: Csm apre procedura di trasferimento per il pm De Pasquale. Carmine Di Niro su Il Riformista l'8 Settembre 2021. Ancora un terremoto a colpire la Procura di Milano. Il procuratore aggiunto del capoluogo lombardo Fabio De Pasquale rischia infatti di dover lasciare Milano o le sue funzioni. Nei confronti di De Pasquale, protagonista delle vicende Eni e Amara, la prima commissione del Csm ha aperto una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità. Una iniziativa arrivata dopo le audizioni dei magistrati milanesi disposte dalla Commissione: queste erano state necessarie dopo il caso Eni e i verbali dell’avvocato Piero Amara. Il processo, come noto, si era concluso a marzo con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra cui Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, ex e attuale amministratore delegato di Eni. De Pasquale, attualmente indagato dalla Procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio (assieme al pm Sergio Spadaro, ndr) è accusato di non aver depositato prove favorevoli agli imputati: un video registrato di nascosto dall’ex manager Eni Vincenzo Armanna, imputato nel processo e testimone sulle cui dichiarazioni si era basata buona parte dell’accusa della Procura di Milano, mentre parla con l’avvocato Piero Amara, ex legale di Eni. Nel video Armanna rivelava l’intenzione di ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia” ad alcuni dirigenti della società. Secondo l’accusa della procura di Brescia Spadaro e De Pasquale, pur avendo la consapevolezza della falsità delle prove portate dall’ex manager di Eni Armanna, avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del Tribunale gli atti. Su Eni e Amara la Procura di Brescia ha aperto più filoni paralleli di inchiesta: in uno sono indagati il pm milanese Paolo Storari e l’ex consigliere del Csm Piecamillo Davigo. A seguito delle dichiarazioni di Storari è stato iscritto nel registro degli indagati anche il procuratore capo Francesco Greco, per omissione di atti di ufficio.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Monica Serra per "la Stampa" il 16 settembre 2021. Uno dopo l'altro, i vertici della procura di Milano coinvolti nelle indagini su Eni e la presunta «loggia Ungheria» sono finiti sotto inchiesta a Brescia. Dopo il procuratore Francesco Greco, ora anche l'aggiunta Laura Pedio è indagata per omissione di atti d'ufficio. Interrogata dal procuratore Francesco Prete, Pedio si è difesa dall'accusa di aver «ritardato» per quattro mesi l'inchiesta sull'esistenza della presunta associazione segreta, rivelata dall'ex avvocato Eni, Piero Amara. Ha messo in fila gli accertamenti che a suo dire sarebbero invece stati condotti e le difficoltà incontrate per conciliarli con quelli legati ad altre «corpose» indagini, come il fascicolo su Eni. Tanto da arrivare a chiedere a Greco e al pm Paolo Storari di affiancare un altro magistrato al pool. Scelta che non sarebbe stata fatta proprio per via della «contrarietà» di Storari. Con lui Pedio, infatti, ha condotto le indagini sul cosiddetto complotto Eni e, tra il 6 dicembre 2019 e l'11 gennaio 2020, ha raccolto le dichiarazioni di Amara sul fantomatico gruppo di potere in grado di influenzare nomine e politica. Proprio quei verbali che Storari, a suo dire per «autotutelarsi dall'inerzia della procura», ad aprile 2020 consegnò all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, finendo accusato di rivelazione del segreto d'ufficio. Interrogato a maggio a Brescia, Storari ha puntato il dito contro i suoi capi e, producendo mail e documenti, ha spiegato che cosa intendeva per «inerzia» della procura: le indagini rimandate, le sue richieste rimaste inattuate, compresa quella di arrestare Amara e l'ex manager di Eni Vincenzo Armanna per calunnia, con una misura mai vidimata dai capi e passata al vaglio del gip perché - secondo Storari - avrebbe «pregiudicato» un testimone importante nel processo Eni Nigeria, poi finito con l'assoluzione piena. Come già anticipato nella relazione agli atti dell'inchiesta, e depositata al Csm, in presenza dell'avvocato Luca Lauri, a Brescia Pedio ha ripercorso tutte le preoccupazioni legate alla fuga di notizie, alla scoperta che i verbali di Amara erano arrivati alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica, come si scoprirà, per l'accusa attraverso la ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto. «Storari minimizzava la cosa. Mi disse che secondo lui non c'era stato alcun accesso abusivo al sistema informatico della procura e che per fermare la diffusione dei verbali dovevamo arrestare Amara e Armanna». In quella fase, a detta di Pedio, il collega «mai avrebbe manifestato un insanabile dissenso: il suo comportamento rappresenta un'infedeltà grave, un oltraggio e un danno» all'indagine e alla «nostra stessa sicurezza». Nel frattempo è stata trasmessa alla procura di Brescia anche la decisione con cui la sezione disciplinare del Csm ha respinto la richiesta del pg di Cassazione Giovanni Salvi di trasferire Storari e impedirgli di continuare a fare il pm.

Lo scandalo Eni-Nigeria. “De Pasquale va trasferito”, chissà se i Pm lo difenderanno come con Storari…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Chissà se anche in favore del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale si muoveranno le toghe milanesi, come fecero nei confronti del sostituto Paolo Storari, per evitargli un trasferimento per incompatibilità. Allora l’operazione-solidarietà aveva avuto successo, tanto che il Csm aveva respinto la richiesta avanzata nei confronti del dottor Storari dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. La notizia che la prima commissione del Csm aveva aperto una procedura di trasferimento per “incompatibilità ambientale” nei confronti del pm del processo Eni è planata sul palazzo di giustizia di Milano mercoledì sera. Non proprio un fulmine a ciel sereno. Forse prevedibile, ma non scontata. In altri tempi non sarebbe accaduto, perché erano quelli in cui un pubblico ministero contava più di un ministro ed era più facile vedere un membro del Parlamento o addirittura del governo in carcere piuttosto che un magistrato dell’accusa “attenzionato” dal Csm. L’iniziativa della prima commissione ha probabilmente le sue radici nella sfilata di pm e giudici milanesi che nel luglio scorso andarono a portare la propria testimonianza sul terremoto che ha investito la procura del capoluogo lombardo. Una serie di audizioni di toghe giovani e meno giovani che hanno mostrato in gran parte, per quel che se ne sa, di non avere troppi peli sulla lingua. C’è prima di tutto un problema generazionale, una vera insofferenza per esempio dei sostituti di recente conio verso il procuratore capo Francesco Greco, ormai con un piede nel pensionamento, cui mancano solo due mesi. C’era stata una prima rivolta quando il dirigente aveva imposto ai sostituti di chiedere l’autorizzazione all’aggiunto di riferimento prima di assumere iniziative. Ma poi c’è stata tutta la ragnatela del processo Eni, in seguito a cui – e questo è veramente inusuale e sorprendente – presso la procura di Brescia sono indagati ben quattro pm milanesi, tra cui il capo dell’ufficio, e un ex di peso come Piercamillo Davigo. Quest’ultimo, insieme a Paolo Storari deve rispondere di rivelazione del segreto d’ufficio. È la storia della chiavetta informatica contenente le rivelazioni dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria, quella che avrebbe complottato per promuovere magistrati, tra cui lo stesso Francesco Greco. Storari aveva ritenuto rilevante quella testimonianza, ma in senso negativo, tanto da voler chiedere l’arresto dell’avvocato per calunnia. Sorprendentemente però il capo dell’ufficio aveva a lungo tentennato, tanto che il giovane pm aveva fatto il passo falso di consegnare la deposizione al suo mentore Davigo, allora membro del Csm, senza percorrere le vie ufficiali. Ma rispetto al turbinio di quel che è successo dentro e fuori l’aula del processo Eni-Nigeria siamo appena ai peccati veniali. E il fascicolo aperto a Brescia nei confronti di Francesco Greco per omissione di atti d’ufficio pesa più di un semplice conflitto tra il capo dell’ufficio e un suo sostituto. Perché il sospetto è che per il vertice della procura di Milano fosse più rilevante preservare testimoni d’accusa che potessero inchiodare l’Eni nel processo per corruzione internazionale, piuttosto che l’osservanza delle regole e la verifica della genuinità delle testimonianze. E qui entra in scena anche il dottor Fabio De Pasquale, che insieme al collega Sergio Spadaro ha sostenuto il ruolo dell’accusa nei confronti della multinazionale del petrolio, e che con lui è indagato a Brescia per rifiuto d’atti d’ufficio. Nella sentenza di assoluzione della presidenza Eni viene contestato in toto il sistema accusatorio dell’aggiunto De Pasquale. I giudici rammentano una sua dichiarazione del 21 luglio 2020: “Non chiedeteci una probatio diabolica”, aveva detto. E poi: “…bisogna utilizzare anche gli indizi, bisogna utilizzare tutto ciò che si conosce, non bisogna cercare banalmente, come se fosse la serie televisiva, la pistola fumante”. Ma il punto è questo: i pm De Pasquale e Spadaro, oltre a non cercare la pistola fumante, hanno anche ignorato le testimonianze a favore degli imputati sottraendole al giudizio del tribunale? Inoltre: non è vero che avevano al contrario tentato di fare entrare nel processo una dichiarazione dell’avvocato Amara che avrebbe costretto il presidente Tremolada ad astenersi e far saltare il processo intero? Ai giudici il verdetto. Intanto staremo a vedere se e quanti colleghi di Milano chiederanno al Csm di non trasferire Fabio De Pasquale.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

IL CSM CONTRO LA PROCURA GENERALE DELLA CASSAZIONE SUL CASO AMARA. IL PM PAOLO STORARI RESTA A MILANO. Il Corriere del Giorno il 4 Agosto 2021. Secondo la commissione disciplinare non c’è stato un “comportamento gravemente scorretto” da parte di Storari nei confronti Greco e dell’aggiunto Laura Pedio e nessuna accusa nei loro confronti di “inerzia investigativa”. Il Csm ha rigettato la richiesta del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di trasferimento cautelare d’urgenza e di cambio di funzioni per il magistrato Paolo Storari che invece resta come pubblico ministero a Milano, nell’ambito del caso dei verbali dell’avvocato Amara sulla presunta esistenza di una associazione segreta denominata “Loggia Ungheria”. Storari era stato audito nella giornata di ieri per due ore davanti al Csm dove era arrivato insieme al suo legale Paolo Della Sala. Il magistrato milanese si è difeso davanti ai giudici chiamati ad esprimersi sulla presunta incompatibilità ambientale e sul suo trasferimento. Poi, dopo la camera di consiglio è arrivata la decisione. Nessun “comportamento gravemente scorretto” da parte di Storari nei confronti del Procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio e nessuna accusa nei loro confronti di “inerzia investigativa”. Semmai nei colloqui con Piercamillo Davigo, il pm milanese ha espresso una “preoccupazione (…) sulle modalità di gestione del procedimento” relativo ai verbali Piero Amara “in presenza di una chiara divergenza di vedute”, scrive il Csm. “Siamo molto soddisfatti”, commenta a caldo l’avvocato della Seta difensore di Storari. “La funzione di garanzia delle istituzioni ha dimostrato la sua solidità e la sua tenuta e questo è molto confortante”. I sei giudici disciplinari del Csm hanno escluso che esistano esigenze cautelari in relazione ai tre illeciti disciplinari contestati a Storari, il quale sul versante penale è anche indagato a Brescia (insieme a Davigo) per rivelazione di segreto d’ufficio, anticipando e di fatto condizionando l’operato e le eventuali decisioni della Procura bresciana. 

Questi gli illeciti disciplinari contestati dalla Procura generale della Cassazione:

La PRIMA contestazione consisteva nella “informale e irrituale” consegna da Storari a Davigo di copie non firmate di verbali di un delicatissimo procedimento “su una supposta associazione segreta di cui avrebbero fatto parte anche due consiglieri Csm” consegna avvenuta “a insaputa del procuratore di Milano“, e fatta “a un singolo consigliere del Csm” avesse violato le modalità formali (consegna in plico riservato al Comitato di presidenza del Csm) ricavabili da due circolari Csm del 1994 il 1995, ribadite dalla risposta che nel settembre 2020 il Csm diede a un quesito posto nel 2016.

La SECONDA “grave scorrettezza” di Storari, era stata quella nei confronti del suo procuratore Francesco Greco, la cui relazione del 7 maggio (che non gli ha evitato di finire pure indagato a Brescia per omissione d’atto d’ufficio) lamentava che Storari non avesse “formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine” secondo quanto proposto nell’imputazione dal pg di Cassazione Salvi , rappresentato in udienza dal suo sostituto pg Marco Dall’Olio, e che solo successivamente avesse richiesto per iscritto che si svolgessero ulteriori attività di indagine e si procedesse all’iscrizione nel registro degli indagati.

Storari nell’udienza dinnanzi alla Disciplinare del Csm, ha provato a spiegare di aver voluto reagire a quattro mesi di solleciti a voce alla contitolare procuratore aggiunto Laura Pedio, al procuratore capo Francesco Greco e all’altro aggiunto Fabio De Pasquale; e di non aver quindi potuto “ritualmente prospettarli” proprio ai suoi capi. Il Csm non ha sposato con la sua decisione la tesi accusatoria di uno Storari che con il suo comportamento avrebbe gettato “discredito” su Greco e Pedio, secondo il procuratore generale Salvi “non messi anticipatamente al corrente di un effettivo e formalizzato dissenso sulla conduzione dell’indagini”, e quindi esposti a “una sotterranea campagna di discredito oggettivamente posta in essere da Storari, per giunta all’interno del Csm“.

La TERZA contestazione della Procura Generale della Cassazione partiva dal fatto che nell’ottobre 2020 Antonio Massari giornalista del Fatto Quotidiano, si fosse recato in Procura ad avvisare i magistrati di avere ricevuto in forma anonima apparenti verbali segreti di Amara (quelli che solo di recente la Procura di Roma accuserà la segretaria di Davigo al Csm di aver spedito): per questa imputazione Storari ha spiegato al Csm per quali ragioni non collegò i verbali anonimi con i verbali che aveva dato mesi prima a a Davigo (circostanza non palesata in quel momento ai capi). Il procuratore generale Salvi valorizzava l’accusa mossa a Storari dal procuratore aggiunto Laura Pedio nella relazione del 6 maggio scorso: cioè il fatto che la Pedio, dopo aver concordato con lui nel gennaio 2021 di esplorare la pista investigativa sulla fuoriuscita dei verbali su carta o su computer attraverso un incarico a un perito informatico, “abbia poi accertato che solo l’8 marzo” Storari aveva conferito l’incarico al perito riguardo alla natura delle copie spedite al giornalista, e invece ancora nessun incarico sui computer della Procura. 

Un comportamento, quello di Storari, che prima Greco e Pedio nelle loro relazioni, e successivamente il procuratore generale della Cassazione Salvi nell’imputazione, hanno qualificato di “rallentamento” e “ostruzionismo” delle indagini. Ma Storari deve avere opposto al Csm dei dati di fatto contrastanti a questa ricostruzione, evidentemente tali da aver convinto la Sezione Disciplinare, composta — dopo le astensioni del vicepresidente Csm David Ermini e degli altri consiglieri Csm ai quali Davigo mostrò o parlò dei verbali di Amara ricevuti da Storari , dal componente laico (eletto dal Parlamento) espresso dalla Lega, Emanuele Basile, presidente del collegio, dall’altro membro di nomina parlamentare, il relatore Filippo Donati (5Stelle), e dai togati (cioè eletti invece dai magistrati) Giuseppe D’Amato e Paola Braggion (entrambi di Magistratura Indipendente), Giovanni Zaccaro (Area), Carmelo Celentano (Unicost) . Sotto il profilo penale Storari resta indagato a Brescia per rivelazione di segreto nella consegna dei verbali di Amara a Davigo, mentre Greco a Brescia è indagato per l’ipotesi di omissione d’atto d’ufficio nelle ritardate iscrizioni delle notizie di reato scaturenti dai verbali di Amara.

Il Csm in relazione nei colloqui con Piercamillo Davigo, ha espresso una “preoccupazione (…) sulle modalità di gestione del procedimento” relativo ai verbali Piero Amara “in presenza di una chiara divergenza di vedute”. La sezione disciplinare ritiene che la consistenza degli indizi sottoposti con la richiesta “non conduca a un giudizio prognostico di sussistenza dell’illecito”. La situazione che si è determinata “non è sintomatica di una situazione che possa pregiudicare la buona amministrazione della giustizia” né “si riverbera sull’esercizio delle funzioni specifiche”.

Adesso, con Storari non cacciato da Milano in via cautelare come auspicava il suo procuratore Greco intervenuto con una lettera aperta ai pm milanesi alla vigilia dell’udienza disciplinare al Csm contro Storari, proseguirà per lui comunque il procedimento disciplinare ordinario, al termine del quale potrà essere o prosciolto o sanzionato secondo varie gradazioni (dall’ammonimento alla censura, dalla perdita di anzianità alla radiazione). Nel frattempo procede l’inchiesta parallela della Procura di Brescia, che indaga sul procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e sul pm Sergio Spadaro per l’ipotesi di rifiuto d’atto d’ufficio, nel presupposto che questi due pm, titolari del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria succesivamente conclusosi il 17 marzo scorso con la assoluzione di tutti gli imputati, non abbiano messo a disposizione del Tribunale talune prove: proprio quelle che, scoperte da Storari proprio in un fascicolo parallelo con Pedio, e da lui segnalate ai colleghi e ai capi della Procura tra fine 2020 e inizio 2021, che mettevano in dubbio l’attendibilità dell’accusatore di Eni, il coimputato/dichiarante Vincenzo Armanna, su cui la Procura di Greco aveva investito (nel processo istruito da De Pasquale e Spadaro) e ancora stava investendo (nell’indagine di Pedio e Storari in corso da quattro anni sul depistaggio giudiziario Eni).

Sconfessati Greco e i suoi fedelissimi. Veleni e tradimenti, la procura di Milano ora è senza guida. Luca Fazzo il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Il capo (indagato) in pensione in autunno. Il futuro è un'incognita. Una vittoria dei pm che avevano firmato in difesa del loro collega. La presenza di Paolo Storari nella Procura di Milano «non è sintomatica di una situazione che possa pregiudicare la buona amministrazione della giustizia». È questa la frase chiave del provvedimento che ieri dal Csm arriva a Milano, dove passa (virtualmente) di mano in mano tra le decine di magistrati che avevano sottoscritto l'appello in difesa del pm sotto accusa per i verbali del caso Amara. È la frase decisiva perché fa proprio quanto era stato scritto nell'appello firmato dall'intera Procura della Repubblica (tranne i fedelissimi del capo Francesco Greco). Storari è uno di noi e siamo pronti a continuare a lavorare al suo fianco, diceva in sostanza il documento: entrando così in rotta di collisione con Greco, che infatti l'aveva preso malissimo; nonché con la procura generale della Cassazione che aveva chiesto al Csm la testa di Storari proprio in nome della «serenità» della Procura milanese. Ieri, per i firmatari, è il giorno della vittoria: nella decisione del Csm si scrive anche che Storari può continuare a fare il pm a Milano perché quanto accaduto intorno ai verbali di Amara è una vicenda irripetibile, «collegata ad una particolarissima situazione fattuale, che aveva creato sovrapposizioni e disfunzioni difficilmente reiterabili in altri casi». Incolpare Storari di avere violato il segreto consegnando i verbali a Davigo è arduo perché lo stesso Csm ha diramato una tale serie di circolari sul segreto che non ci si capisce più niente: «Le circolari hanno dato luogo a problematiche interpretative», e l'accusa mossa a Storari è figlia di una «interpretazione normativa di non piana soluzione» e di un precetto non «chiaramente individuabile». Il pm viene prosciolto anche dall'avere accusato ingiustamente i suoi capi di voler bloccare le indagini sulla «loggia Ungheria»: nel suo sfogo con Davigo, si limitò secondo il Csm a manifestare «la preoccupazione sulle modalità di gestione del procedimento, in presenza di una chiara divergenza di vedute con il Procuratore». Le dieci pagine che i colleghi milanesi di Storari si trovano in mano sono, insomma, quasi una assoluzione piena per il pm finito nei guai. La reazione è di sollievo, «siamo felicissimi per Paolo», dice uno dei firmatari. Ma è chiaro a tutti che insieme alla vittoria di Storari la decisione del Csm porta anche a una sconfessione piena di Greco e del suo cerchio magico, e mette da questo punto di vista la Procura milanese in una situazione drammatica, con un capo che a tre mesi dalla pensione si trova indagato penalmente a Brescia e smentito dall'organo di autogoverno. Così la domanda che si fanno le decine di pm qualunque, quelli che hanno firmato il documento più per amicizia verso Storari che per avversione a Greco, è: adesso cosa accadrà? La paura della maggioranza è di trovarsi di fronte a un interregno di lunga durata, in un ufficio sostanzialmente non governato. E questo non gioverebbe a nessuno. Ieri, nella grande Procura svuotata dall'agosto, accade - da questo punto di vista - un incontro significativo. Greco, che è tra i pochi presenti al lavoro, incontra il procuratore aggiunto Riccardo Targetti. Targetti è il più anziano tra i «vice» del capo, e questo lo destina a guidare l'ufficio nei lunghi mesi che il Csm impiegherà a scegliere il nuovo procuratore. Anche Targetti ha firmato l'appello in difesa di Storari: ma si dice che lo abbia fatto anche per non schierarsi contro la base dell'ufficio, e per candidarsi a riportare l'armonia, all'indomani del pensionamento di Greco, in un gruppo di lavoro devastato da contrapposizioni e veleni. Il lungo incontro di ieri tra Greco e Targetti non è ancora un passaggio di testimone, ma forse è il segnale che ci si prepara a voltare pagina. Comunque non sarà facile, perché questa storia ha lacerato anche i rapporti personali: e perché in Procura rimane comunque Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che i verbali di Amara voleva usarli contro l'Eni, e che Greco ha voluto alla testa del contestatissimo pool sui reati economici internazionali. Un pool che era il fiore all'occhiello della Procura milanese, e che perfino l'Ocse si preparava a incontrare in questi giorni. Incontro saltato, ovviamente.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Ancora Csm-Procura di Milano: un teatrino che non aiuta l'Italia. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 5 agosto 2021. MENTRE va avanti con estrema lentezza la riforma Cartabia che per quanto ridotta rappresenta comunque il giro di boa dopo il peggio del peggio dalla riforma Bonafede, la giustizia italiana seguita a dare spettacolo e non dei migliori. Al centro del disastro, di nuovo, la procura di Milano dove il Csm è intervenuto per contraddire per rendere inefficaci le decisioni del procuratore capo Greco, stabilendo che il pm Sergio Spadaro non debba essere rimosso da Milano e che non ci sia alcun inquinamento ambientale che suggerisca un tale provvedimento. Come se non bastasse e già lo sappiamo, la procura di Brescia stagione indagando su quella di Milano, mentre il figlio del procuratore Borrelli ha preso le distanze da Greco che era stato ai tempi di mani pulite il delfino del padre. Cerchiamo di ricapitolare brevemente per capire di che cosa stiamo trattando. Il pubblico ministero Spadaro era titolare dell’inchiesta sulle rivelazioni fatte dall’avvocato Amara che contengono un racconto estremamente grave sulla situazione giudiziaria in generale. In quel racconto si parlerebbe anche di una non meglio specificata loggia Ungheria di cui non si capisce se dovrebbe o no far parte della massoneria o se si tratterebbe soltanto di una accolita di persone che coltivano interessi di carriera comuni e in cui ci sarebbero determinate carriere, assegnazioni di inchieste, epiloghi di indagini. Di questa confraternita secondo quanto avrebbe testimoniato l’avvocato Amara farebbero parte non soltanto dei magistrati ma anche avvocati, giornalisti, e qualche membro delle forze dell’ordine e forse dei servizi segreti ma non se ne sa molto di più. Il procuratore Spadaro decise di venire a capo di questa faccenda e controllare parola per parola le dichiarazioni di Amara. Ma si è visto sottrarre il fascicolo dal suo capo il procuratore capo Greco. A questo punto Spadaro, sentendosi abbandonato e vedendo a rischio la sua attività di fedele servitore dello Stato ha pensato di rivolgersi a Piercamillo Davigo membro del CSM a Roma per non far affossare l’inchiesta. E gli consegnò clandestinamente il dossier. Poi gli eventi sono precipitati nel senso che non è accaduto nulla ma con alcune curiose varianti. Davigo avrebbe parlato del dossier Amara facendone riferimento come la prego ma senza compiere alcun atto preciso. In compenso lo stesso dossier sarebbe stato fotocopiato e inviato anonimamente a due giornalisti di due importanti testate italiane i quali, fedeli al motto  “noi altri giornalisti pubblichiamo tutto non importa che cosa ci sia dentro perché il nostro dovere mestiere”, si sono tenuti il malloppo nelle loro case senza far trapelare una parola. È nata così un’inchiesta anche su ciò che ha fatto Davigo, se è stato lui o no a dare questo dossier. Brutta storia brutta faccenda.  Adesso il Csm che si sente fortemente sotto la lente di ingrandimento, è in stato d’accusa davanti all’opinione pubblica per le numerose rivelazioni che  negli ultimi anni non hanno certo contribuito a migliorare la sua immagine, ha deciso di intervenire con un gesto clamoroso: contraddire Greco, che è già sotto inchiesta dalla procura di Brescia, dare ragione di fatto a Spadaro e ammettere quindi che la questione del dossier Amara è grave, importante, che finora è stata trattata in una maniera che non può considerarsi accettabile quantomeno per l’opinione pubblica. Questa vicenda come abbiamo detto e l’esempio ultimo ma non unico di una situazione della giustizia in crisi e in alcune procure come quella di Milano si direbbe ad un crollo verticale della dell’immagine e degli uomini che ora gestiscono. Gli uomini sono quelli che si rifanno ancora all’antico pool originario di Borrelli, quello che per intendersi decapitò la prima Repubblica attraverso l’inchiesta Enimont, e  che si concluse con innumerevoli processi, pochissime insignificanti condanne, e una terribile quantità di vite umane perdute per suicidio o morti misteriose come quella di Raul Gardini che dopo aver recapitato una valigetta al Palazzo delle Botteghe Oscure, dove aveva sede il partito comunista italiano, tornato a casa ci sarebbe fatto una rigenerante doccia e poi sdraiato sull’accappatoio si sarebbe distrattamente sparato alla tempia. Per non dire di Emanuele Cagliari presidente dell’ENI che si sarebbe suicidato girando la testa in un sacchetto di plastica azione che è del tutto impossibile effettuare come suicidio perché qualsiasi persona voglia usarla al fine di morire non riesce a portarla a termine si strappa via il tasto il sacco dalla testa. Cagliari no. La storia è molto lunga e per nulla trasparente. Non sappiamo neanche dire se oggi siamo gli epigoni di quelle vicende ma certamente siamo nel solco di una brutta storia, che ci fa apparire all’Europa indegni di ricevere i fondi degli altri paesi europei che vantano una tradizione più civile nella gestione della giustizia dei cittadini. Adesso abbiamo questa piccola riforma Cartabia di cui come abbiamo detto possiamo esserci certi che quantomeno si tratta del punto di svolta. Non risolve tutto anzi risolve pochissimo. Ma quel poco è buono: viene stabilita la improcedibilità dei processi penali protratti oltre i limiti intendendosi che la prescrizione illimitata è una colpa del magistrato, che viene meno all’obbligo di concludere in tempo la sua inchiesta poiché non è ammissibile in nessuna civiltà moderna e democratica che un cittadino si veda inquisito e processato a vita senza via di scampo neanche quando viene dichiarato innocente in primo grado, e neanche il secondo. La riforma Cartabia ha interrotto quella linea perversa, ha salvato un po’ capra e cavoli introducendo i limiti dei processi che contengono elementi di mafia, terrorismo e delitti sessuali, cosa che non da tutte le garanzie ai cittadini dal momento che qualsiasi magistrato che avrebbe  interesse a protrarre un processo per molti anni, non deve far altro che includere uno di questi reati seppure in forma ipotetica tra le accuse rivolte salvo poi essere smentito dalla sentenza. L’abbiamo visto recentemente col processo alla mafia romana, trattato come un caso di mafia si sia  ridotto a un caso di banale criminalità urbana e dunque con l’abuso di tutte le norme, i  riferimenti giudiziari che fanno capo ai processi di mafia. Ma siamo già un pezzo avanti è questo l’importante. Abbiamo avuto la fortuna o il piacere di vedere il ministro Bonafede  parlare contro sé stesso contro la propria cosiddetta riforma e votare contro ciò che lui stesso aveva fatto. Bella soddisfazione. I Cinque Stelle sono divisi in micro-stelline sparse, anche se adesso Giuseppe Conte ha i titoli formali per guidare il movimento. La questione della giustizia è appena nata dal punto di vista della sua riforma perché bisogna ora attendere la questione dei referendum, se si faranno, quando e con quali risultati. Oppure se il Parlamento avrà la forza,  il coraggio di riprendere in mano tutta la materia e legiferare prima del referendum in maniera più organica e completa. Potrebbe accadere ma nel dubitiamo: tutto è assolutamente dubbio, salvo il fatto che la presenza di Draghi costituisce ancora una volta una garanzia e proprio queste ultime vicende giudiziarie lo dimostrano dal momento che l’enorme macchinario farraginoso ha cominciato a muoversi e sia pur cigolando la macchina ha ripreso seppur lentamente a funzionare.

Loggia Ungheria, procure in mezzo al guado. Frank Cimini su Il Riformista il 5 Agosto 2021. L’ormai famosa loggia Ungheria è esistita, esiste o si tratta di una bufala messa a verbale dall’avvocato Piero Amara? Non lo sappiano e c’è il rischio di non saperlo mai. Le procure di Milano, Perugia e Vattelapesca dovrebbero accertarlo. Il condizionale è d’obbligo perché a quanto pare nulla è stato fatto sia prima sia dopo l’emergere del caso. Diciamo che le procure potrebbero (eufemismo) essere imbarazzate. Nel caso dovessero indagare finirebbero inevitabilmente per lanciare il messaggio di sospettare di altre toghe. Dal momento che Piero Amara ha affermato che ne facevano parte anche magistrati e giudici insieme a politici imprenditori avvocati e uomini di affari. Anche per intrallazzare sulle nomine del Csm. Nel caso invece non dovessero indagare finirebbero per buttare a mare con un gioco di parole Amara che per molti versi ci si è buttato da solo. Ma, dettaglio importantissimo, l’avvocato siciliano viene ancora valorizzato al massino come testimone della corona dalla procura di Milano nel ricorso in appello contro la sentenza che ha assolto i vertici dell’Eni dall’accusa di concorso in corruzione in atti giudiziari nel tentativo in verità non facile di ribaltare il verdetto al processo di secondo grado. Delle due l’una. Non esiste una terza via, a meno che non dovesse trattarsi di non fare niente. A non fare niente intanto anche sul punto è il Csm che pare non toccato dalla vicenda. A cominciare dal suo presidente Sergio Mattarella che è anche il capo dello Stato e di questi tempi parla di tutto persino dell’istituto di previdenza dei giornalisti ma non della bufera che ha investito la categoria nel suo complesso. A tacere poi è la politica tutta. Storicamente quando la politica è in difficoltà, basta ricordare il mitico 1992, viene azzannata dalla magistratura che in questo modo aumenta il proprio potere. Quando la magistratura è in difficoltà la politica sembra avere paura. È riuscita a tacere in sostanza anche sul caso del senatore Caridi assolto dopo 5 anni compresi 18 mesi di carcere dove lo mandò il Parlamento accogliendo la richiesta di arresto dei giudici. Tornando a botta. Cosa farà per esempio sulla famosa loggia Ungheria la procura di Milano in pratica delegittimata dal Csm che ha deciso di non trasferire il pm Pm Paolo Storari il quale aveva rotto con il capo Francesco Greco proprio su quelle indagini mancate? Cosa può coordinare Greco a pochi mesi dalla pensione e indagato a Brescia giusto per lo scontro con Storari? E nel caso in cui Greco anticipasse la pensione chi lo dovesse sostituire come facente funzione in attesa della nomina del successore riprenderebbe subito in mano la patata bollente? E a Perugia sono tutti presi solo dal caso Palamara senza avere tempo per altro? Non resta che aspettare magari nella consapevolezza di non doversi aspettare niente se non che il tempo scorra. Frank Cimini 

"Tra Storari e De Pasquale io salvo il primo". Luca Fazzo l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. L'avvocato gran conoscitore del tribunale milanese: "60 pm su 65 la pensano come me". «Non sono amico del dottor Storari, l'ho avuto come pm in molti processi e posso dire che è un osso molto duro. Ma anche di estrema correttezza, è uno che mantiene la parola. E se sessanta pm su sessantacinque hanno preso le sue difese, questo significa che la pensano come me».

Davide Steccanella, avvocato da 35 anni a Milano, è una delle voci critiche - anche con i suo interventi sul blog Giustiziami.it - del rito ambrosiano della giustizia. Come tutti i suoi colleghi, legge da giorni quanto sta emergendo sullo scontro furibondo innescato nella procura di Milano dalla gestione del processo Eni e dai verbali del pentito Piero Amatra. E non ha esitazioni nell'indicare da che parte stiano le ragioni.

Chi vive in tribunale a Milano ha i mezzi per capire quanto sta accadendo?

«Non del tutto, ci sono sicuramente parti di non detto che non vengono divulgate urbi et orbi. Poi non abbiamo le carte, che sono ancora nei fascicoli disciplinari del Csm e della Procura di Brescia. Ma una idea me la sono fatta».

E qual è?

«Che da una parte ci siano stati da Storari comportamenti formalmente eccepibili. Che sono però assolutamente meno gravi dei comportamenti sostanziali che, se venissero provati, vengono addebitati all'altra parte (cioè al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del processo Eni, ndr). Per capire la gravità dell'accaduto bisogna ricordare che stiamo parlando della Procura di Milano, probabilmente la più importante del paese per gli interessi che è in grado di smuovere».

Però Storari l'ha fatta grossa, passando quei verbali a Davigo.

«Bisogna sempre distinguere tra forma e sostanza. Va bene, Storari ha fatto vedere degli atti segreti. Ma lo ha fatto, per quanto se ne capisce, in stato di necessità. Dall'altra parte cosa è accaduto? Premetto che bisogna essere garantisti con tutti, quindi anche con i magistrati. Ma se venisse confermato quanto emerso finora, siamo di fronte a qualcosa di ben più grave. La Procura ha fatto un uso parziale di verbali di cui aveva la disponibilità, usando solo la parte che le serviva per colpire il giudice del processo Eni. Vede, quel giudice io lo conosco bene, siamo amici, abbiano studiato insieme all'università. È una delle persone più oneste della storia umana. Pensare di accusare Marco Tremolada di essere a disposizione di chicchesia è aldilà di ogni verosimiglianza».

Però la Procura generale della Cassazione ha chiesto il trasferimento di Storari, e non di De Pasquale.

«Ho trovato un po' strano che il primo a essere oggetto di un provvedimento fosse Storari. Il Csm evidentemente è stato del mio stesso avviso».

De Pasquale è accusato anche di avere nascosto elementi utili alla difesa degli imputati. Non c'è un po' di ipocrisia in questa accusa? Davvero esistono invece pm che cercano le prove dell'innocenza dei loro indagati?

«Se esistono, io non ne ho mai incontrato uno. Ma devo dire che non mi scandalizzo. Sì, esiste una norma del codice che lo prevederebbe, ma credo che sia la meno applicata in assoluto dell'intero codice. Ricordo però che Giovanni Falcone, quando entrò in vigore questo codice di procedura, disse: adesso il pubblico ministero è l'avvocato della polizia. Ecco, io considero il pm il mio omologo dall'altra parte, e per questo non mi aspetto che mi dia una mano. Il problema è quando il giudice sta dalla sua parte, quando si fa coinvolgere anche lui dall'agonismo del pm».

Il giudice può anche essere bravo, ma un processo non è mai uno scontro ad armi pari.

«Per forza, per sei mesi il pm indaga senza dirti niente. Quando scendi in pista tu, per raggiungerlo devi essere Marcell Jacobs».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Lo strano doppio ruolo di De Pasquale su Eni (col benestare di Greco). Luca Fazzo il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. È indagato per aver omesso un video chiave. Ma continua a rappresentare l'accusa. Chi sta difendendo il dottor Fabio De Pasquale, procuratore aggiunto della Repubblica a Milano, nel processo Eni e nel gigantesco intrigo che ne è seguito? Sta difendendo gli interessi della giustizia e della verità, o sta difendendo se stesso? Poiché tutto è possibile, magari sta difendendo entrambi. Ciò non toglie che non si possa capire bene la tempesta che ha investito la Procura milanese, lacerata al suo interno e con un capo sconfessato persino dal Consiglio superiore della magistratura, se non si scava bene nelle pieghe del processo da cui tutto nasce, l'accusa di corruzione ai vertici Eni per le tangenti in Nigeria; e non si focalizza l'attenzione sulle scelte compiute in questi giorni da De Pasquale, che delle accuse all'Eni è stato il protagonista assoluto. Il tribunale, come è noto, il 17 marzo ha assolto con formula piena i vertici Eni. Una assoluzione che De Pasquale temeva, e che ha fatto di tutto per impedire. Al punto di nascondere le prove a favore degli imputati, in particolare il video di un incontro in cui Vincenzo Armanna, l'ex manager Eni utilizzato da De Pasquale come «gola profonda», si rivelava come un ricattatore in piena regola, pronto già un anno prima a «fare arrivare una valanga di merda» sui vertici aziendali se non avessero accolto le sue pretese. Un video definito «dirompente» dai giudici che hanno assolto i vertici Eni. Per non avere portato quel video in aula, oggi De Pasquale è sotto inchiesta a Brescia per abuso d'ufficio. Eppure c'è la firma di De Pasquale sotto il ricorso presentato contro l'assoluzione dei dirigenti Eni. Il ricorso per ben otto pagine, dalla 72 all'80, si occupa del video di Armanna. Il video è cruciale per capire la vera storia degli affari Eni in Nigeria. Insieme ad Armanna vi compare Piero Amara, ex avvocato Eni, l'altro «pentito» usato da De Pasquale nel processo, insieme a due uomini di area Pd: Andrea Peruzy, ex braccio destro di Massimo D'Alema, e Paolo Quinto, assistente di Anna Finocchiaro. Nel video, Armanna annuncia agli altri la sua intenzione di ricattare i vertici Eni. Ma De Pasquale tiene il video per sé: decisione che i giudici definiscono «incomprensibile» visto che «reca straordinari elementi in favore degli imputati». Nel suo ricorso contro le assoluzioni, De Pasquale definisce «affaristico» e «da spaccone» il tono di Armanna, ma dice che il video «in nessun modo può diventare l'arma che distrugge un intero processo». Se ne occuperà a suo tempo la Corte d'appello. Il problema, per ora, è che De Pasquale si trova a giocare sia il ruolo di accusatore che quello di accusato. Al punto da non capire se le otto pagine che dedica al video nel ricorso siano più finalizzate a ottenere la condanna dei vertici Eni o la propria assoluzione nell'inchiesta bresciana. Questo doppio ruolo di De Pasquale sarebbe in teoria impedito dalla norma che prevede l'astensione del pubblico ministero davanti a «gravi ragioni di convenienza»: una facoltà che diventa un obbligo quando il pm ha un «interesse proprio» nella vicenda. Eppure non solo De Pasquale non si astiene, non solo firma (da solo) il ricorso ma si candida a sostenere personalmente l'accusa anche nel processo d'appello: per impedire che a occuparsene sia la Procura generale, che già in un altro processo ha smontato le accuse a Eni definendo Armanna un «avvelenatore di pozzi». Il problema è che De Pasquale può interpretare il doppio ruolo di accusatore e di accusato solo perché glielo consente il suo capo, Francesco Greco. Perché questo venga consentito da un magistrato della esperienza e della limpidezza di Greco è uno dei misteri di questa vicenda. Ma intanto tutto, dalla fuga dei verbali di Amara al video sparito del suo compare Armanna, riporta al gorgo del processo Eni: un processo caricato dalla Procura di Milano di tali e tanti significati da considerare l'assoluzione una sorta di tragedia. E così hanno perso la testa.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Terremoto nella magistratura. Salvi e Greco delegittimati, si dimetteranno? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Agosto 2021. «Se il procuratore generale della cassazione Giovanni Salvi dovesse essere sconfessato dalla prima commissione del Csm cui ha chiesto trasferimento e cambio di funzioni per il pm milanese Paolo Storari, si dovrebbe dimettere». Lo scrivevamo sul Riformista lo scorso 27 luglio, e non possiamo che ribadirlo. Non per un improvviso furore giacobino nei confronti dell’alto magistrato, ma semplicemente perché quando si perde uno scontro politico importante come quello in corso tra le toghe italiane, si dovrebbe almeno mostrare la stessa dignità che viene richiesta ogni giorno ai politici. “Per ragioni di opportunità”, si usa dire. Insieme alla sconfitta di Salvi, del suo asse con il procuratore di Milano Francesco Greco e con il loro nume tutelare Giuseppe Cascini (potremmo aggiungere senza timore di sbagliare) è andato in crisi un sistema, un metodo che dominava e soffocava da trent’anni la democrazia italiana. Il sistema Mani Pulite, che era la presunta lotta del Bene contro il Male, ma anche e soprattutto qualcosa di più, qualcosa di peggio e di terribile: la capacità di governare trucchi e trucchetti processuali con la garanzia dell’impunità. Un vero maccartismo politico per via giudiziaria. È stata in gioco in tutti questi anni semplicemente la Grande Questione del Potere. Non è vero, come vuole la interessata vulgata del partito dei pm, che loro hanno occupato, obtorto collo, spazi che una politica imbelle aveva lasciato liberi. È andata esattamente al contrario. È invece successo che, proprio come ha capito e realizzato molti anni dopo il populista Beppe Grillo dando l’assalto al Parlamento, all’inizio degli anni novanta un Movimento in toga, cogliendo il momento di difficoltà politica e soprattutto economica del Paese, abbia aggredito i partiti e le grandi imprese. L’acclamazione delle tricoteuses e del popolo festante che faceva il girotondo intorno al Palazzo di giustizia di Milano hanno fatto il resto. I suicidi di Raul Gardini e Gabriele Cagliari ancora grondano sangue a dimostrazione di quanto violenta e politica sia stata quella guerra, con relativa presa del Palazzo d’inverno da parte del Movimento in toga. Non è un caso che i nodi siano venuti al pettine nel corso di un nuovo accanimento proprio sull’Eni. L’aggressione ai partiti è oggi più difficile. Quelli della Prima Repubblica non ci sono più, con la sola eccezione di quel Pci-Pds-Ds-Pd che è stato fin dal primo momento l’angelo custode del Movimento in toga. Non disinteressato, ovviamente. Un po’ perché salvato, nonostante fossero provati, anche da testimonianze “interne”, sia il finanziamento illegale ricevuto dall’Unione sovietica, sia la partecipazione alla spartizione con gli altri partiti alle commesse illegali delle grandi aziende. Alcune delle quali furono spolpate e portate alla cessazione dell’attività. Non a caso nessuno si alzò a protestare in quell’aula del 1993 quando Bettino Craxi disse che i bilanci di tutti i partiti erano “falsi o falsificati”. Né Occhetto né D’Alema né altri loro compagni chiesero la parola. Tutti muti e ipocriti. L’assalto ai partiti sui finanziamenti illeciti e sulla corruzione è praticamente finito lì, con la distruzione del pentapartito e della Prima Repubblica. Non a caso le centinaia di agguati giudiziari tesi in seguito a Berlusconi, di cui uno solo andato in porto, erano diretti a colpire l’uomo politico tramite la sua attività di grande imprenditore. E quelli tentati su Salvini non hanno dato grandi risultati. Ma è sempre rimasto sul piatto il boccone grosso dell’Eni. Che paradossalmente si è poi rivelato essere la vera buccia di banana su cui è sciolto il Rito Ambrosiano. Che si è rivelato essere una vera Magistratopoli Lombarda. In che cosa consiste (è consistito) il Rito Ambrosiano? Nella grande disinvoltura nell’applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, prima di tutto. La difesa a parole da parte di procuratori e sindacalisti in toga dell’articolo 112 della Costituzione è la garanzia costante di poterlo violare con la garanzia dell’impunità. Lo aveva ben capito Matteo Renzi quando, da presidente del Consiglio, era andato a Milano a ringraziare il procuratore Bruti Liberati, uscito vincitore al Csm grazie al presidente Giorgio Napolitano dalla guerra con Alfredo Robledo, per aver salvato Expo dalle inchieste giudiziarie. Difendere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per poterlo violare sempre senza doverne rispondere a nessuno (cosa che sarebbe impossibile in regime di discrezionalità), è sempre stato un grande asso nella manica della Procura della repubblica di Milano. Insieme a quello della competenza territoriale, violata senza che altri avessero la possibilità di contestarlo, in nome della propria superiorità “morale”. L’altro punto di forza è stato la costruzione di un fortino molto omogeneo sul piano politico e molto compatto. Grazie ai santi in paradiso, cioè al Csm, e al sistema di alleanze e cene romane (quelle ben raccontate nel libro di Sallusti e Palamara), i procuratori capo di Magistratura Democratica si sono susseguiti a Milano senza soluzione di continuità: Borrelli, D’Ambrosio, Bruti Liberati, Greco. Una storia che andrà raccontata per bene, un giorno, magari con le testimonianze dei pochi corpi estranei come Tiziana Parenti o come Alfredo Robledo, che sono stati sputati via come nocciolini indigesti, con noncuranza. Con Paolo Storari il giochino non ha funzionato. Non si illuda, il giovane sostituto milanese. E non si adombri se gli diciamo che lui non è l’eroe del caso Eni né che, se ha sconfitto il proprio capo e addirittura un uomo potente come il procuratore generale Giovanni Salvi, ha qualche merito la sua deposizione davanti alla prima commissione del Csm. Perché quella stessa, in tempi e situazioni diverse, avrebbe sputato via come un nocciolino anche lui, lo avrebbe, senza fare neanche un plissé, trasferito a Caltanissetta e demansionato a fare il passacarte. Non è andata così perché sta cambiando tutto. E ancora pare non essersene accorto Francesco Greco, il procuratore di Milano che farebbe bene ad anticipare di qualche mese la data della propria pensione, prevista per novembre. E farà bene il Csm a spezzare la continuità del Rito Ambrosiano nella nomina del nuovo procuratore, sia questo un esponente di Unicost (corrente centrista) come Giuseppe Amato, piuttosto che Marcello Viola, l’esponente di Magistratura indipendente già penalizzato su Roma. Francesco Greco dovrebbe chiudere i battenti anche perché ha enormi responsabilità. La procura di Milano ha investito tutto sul processo Eni, ha fatto una scommessa pensando di poter usare i metodi del passato, quell’elasticità del Rito Ambrosiano per cui tutto è consentito pur di raggiungere il fine supremo, che in questo caso era la condanna dei vertici, presenti e passati, del colosso petrolifero. Il fortino non ha retto in questo caso, per molti motivi. Perché la testimonianza di Luca Palamara ha scoperchiato trucchi e trucchetti politici di certa magistratura che i cittadini non tollerano più. Perché i due pm del processo, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno esagerato: prove a favore degli imputati tenute nascoste e il tentativo di usare come un cavallo di troia una testimonianza che avrebbe costreetto il presidente del tribunale alle dimissioni. E sono anche incappati in un tribunale e in un presidente come Marco Tremolada che non solo ha assolto gli imputati, ma ha bacchettato con severità nelle motivazioni della sentenza il comportamento dei pubblici ministeri. E anche perché a Brescia, a capo della procura che oggi sta indagando ben cinque pm milanesi tra cui lo stesso Greco, c’è Francesco Prete, che arriva proprio da quegli stessi uffici, e che, pur non avendo mai fatto parte del “cerchio magico”, ben ne conosce le abitudini e i metodi di lavoro. Il che non è tranquillizzante per gli indagati. A questo possiamo aggiungere che fin dal 2019 i pubblici ministeri milanesi erano in rivolta nei confronti del capo e glielo hanno quasi gridato in faccia firmando in 60 su 64 a favore di Storari, quando il procuratore Salvi, dopo aver parlato con Greco, aveva chiesto l’allontanamento del sostituto da Milano, per non turbare la “serenità” dei colleghi. Avrebbe dovuto saperlo che in politica, anche quella giudiziaria, non porta fortuna parlare di “serenità”! La composizione della prima commissione del Csm, infine, quella che decide sui trasferimenti: disboscata da tutti coloro che per un motivo o per l’altro erano in conflitto di interessi, è diventata un luogo decisionale quasi “normale”. E normalmente, come avrebbe cantato Lucio Dalla in Disperato erotico stomp, ha incontrato.. non “una puttana ottimista e di sinistra”, cioè l’immagine del vecchio Csm, ma una decisione che apre alla speranza di un vero cambiamento di regime. Per tutti questi motivi, e magari molti altri, Paolo Storari resta al suo posto. E si prevede che ne vedremo delle belle, prossimamente.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"È una guerra di potere, escono male tutti". Stefano Zurlo il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. L'avvocato: "Dopo Mani Pulite il conflitto si è trasferito dentro la corporazione". Un altro colpo alla credibilità della magistratura. «Questo verdetto disorienta ancora di più l'opinione pubblica - spiega Gaetano Pecorella, uno dei più noti avvocati italiani ed ex deputato di Fi -. Nessuno ne esce vincitore, la percezione è quella di una guerra di potere, meglio di una faida interna alla magistratura».

Il procuratore generale della Cassazione aveva chiesto l'allontanamento di Storari da Milano. È stato sconfessato?

«Mi pare che il Csm l'abbia delegittimato. Salvi aveva chiesto in via cautelare, insomma d'urgenza, il trasferimento di Storari e l'addio alla carriera di pm. Per carità, il procedimento disciplinare va avanti, ma a parte i tecnicismi è evidente che Salvi ha perso su tutta la linea. E altrettanto forte mi pare lo schiaffo dato dal Csm al procuratore di Milano Francesco Greco che aveva denunciato la scorrettezza di Storari, ma evidentemente la difesa del pm è stata convincente e ora Greco è un capo debolissimo, abbandonato da sessanta colleghi che si sono schierati con Storari, per nemesi storica nella città di Mani pulite e di tante inchieste importantissime».

Chi ha torto e chi ha ragione in questa storia?

«Mi pare che nessuno faccia una bella figura. Greco e Salvi incassano una sconfitta clamorosa, ma anche Storari non brilla: ha consegnato sottobanco i verbali ancora segreti dell'avvocato Amara a Piercamillo Davigo, venendo meno alle regole della professione e al principio di lealtà verso i suoi superiori. È un quadro imbarazzante, da qualunque parte lo si guardi».

Il Csm?

«I suoi vertici e numerosi consiglieri erano a conoscenza da mesi di queste carte e della guerra che si combatteva dietro le quinte alla procura di Milano. Sapevano ma hanno gestito il caso in modo approssimativo e opaco. Si resta sconcertati davanti a questi comportamenti».

Insomma, per tornare alla domanda decisiva: hanno tutti torto?

«Le ragioni degli uni e degli altri hanno un'importanza relativa, perché quello che emerge è la guerra di potere e dunque ogni passaggio viene letto come la vittoria o la sconfitta di una fazione contro l'altra».

Intanto le procure indagano sulle procure.

«È un'altra nemesi storica. Con Mani pulite la magistratura ha messo in ginocchio la politica e il conflitto si è trasferito dentro la corporazione togata».

Risultato?

«Le guerre di potere seguono le stesse dinamiche anche se si veste la toga. Una corrente attacca l'altra, una sale, l'altra scende, tutte si azzannano. Il potere non basta mai e alla fine chi era sul piedistallo cade».

D'accordo ma la magistratura non dovrebbe essere impermeabile ai meccanismi della politica?

«Invece li ha mutuati. E questo è gravissimo perché mina la nostra fiducia nel sistema giudiziario. Un imputato penserà magari sbagliando che la sua sentenza sia il frutto di accordi, di amicizie o inimicizie, di scambi di favori».

I correttivi?

«Anzitutto dobbiamo portare la sezione disciplinare fuori dal Csm. Non possono essere i giudici a giudicare altri giudici. Se ne parla da molti anni ma finora non si è mai fatto nulla».

Poi?

«La prima e più importante riforma da mettere in cantiere è quella della separazione delle carriere, non mi interessa se con referendum o altro strumento».

Ma perché è la più urgente?

«Perché i conflitti che abbiamo visto in questi mesi partono sempre dai pm. E i pubblici ministeri, che oggi non sono separati dai giudici, trascinano in questo disastro i colleghi che dovrebbero essere terzi, imparziali, distanti. Invece, vengono risucchiati in questo pantano. Sono molto preoccupato perché stiamo perdendo l'immagine sacrale del giudice che in passato ci aveva sempre rassicurato». Stefano Zurlo

Fuga di verbali, il Csm smonta l'accusa di Salvi e assolve Storari: no al trasferimento. Anna Maria Greco il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Dovrà comunque affrontare il processo disciplinare ordinario. "Nessuna scorrettezza a Greco". Il magistrato: "Sollevato e contento". Paolo Storari, «molto contento e sollevato», esce vincitore dal primo mach al Csm: non sarà trasferito dalla Procura di Milano, né perderà la funzione di pm. Gli sconfitti, in questa fase, sono il Procuratore generale Giovanni Salvi e il capo della procura meneghina Francesco Greco, che ne volevano l'allontanamento per incompatibilità ambientale e funzionale, come misura cautelare. La sezione disciplinare del Csm, invece, respinge la richiesta del Pg, basata anche sulle accuse fatte dal procuratore, esclude un «comportamento gravemente scorretto» di Storari nei confronti di Greco e dell'aggiunto Laura Pedio e nega che li abbia accusati di «inerzia investigativa» per le dichiarazioni di Piero Amara, ex legale esterno di Eni, su una presunta loggia «Ungheria». Nulla giustifica un pesante provvedimento d'urgenza e vengono rigettate, almeno per ora, le accuse del Pg Salvi di aver leso l'immagine dell'ufficio e di aver esposto i suoi capi ad una «sotterranea campagna di discredito» al Csm. La vicenda, per i giudici disciplinari, «non è sintomatica di una situazione che possa pregiudicare la buona amministrazione della giustizia», né c'è necessità di uno spostamento dall'ufficio, perché il pm da gennaio lavora in un dipartimento diverso da quello coordinato dalla Pedio. Storari dovrà comunque affrontare il processo disciplinare ordinario, che si concluderà con una sanzione o con il proscioglimento ed è anche indagato a Brescia, con Piercamillo Davigo, per rivelazione di segreto d'ufficio. Ma la sua posizione è certo migliorata. «Siamo molto soddisfatti - commenta il legale, Paolo Della Seta- La funzione di garanzia delle istituzioni ha dimostrato la sua solidità e la sua tenuta e questo è molto confortante. È evidente la buonafede di Storari». Il collegio, presieduto dal laico Emanuele Basile (Lega) e composto dal relatore Filippo Donati (laico 5Stelle) e dai togati Giuseppe D'Amato e Paola Braggion (MI), Giovanni Zaccaro (Area), Carmelo Celentano (Unicost), smonta uno per uno i tre illeciti disciplinari contestati da Salvi. Primo: l'«informale e irrituale» consegna da Storari a Davigo di copie non firmate dei verbali di Amara, che riguardavano anche due consiglieri Csm. Il pm ha spiegato di aver sollecitato per 4 mesi l'apertura formale di un fascicolo, parlando più volte con Greco, la Pedio e Fabio De Pasquale, ma inutilmente. Per questo non avrebbe potuto trasmettere l'esposto ai vertici della Procura, secondo la procedura, prima di coinvolgere il Csm. Secondo: la «grave scorrettezza» di Storari verso Greco (indagato a Brescia per omissione d'atto d'ufficio), che nella relazione del 7 maggio lo accusa di non aver «formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell'indagine» e di aver chiesto solo dopo per iscritto ulteriori indagini e l'iscrizione nel registro degli indagati. Per il Csm, Storari non avrebbe espresso a Davigo «una chiara accusa di omessa iscrizione, o di inerzia investigativa, solo la preoccupazione sulle modalità di gestione del procedimento». Terzo: incaricato di indagare sull'invio anonimo dei verbali di Amara ad Antonio Massari del Fatto ad ottobre 2020 (sotto accusa è l'allora segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto), Storari non si sarebbe astenuto e avrebbe creato «rallentamento» e «ostruzionismo». Ma il pm ha spiegato per quali ragioni non collegò i verbali a quelli dati mesi prima a Davigo e per il Csm non ha compiuto alcuna «omissione consapevole di astensione» dalle indagini. Anna Maria Greco

La sezione disciplinare rigetta la richiesta del pg della Cassazione. Loggia Ungheria, bocciato il trasferimento del pm Storari da Milano: batosta del Csm a Salvi e Greco. Antonio Lamorte su il Riformista il 4 Agosto 2021. Paolo Storari resterà a Milano. Resterà nella procura simbolo degli ultimi trent’anni di storia italiana nonostante la richiesta del Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi. Dal pg era stata sollevata una presunta incompatibilità ambientale del pubblico ministero dopo l’esplosione del caso della Loggia Ungheria e richiesto trasferimento e cambio delle funzioni. “Sto bene, sono contento … Non dico altro”, ha commentato il pm all’Agi. Storari aveva passato all’ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo i verbali in formato word nel quale l’avvocato Piero Amara rivelava l’esistenza di una presunta loggia detta “Ungheria”. Storari aveva agito per come la Procura di Milano stava affrontando il caso. A rigettare la richiesta di Salvi è la sezione disciplinare del Csm. Il Procuratore generale aveva chiesto di destinare il pm ad altre funzioni. E invece niente. Il Csm “ha rigettato in toto tutte le richieste del Pg Salvi – ha osservato l’avvocato del pubblico ministero Paol Della Sala – La funzione di garanzia delle istituzioni ha dimostrato la sua solidità e la sua tenuta e questo è molto confortante”. Il magistrato, con l’avvocato Della Sala, si era presentato ieri davanti al Csm ed era stato sentito per quasi due ore in merito alla vicenda dei verbali secretati ed emersi solo dopo essere arrivati ad alcuni quotidiani e dopo la denuncia del membro del Csm Nino Di Matteo. Davigo invece, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio, avrebbe parlato solo in via informale di questi verbali sulla “loggia Ungheria” allo stesso Salvi, al vicepresidente del Csm David Ermini, al presidente della Cassazione Pietro Curzio, ad altri cinque consiglieri del Consiglio e al senatore del Movimento 5 Stelle Nicola Morra. Salvi aveva formulato la sua richiesta sulla scorta delle relazioni del procuratore di Milano Francesco Greco e della vice Laura Pedio. I sei giudici del Csm hanno però escluso esigenze cautelari in relazione ai tre illeciti contestati a Storari, indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio. Il primo illecito riguardava l’“informale e irrituale” consegna di Storari a Davigo delle copie word, e non firmate, dei verbali; il secondo che Storari non avesse “formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine” al procuratore Greco; il secondo sul “rallentamento” e “ostruzionismo” nelle indagini sui verbali degli interrogatori emersi e che un giornalista de Il Fatto Quotidiano aveva denunciato di aver ricevuto. Tutto rigettato. La sezione disciplinare – composta da dal componente laico (cioè eletto dal Parlamento) espresso dalla Lega, Emanuele Basile, presidente del collegio, dall’altro membro di nomina parlamentare, il relatore Filippo Donati (5Stelle), e dai togati (cioè eletti invece dai magistrati) Giuseppe D’Amato (Magistratura Indipendente), Giovanni Zaccaro (Area), Carmelo Celentano (Unicost) e Paola Braggion (Magistratura Indipendente) – ha scritto nel provvedimento come non ci sia stato nessun “comportamento gravemente scorretto” da parte del pm nei confronti di Greco e dell’aggiunto Laura Pedio e che al limite ha espresso una “preoccupazione […] sulle modalità di gestione del procedimento” relativo ai verbali “in presenza di una chiara divergenza di vedute”. E quindi il collegio “ritiene insussistente […] l’impossibilità” per il pm “che possa continuare a svolgere con la dovuta serenità e il necessario distacco le sue funzioni in un ambiente compromesso dai comportamenti tenuti nei confronti della dottoressa Laura Pedio e del Procuratore della Repubblica di Milano”. Per Storari continuerà comunque il procedimento disciplinare ordinario, con il quale potrà essere prosciolto o sanzionato con l’ammonimento, la censura, la perdita di anzianità o la radiazione. Contro il trasferimento si erano espressi nei giorni scorsi 60 dei 64 pm milanesi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Francesco Greco indagato? Difeso dallo stesso legale dell'Anm e degli ex vertici di Mps: toh che caso...Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 05 agosto 2021. Per rendere ancora di più incandescente il clima alla Procura di Milano ci mancava solo il "conflitto d'interessi" fra toghe. A sollevare il caso è stato il manager romano Giuseppe Bivona, fondatore del fondo inglese Bluebell. Bivona questa settimana ha scritto al procuratore di Brescia, Francesco Prete, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, e ai componenti del Consiglio superiore della magistratura. Oggetto della nota del manager sono i profili di "opportunità" nella scelta del procuratore di Milano Francesco Greco di essere difeso dallo stesso legale dagli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, a loro volta imputati eccellenti della Procura guidata da Greco. Bivona, in passato, aveva anche manifestato perplessità sulla conduzione delle indagini su Mps dirette dai pm milanesi Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici del dipartimento "reati economici". I tre magistrati erano i titolari, in particolare, del fascicolo sui crediti deteriorati di Mps nel quale erano stati iscritti per "falso in bilancio" Profumo, Viola e Paolo Salvadori, altro top manager di Rocca Salimbeni. Per i pm milanesi i tre non avrebbero commesso alcuna irregolarità. Di diverso avviso, invece, il giudice Guido Salvini che aveva respinto la richiesta d'archiviazione nei loro confronti, disponendo altri accertamenti. La perizia di Salvini aveva permesso di accertare che tra il 2012 e il 2015 la banca senese avrebbe ritardato la contabilizzazione di ben 11,4 miliardi di euro di rettifiche. Dalle segnalazioni di Bivona erano partite, poi, le indagini bresciane a carico di Baggio, Civardi e Clerici. Profumo e Viola, difesi da Mucciarelli, sono stati condannati a ottobre 2020 in primo grado a sei anni per i derivati Alexandria e Santorini. Mucciarelli assiste Greco a Brescia nel procedimento per "omissione d'atti d'ufficio" per aver ritardato gli accertamenti sulle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara a proposito della Loggia segreta Ungheria. Il fascicolo era stato aperto dopo la denuncia del pm Paolo Storari. Mucciarelli, lo scorso anno, era stato anche incaricato dall'Associazione nazionale magistrati, durante la presidenza del pm milanese Luca Poniz, di costituirsi parte civile nel procedimento penale nei confronti di Luca Palamara. Tornado a Storari, invece, ieri si è svolta l'udienza in camera di Consiglio davanti alla Sezione disciplinare del Csm. La Procura generale della Cassazione ha chiesto per il magistrato il trasferimento di sede ed il cambio di funzioni: da pm a giudice. Per il procuratore generale Giovanni Salvi, Storari con il suo comportamento avrebbe creato «grave discredito» nei confronti di Greco e della sua vice Laura Pedio.  Storari, come si ricorderà, vista «l'inerzia» dei sui capi nel compiere accertamenti, aveva consegnato personalmente all'allora componente del Csm Piercamillo Davigo i verbali degli interrogatori di Amara, effettuati in Procura a Milano nelle ultime settimane del 2019 nell'ambito del procedimento sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. E per questo motivo era stato poi indagato per rivelazione del segreto d'ufficio. In difesa di Storari si erano espressi circa 250 magistrati, firmando un appello in suo favore. Fra i promotori della raccolta firme, il capo dell'antiterrorismo di Milano, il procuratore aggiunto Alberto Nobili. «Non abbiamo mai depositato la lista delle persone che hanno accordato la loro fiducia e la loro simpatia umana», ha però specificato il legale di Storari, l'avvocato Paolo della Sala, all'uscita dal Csm. «Ci tengo a rappresentare con chiarezza che la fiducia accordata dai magistrati al mio assistito non è mai stata in alcun modo strumentalizzata», ha poi aggiunto.  

Francesco Greco indagato? Alessandro Sallusti: "Dall'intoccabile mondo oscuro sopra a Palamara sparano i cecchini". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano l'1 agosto 2021. Se fossimo come loro, cioè come certi procuratori e i giornalisti loro complici, oggi diremmo che Francesco Greco, capo della procura di Milano, una delle più importanti d'Italia, è un insabbiatore di inchieste e complice di una loggia segreta. Greco ha infatti ricevuto ieri un avviso di garanzia per omissioni di atti d'ufficio per aver ritardato e ostacolato una delicata inchiesta del suo sottoposto Paolo Storari su presunti rapporti poco chiari tra magistrati, politici e faccendieri, il famoso caso "Loggia Ungheria" che ha già visto finire nei guai un altro pezzo da novanta della magistratura, il moralista manettaro Piercamillo Davigo. Siccome noi non siamo come loro, cioè non riteniamo che la tesi contenuta in un avviso di garanzia sia una verità assoluta e già accertata, siamo cauti e quindi fino a prova contraria Greco è uomo pulito e magistrato integro. Ciò non toglie che evidentemente ai vertici della magistratura le cose non sono così limpide come ci si vuole fare credere. Io ovviamente non so se è mai esistita o esiste ancora una loggia chiamata Ungheria, ma ormai mi è chiaro che la magistratura oltre che in correnti politiche è divisa in logge più o meno segrete che magari non necessitano di riti di iniziazione ma che operano dietro le quinte per raggiungere scopi che nulla hanno a che fare con la giustizia.  Come? Inquinando, attraverso i giornalisti "affiliati", i pozzi dell'informazione certamente e molto probabilmente - basti pensare al recente caso della maxi inchiesta Eni finita nel nulla - anche i processi che hanno a che fare con la politica, gli affari e i loro protagonisti. Altro che caso Palamara. Sopra a Palamara c'è stato un mondo oscuro neppure scalfito dallo scandalo che ha coinvolto l'ex magistrato ancora in grado - Palamara nei suoi racconti li chiama "i cecchini" - di togliere di mezzo personaggi sgraditi, adepti bruciati e aprire la strada a nuovi amici vergini e affidabili per ricominciare tutto da capo. È inutile provare a riformare la magistratura per via ordinaria se non si prende atto che stiamo parlando di un sistema marcio alla radice che, giralo come ti pare, non potrà che dare frutti bacati. Ma qui dovrebbe intervenire la politica, per cui non facciamoci illusioni: la giustizia rimarrà a lungo nelle mani di logge e lobby.

“Sfiduciato” e indagato: il caso Amara travolge anche Greco. E Storari attende il suo destino. Il procuratore di Milano indagato per aver ritardato le indagini sulla "Loggia Ungheria". Il pm del falso complotto Eni attende l'esito del disciplinare. Simona Musco Il Dubbio 31 luglio 2021. Il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per aver ritardato l’apertura dell’indagine nata dalle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla presunta “Loggia Ungheria”. È questo il clamoroso particolare di cui si arricchisce la vicenda che ormai da mesi tiene in ostaggio la procura meneghina, dopo l’iscrizione sul registro degli indagati, da parte della procura di Brescia, del pm Paolo Storari per rivelazione di segreto d’ufficio – per aver consegnato i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, anche lui indagato – e dei colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati, invece, di omissione di atti d’ufficio, per aver “nascosto” alcune prove utili alle difese nel processo Eni- Nigeria. L’iscrizione di Greco è un atto dovuto a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, che ha lamentato l’inerzia dei vertici della procura nell’apertura del fascicolo. Una scelta, secondo il pm, dettata dalla necessità della procura di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto dal Tribunale di Milano un inquinatore di pozzi. Greco ha già parlato con i colleghi bresciani, difendendo il suo operato. «Da Storari non ho mai ricevuto manifestazione di dissenso né in modo informale né formale», ha dichiarato il procuratore. Storari, a febbraio 2021 – secondo quanto emerso dalle audizioni davanti al Csm – avrebbe preparato una bozza di richiesta di misura cautelare per calunnia a carico di Amara, Armanna e Giuseppe Calafiore. Richiesta mai controfirmata da Greco e dall’aggiunta Laura Pedio e, pertanto, rimasta in un cassetto. Storari, dal canto suo, ha consegnato i verbali a Davigo con l’intento di «autotutelarsi», convinto di poter così smuovere le acque al Csm. Quei verbali, però, sono stati spediti a due quotidiani, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha denunciato pubblicamente la circostanza, ipotizzando un’operazione di dossieraggio ai danni del consigliere togato Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra i membri della loggia. Circostanza smentita da Ardita e confutata anche dalle incongruenze delle dichiarazioni dell’ex avvocato. A spedire quei verbali, secondo la procura di Roma, sarebbe stata l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ora indagata per calunnia ai danni di Greco. L’iscrizione sul registro degli indagati del procuratore Greco è stata comunicata dalla procura di Brescia al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia una ventina di giorni fa. Il reato contestato è omissione d’atti d’ufficio (articolo 328 cp 1/ o comma), per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall’avvocato Piero Amara a Pedio e Storari nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni”. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un’indagine sulla “Loggia Ungheria”, cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020, ovvero circa un mese dopo la consegna dei verbali a Davigo. Ieri, intanto, il pm milanese è comparso davanti alla sezione disciplinare, presieduta dal laico della Lega Emanuele Basile e riunita per decidere sulla richiesta di trasferimento formulata dal procuratore generale. Salvi ne ha chiesto il trasferimento per aver «divulgato i verbali», assumendo un «comportamento gravemente scorretto nei confronti» del procuratore Greco e dell’aggiunto Pedio, da lui accusati di inerzia nelle indagini sulle rivelazioni di Amara, omettendo, «di comunicare» ai vertici «il proprio dissenso per la mancata iscrizione» nel registro degli indagati dell’avvocato e di formalizzare con una lettera alla procura generale il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre, secondo Salvi, Storari avrebbe dovuto astenersi dal prendere parte all’indagine sulla fuga di notizie, aperta ad ottobre 2020 dopo l’esposto di un giornalista del Fatto Quotidiano, al quale erano stati spediti i verbali, gli stessi consegnati da Storari a Davigo. L’udienza continuerà martedì prossimo, mentre la decisione verrà presa nei giorni a seguire. Al termine dell’udienza Storari e il suo avvocato, Paolo Dalla Sala, non hanno rilasciato dichiarazioni. Intanto la procura di Milano è sempre più spaccata. Dalla parte di Storari si sono schierati praticamente tutti i sostituti dell’ufficio, che hanno sottoscritto, assieme a centinaia di magistrati del distretto e di tutta Italia, un appello a suo sostegno. Mossa che ha infastidito Greco, che giovedì ha invece scritto una mail ai colleghi, accusando Storari di aver mentito. «Mentre la magistratura italiana affronta una grave crisi di legittimazione, la nostra procura ha vissuto una grave vicenda di fuga di notizie», ha evidenziato Greco, aggiungendo, senza mai nominarlo, che «il collega ritenuto responsabile è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare». E ancora: «Ma altro è difendersi, altro è lanciare gravi ed infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio. Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali» di denunciare. 

(ANSA il 30 luglio 2021) Il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per aver ritardato l'apertura dell'indagine nata dalle dichiarazioni messe a verbale da Piero Amara sulla presunta "Loggia Ungheria". La sua iscrizione è un atto dovuto a seguito delle denunce ai pm bresciani del pm Paolo Storari, pure lui indagato dalla magistratura bresciana per rivelazione di segreto d'ufficio. La notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati del procuratore Greco è emersa a seguito della comunicazione, avvenuta, una ventina di giorni fa, dell'avvio del procedimento da parte della procura bresciana al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia. Il reato contestato, come atto dovuto, è l'omissione d'atti d'ufficio (art. 328 cp 1/o comma) per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall'avvocato Piero Amara al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari nell'ambito dell'indagine sul cosiddetto falso complotto Eni. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un'indagine sulla Loggia Ungheria. Cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020. (ANSA). 

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 31 luglio 2021. Quello che in calendario sarebbe dovuto essere il «venerdì nero» di Paolo Storari, cioè del pm di cui ieri il Consiglio superiore della magistratura doveva decidere o meno il trasferimento disciplinare d'urgenza da Milano e la revoca delle funzioni di pm chiesti dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi per aver «gettato discredito» nella primavera 2020 sul suo capo Francesco Greco, diventa invece il «venerdì nero» del procuratore della Repubblica di Milano ed ex pm di Mani pulite. Messo sotto indagine dalla Procura di Brescia per omissione d'atti d'ufficio sulla scorta di quanto Storari ha riferito a Brescia nel difendersi dall'accusa di aver violato il segreto d'ufficio nell'aprile 2020 quando, per sbloccare l'impasse, ritenne di consegnare all'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo i verbali segretati dell'ex avvocato esterno Eni Piero Amara sull'associazione segreta «Ungheria»: ipotesi di omissione per avere, da dicembre 2019 appunto, lasciato galleggiare 4 mesi le controverse dichiarazioni di Amara senza iscrivere le notizie di reato contenutevi. Ciò avvenne solo il 12 maggio 2020, cioè solo dopo che il pg Salvi, che come il vicepresidente Csm David Ermini e altri consiglieri Csm era stato informalmente allertato da Davigo, telefonò a Greco. Il procuratore, difeso dal professor Francesco Mucciarelli e dall'avvocato Francesco Arata, è stato già interrogato dal suo collega bresciano Francesco Prete. «Da Storari non ho mai ricevuto manifestazione di dissenso né in modo informale né formale», dice Greco, rimarcando che anzi Storari in una mail scriveva «con Laura (Pedio, procuratore aggiunto, ndr ) mi trovo bene a lavorare». Mentre ora Storari attesta che nessuna indagine fu fatta per mesi, Greco (come Pedio) sostiene che «il 16 gennaio 2020 venne genericamente illustrato ai colleghi di Perugia il contenuto delle dichiarazioni di Amara per le possibili connessioni con l'indagine su Palamara dove pure era indagato Amara», e «le attività investigative proseguirono per tutto febbraio». Poi «dall'8 marzo gli uffici giudiziari vennero sostanzialmente chiusi a causa del Covid e il lavoro subì inevitabili rallentamenti». Sino allora, «mentre alcuni dei file audio» evocati da Amara e dal suo socio Calafiore «vennero consegnati e se ne dispose la trascrizione, non venne mai consegnata la lista degli associati a "Ungheria", fondamentale per cominciare le indagini su solide fondamenta di riscontri documentali». Tuttavia Pedio scriveva a Storari il 17 aprile 2020 una mail da cui si ricaverebbe che in realtà a quella data le indagini non fossero ancora state avviate, e non lo fossero state per privilegiare le inchieste Eni nelle quali Amara era molto valorizzato: «Dovremmo parlarne con Francesco (Greco, ndr ). Ha perplessità sull'opportunità di cominciare un'indagine sulla quale ci sono dubbi di competenza. Qualche perplessità ce l'ho pure io, anche perché dobbiamo definire il procedimento Eni con priorità assoluta. Temo che l'avvio dell'altra indagine ci possa impegnare eccessivamente e portare a un risultato dubbio». Nelle ore in cui ieri emergeva la notizia di Greco indagato, a Roma Storari rendeva dichiarazioni spontanee al Csm (udienza a porte chiuse) sulla richiesta di suo trasferimento disciplinare, illustrata dal pg Marco Dall'Olio e poi aggiornata a martedì per l'arringa di Paolo Della Sala. La difesa ha rimarcato che intende affrontare il merito e perciò rinuncia a ripararsi dietro qualsiasi eccezione procedurale sia su un difetto di notifica, sia su un'incongruenza nel terzo illecito disciplinare contestato a Storari dal pg di Cassazione sulla base delle relazioni di Greco e Pedio: non essersi astenuto nell'ottobre 2020 dall'indagare sulla fuga di notizie dei verbali anonimi di Amara portati ai pm il 30 ottobre 2020 da un giornalista del Fatto , simili a quelli che Storari tacque ai colleghi di aver dato mesi prima a Davigo; e d'aver così anzi ostacolato e ritardato 4 mesi (sino a una perizia l'8 marzo 2021) quest' indagine per accesso abusivo a sistema informatico. Indagine che in realtà, come fascicolo autonomo per accesso abusivo, fu iscritta da Greco e Pedio solo a aprile 2021 (quando Storari non c'era più), e che dunque formalmente non esisteva a ottobre 2020.

Terremoto alla procura di Milano: indagato il pm Francesco Greco. Francesca Galici il 30 Luglio 2021 su Il Giornale. A seguito delle denunce del pm Paolo Storari, Francesco Greco è stato inserito nel registro degli indagati per i ritardi nelle trascrizioni di Amara. Il procuratore di Milano Francesco Greco è stato iscritto nel registro degli indagati a Brescia circa un mese fa per aver ritardato l'apertura dell'inchiesta a fronte delle dichiarazioni rese dall'avvocato Pietro Amara nel dicembre 2019 su quella che è stata definita la "loggia Ungheria". La procura parla di atto dovuto nei confronti di Francesco Greco, che fa seguito alle denunce del pm Paolo Storari ai magistrati bresciani. Storari, nelle settimane scorse aveva riferito agli inquirenti bresciani di avere chiesto al capo della Procura di indagare sulla presunta associazione occulta. Lui stesso è indagato dalla procura di Brescia con l'accusa di aver rivelato segreti d'ufficio. Pietro Amara rese le sue dichiarazioni al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari all'interno dell'indagine su quello che è stato poi definito il "falso complotto" Eni. Facendo seguito alle rivelazioni dell'avvocato Amara, Paolo Storari chiese a Francesco Greco e Laura Pedio di avviare nel più breve tempo possibile un'indagine sulla loggia Ungheria. Ma i due pm hanno dato seguito alle parole di Storari solo 5 mesi dopo, nel maggio del 2020. Un mese prima, il pm Paolo Storari avrebbe portato manualmente i verbali, trascritti su un foglio Word e mancanti di firma, all'ex pm Piercamillo Davigo. Non un comportamento ligio al protocollo quello di Storari, che si è successivamente difeso sostenendo di aver agito in questo modo come forma di auto-tutela a fronte del ritardo dei pm delle iscrizioni nel registro degli indagati di quanto dichiarato da Pietro Amara. Storari voleva agire tempestivamente per trovare riscontri sulle parole dell'avvocato. A sua volta, pare che Piercamillo Davigo, in tempi e modi diversi, abbia fatto cenno di quanto spiegatogli da Storari, almeno con il vicepresidente del Csm David Ermini e con altri due membri del Consiglio superiore della magistratura.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Procura di Milano, il pm Francesco Greco indagato: quel ritardo sospetto sulla "loggia Ungheria". Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. Il procuratore capo di Milano Francesco Greco è indagato a Brescia per aver ritardato l'apertura dell'indagine nata dalle dichiarazioni messe a verbale dall'avvocato Piero Amara sulla presunta "Loggia Ungheria". Lo riporta l'Ansa. La sua iscrizione è un atto dovuto a seguito delle denunce ai procuratori bresciani del pm Paolo Storari, pure lui indagato dalla magistratura per rivelazione di segreto d'ufficio. La notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del procuratore Greco è emersa a seguito della comunicazione, avvenuta una ventina di giorni fa, dell’avvio del procedimento da parte della procura bresciana al Csm, al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia. Il reato contestato, come atto dovuto, è l’omissione d’atti d’ufficio per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall’avvocato Piero Amara al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto falso complotto Eni. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un’indagine sulla Loggia Ungheria. Cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020. Intanto alla Procura di Milano diversi magistrati sono insorti proprio contro Greco in difesa di Storari. All'origine della protesta la decisione del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di chiedere al Csm la testa di Storari: via da Milano e mai più pubblico ministero. 

Loggia Ungheria, il procuratore Greco indagato a Brescia. Al procuratore di Milano è contestato il reato di omissione d'atti d'ufficio per aver ritardato l'apertura dell'indagine relativa ai verbali di Piero Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 30 luglio 2021. Il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per aver ritardato l’apertura dell’indagine nata dalle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla presunta “Loggia Ungheria”.

È questo il clamoroso particolare di cui si arricchisce la vicenda che ormai da mesi tiene in ostaggio la procura meneghina, dopo l’iscrizione sul registro degli indagati, da parte della procura di Brescia, del pm Paolo Storari per rivelazione di segreto d’ufficio – per aver consegnato i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, anche lui indagato – e dei colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati, invece, di omissione di atti d’ufficio, per aver “nascosto” alcune prove utili alle difese nel processo Eni-Nigeria. L’iscrizione di Greco è un atto dovuto a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, che ha lamentato l’inerzia dei vertici della procura nell’apertura del fascicolo. Una scelta, secondo il pm, dettata dalla necessità della procura di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto dal Tribunale di Milano un inquinatore di pozzi. Storari, a febbraio 2021 – secondo quanto emerso dalle audizioni davanti al Csm – avrebbe preparato una bozza di richiesta di misura cautelare per calunnia a carico di Amara, Armanna e Giuseppe Calafiore. Richiesta mai controfirmata da Greco e dall’aggiunta Laura Pedio e, pertanto, rimasta in un cassetto. Storari, dal canto suo, ha consegnato i verbali a Davigo con l’intento di «autotutelarsi», convinto di poter così smuovere le acque al Csm. Quei verbali, però, sono stati spediti a due quotidiani, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha denunciato pubblicamente la circostanza, ipotizzando un’operazione di dossieraggio ai danni del consigliere togato Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra i membri della loggia. Circostanza smentita da Ardita e confutata anche dalle incongruenze delle dichiarazioni dell’ex avvocato. A spedire quei verbali, secondo la procura di Roma, sarebbe stata l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ora indagata per calunnia ai danni di Greco. L’iscrizione sul registro degli indagati del procuratore Greco è stata comunicata dalla procura di Brescia al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia una ventina di giorni fa. Il reato contestato è omissione d’atti d’ufficio (articolo 328 cp 1/o comma), per aver omesso la tempestiva iscrizione delle notizie di reato derivanti dalle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 dall’avvocato Piero Amara a Pedio e Storari nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni”. A seguito di tali dichiarazioni, il pm Storari aveva chiesto a Greco e Pedio di avviare subito un’indagine sulla “Loggia Ungheria”, cosa che avvenne solo il 12 maggio 2020, ovvero circa un mese dopo la consegna dei verbali a Davigo. Ieri, intanto, il pm milanese è comparso davanti alla sezione disciplinare, presieduta dal laico della Lega Emanuele Basile e riunita per decidere sulla richiesta di trasferimento formulata dal procuratore generale. Salvi ne ha chiesto il trasferimento per aver «divulgato i verbali», assumendo un «comportamento gravemente scorretto nei confronti» del procuratore Greco e dell’aggiunto Pedio, da lui accusati di inerzia nelle indagini sulle rivelazioni di Amara, omettendo, «di comunicare» ai vertici «il proprio dissenso per la mancata iscrizione» nel registro degli indagati dell’avvocato e di formalizzare con una lettera alla procura generale il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre, secondo Salvi, Storari avrebbe dovuto astenersi dal prendere parte all’indagine sulla fuga di notizie, aperta ad ottobre 2020 dopo l’esposto di un giornalista del Fatto Quotidiano, al quale erano stati spediti i verbali, gli stessi consegnati da Storari a Davigo. L’udienza continuerà martedì prossimo, mentre la decisione verrà presa nei giorni a seguire. Al termine dell’udienza Storari e il suo avvocato, Paolo Dalla Sala, non hanno rilasciato dichiarazioni. Intanto la procura di Milano è sempre più spaccata. Dalla parte di Storari si sono schierati praticamente tutti i sostituti dell’ufficio, che hanno sottoscritto, assieme a centinaia di magistrati del distretto e di tutta Italia, un appello a suo sostegno. Mossa che ha infastidito Greco, che giovedì ha invece scritto una mail ai colleghi, accusando Storari di aver mentito. «Mentre la magistratura italiana affronta una grave crisi di legittimazione, la nostra procura ha vissuto una grave vicenda di fuga di notizie», ha evidenziato Greco, aggiungendo, senza mai nominarlo, che «il collega ritenuto responsabile è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare». E ancora: «Ma altro è difendersi, altro è lanciare gravi ed infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio. Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali» di denunciare.

Atto dovuto dopo le parole di Storari. Loggia Ungheria, indagato Francesco Greco: capo della procura di Milano. “Indagini in ritardo”. Redazione su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Dopo Davigo anche Greco. La fantomatica “Loggia Ungheria” coinvolge anche il procuratore Francesco Greco, prossimo alla pensione (novembre 2021). Il capo della Procura di Milano è indagato dalla Procura di Brescia, competente nelle indagini sui magistrati meneghini, nell’ambito della vicenda con al centro i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla presunta associazione segreta denominata, ‘Loggia Ungheria’, in grado di condizionare nomine in magistratura e in incarichi pubblici. L’iscrizione di Greco nel registro degli indagati è relativa a quasi un mese fa e si tratterebbe di un atto dovuto dopo le dichiarazioni a verbale del pm milanese Paolo Storari. L’accusa è di omissione di atti d’ufficio: Greco avrebbe ritardato l’apertura di un fascicolo (poi avvenuta a maggio 2020) in seguito alle dichiarazioni rese a verbale da Amara, nel dicembre 2019, al procuratore aggiunto Laura Pedio e al sostituto procuratore Storari, titolari delle indagini su quello che è stato ribattezzato il “falso complotto Eni”. Verbali segreti che Amara ha poi consegnato all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (anche lui indagato a Brescia per rivelazione di segreti d’ufficio) prima di finire nelle mani della stampa, rendendo pubblica di fatto la guerra interna alla procura milanese. La notizia dell’avvio del procedimento, come atto dovuto nei confronti anche di Greco, è trapelata – chiarisce l’Ansa – a seguito della comunicazione, avvenuta una ventina di giorni fa, da parte della procura bresciana al Csm, al pg della Cassazione Giovanni Salvi e al ministero della Giustizia per gli eventuali profili disciplinari. Greco, proprio ieri, in una lettera ai suoi sostituti, senza mai citarlo ha attaccato Storari aggiungendo che “le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti”. Intanto nel pomeriggio si è tenuta al Csm l’udienza a porte chiuse di Storari, alla quale partecipano lo stesso magistrato, assistito dal suo legale. La Sezione disciplinare del Csm deve decidere se trasferirlo in via cautelare da Milano e dalle sue funzioni come ha chiesto il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per la vicenda dei verbali dell’avvocato Piero Amara. Storari ha poi lasciato Palazzo dei Marescialli senza rilasciare dichiarazioni. 

(ANSA il 27 luglio 2021) Non solo l'azione disciplinare a carico del pm milanese Paolo Storari. Da parte del Pg della Cassazione Giovanni Salvi sono in corso - a quanto si è appreso - accertamenti nei confronti del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del sostituto Sergio Spadaro, titolari del fascicolo Eni/Shell-Nigeria e indagati a Brescia per rifiuto di atti d'ufficio. L'iniziativa è legata all'inchiesta dei pm bresciani, partita dopo le dichiarazioni rese da Storari, che è a sua volta indagato per il caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 22 luglio 2021. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, rifiuta di consegnare alla Procura di Brescia (che sta indagando sul suo vice Fabio De Pasquale sull'ipotesi che non abbia sottoposto ai giudici del processo Eni-Nigeria prove dell'inattendibilità dell'accusatore Vincenzo Armanna) gli atti sulla trasferta in Nigeria che la sua vice Laura Pedio fece nel settembre 2019. Questa rogatoria nigeriana del 2019 - argomenta Greco - sarebbe coperta da segreto perché sta nell'indagine milanese tuttora aperta sul cosiddetto «complotto Eni», e dunque solo la Nigeria potrebbe autorizzarne l'utilizzo prima. Non è così, ribatte a Greco il suo collega bresciano Francesco Prete. Che cerca l'interrogatorio del teste Mattew Tonlagha (suggerito nel 2019 da Armanna ai pm milanesi a riscontro delle proprie accuse a Eni) non per utilizzarli in altri processi (cosa appunto vietata dalle norme); ma per verificare se Armanna, come emerso proprio dalle sue chat con Tonlagha scoperte dal pm Paolo Storari e segnalate invano ai propri vertici tra fine 2020 e inizio 2021, nel 2019 avesse appunto indottrinato il giorno prima il teste Tonlagha. Ma Greco non cede, e anzi si affretta a scrivere al ministero della Giustizia una lettera in cui chiede alla struttura della Guardasigilli Cartabia di domandare alla Nigeria se intenda autorizzare la consegna della rogatoria ai pm di Brescia. I quali ribussano a Milano ma devono arrestarsi. Perché la lettera del Ministero alla Nigeria è già partita.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 29 luglio 2021. La creazione del dipartimento Affari internazionali e reati economici transnazionali è un progetto fortemente voluto dal capo della Procura di Milano Francesco Greco, ha preso forma nel 2017 ed è stato affidato all'aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del caso Eni-Nigeria. Ma sull'attività dell'ufficio si sono addensate rapidamente le nubi del malumore degli altri pm e si è insinuata l'idea che sia stato creato su misura proprio per l'inchiesta sulla presunta tangente da 1,1 miliardi pagata dalla multinazionale e finita con l'assoluzione di tutti gli imputati. Già a marzo 2020 ventisette pm hanno redatto un documento molto critico sulle «lacune» del Progetto organizzativo 2017-2019 della Procura, evidenziando come il terzo dipartimento «avrebbe meritato» una «illustrazione analitica delle attribuzioni (di che affari si tratta), del peso, dell'andamento dei flussi di lavoro e dei risultati», mentre «nulla è possibile carpire» dai numeri forniti sull'attività del pool.  Il Progetto organizzativo rimarca che, «in poco meno di due anni, il dipartimento ha investigato numerosi casi di corruzione internazionale, fiscalità e riciclaggio transnazionale. Alcuni di questi casi sono pervenuti a dibattimento e vi sono stati sequestri e pronunce giudiziali. Sono state complessivamente trattate 2.117 pratiche e ne sono state definite, allo stato, 1.514». Nel documento denuncia dei pm - dal quale già trapelano le tensioni in Procura poi esplose con i contrasti tra Greco e gli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale, da un lato, e il pubblico ministero Paolo Storari dall'altro - i 27 magistrati firmatari evidenziavano le «due lacune fondamentali del Progetto organizzativo».  Ossia quelle sulla «indicazione e, poi, l'analisi particolareggiata dei flussi» dell'attività d'indagine, un «difetto» che «impedisce alla radice di apprezzare gli aspetti riguardanti la congruità (e la tipologia) delle forze umane e materiali destinate a fronteggiare i singoli fenomeni» di criminalità. «Non si rinviene un'analisi della realtà criminale nel territorio di competenza», si legge nel documento, che rileva inoltre come «non sono stati specificamente individuati gli obiettivi organizzativi, di produttività e di repressione criminale che l'ufficio intende perseguire, né gli obiettivi che l'ufficio è o non è riuscito a conseguire nel precedente periodo». Attenzione particolare viene dedicata proprio al terzo dipartimento per verificarne la «necessità», anche in relazione al rapporto con gli altri uffici della Procura «in grave sofferenza» dal punto di vista dei fascicoli da trattare e dell'organico dei magistrati. I numeri forniti, si legge nel documento, sono relativi solo al 2019 e non al triennio, dunque non farebbero chiarezza sull'attività del pool che ha a disposizione sei pubblici ministeri, di cui un aggiunto, e altri tre magistrati fuori quota. Dallo scritto emerge che il 3 marzo 2020 i ventisette magistrati della Procura milanese che hanno manifestato critiche sul progetto organizzativo lamentano una carenza di dati statistici dettagliati relativi allo stato delle pendenze e ai flussi di lavoro ritenuti essenziali per elaborare strategie di contrasto alla criminalità, per una razionale distribuzione delle risorse umane e la priorità nella trattazione dei procedimenti. Ma è soprattutto la sproporzione delle forze a creare nervosismo: viene ritenuta eccessiva l'assegnazione dei magistrati al dipartimento reati economici transnazionali rispetto a quelli che si occupano di reati gravi. La questione sarà affrontata dalla settima commissione del Csm, che dovrà gestire anche un'altra criticità. La Procura milanese, unico ufficio del distretto della Corte d'Appello, non ha inviato al consiglio giudiziario - l'organismo territoriale di autogoverno delle toghe - per il parere e la trasmissione al Csm, il nuovo piano organizzativo con cui si indicano gli obiettivi di «repressione» dei reati, la «produttività» che si vuole raggiungere e il bilancio dei risultati dell'attività di indagine degli anni precedenti. Inoltre non ha nemmeno depositato il decreto di conferma del piano organizzativo precedente. Lo ha segnalato nei giorni scorsi, con un verbale, lo stesso consiglio giudiziario al Csm.

DAGONEWS il 29 luglio 2021. Lo psicodramma in corso alla Procura di Milano, con la maggioranza dei pm schierati a difesa di Paolo Storari (per il quale il Pg della Cassazione, Salvi, ha chiesto il trasferimento) è soprattutto una rivolta contro il "Sistema Greco". Una gestione cauta della Procura, che ha sfilato il coltello tra i denti ai pm. Un "controllare, troncare e sopire" finalizzato a una giustizia senza strepiti o crociate moralizzatrici. Dopo lo scandalo dei verbali di Amara consegnati dal pm Paolo Storari all'ex consigliere del Csm Davigo, a causa del sospetto che la Procura volesse insabbiare le indagini, e il bailamme interno che ne è conseguito (annesso scazzo tra la vice di Greco, Laura Pedio, e lo stesso Storari), Francesco Greco avrebbe dovuto dimettersi, ammettendo implicitamente la fine di un'epoca nel palazzo di Giustizia di Milano. Se le dimissioni non sono mai state presentate è anche perché il vicepresidente del Csm, David Ermini, ha marcato stretto Greco (che a ottobre andrà in pensione) evitando che la Procura più importante d'Italia precipitasse nel caos.

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 29 luglio 2021. Lo spettacolo del Termidoro della Procura di Milano ha in sé qualcosa di malinconico, drammatico, e insieme profetico. Dice molto di ciò che è stato e non potrà più essere. E di quanto appaia improvvisamente secolare quell'immagine del pool di Mani pulite che almeno tre generazioni di italiani conservano impressa nella retina e con cui hanno continuato ad associare un luogo a chi lo abita. Certifica le convulsioni, lo smarrimento, le pulsioni autofaghe di un ordine giudiziario che si scopre improvvisamente analfabeta di un tempo nuovo di cui ha perso il filo. E che il caso Palamara, i suoi esiti, hanno incattivito, gonfiato di sospetto e rancori. Armando le Procure l'una contro l'altra, in un reciproco controllo di legalità dove, venuto meno l'argine del vecchio consociativismo tra correnti, il fair play non ha più diritto di cittadinanza. Dove cane morde cane. In un redde rationem che non ammette prigionieri. A cominciare dal processo intentato allo straniante capro espiatorio battezzato in questa ennesima velenosissima estate. Francesco Greco, oggi settantenne Procuratore prossimo al congedo, che fu il più giovane, scanzonato, e irregolare dei pubblici ministeri che scrissero la storia di Mani pulite. Il romano cresciuto nel quartiere "Delle Vittorie", ma milanese di adozione e nel midollo, per il quale Francesco Saverio Borrelli stravedeva. Con più di qualche ragione. Perché, in qualche modo, se la foto simbolo di quella stagione della storia d'Italia e della magistratura italiana è sopravvissuta nel tempo, è proprio perché, nel 2016, assumendo l'incarico di Procuratore, Greco ha provato a non farne una reliquia. Figlio di Magistratura democratica, di una cultura della giustizia e del diritto penale mite, Greco, cinque anni fa, immagina una terza via che sottragga la Procura di Milano e con lei quella parte della magistratura che a quell'ufficio guarda come il suo laboratorio più avanzato, all'alternativa del diavolo tra un ritorno nei ranghi di un controllo di legalità a bassa intensità che, per dirla con Luciano Violante, la vede accucciata sotto il trono e il "Resistere, resistere, resistere" come manifesto di un "contro-potere" che si candida ad avanguardia di un capovolgimento o comunque di una modifica degli equilibri di sistema. Greco immagina e costruisce una Procura che vigila sui poteri, ne indaga le devianze, ma non li indirizza. Facendosi carico, se necessario, delle compatibilità. Che squarcia il velo dell'ipocrisia dell'effettiva obbligatorietà dell'azione penale (che nessun ufficio giudiziario è in grado di assicurare con i criteri dell'automaticità) dichiarandone al contrario l'agenda e le priorità. E che ne misura l'efficacia dal risultato che è in grado di portare a casa. Greco detesta i "processi al Sistema" e immagina una frontiera di aggressione all'illegalità che privilegia i reati della sfera finanziaria, fiscale, del lavoro, anche in ragione della loro capacità di muoversi in uno spazio "transnazionale". Un modello in cui il patteggiamento non è una sconfitta, ma un principio di economicità. Che, per dire, costringe nel tempo Apple, Google, Facebook Italia, Amazon a concordare un versamento di 824 milioni di imposte evase all'Erario. Per non dire del gruppo Kering, polo del lusso proprietario tra gli altri del marchio Gucci, alla più alta conciliazione fiscale della storia repubblicana: 1 miliardo e 250 milioni di euro. Francesco Greco, tuttavia, sottovaluta uno degli insegnamenti di Francesco Saverio Borrelli che, negli anni di Mani pulite, era comune ascoltare nei corridoi della Procura. Far sentire ogni singolo magistrato del suo ufficio al centro del mondo. Convincerlo che la regola egualitaria del "cantare portando la croce" non conosca eccezioni. Il governo certosino del capitale umano non è una sua dote. Ed è così che si guadagna silenziosamente nemici. Anche quelli di cui oggi, scorrendo le 56 firme in calce al documento di solidarietà a Paolo Storari, non riesce a immaginare le ragioni del "tradimento". È così che la sua squadra di procuratori aggiunti messi a capo di otto dipartimenti organizzati secondo un criterio di competenza "tematica", e a cui Greco affida assoluta autonomia nella trattazione dei fascicoli, nella gestione dei sostituti, nella scelta delle strategie processuali, comincia lentamente ad essere percepita dalla pancia della Procura come una corona di "ottimati" da cui guardarsi e a cui guardare con diffidenza (o addirittura sospetto, come accadrà con Paolo Storari, al punto da guadagnarsi il non certo lusinghiero appellativo di "cerchio magico"). È così che sottovaluta le insidie che la gestione del caso Amara è in grado di produrre non solo a Milano, ma a Roma, in un Csm balcanizzato dove persino il canto del cigno di un altro figlio di Mani pulite, Piercamillo Davigo, è una coltellata. È così che viene chiamato a rendere politicamente conto di una sconfitta processuale catastrofica - il processo Eni - e delle scelte istruttorie del suo aggiunto Fabio De Pasquale (oggi per questo indagato a Brescia e sottoposto all'azione disciplinare). È così che viene abbandonato dal consiglio giudiziario prima, dal Csm, poi. Già, perché in una némesi che lo vuole condannato perché ex Robespierre invecchiato da riformista, la ghigliottina alzata per Greco sulla scalinata del palazzo di Giustizia a pochi mesi dalla sua pensione vede le due anime della magistratura italiana (quella accucciata sotto il trono e quella rimasta orfana della foto del Pool e della sua letteralità) convergere. Con un risultato. L'arrivo a Milano, dopo trent' anni, di un Papa straniero. La cui scelta, da domani (giorno in cui scadrà il termine della presentazione delle domande per Procuratore Capo), sarà affare di un Conclave mai così carico di pessimi presagi.

La lenta agonia della Procura di Milano. L’agonia della procura di Milano: Davigo coinvolto nel caso Amara, De Pasquale e Spadaro indagati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Con due uomini di punta, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati a Brescia come il loro collega Paolo Storari e Piercamillo Davigo che è lì lì per raggiungere il trio, sta andando in pezzi il mito della Procura della repubblica di Milano. Il fortino degli invincibili e intoccabili, quelli che ti procuravano la scossa elettrica prima ancora che tu li avessi sfiorati (bastava lo sguardo o una parola di troppo), ha decisamente perso non solo lo splendore, ma proprio la verginità. Prima vediamo un sostituto procuratore scontento del proprio capo perché secondo lui sta trascurando una certa inchiesta (in cui si parla di una loggia segreta fatta anche di magistrati e finalizzata tra l’altro ad aggiustare i processi), che si rivolge a un amico invece che alle vie istituzionali, consegnandogli materiale coperto da segreto. Poi questo amico, che casualmente è un ex uomo del pool e in seguito membro del Csm, a sua volta sceglie una sorta di passaparola per vie informali, fino ad arrivare, con queste carte che misteriosamente passano di mano in mano, al presidente della commissione Antimafia, che c’entra come i cavoli a merenda e che comunque va subito a spifferarlo in Procura. E intanto, mentre le carte “segrete” volano motu proprio fino a due redazioni di quotidiani, si scopre che colui che veniva chiamato Dottor Sottile forse tanto sottile non era. E forse il mitico Pool di cui ha fatto parte a sua volta non era proprio geniale. E magari ha avuto anche qualche “aiutino”. Poi subentra la famosa maledizione dell’Eni, quella che nel 1993 portò al suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Solo che questa volta i vertici del colosso petrolifero vengono assolti, pur se dopo tre anni di dibattimento e 74 udienze e dopo che i rappresentanti dell’accusa avevano tentato di far entrare nel processo una sorta di cavallo di troia che avrebbe potuto persino portare il presidente Tremolada all’astensione. E questo è già un brutto neo sulla reputazione della Procura di Milano, il primo fatto di cui dovrebbe forse occuparsi il Csm. Anche perché di questo verbale si sono preoccupati anche lo stesso procuratore Greco e la fedelissima aggiunta Laura Pedio, inviandolo a Brescia per competenza. Sicuramente a tutela del presidente Tarantola, pensiamo. A Brescia c’è stata una repentina archiviazione, ma il Csm è stato informato? Non si sa. Quello su cui è invece già stato allertato, insieme al procuratore generale della Cassazione, è un fatto di omissione. Perché aver ignorato la manipolazione di certe chat e aver tenuto fuori dal processo Eni un video che avrebbe giovato alla difesa, ha portato il procuratore aggiunto De Pasquale e il sostituto Spadaro sul banco degli indagati, se così si può dire. E anche sul banco degli sgridati, nella motivazione della sentenza, in cui il tribunale si dice sconcertato per i comportamenti dei rappresentanti dell’accusa. Sarebbe mai successo ai tempi splendidi di Borrelli e Di Pietro? Impensabile. A questo punto, mentre gli uomini di punta della Procura di Milano sembrano cadere come birilli, nella reputazione ma anche nelle carte processuali, il dottor Nicola Gratteri da Catanzaro può veramente cominciare a scaldare i muscoli e farsi la bocca sulla possibilità di succedere a Francesco Greco nell’autunno milanese. Poche sere fa, ospite di una dolcissima Lilli Gruber, sprizzava soddisfazione e infilava gli occhi diritti nella telecamera (un po’ come un tempo faceva Di Pietro), presentandosi come uno diverso dagli uomini del Sistema di Palamara. E quindi anche da quelli del fortino milanese. Non ho mai fatto parte di alcuna corrente, dice, e mai lo farò, per questo ho perso molte occasioni di andare a presiedere Procure prestigiose. Poi vi dico anche che ritengo che i membri del Csm debbano entrare per sorteggio e non per traffici o camarille politiche. Se la carica di Procuratore della repubblica di Milano dovesse essere assegnata tramite referendum popolare, Nicola Gratteri avrebbe già detto al suo collega “fatti più in là” e sarebbe già seduto al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano prima ancora che Greco abbia compiuto i 70 anni, età della pensione dei magistrati. Si spezzerebbe così non solo la tradizione almeno trentennale del fortino di Magistratura democratica, ma anche il permanere di quello stile ambrosiano, intriso di fair play istituzionale e garbo politico molto gradito al ceto dei partiti, quelli contigui fin dai tempi di Mani Pulite, naturalmente. Quel rito ambrosiano che indusse il premier Matteo Renzi a ringraziare il procuratore capo Bruti Liberati per aver consentito l’apertura per tempo dell’Expo. Uno sforzo che non ha però salvato il sindaco Sala dall’arrivare poi a una condanna per falso ideologico, infine tamponata dalla prescrizione. Ma il garbo ambrosiano c’era stato. Quello stile oggi è decisamente incrinato. Il procuratore Greco si era fino a poco tempo fa salvato da situazioni come quella di vera sparatoria all’o.k. Corral tra il suo predecessore Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Ed è uscito abbastanza indenne dal libro di Sallusti, anche se con qualche ombra polemica sui colleghi nominati come suoi aggiunti. Palamara è stato garbato nei suoi confronti, e gli ha consentito di continuare a governare la Procura più famosa d’Italia “con la diligenza del buon padre di famiglia”. Ma gli sono esplose tra le mani, in sequenza, prima la vicenda Storari-Pedio-Davigo e poi il processo Eni, la maledizione del tribunale di Milano fin dai giorni di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini. Ma erano altri tempi, quelli, e Francesco Greco c’era, con il procuratore Borrelli e gli altri del pool. Erano gli anni Novanta. Quelli in cui a cadere nella polvere erano i ministri di giustizia. Claudio Martelli con un’informazione di garanzia, Giovanni Conso e Alfredo Biondi per due decreti che avrebbero cambiato in meglio le regole della custodia cautelare e dei reati contro la pubblica amministrazione. Erano tempi in cui bastava una telefonata del procuratore: signor ministro le sto inviando un’informazione di garanzia, e lui si dimetteva. Oppure si concordava la linea con i direttori dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’Unità (che garantiva la complicità del principale partito della sinistra) e il decreto era affossato. O anche si andava in tv con gli occhi arrossati e la barba lunga a dire che senza manette non si poteva lavorare e l’altro decreto cadeva e in successione anche il governo. Bei tempi, quelli. E il capolavoro dell’abbattimento del ministro Filippo Mancuso? Quello fu un vero combinato disposto Procura-Pds. Il guardasigilli “tecnico” del governo Dini, voluto personalmente dal presidente Scalfaro, fu in realtà il più politico e il più coraggioso. L’unico che non si fece mai intimidire dalla potenza degli uomini della Procura milanese, quello che la inondò di ispezioni. La prima dopo il suicidio di Gabriele Cagliari, illuso e poi deluso dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale e suicida dopo 134 giorni di carcere preventivo. Ma poi altre, per verificare se rispondesse a verità il fatto che gli indagati venissero tenuti in carcere fino a che non avessero confessato e fatto anche “i nomi”. I più gettonati erano quello di Craxi, e in seguito quello di Berlusconi. Un modo di procedere confermato dallo stesso procuratore Borrelli, che candidamente dichiarava: noi non li teniamo in carcere per costringerli alla confessione, ma li liberiamo solo se parlano. Il Sistema Lombardo che evidentemente non turbava i sonni dei componenti del Csm, ma anche che piaceva molto ai discendenti di Vishijnsky, il cui partito allora si chiamava Pds, Partito democratico della sinistra, fratello maggiore del Pd. Così fu inaugurata con la defenestrazione del ministro Mancuso la stagione della sfiducia individuale. Con il quarto ministro guardasigilli abbattuto dal potere della Procura di Milano, uno in fila all’altro. Giusto per rinfrescarci la memoria, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, qualcuno ricorda la fine miserrima delle Commissioni Bicamerali? Si potrebbe alzare il telefono e fare due chiamate a coloro che ne furono i presidenti, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Il primo fu apparentemente travolto dall’arresto di suo fratello, ma la verità è che, proprio mentre la Commissione stava timidamente (così lo ricorda anche Marco Boato, che era presente) affrontando il tema della separazione delle carriere, irruppe in aula e fu distribuito a tutti un Fax dell’Associazione nazionale magistrati con decine di firme di toghe, comprese quelle degli uomini del pool, che intimava di non affrontare nella Commissione il tema giustizia. E l’argomento sparì. La seconda Commissione subì i colpi di un’intervista del pm Gherardo Colombo al Corriere della sera, in cui veniva ricostruita la storia d’Italia come pura storia criminale. Una frase andò diritta al cuore del Presidente Massimo D’Alema: state attenti, che di Tangentopoli abbiamo appena sfiorato la crosta. Fu sufficiente, anche se la guerra-lampo durò tredici giorni, e alla fine chi ci rimise non fu, ovviamente l’uomo del pool ma l’incolpevole ministro di Giustizia Giovanni Maria Flick. Bei tempi davvero. Oggi con tre indagati e un ex in crollo di reputazione pare un po’ difficile che la Procura di Milano abbia la forza, non diciamo di far cadere la ministra della Giustizia, ma neanche di bloccare leggi e decreti. Ma il problema è: questa classe politica, che teoricamente dovrebbe essere più forte di quella che mostrò la propria fragilità abrogando l’immunità parlamentare, ha la capacità di cogliere l’attimo? Pare proprio di no. Ma ci saranno i referendum, e forse quella forza la troveranno direttamente i cittadini.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il pizzino dell'ex procuratore. Bruti Liberati nei guai, chiese l’autoesilio di Storari. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Giocare d’anticipo ed evitare così i provvedimenti disciplinari del Consiglio superiore della magistratura. Il modus operandi è sempre lo stesso. Immutabile da anni. E se il magistrato non dovesse procedere in autonomia, c’è comunque qualcuno pronto a ricordargli di farlo in maniera “spintanea”. Stiamo parlando, ovviamente, del trasferimento “in prevenzione”. Una sorta di salvacondotto togato. In concreto, quando ad un magistrato viene aperta o sta per essere aperta una pratica di trasferimento per “incompatibilità ambientale”, per uscire in maniera indolore è sufficiente che presenti la domanda di trasferimento, appunto “in prevenzione”, e tutti i problemi vengono risolti in un lampo. Il trasferimento “in prevenzione” è tornato di attualità per la vicenda del pm milanese Paolo Storari che, con il suo comportamento, avrebbe creato, secondo il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, “discredito” nei confronti del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio. In particolare, consegnando i verbali degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara sulla loggia segreta Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Come raccontato ieri dal Corriere, il procuratore aggiunto di Milano e capo dell’antiterrorismo Alberto Nobili, sentito in audizione segretata dalla prima commissione del Csm questa settimana sull’accaduto, avrebbe riferito di essere stato contattato lo scorso 30 aprile da Edmondo Bruti Liberati. L’ex procuratore avrebbe detto a Nobili se non fosse il caso che Storari lasciasse Milano per altri lidi. Nobili, però, avrebbe rispedito l’invito al mittente, rifiutandosi di comunicarlo a Storari. Non sappiamo poi cosa sia successo in quanto Elisabetta Chinaglia, la presidente della Prima Commissione del Csm, quella che si occupa delle “incompatibilità”, avrebbe interrotto la deposizione di Nobili. Ma perché Bruti Liberati si era rivolto a Nobili? Probabilmente perché era a conoscenza dell’ottimo rapporto fra i due magistrati. Ed infatti Nobili si è fatto promotore nei giorni scorsi di una raccolta di firme proprio a sostegno di Storari. Nobili, nel 2016, era in pole per diventare procuratore di Milano. Il solito meccanismo delle correnti gli aveva però favorito Francesco Greco, nonostante in quel momento fosse il magistrato più gradito dai pm milanesi. Con il trasferimento “in prevenzione”, come recita la disposizione, il procedimento “non può essere iniziato o proseguito”. Il trasferimento è vantaggioso per tutti. Il magistrato finito nell’occhio del ciclone, come detto, evita conseguenze di qualsiasi tipo e sull’intero ufficio cala un silenzio provvidenziale. E già: se Storari si fosse tolto dall’impiccio il Csm avrebbe evitato di dover capire cosa fosse successo nella gestione delle testimonianze di Amara. Pare, infatti, che questi interrogatori siano finiti un fascicolo assegnato alla dottoressa Pedia che risulterebbe aperto da quasi cinque anni. Un periodo totalmente fuori da qualsiasi tempistica prevista dalle norme. Storari, invece, ha tenuto il punto e domani si presenterà davanti alla sezione disciplinare del Csm i cui componenti hanno quasi tutti deciso di astenersi. L’ex pm di Mani pulite, dopo aver avuto i verbali di Amara da Storari, aveva deciso a sua volta di farli vedere a diversi componenti della disciplinare del Csm, fra cui David Ermini, Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra e Fulvio Gigliotti. A non astenersi, invece, Salvi, anch’egli, secondo il racconto che fece Davigo, a conoscenza di questi verbali. Quanto sta accadendo a Storari ricorda molto da vicino quello che capitò ad Alfredo Robledo. L’allora aggiunto di Milano si scontrò in maniera violentissima con il suo capo, quel Bruti Liberati che ha contattato Nobili, uscendone poi a pezzi, travolto da disciplinari assortiti. Il motivo? Sempre le modalità di gestione di procedimenti penali. Nulla di nuovo, insomma. Paolo Comi

Alessandro Da Rold per "la Verità" il 30 luglio 2021. Fabio De Pasquale non molla. E, nonostante potrebbe non esserci nel prossimo dibattimento, nelle 123 pagine dell'appello presentato contro l'assoluzione di tutti gli imputati del processo Eni-Nigeria, decide di difendere ancora una volta l'ex manager Vincenzo Armanna e l'avvocato Piero Amara. Il primo è stato da poco indagato dalla collega Laura Pedio per calunnia nei confronti dell'avvocato Luca Santamaria. Al secondo, in carcere a Orvieto, è stata da poco respinta la richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali perché le sue dichiarazioni sarebbero mero «opportunismo processuale». È una delle parti più rilevanti quella che la pubblica accusa - sulla presunta corruzione internazionale intorno al giacimento Opl 245 - dedica all'ex responsabile Eni per l'Africa subsahariana. Per De Pasquale, infatti, è «Eni a non essere in buona fede» mentre «Armanna non aveva fatto ricatti». Il pm sostiene anche che nel video del 28 luglio 2014 non ci siano intenti «calunniatori» da parte di Armanna, in totale contrasto rispetto a quanto detto dal tribunale presieduto da Marco Tremolada. Per la settima sezione del palazzo di giustizia milanese, invece, l'ex manager Eni «perseguiva lo scopo precipuo di gettare fango sui dirigenti Eni che potevano ostacolarne gli affari, di mettere in imbarazzo la compagnia e, in ultima analisi, di sollevare un caso mediatico giudiziario che lo avrebbe messo in una posizione di forza rispetto alla sua ex società». Non solo. De Pasquale ribadisce anche l'importanza della mancata ammissione della testimonianza di Amara, quella che non fu accolta dal tribunale, dopo che il capo della procura Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio avevano portato i verbali a Brescia. La Procura bresciana ha archiviato il procedimento che avrebbe riguardato presunte pressioni degli avvocati difensori di Eni su Tremolada. Ma per De Pasquale è sbagliato quello che sostengono i giudici, cioè «che le dichiarazioni che avrebbe potuto rendere Piero Amara non contenevano conoscenze dirette, ma si riferivano a notizie apprese da altri, come facilmente desumibile dai capitolati della prova». Per il pm di Messina Amara invece «aveva anche conoscenza diretta» dei fatti. Ma a difendere i due non è solo De Pasquale. Anche l'avvocato del governo nigeriano Lucio Lucia, nella sua impugnazione, sostiene che anche se Armanna si sia vendicato, come si evince dal video del luglio 2014, può averlo fatto «attraverso la denuncia di fatti veri. In altre parole» scrive Lucia «non è possibile l'equivalenza «"vendetta di Armanna uguale dichiarazioni non veritiere per la corruzione relativa all'Opl 245"». Va ricordato che l'ex manager Eni fu messo alla porta dal Cane a sei zampe per spese ingiustificate pari quasi a 300.000 euro. Come detto, è possibile che il prossimo dibattimento dell'appello su Opl 245 si svolgerà senza i protagonisti degli ultimi 8 anni di indagine. Il capo della Procura Greco andrà in pensione a novembre. Sergio Spadaro, pubblica accusa insieme con De Pasquale, è già in forza alla Procura europea. Lo stesso De Pasquale potrebbe essere spostato insieme con Paolo Storari, quest' ultimo sotto indagine al Csm proprio per aver sottolineato più volte l'inattendibilità di Armanna e Amara durante l'indagine sul falso complotto. L'appello insomma farà felice soprattutto gli avvocati, che hanno già incassato quasi 100 milioni. Dentro la Procura è iniziato invece il lento cupio dissolvi della corrente storica di Magistratura democratica, ora Area. La lettera appello a difesa di Storari firmata da 56 pm è una sfiducia nei confronti di una storica figura di Md come Greco, per di più dopo la decisione di un altro storico esponente della corrente di sinistra, ovvero il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Non a caso anche Edmondo Bruti Liberati, secondo Alberto Nobili, sarebbe intervenuto per spostare Storari. Insomma dopo più di 10 anni di dominio è iniziata la ribellione contro il sistema correntizio di sinistra. Quello che in questi anni ha voluto puntare tutto il lavoro della Procura sul processo Eni, rimediando una sonora sconfitta. E in Appello forse nessuno di loro ci sarà.

Caso Eni, De Pasquale (indagato) non molla. Ricorso contro le assoluzioni del processo. Cristina Bassi  e Luca Fazzo il 30 Luglio 2021  su Il Giornale. Oltre 120 pagine per contestare la sentenza: "Trattato come un caso bagatellare". Milano. L'aggiunto Fabio De Pasquale non intende mollare. Nel pieno della bufera che sta investendo la (ex) gloriosa Procura di Milano e dei guai che lo vedono, insieme al pm Sergio Spadaro, indagato a Brescia e - parrebbe - oggetto di istruttoria disciplinare del pg di Cassazione deposita il ricorso in Appello contro la sentenza Eni-Nigeria. Proprio il procedimento che gli ha portato le peggiori grane che una toga possa avere. De Pasquale chiede di ribaltare la decisione del Tribunale che il 17 marzo scorso ha assolto, «perché il fatto non sussiste», tutti i 15 imputati per la presunta maxi tangente Eni. Tra gli imputati, l'ad Claudio De Scalzi e il predecessore Paolo Scaroni. Anche la parte civile, il governo nigeriano rappresentato dall'avvocato Lucio Lucia, ha fatto ricorso. Il deposito dell'impugnazione arriva a ridosso della scadenza dei termini. Il procuratore aggiunto ha scritto 123 pagine per contestare, punto per punto, le motivazioni della Settima sezione penale, presieduta dal giudice Marco Tremolada. Per il Tribunale, non è stata raggiunta la prova della presunta corruzione del colosso petrolifero per ottenere le concessioni sul giacimento Opl245. Eppure De Pasquale avrebbe ben altro cui dedicarsi, per difendersi dalle accuse della Procura di Brescia, che lo indaga per rifiuto di atti d'ufficio proprio perché avrebbe tenuto per sé fondamentali prove a favore degli imputati nel processo poi perso. Non solo. Avrebbe usato in modo selettivo i verbali di Piero Amara, per altri versi dalla stessa Procura ritenuti non degni di approfondimento, per denunciare a Brescia il giudice Tremolada (poi archiviato) come «avvicinabile» dalle difese. Per la vicenda, che ha causato in Procura uno scisma senza precedenti, il pg di Cassazione potrebbe chiedere al Csm di cacciarlo da Milano, come ha già fatto per il pm Paolo Storari, la cui udienza è fissata per oggi. Se non bastasse, è emerso che nel marzo 2020 in un documento molto critico 27 pm milanesi sottolineavano che il dipartimento Affari internazionali e reati economici transnazionali, guidato da De Pasquale, «avrebbe meritato» una «illustrazione analitica delle attribuzioni, del peso, dell'andamento dei flussi di lavoro e dei risultati», mentre «nulla è possibile carpire» dai numeri forniti sull'attività del pool. In sostanza nel ricorso l'aggiunto sostiene che i giudici della Settima hanno trattato il caso «come se fosse una storia bagatellare». Per De Pasquale, il Tribunale porta argomenti «veramente esili» e «illogici», con «gravi svalutazioni» delle prove e in certi passaggi fornisce una «ricostruzione unidimensionale». Sul teste-imputato Vincenzo Armanna, che i giudici dichiarano «non attendibile», animato «da intenti ricattatori» e autore di dichiarazioni «generiche, contraddittorie e non riscontrate», l'aggiunto ribadisce che «gran parte del suo racconto è non solo vero, ma pacificamente vero». E che il Tribunale ricorre a un escamotage per screditarlo: in caso di «circostanze su cui Armanna è stato pienamente riscontrato» succede che «affermi che la circostanza è sì vera ma ha una sua spiegazione lecita, ovvero che non è rilevante, o che è parzialmente vera». Sul video, «dirompente» per i giudici, in cui Armanna afferma di voler infangare l'azienda e che i pm - è l'accusa della Corte - hanno tenuto nascosto: De Pasquale dichiara che la Corte stessa aveva deciso di non ammetterlo, perché rientrava in un'altra inchiesta in corso (sul «complotto» Eni); che i difensori già ne conoscevano il contenuto; che l'intento calunniatorio del teste non si deduce dal video, ma ha origine nella «percezione soggettiva del giudicante». La videoregistrazione, si conclude, non può diventare «l'arma micidiale che distrugge un intero processo». Fa sapere infine Eni che «conferma la propria totale estraneità rispetto ai fatti contestati e ripone la massima fiducia che la magistratura giudicante in Appello possa rapidamente confermare le conclusioni raggiunte nell'ambito del primo grado».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Fabio De Pasquale, la rivolta dei colleghi contro il pm anti-Cav: "Lavora poco e ha troppo potere", qui crolla la procura. Paolo Ferrari Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. È scattata la rivolta al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, dove ha sede la procura della Repubblica, contro il "dipartimento reati economici transazionali" diretto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Dopo la raccolta di firme a sostegno del pm milanese Paolo Storari, "reo" di aver messo in discussione l'operato dei suoi capi, il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, il nuovo terreno di scontro fra le toghe riguarda questo dipartimento molto particolare. L'ufficio, nato per volontà di Greco, al momento si è essenzialmente occupato di processare i vertici dell'Eni per l'accusa di aver corrotto esponenti del governo della Nigeria per la gestione di un pozzo di petrolio nel golfo di Guinea. Il dipartimento di De Pasquale, secondo quanto riferito da una trentina di sostituti, avrebbe un carico di lavoro nettamente inferiore a quello degli altri dipartimenti della Procura milanese. La suddivisione dei fascicoli è stata fatta direttamente dal procuratore. Il rapporto con gli altri dipartimenti sarebbe impietoso: 1 a 100, secondo l'aggiunto Tiziana Siciliano, capa di quello per la "tutela della salute, dell'ambiente e del lavoro", evidentemente travolta dai procedimenti. Oltre a non avere fascicoli, il dipartimento di De Pasquale ha anche un'altra particolarità: è diventato recentemente una fucina di "procuratori europei delegati", i pm della neo costituita Procura europea che ha lo scopo di perseguire i reati contro gli «interessi finanziari dell'Unione». Dei 14 pm italiani scelti per occuparsi delle frodi al bilancio comunitario e non, per fare un esempio, di quello italiano con le truffe sul reddito di cittadinanza, ben tre provengono proprio dal dipartimento di De Pasquale: Gaetano Ruta, Donata Costa, Sergio Spadaro. Quest' ultimo, peraltro, è attualmente indagato con De Pasquale a Brescia, Procura competente per i reati commessi dai magistrati milanesi, per non aver depositato alcune prove a favore degli imputati nel processo Eni-Nigeria. Una circostanza che sta creando imbarazzo a Lussemburgo dove ha sede la Procura europea. Spadaro, fresco di nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura, che aveva messo in evidenza le sue capacità professionali, potrebbe essere allora defenestrato se, come recita il regolamento europeo «ha commesso una colpa grave». Certamente non una bella figura per l'Italia. Elemento scatenante di questa situazione infuocata è sempre Storari, anch' egli indagato a Brescia per rivelazione di segreto d'ufficio per aver consegnato i verbali dell'ex avvocato esterno dell'Eni, Piero Amara, all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Storari ha sempre affermato di averlo fatto a causa dell'inerzia dei suoi capi nel fare accertamenti sulle rivelazioni di Amara, in particolare sugli appartenenti alla Loggia segreta Ungheria. Ma non solo: Storari, che assieme all'aggiunta Pedio aveva interrogato Amara, aveva evidenziato diverse anomalie nella deposizione e nella raccolta delle prove. Come quella di una registrazione, mai prodotta in dibattimento, in cui si pianificava il complotto contro i vertici dell'Eni. De Pasquale aveva poi ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all'attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». Domani, comunque, la sezione disciplinare del Csm si esprimerà nei confronti di Storari visto che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha chiesto per lui il trasferimento di sede e il cambio di funzioni. Quattro dei sei giudici della Sezione disciplinare hanno deciso di astenersi in quanto erano stati messi a conoscenza da Davigo del contenuto dei verbali delle dichiarazioni di Amara. Oggi pomeriggio, invece, è prevista sempre alla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli l'udienza nei confronti di Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e deputato renziano di Italia viva. Con Luca Palamara aveva partecipato all'incontro all'hotel Champagne di Roma dove si discusse della nomina del nuovo procuratore della Capitale. L'ex presidente dell'Anm, invece, hanno fatto sapere i suoi avvocati, ha depositato ieri alla Procura di Firenze, alla luce di queste astensioni, un esposto contro Davigo e Gigliotti. Costoro nel procedimento contro di lui, finito con la radiazione dalla magistratura, non si erano astenuti pur essendo all'epoca già a conoscenza delle dichiarazioni di Amara.

Il Csm "boccia" Greco. Lui attacca il pm Storari: "Slealtà e menzogne". Cristina Bassi il 30 Luglio 2021  su Il Giornale. Dura lettera del procuratore ai sostituti: nel mirino la raccolta firme per il collega indagato. Milano. La serenità ormai è un miraggio al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano. Con tre pm, su due fronti opposti, nel mirino delle Procura di Brescia e a rischio provvedimento disciplinare del Csm, ora arriva la delibera approvata a larga maggioranza in cui il Consiglio superiore prende atto del progetto organizzativo del procuratore Francesco Greco per il triennio 2017-2019, ma con diversi «rilievi». Non c'è, si legge, «un'analisi dettagliata della realtà criminale nel territorio di competenza, non risulta un'indicazione e un'analisi attuale e dettagliata dei dati relativi alle pendenze e ai flussi di lavoro, non sono stati individuati gli obiettivi organizzativi, di produttività e di repressione criminale». Una carenza che «preclude al Csm una compiuta valutazione delle scelte effettuate». Il Csm dà ragione alle osservazioni già mosse da 27 pm e dall'ex pg facente funzioni Nunzia Gatto che aveva segnalato in particolare un'apparente «anomalia» tra il numero di magistrati addetti al dipartimento Affari internazionali, quello di Fabio De Pasquale, e assegnati ad altri dipartimenti che pure trattano «reati gravi e delicati». Intanto ieri lo stesso Greco ha inviato una dura mail ai propri sostituti in cui attacca (senza farne il nome) il pm Polo Storari, oggi davanti al Csm per la vicenda dei verbali di Piero Amata consegnati a Piercamillo Davigo. «Altro è difendersi - scrive il capo della Procura -, altro è lanciare gravi e infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio, non astenendosi, tra l'altro, da un'indagine su un fatto in cui si è personalmente coinvolti». Ancora: «Le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate». Greco poi affronta la questione della lettera in sostegno a Storari: «Un documento sottoscritto da molti colleghi dell'Ufficio è stato reso pubblico e ha destato inevitabile clamore. Una cosa è la umana solidarietà nei confronti di un collega in difficoltà, altro è una presa di posizione che non poteva non essere presentata nei media come intervento teso a condizionare una procedura giudiziaria garantita, quale è il procedimento disciplinare». Continua il procuratore: «I valori tutelati in questa procedura sono la credibilità e la fiducia dei cittadini nel regolare andamento di un ufficio giudiziario (...). L'augurio di tutti non può essere altro che sia fatta chiarezza quanto più rapidamente dai giudici competenti sotto i diversi profili coinvolti». E rivendica, «senza timore di smentite che in tutti questi anni, da Procuratore aggiunto e poi da Procuratore, senza mai rinunciare al dovere di rappresentare la mia valutazione in un confronto aperto e leale, ho sempre avuto il massimo rispetto per l'autonomia dei colleghi. Altrettanto rispetto dobbiamo avere tutti per le procedure in corso, la cui definizione è l'unico mezzo per ricostruire appieno la fiducia dei cittadini in questa Procura. Una Procura, che è sempre stata un punto di riferimento in Italia e anche all'estero». Infine: «Avviandomi alla conclusione della mia carriera in magistratura, sono orgoglioso di aver fatto parte della grande storia della Procura di Milano». Cristina Bassi

Domani decide la commissione disciplinare del Csm. Caos in Procura a Milano, Greco attacca Storari: “Slealtà e menzogne, lettera può influenzare il Csm”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Procura di Milano in fiamme nella battaglia in corso tra il procuratore Francesco Greco e il pm Paolo Storari alla vigilia dell’udienza in commissione disciplinare del Csm che dovrò decidere sulla richiesta di trasferimento del magistrato in relazione alla consegna a Piercamillo Davigo, allora consigliere del Csm, dei verbali segreti di Piero Amara. Come noto Storari ha consegnato quei documenti a Davigo con la "giustificazione" dell’inazione da parte dei vertici della procura di fronte alle parole di Amara sull’esistenza della presunta loggia Ungheria, di cui farebbero parte politici, magistrati, vertici delle forze di polizia, avvocati e imprenditori. In una lettera spedita via mail ai pm della Procura di Milano, il procuratore Greco attacca Storari scrivendo che il pm è “venuto meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio, non astenendosi, tra l’altro, da una indagine su un fatto in cui si è personalmente coinvolti”. Ma Greco mette nel mirino anche gli autori della solidarietà al pm coinvolto nella vicenda dei verbali di Amara, raccolta firme che ha raccolto l’adesione di circa 230 magistrati milanesi, in gran parte del suo ufficio. Mail che ha lasciato “senza parole” gran parte dei sostituti sia per i toni sia per i modi sia per la tempistica. Greco scrive infatti che “una cosa è la umana solidarietà nei confronti di un collega in difficoltà, altro è una presa di posizione che non poteva non essere presentata nei media come intervento teso a condizionare una procedura giudiziaria garantita, quale è il procedimento disciplinare già a partire dalle indagini e dalla fase cautelare”. Nella lettera, Greco non cita mai espressamente Storari, ma nel riferirsi al pm il procuratore milanese ricorda che “il collega ritenuto responsabile (della fuga di notizie, ndr) è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare in un procedimento giurisdizionale nel quale si applica il codice di procedura penale”. Greco quindi rivendica “senza timore di smentite” che nei suoi anni alla guida della procura “senza mai rinunciare al dovere di rappresentare la mia valutazione in un confronto aperto e leale, ho sempre avuto il massimo rispetto per l’autonomia dei colleghi”.

Quindi dalla penna di Greco altre ‘mazzate’ a Storari ma anche agli altri protagonisti della vicenda, da Davigo in poi: ”Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali” di denunciare”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

Una risposta all'arroganza dei procuratori. Lo schiaffo dei Pm ai mandarini Salvi e Greco. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 27 Luglio 2021. L’arroganza è sempre una cattiva consigliera, figurarsi nella gestione dei rapporti gerarchici tra magistrati. A maggior ragione se ad adottarla sono due figure apicali come il procuratore generale della Cassazione Salvi e il procuratore capo di Milano Greco. Esse si muovono in un contesto nel quale sono già avvenuti terremoti sia a livello di Anm e di Csm sia per ciò che riguarda Milano, che è nell’occhio del ciclone per una serie di questioni. Ma innanzitutto per una: siccome i pm De Pasquale e Spadaro hanno puntato tutte le loro energie per distruggere il gruppo dirigente dell’Eni, l’assoluzione, accompagnata da una durissima motivazione, già aveva rappresentato una sconfitta bruciante per la procura nel suo complesso con code processuali visto che De Pasquale e Sergio Spadaro sono sottoposti ad un procedimento presso la procura di Brescia. A monte di tutto ciò c’è il preteso caso Palamara, preteso perché esso coinvolge tutto il funzionamento interno della magistratura per ciò che riguarda l’assegnazione delle cariche. Palamara infatti era una ruota dell’ingranaggio e non si è inventato lui la permanente trattativa fra le correnti indipendentemente dai curricula e dai meriti. Se non che ad un certo punto Palamara, leader della corrente di centro, ha commesso l’errore di rovesciare le alleanze passando da una alleanza di centrosinistra ad una di centrodestra. Così è partito non un proiettile, ma un missile a più stadi, cioè il trojan. Attraverso le intercettazioni del trojan, è stato messo in piazza il sistema, appunto, non le malefatte di Palamara. A quel punto, per salvare la magistratura ed il suo prestigio, occorreva una sorta di Rivoluzione Culturale con l’azzeramento di tutto, con le dimissioni del Csm, del suo vicepresidente Ermini, con la messa in questione anche della nomina – peraltro derivata da una dimissione – del pg della Cassazione Salvi, perché tutto derivava non da Palamara, ma dal Sistema nel quale Palamara era uno dei dirigenti del traffico. Invece, con un misto di arroganza e cecità, si è pensato di mantenere in piedi l’impianto, operando un assassinio mirato (il medesimo Palamara appunto, addirittura espulso dalla magistratura) con qualche mezzo suicidio selezionato (dimissioni talora sollecitate dalle correnti di riferimento anche di soggetti poi risultati innocenti). Già l’operazione era asfittica di per sé, poi è avvenuta in un contesto nel quale la contestazione di questo sistema giustizia era crescente: bastava solo che qualcuno accendesse un cerino. Il libro di Palamara e Sallusti è stato questo cerino che ha dato fuoco alla prateria. Neppure questo segnale è bastato. Questo è il retroterra utile a spiegare ciò che è avvenuto in questi giorni: un caso di straordinaria arroganza, posto in essere dal Procuratore di Cassazione Salvi in stretta connessione con il Procuratore di Milano Greco. Per raggiungere l’obiettivo di radere al suolo il gruppo dirigente dell’Eni, due avvocati in rottura con quella azienda, cioè Amara e Armanna, risultavano per i pm molto utili. Il primo aveva addirittura fatto oblique affermazioni secondo le quali il dottore Tremolada che guidava il processo, un magistrato da tutti stimato, “era avvicinabile dalla difesa dell’Eni” (questa affermazione se raccolta poteva far saltare il processo), in secondo luogo i due pm Di Pasquale e Spadaro sono in giudizio a Brescia per non aver inserito negli atti del processo delle prove favorevoli alla difesa (come è noto il pm esercita la pubblica accusa non per i fatti propri ma a nome del popolo italiano e quindi deve raccogliere anche eventuali prove favorevoli agli accusati): è quello che ai tempi di Mani pulite fece il vice di Borrelli dottor Dambrosio, quando raccolse prove a favore di Greganti e quindi del PCI – PDS). In un contesto già di per sé così ambiguo ed inquietante, Amara ha riferito al pm Storari che egli faceva parte di una loggia segreta, la Hungaria, insieme a personalità di grande rilievo (e ha fatto i nomi di alcune di esse che manipolavano i processi e contribuivano a costruire carriere nella magistratura). Non è affatto detto che Amara abbia raccontato la verità, però quello che egli ha messo a verbale andava accertato seguendo il meccanismo classico: avvisi di garanzia, indagini, perquisizioni, intercettazioni, magari anche con il trojan. Se non che Storari ha verificato che il suo procuratore capo Greco non si muoveva e allora si è rivolto ad una personalità rilevante del Csm cioè Davigo per suonare un campanello d’allarme. Ieri Davigo ha fornito sul Corriere della Sera un imbarazzante resoconto di tutte le personalità da lui interpellate, fino a lambire la presidenza della Repubblica. Quello che è avvenuto dimostra due cose: la prima è che si sono inceppati alcuni meccanismi procedurali nel sistema. La seconda è che, come ha affermato Sabino Cassese, la magistratura non può esercitare i meccanismi disciplinari su se stessa, perché, anche per l’esistenza delle correnti, ciò può produrre incredibili disastri. Comunque, come se in questi mesi non fosse successo niente, come se il Sistema fosse solidissimo, il procuratore capo della Cassazione Salvi, anch’egli contestabile perché espresso proprio da quel Sistema, ha deciso di prendere la scimitarra e di tagliare la testa di Storari, del solo Storari, addirittura allontanato da Milano per ridare serenità a quella procura e privato per il futuro di poter esercitare ancora il ruolo di pubblico ministero. Parliamoci chiaro: l’obiettivo di questo attacco frontale del Procuratore Salvi nei confronti di Storari ha come retroterra filosofico un motto tipico degli anni Settanta: colpiscine uno per educarne cento. E si fonda sulla forza del principio di autorità, in questo caso sostenuto anche dal procuratore capo di Milano Greco. L’iniziativa dei due potentissimi procuratori avrebbe dovuto mettere in riga tutti. Ma Salvi e Greco non hanno fatto i conti con la situazione attuale: essi sono gli ultimi dei “mandarini” di un sistema in crisi dalle fondamenta. Così, invece di andare a baciare la pantofola dei due procuratori, c’è stata l’iniziativa di un documento eterodosso sostenuto da un Pm di grande prestigio come Alberto Nobili che ha ottenuto più di cento firme, fra cui 56 su 64 fra i componenti della Procura. Il documento è assai calibrato, ma colpisce al cuore, anzi ridicolizza, le esagitate esternazioni di Salvi nel punto cruciale: «La loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega nell’esercizio delle sue funzioni presso la procura della Repubblica di Milano». Se qualcuno voleva risolvere con una operazione disciplinare il problema Storari, che non è più tale ma è quello della Procura di Milano, si è sbagliato di grosso. Che poi la sezione disciplinare di questo Csm delegittimato sia a sua volta in grado di affrontare a colpi di scimitarra una questione di questo spessore ci sembra del tutto impossibile. Passando dalla magistratura alla politica, è come se qualcuno pensasse di risolvere i tanti problemi politici che ha il Pd con la stessa metodologia autoritaria usata a suo tempo dal gruppo dirigente del Pci nei confronti del manifesto. Se Salvi pensa di trattare Storari come a suo tempo Longo, Amendola, Natta trattarono Pintor fa un errore colossale. La crisi è di sistema. Comunque bisogna dare atto si magistrati inquirenti di Milano di aver dato la prova di avere la schiena dritta. Il documento apre però problemi enormi per ciò che riguarda, al di là dell’episodio in oggetto, proprio il funzionamento della magistratura. Fabrizio Cicchitto

Storari si difende sulle carte a Davigo. "No al trasferimento". Anna Maria Greco il 4 Agosto 2021 su Il Giornale. Incompatibilità ambientale e funzionale. Via da Milano e non più pubblico ministero. Incompatibilità ambientale e funzionale. Via da Milano e non più pubblico ministero. Per Paolo Storari è pesante la richiesta del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che ha avviato il procedimento disciplinare nei suoi confronti e chiesto al Csm il suo trasferimento dalla procura meneghina. E a Palazzo de' Marescialli il difensore, Paolo Della Sala, per un'ora e mezza cerca di smontare le accuse. «L'auspicio è che venga rigettata la richiesta», dice. Ma tutto avviene a porte chiuse, nella sezione disciplinare e sono «totalmente riservati», spiega l'avvocato, i tempi entro cui arriverà la decisione. Potrebbe essere in settimana o nella prossima, con il deposito della motivazione. Della Sala, uscendo con Storari dall'udienza durata due ore, sottolinea che il suo assistito non vuole strumentalizzare la raccolta di firme di solidarietà con lui di 250 pm e giudici, né farla apparire come una rivolta contro il procuratore Francesco Greco. «Non abbiamo mai depositato una lista delle persone che hanno accordato fiducia e la loro simpatia umana al dottor Storari, contrariamente a quanto qualcuno ha pubblicato. Non abbiamo enfatizzato questo argomento. La difesa propone ben altri argomenti». Storari è accusato da Salvi di aver commesso ad aprile il reato di rivelazione di segreto istruttorio, per aver consegnato all'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (indagato con lui) i verbali ancora coperti da segreto» degli interrogatori di Amara sulla presunta Loggia Ungheria. Anna Maria Greco

Caso verbali, Storari si difende ma senza “sfruttare” la solidarietà dei colleghi. Il pm non deposita la lettera di solidarietà di circa 250 colleghi. La decisione attesa in settimana, ma intanto la procura di Milano è una polveriera. Simona Musco su Il Dubbio il 4 agosto 2021. L’ora x per il pm di Milano Paolo Storari è arrivata. La commissione disciplinare del Csm si è riunita questo pomeriggio in camera di consiglio, per valutare le accuse formulate dal pg della Cassazione Giovanni Salvi, che ha chiesto per il magistrato milanese il trasferimento cautelare d’urgenza e il cambio di funzioni per aver consegnato i verbali secretati di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

La linea difensiva di Paolo Storari. Il pm milanese è rimasto al Csm per circa due ore, in compagnia del suo avvocato, Paolo Dalla Sala, che ha depositato una corposa memoria difensiva. Memoria che, a differenza da quanto ipotizzato nei giorni scorsi, non contiene la lettera di sostegno sottoscritta da circa 250 magistrati, a partire dai togati milanesi, che hanno manifestato solidarietà a Storari. Sono stati depositati, invece, i documenti consegnati alla procura di Brescia, che lo indaga per rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex pm di Mani Pulite Davigo. «La nostra linea difensiva non si fonda su quella lista di adesioni – spiega al Dubbio Dalla Sala -. Non abbiamo depositato alcuna lista e non è stato in alcun modo enfatizzato questo argomento, anche per non strumentalizzare questa manifestazione di fiducia e solidarietà umana che di certo è importante, ma non è un argomento che attiene alla difesa. Abbiamo solo depositato un ritaglio, al fine di dimostrare l’esistenza del fenomeno, ma l’argomento non poteva essere enfatizzato più di tanto davanti al Csm. Sono altri gli argomenti, in fatto e in diritto, e molto articolati».

Salvi chiede il trasferimento d’ufficio. Salvi ha chiesto il trasferimento di Storari per aver «divulgato i verbali» di Amara a Davigo nell’aprile 2020, violando il segreto d’ufficio e assumendo un «comportamento gravemente scorretto nei confronti» del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio, da lui accusati di aver ritardato le indagini sulle rivelazioni di Amara, omettendo, «di comunicare» ai vertici «il proprio dissenso per la mancata iscrizione» nel registro degli indagati dell’avvocato e di formalizzare con una lettera alla procura generale il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre, secondo Salvi, Storari avrebbe dovuto astenersi dal prendere parte all’indagine sulla fuga di notizie, aperta ad ottobre 2020 dopo l’esposto di un giornalista del Fatto Quotidiano, al quale erano stati spediti i verbali, gli stessi consegnati da Storari a Davigo. Storari ha dichiarato a Brescia di aver consegnato a Davigo i verbali raccolti nell’inchiesta sul “Falso complotto Eni” insieme a Pedio nell’ottica dell’apertura di una pratica «a sua tutela», senza poter prevedere che la segretaria dell’ex membro del Csm, Marcella Contrafatto, potesse inviarle ai giornalisti, così come sostiene la procura di Roma che la indaga per calunnia ai danni di Greco.

Greco indagato a Brescia. L’ultimo capitolo di questa vicenda è rappresentato dal fascicolo aperto, sempre a Brescia, a carico di Greco, indagato per aver ritardato l’apertura dell’indagine sulla presunta “Loggia Ungheria”, della cui esistenza ha parlato Amara proprio in quei verbali. Un atto dovuto, a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, secondo cui l’inerzia dei vertici della procura sarebbe stata dettata dalla necessità di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto però dal Tribunale di Milano un inquinatore di pozzi. «Da Storari non ho mai ricevuto manifestazione di dissenso né in modo informale né formale», ha dichiarato Greco a Brescia. E anche secondo il sostituto pg Marco Dall’Olio, che ha sostenuto l’accusa davanti al Csm, Storari avrebbe dovuto formalizzare il proprio dissenso denunciando i ritardi al procuratore generale di Milano o, comunque, scegliendo le vie ufficiali. Anche perché quei verbali, alla fine, sono diventati pubblici, senza conoscere la veridicità del contenuto, smentito solo dalle incongruenze più eclatanti, come i riferimenti al togato del Csm Sebastiano Ardita, vittima, secondo il collega Nino Di Matteo, di un vero e proprio complotto.

La solidarietà dei colleghi a Storari. Intanto la procura di Milano è una polveriera. La lettera di solidarietà a Storari, infatti, dimostra una spaccatura interna ormai insanabile, conseguenza, forse, anche del silenzio in cui si sono chiusi i vertici dell’ufficio giudiziario nei giorni in cui si consumava lo scandalo dei verbali. Davanti alla prima commissione che segue il caso Storari, infatti, diversi magistrati hanno dichiarato di aver appreso quanto stava avvenendo soltanto dai giornali. E dopo la solidarietà pubblica al pm, Greco non ha nascosto il proprio fastidio, in una mail inviata ai colleghi nella quale, di fatto, accusa Storari di aver mentito. «Mentre la magistratura italiana affronta una grave crisi di legittimazione, la nostra procura ha vissuto una grave vicenda di fuga di notizie», ha evidenziato Greco, aggiungendo, senza mai nominarlo, che «il collega ritenuto responsabile è ora indagato in sede penale e incolpato in sede disciplinare». E ancora: «Ma altro è difendersi, altro è lanciare gravi ed infondate accuse, dopo essere venuti meno ai più elementari principi di lealtà nei confronti di chi ha la responsabilità di dirigere un ufficio. Per quanto mi riguarda, le tante menzogne, calunnie e diffamazioni sono e saranno attentamente denunciate in tutte le sedi competenti così come tutte le violazioni dell’obbligo che hanno i pubblici ufficiali» di denunciare.

Gli altri pm milanesi indagati. Storari e Greco non sono gli unici indagati: Brescia ha puntato i fari anche sull’aggiunto Fabio De Pasquale e sul sostituto Sergio Spadaro, accusati di omissione d’atti d’ufficio nel processo Eni-Nigeria. Un cerchio che si chiude attorno ad Amara e Armanna, pomo della discordia di tutta la vicenda. Gli stessi per i quali Storari, a febbraio 2021, aveva preparato una bozza di richiesta di misure cautelari con l’accusa di calunnia, richiesta avanzata anche a carico di Giuseppe Calafiore ma mai controfirmata dai vertici della procura. La decisione del collegio della Sezione disciplinare sarà ora resa nota contestualmente al deposito delle motivazioni, che potrebbe arrivare entro la fine della settimana.

Da Borrelli alla debacle di Greco, gli ultimi 40 anni della procura di Milano tra scandali e misteri. Frank Cimini su Il Riformista il 6 Agosto 2021.  Alla vigilia, ma in realtà ci vorranno mesi, di quello che potrebbe essere un avvenimento epocale come l’arrivo del cosiddetto “papa straniero” a capo della procura di Milano vale la pena di ricordare cosa è accaduto negli ultimi quarant’anni e passa.

Nel 1977, quando chi scrive queste povere righe iniziò a frequentare il palazzo di giustizia come collaboratore abusivo e non pagato (diciamo per militanza) del manifesto, il capo dei pm era Mauro Gresti passato alla storia per aver dato, e non avrebbe dovuto farlo, l’ok per il passaporto al banchiere Roberto Calvi. Di Gresti si racconta pure che la moglie fosse solita rimproverarlo quando portava fuori il cane “perché per ammazzare te mi ammazzano anche lui”.

Il successore di Gresti fu Francesco Saverio Borrelli il santo procuratore della farsa di Mani pulite targato Magistratura democratica dalla quale però a un certo punto prese le distanze. Un giudice di quei tempi era solito etichettare Borrelli come “quello che fa proclami al popolo”. Borrelli al termine del mandato scese al terzo piano a fare il procuratore generale cioè il superiore gerarchico e il controllore dello stesso ufficio inquirente che aveva diretto per anni. Ma si tratta di “dettagli” di cui il Csm, che di solito fa cose anche peggiori, non si è mai voluto interessare.

Del resto anche Manlio Minale fece lo stesso percorso scendendo di piano senza che la cosa suscitasse attenzione. Minale quando aveva già fatto la domanda per diventare pm era il giudice che in corte d’Assise condannò Sofri. Avrebbe mai potuto smentire l’ufficio in cui stava per entrare?

Ma prima di Minale il capo era stato Gerardo D’Ambrosio, lo zio Gerry, colui che da giudice istruttore aveva cercato di salvare l’onore e l’immagine della questura ricorrendo al “malore attivo” dell’anarchico Pinelli. D’Ambrosio in Mani pulite salvava il Pci Pds spiegando che Primo Greganti aveva usato i soldi non per il partito ma per comprare una casa. Ma da Montedison Greganti aveva incassato 621 milioni di lire, esattamente la stessa cifra data agli emissari di Psi e Dc. Misteri di Mani pulite.

Dopo D’Ambrosio arrivò Edmondo Bruti Liberati uno dei fondatori di Md il quale, contrariamente a quelli che erano stati i valori e lo spirito originario della corrente, fece fino in fondo “il padrone” del quarto piano cacciando Robledo che voleva indagare su Expo, ma per salvare la patria dell’evento non si poteva.

Francesco Greco, suo ex delfino, ha continuato l’opera di Bruti incagliandosi alla fine nel caso Eni Nigeria.

Siamo alla storia di questi giorni. Greco era stato sempre “coperto” dal Csm. Ricordiamo che poco tempo prima di essere nominato procuratore aveva chiesto una serie di archiviazioni in procedimenti di tipo fiscale. Il gip a ragione gettava le richieste e a quel punto interveniva la procura generale della Repubblica avocando a sé i fascicoli.

In alcuni di questi casi si arrivava alla condanna attraverso il patteggiamento. Insomma veniva completamente ribaltato quello che Greco aveva prospettato. In casi del genere il Csm è chiamato ad andare a verificare. Non accadeva nulla.

Greco insieme al pg della Cassazione Salvi evidentemente pensava di risolvere la questione Eni-Amara facendo trasferire Storari. Stavolta non ha centrato l’obiettivo. Frank Cimini

La lettera di 150 toghe in difesa di Storari. Valanga sulla procura di Milano, dopo 30 anni sotto accusa il metodo Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Una valanga. È ormai una valanga quella che si sta abbattendo sulla Magistratopoli milanese, sul capo della procura Francesco Greco e il suo asse che pareva inattaccabile con il pg della Cassazione Giovanni Salvi e i vertici di Magistratura democratica, la corrente sindacale che sostenne trent’anni fa la roccaforte di Mani Pulite e i loro metodi che oggi sono sul banco degli imputati. Una piccola ricompensa per le tante vittime di quel sistema, e soprattutto per i 41 che proprio per quello si tolsero la vita. Una valanga che oggi porta le firme di 58 pm milanesi su 64, e poi gip e giudici di tribunale e corte d’appello, e l’intera procura di Busto Arsizio, fino a superare il numero di 150 toghe che, dietro le righe di una solidarietà al collega Paolo Storari che Salvi vuole cacciare da Milano e da qualunque procura, dicono “basta” alla Magistratopoli lombarda. Il pg della cassazione (e con lui il capo della procura di Milano) ritiene che i magistrati milanesi non siano sereni, se Storari rimane lì. Siamo molto sereni qui con lui, rispondono in coro i colleghi. Quasi dicendogli “stai sereno” tu. Non è importante stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, per capire le ragioni di quel che sta succedendo. È stato il libro di Palamara e Sallusti a far rotolare il primo sassolino che diventerà valanga o è il caso Storari-Davigo con la maledizione del processo Eni a disvelare che ormai da tempo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si dice che “il re è nudo”? Nessuno pensava che un giovane sostituto fosse così importante, e probabilmente non lo è. Ma in tanti tra quelli più anziani negli uffici hanno la memoria lunga. E qualcuno sicuramente ricorderà le aspettative di chi avrebbe potuto diventare nel 2016 il capo della procura quando invece la scelta del Csm –quello in cui spopolava il sistema Palamara- era caduta su Francesco Greco, esponente di Magistratura democratica come gli altri candidati (a Milano finora è sempre andata così) ma soprattutto ex componente di quel gruppo che si arrogò il diritto di definirsi di Mani Pulite. Non è un caso che il leader dei giovani di procura che hanno steso il documento che, difendendo Storari, colpisce al cuore l’asse Salvi-Greco, si chiami Alberto Nobili e che sia, a quanto pare, il primo firmatario dello scritto di solidarietà al giovane pm che osò ribellarsi, pur con procedure sgrammaticate, al proprio capo. Chi ha la memoria più che lunga, addirittura lunghissima, tanto da saper andare, senza errori, fino all’indietro di trent’anni, potrà constatare che il Metodo, il Sistema, di certi procuratori, quello criticato con fermezza dal tribunale che ha assolto i vertici Eni nonostante la procura avesse esercitato pressioni di ogni tipo per arrivare alla condanna, non sono mai cambiati. Sono stati inventati allora e vengono messi in pratica ancora. Quando il procuratore Borrelli diceva come non fosse vero che loro tenevano le persone in carcere per farle confessare, ma che li scarceravano solo dopo che avevano parlato. Quando colui che allora era un semplice sostituto, Francesco Greco, al collega romano che era anche stato suo mentore Francesco Misiani che gli contestava la costante violazione della competenza territoriale, rispondeva come non fosse importante quale procura facesse le inchieste, ma “chi” potesse permettersi di farle. Cioè loro, gli alfieri con le Mani Pulite. Quel che è successo al processo Eni, e nei filoni complementari, ne è la plateale dimostrazione. Non è un caso che, proprio nei giorni scorsi, il procuratore Greco si sia rifiutato di consegnare ai colleghi bresciani una rogatoria fatta nel 2019 in Nigeria dalla collega e fedelissima Laura Pedio, che indagava insieme al collega Storari, su un filone parallelo rispetto al processo principale e che veniva chiamato del “falso complotto”. Anche senza entrare troppo nel merito, appare palese il fatto che la mentalità di allora si rispecchi nell’oggi: non è importante di chi è la competenza, ma “chi” è il predestinato a svolgere certe indagini. E Milano non dà le carte al procuratore di Brescia Francesco Prete, che è costretto a rivolgersi al governo. Così la procura di Milano, già all’attenzione del ministero (che ha mandato gli ispettori), del Csm (che sta ascoltando tutti, e proprio ieri Fabio Tremolada, che ha presieduto il processo Eni) e dei pubblici ministeri di Brescia (che indagano sia su Storari e Davigo per la diffusione di atti segreti, che su De Pasquale e Spadaro perché avrebbero nascosto al processo Eni importanti atti a discarico degli imputati) è decisamente sul banco degli imputati. Lo è per il metodo, e per l’arroganza. Come definire diversamente quel che è accaduto al processo Eni? Basta dare un’occhiata alle motivazioni della sentenza che ha assolto i vertici dell’azienda petrolifera per restare allibiti. Che i protagonisti dell’accusa si spendano per ottenere la condanna degli imputati è logico. Pur se si dovrebbe sempre ricordare che il pm è obbligato anche a portare in causa eventuali elementi a discarico. Se i due pm, come pare, non l’hanno fatto, nascondendo al processo una serie di prove che avrebbero dimostrato l’inattendibilità di un loro teste-accusatore, saranno sicuramente rinviati a giudizio dalla magistratura bresciana, competente a giudicare i colleghi milanesi. Ma il fatto più inquietante è un altro, anche perché ha una coda che riguarda personalmente il procuratore capo Greco e l’aggiunto Pedio. A un certo punto del dibattimento Eni, i pubblici ministeri avevano tentato di far entrare nel processo un verbale dell’avvocato Piero Amara (quello che aveva parlato della famosa “Loggia Ungheria”) in cui si metteva in dubbio l’integrità del presidente del tribunale Fabio Tremolada, definito come uno “avvicinabile”. Un tipo di testimonianza, soprattutto se resa da un personaggio discutibile come Amara, che in genere dovrebbe prendere la strada del cestino e essere trattato come carta straccia. Invece no. I due pm De Pasquale e Spadaro ci hanno provato, pur non potendo ignorare che un atto di quel tipo avrebbe potuto portare il presidente all’astensione e il blocco dell’intero processo. Ma la cosa ancora più grave è il fatto che il procuratore Francesco Greco e la fidata Laura Pedio inviarono quel pezzo di carta straccia alla procura di Brescia. A tutela del presidente Tremolada? Certamente. Quando mai ci si fanno gli sgambetti tra colleghi? Soprattutto quando un processo molto “politico” e molto mediatico sta andando male per la procura? Ora si vedrà se il Csm, se questo Csm che non ha avuto la forza di dare veri segnali di cambiamento dopo il “caso Palamara”, tenterà o meno di chiudere tutta la faccenda usando il pm Paolo Storari come capro espiatorio, come del resto ha chiesto il pg Giovanni Salvi, cacciandolo da Milano. Sarebbe un passo indietro, inaccettabile per la valanga delle firme che chiede il contrario. Ma se il procuratore della Cassazione, che forse ha a sua volta il problema di qualche cena di troppo e di qualche dichiarazione assolutoria nei confronti dei colleghi che si fanno raccomandare per fare carriera (ma non si chiama “traffico di influenze” se lo fa un politico?) da farsi perdonare, venisse sconfessato, dovrebbe dimettersi. E forse sarebbe ora di una svolta che rompesse anche la tradizione milanese quando a novembre Francesco Greco andrà in pensione.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Storari prepara la sua difesa: al Csm depositerà tutto il carteggio con Greco. Il pm milanese rischia il trasferimento per aver consegnato i verbali di Amara a Davigo. Il Dubbio il 25 luglio 2021. Una memoria articolata in cui si difenderà spiegando le sue ragioni, con mail e altri documenti allegati, verrà depositata al Csm dal pm di Milano Paolo Storari nell’ambito del procedimento disciplinare. Il pubblico ministero il 30 luglio, nell’udienza in cui si discuterà sulla richiesta del pg della Cassazione del suo trasferimento d’urgenza dagli uffici milanesi e del cambio di funzioni, ricostruirà nel dettaglio, rispondendo alle “accuse”, quando già denunciato alla Procura di Brescia in merito ai verbali sulla loggia Ungheria dell’avvocato Piero Amara e alla gestione nel processo Eni-Nigeria dell’imputato Vincenzo Armanna. Le contestazioni del pg riguardano l’aver divulgato i verbali di Amara , «atti coperti da segreto e comunque riservati», consegnandoli all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo per autotutelarsi dall’inerzia dei vertici della Procura . Denuncia quest’ultima ritenuta un «comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore della Repubblica Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio», da lui accusati nei colloqui con Davigo di non procedere con le iscrizioni omettendo «di comunicare a questi il proprio dissenso per la mancata iscrizione» di Amara, e in generale «per aver omesso qualsiasi formalizzazione di dissenso circa le modalità di gestione delle indagini». Inoltre per il pg, Storari doveva astenersi dal prendere parte all’indagine sulla divulgazione ad alcuni quotidiani di quei verbali. Indagine trasferita a Roma dopo che è stato accertato che era stata la segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, a recapitarli ai giornalisti. A queste accuse il pm Storari, che davanti al Csm non si farà difendere da alcun magistrato ma dal suo legale, Paolo Della Sala, replicherà punto per punto. In queste ore sta lavorando, assieme all’avvocato, a una memoria in cui capitolo per capitolo e con il supporto delle carte allegate, spiegherà i suoi motivi: produrrà, per esempio, le e-mail inviate a Greco e Pedio per chiedere di indagare e alle quali mai sarebbe stata data risposta e anche quella in cui a maggio, sempre dell’anno scorso, ha trasmesso ai suoi superiori una scheda per procedere alle iscrizioni, ricevendo in cambio una critica: il suo gesto sarebbe stato definito «gravissimo». Inoltre, Storari è intenzionato a raccontare la gestione da parte dell’aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro dell’ex manager di Eni Vincenzo Armanna nel processo con al centro la vicenda nigeriana nel quale in primo grado sono stati assolti tutti gli imputati e che ha creato una frattura, se non uno scontro, tra i due titolari dell’accusa e il Tribunale. Insomma Storari ribadirà quanto ha già raccontato al procuratore di Brescia Francesco Prete, che ha indagato lui e Davigo per rivelazione del segreto di ufficio ma anche De Pasquale e Spadaro per rifiuto di atti di ufficio. «Sono senza parole. Ti conosco come un ottimo pm e la stima che tu hai fra di noi penso debba darti l’energia per superare tutto questo». È uno di una serie di messaggi inviati oggi dai magistrati di Milano al pubblico Ministero Paolo Storari, nei cui confronti il pg della Cassazione ha chiesto al Csm il trasferimento d’urgenza per incompatibilità ambientale e il cambio di funzioni per il caso dei verbali di Amara. L’azione disciplinare è stata definita da un’altra toga «profondamente ingiusta e viziata» anche perché «sei tra i migliori pm» che lavorano al Palazzo di Giustizia milanese.

Caso verbali, i magistrati milanesi si schierano con Storari. Il Dubbio il 25 luglio 2021. Una settantina di magistrati hanno firmato un documento di solidarietà al pm milanese che rischia il trasferimento per aver consegnato i verbali di Amara a Davigo. All'iniziativa non ha aderito il capo della procura, Francesco Greco. Una settantina di magistrati di Milano, tra Pm e Gip, hanno firmato un documento di solidarietà al Pm del caso Amara, Paolo Storari, per il quale la procura generale della Cassazione ha chiesto nei giorni scorsi il trasferimento alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura. Sono una ventina di Gip e una cinquantina di pubblici ministeri, le toghe che hanno aderito all’iniziativa promossa da 5 procuratori aggiunti, tra cui Alberto Nobili. Non ha aderito invece il capo della procura, Francesco Greco. «Avendo appreso da fonti giornalistiche che è stato chiesto al CSM il trasferimento d’urgenza del collega Paolo Storari, anche per la serenità di tutti i magistrati del distretto, – si legge nel testo della petizione – i sottoscritti magistrati rappresentano che, esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell’esercizio delle sue funzioni, presso la Procura della Repubblica di Milano». «Siamo turbati – si legge ancora – dalla situazione che sta emergendo fra notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggino sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità». A chiedere di cacciare dalla procura milanese Storari sarebbe stato il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. E lo stesso Storari avrebbe preparato una memoria difensiva da depositare al Csm in cui spiega le sue ragioni, con mail e altri documenti allegati. Storari nell’aprile 2020, per tutelarsi dalle inattività che i vertici della Procura praticavano a suo avviso da 4 mesi sulle controverse dichiarazioni di Piero Amara su un’asserita associazione segreta denominata “Ungheria”, avrebbe consegnato in formato word i verbali segretati all’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo. Tre «le gravi scorrettezze» che Salvi contesta a Storari sul piano disciplinare (separato dal penale nel quale Storari è indagato a Brescia per rivelazione di segreto). La prima è «l’informale e irrituale» consegna da Storari a Davigo di copie non firmate di verbali «su una supposta associazione segreta di cui avrebbero fatto parte anche due consiglieri Csm»; la seconda nasce dalla relazione del 7 maggio del procuratore milanese Francesco Greco, assunta da Salvi per accreditare che, sino alla consegna dei verbali a Davigo, Storari non avesse «formalizzato alcun dissenso sulle presunte lentezze o manchevolezze dell’indagine»; la terza contestazione è che, dopo che nell’ottobre 2020 il giornalista del Fatto Quotidiano Antonio Massari avvisò i pm d’aver ricevuto anonimi verbali di Amara, Storari non si astenne dall’indagine sulla fuga di notizie. La vicenda ha anche portato all’iscrizione dello staesso Davigo nel registro degli indagati per rivelazione di segreto d’ufficio.

“Turbati da situazione, non da sua presenza”. Caso Amara, la procura di Milano più divisa: in 45 si svegliano pro Storari. Frank Cimini su Il Riformista il 25 Luglio 2021. “Scetet Catari’ ca l’aria è doce”(svegliati Caterina che l’aria è dolce, traduzione per chi non conosce il norvegese). E in effetti 45 pubblici ministeri più di due terzi del totale, si sono svegliati emettendo un comunicato per dire di non essere turbati dalla presenza tra loro di Paolo Storari, per il quale il Pg della Cassazione ha chiesto il trasferimento in relazione alla consegna a Piercamillo Davigo allora al Csm dei verbali di Piero Amara. I 45 magistrati chiedono “chiarezza” in relazione allo scontro che vede protagonisti da una parte il procuratore Francesco Greco con l’aggiunto Laura Pedio e dall’altra appunto Storari. “Siamo turbati dalla situazione che sta emergendo da notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggiano sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità dei colleghi coinvolti” sono le parole della nota firmata dai pm. Evidentemente i firmatari in questi ultimi anni hanno vissuto altrove e ci voleva la sentenza con cui i vertici Eni sono stati assolti per riportarli alla realtà. Da tempo se potessero a Milano i pm si arresterebbero tra loro. Francesco Greco è il secondo capo della procura consecutivo che si salva dal procedimento disciplinare perché va in pensione. Succederà il 14 novembre. Greco segue le orme del suo predecessore Edmondo Bruti Liberati per il quale il Csm annunciò il “disciplinare” solo dopo che lo stesso aveva dichiarato di andare in pensione in anticipo. Era stata la procura di Brescia nell’assolvere Bruti dall’accusa di abuso d’ufficio a mettere nero su bianco che c’era materia da Csm dal momento che il capo della procura aveva agito in base a criteri politici nello scontro con l’aggiunto Alfredo Robledo in relazione al caso Expo. Ai tempi della “guerra” Bruti-Robledo solo molti mugugni e boatos con la procura che ostentò unità. Il caso Eni iniziò a scoppiare con un messaggio di Storari in una discussione interna: “Caro Francesco le cose non stanno così e lo sai benissimo, ne parleremo”. Si era all’indomani dell’assoluzione dell’Eni dopo che tra l’altro in modo azzardato la procura aveva mandato a Brescia un “veleno” di Amara sul presidente del collegio “avvicinabile” da due avvocati della difesa. Adesso a Brescia oltre a Storari per violazione del segreto d’ufficio istigato da Davigo sono indagati i pm del caso Eni De Pasquale e Spadaro per non aver depositato atti favorevoli alle difese. Greco ha rifiutato di consegnare ai pm di Brescia gli esiti di una rogatoria in Nigeria sull’Eni. È una guerra per bande all’interno della procura di Milano dove adesso a rischiare di più nell’immediato è Storari che ha temere sia il trasferimento sia di non fare più il pm. Questa almeno è la richiesta del pg della Cassazione Salvi che per arrivare a quel posto si era a un certo punto appoggiato a Palamara, quello che ora tutti fingono di non conoscere. Poi Salvi ha deciso che non possono essere sottoposti al “disciplinare” i magistrati che si autopromuovono. Insomma ha prosciolto se stesso. Storia di una categoria che si era proposta per salvare il paese vista dalla procura che fu il simbolo della grande farsa di Mani pulite. C’erano guerre interne anche allora. Di Pietro “rubo’” letteralmente un indagato a De Pasquale. Ma il capo Borrelli diede ragione a Tonino allora mediaticamente una forza della natura. E poi allora sui giornali non uscivano certi fatti se non in poche righe. Frank Cimini

(ANSA il 25 luglio 2021) Dopo i pm di Milano, anche gran parte dei magistrati dell'ufficio Gip, una ventina sui 32 in servizio, e i giudici del Tribunale di Milano come quelli della sesta sezione penale, hanno sottoscritto l'appello a favore del pm Paolo Storari, nei cui confronti il pg della cassazione ha chiesto il trasferimento per incompatibilità ambientale per il caso dei verbali di Amara. Anche loro hanno firmato l'appello promosso da Alberto Nobili, il responsabile dell'antiterrorismo milanese, e da 3 aggiunti, per rimarcare che "esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega" in Procura. (ANSA).

Monica Serra per “La Stampa” il 25 luglio 2021. Davanti al durissimo provvedimento richiesto dal pg di Cassazione Giovanni Salvi, il pm milanese Paolo Storari è pronto a difendersi. E, mentre prepara la memoria in vista dell'udienza fissata d'urgenza per venerdì prossimo dalla sezione disciplinare del Csm, a fargli forza, per tutta la giornata di ieri, sono state mail e messaggi di solidarietà ricevuti dai colleghi del palazzo di giustizia di Milano, e non solo. «Nello smarrimento assoluto del periodo che la Magistratura sta attraversando, ritengo che essere un tuo collega possa per me solo rappresentare, nel mio piccolo, un vero onore». E ancora: «Comunque vada, e spero bene, avrai sempre la certezza (e la avremo in tanti) che sei tra i migliori pm che il nostro ufficio abbia avuto (e, si spera, avrà)». Salvi chiede che Storari venga allontanato «per la serenità dell'ufficio», ma anche che smetta di fare il pm. «Nonostante - sottolinea il difensore Paolo Della Sala - la qualità e la quantità del suo lavoro sotto gli occhi di tutti». Storari è indagato a Brescia per rivelazione del segreto d'ufficio. Per «autotutelarsi» dalla presunta inerzia della procura di Milano ha consegnato all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo (anche lui indagato) i verbali dell'ex avvocato Eni Piero Amara sulla «loggia Ungheria». Le contestazioni mosse sul piano disciplinare da Salvi, prima della conclusione delle indagini bresciane, si fondano non solo sulla scelta di «divulgare i verbali» di Amara consegnandoli a Davigo. Ma anche sul «comportamento gravemente scorretto nei confronti» dei vertici della procura a cui non avrebbe «comunicato formalmente il proprio dissenso». E sul fatto che Storari avrebbe ritardato le indagini sulla fuga di notizie, una volta che quei verbali sono arrivati ai giornali. Accuse a cui il pm è pronto a rispondere punto per punto.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 26 luglio 2021. L'organico della Procura di Milano ha in questo momento il procuratore Francesco Greco, otto vice (i procuratori aggiunti a capo dei vari pool) e 64 sostituti procuratori: e ieri appunto 56 di questi 64 pm, cioè la quasi totalità dell'ufficio, «avendo appreso da fonti giornalistiche che» dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi «è stato chiesto al Consiglio superiore della magistratura il trasferimento d'urgenza del collega Paolo Storari» con esigenze cautelari che accanto alla rilevanza mediatica non scemata annoverano anche «la serenità di tutti i magistrati del distretto», tengono a far sapere che, «esclusa ogni valutazione di merito, la nostra serenità non è turbata dalla permanenza del collega nell'esercizio delle sue funzioni presso la Procura». «Turbati», invece, i pm milanesi si dicono «dalla situazione che sta emergendo fra notizie incontrollate e fonti aperte», sicché «sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggino sull'accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità». Non si tratta dunque né di una solidarietà a scatola chiusa a Storari, indagato a Brescia con l'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo per avergli consegnato nell'aprile 2020 copie word dei verbali segretati resi sulla «loggia Ungheria» dal controverso ex avvocato esterno Eni Piero Amara, e ad avviso di Storari lasciati galleggiare dai vertici della Procura per evitare che la verifica di attendibilità o inattendibilità di Amara si riverberasse negativamente sull'attendibilità di Vincenzo Armanna, nel processo Eni-Nigeria sia coimputato sia accusatore di Eni assai valorizzato dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro. Né si può leggere la lettera come uno schierarsi pro o contro questi due altri colleghi, pure indagati a Brescia nell'ipotesi che non abbiano sottoposto al Tribunale del processo Eni-Nigeria taluni elementi (trovati da Storari e da lui segnalati a Greco, alla sua vice Laura Pedio e a De Pasquale) che mettevano in dubbio l'affidabilità di Armanna. E neppure la lettera dei 56 è assimilabile a una «sfiducia» a Greco e al suo gruppo dirigente, pur se da molti anni l'ufficio non assumeva più in pubblico una posizione unitaria, e pur se essa non in linea con quella prospettata al pg Salvi dalle relazioni di Greco e Pedio. I firmatari non intendono interferire con gli organi istituzionali deputati a valutare i tre rilievi disciplinari per i quali il pg Salvi chiede che venerdì il Csm mandi via Storari da Milano, e gli vieti di fare il pm anche altrove: e cioè l'aver violato le circolari Csm 1994 e 1995 nel modo scelto per far arrivare al Csm le proprie doglianze sull'asserita stasi investigativa; l'aver esposto Greco e Pedio «a una campagna di discredito» senza aver prima «mai formalizzato il proprio dissenso»; e l'aver taciuto ai colleghi (quando il 30 ottobre 2020 un giornalista del Fatto portò in Procura altri verbali di Amara ricevuti anonimi) di aver lui dato in aprile a Davigo copia di quegli stessi verbali, non astenendosi dall'indagine e oltretutto (stando alle relazioni di Pedio e Greco) «ostruendola» e «rallentandola». Preme invece ai pm firmatari (veterani come Alberto Nobili e ultimi arrivati, toghe di ogni corrente o senza corrente, pm facenti parte anche dei pool guidati da De Pasquale e Pedio) assicurare di non avere con Storari problemi di «serenità» nel lavoro, e chiedere che abbia rapida fine la cappa di incertezze e tensioni che da mesi viene lasciata gravare sull'ufficio. La cui insolita mobilitazione ha nel pomeriggio di ieri (pur domenica, pur già tra le ferie) l'effetto di mobilitare anche l'Ufficio dei giudici delle indagini preliminari, dove in breve aderiscono 26 su 32 gip; le varie sezioni dibattimentali del Tribunale, dove circa metà dei giudici si fanno avanti; e perfino uffici del distretto lombardo, dove aderiscono altre decine di toghe, tra cui l'intera Procura di Busto Arsizio.

Il caso toghe sfascia la procura di Milano. Firmano 100 giudici in difesa di Storari. L'ira del capo Greco. Luca Fazzo il 26 Luglio 2021 su Il Giornale. Scontro senza precedenti tra i magistrati meneghini che isolano il procuratore, tradito anche dai vice Targetti, Siciliano e Dolci Corsa a sostenere il collega indagato e allontanato per aver passato i verbali a Davigo. E adesso c'è la prima vittima, nella disastrosa vicenda giudiziaria scaturita dal processo Eni e dai verbali del «pentito» Pietro Amara: ed è la vittima più gloriosa di tutte, la Procura della Repubblica di Milano. Che dallo scontro innescato dalla consegna dei verbali di Amara dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo viene ieri travolta in pieno, con la ribellione di quasi cento magistrati che insorgono in difesa di Storari. A poche ore dalla decisione del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di chiedere al Csm la testa di Storari - via da Milano, e mai più pubblico ministero - la raccolta di firme in difesa del collega sotto accusa, in corso da giorni nei corridoi del palazzaccio milanese, viene allo scoperto. È un documento che non entra nel merito dei verbali consegnati a Davigo, ma poco importa. La frase cruciale è una: i firmatari dicono che «la loro serenità non è turbata dalla presenza del collega». È esattamente il contrario di quello che il capo della Procura, Francesco Greco, e il pg della Cassazione sostengono: consegnando i verbali a Davigo, e continuando intanto a indagare su Amara e persino sulla fuga di notizie di cui egli stesso era l'origine, Storari avrebbe messo «a disagio» l'intero ufficio. Per questo, aveva scritto Salvi, Storari va cacciato da Milano: per la «serenità» dell'ufficio. La nostra serenità, rispondono i firmatari, non è affatto messa in discussione dalla presenza di Storari. Ed è una discesa in campo senza precedenti, una ribellione inimmaginabile ai tempi di Borrelli, un colpo devastante all'immagine di uno degli uffici giudiziari più importanti d'Italia. I segnali c'erano stati, la protesta covava nelle chat e nei corridoi. I segnali di solidarietà a Storari erano arrivati da più parti. Ma il procuratore Greco, e con lui Salvi, hanno deciso di andare avanti. Forse non pensavano che i leader del fronte pro Storari avrebbero scelto alla fine di uscire allo scoperto. Si sbagliavano. Firmano 55 pm, i due terzi del totale. E a scendere in campo non sono solo i «peones», i giovani pm della base. Nell'elenco compaiono nomi importanti. Il primo è quello di Alberto Nobili, veterano della Procura e delle inchieste sulla criminalità al nord, oggi a capo dell'antiterrorismo. Con lui, tre procuratori aggiunti, i «vice» di Greco: Ferdinando Targetti, Tiziana Siciliano e il capo dell'antimafia Alessandra Dolci. Si tratta di magistrati che hanno condiviso con Greco decenni di lavoro e rapporti di amicizia; la Siciliano e la Dolci sono state appoggiate da Greco nella domanda per i posti che oggi ricoprono. Eppure anche loro oggi si schierano contro di lui. Greco, si dice, la prende malissimo. Adesso il procuratore è un uomo solo, con accanto solo i suoi fedelissimi. A partire da Fabio De Pasquale, il grande accusatore del caso Eni, oggi sotto procedimento penale a Brescia proprio per la sua gestione del processo ai vertici del colosso. Non è tutto. A firmare il documento pro-Storari ci sono anche quasi cinquanta giudici: più di metà dei giudici preliminari, una intera sezione penale, toghe giovani e meno giovani. Il caso Storari diventa l'occasione per un atto d'accusa contro l'intera gestione della giustizia a Milano da parte della Procura. Decenni di timori reverenziali verso quella che fu la corazzata di Mani Pulite sembrano dissolti. Impossibile dire come se ne uscirà. Greco dopo l'estate andrà in pensione, lasciando una Procura spaccata (e a guidarla in attesa del nuovo capo sarà Targetti, uno dei firmatari del documento). Ma prima ancora si dovrà vedere come il Consiglio superiore della magistratura sceglierà di comportarsi in uno scontro che sembra sfuggito di mano a tutti quanti. A partire dalla giornata di oggi, quando il Consiglio interrogherà uno dei personaggi-chiave della vicenda milanese: Marco Tremolada, il giudice del processo Eni, oggetto durante il processo di una serie plateale di pressioni perché condannasse gli imputati (poi da lui assolti con formula piena), culminata nel tentativo di De Pasquale di fare entrare in aula i verbali di Amara che lo definivano «avvicinabile». Dall'interrogatorio di Tremolada si capirà quanto il Csm abbia intenzione di scavare a fondo sui metodi che regnavano a Milano. E un altro segnale arriverà nei giorni successivi: per venerdì è fissata l'udienza urgente che dovrebbe decidere sulla richiesta di Salvi di allontanare immediatamente Storari da Milano. Una urgenza che era stata motivata con la «serenità» della Procura milanese e che il documento di ieri dei cento milanesi smentisce platealmente. A questo punto un rinvio del processo a Storari a dopo l'estate vorrebbe dire prendere atto che a Milano le colpe non stanno tutte dalla stessa parte.

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Giustizia, il meccanismo perverso della magistratura italiana: "Colpire un pm per educarne cento".  Fabrizio Cicchitto su Libero Quotidiano il 26 luglio 2021. Oramai, specie nelle vicende riguardanti la magistratura, la realtà supera la fantasia. Se uno di quegli scrittori che si sono specializzati nei noir del tipo di "romanzo criminale" in cui si combinano insieme sparatorie, delitti, magistrati, investigatori, killer avesse messo insieme una storia nella quale un pubblico ministero riceve la deposizione di una strana figura di avvocato che gli parla di una loggia segreta nella quale ci sarebbe di tutto (magistrati, avvocati, imprenditori, politici) e che ha costruito fior di carriere di magistrati e manipolato anche processi e questo sostituto procuratore siccome ha trovato nel suo procuratore capo un muro di gomma che di fatto ha bloccato o messo a dormire ogni indagine, si rivolge a un "grande vecchio del Csm" per suonare l'allarme, per cui il procuratore generale della Cassazione Salvi mette sotto accusa proprio questo pm, ne ordina il trasferimento e lo cancella dalle sue funzioni e non persegue i pm che volevano utilizzare i verbali dell'avvocato non per far luce sulla loggia, bensì per infangare e delegittimare i giudici di un processo che non erano sufficientemente appiattiti sulla accusa, e quei pm adesso sono indagati per avere nascosto le prove favorevoli agli imputati, i critici letterari e anche molti lettori avrebbero detto che quel giallista ha esagerato in complottismo e in costruzioni fantastiche. Perche solo in una repubblica delle banane possono avvenire cose di questo tipo ma certamente non in Italia. Ebbene invece tutti i fatti citati hanno nomi e cognomi. Per dirne una Storari è il pm che deve essere la vittima designata di tutto, e poi su pista ci stanno fior di magistrati come Davigo, Greco, Salvi. E che fine ha fatto l'indagine sulla loggia Hungaria, sui due avvocati provocatori cioè Amara e Armanna, che puntavano al bersaglio grosso, cioè a distruggere il gruppo dirigente dell'Eni, e che per questo hanno goduto di un occhio di riguardo da parte di pm che dai tempi del suicidio dell'ingegner Calvi, hanno solo uno scopo, cioè distruggere l'Eni? Di quella indagine non si sa più nulla. Attenzione: era ed è possibile che quello che ha detto Amara sulla loggia Hungaria sia tutta una sua invenzione. Ma chi ha fatto le indagini su di essa e sui suoi eventuali componenti? Per farlo bisognava fare avvisi di garanzia che a loro volta avrebbero giustificato intercettazioni di vario tipo compreso l'uso del trojan. Invece niente indagini, niente intercettazioni, niente trojan e avendo messo tutto in piazza gli intercettati avvertiti in grande anticipo certamente sanno da tempo quello che devono dire o non dire per telefono. Di conseguenza tutta l'indagine sulla loggia Hungaria è stata bruciata. In compenso però nel mirino è il magistrato che vedendo che le indagini proprio non si muovevano ha sollevato il problema. Insomma, un gigantesco insabbiamento com quasi tutti i giornali e i parlamentari distratti dal caso Zan. Per ciò che riguarda poi il trattamento riservato a Storari, il messaggio è preciso ed è fondato su uno slogan che risale agli anni Settanta: «Colpiscine uno per educarne cento». Così in futuro i sostituiti procuratori, debitamente educati si guarderanno bene dal contestare il loro capo che insabbia: anzi, sulla base delle indicazioni esplicite e implicite formulate dal procuratore Salvi gli andranno a baciare la pantofola.

Milano nel caos, 150 toghe si schierano con Storari: «Il pg Salvi ci ripensi». Caso Eni-Nigeria e Loggia Ungheria, alla procura di Milano il clima è avvelenato. Simona Musco su Il Dubbio il 27 luglio 2021. Mentre centinaia di magistrati italiani si mobilitano per difendere Paolo Storari, il pm per il quale il procuratore generale Giovanni Salvi ha chiesto il trasferimento immediato da Milano in via cautelare senza che possa più esercitare le funzioni di pubblico ministero nemmeno nella nuova sede, al Csm sono iniziate le audizioni dei magistrati meneghini nell’ambito della indagine aperta per capire se si sono determinate situazioni di incompatibilità negli uffici giudiziari milanesi, a partire caso Eni. Un caso spinoso che vede da un lato Storari indagato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio, per aver consegnato a Piercamillo Davigo – all’epoca consigliere al Csm e anche lui indagato – i verbali secretati di Piero Amara, ex legale esterno dell’Eni, denunciando l’immobilismo della procura sulla mancata iscrizione dei primi indagati in merito alle rivelazioni sull’esistenza di una presunta loggia denominata “Ungheria” e, dall’altro, l’aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati per rifiuto d’atti d’ufficio, in merito alla gestione delle prove legate al processo Eni e connesse anche alle indagini di Storari sul falso complotto. Davanti ai sei componenti della Commissione presieduta dalla togata Elisabetta Chinaglia sono comparsi il presidente del Tribunale Roberto Bichi, il giudice Marco Tremolada, che ha presieduto il collegio Eni Nigeria e ha fortemente criticato l’operato di De Pasquale e Spadaro in sentenza, e alcuni pm, mentre oggi verranno sentiti altri magistrati. Tra i pm convocati tra ieri e oggi, in presenza o in modalità telematica, ci sono gli aggiunti Tiziana Siciliano, Eugenio Fusco, Maurizio Romanelli e Letizia Mannella, come anche i sostituti Alberto Nobili, Gaetano Ruta e Francesca Crupi. Il tutto mentre si attende la “sentenza” del Csm su Storari, prevista il 30 luglio, quando la Sezione disciplinare del Csm, in camera di consiglio, si esprimerà sulla richiesta di Salvi. Un clima avvelenato sul quale incombe anche l’appello di centinaia di toghe a favore di Storari. Sono quasi 150 i colleghi della procura e degli uffici giudicanti ad aver sottoscritto il documento di solidarietà. «Avendo appreso che è stato chiesto al Csm il trasferimento d’urgenza del collega Paolo Storari “per serenità di tutti i magistrati del distretto” – si legge in una nota circolata tra le toghe -, i sottoscritti magistrati, rappresentano che, esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell’esercizio delle sue funzioni, presso la Procura della Repubblica di Milano». Il documento è stato firmato, al momento in cui scriviamo, da 59 magistrati su 64, tra cui il capo del pool antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili, mentre tra i gip sono 24, su 32, coloro che hanno aderito. I pm milanesi si dicono però turbati «dalla situazione che sta emergendo fra notizie incontrollate e fonti aperte», motivo per cui «sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggino sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità». Ma la vicenda è “uscita” dal tribunale di Milano, per arrivare prima agli altri uffici del distretto della Corte d’Appello e poi anche nelle altre sedi d’Italia. «Ci associamo all’auspicio di chiarezza, celerità e serenità nell’accertamento dei fatti, nel rispetto del diritto al pieno contraddittorio dei soggetti coinvolti nella vicenda specifica – si legge nella dichiarazione sottoscritta da alcuni consiglieri di Corte di appello, giudici e pm di ruolo a Napoli, Salerno e Bologna, Roma Taranto, Latina, Verona e Udine – e alla parità d’iniziativa e di trattamento in fattispecie identiche, nell’interesse alla tutela delle prerogative di tutti i colleghi interessati, e alla certezza e trasparenza delle procedure disciplinari dell’intera magistratura italiana». A mancare all’appello sono i vertici della procura, ovvero proprio coloro ai quali Storari ha contestato una certa inerzia e, dunque, il procuratore capo Francesco Greco, l’aggiunta Laura Pedio ( con la quale condivideva il fascicolo sul falso complotto), De Pasquale e Spadaro, che avrebbero ignorato le segnalazioni del collega in merito alla credibilità di Vincenzo Armanna, grande accusatore del processo Eni- Nigeria bollato dai giudici come inquinatore di pozzi. Ma che effetto avrà la raccolta firme sul Csm? Un dato, stando al documento, è certo: la presenza di Storari non sembra disturbare nessuno. Mentre nessun giudizio viene espresso nei confronti di Greco e dei suoi collaboratori più stretti, anche se le divisioni interne alla procura, negli ultimi mesi, erano ormai diventate palesi. Intanto a schierarsi sono anche le toghe di Articolo 101 del direttivo dell’Anm, che in una nota puntano il dito contro Salvi, parlando di iniziativa «intempestiva, spropositata, ingiusta e, in definitiva, incredibile», scrivono Andrea Reale, Ida Moretti e Giuliano Castiglia. «La generale solidarietà, pacata ma sentitissima, che in queste ore giunge al dottor Storari – hanno sottolineato – evidenzia con nettezza che il caso è tutt’altro che liquidabile con un provvedimento cautelare a senso unico». Al di là del giudizio di merito, «non possiamo che rilanciare l’invito al procuratore generale Salvi a fare un passo indietro, a tutela dell’Istituzione che rappresenta e della credibilità della magistratura tutta». 

Caso Eni, salgono a 150 le firme dei magistrati a sostegno del pm Paolo Storari. La Repubblica il 26 luglio 2021. L'iniziativa promossa dal capo dell'Antiterrorismo Alberto Nobili sottoscritta da gran parte delle toghe della procura, ma anche dai gip e da magistrati di altre sezioni. Il Csm intanto ascolta il presidente del tribunale milanese e il giudice che ha guidato il processo Eni-Nigeria. Stanno aumentando col passare delle ore, e sfiorano già la cifra di 150, le firme delle toghe milanesi al documento di solidarietà e stima nei confronti del pm Paolo Storari, nei cui confronti il pg della Cassazione Giovanni Salvi ha chiesto al Csm il trasferimento cautelare d'urgenza e il cambio di funzioni per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Oltre a 57 pm, sui 64 in totale dell'organico della procura, hanno già firmato pure 28 gip e molti giudici di diverse sezioni penali, tra cui la quinta, la sesta, la nona e la prima (firme destinate a crescere e a coinvolgere anche altre sezioni). Stanno aderendo, poi, anche i magistrati della Sezione autonoma misure di prevenzione, con la quale il pm Storari ha lavorato molto in questi ultimi anni portando in aula anche richieste di commissariamento di società importanti, poi accolte. Per ragioni di opportunità l'appello non è stato firmato da alcuni vertici degli uffici giudiziari, pur condividendo il sostegno a Storari. La vicepresidente dei gip milanesi Ezia Maccora, invece, a quanto si è saputo, ha inviato un messaggio ai colleghi nel quale, in sostanza, spiega che lei ritiene più corretto rispettare che il procedimento disciplinare arrivi a conclusione per salvaguardare l'imparzialità della giurisdizione. Adesioni sono arrivate, intanto, anche da altri uffici del distretto della Corte di Appello, come l'intera procura di Busto Arsizio (Varese). Va considerato che sono circa 300 i magistrati a Milano e va tenuto conto che nel civile, settore tra l'altro non coinvolto dalle vicende, è già scattata la sezione feriale. Nella lettera, promossa da Aberto Nobili a capo del dipartimento antiterrorismo e storico pm milanese e che dovrebbe essere inviata al Csm, i firmatari sottolineano che "esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell'esercizio delle sue funzioni". Oggi, intanto, nell'ambito dell'indagine ad ampio raggio aperta dalla prima commissione del Csm vengono ascoltati il presidente del Tribunale Roberto Bichi e Marco Tremolada, il giudice che ha presieduto il collegio Eni Nigeria, e alcuni ex pm del dipartimento affari internazionali dell'aggiunto Fabio De Pasquale, indagato a Brescia per rifiuto di atti d'ufficio assieme al collega Sergio Spadaro, con lui titolare dell'inchiesta Eni-Nigeria. Mentre Storari è accusato di rivelazione di segreto d'ufficio con l'ex membro del Csm Piercamillo Davigo. Tra i temi caldi dello scontro tra pm milanesi, ma anche tra uffici requirenti e giudicanti, c'è il fatto che in pieno dibattimento sul caso nigeriano i vertici della Procura milanese, ossia il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio, consegnarono alla magistratura di Brescia (che poi archiviò il fascicolo) una decina di righe di un verbale in cui Amara gettava ombre sul presidente del collegio Marco Tremolada. E i pm De Pasquale e Spadaro tentarono di far entrare Amara come teste nel processo, senza che il collegio sapesse nulla di quelle dichiarazioni.

(ANSA il 25 luglio 2021) Sono 45 i pm milanesi che hanno finora firmato una lettera in cui si afferma che "esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega" Paolo Storari, "nell'esercizio delle sue funzioni presso la Procura della Repubblica di Milano. Siamo turbati dalla situazione che sta emergendo da notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza". E' un passaggio del testo che sta circolando tra i pubblici ministeri dopo aver saputo della richiesta del pg della Cassazione di trasferimento per incompatibilità ambientale del pm Storari per il casi dei verbali di Amara. L'iniziativa della lettera a favore di Storari, al momento sottoscritta da quasi 2/3 dei pubblici ministeri in servizio alla procura di Milano, è stata promossa da Alberto Nobili, il responsabile dell'antiterrorismo milanese e uno dei magistrati che ha fatto la storia d'Italia, e da altri tre aggiunti. "Avendo appreso da fonti giornalistiche - questo è il testo integrale - che è stato chiesto al Csm il trasferimento d'urgenza del collega Paolo Storari, anche 'per la serenità di tutti i magistrati del distretto', i sottoscritti magistrati rappresentano che, esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega, nell'esercizio delle sue funzioni, presso la Procura della Repubblica di Milano. Siamo turbati dalla situazione che sta emergendo da notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggiano sull'accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità dei colleghi coinvolti". Infatti il 'pacchetto' delle indagini su Eni, in cui si inserisce il caso Amara e lo scontro tra Storari e il Procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio, riguarda anche la gestione di Vincenzo Armanna e le sue dichiarazioni accusatorie nel processo Nigeria (in primo grado gli imputati sono stati tutti assolti) da parte dell'aggiunto Fabio De Pasquale e il pm, ora alla procura europea, Sergio Spadaro. Su queste vicende, sono stati avviate indagini ministeriale e del Csm (domani cominciano le audizioni) e anche la Procura di Brescia ha aperto una inchiesta e ha indagato da un lato Storari e l'ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo per rivelazione del segreto di ufficio, mentre dall'altro ha iscritto De Pasquale e Spadaro per rifiuto di atti d'ufficio.

Francesco Greco "si rifiuta". Procura di Milano, fuga di notizie: è scoppiata la guerra tra magistrati. Libero Quotidiano il 23 luglio 2021. E'in atto un duro scontro tra la Procura di Brescia e quella di Milano. Il procuratore Francesco Greco, infatti, non vuole consegnare a Brescia (che sta indagando sul suo vice Fabio De Pasquale sull'ipotesi che non abbia sottoposto ai giudici del processo Eni-Nigeria prove dell'inattendibilità dell'accusatore Vincenzo Armanna) gli atti sulla trasferta in Nigeria che la sua vice Laura Pedio fece nel settembre 2019, come riporta il Corriere della Sera. Secondo Greco, questa rogatoria nigeriana del 2019 sarebbe coperta da segreto perché sta nell'indagine milanese tuttora aperta sul "complotto Eni" e dunque solo la Nigeria potrebbe autorizzarne l'utilizzo prima. Ma Franceso Prete, procuratore di Brescia, non è d'accordo. E cerca "l'interrogatorio del teste Mattew Tonlagha (suggerito nel 2019 da Armanna ai pm milanesi a riscontro delle proprie accuse a Eni) non per usarlo in altri processi ma per verificare se Armanna, ome emerso proprio dalle sue chat con Tonlagha scoperte dal pm Paolo Storari e segnalate invano ai propri vertici tra fine 2020 e inizio 2021, nel 2019 avesse appunto indottrinato il giorno prima il teste Tonlagha", scrive il Corriere. E non finisce qui. Greco scrive al ministero della Giustizia una lettera in cui chiede alla Guardasigilli Marta Cartabia di domandare alla Nigeria "se intenda autorizzare la consegna della rogatoria ai pm di Brescia". Che ora devono fermarsi perché la lettera del ministero diretta in Nigeria, è già stata spedita.

La Procura di Milano nei guai. Al Csm indagine sulle toghe. Luca Fazzo il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. Dopo i casi Eni e Davigo l'ex tempio di Mani Pulite è finito nel mirino. Interrogato il procuratore Nanni. Un'intera Procura nel mirino del Consiglio superiore della magistratura: ed è la Procura di Milano, una delle più importanti d'Italia, la fucina di inchieste che hanno cambiato la storia del paese. E che si ritrova ora sotto accusa, dopo che i veleni del processo Eni sono tracimati, portando all'incriminazione del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e di rimando anche di Piercamillo Davigo, già icona del pool Mani Pulite. Ma ora nel mirino del Csm non ci sono soltanto singole toghe e episodi specifici, ma l'intera gestione in questi anni della Procura milanese. E le conseguenze potrebbero essere toste. Nelle stesse ore in cui da Brescia trapela la notizia dell'iscrizione di Davigo nel registro degli indagati per rivelazione di segreto d'ufficio, si scopre che a Roma la prima commissione del Csm ha deciso di capire fino in fondo cosa sia accaduto a Milano. Sono già stati interrogati il procuratore generale Francesca Nanni e il presidente dell'Ordine degli avvocati Vinicio Nardo: domande in parte generiche ma anche assai specifiche, in particolare sul tentativo di De Pasquale di incastrare, usando un verbale dello pseudo-pentito Pietro Amara, il presidente del processo Eni Marco Tremolada. Chi ha assistito alle audizioni racconta che era in particolare Antonino Di Matteo, l'ex pm palermitano ora membro del Csm, a voler scavare più a fondo nei veleni milanesi. E siamo solo agli inizi: la lista completa degli interrogatori non è nota, ma alcuni nomi trapelano. Ci sono lo stesso Tremolada, il suo superiore Roberto Bichi, quasi tutti i procuratori aggiunti - cioè i «vice» del capo Francesco Greco - ma anche semplici pubblici ministeri come Francesca Crupi, e uno dei veterani dell'ufficio, il capo dell'antiterrorismo Alberto Nobili. É un calendario di audizioni che andrà avanti fino alla fine del mese, e che si spiega solo con l'intenzione del Csm di scandagliare - sebbene con un certo ritardo - le dinamiche che hanno lacerato la Procura milanese, dove un numero consistente di magistrati appare convinto che intorno al procuratore Greco si sia saldato una sorta di «cerchio magico», un gruppo di fedelissimi in grado di monopolizzare e indirizzare le inchieste più importanti. È contro questo monopolio che Storari decide di ribellarsi, quando si convince che i vertici vogliano insabbiare i verbali di Amara sulla loggia Ungheria, e passa le carte a Davigo: ma anche, pochi mesi dopo, attaccando frontalmente Greco sulla chat interna della Procura. Da quel momento Storari diventa un reietto. Ma ora si scopre che tra la base dell'ufficio, in particolare da parte dei colleghi più giovani, è partita una raccolta di firme in sua difesa. E anche questo fotografa una Procura spaccata in due. Cosa può fare il Csm in questo disastro? La prima commissione ha come compito verificare l'esistenza di casi di incompatibilità ambientale: col potere, di fronte a situazioni non sanabili, di allontanare dalla Procura uno o più dei suoi magistrati. A rischiare non sarebbe tanto Greco, ormai prossimo alla pensione, ma - sui due versanti - soprattutto Storari e De Pasquale. Ma entrambi sono anche sotto procedimento penale per iniziativa della Procura di Brescia, e questo potrebbe rallentare i tempi del Csm. Comunque vada, l'inchiesta del Consiglio superiore - anche se per ora viene definita solo una «indagine conoscitiva» - si annuncia come una analisi senza precedenti del funzionamento di uno dei centri del potere giudiziario nazionale: soprattutto se, come è possibile, qualcuno degli interrogati si caverà dei sassi dalla scarpa, dando voce pubblica al brontolio che attraversa l'ex tempio di Mani Pulite. E ancora peggiore potrebbe farsi la situazione se partissero provvedimenti disciplinari veri e propri nei confronti dei protagonisti dello scontro. A fare scattare l'impeachment dovrebbero essere il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, o il ministro della Giustizia Marta Cartabia. E entrambi, a quanto è dato capire, si stanno muovendo. La Cartabia con l'invio dei suoi ispettori a Milano, Salvi con un lavoro riservato di cui finora non si è saputo nulla. Ma a breve novità in arrivo. 

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Milano, caos in procura: il Csm avvia le audizioni sulla guerra tra toghe. Il 27 luglio ci dovrebbe essere l'audizione al Csm del pm Alberto Nobil e dei procuratori aggiunti Tiziana Siciliano e Letizia Mannella. Simona Musco su Il Dubbio il 18 luglio 2021. Il caso Milano sbarca ufficialmente al Csm. Con l’audizione, prevista per il 27 luglio, del pm Alberto Nobili, responsabile dell’antiterrorismo milanese, convocato nell’ambito della preistruttoria aperta per verificare eventuali situazioni di incompatibilità ambientale o funzionale negli uffici giudiziari meneghini a partire dalle vicende del caso Eni. Oltre lui, sono state convocate anche i procuratori aggiunti Tiziana Siciliano e Letizia Mannella. Tutto ruota attorno alla frattura tra magistrati requirenti e giudicanti diventata di pubblico dominio con la sentenza di assoluzione, pronunciata lo scorso 17 marzo dal Tribunale di Milano per tutti gli imputati del caso Opl 245 e poi deflagrata con il deposito delle motivazioni della sentenza, con le quali il collegio giudicante ha cassato pesantemente il lavoro degli inquirenti. Ma la vicenda riguarda anche lo scontro tra il pm Paolo Storari, il procuratore Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, scontro che ruota attorno ai verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, in merito all’esistenza di una fantomatica loggia denominata “Ungheria”. Verbali che Storari ha consegnato «in autotutela» all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, vicenda, questa, per la quale è indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. I verbali erano stati raccolti nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni”, fascicolo aperto da quattro anni e per il quale a fine giugno l’aggiunto Pedio, attualmente unica titolare dell’indagine, ha chiuso uno stralcio con avvisi a carico di Amara, dell’ex manager Vincenzo Armanna, dell’ex capo ufficio legale di Eni Massimo Mantovani (licenziato) e di altre tre persone accusate di calunnia nei confronti di Luca Santa Maria, avvocato ed ex legale di Armanna. Ma ad essere indagati a Brescia sono anche il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, che hanno svolto il ruolo dell’accusa nel processo sulla presunta tangente versata da Eni in Nigeria. I due sono indagati per rifiuto d’atto d’ufficio, in merito alla gestione delle prove nel processo sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni versata ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245. Come emerso già dalla sentenza di assoluzione, i due avrebbero tenuto nascosto un video utile alle difese, ma secondo quanto riferito da Storari a Brescia nel corso dell’interrogatorio, avrebbero ignorato alcune segnalazioni provenienti proprio da Storari in relazione ad alcune chat taroccate da parte del grande accusatore di Eni, Armanna, che avrebbe anche pagato un testimone. Secondo Storari, l’intenzione dei vertici della procura era quella di non compromettere la posizione di Amara con una sua possibile iscrizione nel registro degli indagati per calunnia in relazione alle sue dichiarazioni sulla presunta ‘ Loggia Ungheria’, per non minare la sua credibilità come possibile teste nel processo del caso Nigeria. De Pasquale e Spadaro, infatti, tentarono di inserire Amara tra le persone da sentire al processo, una scelta dettata sempre dalle sue dichiarazioni, secondo le quali i legali di uno degli imputati sarebbero stati in grado di avvicinare il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada. Così, mentre Storari raccoglieva le dichiarazioni di Amara sulla presunta ‘ Loggia Ungheria’ e chiedeva ai vertici dell’ufficio di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e tabulati telefonici, Greco e Pedio portavano a Brescia il verbale di Amara sulle presunte ‘ interferenze’ delle difese Eni sul giudice. Da lì venne aperto un fascicolo, poi archiviato. E nemmeno Armanna, architrave dell’intera inchiesta Eni, poteva essere screditato. Ma a distruggere la solidità delle sue dichiarazioni ci ha pensato il tribunale: «Il suo atteggiamento opportunista rivela una personalità ambigua, capace di strumentalizzare il proprio ruolo processuale a fini di personale profitto e, in ultima analisi, denota un’inattendibilità intrinseca che certamente non avrebbe potuto essere sanata dalla testimonianza di Piero Amara».

Giacomo Amadori e Alessandro Da Rold per “La Verità” il 10 luglio 2021. Potremmo chiamarlo il gioco delle tre carte. Ma il banchetto non è stato allestito da un mazziere ambulante. Ad apparecchiarlo sono stati toghe e investigatori. Essì perché, come dimostreremo in questo articolo, la Procura di Roma e quella di Torino, l'aliquota dei carabinieri della polizia giudiziaria del capoluogo piemontese e i finanzieri del Gico hanno prodotto tre diverse trascrizioni delle conversazioni contenute in un importantissimo video registrato il 18 dicembre 2014 nell'ufficio dell'imprenditore torinese Ezio Bigotti e che aveva come protagonista niente meno che il Fregoli dei pentiti, quel Piero Amara che da anni sta distribuendo confessioni a rate in giro per l'Italia. Ma partiamo proprio da uno di questi verbali. A pagina 6 dell'interrogatorio reso da Amara davanti al procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio il 18 novembre 2019 si legge la seguente singolare domanda fatta dal pubblico ministero al faccendiere siciliano: «Le registrazioni nell'ufficio di Bigotti - noi ne abbiamo solo una del 28 luglio - dove sono?». Sembra un excusatio non petita, di chi ha sentore che esista anche un altro video, quello del 18 dicembre 2014. Entrambi i video sono stati sequestrati dagli uomini dell'Arma di Torino negli uffici romani di Bigotti durante la perquisizione del 7 maggio 2015 per essere poi trasmessi dalla Procura del capoluogo piemontese a quella di Roma e questa avrebbe quindi trasmesso alla Procura di Milano «soltanto» quello, ormai famoso, del 28 luglio 2014 consegnato, come è noto, agli avvocati degli imputati del processo Eni/Nigeria il 23 luglio 2019 dopo che gli stessi difensori ne avevano casualmente scoperto l'esistenza in un altro procedimento. Un atteggiamento di scarsa trasparenza stigmatizzato dai giudici nella sentenza di assoluzione per i vertici dell'Eni nel cosiddetto processo Opl 245 con queste parole: «Risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare il video con il rischio di eliminare dal processo un dato di estrema rilevanza». Anche perché nella videoregistrazione emergevano le intenzioni di vendetta di Vincenzo Armanna, da poco licenziato dall'Eni e in quel momento grande accusatore dei manager del Cane a sei zampe. Nulla dice, invece, la sentenza dell'altra videoregistrazione effettuata il 18 dicembre 2014 e relativa a un incontro tra Bigotti, Amara, l'imprenditore Andrea Bacci (all'epoca stretto collaboratore dell'allora premier Matteo Renzi) e un quarto soggetto. Anche in questo video si parla di Eni e in particolare di alcune operazioni che avrebbero dovuto essere realizzate in Congo e sui giacimenti onshore in Nigeria. Sennonché questo filmato è stato nascosto ai giudici milanesi, agli imputati e ai loro difensori, impedendo ogni possibile valutazione da parte dei soggetti interessati in un processo delicato come Opl 245. Ciò è potuto accadere perché gli inquirenti capitolini, dopo aver ricevuto dai colleghi torinesi entrambi i filmati, hanno inserito quello del 18 dicembre in un fascicolo «atti non costituenti notizia di reato» assegnato dall'allora procuratore Giuseppe Pignatone all'aggiunto Paolo Ielo il quale lo ha assegnato successivamente al pm Mario Palazzi che lo ha archiviato, con la controfirma del nuovo procuratore Michele Prestipino, a fine 2020 senza passare dal gip. A Milano questo video, al contrario di quello del 28 luglio, non è mai stato inviato. E questa differente scelta è probabilmente collegata non tanto al fine di danneggiare l'Eni (anche se l'effetto finale è stato probabilmente lo stesso) quanto alla volontà di non divulgare un video in cui si parlava di Roberto Pignatone, il fratello del procuratore che quel filmato aveva dirottato sul binario morto dei fascicoli modello 45. Negli uffici giudiziari romani non esiste la trascrizione completa del video, tanto che quella «ufficiale» di 31 pagine redatta il 17 dicembre 2017 dal Gico del colonnello Gerardo Mastrodomenico e del maggiore Fabio Di Bella è definita dal suo stesso estensore, il maresciallo Fabio Petronzi, «semi-integrale» e in effetti mancano all'appello i cinque minuti in cui i presenti parlano di Roberto Pignatone e degli incarichi ricevuti da quest' ultimo da parte degli indagati Amara e Bigotti, consulenze oggetto di un esposto al Csm dell'ex pm Stefano Fava. Nel documento manca anche uno spezzone in cui si parla di una gara da venti milioni di euro per offrire servizi all'Eni in Congo e di una operazione, sempre riferita a Eni Congo, che valeva 250 milioni di euro all'anno. Nei cassetti della Procura di Roma è rimasta ferma anche una versione di 24 pagine fatta dai Carabinieri di Torino che, sebbene appaia più completa, non riporta comunque il nome di «Pignatone» sostituito da un «incomprensibile». Per avere una trascrizione non censurata di ciò che si sono detti Bigotti, Amara, Cecchi e Bacci il 18 dicembre 2014 bisogna far riferimento a una terza trascrizione, questa volta «non ufficiale» depositata nel procedimento penale di Perugia a carico di Luca Palamara, Riccardo Fuzio e Fava e allegata a una relazione «accusatoria» predisposta dall'aggiunto Ielo il 29 luglio 2019. Ebbene in questa versione non firmata sono riportate le parole registrate il 18 dicembre 2014 dal minuto 13:58 al minuto 14:03 dove il fratello di Pignatone viene definito consulente «del gruppo» Bigotti e si dice che «lavora molto» con lo studio Amara. Tuttavia questa «trascrizione non ufficiale», come detto, seppur con il logo del Gico della Guardia di finanza di Roma, non reca il nome del pubblico ufficiale che l'ha redatta, né il luogo, né la data della sottoscrizione e non fa parte di alcun procedimento penale. Agli atti del fascicolo perugino vi è solo una nota del 26 maggio 2021 a firma del procuratore Prestipino dalla quale risulta che detta trascrizione «sarebbe stata richiesta dal dottor Ielo alla polizia giudiziaria delegata nella persona del colonnello Mastrodomenico, ufficiale delegato ad espletare le attività di indagine in corso nel 2019», ma che essa «non risulta depositata nell'ambito di altri procedimenti penali iscritti presso questo Ufficio». Restano da comprendere le ragioni giuridiche che hanno spinto la Procura di Roma a non trasmettere gli atti relativi alla conversazione del 18 dicembre 2014 alla Procura di Milano per il tempestivo deposito agli imputati del processo Eni-Nigeria e in quello Eni-Congo, dove la compagnia petrolifera ha patteggiato il 25 marzo 2021 una multa da 11 milioni di euro per induzione indebita in relazione ad alcune licenze rilasciate dalla Repubblica congolese al nostro ente petrolifero. Probabilmente queste nuove immagini avrebbero offerto la giusta chiave di lettura del video del 28 luglio 2014, evitando il processo Opl 245. Amara ha, infatti, sempre raccontato la favoletta di avere registrato l'ex manager Eni Vincenzo Armanna il 28 luglio 2014 «su mandato di Eni per "delegittimarlo"». Ma grazie al video del 18 dicembre la verità pare ben diversa. Infatti in questo caso Amara e Bigotti si sono videoripresi da soli anche in assenza di Armanna. Sembra la prova che le registrazioni avvenivano senza alcun mandato occulto, ma semplicemente rappresentavano il modus operandi di Amara e Bigotti. Ma questa loro abitudine si è trasformata in un autogol. Infatti nel video Amara parla con Bigotti di Umberto Vergine, all'epoca a capo della divisione Gas & power, e lo definisce «il nemico dei miei», cioè - stando alle denunce presentate da Eni in Procura - di Massimo Mantovani e Antonio Vella. Vergine infatti non sarebbe mai stato un nemico dell'amministratore delegato Claudio Descalzi, da cui era stato nominato nella divisione Gas & power dopo l'uscita da Saipem. Ma il gruppo Amara, Armanna, Mantovani e Vella avrebbe visto Vergine come un possibile intralcio ai propri affari con il petrolio iraniano e la Napag, società riconducibile ad Amara. Ed ecco che infatti l'avvocato siciliano si adopera per metterlo fuori gioco: «[] Costituisce il nemico giurato dei miei e così pienamente togliamo di» si legge nella trascrizione della Guardia di finanza. Come intendeva riuscirci? Pochi mesi dopo il video di dicembre del 2014 inizia il balletto degli esposti a Trani e Siracusa sul complotto per fare fuori Descalzi. Amara descrive Vergine come mente dei complotti per farlo fuori e piazzare al suo posto Mantovani. Cosa che in effetti sarebbe avvenuta da lì a poco. Insomma il filmato del 18 dicembre poteva essere d'aiuto alle difese dei vertici Eni, come lo è stato quello del 28 luglio. Chi ha deciso di nasconderlo o di trascriverlo in modo errato o incompleto? È stato fatto per sciatteria? Per proteggere Pignatone? Per non mettere in crisi l'accusa nel processo Eni? O per tutti questi motivi insieme? Speriamo che prima o poi qualcuno darà una risposta a queste semplici domande.

DAGONEWS il 3 luglio 2021. L’altra sera a “Casa Dante”, ristorante romano nei dintorni di piazza Vittorio, è andata in scena un’apericena per il compleanno di Lapo Pistelli, dominus delle relazioni istituzionali di Eni. Un genetliaco che si è trasformato in festeggiamento per Claudio Descalzi, assolto dopo sette anni di veleni e tribolazioni sul caso Eni-Nigeria. Presenti, con calicino d’ordinanza, oltre a Descalzi, mezzo Partito Democratico, da cui proviene Pistelli: attovagliati i ministri Guerini, Franceschini, Orlando, il sottosegretario Misiani, il candidato sindaco Gualtieri. A seguire, Massimo Bruno e Fabrizio Iaccarino di Enel, gli inossidabili Velardi, Melandri, Sereni, Chicco Testa, molti lobbisti di partecipate e non solo. Un ambiente molto Dem a parte la vispa Annalisa Chirico che salutava a destra e a manca e il gigantesco Guido Crosetto che parlava fitto fitto, forse del suo pericolante futuro all’Aiad, con Marco Minniti, recentemente nominato da Profumo a capo di una fondazione di Leonardo. PS – Assente “giustificata” il presidente dell’Eni Lucia Calvosa, all’epoca nominata in quota Conte-Travaglio. Acqua passata.

Alessandro Da Rold per “la Verità” il 3 luglio 2021. I fallimenti della Procura di Milano nel processo sul giacimento petrolifero Opl 245 iniziano a farsi sentire anche in Nigeria. Tanto che mercoledì scorso Adoke Bello, ex ministro della Giustizia e Procuratore generale nigeriano, ha inviato tramite i suoi avvocati Femi Oboro e Gromyko Amedu, una lettera in via Arenula 70 a Roma, destinata al ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Nella missiva è contenuta una denuncia a carico dei pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. L'ex ministro nigeriano, infatti, accusa i magistrati milanesi di aver falsificato e manipolato documenti contro di lui, anche se non sarebbe mai stato coinvolto direttamente nel processo dove Eni e Shell erano accusate di corruzione internazionale. Va ricordato che Adoke Bello non gode di particolare fama in patria. È imputato in Nigeria per una villa ad Abuja che gli avrebbe regalato l'uomo d' affari Aliyu Abubakar proprio con i presunti soldi riciclati di Opl 245. Eppure la sua denuncia potrebbe trovare gioco facile dopo che il procuratore aggiunto Paolo Storari ha scoperto le chat falsificate e portate a processo da Vincenzo Armanna, l'ex manager Eni che è stato negli anni uno dei più importanti accusatori dell'amministratore delegato Claudio Descalzi. A questo si aggiunge che si sono concluse le indagini di Laura Pedio sulla diffamazione dell'ex legale di Armanna, Luca Santa Maria. Anche in questo caso è emerso come l'ex dirigente del Cane a sei zampe si sia inventato intere email per depistare le indagini o evitare controlli sul suo conto corrente. Per di più De Pasquale e Spadaro si ritrovano indagati a Brescia proprio per rifiuto d' atti d' ufficio sul materiale probatorio del processo Eni Nigeria. Insomma anche l'ex Procuratore nigeriano potrebbe rifarsi contro i due pm, anche perché sostiene che l'inchiesta e il processo avrebbero rovinato la sua reputazione «a livello globale, fatto perdere un sacco di quattrini e persino devastato la sua vita familiare». In 12 punti i legali chiedono quindi al governo di Mario Draghi di indagare sul «comportamento scorretto» dei due Procuratori. Nella lista di contestazioni c' è di tutto. L'ex magistrato nigeriano arriva ad accusare De Pasquale di averlo persino minacciato durante un interrogatorio nel 2016 in Olanda. A quanto pare, infatti, Adoke Bello sarebbe stato prima sentito come persona informata dei fatti, poi all' improvviso e a sorpresa come indagato, proprio da De Pasquale. Ma a quel punto l'avvocato olandese gli avrebbe sconsigliato di rispondere. Da qui sarebbero scattate le presunte minacce del Procuratore milanese. Non solo. Nella lettera vengono ricordate le assoluzioni nel processo Opl 245 e viene spiegato che la Procura milanese avrebbe commesso appunto atti di «falsificazione di atti o prove a sostegno dell'accusa». Tra queste ci sarebbe anche una presunta telefonata tra Adoke Bello e la Rai, dove proprio l'ex procuratore confesserebbe l'esistenza di tangenti, destinate non solo a funzionari nigeriani ma anche alle compagnie petrolifere. Secondo gli avvocati quell' intervista sarebbe stata contraffatta e manipolata. Anzi al telefono non sarebbe stato nemmeno lui a rispondere, ma qualcun altro. Non basta. A questo si aggiunge anche il deposito delle email da parte della Procura nel dicembre del 2020. Nei messaggi di posta elettronica depositati Adoke Bello avvalorava sempre la tesi della corruzione. Ma anche in questo caso si tratterebbe di falsi, costruiti ad arte. Tra le righe ce n' è anche per Spadaro che durante un'udienza del 7 luglio avrebbe costruito nuove accuse contro di lui ma omettendo fatti che lo scagionerebbero. Per di più il fatto che Adoke Bello si sia comportato correttamente e in modo legale nell' operazione Opl 245 del 2011, sarebbe confermato da una sentenza dell'Alta corte federale di Abuja, del 7 aprile 2018. Nel testo si spiegherebbe che nell' affare del giacimento petrolifero l'ex ministro della Giustizi avrebbe solo eseguito le direttive del presidente e quindi non sarebbe stato responsabile di alcun reato.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2021. «Potenziali elementi di criticità sulla chat depositata da Armanna nel processo. Si rappresenta che, a parere di questa polizia giudiziaria, elementi significativi evidenziano la volontà di Armanna di procurare testimoni, dietro dazioni di denaro, da far comparire nell'aula del processo». In una versione del rapporto della GdF la frase c'era; nell'altra invece no, su richiesta alla GdF del procuratore aggiunto milanese Laura Pedio. La Procura di Brescia, che dal 10 giugno indaga il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro per l'ipotesi di rifiuto d'atti d'ufficio, ha acquisito le due versioni dell'informativa in cui la Guardia di Finanza riepilogava i fatti che, secondo quanto esposto dal pm Paolo Storari ai colleghi del processo Eni-Nigeria poi conclusosi lo scorso 17 marzo, svelavano depistanti condotte dell'imputato-dichiarante Vincenzo Armanna, e dunque imponevano alla Procura di metterne a conoscenza il Tribunale e le parti per correttezza processuale. In generale non è infrequente che pm e polizia giudiziaria interloquiscano sulle modalità di redazione dei rapporti. Una modifica era dovuta: la prima bozza di inizio 2021, oltre a contenere già tutti gli indizi tratti da chat o mail di Armanna con altre persone, ne conteneva ulteriori ricavati però anche da chat con il proprio avvocato, dunque inutilizzabili, sicché Storari (pm titolare con Pedio) aveva indicato alla GdF di depurarle. Ma la seconda versione, depositata formalmente in aprile, su indicazione del procuratore aggiunto Pedio vede la GdF depennare anche la sintesi della negativa valutazione della GdF su Armanna.  

Alessandro Da Rold per "la Verità" il 25 giugno 2021. Quello che doveva essere il più grande processo del secolo per corruzione internazionale, su una presunta tangente da 1 miliardo di dollari intorno a un giacimento petrolifero in Nigeria, viaggia ormai su un binario morto. Se già a marzo i giudici del tribunale di Milano aveva assolto nel troncone principale di Opl245 tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste», è di ieri la notizia della doppia assoluzione in Corte d'appello dei due presunti mediatori Obi Emeka e Gianluca Di Nardo: ai due sono stati anche restituiti 112 milioni di euro confiscati in primo grado. Anche qui il motivo è «perché il fatto non sussiste», dettaglio importante, perché ulteriore conferma di come l'impianto accusatorio dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro non abbia convinto giudici né di primo né di secondo grado, anche se in procedimenti differenti. In sostanza, a meno di eccezionali stravolgimenti, la vicenda Opl245 si può dire definitivamente conclusa. Dopo quasi 10 anni di indagini, dopo che Eni (controllata dallo Stato al 30% cioè anche da noi italiani) ha speso più di 100 milioni di euro in spese legali (considerando anche il processo Algeria, pure quello finito con assoluzioni), dopo anni di udienze e interrogatori, a uscire sconfitta è soprattutto la Procura di Milano. Tanto che a palazzo di giustizia si aspetta il bilancio di fine anno, per capire quale sia stato il totale delle spese affrontate per questa inchiesta finita in un nulla di fatto. E c' è persino chi ricorda come l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti, nel 2003, mandò proprio gli ispettori a verificare i conti della Procura milanese durante la stagione dei processi a Silvio Berlusconi. Obi e Di Nardo erano stati condannati nel settembre del 2018 con il rito abbreviato a 4 anni di carcere. Quella sentenza (di ormai 3 anni fa) fu per mesi sbandierata da sostenitori dell'accusa contro Eni e Shell, le compagnie petrolifere accusate di corruzione insieme con i loro vertici, tra cui l'amministratore delegato Claudio Descalzi. Ora invece proprio la sentenza di assoluzione di ieri della Corte d'appello potrebbe valere quasi come un dispositivo di Cassazione. Certo, dirlo rischia di essere un errore da matita rossa in un esame di procedura penale, anche perché non siamo in presenza di un giudicato definitivo. Ma dal momento che fu la Procura generale stessa a chiedere l'assoluzione dei due presunti mediatori, ora non c' è nessuno che ha interesse a ricorrere in Cassazione. E appare difficile che Celestina Gravina - la pg che aveva criticato l'operato di De Pasquale e Spadaro parlando di fatti di prova «fondati sul chiacchiericcio e la maldicenza» - decida di contraddire sé stessa. Di fondo quindi questa sentenza è l'ennesima conferma di quanto avevano già stabilito i giudici del tribunale di Milano, assolvendo Descalzi, Paolo Scaroni e gli altri. Resta la possibilità che De Pasquale e Spadaro possano fare appello contro la sentenza di primo grado. Ma nei corridoi del tribunale di giustizia meneghino è un'ipotesi che già da qualche mese viene messa in forte dubbio. Del resto i due magistrati risultano indagati a Brescia per rifiuto d' atti d' ufficio sul materiale probatorio del processo Eni-Nigeria. Nelle motivazioni i giudici avevano più volte evidenziato gli errori dei due procuratori, in particolare sulla scelta «incomprensibile» di non depositare il video del luglio del 2014 dove l'ex manager Eni Vincenzo Armanna e l'avvocato Piero Amara gettavano le basi per ricattare l'Eni e tentare di dare la spallata a Descalzi. A completare il quadro delle accuse contro De Pasquale e Spadaro ci ha pensato poi il collega Paolo Storari, che indagando sul falso complotto aveva scoperto che gran parte delle prove portate da Armanna in tribunale erano false. Tra queste c' erano le famose chat sul cellulare con Claudio Granata e lo stesso Descalzi. I due pm si sono difesi chiedendo una consulenza tecnica più approfondita sul cellulare di Armanna, peccato che bastasse chiamare un operatore telefonico per scoprire che quei numeri erano farlocchi. Insomma non ci voleva un così grande sforzo per capire che di Amara e Armanna era meglio non fidarsi. 

Gogna e veleni. Inchiesta flop del Fatto su Eni, e i Pm cascano sulle carte farlocche di Travaglio e co. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Con il senno di poi era inevitabile che la Procura di Milano, lo scorso novembre, non cogliesse l’inaspettato contributo info-investigativo da parte del Fatto Quotidiano nel processo Eni-Nigeria. Il dibattimento sulla maxi corruzione era alle battute finali. Fra gli addetti ai lavori era percezione diffusa che i giudici della Settima sezione penale si stessero formando un convincimento molto difforme rispetto alle valutazioni della Procura. All’udienza del 23 luglio 2019 un colpo di scena aveva gettato nel panico i pm. Il difensore di uno degli imputati aveva fatto presente che in altro procedimento fra gli atti depositati dalla Procura vi fosse un verbale della guardia di finanza in cui si dava atto dell’esistenza di una videoregistrazione effettuata in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara. Oggetto della registrazione l’incontro del 28 luglio 2014 tra lo stesso Amara, Vincenzo Armanna e alcuni faccendieri, negli uffici del manager Ezio Bigotti, uno dei protagonisti del “Sistema Siracusa”. Nella registrazione emergeva molto chiaramente l’intenzione di Armanna, un manager dell’Eni licenziato per falsi rimborsi spese, di vendicarsi nei confronti dei suoi ex capi. Armanna, due giorni più tardi, si presenterà in Procura a Milano per denunciare episodi corruttivi commessi da Eni e dai suoi vertici, diventando quindi il principale teste d’accusa. L’aggiunto Fabio De Pasquale, il titolare del fascicolo, spiazzato da questa registrazione di cui pur essendo a conoscenza si era guardato bene dal produrre, il 15 febbraio del 2020 cercherà di far entrare nel processo un verbale in cui Amara aveva raccontato che gli avvocati degli imputati e di Eni avevano accesso presso il presidente del collegio Marco Tremolada. Una “bomba” che rischiava di far saltare tutto il processo. Qualche giorno prima, a fine gennaio, il procuratore di Milano Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, magistrato di sua estrema fiducia, avevano inviato alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dai giudici milanesi, tale verbale. Il fascicolo, per la cronaca, sarà archiviato essendo palesi le balle di Amara. Ma veniamo all’aiuto del Fatto ai pm. Antonio Massari in un articolo del primo novembre 2020 raccontò di aver visionato una chat prodotta da Armanna e firmata dall’attuale numero due di Eni, Claudio Granata. Argomento della discussione era il licenziamento di Armanna e la sua futura possibilità di rientrare in Eni o ottenere incarichi presso altre società del gruppo. Granata invitava Armanna a “non fare mosse avventate”, sostenendo che “Eni può certamente distruggere chiunque in Italia”. “Sanno tutto di te, chi sono i tuoi amici, dove vivi, con chi parli, dove potresti cercare lavoro, chi potrebbe aiutarti, dove lavora tua moglie e dove vanno a scuola i tuoi figli”, avrebbe scritto Granata. E ancora: “Non potrei fare nulla per fermarli”. Granata preannunciava anche che Eni “comincerà a breve un’opera di distruzione della tua reputazione”. Alla pubblicazione dell’articolo seguì la risposta di Eni che ricordava come Descalzi e Granata avessero presentato querela per diffamazione a carico di Armanna in merito a sue affermazioni simili a quelle riportate nella falsa conversazione. Eni ricordava anche che «le dichiarazioni e le accuse avanzate da Armanna nel corso del procedimento Op1245 si siano dimostrate false e smentite da fatti e testimonianze processuali, e come siano emerse prove inconfutabili sulla sua intenzione di manipolare a livello giudiziario vicende legate al giacimento per colpire il management di Eni e trarne vantaggi economici personali». Praticamente con sei mesi di anticipo quello che scriveranno i giudici nella sentenza di assoluzione di tutti gli imputati. La chat invece di finire nel cestino finisce però nel libro Magistropoli, scritto sempre da Massari. «Notiamo come per l’ennesima volta il vostro giornale non perda occasione per attaccare Eni e i suoi manager senza l’esistenza di alcuna notizia, costruendo ipotesi di reato e pubblicando presunti “scambi” privi di qualsiasi rilevanza rispetto alle circostanze oggetto dell’indagine, manipolati, ideologicamente e materialmente falsi e complessivamente e logicamente privi di ogni veridicità», la nuova replica di Eni. E ancora: «Claudio Descalzi e Claudio Granata non hanno mai avuto quelle conversazioni con Vincenzo Armanna, men che meno in una chat che chiunque potrebbe essere tecnicamente in grado di riprodurre artificialmente, dopo averne inventato i contenuti “ex post” a supporto delle proprie calunniose narrative tese ad alleggerire la posizione personale e a fornire presunti riscontri». «Teniamo a informare i vostri lettori che già il 31 ottobre 2020 ci eravamo offerti, sia con Massari che con il Direttore del Fq, di fornire tutte le spiegazioni tecniche a fondamento della nostra categorica smentita sui contenuti della falsa chat, ma che la nostra proposta è stata rifiutata senza spiegazione alcuna». «Prendiamo atto che l’autore, e di conseguenza il giornale, preferiscono dare credito a una fonte, Vincenzo Armanna, che nell’ambito del procedimento Op1245 ha dimostrato la propria totale inattendibilità e del quale i fatti hanno provato le menzogne dichiarate per interessi personali». La controreplica è affidata a Massari: «La Procura di Milano mi ha convocato, dopo aver pubblicato a novembre il primo articolo, per acquisire in un fascicolo d’inchiesta il contenuto delle chat pubblicate dal nostro giornale e nel libro Magistropoli. Sia nell’articolo, sia nel libro, con la massima chiarezza abbiamo precisato – e lo ribadiamo in questa sede – di non aver preso alcuna posizione sulle chat in questione: non sappiamo se siano autentiche o false e soltanto la Procura di Milano – che in seguito al nostro articolo ha disposto una perizia tecnica sul telefono di Armanna per verificare se si tratti di messaggi autentici oppure manipolati – potrà fornire una risposta e fare chiarezza». E arriviamo alla scorsa settimana. La sintesi dell’accaduto è affidata al Corriere della Sera. Per accorgersi che la chat era un tarocco «non c’è nemmeno stato bisogno di chissà quali ricerche informatiche sul telefono di Armanna, reali o meno che siano i profili di inutilizzabilità giuridica adesso evocati dai vertici della Procura (di Milano) per respingere l’accusa della Procura di Brescia d’aver taciuto prove a favore delle difese». Era stato sufficiente verificare se i numeri fossero davvero di Descalzi e Granata. Attività svolta dal pm milanese Paolo Storari, Il pm, infatti, si fece dare da Armanna il telefonino, mai sequestrato negli anni e «con una semplice interrogazione dall’anagrafe del gestore telefonico» appurò che Descalzi e Granata non avevano mai avuto tali utenze. Fine della storia. Anzi, no: Storari aveva avvisato tutti in Procura ma nessuno ritenne di informare il Tribunale di questa circostanza. Paolo Comi

Da mani pulite a toghe macchiate. Altri due magistrati nei guai a Milano. Inquisiti per non aver esibito carte che avrebbero scagionato gli imputati (assolti) nel processo Eni-Shell Nigeria. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2021. Altri due magistrati milanesi nel mirino della giustizia. Dopo Paolo Storari, questa volta tocca a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I due pm milanesi sono indagati dalla Procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio in relazione al processo Eni/Shell-Nigeria di cui ieri il Tribunale ha depositato le motivazioni dell’assoluzione di tutti gli imputati. Cioè, secondo i loro colleghi, avrebbero volutamente evitato di considerare delle prove che scagionavano gli accusati. Un’ipotesi pesante perché mette in cattiva luce tutta la mega inchiesta sulle presunte tangenti di Eni in Nigeria, un processo su cui la Procura di Milano aveva puntato molto, ma che appunto si è risolto con una sfilza di assoluzioni. E mentre il tribunale sanciva la sconfitta dei pm milanesi, ecco arrivare anche la notizia dei due magistrati indagati dai colleghi di Brescia. L’iscrizione risalirebbe a una decina di giorni fa dopo l’interrogatorio del pm Paolo Storari, pure lui indagato a Brescia per il caso dei verbali dell’avvocato Amara e i contrasti con i vertici del suo ufficio. Un gran brutto momento per la giustizia milanese, già scossa di recente dalle rilevazioni su una presunta congrega segreta di magistrati chiamata “Loggia Ungheria”. E dallo scandalo del fascicolo che sarebbe passato dalle mani del pm Storari a quelle di Piercamillo Davigo che nelle scorse settimane ha provato l’imbarazzante ruolo di chi distingue tra un fascicolo ufficiale e un file word. Lo stesso atteggiamento che di solito hanno avuto molti imputati negli anni d’oro della magistratura e veniva stigmatizzato dalla stampa. Un’inversione dei ruoli che è sistemica: se negli ultimi vent’anni è stata la magistratura a evidenziare e combattere ogni stortura degli altri poteri dello Stato, ora si trova nello scomodo ruolo di protagonista della crisi. E, come dice un avvocato di lungo corso del Tribunale di Milano, “non è un bene per la democrazia che la reputazione della magistratura sia così svilita”. Ma le ultime inchieste e rivelazioni hanno dipinto anche il mondo dei magistrati come un insieme di correnti e fazioni politiche che si combattono senza esclusione di colpi per la spartizione del potere. Un quadro finora riservato solo ai politici. E secondo alcuni il caos in cui versa la Procura di Milano è dato proprio da una serie di cambiamenti in corso: diversi componenti della squadra del procuratore capo Francesco Greco sono in partenza per la Procura europea. E già a livello di organico sarebbe un problema perché si tratta della squadra più esperta in reati finanziari. Inoltre nello stesso tempo lo stesso Greco sta andando in pensione. E questo apre una corsa per una delle poltrone di potere più ambite d’Italia. E c’è un altro dato essenziale in questa complessa matematica del potere: questa volta il procuratore capo di Milano non sarà di sinistra. Dopo gli ultimi due in particolare, Bruti Liberati e Greco, sarebbe un vero cambio di musica. Secondo i maligni la vicinanza dell’attuale Procura agli ambienti di sinistra come l’Amministrazione Sala ha favorito i buoni rapporti tra potere politico e potere giudiziario. Al punto che il capo dei vigili di Milano sarebbe stato preso dagli uffici investigativi del Tribunale proprio su sollecitazione dei vertici della magistratura milanese. Una ricostruzione contestata dal Comune che ha annunciato cause legali, ma anche questo genere di procedimento potrebbe prendere tutta un’altra strada con un diverso capo della Procura. Per ora sembra che i nomi di cui si parla sono quelli di Nicola Grattieri, procuratore di Catanzaro, Giovanni Melillo, già procuratore aggiunto di Napoli, e il più giovane Giuseppe Amato, attuale procuratore di Trento. Improbabile la successione interna con Alberto Nobili al posto di Greco perché il clan Boccassini è in discesa. Né sembra molto papabile il nome di Grattieri perché non sembra gradito agli stessi magistrati in servizio. L’unica opzione che pare valida sarebbe Melillo, ma sulle nomine lo stesso Csm messo duramente in crisi negli ultimi mesi va cauto. Per Milano sarebbe una notizia perché a quel punto sia la Prefettura che la Procura di Milano sarebbero guidati da un uomo del Sud. E visto l’apprezzato lavoro di Renato Saccone come Prefetto, potrebbe essere l’inizio di una sinergia interessante per la terra amministrata dai leghisti. In fondo Milano è composta in gran parte di persone che ci si sono trasferite. Persino il presidente dello storico Asilo Mariuccia è pugliese.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 16 giugno 2021. Il «patto della Rinascente» tra il capo del personale Eni, Claudio Granata, e l'imputato-accusatore di Eni, Vincenzo Armanna, finalizzato a «comprarne» nel 2016 la ritrattazione nel processo Eni-Nigeria con la consegna da Granata ad Armanna (fuori dalla Rinascente di piazza Fiume a Roma) dei punti da ritrattare, non ci sarebbe mai stato. Almeno non nella scena narrata da Armanna (e confermata da Piero Amara) prima in tv a Report nell' aprile 2019 e poi ai pm da luglio in poi. E la Procura di Milano, almeno da fine 2020, l'avrebbe saputo ma non comunicato al Tribunale. Tra gli atti all' esame della Procura di Brescia, infatti, ci sono queste sopravvenute indagini con le quali il pm Paolo Storari avrebbe messo in allarme i colleghi dopo aver escluso, in ciascuno dei giorni possibili tra fine aprile e metà maggio 2016, la presenza di Granata. Escluso come? Incrociando modalità di entrata e uscita dalla sede Eni di San Donato, i badge, le registrazioni delle chiamate a impronta digitale dell'ascensore «presidenziale» nella sede romana (dove restava traccia delle entrate ma non necessariamente delle uscite), le agende di lavoro, le riunioni davvero svoltesi, il controllo delle videoconferenze, la misurazione dei tempi di percorrenza, i tabellini della cooperativa di taxi di Granata, telepass, tabulati telefonici. Dunque senza l'esame di quella copia forense del cellulare di Armanna sulla cui utilizzabilità il procuratore aggiunto De Pasquale il 5 marzo 2021 (poco prima della sentenza) esprimeva forti dubbi in una nota al procuratore Greco e alla vice Pedio (non a Storari). È ben possibile che i capi e gli altri coltivassero un dubbio su ipotetiche finestre temporali a loro parere non del tutto sbarrate dalle verifiche di Storari: ma il punto critico resta la decisione di non offrirle alla valutazione del Tribunale, benché sul «patto della Rinascente» Armanna avesse deposto il 22 luglio 2019 in uno dei 3 giorni di esame dei pm. Il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha intanto chiesto ai suoi ispettori di acquisire atti in una inchiesta amministrativa «al fine di una corretta ricostruzione dei fatti».

Val.Err. per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. Le indagini non dovevano toccare Piero Amara, perché doveva essere convocato al processo Eni-Nigeria e gli accertamenti sui profili di calunnia per le sue dichiarazioni sulla loggia Ungheria dovevano rimanere fermi per non comprometterlo come teste. Emergono altre indiscrezioni su quanto avrebbe denunciato il pm di Milano Paolo Storari alla Procura di Brescia, che ha indagato lui per avere consegnato i verbali di Amara sulla loggia a Davigo e, in un altro procedimento collegato, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro.

LE INDAGINI Il procedimento su De Pasquale e Spadaro per rifiuto di atti d' ufficio, nasce proprio dalle dichiarazioni di Storari, accusato di rivelazione del segreto d' ufficio, chiamato a spiegare perché avesse consegnato, nell' aprile 2020, i verbali dell'avvocato siciliano Piero Amara a Davigo. E la ragione, ha sostenuto Storari davanti al procuratore di Brescia Francesco Prete, era proprio quel precedente accaduto nel processo Eni. Illustrando come i rapporti all' interno della procura di Milano fossero tesi. Storari voleva, a suo dire, tutelarsi dalla «inerzia» dei vertici: il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio. 

LA STRATEGIA Il pm avrebbe così evidenziato una strategia ben precisa messa in atto dai suoi superiori e colleghi, per tenere in piedi le accuse ai vertici Eni. Per questo non potevano essere fatte indagini su Amara, ex legale esterno di Eni, anche se aveva accusato esponenti delle istituzioni, magistrati e politici di far parte di una loggia. E men che meno lo si poteva indagare per calunnia, perché doveva essere convocato in aula nel dibattimento Eni-Nigeria da De Pasquale e Spadaro. Amara, secondo Storari, andava preservato, così come l' ex manager-imputato della compagnia petrolifera italiana Vincenzo Armanna, le cui dichiarazioni accusatorie, si riteneva, potessero contribuire alla vittoria nel processo a carico anche dell' ad Claudio Descalzi. Una partita difficile che ha fatto registrare, invece, una sconfitta per la Procura milanese e ha fatto emergere uno scontro interno agli uffici. Da una parte, in pieno dibattimento, c' è stata la consegna alla magistratura di Brescia di una decina di righe di un verbale in cui Amara gettava ombre sul presidente del collegio Marco Tremolada. Dall' altra, come ha spiegato Storari nel corso dei suoi interrogatori, c' è stato pure il mancato deposito alle parti processuali di atti di sue indagini da cui emergeva che Armanna puntava a gettare «fango» sui vertici di Eni per «ricattarli», come poi ha spiegato lo stesso Tremolada nelle sue motivazioni.

Eni, la chat tra Descalzi e Granata "con numeri di telefono inesistenti". L'inchiesta di Brescia travolge la procura di Milano: hanno nascosto tutto? Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Le chat nel 2013 con Claudio Descalzi, allora direttore generale Eni e oggi amministratore delegato, e il capo del personale Eni Claudio Granata, consegnate nel novembre 2020 da Vincenzo Armanna alla Procura di Milano per dimostrare che le accuse ai vertici Eni erano vere, risultano essere totalmente false. E per accorgersene, riporta il Corriere della Sera, è bastato controllare che quei numeri fossero davvero di Descalzi e Granata. Insomma, non c'è stato bisogno di chissà quali ricerche informatiche sul telefono di Armanna, reali o meno che siano i profili di inutilizzabilità giuridica adesso evocati dai vertici della Procura di Milano, per respingere l'accusa della Procura di Brescia d'aver taciuto prove a favore delle difese. A fine 2020 il pm milanese Paolo Storari si è accorto che quelle utenze nel 2013 non erano di Descalzi e Granata, addirittura nel caso di Descalzi quel numero non esisteva proprio. Ma quando Storari avvisò i suoi capi e i colleghi del processo sulle tangenti Eni in Nigeria, nel quale il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva valorizzato le "pacificamente vere" affermazioni dell'imputato-dichiarante Armanna, colleghi e capi non ritennero di presentare a Tribunale e imputati la circostanza, sopravvenuta su chat mai prodotte da Armanna nel processo ma pur sempre riguardanti interlocutori (Descalzi e Granata) molto accusati da Armanna nel processo. Il 5 novembre 2020 Storari si fa dare da Armanna il telefonino, che non era mai stato sequestrato. Dentro, in effetti, ci sono le chat del 2013 con Descalzi e Granata: ma sono vere? E, prima ancora, quei numeri almeno esistevano? La risposta è stata poi negativa. E dall'indagine bresciana sembra di capire che Storari ci sia arrivato semplicemente partendo dall'anagrafe di Vodafone.  Insomma, non serviva certo un colpo di genio. 

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 19 giugno 2021. «Ricordati che l'Eni può certamente distruggere chiunque in Italia, sanno tutto di te». Le asserite chat nel 2013 con l'allora direttore generale Eni (oggi amministratore delegato) Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata, consegnate per la prima volta nel novembre 2020 da Vincenzo Armanna alla Procura di Milano per dimostrare quanto fossero vere le proprie accuse ai vertici Eni, risultano false. E per accorgersene non c' è nemmeno stato bisogno di chissà quali ricerche informatiche sul telefono di Armanna, reali o meno che siano i profili di inutilizzabilità giuridica adesso evocati dai vertici della Procura per respingere l'accusa della Procura di Brescia d' aver taciuto prove a favore delle difese: è bastato solo verificare se almeno quei numeri fossero davvero di Descalzi e Granata in quel 2013. L' ha fatto a fine 2020 il pm milanese Paolo Storari, nell' inchiesta che insieme al procuratore aggiunto Laura Pedio aveva in corso sui variegati possibili depistaggi Eni: e si è accorto che quelle utenze nel 2013 non erano di Descalzi e Granata, e che anzi nel caso di Descalzi quel numero nemmeno esisteva. Ma quando avvisò i suoi capi e i colleghi del processo sulle tangenti Eni in Nigeria, nel quale il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva valorizzato le «pacificamente vere» affermazioni dell'imputato-dichiarante Armanna, colleghi e capi non ritennero di presentare a Tribunale e imputati la circostanza, sopravvenuta su chat mai prodotte da Armanna nel processo ma pur sempre riguardanti interlocutori (Descalzi e Granata) molto accusati da Armanna nel processo. È una storia che inizia il 2 novembre 2020 quando un giornalista del Fatto Quotidiano, ai pm che hanno letto l'intervista di Armanna il 30 ottobre, consegna le fotocopie delle chat dategli da Armanna e smentite dagli interessati e da Eni. Il 5 novembre 2020 Storari si fa dare da Armanna il telefonino, mai sequestrato negli anni. Dentro, in effetti, ci sono chat del 2013 con Descalzi e Granata: ma sono vere?  E, prima ancora, quei numeri almeno esistevano? La risposta è no. E dall' indagine bresciana par di capire che Storari vi sia arrivato senza nemmeno grandi colpi di genio investigativo, ma partendo dall' anagrafe Vodafone. Nel caso di Descalzi quel numero di telefono è suo ma dal 2017, fino al 2012 era stato di un ragazzo all' estero, poi tra il 2014 e il 2016 della moglie di un commerciante: ma in mezzo, nel 2012-2014, cioè nel 2013 delle asserite chat di Armanna? Era non attivo - mostra la compagnia telefonica -, intestato a nessun cliente, inabile a produrre alcun traffico voce o dati, e difatti non c' è alcuna fatturazione. Quanto a Granata, il numero è suo ma dal 2018, e prima fino a metà 2013 rientrava in un contratto per più utenze business di un'azienda edile senza nessi con Eni, numero fax associato al telefono del titolare. E dopo metà 2013? Era rimasto uno dei tanti numeri disattivati (e quindi incapaci di generare traffico) nella disponibilità della compagnia prima d' essere (a distanza di almeno un anno) commercialmente riassegnati a nuovi clienti.

Chiesti accertamenti dopo l'inchiesta sui due pm che nascosero le prove. Scandalo Eni-Nigeria, si muove anche il Ministero della Giustizia: inviati gli ispettori dopo l’indagine su Spadaro e De Pasquale. Redazione su Il Riformista il 15 Giugno 2021. Sul caso Eni-Nigeria si muove anche il ministero della Giustizia. Dagli uffici di via Arenula è stata avviata un’inchiesta amministrativa in merito al comportamento tenuto dal procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, attualmente indagati dalla Procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio. Il Ministero guidato da Marta Cartabia ha chiesto all’ispettorato di svolgere accertamenti preliminari, al fine di una corretta ricostruzione dei fatti, attraverso l’acquisizione degli atti necessari. Il caso che ha portato ad indagare Spadaro e De Pasquale nasce dal processo sulla presunta tangente pagata dall’Eni, compagnia petrolifera italiana, alla Nigeria. Un processo che si era concluso a marzo con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra cui Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, ex e attuale amministratore delegato di Eni. Nelle motivazioni depositate dai giudici milanesi si leggeva che “risulta incomprensibile la scelta del Pubblico Ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che reca straordinari elementi a favore degli imputati”. Il riferimento era ad un video registrato di nascosto dall’ex manager Eni Vincenzo Armanna, imputato nel processo e testimone sulle cui dichiarazioni si era basata buona parte dell’accusa della Procura di Milano, mentre parla con l’avvocato Piero Amara, ex legale di Eni e noto per le sue dichiarazioni sulla loggia Ungheria, recentemente arrestato per una inchiesta sull’ex Ilva di Taranto. Nel video Armanna rivelava l’intenzione di ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia” ad alcuni dirigenti della società. Secondo l’accusa della procura di Brescia Spadaro e De Pasquale, pur avendo la consapevolezza della falsità delle prove portate dall’ex manager di Eni Armanna, avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del Tribunale gli atti. Nella giornata di lunedì gli inquirenti bresciani avevano anche chiesto al Tribunale di Milano di aver copia delle motivazioni, depositate mercoledì scorso, della sentenza del processo Eni-Nigeria conclusosi con 15 assoluzioni.

Caso Eni, scontro interno alla Procura: i pm chiedono un confronto a Greco. Fascicolo disciplinare al Csm per il pm Paolo Storari sul caso verbali di Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 15 giugno 2021. Lo scontro interno alla Procura di Milano si allarga. Con la richiesta, da parte di alcuni pm di una riunione per un confronto, dopo la notizia dell’indagine sull’aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro per rifiuto d’atti d’ufficio, in merito alle prove omesse nel processo Eni- Nigeria. La richiesta circola nelle chat interne alla procura, svelando tensioni già nate dopo la sentenza emessa il 17 marzo scorso e acuite a seguito della notizia dell’indagine aperta a Brescia, basata, innanzitutto, sulle dichiarazioni del pm Paolo Storari, anche lui indagato a Brescia per rivelazione di atti d’ufficio, in relazione alla consegna dei verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, all’ex togato del Csm Piercamillo Davigo. Ad indispettire le toghe meneghino la mancanza di chiarezza circa quanto sta accadendo in procura, al punto da lamentare di aver avuto informazioni soltanto dai quotidiani. Il procuratore Francesco Greco, a quanto è dato sapere, non avrebbe risposto alle richieste. Dal canto loro, i due pm finiti sotto inchiesta contestano le segnalazioni di Storari, che li aveva informati, via mail, dell’inattendibilità di Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, inattendibilità sancita anche dalla sentenza del Tribunale di Milano. Per De Pasquale e Spadaro, infatti, le informazioni sarebbero state inutilizzabili in quanto spedite in via informale, sotto forma di documenti word privi di firme. L’indagine bresciana, intanto, va avanti: la procura guidata da Francesco Prete ha infatti chiesto al tribunale di Milano copia delle motivazioni della sentenza Eni- Nigeria, depositate mercoledì scorso, per acquisirla nell’inchiesta sulle due toghe milanesi. Contro Storari il Csm ha avviato intanto l’azione disciplinare, per fare chiarezza sul comportamento assunto nella gestione di quei verbali, poi finiti alla stampa tramite un “corvo” interno al Consiglio superiore della magistratura. Il postino, secondo la procura di Roma, sarebbe l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto, che sin dal primo momento ha respinto le accuse. Nel frattempo, però, oltre alle faide interne, c’è da risolvere anche un problema di organico: la carenza di pm è infatti ora «aggravata» dall’uscita dei sostituti procuratori nominati alla Procura europea, tra i quali c’è anche Spadaro. E per ridurre il problema, Greco, recentemente ha pubblicato un bando sulla mobilità interna con l’obiettivo di «tamponare» le criticità maggiori. Tra i dipartimenti più in difficoltà ci sarebbe quello che contrasta la “Criminalità organizzata comune”, che avrebbe bisogno di almeno altri tre magistrati.

Eni: pm Storari a procura Brescia, non dovevo toccare Amara. (ANSA il 15 giugno 2021) Non doveva "toccare" con le indagini Piero Amara perché doveva essere convocato al processo Eni-Nigeria e gli accertamenti sui profili di calunnia per le sue dichiarazioni sulla loggia Ungheria dovevano rimanere fermi per non comprometterlo come teste. E' in sintesi quanto avrebbe denunciato il pm di Milano Paolo Storari alla Procura di Brescia che lo ha indagato per rivelazione del segreto di ufficio per aver consegnato al Csm i verbali dell'avvocato per tutelarsi dall"inerzia" dei vertici del suo ufficio. Storari avrebbe detto che per gli stessi motivi sarebbe stato preservato anche Vincenzo Armanna, grande accusatore al processo.

 Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 15 giugno 2021. In gran segreto nel settembre 2018, senza che si sia sinora saputo, il procuratore aggiunto milanese Laura Pedio volò in Nigeria: e - in cerca di riscontri su quanto asserito dall' ex manager Eni Vincenzo Armanna (e confermato di sponda dall' ex avvocato esterno Eni Piero Amara) sul tentativo nel 2016 del numero tre Eni Claudio Granata di fargli ritrattare le accuse mosse nel 2014 a Eni e all'a.d. Claudio Descalzi nell' inchiesta Eni-Nigeria - interrogò l' imprenditore nigeriano Mattew Tonlagha: cioè il titolare della società Fenog (appaltatrice di Eni) di cui Armanna era consulente, e tramite i cui lavori sarebbe passato per Armanna il progetto Eni di comprarne il silenzio. Ma la Procura affrontò quella trasferta senza immaginare che, il giorno prima dell'interrogatorio di Tonlagha, Armanna via chat lo avesse già indottrinato sulle domande che gli sarebbero state fatte dagli inquirenti e, soprattutto, sul cuore della risposta che gli raccomandava di dare: «Tutti devono comprendere che Granata era il vero riferimento di Amara», «che ha cercato di fare pressione su me» tramite te, «che tu non hai accettato», e che per questo Eni ha praticato ritorsioni sulla Fenog. Ma ora dall'indagine della Procura di Brescia emerge che quando questa condotta di Armanna fu messa a fuoco tra fine 2020 e inizio 2021 dall' analisi della copia forense del telefono di Armanna operata dal pm Paolo Storari nella indagine preliminare (tuttora aperta) che aveva in co-delega con Pedio sul «complotto Eni», più volte Storari - ma sempre senza risposta - ne avrebbe sollecitato ai vertici della Procura il deposito nel processo Eni-Nigeria, visto che lì i pm De Pasquale e Spadaro avevano molto investito sull' attendibilità di Armanna anche a proposito dello specifico ruolo di Granata nel farlo ritrattare (ruolo sostenuto sempre pure dal «raddoppio» di Amara). Giorni fa il procuratore Greco ha detto d' aver inviato a Brescia una nota di 11 pagine con cui il vice De Pasquale il 5 marzo 2021 (poco prima della sentenza del 17) gli aveva esposto le «valutazioni critiche» per le quali, con i colleghi Pedio e Spadaro, riteneva quel materiale (trasmesso da Storari ma definito «informale») non producibile in giudizio: un po' per diversità di lettura nel merito, e molto per asseriti profili di inutilizzabilità, essendo ancora in corso un accertamento irripetibile sul cellulare di Armanna.

Il pm indagato per rivelazione del segreto d’ufficio nel caso della loggia Ungheria. Stoccata di Storari alla Procura di Milano: “Non dovevo toccare Amara per il processo Eni Nigeria”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Giugno 2021. Piero Amara non andava toccato da indagini perché doveva essere convocato al processo Eni-Nigeria. Non andava compromesso, insomma, come testimone, con le dichiarazioni sulla cosiddetta loggia Ungheria. È quanto ha raccontato il pm di Milano Paolo Storari alla Procura di Brescia. Storari aveva interrogato con la collega Laura Pedio Amara e quindi aveva preso quei verbali – nei quali si raccontava della loggia segreta che avrebbe unito membri della magistratura, della politica, dell’imprenditoria e via dicendo – e li aveva consegnati all’allora membro del Consiglio Superiore della Magistratura Piercamillo Davigo. Storari è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio. Quei documenti erano infatti trapelati alla stampa, ai quotidiani La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, e al membro del Csm Nino Di Matteo che, a differenza di Davigo che sulla vicenda aveva intrattenuto solo colloqui informali senza segnalare formalmente il caso alle autorità competenti, ha denunciato quei verbali allo stesso Consiglio difendendo il collega Sebastiano Ardita, coinvolto da quei verbali come membro della fantomatica loggia. Amara ha descritto in un’intervista alla trasmissione Piazza Pulita la loggia come “peggio di un’associazione, è un’associazione a delinquere per abuso d’ufficio, non in modo occasionale, ma come sistema”; e sul dottor Storari che “a mio avviso in questa vicenda pecca solo di una ingenuità cosmica rispetto a quello che è successo, per non qualificarlo altrimenti; sono io che mi sono posto il problema che domani c’è un’esigenza di riscontri”.

L’interrogatorio. Storari ha parlato alla Procura di Brescia – perché competente sulla Procura di Milano – dove Davigo avrebbe ricevuto i verbali dal pm, che aveva detto fin dal primo momento di aver trafficato quei verbali per l’“inerzia” con le quali la Procura stava trattando le dichiarazioni di Amara. Storari ha detto che per gli stessi motivi – gli accertamenti sui profili di calunnia – sarebbe stato preservato anche Vincenzo Armanna, ex manager Eni e grande accusatore al processo Eni-Nigeria.

Dicembre 2019. Raccolte le dichiarazioni di Amara sulla loggia, Storari ha detto di aver chiesto ai vertici dell’ufficio diretto da Francesco Greco di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e tabulati telefonici a riscontro delle parole dell’avvocato siciliano. Non ci sarebbe stata nessuna risposta: ecco quindi l’“inerzia”. Gennaio 2020. Greco e l’aggiunto Pedio portano a Brescia un passaggio di un verbale di Amara nel quale quest’ultimo gettava ombre sul Presidente del collegio del processo Eni-Nigeria, Marco Tremolada, e su presunte interferenze delle difese Eni sul giudice. Sul caso venne aperto un fascicolo che dai pm bresciani in seguito archiviato. L’aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro avrebbero quindi chiesto ai giudici di far entrare come testimone nel dibattimento Amara e pure su quelle presunte “interferenze” su Tremolada, mentre il collegio era all’oscuro di quelle dichiarazioni depositate a Brescia, come riporta e ricostruisce l’Ansa. De Pasquale e Spadaro sono attualmente indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio: ovvero un video registrato di nascosto in cui l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, imputato nel processo e testimone sulle cui dichiarazioni si era basato il processo Eni-Nigeria, diceva ad Amara, ex legale di Eni, di voler “ricattare i vertici della società petrolifera” annunciando l’intenzione di far arrivare ai pm “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia” ad alcuni dirigenti. 

Il processo Eni Nigeria. Il video sarebbe stato recuperato da un avvocato della difesa in un altro processo, in un’altra città. A marzo scorso il Tribunale di Milano ha quindi assolto in primo grado tutti gli imputati nel processo sulla presunta tangente pagata Eni alla Nigeria, per l’accusa la più grande – per l’acquisizione di Eni e Shell della licenza per esplorare un vasto tratto di mare al largo della Nigeria – mai pagata da un’azienda italiana. Il fatto non sussiste. A processo cinque tra ex ed attuali dirigenti tra cui Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, ex ed attuale amministratore delegato della società, e altri manager di Eni e Shell. 15 imputati in tutto. Anzi, nelle motivazioni dell’assoluzione, depositate dai giudici del Tribunale di Milano, si leggeva come “risulta incomprensibile la scelta del Pubblico Ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che reca straordinari elementi a favore degli imputati”. Il ministero della Giustizia guidato dalla ministra Marta Cartabia sul caso ha avviato un’inchiesta e chiesto all’ispettorato di svolgere accertamenti. Per Storari, dunque, come da lui messo a verbale, si voleva salvaguardare Amara – che comunque non fu ammesso al dibattimento – da possibili indagini per calunnia perché utile come testimone. E allo stesso modo, per non screditare l’accusatore, le prove raccolte sul manager Armanna, tra cui chat falsificate e molto altro, nel fascicolo cosiddetto “falso complotto Eni”, che non vennero prese in considerazione né depositate nel processo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

De Pasquale, l'ultrà antiberlusconiano che fece condannare il Cavaliere. Stefano Zurlo l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Siamo all'effetto domino. Una procura ne perquisisce un'altra, un pm ne abbatte un altro. Siamo all'effetto domino. Una procura ne perquisisce un'altra, un pm ne abbatte un altro. Eravamo arrivati alle prodezze dell'avvocato Amara, ma adesso siamo già oltre: siamo a Vincenzo Armanna, un gentiluomo che aveva promesso di buttare «una valanga di m...» sull'Eni e su alcuni suoi dirigenti. Peccato che Amara, sì, sempre lui più ubiquo di Padre Pio, l'avesse filmato, registrandone clandestinamente la performance. Nelle cinquecento monumentali pagine appena pubblicate, il tribunale di Milano nell'assolvere l'amministratore delegato Claudio Descalzi se la prende con la procura e con il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale perché non hanno depositato nel processo quel video importantissimo. Ma ormai il gioco va di corsa e ogni giorno c'è una puntata inedita come in tutte le saghe che si rispettino: dunque la procura di Brescia è più avanti del tribunale e addirittura perquisisce il computer di De Pasquale, penetrando nel sancta sanctorum un tempo inviolabile del tribunale di rito ambrosiano. Brescia sospetta che De Pasquale abbia dimenticato di far atterrare nel dibattimento Eni-Nigeria altre chat che documentavano l'opera di intossicazione compiuta da Armanna. Probabilmente non ne sapremmo nulla se non fosse accaduto l'imponderabile: Paolo Storari, il pm che dopo aver litigato per mesi con il suo capo Francesco Greco aveva trafugato i verbali di Amara e li aveva consegnati a Davigo, viene interrogato sul pasticcio Amara e, già che c'è, spiffera i retroscena di Armanna. Brescia mette il turbo. Chi sono i buoni e chi sono i cattivi? È difficile raccapezzarsi col mondo sottosopra. La cronaca ormai la fanno i pm che si azzannano e si delegittimano a vicenda. E in 24 ore gli spunti sono innumerevoli: capita anche che la procura di Potenza - la stessa che in epoca preistorica ammanettò Vittorio Emanuele in un procedimento fragoroso poi puntualmente finito in niente - abbia messo la freccia e superato di slancio l'agguerrita concorrenza - Milano, Brescia, Roma, Perugia - mandando in galera il solito mister double-face Piero Amara, ingabbiato dal gip per i favori fatti all'ex procuratore di Taranto Carlo Capristo. C'è da farsi venire le vertigini. Non è finita: proprio a Potenza emerge che Luca Palamara, che con questa progressione inarrestabile rischia di diventare a sua volta un relitto del passato, si lamentava perché «schiacciato» dal sistema Amara. E a proposito di Amara una domandina banale banale bisogna farsela: come mai a Milano avevano tergiversato per mesi su quei verbali scivolosissimi, in bilico fra rivelazioni e veleni, fra millanterie e squarci di verità, e poi in extremis De Pasquale aveva depositato i verbali dell'avvocato nel traballante processo Eni-Nigeria per irrobustire un'accusa pallida pallida? Ma allora questo Amara è un calunniatore o un pentito? Ed è giusto accelerare, poi frenare e poi ancora accelerare? En passant, a Brescia De Pasquale aveva spedito anche una confidenza del legale che sporcava proprio l'immagine del presidente del collegio, chiamato quindi a valutare l'attendibilità dello stesso Amara. In questo girotondo, tutti naturalmente si difendono: Davigo dice di aver rispettato la legge mostrando quei verbali secretati ai vertici del Csm, Storari voleva difendere la sua indagine, De Pasquale ha spiegato che le carte non consegnate erano «irrilevanti». Si vedrà. Ora si può solo dire che gli equilibri nella magistratura sono saltati. E che il potere conquistato ai tempi di Mani pulite ha dato alla testa. Scatenando nella corporazione una feroce guerra per bande. De Pasquale c'era già ai tempi di Tangentopoli e non aveva un grande feeling con Di Pietro... Aveva illuso l'allora presidente dell'Eni Gabriele Cagliari, poi suicida a San Vittore, che la scarcerazione sarebbe stata imminente? La domanda ritorna ciclicamente ma va detto che ogni ipotesi accusatoria fu a suo tempo archiviata. De Pasquale ha condotto molte indagini con pignoleria, picchi di bravura e rigidità che hanno innervosito più di un legale. Sul petto porta, come molti colleghi di prima fascia, la medaglia luccicante dell'antiberlusconismo: fu lui a sostenere in primo grado l'accusa contro il Cavaliere nel dibattimento sui diritti tv, poi approdato alla condanna definitiva per frode firmata in Cassazione da Antonio Esposito. Oggi è lui a ritrovarsi indagato. «Il bello - dice uno che la sa lunga come Carlo Nordio, il pm veneziano oggi in pensione - deve ancora venire». Frase che sintetizza con sobria perfidia quel che sta succedendo, ma anticipa anche come una profezia quel che ancora potrebbe accadere. Attendiamoci altri scossoni. Stefano Zurlo

Fabio De Pasquale e la promessa a Gabriele Cagliari: "Lei me l'ha messo in c***, io devo liberarla". Non lo fece e il manager si suicidò. Filippo Facci su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Noi facciamo spallucce. Le facciamo da quando lo vedemmo mangiare con le mani in un ristorante africano in zona Buenos Aires (Milano) e da quando aveva i capelli lunghi e perseguiva i «potenti» prima, durante e dopo Mani Pulite. Non abbiamo bisogno di ricordare Fabio De Pasquale nella versione «il capitalismo è una cosa sporca», come disse al Giornale del 10 ottobre 1996, o quando giudicò «criminogeno» il Lodo Alfano sulla giustizia, nel settembre 2008. Noi ricordiamo altre cose: il suo essere di sinistra, che mai nascose; l'inchiesta sui fondi neri Assolombarda (1992-93) quando l'intero Parlamento, sinistre e forcaioli compresi, respinsero le richieste di autorizzazione a procedere per Altissimo e Sterpa (liberali) e per Del Pennino e Pellicanò (repubblicani) chieste da un magistrato, lui, il cui intento fu giudicato «persecutorio» dall'intero arco costituzionale. Ma il nostro pezzo prediletto resta quando disse al detenuto e manager Eni Gabriele Cagliari: «Lei me l'ha messo in culo, io devo liberarla», e poi no, non lo liberò, e lui si suicidò: ma questo resta il pezzo forte, lo teniamo per dopo. Prima c'è da ricordare quando De Pasquale inquisì Giorgio Strehler e chiese la pena massima (1993) dopodiché il regista disse che non sarebbe più rientrato in Italia, se non da assolto: infatti lo fu («per non aver commesso il fatto») e le 52 cartelle di motivazioni sono del 1995, mentre la morte di Strehler a Lugano (che non è in Italia) è del 1997. Non fece mai parte del pool Mani Pulite, anzi, lui e gli altri pm non andavano d'accordo per niente. Si ricorda, nel tardo settembre 1993, un suo litigio furibondo con Antonio Di Pietro: era successo che un latitante, sbarcato a Linate, si era consegnato a Di Pietro nonostante fosse ricercato da De Pasquale. Volarono urla, al pm più famoso d'Italia furono ricordate certe sue frequentazioni. La futura moglie di Di Pietro, Susanna Mazzoleni, denunciò che un capitano che collaborava con De Pasquale le aveva rivolto insinuanti domande sulle frequentazioni del marito. Per uno degli episodi più raccapriccianti di quel periodo, poi, aveva preso le distanze anche il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli. Su mandato d'arresto del pm De Pasquale, la tarda sera del 28 maggio 1992, 14 agenti irruppero a casa dell'ex assessore regionale socialista Michele Colucci a mitragliette spianate; intanto, davanti alla caserma della Guardia di Finanza di via Fabio Filzi, in trepidante attesa, bivaccavano parenti, amici, giornalisti, fotografi, cameramen e una piccola folla di curiosi. La via era transennata e illuminata a giorno, circolavano panini e birre, le auto con a bordo gli arrestati rallentarono a cinquanta metri dal bivacco per dar modo alla stampa di prepararsi, poi ripartirono a sirene spiegate non transitando però dal passo carraio, come normale, bensì bloccandosi davanti all'ingresso pedonale così da far sfilare gli arrestati uno ad uno. E fu ressa, flash, spintoni, parenti e fotografi ad azzuffarsi: l'arrestato Colucci, malfermo sulle gambe, fu trascinato a braccia nella calca e appena entrato in caserma crollò a terra per un edema polmonare. Venne a prenderlo un'ambulanza e il poveretto venne fatto ripassare in barella tra le forche caudine della stampa: la folla si strinse attorno a un corpo privo di sensi, coperto da un lenzuolo, e un giornalista gli piazzò il microfono davanti alla mascherina dell'ossigeno. Un discreto schifo. In precedenza, De Pasquale aveva ottenuto per Colucci il provvedimento del confino, soluzione adottata di norma per i mafiosi: poi, arrestato, le sue condizioni si fecero drammatiche, ma l'atteggiamento di De Pasquale rimase inflessibile, tanto che fece di tutto per farlo finire comunque a San Vittore anziché in ospedale. La figlia di Colucci, giornalista della Rai, fece un pubblico appello che fu raccolto anche da politici e da giornalisti come Gad Lerner. Michele Colucci si fece nove mesi di carcerazione detentiva e poi fu prosciolto in Cassazione. Dopo quell'episodio legato all'indagine sui fondi Cee (che ebbe percentuali d'assoluzione mostruose) Borrelli vietò i preannunci degli arresti da parte delle forze dell'ordine. Poi vabbeh, c'è il caso Cagliari, e noi facciamo spallucce, dicevamo: perché per noi Fabio De Pasquale era e resta quello lì, e non ce ne frega niente se gli ispettori ministeriali scagionarono il magistrato. Fu «indagato» per l'indagine di allora, Eni-Sai, e potrebbe esserlo per quest' altro processo, Eni-Nigeria: ma è un magistrato, punto. Ai tempi, comunque, il 15 luglio 1993, l'indagato galeotto ed ex presidente Eni Gabriele Cagliari rese una confessione che incontrò le attese di De Pasquale (ossia menzionò Craxi) e il pm spiegò quindi ai legali che Cagliari presto avrebbe lasciato il carcere. De Pasquale cambiò idea il giorno dopo, ma non avverti neppure la difesa: si limitò a passare al gip un parere ancora una volta negativo e qualcuno avverti i giornalisti, tanto che il giorno dopo l'avvocato di Cagliari apprese dalla radio che il pm si era rimangiato la promessa, e che l'indomani sarebbe partito per le vacanze, in Sicilia. Cagliari poi si ammazzò soffocandosi con un sacchetto di plastica. Dai verbali di Vittorio D'Aiello, legale di Cagliari, davanti agli ispettori ministeriali: De Pasquale «disse al Cagliari che avrebbe dato parere favorevole alla sua libertà, affermando espressamente rivolto al Cagliari: "Lei me l'ha messo in culo, ma io devo liberarla"». Dalle conclusioni degli stessi ispettori, paragrafo IV: «È mancato quel massimo di prudenza, misura e serietà che deve sempre richiedersi quando si esercita il potere di incidere sulla libertà altrui». E noi facciamo spallucce, perché ricordiamo anche la disperata reazione di De Pasquale, spaparanzato a Capo Peloro: «Non ho rimorso per quello che ho fatto... No, non mi sento in colpa. Ho svolto il mio lavoro basandomi sulla legge... E poi non ho fatto quella promessa. È paradossale: io sono contrario alla carcerazione preventiva». Paradossale, De Pasquale fu ufficialmente mollato da cronisti e procura. Francesco Saverio Borrelli fu visto piangere. «Non si può promettere e non mantenere» ebbe il coraggio di dire Di Pietro, che di quella massima aveva fatto una regola di vita. La riabilitazione di Fabio De Pasquale cominciò quando fece condannare Craxi (1996) e divenne santificazione, soprattutto su Corriere e Repubblica, quando fece condannare Silvio Berlusconi (2010) dopo che, dal 2003, aveva imbastito tre processi contro di lui. Ora la ruota torna a girare, ma sino a un certo punto. Dicevamo è un magistrato.

Alessandro Da Rold per "la Verità" il 2 luglio 2021. Negli anni d' oro del governo di Giuseppe Conte, Fabio De Pasquale era considerato al ministero di Giustizia il simbolo della lotta alla corruzione internazionale. Ora, con l'arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi e Marta Cartabia, l'aria sembra molto cambiata. L' anno scorso, infatti, il pm di Milano - titolare insieme con Sergio Spadaro di diverse inchieste sull' Eni di Claudio Descalzi - era stato scelto dall'ex ministro Alfonso Bonafede come referente per l'Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. Ogni anno questa istituzione internazionale deve stilare un rapporto sugli Stati e il modo in cui adottano misure di contrasto alla criminalità organizzata come alla cosiddetta mafia dei colletti bianchi. Per il grillino Bonafede l'immagine da mostrare al mondo doveva essere quella della pubblica accusa dell'inchiesta Eni-Nigeria e della presunta tangente da 1 miliardo di dollari. La stessa Procura di Milano pare volesse puntare molto su questo incontro. Sarebbe stata l'occasione per dimostrare l'operosità della macchina giudiziaria meneghina, simbolo sin dai tempi di Tangentopoli della lotta al malaffare. Per di più avrebbe dato lustro al capo Francesco Greco, ormai prossimo alla pensione. Così, come già anticipato dalla Verità nelle scorse settimane, da 19 al 23 luglio prossimi si sarebbero dovuti svolgere a Milano una serie di incontri tra il segretario generale dell'Ocse e la Procura milanese: l'appuntamento è saltato e rinviato a data da destinarsi su decisione dell'Ocse e del ministero. De Pasquale avrebbe dovuto fare gli onori di casa, insieme con lo stesso Greco. Agli incontri sarebbero stati presenti anche altri magistrati milanesi (tra cui lo stesso Spadaro ora distaccato alla Procura europea) esponenti delle forze dell'ordine, membri dell'Ong Trasparency Italia (invitati da De Pasquale) e persino i consulenti Marco Masciovecchio di Pwc, Oriana Roncarolo di Deloitte e Stefano Martinazzo di Axerta. Ma è tutto saltato. Come mai? A marzo di quest' anno il processo del secolo sul giacimento petrolifero Opl 245 è finito con una raffica di assoluzioni in primo grado. I giudici hanno stabilito che «il fatto non sussiste». Nemmeno 3 mesi dopo sono arrivate in appello anche le assoluzioni per i presunti intermediari della tangente, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo. Nel mentre la Procura generale di Milano ha demolito tutto l'impianto della pubblica accusa, criticando duramente le modalità di indagine di De Pasquale e Spadaro. A questo si sono aggiunte anche le motivazioni della sentenza di primo grado del collegio presieduto da Marco Tremolada. È stato evidenziato l'utilizzo di testimoni poco credibili (l'ex manager Eni Vincenzo Armanna o l'avvocato Piero Amara) come diverse lacune nella produzione delle prove. Basta ricordare il caso del video scomparso del luglio del 2014 e riapparso per miracolo nel 2019, le chat false o ancora i pagamenti di testimoni da parte dello stesso Armanna. Anche per questo motivo è stato aperto un fascicolo alla Procura di Brescia, dopo gli interrogatori del procuratore aggiunto Paolo Storari: De Pasquale e Spadaro sono ora indagati per rifiuto d' atti d' ufficio sul materiale probatorio del processo Opl 245. Insomma l'inchiesta che doveva rappresentare la lotta alla corruzione dell'Italia nel mondo è diventato un boomerang, tanto che ora potrebbero partire cause di risarcimento milionarie contro la stessa Procura di Milano. In questi mesi al ministero era circolato un certo imbarazzo sulla visita dell'Ocse. Ma a togliere le castagne dal fuoco è intervenuta proprio l'organizzazione internazionale che nei giorni scorsi ha inviato una comunicazione al ministro Cartabia: la visita non si può più fare per via della pandemia. Così mercoledì mattina dal ministero è partita una lettera destinata a Greco e De Pasquale, dove si spiega «l'impossibilità di svolgere la visita in programma dal 19 al 23 luglio 2021 e la conseguente necessità di posticiparla». La ragione, scrivono dal ministero sottolineando «il loro rammarico», è collegata «alle restrizioni assunte dal segretario dell'Ocse che ha esteso il divieto di viaggi all' estero per il suo personale sino alla data del 31 agosto 2021». E pensare che erano già stati riservati i locali della Fiera di Milano, con misure di sicurezza e distanziamento adeguate. Dal dicastero di Marta Cartabia fanno comunque sapere che ci sarebbe ancora la possibilità di rinviare a ottobre, anche se si specifica che ci sarebbe uno slot più plausibile dal 10 al 14 gennaio 2022: difficile far combaciare le agende degli esperti degli Stati valutatori, Stati Uniti e Germania. Insomma l'incontro potrebbe finire come il processo Eni Nigeria. Anche perché a palazzo di giustizia c' è chi fa notare che si sarebbe potuto svolgere online e che era stato organizzato quando la pandemia divampava in Europa: ora ci sono gli stadi pieni per gli Europei di calcio. A De Pasquale non è rimasto che comunicare a tutti i partecipanti la decisione dell'Ocse. Sarà per la prossima volta, se mai ci sarà.

Alessandro Da Rold per “la Verità” l'11 giugno 2021. Secondo l'ex ministro pentastellato Alfonso Bonafade, era il magistrato simbolo dell'anticorruzione, tanto da essere scelto lo scorso anno come rappresentante dell'Italia di fronte all' Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo). Ma adesso Fabio De Pasquale, una carriera a inseguire la corruzione in Eni con scarsi risultati, si ritrova indagato dalla Procura di Brescia per rifiuto e omissioni d' atti ufficio insieme con il collega Sergio Spadaro, quest' ultimo invece appena nominato alla Procura europea antifrode. Lunedì sono stati perquisiti i computer dei due procuratori, un evento che non si era mai verificato nella Procura di Milano, dove sono transitati processi che hanno caratterizzato la storia politica italiana ma da ormai 10 anni dilaniata da guerre intestine, prima con Edmondo Bruti Liberati e ora con Francesco Greco. Oltre a nascondere un video dove l'avvocato Piero Amara e l'ex manager Eni Vincenzo Armanna spiegavano come sfruttare il processo Opl 245 per i loro tornaconti personali («Faccio arrivare la valanga di m»; «mi adopero per l'avviso di garanzia»), i due magistrati titolari dell'accusa sarebbero stati anche a conoscenza del pagamento di uno dei testimoni. E non di un teste qualsiasi, ma di Isaak Eke, quello che secondo Armanna aveva visto la consegna di una parte della presunta tangente da 1 miliardo di dollari consegnata al dirigente Eni Roberto Casula. De Pasquale e Spadaro dovranno ora spiegare come è stato gestito il processo sul giacimento petrolifero nigeriano, dove Eni, Shell e tutti gli imputati sono stati assolti dalle accuse di corruzione internazionale «perché il fatto non sussiste». Le accuse per i 2 sono molto pesanti. E sono già state depositate a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm e in Cassazione. Per di più rischiano di pagare di tasca propria le cause di risarcimento danni che gli avvocati degli imputati di Opl 245 stanno già preparando: lo Stato potrebbe stanziare i risarcimenti ma poi la Corte dei conti potrebbe rifarsi proprio su De Pasquale e Spadaro. Secondo il pm Francesco Prete, titolare dell'indagine, i 2 magistrati sarebbero stati consapevoli della falsità delle prove portate da Armanna in aula, nel corso del dibattimento. E avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del Tribunale gli atti proprio su queste falsità. Non solo. Sarebbero stati persino a conoscenza del fatto che Armanna, il principale accusatore dell'amministratore delegato Claudio Descalzi, aveva pagato 50.000 dollari il teste Isaac Eke. A informali su quest' ultimo fatto era stato Paolo Storari (anche lui indagato a Brescia per i verbali della loggia Ungheria), il procuratore che indagava sul falso complotto Eni (su Amara e Armanna quindi) e che aveva accusato i vertici della Procura milanese di inerzia nelle sue indagini. A emergere è un quadro a tinte fosche. Storari, grazie alle sue indagini, aveva capito cosa stava succedendo intorno al processo Opl e aveva informato De Pasquale e Greco. Ma non era cambiato niente, forse per non far crollare l'intero impianto dell'accusa. La vicenda però getta più un dubbio sui come si sia realmente svolto in questi anni il processo di Milano su una delle aziende più importanti e strategiche del nostro Paese. Anche perché intorno a Isaak Eke, il testimone chiave che secondo Armanna aveva visto 50 milioni di dollari della tangente, si sprecarono diverse udienze. L'ex manager Eni, infatti, sosteneva infatti che un alto dirigente della polizia era pronto a collaborare e a confessare. Nel 2019 era stato indicato come Victor Nawfor. Poi nel 2020 era stato identificato come Isaak Eke, con tanto di lettera autografata dove si diceva che era pronto a testimoniare. Ma poi in aula aveva negato di aver visto tangenti e di conoscere Armanna. Il balletto sui «Victor» durò qualche mese. Alla fine De Pasquale e Spadaro indagarono Eke per falsa testimonianza. Ma a pesare è soprattutto il video del 28 luglio 2014. Nelle motivazioni della sentenza che assolve i vertici di Eni si scopre che nell' udienza del 23 luglio 2019 il collegio apprese, grazie a Giuseppe Fornari, avvocato di Casula, di una videoregistrazione di un incontro tra Amara, Armanna, Andrea Peruzj e Paolo Quinto, questi ultimi due vicini al mondo del Partito democratico: il primo era nella Fondazione Italianieuropei di Massimo D' Alema mentre il secondo era assistente della senatrice Anna Finocchiaro. In quell' incontro emerge chiaramente la strategia di vendetta di Armanna, che era stato appena licenziato da San Donato nel 2013 per spese gonfiate e non giustificate. I giudici della Corte scrivono appunto che «risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare il video con il rischio di eliminare dal processo un dato di estrema rilevanza». Il video, effettuato negli uffici dell'azienda di Ezio Bigotti, sulla quale La Verità è stata l'unica a scrivere, sequestrato dai carabinieri di Torino, fu trasmesso alla Procura di Roma il 13 luglio 2015 e da questa alla Procura di Milano il 10 maggio 2017. Per 2 anni è rimasto chiuso nei cassetti della Procura. Quando il 23 luglio 2019 spuntava il video omesso dalla pubblica accusa, la Procura di Milano, per correre ai ripari, organizzava un documento, firmato dal capo Francesco Greco (del quale La Verità è venuta in possesso) per far figurare che la famosa videoregistrazione del 28 luglio 2014 (inserita nel fascicolo complotto 12333/17 Pedio -Storari che ora la Procura generale di Milano vuole avocare) era stata trasmessa da Pedio e da Storari a Greco proprio il 23 luglio 2019 e lo stesso giorno da Greco a De Pasquale e Spadaro i quali, sempre il 23 luglio 2019 lo mettevano a disposizione dei difensori. Peccato che proprio questi ultimi ne erano già venuti in possesso grazie a Fornari. Ma la toppa potrebbe essere peggio del buco. A pochi mesi dalla scadenza di Greco, la Procura di Milano affronta forse una delle sue fasi più difficili della sua storia recente. Ieri in una nota la Procura ha difeso la «professionalità» dei colleghi, spiegando che De Pasquale e Spadaro avevano espresso il 5 marzo le loro valutazioni critiche sul materiale ricevuto da Storari.

Eni, Amara la registrazione nascosta: tutta la procura di Milano sapeva (da 4 anni), uno scandalo esplosivo. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Tutta la Procura di Milano sarebbe stata a conoscenza della videoregistrazione, effettuata in maniera clandestina dall'avvocato Pietro Amara il 28 luglio 2014, che ha contribuito a scagionare i vertici dell'Eni dall'accusa di corruzione internazionale. La circostanza emerge da una nota firmata direttamente dal procuratore di Milano Francesco Greco. Dalla videoregistrazione, avvenuta all'interno degli uffici romani del manager piemontese Ezio Bigotti, poi coinvolto nell'indagine Consip, si nota senza possibilità di dubbio come Vincenzo Armanna, ex dirigente dell'Eni, stesse pianificando una attività denigratoria contro i vertici del colosso petrolifero. Armanna, licenziato in tronco a causa di 300mila euro di rimborsi spese non giustificati l'anno prima, vedeva un ostacolo ai suoi progetti nel nuovo management. Nella registrazione si sente in maniera nitida Armanna parlare di un «avviso di garanzia» che doveva arrivare ai manager di Eni. Armanna aveva interesse a «cambiare i capi della Nigeria» per sostituirli con uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari. Lo strumento per attuare questo piano era quello di gettare discredito sulle persone giudicate di ostacolo e, appunto, «far arrivare loro un avviso di garanzia». Ed infatti Armanna si presenterà dopo due giorni, il 30 luglio 2014, in Procura per accusare di corruzione l'amministratore delegato Claudio Descalzi, diventando così il principale teste d'accusa nel processo Eni-Nigeria. ll 23 luglio 2019, in pieno dibattimento, il difensore di uno degli imputati faceva presente al collegio che in altro procedimento, fra gli atti depositati dalla Procura, vi fosse un verbale della Guardia di finanza in cui si dava atto dell'esistenza di questa videoregistrazione. Lo stesso giorno, sicuramente una coincidenza, il procuratore Francesco Greco decideva allora di trasmettere il "supporto informatico" all'aggiunto Fabio De Pasquale che stava rappresentando l'accusa. Ma dove si trovava questa videoregistrazione? Nel fascicolo 12333/17, assegnato all'altro aggiunto Laura Pedio, quello dove poi, alla fine del 2019, verranno inserite le dichiarazioni di Amara sulla Loggia super segreta Ungheria. Dichiarazioni, si ricorderà, consegnate dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo a marzo del 2020 proprio a causa della "inerzia" dei suoi capi a svolgere accertamenti sulla loro veridicità. Domanda? Come è possibile che un fascicolo iscritto nel 2017 sia ancora pendente nella fase delle indagini preliminari? Ma quanto durano le indagini in questo Paese? Alla faccia dell'inerzia. Va bene che la prescrizione è stata abolita dall'allora ministro Alfonso Bonafede, e quindi si può indagare senza soluzione di continuità, però un limite sarebbe auspicabile. Che qualcosa non torni in questa vicenda lo dimostra la volontà del procuratore generale di Milano Francesca Nanni nei giorni scorsi di avocare il fascicolo in questione. Ma oltre all'avocazione qui ci sarebbero elementi per un disciplinare al Csm. Sarebbe auspicabile che la ministra della Giustizia Marta Cartabia inviasse una ispezione a Milano per capire cosa stia succedendo. Greco, prossimo alla pensione, non avrebbe conseguenze, ma per gli altri pm sarebbe diverso.

Caso Eni, alla procura europea andrà il pm accusato di aver omesso le prove. Si tratta del pm milanese Sergio Spadaro, indagato insieme al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale dalla procura di Brescia per rifiuto d'atti d'ufficio, nell’ambito del processo ai vertici Eni. Simona Musco su Il Dubbio il 12 giugno 2021. Tra i magistrati della neonata procura europea ce ne sarà uno indagato per aver omesso delle prove decisive in un processo. Si tratta del pm milanese Sergio Spadaro, indagato insieme al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale dalla procura di Brescia per rifiuto d’atti d’ufficio, nell’ambito del processo ai vertici Eni conclusosi a marzo scorso con l’assoluzione di tutti gli imputati. La grana interna alla procura di Milano rischia di diventare, dunque, un affare europeo. E ora le eventuali conseguenze disciplinari che verranno assunte dal Csm, che ha già ricevuto tutte le informazioni del caso sulla vicenda, dovranno anche essere comunicate al procuratore capo dell’Eppo. Spadaro è uno dei sei pm milanesi scelti dal Csm per ricoprire il ruolo di procuratori europei delegati e occuparsi di perseguire i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Oltre a lui sono stati scelti Gaetano Ruta, Donata Costa, Giordano Baggio, Adriano Scudieri ed Elisa Moretti, che andranno a ricoprire tale ruolo assieme ad altri 14 colleghi italiani. E ben tre su sei – Spadaro, Ruta e Costa – provengono dall’ufficio diretto dall’aggiunto milanese Fabio De Pasquale, ovvero il dipartimento Affari internazionali – Reati economici transnazionali. In sede di votazione al plenum del Csm, Spadaro è colui che ha ottenuto il punteggio più alto, assieme a Baggio e Costa, per aver dimostrato di «possedere un profilo che coniuga una lunga, qualificata e continuativa esperienza nella conduzione di indagini per reati che rientrano nelle specifiche competenze della Procura Europea e un’altrettanta significativa competenza nella cooperazione giudiziaria in materia penale». Ai tre, dunque, è stato attribuito un punteggio complessivo di 9, per essersi «occupati con continuità ed esclusività di tali materie tanto da potersi definire degli “specialisti” del settore». In base al regolamento dell’Eppo, nei casi in cui i procedimenti disciplinari vengano promossi in ambito nazionale, «al fine di tutelare l’integrità e l’indipendenza» della procura europea, «è opportuno che il procuratore capo europeo sia informato della rimozione o di eventuali provvedimenti disciplinari». Il collegio dell’Eppo può procedere alla rimozione dall’incarico nei casi in cui il procuratore europeo delegato «non è in grado di esercitare le sue funzioni o ha commesso una colpa grave». Inoltre, «il collegio può rigettare la designazione qualora la persona designata non soddisfi i criteri» previsti dal regolamento interno. Non è possibile, invece, che sia lo Stato membro a rimuovere dall’incarico magistrato europeo o adottare provvedimenti disciplinari nei suoi confronti per motivi connessi alle responsabilità che gli derivano dal regolamento dell’Eppo. «Se il procuratore capo europeo non dà il suo consenso – continua il regolamento -, lo Stato membro interessato può chiedere al collegio di esaminare la questione». Come noto, Spadaro (insieme a De Pasquale) è indagato per non aver depositato alcune prove nel processo sul caso Eni-Nigeria. Tutto partirebbe dall’interrogatorio di Paolo Storari, anche lui pm della procura meneghina e indagato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per aver consegnato i verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni, Paolo Amara, all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Storari ha infatti comunicato ai pm di Brescia di aver informato i due colleghi di alcune circostanze relative alla posizione di Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, che – secondo quanto emerso dalla sentenza di assoluzione dei dirigenti della società petrolifera accusati di aver versato una maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245 – avrebbe in realtà agito con lo scopo di screditare e gettare fango sulla compagnia. Storari, che assieme all’aggiunta Laura Pedio stava interrogando Amara nell’inchiesta sul “Falso complotto Eni”, avrebbe inviato alcune mail ai vertici dell’ufficio evidenziando l’inattendibilità dell’ex manager Armanna, sostenendo che sentirlo ancora a verbale sarebbe stato dannoso per le sue indagini. Storari avrebbe illustrato il proprio punto di vista non solo a De Pasquale e Spadaro, ma anche al procuratore Francesco Greco e all’aggiunta Pedio. In quelle mail il pm segnalava di aver trovato nel telefono di Armanna delle chat dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro. Tra i messaggi scovati da Storari anche la richiesta di Armanna ad Eke di restituire il denaro. Spadaro e De Pasquale, assieme all’aggiunta Pedio, non risposero mai a Storari, ma inviarono una nota di 11 pagine a Greco, sostenendo invece che quei 50mila dollari fossero un compenso promesso da Armanna all’amico poliziotto per recuperare in Nigeria un file che gli stava a cuore. I due pm, inoltre, criticarono la legittimità procedurale nell’acquisizione di quelle chat da parte di Storari. Si trattava, inoltre, di materiale «informale» e «oggetto di indagini ancora in corso». Tra le prove non finite a processo anche il video favorevole agli imputati girato da Amara, che dimostrerebbe il tentativo di Armanna di screditare i vertici della compagnia, video che la procura di Brescia ha chiesto di acquisire. A scoprire il video, del tutto casualmente, la difesa di uno degli imputati in un altro processo, chiedendone conto, in aula, ai due pm. E lì De Pasquale ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». Comportamento censurato dai giudici, che hanno definito in sentenza «incomprensibile» quella scelta. Gli stessi giudici che nelle motivazioni delle assoluzioni hanno definito inattendibile Armanna, così come sostenuto da Storari, affermando che lo stesso avrebbe «utilizzato gli strumenti processuali per finalità personali, arrivando ad orchestrare un impressionante vortice di falsità».

Maurizio Belpietro per "la Verità" il 10 giugno 2021. L' altra sera in tv, Piercamillo Davigo ha spiegato, con la perentorietà da tutti conosciuta, che in un processo non esiste alcuno svantaggio tra accusa e difesa, perché il pm è punito se non dice o occulta la verità, mentre l'avvocato dell'imputato può essere condannato proprio se davanti alla Corte racconta fatti veri che possono danneggiare il suo cliente. Tradotto, secondo l'ex esponente del pool di Mani pulite, il vantaggio ce l'hanno i legali, perché il pubblico ministero è al servizio della legge, mentre i difensori sono al servizio di interessi privati e dunque, in udienza, possono anche raccontare balle. La sentenza tv dell'ex capo di Autonomia e indipendenza, una delle correnti della magistratura, non ammette dubbi: «Sapendo che l' imputato è innocente, se un pm ne chiede la condanna commette il delitto di calunnia. E se sostiene questa sua richiesta con atti falsi, redatti da lui o da altri, commette il delitto di falso ideologico o di falso in atto pubblico». Chiaro, no? La pubblica accusa non può fabbricare prove, non può omettere qualche cosa, non può accusare un innocente sapendo che è innocente. Ad ascoltare Davigo, sembra tutto perfetto, tutto al di sopra delle parti, tutto a tutela dell'imputato. Un modello da prendere a esempio, così come avrebbe fatto il Consiglio d' Europa, raccomandando agli Stati membri di imparare dall' Italia, Paese che, pur disponendo della giustizia più lenta del mondo, pur avendo un arretrato processuale di anni, pur mandando in prescrizione una montagna di reati, sarebbe un sistema che funziona proprio per le garanzie nei confronti dell'imputato e per la competenza dei suoi magistrati. Peccato che appena finito di ascoltare le parole di Davigo, uno poi legga la sentenza con cui il tribunale di Milano ha mandato assolti i vertici dell'Eni accusati di aver pagato una tangente miliardaria ad alcuni uomini politici e faccendieri nigeriani. Tra le motivazioni del proscioglimento, c' è un passaggio da brivido: nel documento di 482 pagine, i giudici della VII sezione penale scrivono che la Procura avrebbe omesso di depositare fra gli atti del procedimento «un documento che, portando alla luce l'uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell'auspicata conseguente attivazione dell'autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati». In pratica, i giudici spiegano che senza il deposito di quel documento sarebbe stato sottratto «alla conoscenza delle difese e del tribunale un dato processuale di estrema rilevanza». Cioè il giudizio sarebbe stato viziato dall' occultamento di una prova a favore degli imputati. Alcuni lettori probabilmente ricorderanno di che cosa io stia parlando, perché La Verità è stato l'unico giornale che quel documento lo ha raccontato quando ancora nessuno o quasi ne conosceva l'esistenza. Si tratta di un video registrato dall' avvocato Pietro Amara, ossia di colui che l' altro ieri la Procura di Potenza ha fatto arrestare, in cui è possibile ascoltare una conversazione con Vincenzo Armanna, ex dirigente dell' Eni che insieme al succitato legale è stato uno dei testimoni chiave dei pm di Milano contro i vertici della società petrolifera. Nella registrazione, Armanna, che due giorni dopo si recherà in Procura accusando i manager del gruppo, manifesta l'intenzione di «ricattare» i vertici del cane a sei zampe, preannunciando l' intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di merda» e «un avviso di garanzia» all' amministratore delegato e ai suoi colleghi. In sostanza, si capisce che Armanna aveva «interesse a cambiare i capi dell' Eni per sostituirli con uomini di suo gradimento, così da poter essere agevolato in alcuni affari petroliferi che stavano a cuore a lui e a Pietro Amara». Vi state perdendo nel guazzabuglio di nomi? Niente paura, per un po' ho faticato anche io a raccapezzarmi. In poche parole, due tizi si dicono pronti a vuotare il sacco con i pm, per poter togliere di mezzo chi li intralcia, un intento che non pare certo quello di fare giustizia, ma semmai di fare affari. Scrivono i giudici: «L' intenzione era quella di gettare un alone di illiceità sulla gestione da parte di Eni». Peccato che questa prova chiave, che avrebbe dovuto chiarire tutto fin da subito, evitando un processo dispendioso e un impegno di risorse pubbliche, i pm non l' hanno prodotta, dimenticandosene inspiegabilmente, e dunque il testimone dell' accusa animato da così poco disinteressate intenzioni, ha potuto trascinare per anni un procedimento che probabilmente non sarebbe mai dovuto neppure iniziare. Dunque torniamo all' inizio, alla parola di Davigo pronunciate in tv senza contraddittorio, così sicure, ma così lontane dalla realtà se messe a confronto con ciò che accade in certe aule di giustizia. Una cosa tuttavia appare certa: il Guardasigilli, Marta Cartabia, ha un' occasione formidabile. Mai come in questa stagione, dopo lo scandalo Palamara, dopo le vicende che hanno inguaiato il Csm, dopo gli arresti di magistrati corrotti, si è sentito il bisogno di una riforma che faccia in modo che la legge sia davvero uguale per tutti. Anche per i magistrati.

La lenta agonia della Procura di Milano. L’agonia della procura di Milano: Davigo coinvolto nel caso Amara, De Pasquale e Spadaro indagati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Con due uomini di punta, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati a Brescia come il loro collega Paolo Storari e Piercamillo Davigo che è lì lì per raggiungere il trio, sta andando in pezzi il mito della Procura della repubblica di Milano. Il fortino degli invincibili e intoccabili, quelli che ti procuravano la scossa elettrica prima ancora che tu li avessi sfiorati (bastava lo sguardo o una parola di troppo), ha decisamente perso non solo lo splendore, ma proprio la verginità. Prima vediamo un sostituto procuratore scontento del proprio capo perché secondo lui sta trascurando una certa inchiesta (in cui si parla di una loggia segreta fatta anche di magistrati e finalizzata tra l’altro ad aggiustare i processi), che si rivolge a un amico invece che alle vie istituzionali, consegnandogli materiale coperto da segreto. Poi questo amico, che casualmente è un ex uomo del pool e in seguito membro del Csm, a sua volta sceglie una sorta di passaparola per vie informali, fino ad arrivare, con queste carte che misteriosamente passano di mano in mano, al presidente della commissione Antimafia, che c’entra come i cavoli a merenda e che comunque va subito a spifferarlo in Procura. E intanto, mentre le carte “segrete” volano motu proprio fino a due redazioni di quotidiani, si scopre che colui che veniva chiamato Dottor Sottile forse tanto sottile non era. E forse il mitico Pool di cui ha fatto parte a sua volta non era proprio geniale. E magari ha avuto anche qualche “aiutino”. Poi subentra la famosa maledizione dell’Eni, quella che nel 1993 portò al suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Solo che questa volta i vertici del colosso petrolifero vengono assolti, pur se dopo tre anni di dibattimento e 74 udienze e dopo che i rappresentanti dell’accusa avevano tentato di far entrare nel processo una sorta di cavallo di troia che avrebbe potuto persino portare il presidente Tremolada all’astensione. E questo è già un brutto neo sulla reputazione della Procura di Milano, il primo fatto di cui dovrebbe forse occuparsi il Csm. Anche perché di questo verbale si sono preoccupati anche lo stesso procuratore Greco e la fedelissima aggiunta Laura Pedio, inviandolo a Brescia per competenza. Sicuramente a tutela del presidente Tarantola, pensiamo. A Brescia c’è stata una repentina archiviazione, ma il Csm è stato informato? Non si sa. Quello su cui è invece già stato allertato, insieme al procuratore generale della Cassazione, è un fatto di omissione. Perché aver ignorato la manipolazione di certe chat e aver tenuto fuori dal processo Eni un video che avrebbe giovato alla difesa, ha portato il procuratore aggiunto De Pasquale e il sostituto Spadaro sul banco degli indagati, se così si può dire. E anche sul banco degli sgridati, nella motivazione della sentenza, in cui il tribunale si dice sconcertato per i comportamenti dei rappresentanti dell’accusa. Sarebbe mai successo ai tempi splendidi di Borrelli e Di Pietro? Impensabile. A questo punto, mentre gli uomini di punta della Procura di Milano sembrano cadere come birilli, nella reputazione ma anche nelle carte processuali, il dottor Nicola Gratteri da Catanzaro può veramente cominciare a scaldare i muscoli e farsi la bocca sulla possibilità di succedere a Francesco Greco nell’autunno milanese. Poche sere fa, ospite di una dolcissima Lilli Gruber, sprizzava soddisfazione e infilava gli occhi diritti nella telecamera (un po’ come un tempo faceva Di Pietro), presentandosi come uno diverso dagli uomini del Sistema di Palamara. E quindi anche da quelli del fortino milanese. Non ho mai fatto parte di alcuna corrente, dice, e mai lo farò, per questo ho perso molte occasioni di andare a presiedere Procure prestigiose. Poi vi dico anche che ritengo che i membri del Csm debbano entrare per sorteggio e non per traffici o camarille politiche. Se la carica di Procuratore della repubblica di Milano dovesse essere assegnata tramite referendum popolare, Nicola Gratteri avrebbe già detto al suo collega “fatti più in là” e sarebbe già seduto al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano prima ancora che Greco abbia compiuto i 70 anni, età della pensione dei magistrati. Si spezzerebbe così non solo la tradizione almeno trentennale del fortino di Magistratura democratica, ma anche il permanere di quello stile ambrosiano, intriso di fair play istituzionale e garbo politico molto gradito al ceto dei partiti, quelli contigui fin dai tempi di Mani Pulite, naturalmente. Quel rito ambrosiano che indusse il premier Matteo Renzi a ringraziare il procuratore capo Bruti Liberati per aver consentito l’apertura per tempo dell’Expo. Uno sforzo che non ha però salvato il sindaco Sala dall’arrivare poi a una condanna per falso ideologico, infine tamponata dalla prescrizione. Ma il garbo ambrosiano c’era stato. Quello stile oggi è decisamente incrinato. Il procuratore Greco si era fino a poco tempo fa salvato da situazioni come quella di vera sparatoria all’o.k. Corral tra il suo predecessore Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Ed è uscito abbastanza indenne dal libro di Sallusti, anche se con qualche ombra polemica sui colleghi nominati come suoi aggiunti. Palamara è stato garbato nei suoi confronti, e gli ha consentito di continuare a governare la Procura più famosa d’Italia “con la diligenza del buon padre di famiglia”. Ma gli sono esplose tra le mani, in sequenza, prima la vicenda Storari-Pedio-Davigo e poi il processo Eni, la maledizione del tribunale di Milano fin dai giorni di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini. Ma erano altri tempi, quelli, e Francesco Greco c’era, con il procuratore Borrelli e gli altri del pool. Erano gli anni Novanta. Quelli in cui a cadere nella polvere erano i ministri di giustizia. Claudio Martelli con un’informazione di garanzia, Giovanni Conso e Alfredo Biondi per due decreti che avrebbero cambiato in meglio le regole della custodia cautelare e dei reati contro la pubblica amministrazione. Erano tempi in cui bastava una telefonata del procuratore: signor ministro le sto inviando un’informazione di garanzia, e lui si dimetteva. Oppure si concordava la linea con i direttori dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’Unità (che garantiva la complicità del principale partito della sinistra) e il decreto era affossato. O anche si andava in tv con gli occhi arrossati e la barba lunga a dire che senza manette non si poteva lavorare e l’altro decreto cadeva e in successione anche il governo. Bei tempi, quelli. E il capolavoro dell’abbattimento del ministro Filippo Mancuso? Quello fu un vero combinato disposto Procura-Pds. Il guardasigilli “tecnico” del governo Dini, voluto personalmente dal presidente Scalfaro, fu in realtà il più politico e il più coraggioso. L’unico che non si fece mai intimidire dalla potenza degli uomini della Procura milanese, quello che la inondò di ispezioni. La prima dopo il suicidio di Gabriele Cagliari, illuso e poi deluso dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale e suicida dopo 134 giorni di carcere preventivo. Ma poi altre, per verificare se rispondesse a verità il fatto che gli indagati venissero tenuti in carcere fino a che non avessero confessato e fatto anche “i nomi”. I più gettonati erano quello di Craxi, e in seguito quello di Berlusconi. Un modo di procedere confermato dallo stesso procuratore Borrelli, che candidamente dichiarava: noi non li teniamo in carcere per costringerli alla confessione, ma li liberiamo solo se parlano. Il Sistema Lombardo che evidentemente non turbava i sonni dei componenti del Csm, ma anche che piaceva molto ai discendenti di Vishijnsky, il cui partito allora si chiamava Pds, Partito democratico della sinistra, fratello maggiore del Pd. Così fu inaugurata con la defenestrazione del ministro Mancuso la stagione della sfiducia individuale. Con il quarto ministro guardasigilli abbattuto dal potere della Procura di Milano, uno in fila all’altro. Giusto per rinfrescarci la memoria, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, qualcuno ricorda la fine miserrima delle Commissioni Bicamerali? Si potrebbe alzare il telefono e fare due chiamate a coloro che ne furono i presidenti, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Il primo fu apparentemente travolto dall’arresto di suo fratello, ma la verità è che, proprio mentre la Commissione stava timidamente (così lo ricorda anche Marco Boato, che era presente) affrontando il tema della separazione delle carriere, irruppe in aula e fu distribuito a tutti un Fax dell’Associazione nazionale magistrati con decine di firme di toghe, comprese quelle degli uomini del pool, che intimava di non affrontare nella Commissione il tema giustizia. E l’argomento sparì. La seconda Commissione subì i colpi di un’intervista del pm Gherardo Colombo al Corriere della sera, in cui veniva ricostruita la storia d’Italia come pura storia criminale. Una frase andò diritta al cuore del Presidente Massimo D’Alema: state attenti, che di Tangentopoli abbiamo appena sfiorato la crosta. Fu sufficiente, anche se la guerra-lampo durò tredici giorni, e alla fine chi ci rimise non fu, ovviamente l’uomo del pool ma l’incolpevole ministro di Giustizia Giovanni Maria Flick. Bei tempi davvero. Oggi con tre indagati e un ex in crollo di reputazione pare un po’ difficile che la Procura di Milano abbia la forza, non diciamo di far cadere la ministra della Giustizia, ma neanche di bloccare leggi e decreti. Ma il problema è: questa classe politica, che teoricamente dovrebbe essere più forte di quella che mostrò la propria fragilità abrogando l’immunità parlamentare, ha la capacità di cogliere l’attimo? Pare proprio di no. Ma ci saranno i referendum, e forse quella forza la troveranno direttamente i cittadini.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Alessandro Da Rold per “La Verità” il 12 giugno 2021. Alfredo Robledo, storico procuratore di Milano, ha espresso alcune critiche in queste settimane nei confronti l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (lo ha chiamato «Pieranguillo») come nei confronti dell'ex leader dell'Anm Luca Palamara («Il "palamaravirus" è stata un'infezione della magistratura»). Celebre per le sue indagini e la battaglia contro l'ex capo della Procura milanese Edmondo Bruti Liberati, oggi Robledo si ritrova a commentare con La Verità il secondo tempo delle inchieste che gravitano intorno a Piero Amara, l'avvocato siciliano che aveva parlato della loggia Ungheria e che ora si ritrova invischiato nel processo su giacimento nigeriano Opl 245, dove Eni e Shell sono state assolte dal reato di corruzione internazionale «perché il fatto non sussiste». Prima si parlava dei verbali che Paolo Storari aveva consegnato a Davigo, ora l'asticella si è alzata. Si parla di un processo dove l'accusa avrebbe nascosto delle prove agli imputati. «Era chiaro che il problema vero era il processo all'Eni. Perché se avessero esibito gli atti che riportavano le dichiarazioni di Amara nel processo sarebbero stati apportati atti alla difesa. Hanno commesso una scorrettezza enorme».

Non si ricordano casi simili.

«Non li ricordo neanche io. Anche perché devo ricordare che noi, come pubblici ministeri (ride, ndr) siamo un organo di giustizia e quindi abbiamo l'obbligo di cercare le prove anche favore degli imputati. Se ciò è accaduto come si evince dalla stampa questo è un fatto di inaudita gravità». 

Ma possibile che i vertici della Procura di Milano non se ne siano resi conto?

«È evidente che Francesco Greco sapeva benissimo cosa stava succedendo, è pacifico che lo sapesse. Più che altro mi domando se il giovane Spadaro l'abbia ben compreso. Non mi sarei mai aspettato un fatto del genere». 

Quanto è grave?

«Oltre ad essere una violazione dell'etica professionale può altresì configurare un'ipotesi di reato. E poiché la magistratura deve tutelare e garantire i diritti se non la fa viene meno al suo ruolo istituzionale. Se non la magistratura chi garantisce i diritti?» 

Sono già pronte le cause di risarcimento.

«Il comportamento dell'Eni appare conseguente. E secondo me non è per ottenere un risarcimento Ma in realtà costituisce una sorta di assicurazione. Chi vuoi che nei prossimi anni, con questi presupposti, si mette a fare un processo contro l'Eni?» 

 Davigo sulla Stampa di ieri sostiene che lei avrebbe parlato a vanvera chiamandolo «Pieranguillo».

«Il punto è che secondo me Davigo non dice la verità. Ha citato a giustificazione del suo comportamento due circolari, nessuna delle quali c'entra con il fatto di aver ricevuto i verbali da Storari». 

Sostiene anche che nel Csm i segreti durano lo spazio di un mattino.

«Ma il punto è un altro. Davigo non facendo nulla di quello che la legge dice di fare ha consentito che questa vicenda andasse avanti ancora per mesi». 

Ma come finirà? A tarallucci e vino come spesso accade nella magistratura?

«È troppo grave perché finisca a tarallucci e vino. Questa triste vicenda della Procura di Milano non è altro che il naturale epilogo di una Procura i cui vertici erano stati scelti dalle correnti mediante il solito accordo con Palamara». 

Sin dai tempi di Bruti Liberati quindi.

«È la conclusione naturale, con Bruti c'è stato il mio episodio». 

Lo ha ricordato Riccardo Iacona nel suo libro. «Ormai c'è una giustizia prima e dopo Robledo».

«A me è sembrato sempre un passo esagerato. Ma alla fine credo sia proprio così. Dopo l'arrivo di Greco a Milano la Procura ha continuato la sua discesa». 

A novembre Greco andrà in pensione. Chi potrebbe prendere il suo posto?

«Non mi appassionano queste considerazioni. Il problema è che nessuno che venga a fare il capo della Procura di Milano potrà risolvere in breve la situazione. Dal momento che anche molti aggiunti, come si apprende dalla stampa, sono stati nominati con le medesime logiche, con l'eccezione di Tiziano Siciliano». 

Serviva lo scandalo Amara per portare avanti una riforma della giustizia?

«Come dice il Vangelo "occorre che gli scandali avvengano"».

Le manca la giustizia?

«Non mi manca questa magistratura. Mi manca la mia magistratura, ma come cittadino». 

È in atto la nascita di un'associazione alternativa all'Anm. Le hanno chiesto di entrare?

«Vedo con favore la nascita di un organismo alternativo, ma non ho la sindrome di Davigo che continua a voler far parte delle associazioni di magistrati».

Giuseppe Salvaggiulo e Monica Serra per “La Stampa” il 12 giugno 2021. Non ci sono inchieste «truccate», solo indagini ancora in corso. È questa la difesa della procura di Milano davanti alle accuse pesanti che arrivano da Brescia. Dopo che, lunedì scorso, l'aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, che rappresentavano l'accusa nel processo Eni Nigeria, si sono visti perquisire i computer alla ricerca di tutti gli scambi di mail dagli investigatori bresciani. Sono accusati di rifiuto di atti d'ufficio, sulla base delle parole e dei documenti prodotti dal pm Paolo Storari, che nel 2020 indagava sul presunto complotto Eni. E che, con gli accertamenti, avrebbe trovato «prove schiaccianti» a favore degli imputati nel processo in corso, che però i due magistrati avrebbero omesso di portare a conoscenza di Tribunale e difese. Nel febbraio scorso - spiegano i vertici della procura - Storari inviò a De Pasquale un'informativa «in bozza» della Gdf sulle chat sequestrate all'ex manager di Eni Vincenzo Armanna, coimputato e testimone dei pm al processo. Proprio quelle che dimostrerebbero «l'inattendibilità» di Armanna che pagò 50 mila dollari a un poliziotto nigeriano, per convincerlo a testimoniare al processo contro Eni. Il 5 marzo, dodici giorni prima dell'assoluzione degli imputati, De Pasquale e Spadaro mandarono una nota di undici pagine con firma digitale al procuratore Francesco Greco, con i motivi, «in fatto e in diritto», per cui contestavano quell'informativa. Che peraltro - stando alla tesi della Procura - si basava su «dati parziali» estrapolati dal cellulare di Armanna, su cui la consulenza è invece ancora in corso. Per i due pm la stessa traduzione delle parole usate da Armanna in quelle chat non è così univoca: si parlerebbe del pagamento di un imprecisato «file» che al manager stava a cuore. «Troppo avventate e incomprensibili» sarebbero state, per la Procura, le conclusioni a cui era giunto Storari quando, a fine 2020, aveva inviato cento pagine di richiesta di misura cautelare per Amara e Armanna, che voleva arrestare per calunnia. E anche le tante altre sue mail, a De Pasquale, Pedio e Greco, sarebbero state «informali e non ben circoscritte». Le indagini sul finto complotto Eni sarebbero, insomma, ancora in corso, e gli esiti non chiari come si vorrebbe far credere. Sul fascicolo ora pende però anche la mannaia di una possibile avocazione da parte della Procura generale che potrebbe decidere entro la fine del mese. Forse anche per questo ieri la pg Francesca Nanni ha incontrato nel suo ufficio proprio Storari. Sullo sfondo il prossimo pensionamento di Greco, amareggiato per l'intera situazione che si è abbattuta sulla sua Procura. E che sempre più rischia di influenzare il nome del successore. Nonostante l'autorevolezza dell'aggiunto Maurizio Romanelli, magistrato esperto e molto stimato dai colleghi, per mettere fine alla guerra in atto, al Csm potrebbero decidere di puntare su un «papa straniero», come mai è accaduto nella storia della procura di Milano.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 12 giugno 2021. Il giudice Marco Tremolada, presidente del processo sulle tangenti Eni-Nigeria, è troppo appiattito sulle difese degli imputati Eni e perciò va fatto astenere dal processo che sta per concludersi: in quell'inizio 2020 chi lo avrebbe teorizzato durante una riunione in Procura a Milano? Il procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale. A Roma il procuratore Michele Prestipino e a Brescia il procuratore Francesco Prete hanno raccolto a verbale questo grave (se vero) racconto che il pm Paolo Storari, nei due interrogatori di maggio, ha collocato durante una riunione tra De Pasquale, il procuratore Francesco Greco, la sua vice Laura Pedio e i pm Storari e Sergio Spadaro tra fine gennaio/inizio febbraio 2020. Riunione a ridosso della scelta di Greco e Pedio - tra tutti i verbali segreti resi dall'avvocato Eni Piero Amara su decine di persone nel dicembre 2019/gennaio 2020, a lungo trattati dai capi della Procura con rivendicata circospezione verso la controversa affidabilità di Amara - di utilizzare e inviare invece già a gennaio 2020 alla Procura di Brescia (competente sulle toghe milanesi) proprio solo un omissis di Amara sul Tremolada, che poi Brescia archivierà «a ignoti» come voce di terza mano priva di valore oltre che di riscontri. E riunione poco precedente all'udienza del 5 febbraio 2020 in cui, finita l'istruttoria del processo Eni-Nigeria, i pm De Pasquale e Spadaro tentarono invano di far ammettere dal Tribunale, a riscontro dell'attendibilità dell'accusatore di Eni Vincenzo Armanna, la deposizione in extremis di Amara su «interferenze Eni su magistrati milanesi in relazione al processo», accreditate nell'omissis di Amara evocato ma non depositato dai pm, senza cenni al suo invio già a Brescia. A carico di Storari, che già da ottobre 2019 aveva avvertito i colleghi che fosse «dannoso continuare a interrogare Armanna», e che è già indagato per «rivelazione di segreto d'ufficio», il pg della Cassazione, Giovanni Salvi, ha intanto avviato «azione disciplinare» per aver consegnato ad aprile 2020 i verbali di Amara sulla «loggia Ungheria» all'allora consigliere Csm Piercamillo Davigo, che poi ne parlò nel Comitato di presidenza Csm (al vicepresidente Ermini e allo stesso pg Salvi) per sbloccare la paralisi di cui Storari tacciava i propri capi. Oltre a censurare questa modalità come del tutto inidonea a informare un organo istituzionale, sulla scorta di una relazione di Greco del 7 maggio Salvi contesta a Storari d'«aver accusato Greco e Pedio di inerzia nelle indagini pur sapendo invece le attività in corso e non avendo espresso dissenso prima di aprile 2020», e d'aver con la consegna a Davigo cercato di «condizionare l'attività della sua Procura». Oltre che di «non essersi astenuto» (visto che era «in conflitto di interessi») dall'indagine nata dopo che a ottobre 2020 Il Fatto portò ai pm gli stessi verbali spediti anonimi (come emerso un mese fa) dall'ex segretaria di Davigo; e d'aver affidato «solo l'8 marzo 2021» la perizia informatica decisa con Pedio a gennaio.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 10 giugno 2021. Tanti anni fa Francesco Greco, oggi procuratore di Milano, disse che l'inchiesta Mani pulite non era servita tanto a sanzionare dei reati, quanto a «risolvere il problema per avere un'Italia migliore». E per avere un'Italia migliore, il capitalismo doveva capire che cosa era e che cosa voleva. Pochi mesi dopo, il pm Fabio De Pasquale sintetizzò meglio: «Il capitalismo è una cosa sporca». Non so se i due, venticinque anni più tardi, perseguano ancora l'obiettivo un po' esorbitante, perlomeno rispetto ai loro compiti, di un'Italia migliore e meno capitalista, ma so che da allora indagano e processano in particolare l'Eni con risultati parecchio altalenanti. L'Eni, cioè l'azienda strategicamente più importante del Paese. L' ultima sentenza, sull' ipotesi di corruzione internazionale per il petrolio in Nigeria, è andata male (anzi bene): tutti assolti, non ci furono tangenti. Ieri sono uscite le motivazioni di sentenza in cui i giudici ricordano un video scartato dalla procura, e fortuitamente scoperto da un avvocato in tutt' altro processo, che poi ha fatto un gran comodo alla difesa. Una scelta «incomprensibile», scrivono i giudici, e se fosse andata a buon fine non avremmo conosciuto «un dato processuale di estrema rilevanza». Il pm De Pasquale ha detto che a lui tanto rilevante non sembrava, e chiusa lì. C' è poco da aggiungere: l'indipendenza della magistratura risparmia dall' incomodo di essere valutati, se non dal Csm che sappiamo. Però intanto c' è un sindaco indagato perché un bambino all' asilo s' è schiacciato le dita in una porta. Diciamo così: il problema di avere un' Italia migliore non parrebbe risolto.

Stefano Feltri demolito da Filippo Facci: "Pagato dal suo principale oppositore", la vergogna sul caso Eni-Descalzi. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 13 giugno 2021. Ha tanto l'aria di articolo per addetti ai lavori, questo: tanto per scoraggiarvi. In secondo luogo, c'è un demenziale giro di parole che rende tutto un po' ridicolo e fa passare la voglia: dovremmo scrivere, ossia, che i quotidiani che hanno combattuto la battaglia più forsennata contro l'Eni di Claudio Descalzi (recentemente assolto) sono Il Fatto e Domani, ma questo essenzialmente attraverso un giornalista unico che si chiama Feltri (Stefano, che no, non è parente, perdio se non lo è) e che è passato dalla vicedirezione del Fatto alla direzione di Domani (che è un quotidiano voluto da Carlo De Benedetti, per i tanti che non lo sapessero) e quindi, insomma: dovremmo commentare che Il Fatto abbia masochisticamente titolato «il fatto non sussiste» nel giorno dell'assoluzione di De Scalzi (17 marzo) e che su Domani, l'altro ieri, cioè dopo l'uscita delle motivazioni della sentenza, non è uscito proprio nulla, tanto che gli addetti ai lavori, di fronte a questo nulla pubblicato da Domani, si chiedevano l'altro ieri: «Forse domani?». In effetti qualcosa è uscito ieri. Nel caso, rileggete. Il Fatto, il giorno successivo all'assoluzione, perlomeno aveva la notizia in prima pagina: anche se Marco Travaglio ha preferito occuparsi dei colleghi che a suo dire parlavano troppe bene di Mario Draghi, anche se il titolone d'apertura era «Infiltrati di Salvini nel Cts dei migliori». Invece, quel giorno, il quotidiano Domani di Feltri (Stefano) in prima titolava «Le trombosi rare tra i vaccinati, ecco cosa sappiamo davvero»: e l'altro ieri, su Domani, non una riga sulle motivazioni della sentenza legata al processo che li aveva tanto infiammati: però ecco, a pagina 7 c'era un'apertura a tutta pagina sui maiali da allevamento. 

DIRITTO SPECIALE

Su Domani, in pratica, sono passati direttamente all'indomani (ieri) e hanno saltato il giorno delle motivazioni della sentenza, passando direttamente alle sue conseguenze. Non una parola circa la pretesa dell'accusa di «abbassare le pretese nella valutazione della prova indiziaria» (che già «prova indiziaria» suona da ossimoro) e la pretesa di proporre «una sorta di diritto penale speciale» per sopperire alla mancanza di sostanza, spingendosi a derogare dall'onore della prova a carico dell'accusa: come se gli imputati dovessero dimostrare la loro innocenza e non i pm la loro colpevolezza. Poi nell'articolo ci sono tutte le altre cosette per cui i pm dell'accusa risultano indagati per rifiuto e omissione di atti d'ufficio: si passa direttamente a parlare di questa indagine (come se non c'entrasse con la precedente) e l'inizio è questo: «L'accusa sarebbe». No, non sarebbe: è. Poi si parla di «questo presunto complotto», laddove secondo il cronista «c'è da dire che lo stesso collegio ha respinto la richiesta della procura di sentire come testimone proprio Amara, che avrebbe potuto raccontare molte cose, incluso il contenuto del video».

Il cronista, dunque, spiega ai giudici come fare il giudice e che un teste, magari, avrebbe potuto raccontare quello che gli stessi pm non hanno voluto approfondire, anzi, secondo le accuse hanno nascosto. Finalone dell'articolo: «Pacco, contro pacco e doppio paccotto avrebbe detto Edoardo De Crescenzo. Ma così a finire incartata sarà tutta la magistratura». Eh, signora mia. Tutta, proprio tutta la magistratura. Per via di De Pasquale. E pensare che doveva essere «la più grande mazzetta nella storia d'Italia», e che i soliti marcotravaglio (è un genere, ormai) auspicavano pene esemplari. Nell'aprile del 2020 il direttore del Fatto giunse ad elencare i «dieci motivi» (o erano cinque?) per cui Claudio Descalzi meritava il licenziamento, e ovviamente c'era, al primo posto, il suo ruolo da tangentaro che ora «non sussiste». Travaglio poi si dava il cambio col suo secondino Gianni Barbacetto (un'esistenza passata a invocare la galera altrui) ma adesso è anche ora di parlare di Feltri (Stefano) che da vicedirettore del Fatto, e poi su Domani, ha scritto le peggio cose su un potere Eni che avrebbe voluto, dapprima, che passasse nelle mani dei Giuseppe Conte e dei Cinque Stelle, dopo che già un membro del consiglio di amministrazione de Il Fatto Quotidiano, Lucia Calvosa, era diventata presidente dell'Eni: chissà in quale quota politica. Complicato? Ma no.

GIRAVOLTA GRILLINA

Il problema è che a un certo punto anche i grillini si sono sfilati dalla battaglia contro Claudio Descalzi: e così Travaglio e Feltri (Stefano) sono rimasti un po' soli con le loro cronache faziose. Feltri (Stefano) proprio solo non era: questo ragazzino modenese e bocconiano, riuscito a transitare dal Foglio al Riformista al Fatto (l'errore sta nei primi due) dall'estate 2019 ha continuato a scrivere per Marco Travaglio ma ha anche accettato di trasferirsi alla Chicago University (Stigler Center) per dirigere il blog ProMarket, questo su proposta di Luigi Zingales, ex consigliere di amministrazione di Eni (tu guarda) e grande accusatore di Descalzi (tu guarda) il quale Zingales, i vari accusatori, avrebbero voluto far sedere giusto al posto di Descalzi. Tu guarda. Detto in altri termini: ad attaccare De Scalzi era un giornalista a libro paga del principale oppositore di De Scalzi. Quando si dice il giornalismo indipendente. E allora, marciando verso l'obbiettivo, tutto si può fare: persino dar credito al grande accusatore dell'Eni Pietro Amara, sì, quello del verbale sulla loggia massonica «Ungheria» (verbali che al Fatto si sono rigirati tra le mani per mesi) e fottendosene altamente che questo avvocato Amara fosse condannato in giudicato per corruzione. A Feltri (Stefano) importavano altre cose: per esempio, oltreché all'ultraliberista Luigi Zingales, di piacere in particolare a Carlo De Benedetti che aveva già cercato di piazzarlo a Repubblica, e infine l'ha piazzato a dirigere Domani per rubare qualche lettore ancora Repubblica: proprio come ha fatto il Fatto, che ancora sussiste. Anche Domani sussiste ancora. Sino a quando? Forse domani.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 10 giugno 2021. Nel processo Eni-Nigeria è stata «incomprensibile la scelta della Procura di non depositare agli atti» una prova di «estrema rilevanza» per le difese perché mostrava come Vincenzo Armanna, coimputato ex dirigente Eni di cui i pm strenuamente valorizzavano le accuse a Eni e all'a.d. Claudio Descalzi, due giorni prima di presentarsi spontaneamente in Procura il 30 luglio 2014 pianificasse di «ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l'intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare "una valanga di merda" e "un avviso di garanzia" ad alcuni dirigenti della compagnia». Contenuta nelle quasi 500 pagine di motivazione dell'assoluzione lo scorso 17 marzo di tutti i 15 imputati, la severa censura muove dall'udienza del 23 luglio 2019, allorché era stato il difensore di un coimputato Eni a far presente di aver trovato per caso, in altro procedimento in un'altra città, la videoregistrazione di un incontro con Armanna effettuata in maniera clandestina il 28 luglio 2014 da Amara in una società dell'imprenditore Ezio Bigotti. Al Tribunale il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva «confermato di esserne in possesso già da tempo, ma di non averlo portato a conoscenza delle difese e del Tribunale perché ritenuto non rilevante»: «interpretazione banalizzante», la giudica ora il Tribunale, che rimarca come «una simile decisione, se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alle difese e al Tribunale di un dato di estrema rilevanza». L'accusa dei pm a Eni e Shell, ai loro vertici e intermediari, era corruzione internazionale: ma i giudici Tremolada-Gallina-Carboni colgono «non condivisibili profili dell'imputazione» tra «contraddittorietà», «confusione nella sovrapposizione di accordi leciti e illeciti», «mancata distinzione tra corruttori e intermediari privati». Fattori che finiscono per indebolire anche «un indizio certamente grave della destinazione illecita del denaro» come il fatto che 500 milioni, metà prezzo pagato da Eni e Shell al governo nigeriano per acquistare nel 2011 la licenza petrolifera Opl 245 detenuta dietro prestanome dall'ex ministro del Petrolio Dan Etete, fossero stati cambiati in contanti dal fiduciario dei politici, Aliyu. In requisitoria De Pasquale sostenne che la controritrattazione della ritrattazione di Armanna dovesse essere valutata a carico di Descalzi come prova dell'aver tentato di far ritrattare Armanna tramite l'avvocato esterno Eni Piero Amara (arrestato martedì a Potenza) e il capo del personale Eni Claudio Granata. Ma il Tribunale, in scia al pm per cui era «non esagerato dire che gran parte del racconto di Armanna è non solo vero, ma pacificamente vero»), esamina una a una le dichiarazioni di Armanna per notare come invece o siano «pacificamente false» o «presentino un nucleo di verità storica» ma «accostate in modo allusivo per attribuire alone di sospetto a situazioni fisiologiche». Descalzi e Granata sono da tempo indagati per depistaggio, ma, «qualunque sia l'esito», per i giudici «in nulla potrebbe incidere sull'inattendibilità intrinseca di Armanna». Che «certo non avrebbe potuto essere sanata dalla testimonianza di Amara», richiesta «con evidente irritualità» dai pm il 5 febbraio 2020 in extremis su «interferenze della difesa Eni e di taluni imputati nei confronti di magistrati milanesi con riferimento al processo». Tacendo al Tribunale di aver all'epoca già inviato alla Procura di Brescia (che, competente sulle toghe milanesi, poi lo archivierà a ignoti) un vago «de relato» di terza mano di Amara proprio sul presidente del collegio. Ardita è invece la proiezione del Tribunale quando si spinge a ritenere che in teoria, quand'anche su Armanna ci fosse stata interferenza, sarebbe interpretabile o come depistaggio o «come il comportamento di un amministratore che, pur di proteggere la propria compagine dalle calunnie rivoltele, accetta di scendere a patti con il ricattatore».

Indagate le toghe che volevano incastrare l'Eni. Andrea Muratore il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. De Pasquale e Spadaro sotto indagine a Brescia: cosa si cela dietro le omissioni nell'impianto accusatorio sul caso Eni? Il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro sono sotto indagine da parte della Procura di Brescia per questioni relative alla costruzione dell'impianto accusatorio nel processo Eni-Nigeria per il quale avevano chiesto pesanti condanne per l'ad del Cane a sei zampe, Claudio Descalzi, per il suo predecessore Paolo Scaroni, per diversi manager del gruppo italiano, dell'olandese Shell e del governo di Abuja relativamente a una presunta tangente che le due majors avrebbero pagato per una concessione petrolifera nel Paese. I giudici di Milano nelle scorse settimane hanno completamente prosciolto gli accusati perchè l'accusa non è stata in grado di fornire le prove della natura concreta dell'esistenza della tangente da 1,1 miliardi di dollari che sarebbe stata versata alla Nigeria. E, anzi, nella giornata di ieri la pubblicazione delle motivazioni della sentenza ha portato alla luce diverse problematiche nella costruzione dell'impianto accusatorio. Come riporta Repubblica, l'ipotesi su cui il tribunale bresciano di Via Gambara sta indagando per verificare le posizioni di De Pasquale e Spadaro è quella di rifiuto d'atti d'ufficio. Il quotidiano diretto da Maurizio Molinari precisa che da quanto ha potuto apprendere "l'iscrizione risalirebbe a una decina di giorni fa dopo l'interrogatorio del pm Paolo Storari, pure lui indagato a Brescia per il caso dei verbali dell'avvocato Amara e i contrasti con i vertici del suo ufficio". Amara nel 2014 avrebbe ripreso clandestinamente Vincenzo Armanna, ex manager di Eni licenziato dal Cane a sei zampe divenuto poi l'accusatore principe nel caso costruito da De Pasquale e Spadaro, producendo una registrazione in cui Armanna dichiara esplicitamente di essere disposto a ricattare i vertici della società petrolifera e di esser pronto a coinvolgere i pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia" ai top manager del gruppo. Tale prova demolirebbe, secondo le motivazioni della sentenza di assoluzione di Descalzi e Scaroni, la credibilità di Armanna come accusatore. E anzi i membri del collegio giudicante che ha assolto i manager Eni hanno ritenuto nelle motivazioni della sentenza "incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati". Su questo ora, dunque, indagherebbe per far luce sull'accaduto la procura di Brescia, a cui spetta la competenza territoriale per verificare eventuali problematiche disciplinari legate al principale tribunale lombardo. Un caso che riporta alla luce diverse, problematiche questioni giudiziarie legate all'attenzione, spesso definita morbosa, di diversi Pm milanesi per il mondo delle partecipate pubbliche. Il Riformista ha in particolar modo ricordato che De Pasquale avrebbe da tempo un'attenzione particolare per il Cane a sei zampe, avendo indagato su Eni dai tempi dell'arresto del presidente Gabriele Cagliari, morto suicida a San Vittore il 20 luglio 1993, nel pieno di Mani Pulite. De Pasquale ha subito nel caso Nigeria la sua seconda debacle dopo quella sul processo Eni-Saipem-Algeria, in cui non riuscì tra prima sentenza e appello a veder confermata una sua tesi riguardante una possibile tangente pagata da Algeri in un processo che vedeva coinvolto anche allora Paolo Scaroni, uscito pulito e completamente assolto da ogni accusa come accaduto ora. La chiamata in causa da parte del Tribunale di Brescia dopo la definizione delle motivazioni della sentenza implica che qualcuno vuole approfondire le motivazioni che hanno portato ad accuse tanto circostanziate e a indagare in profondità. Ora più che mai, questo è necessario per capire in che misura i Pm applichino, o piuttosto dimentichino, i principi guida del garantismo giudiziario nel costruire i loro "teoremi".

Ipotesi di rifiuto d'atti d'ufficio. Scandalo Eni-Nigeria e prove nascoste, indagati i pm De Pasquale e Spadaro. Redazione su Il Riformista il 10 Giugno 2021. La procura di Brescia, che per competenza si occupa delle inchieste sui magistrati di Milano, ha indagato il procuratore aggiunto della procura meneghina Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio in relazione al processo Eni-Nigeria di cui ieri il Tribunale ha depositato le motivazioni dell’assoluzione di tutti gli imputati. L’iscrizione nel registro degli indagati – secondo quanto riferisce l’Ansa – risalirebbe a una decina di giorni fa dopo l’interrogatorio del pm Paolo Storari, anche lui indagato a Brescia per il caso dei verbali dell’avvocato Amara e i contrasti con i vertici del suo ufficio. La segnalazione del procedimento a carico dei due magistrati è arrivata al procuratore generale della Cassazione Salvi, al Csm e al Ministero della Giustizia. La Procura di Milano ha nascosto al Tribunale una prova fondamentale che scagionava lo stesso Descalzi. Si tratta di un filmato nel quale il principale teste di accusa dichiarava che intendeva accusare i vertici dell’Eni per ricattarli, e minacciava di trascinarli nel fango. Tra i comportamenti dei pm messi sotto osservazione, secondo quanto apprende l’Agi  c’è “anche la vicenda del video non depositato al processo Eni”, circostanza emersa ieri dalle motivazioni del verdetto assolutorio. Ma “non è questo l’episodio più importante” sulla cui base i due magistrati sono stati indagati. Lo scorso 17 marzo 2021, la settima sezione penale del Tribunale di Milano ha assolto, in primo grado, perché “il fatto non sussiste” tutti e tredici gli imputati nel processo Eni-Nigeria, accusati di corruzione internazionale relativamente ai diritti di esplorazione del giacimento “Opl245”. Assolti l’attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, l’ex numero uno, Paolo Scaroni, l’ex responsabile operativo del gruppo di San Donato nell’Africa sub-sahariana Roberto Casula, l’ex manager della compagnia italiana nel Paese africano Vincenzo Armanna, l’ex manager di Nae, controllata Eni in Nigeria, Ciro Antonio Pagano, l’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete. E poi ancora Luigi Bisignani, il russo Ednan Agaev e Gianfranco Falcioni, quest’ultimo imprenditore ed ex vice-console in Nigeria, l’ex presidente di Shell Foundation Malcom Brinded e gli ex dirigenti della compagnia olandese Peter Robinson, Guy Jonathan Colgate e John Coplestone. Assolte anche le due società – Eni e Shell – , imputate per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti.

Maurizio Belpietro per “la Verità” l'11 giugno 2021. C'è una montagna di milioni dietro la vicenda che ha portato la Procura di Brescia a indagare per rifiuto di atti d' ufficio i due pm che hanno sostenuto la pubblica accusa nel processo Eni. Ma la montagna di milioni non è quella di una tangente che il gruppo petrolifero avrebbe pagato ad alcuni esponenti politici nigeriani per ottenere la concessione di estrarre il greggio. No, quella vagonata di soldi ipotizzata dalla Procura di Milano semplicemente non esiste e lo hanno stabilito i giudici del Tribunale del capoluogo lombardo, con una sentenza che ha assolto i vertici del cane a sei zampe perché il fatto non sussiste. La montagna di milioni di cui parlo è quella che i testimoni usati dalla Procura di Milano per processare i capi di Eni hanno accumulato negli anni e nascosto all' estero. Sì, se non si conosce questo tassello della storia non si può capire tutto il resto, comprese le parole con cui Vincenzo Armanna, cioè uno dei due testi chiave del procedimento, minaccia di far arrivare un avviso di garanzia ai vertici del gruppo petrolifero, per spazzare via i capi della Nigeria che intralciano i suoi affari. La storia è ovviamente quella del video «dimenticato» dai pm di Milano, una registrazione attraverso la quale emerge un disegno che punta a gettare discredito sui manager dell'azienda, giudicati un ostacolo ai progetti dello spregiudicato gruppo di affaristi. Tutto ha inizio nel 2014, quando Armanna, ex manager di Eni, davanti ai magistrati di Milano mette a verbale le accuse contro i suoi capi. È quella l'origine della madre di tutte le tangenti, una super mazzetta che secondo il dirigente reo confesso sarebbe stata pagata dal gruppo petrolifero in Nigeria. I pm di Milano aprono un fascicolo e indagano Claudio Descalzi, amministratore delegato del cane a sei zampe, e pure il suo predecessore Paolo Scaroni, oltre a un certo numero di alti dirigenti. Inizia un'inchiesta che porterà al processo conclusosi poche settimane fa con l'assoluzione di tutti gli imputati. Un processo imbarazzante, dove i testimoni si contraddicono, in qualche caso spariscono, altre volte raddoppiano le accuse per cercare un rilancio. La sentenza del Tribunale di Milano demolisce l'indagine e mette in luce l'inattendibilità degli accusatori. Ma soprattutto punta il dito su una curiosa dimenticanza, ovvero sul video che fin dall' inizio avrebbe consentito di valutare diversamente i testimoni chiave dei pm. Una registrazione di cui la procura disponeva, ma che stranamente non venne prodotta nel processo e che, solo per caso, è stata recuperata da uno dei legali degli imputati, il quale peraltro, dopo aver fatto la scoperta di quel supporto con la viva voce di Vincenzo Armanna, finisce indagato, accusato da Piero Amara, ossia dal sodale di Armanna. Cioè, i magistrati avevano una prova che scagionava i vertici dell'Eni facendoli apparire vittime di una manovra degli accusatori, ma non l'hanno ritenuta utile, preferendo dare credito ai testimoni. La Procura, tuttavia, non ha dimenticato solo il video, ma pure la montagna di milioni che - questa sì - gli accusatori hanno accumulato all' estero. Già, perché il gruppetto si dà da fare per destabilizzare i vertici di Eni dato che i capi sono d' intralcio ai suoi affari. E quali sono queste operazioni? La difesa ha prodotto nel processo fatture per decine di milioni transitate per conti correnti a Dubai e frutto di strane triangolazioni. Tra queste, un traffico di petrolio iraniano soggetto a embargo che il sodalizio cerca di piazzare proprio a Eni, riuscendo in parte a farsi pagare. Ma ci sono anche partite di polietilene e di nafta, sempre di provenienza sospetta. Un mucchio di soldi che, documenti alla mano consegnati ai pm, viene stimato fra i 70 e i 100 milioni, ma che sorprendentemente non si cerca di bloccare, né si tenta di capire come siano stati accumulati. Possibile che i magistrati abbiano escluso che si trattasse di fondi frutto di operazioni illecite? Possibile che non abbiano valutato come la volontà di rovesciare una «valanga di merda» sui vertici dell'Eni avesse uno scopo preciso, cioè quello di tutelare i propri interessi e i propri soldi? In tutti questi anni non risulta che siano state disposte indagini e nemmeno siano stati messi in atto tentativi di sequestro di questo patrimonio. Eppure, la Procura disponeva delle fatture, dei numeri di conto corrente su cui i soldi erano stati accreditati. Hanno ritenuto il tutto poco interessante? A dire il vero, la necessità di difendere il tesoro a me sembra l'unica spiegazione di tutto ciò che è successo. Di una tangente che non esisteva se non nella testa degli accusatori, di una determinazione a «cambiare i capi dell'Eni per sostituirli con uomini di loro gradimento», come rivela il video dimenticato. Adesso, su tutto ciò indagheranno i pm di Brescia, che ieri hanno «perquisito» i computer dei colleghi di Milano. Speriamo che serva a fare luce su tutta la vicenda, ma in particolare sulle manipolazioni con cui personaggi come Amara usano le Procure di mezza Italia.

Un nuovo capitolo Magistratopoli. Scandalo Eni Nigeria, il Pm nascose la prova che scagionava i vertici. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Giugno 2021. La Procura di Milano – che ha portato a processo e accusato di reati molto gravi i vertici dell’Eni, compreso l’amministratore Claudio Descalzi – ha nascosto al Tribunale una prova fondamentale che scagionava lo stesso Descalzi. Si tratta di un filmato nel quale il principale teste di accusa dichiarava che intendeva accusare i vertici dell’Eni per ricattarli, e minacciava di trascinarli nel fango. Il filmato risale esattamente a due giorni prima del momento nel quale l’accusatore si presentò in procura per accusare l’Eni e aprire il famoso scandalo Eni Nigeria. L’ufficio del Pubblico ministero possedeva questo filmato ma non lo ha esibito al processo, nascondendolo alla difesa e ai giudici. È stato uno degli avvocati della difesa che lo ha scoperto per caso, depositato agli atti di un altro processo in un’altra città, e ne ha chiesto l’acquisizione. Il Pm, in particolare il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, ha chiesto che non fosse acquisito perché – ha sostenuto – era di scarsa rilevanza. la Corte invece ha imposto l’esame del filmato e lo ha considerato decisivo per scagionare gli accusati. Tutto questo è scritto, anche con una certa indignazione, nelle motivazioni della sentenza di assoluzione (emessa il 17 marzo) che sono state rese pubbliche ieri. Il filmato fu realizzato (di nascosto) dal famoso avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, e contiene una dichiarazione di Vincenzo Armanna – che appunto è il teste d’accusa – il quale – è scritto nella sentenza – dichiarava di pianificare ”un ricatto ai vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai Pm milanesi per far arrivare una “valanga di merda” e un avviso di garanzia ad alcuni dei dirigenti apicali della compagnia”. Nella motivazione dell’assoluzione c’è anche scritto testualmente: “Risulta incomprensibile la scelta del Pubblico ministero di non depositare tra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’attività inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati”. Una frustata in faccia alla Procura. Il Procuratore aggiunto del quale stiamo parlando è un personaggio molto noto in magistratura. Ha al suo attivo due procedimenti giudiziari importantissimi e contestatissimi. Quello che nel 1993 portò al suicidio dell’allora amministratore dell’Eni Gabriele Cagliari, e quello che a partire dal 2001 portò all’unica condanna subita da Silvio Berlusconi nel corso dei circa 70 processi che ha subito, quella per l’affare Diritti-Mediaset, stranota per la sentenza della Cassazione – quella che uno dei giudici sostenne fosse stata la decisione di un “plotone di esecuzione” – e che ancora è sotto la lente di ingrandimento del tribunale di Brescia e della Corte di giustizia europea. Stavolta De Pasquale è stato trattato con una certa ruvidezza dai giudici. I quali sembrano emettere, insieme alla sentenza di assoluzione per gli imputati, anche una sentenza di condanna ferma, e abbastanza sdegnata, per i Pm della Procura. È un nuovo capitolo di magistratopoli. Certo, ormai nessuno più si stupisce. Però a me pare che risulti sempre più chiaro come la degenerazione nella magistratura non riguardi solo i sistemi di spartizione del potere, ma tocchi direttamente il funzionamento della giustizia. In genere, quasi sempre, a danno degli imputati. Nel caso del quale stiamo parlando, probabilmente, se un avvocato non avesse scovato fortunosamente il filmato, ci sarebbe stata la condanna degli imputati. Con effetti devastanti per le loro vite, e forse anche per l’Eni. Succede spesso? Succede anche in altri processi che i Pm celino elementi di prova o indizi favorevoli agli imputati? Io penso di sì. Ed è molto difficile che questo vizio possa cessare se non c’è nessun modo per controllare il Pm. Voi credete che i Pm che hanno nascosto il filmato pagheranno per questo loro gravissimo errore professionale? Io sono pronto a scommettere che non pagheranno. Resteranno al loro posto, anche di altissima responsabilità, e potranno continuare a sbagliare e a influenzare negativamente i propri colleghi. È questo il prezzo che dobbiamo pagare alla sacra religione dell’indipendenza della magistratura intesa come diritto alla assenza di ogni controllo? Beh, allora non assomiglieremo mai agli altri paesi occidentali, dove esiste da molti decenni lo stato di diritto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Sentenza Eni: “I pm nascosero il video che scagionava gli imputati”. “I pm nascosero un video favorevole imputati”. Iniziano così, con una vera e propria bomba, le motivazioni della sentenza con cui i giudici hanno assolto tutti gli imputati per il caso della presunta e mai provata tangente Eni/Shell-Nigeria. Il Dubbio il 9 giugno 2021. “I pm nascosero un video favorevole imputati”. Iniziano così, con una vera e propria bomba, le motivazioni della sentenza con cui i giudici hanno assolto tutti gli imputati per il caso della presunta e mai provata tangente Eni/Shell-Nigeria. Una sentenza durissima che inchioda i pm milanesi e che di certo lascerà lunghi strascichi polemici. Quel video, secondo i giudici, avrebbe consentito di capire come alla base delle accuse contro i vertici Eni da parte di Amara – ancora lui – ci fosse un vero e proprio ricatto. E lo stesso Armanna, il grande accusatore dei vertici Eni, è ritenuto dai giudici del tribunale di Milano “inattendibile” visto che ha reso dichiarazioni ondivaghe. In particolare, nelle motivazioni della sentenza di primo grado che ha portato all’assoluzione di tutti gli imputati, si sottolinea il suo “atteggiamento opportunista” che rivela una “personalità ambigua, capace di strumentalizzare il proprio ruolo processuale a fini di personale profitto e denota un’inattendibilità intrinseca che certamente non avrebbe potuto essere sanata dalla testimonianza di Piero Amara”. Nella ricostruzione la corte ricorda come nell’udienza del 23 luglio 2019 si apprende dell’esistenza di una videoregistrazione effettuata di nascosto dall’avvocato Piero Amara – alla ribalta per altre vicende di cronaca giudiziaria – relativa a un incontro del luglio 2014 in cui emergono le intenzioni di vendetta di Armanna, legale da poco licenziato da ENI. “Risulta incomprensibile – scrivono i giudici – la scelta del pubblico ministero di non depositare” il video con il rischio di eliminare dal processo un dato di “estrema rilevanza”.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 9 giugno 2021. La Procura di Milano ha celato al Tribunale di Milano una videoregistrazione su Vincenzo Armanna (effettuata in maniera clandestina il 28 luglio 2014 dall’avvocato esterno Eni Piero Amara in una società dell’imprenditore Ezio Bigotti) di cui la Procura era da tempo in possesso e che costituiva una prova rilevante a discarico degli imputati poi del processo sulle tangenti Eni-Nigeria: rilevante perché mostrava come, due giorni prima della presentazione spontanea di Armanna in Procura il 30 luglio 2014, l’ex manager Eni, che nel dibattimento è stato coimputato ma anche accusatore strenuamente valorizzato dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro di Eni e dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, all’epoca pianificasse di «ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di merda» e «un avviso di garanzia» ad alcuni dirigenti apicali della compagnia. È la severa censura che i giudici del processo Eni-Nigeria muovono ai pm nelle 500 pagine di motivazione (depositata oggi) dell’assoluzione lo scorso 17 marzo di Eni e Descalzi (oltre che di tutti gli altri imputati anche di Shell) dall’accusa di corruzione internazionale per il miliardo e 92 milioni di dollari pagati al governo nigeriano per l’acquisizione nel 2011 della licenza petrolifera Opl245, detenuta dietro la prestanome società Malabu dall’ex ministro del Petrolio Dan Etete. Al punto che al presidente Marco Tremolada, e ai giudici a latere Mauro Gallina e Alberto Carboni — che come raramente accade firmano la motivazione tutti e tre quali estensori della sentenza — «risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati. Una simile decisione processuale, se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto — scandisce il Tribunale — la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza». Nell’udienza del 23 luglio 2019 era stato uno dei difensori del coimputato Eni Roberto Casula a far presente che per caso, cioè assistendo un altro cliente in un’altra città in un altro procedimento, agli atti aveva trovato depositato in quel procedimento, da un’altra autorità giudiziaria, una videoregistrazione che ad apparente insaputa di Armanna era stata fatta il 28 luglio 2014 di un suo incontro nei locali della società STI spa dell’imprenditore Ezio Bigotti con l’allora avvocato esterno Eni per le questioni ambientali Piero Amara (poi più volte indagato e condannato, l’altro ieri riarrestato dai magistrati di Potenza, e al centro a Milano di aspre diversità di vedute tra il pm Storari e i pm De Pasquale-Pedio su quanto incisivamente saggiare o meno le sue dichiarazioni sull’associazione segreta «Ungheria»), oltre che con Andrea Peruzy, segretario generale della Fondazione Italianieuropei, a dire di Armanna vicina a Massimo D’Alema, e con Paolo Quinto, qualificato da Armanna come «capo della segreteria di Anna Finocchiaro». In quella videoregistrazione, descrive il Tribunale, si vedeva che Armanna «aveva interesse a “cambiare i capi della Nigeria” (in Eni) per sostituirli con uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari petroliferi che aveva in tandem con Amara; e che lo strumento per attuare questo piano era proprio l’“adoperarsi” per gettare discredito sulle persone giudicate di ostacolo e “far arrivare loro un avviso di garanzia”». Quando in quell’udienza del 23 luglio 2019 il Tribunale sollecitò la Procura a prendere posizione sulla questione posta dalla difesa di Casula, De Pasquale, prima di depositare infine il video, «confermò di essere in possesso del documento già da tempo, ma aggiunse di non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuto non rilevante». Disse: «Il motivo per cui non abbiamo depositato questo atto non è stata la volontà di voler arrecare qualsiasi vulnus, perché ci sono molti altri atti che potrebbero essere in qualche misura rilevante, ma per quella perimetrazione a cui Lei faceva riferimento all’inizio, noi ci siamo attenuti solo a quegli atti che direttamente potevano toccare l’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna». Inoltre il procuratore aggiunto minimizzò l’omesso deposito del video, che a suo avviso mostrava soltanto il lato «spaccone» di Armanna, visto che poi i due manager Eni evocati per nome da Armanna in quel video (Donatella Ranco e Ciro Pagano) o non erano mai stati indagati (Ranco) o lo erano stati solo molto tempo dopo (Pagano), senza che Armanna avesse in realtà reso dichiarazioni particolarmente accusatorie a loro carico. Ma per il Tribunale, a parte le «numerose disparità di trattamento rilevate in ordine alla selezione dei soggetti indagati», per comprendere l’importanza della registrazione occorre saper leggere il linguaggio ricattatorio di chi preannuncia il proposito di rendere dichiarazioni accusatorie che certamente avrebbero colpito i vertici dell’Eni quantomeno in modo indiretto. All’epoca della trattativa Opl245, infatti, Donatella Ranco era la responsabile dei negoziati internazionali e riportava direttamente al direttore generale Claudio Descalzi, il cui coinvolgimento nella vicenda sarebbe quindi stato un’inevitabile conseguenza delle dichiarazioni di Armanna. L’intenzione manifestata – indica il Tribunale – «era quella di gettare un alone di illiceità sulla gestione da parte di Eni dell’acquisizione della concessione di prospezione petrolifera, in modo da ottenere, attraverso l’intervento di Amara, l’allontanamento dalla Nigeria di coloro che avevano partecipato al negozio, in particolare di Pagano, sostituendolo con qualcuno di più accomodante verso la conclusione dell’affare in corso.  Tale aspetto, soprattutto con riguardo agli affari perseguiti da Vincenzo Armanna e dai suoi sodali in Nigeria nel periodo in esame, non è stato oggetto di alcun approfondimento istruttorio» da parte della Procura. La cui «interpretazione banalizzante» dell’omesso deposito del video è per i giudici «non condivisibile», visto che a loro avviso il contenuto del video invece «si è rivelato di estrema importanza per apprezzare le intenzioni che animavano Armanna al momento della sua presentazione in Procura il 30 luglio 2014».

(ANSA il 10 giugno 2021) La procura di Brescia, che una decina di giorni fa ha indagato il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro per rifiuto di atti d'ufficio ( art.328 cp) in relazione al processo sul caso Eni Shell-Nigeria, ha acquisito in Tribunale un video tra l'ex manager della compagnia petrolifera Vincenzo Armanna e l'avvocato Piero Amara che la pubblica accusa non ha depositato tra gli atti del dibattimento che si è concluso con l'assoluzione di tutti gli imputati. La settima sezione penale nelle motivazioni della sentenza ha 'denunciato' il mancato deposito agli atti del procedimento del documento che porta "alla luce l'uso strumentale" che Armanna voleva fare delle proprie dichiarazioni ritenute "false " e che costituisce una prova a favore degli imputati.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 10 giugno 2021. La Procura di Milano non deposita e non ha mai messo a Tribunali e difese a conoscenza di nuovi elementi, pur da mesi in proprio possesso perché emersi in indagini del pm Paolo Storari, che documenterebbero come Vincenzo Armanna — coimputato ma pure teste d’accusa dell’Eni e dell’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi nel processo sulle contestate tangenti Eni in Nigeria — a riscontro dei propri verbali abbia depositato ai magistrati chat telefoniche in realtà modificate; come stia cercando di accreditare, anche qui con chat artefatte, circostanze false su Descalzi e sul numero tre Eni, il capo del personale Claudio Granata; e soprattutto come avesse quantomeno promesso, se non anche versato, 50.000 dollari a un poliziotto nigeriano per indurlo a dirsi il fantasmagorico 007 «Victor» da lui tante volte evocato invano e quindi a testimoniare a proprio favore, confermando le accuse a Eni, nel processo milanese (poi conclusosi il 17 marzo con l’assoluzione di tutti gli imputati dall’accusa di corruzione internazionale di Eni in Nigeria nel 2011). È quanto risulta dal decreto con il quale i computer degli uffici del procuratore aggiunto della Repubblica di Milano, Fabio De Pasquale, braccio destro del procuratore Francesco Greco, e del pm Sergio Spadaro, contitolare con De Pasquale del processo sulle tangenti Eni-Nigeria, sono stati oggetto di una perquisizione informatica ordinata dalla Procura di Brescia per acquisire tutte le comunicazioni email dei due magistrati. È questo decreto — eseguito in gran segreto lunedì e poi comunicato l’altro ieri al Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, e al Ministero della Giustizia— a svelare che il capo del pool Affari Internazionali (De Pasquale) e il suo più giovane collega appena divenuto uno dei 20 delegati italiani della neonata Procura europea antifrode (Spadaro) sono indagati per l’ipotesi di reato di «rifiuto d’atti d’ufficio». La ragione non è l’omesso deposito al Tribunale del processo Eni-Nigeria della videoregistrazione (effettuata clandestinamente dall’avvocato esterno Eni Piero Amara) di un incontro con Armanna due giorni prima che il 30 luglio 2014 Armanna si presentasse spontaneamente in Procura con le prime accuse ad Eni: omesso deposito censurato proprio l’altro ieri nelle motivazioni della sentenza di assoluzione dai giudici Tremolada-Gallina-Carboni, per i quali «risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare» il video, e quindi di sottrarre alla conoscenza del Tribunale e delle difese un dato di «estrema rilevanza»perché «rivelava che Armanna, licenziato da Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” e “un avviso di garanzia” ad alcuni dirigenti apicali della compagnia». La ragione della perquisizione informatica e dell’iscrizione nel registro degli indagati dei due pm è invece la nuova e ancora più attuale vicenda, che al procuratore di Brescia, Francesco Prete, sarebbe stata prospettata da Storari nell’interrogatorio al quale questo pm milanese era stato sottoposto settimane fa nel procedimento che lo vede indagato (rivelazione di segreto d’ufficio) per avere consegnato nell’aprile 2020 all’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo i verbali segretati che l’avvocato Amara aveva reso tra dicembre 2019 e gennaio 2020 su una asserita associazione segreta denominata «Ungheria», ma che per il pm Storari erano stati lasciati troppo galleggiare senza adeguate e incisive verifiche dall’attendismo dei capi della procura milanese. Ora si comprende che in realtà — tra Storari da una parte, e dall’altra Greco, De Pasquale, Spadaro e l’altro procuratore aggiunto Laura Pedio — si era determinato anche un altro aspro confronto sulla urgente inderogabilità o meno, sostenuta dall’uno e negata o rimandata dagli altri, di mettere a conoscenza i giudici, e le difese degli imputati del processo Eni-Nigeria, di quelle apparentemente gravi circostanze (falsificazione di atti prodotti in giudizio da Armanna, e una sua possibile corruzione in atti giudiziari di un testimone) emerse nell’indagine preliminare in corso già da anni sul cosiddetto depistaggio Eni. La stessa nella quale Armanna e Amara accusano invece Eni, Descalzi e Granata di aver cercato di fare ritrattare nel 2016 le iniziali dichiarazioni accusatorie nel 2014 di Armanna.

Eni: assolti Descalzi e Scaroni per caso Nigeria. (ANSA il 17 marzo 2021) Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, è stato assolto dal Tribunale di Milano nel processo per corruzione internazionale con al centro l'acquisizione dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl245 in Nigeria. I giudici hanno assolto anche il suo predecessore nonché attuale presidente del Milan, Paolo Scaroni.

Eni: assolti anche tutti gli altri imputati su caso Nigeria. (ANSA il 17 marzo 2021) Sono stati tutti assolti i 15 imputati, società comprese, finiti sotto processo a Milano per la presunta corruzione internazionale legata all'acquisizione da parte di Eni e Shell dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. Lo ha deciso il Tribunale che ha scagionato, oltre all'ad del gruppo di San Donato Claudio Descalzi e il suo predecessore nonché attuale presidente del Milan Paolo Scaroni, gli allora manager operativi nel Paese africano, i presunti intermediari, Shell con i suoi quattro ex dirigenti e l'ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete. Assolte anche le due compagnie petrolifere.

Eni, crolla il teorema dei pm: Scaroni e Descalzi sono assolti. Asfaltato il traballante castello d'accusa con cui la procura aveva portato sul banco degli imputati l'Eni e i suoi due massimi dirigenti. Luca Fazzo - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Tutti assolti. Bastano poche ore di camera di consiglio ai giudici del Tribunale di Milano (settima sezione, presidente Marco Tremolada) per asfaltare il traballante castello d'accusa con cui la Procura della Repubblica aveva portato sul banco degli imputati l'Eni e i suoi due massimi dirigenti, l'ex amministratore delegato Paolo Scaroni e il suo successore Claudio Descalzi. L'accusa di corruzione internazionale legata all'appalto per lo sfruttamento dell'Opl 245, gigantesco giacimento di grezzo al largo delle coste della Nigeria, viene liquidata con poche righe di dispositivo della sentenza che assolve l'azienda, Scaroni e Descalzi, e insieme a loro la Shell, il colosso petrolifero alleato di Eni nella cordata per l'appalto nigeriano. Per la seconda volta consecutiva le indagini della Procura milanese contro Eni si risolvono in un nulla di fatto. Era giù successo con il processo gemello per le presunte tangenti in Algeria: tutti assolti, Scaroni e l'ente, sentenza confermata in appello e in Cassazione, "il fatto non sussiste". Ora arriva il bis, con le assoluzioni in blocco per il caso Nigeria. Per il pm Fabio De Pasquale, che a questa indagine ha dedicato quasi per intero gli ultimi anni di lavoro, una sconfitta plateale di fronte alla quale, mentre il tribunale legge la sentenza, nasconde a stento il suo disappunto. Per Scaroni e Descalzi il rappresentante dell'accusa aveva chiesto otto anni di carcere a testa. Assolto anche Luigi Bisignani, ex giornalista e procacciatore di affari, accusato di avere fatto da intermediario tra Eni e i faccendieri africani. Per arrivare all'assoluzione è servito un processo durato quasi tre anni, reso impervio dalle difficoltà di traduzione con i testimoni nigeriani che l'accusa portava in aula a sostegno della sua tesi: ovvero che il miliardo e trecento milioni di dollari versati da Eni e Shell al governo nigeriano per ottenere la licenza di sfruttamento fossero in realtà una gigantesca tangente destinata a una serie di politici del posto, con in testa il presidente della Repubblica Jonathan Goodluck. A sostegno della tesi, una serie di analisi bancarie e di testimonianze, tra cui quella di una "gola profonda" interna ad Eni: Vincenzo Armanna, già capo delle attività di estrazione Eni a sud del Sahara, secondo cui sia Scaroni che Descalzi (che all'epoca dei fatti guidava la direzione Esplorazione e produzione) erano consapevoli che l'enorme somma versata sul conto governativo aveva ben altre destinazioni. Ma a mancare sono stati i riscontri, gli elementi di fatto a sostegno della versione del pentito: come pure per lo scenario più grave adombrato dalla Procura nel corso del processo, secondo cui una parte non piccola della tangente uscita dalle casse di Eni e Shell sarebbe alla fine rientrata nelle disponibilità del management italiano. Il tribunale ha preso novanta giorni per depositare le motivazioni: dopodichè la Procura valuterà se ricorrere in appello. Ma che De Pasquale si arrenda appare assai improbabile (prescrizione permettendo, essendo i fatti vecchi ormai di una decina d'anni).

Eni, Descalzi e Scaroni assolti: niente corruzione in Nigeria. Un calvario lungo 10 anni. Libero Quotidiano il 17 marzo 2021. L'ad di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni sono stati assolti dal tribunale di Milano nel processo in cui i due manager erano accusati di corruzione internazionale per un presunto pagamento di tangenti nel 2011 in Nigeria. Assolto anche Luigi Bisgnani, considerato mediatore. Il caso era quello della licenza del campo petrolifero Opl-245, ambita da Eni e da Shell. A 10 anni dal presunto illecito, dunque, finalmente la giustizia italiana ha emesso il suo verdetto. I due colossi del settore energetico escono completamente assolti, così come gli altri imputati,  gli allora manager operativi nel Paese africano, i presunti intermediari, i quattro ex dirigenti Shell e l'ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete, con formula piena perché "il fatto non sussiste". Resta certo il peso di una inchiesta che anche a livello mediatico ha rischiato di distruggere l'immagine di Eni, uno degli orgogli italiani nel mondo e tra i pochi player in grado di competere con le multinazionali straniere, e la reputazione degli stessi manager. "Il processo dopo tante udienze, dopo aver esaminato migliaia di documenti, finalmente restituisce a Descalzi intatta la sua reputazione di manager e all’Eni il suo ruolo di grande azienda italiana di cui siamo tutti orgogliosi", ha spiegato l'ex ministro della Giustizia Paola Severino, oggi avvocato difensore dell'ad della compagnia energetica. "Siamo molto contenti e sicuramente sarà lieto anche lui - è il commento di Enrico De Castiglione, legale di Scaroni -. La centralità del dibattimento in questo caso si è riconfermata, la tesi della pubblica accusa è stata verificata in un dibattimento che è durato 3 anni ed evidentemente è stata ritenuta non fondata, cosa che noi abbiamo sempre ritenuto per la verità. Non è una critica alla pubblica accusa che ha fatto il suo mestiere, porta avanti delle tesi che però poi devono essere vagliate e valutate in sede dibattimentale nel contraddittorio delle parti e in questo contraddittorio quella tesa non è risultata fondata". "Speriamo - ha concluso De Castiglione - di aver finito questo calvario perché il mio assistito, Scaroni, è 12 anni che è sotto processo ed è stato assolto in tutti i gradi di giudizio per l'Algeria e in questo grado di giudizio ha confermato un’altra assoluzione. È sempre stato assolto e sempre con formula piena".

Assolti Descalzi, Scaroni e tutti gli altri imputati del caso tangenti Nigeria. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 17/3/2021. Tutti assolti «perché il fatto non sussiste» i 13 amministratori o intermediari di Eni e Shell, e nessuna confisca alle società di 1 miliardo e 92 milioni di dollari, nella sentenza di primo grado del processo milanese sull’acquisto nel 2011 - per quel prezzo pagato ufficialmente al governo della Nigeria, ma ritenuto dai pm la più grande tangente mai pagata a politici e burocrati stranieri - della licenza petrolifera marittima «Opl 245» detenuta dall’ex ministro del Petrolio, Dan Etete, il quale anni prima se la era autoattribuita dietro lo schermo della società Malabu. La VII sezione penale del Tribunale di Milano ha infatti assolto l’allora direttore generale e attuale amministratore delegato Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore sino al 2014 Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan e vicepresidente di banca Rothschild in Italia, che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro avevano candidato a 8 anni di carcere, quasi al pari (7 anni e 4 mesi) dell’allora omologo di Shell pure prosciolto, Malcom Brinded.

Il ministro, il lobbista, l’ambasciatore, le ex spie. Il collegio, presieduto da Marco Tremolada con i giudici Mauro Gallina e Alberto Carboni, ha assolto anche l’ex ministro nigeriano del Petrolio, Dan Etete, che rischiava 10 anni; poi (ad onta di richieste pure tra i 6 e i 7 anni) il lobbista più influente su Scaroni, Luigi Bisignani, che stavolta esce indenne da un grosso processo dopo invece i 2 anni e mezzo incassati negli anni ‘90 per l’affare Enimont durante Mani Pulite, e i 19 mesi patteggiati nel 2011 a Napoli per associazione e delinquere, favoreggiamento e rivelazione di segreto nel processo sulla «P4»; e l’ex ambasciatore russo in Colombia (mediatore di Shell) Ednan Agaev, per il quale a inizio del processo nel 2018 si era scomodato, con una lettera ufficiale alla Farnesina chiedendo irritualmente che fosse scagionato già in partenza, il ministro degli Esteri di Putin, Sergej Lavrov. Anche Roberto Casula e Ciro Pagano, ex alti manager di Eni in Africa, sono stati assolti assieme al top manager di Shell, Peter Robinson; ad altri due consulenti del gruppo olandese che in passato erano stati capicentro del servizio segreto inglese M16 ad Abuja (in Nigeria) e a Hong Kong, Guy Colgate e John Coplestone; e al fornitore di logistica per Eni e viceconsole onorario ad Abuja, Gianfranco Falcioni, titolare della piccola società stranamente coinvolta nel primo tentativo di bonifico del prezzo pagato al governo nigeriano.

La figura double-face di Armanna. L’assoluzione arride pure all’allora capo in Eni del progetto «Opl 245», Vincenzo Armanna, che per metà era coimputato di essersi ritagliato 1,2 milioni di dollari sotto il pretesto di una eredità paterna e di un commercio d’oro, e per metà era autore di controverse dichiarazioni accusatorie nei confronti di Descalzi, assai valorizzate dalla Procura a dispetto di non poche smentite. Una insistenza a tratti sorprendente nella pubblica accusa, impermeabile di udienza in udienza al sempre più evidente rischio che finisse per depotenziare o addirittura minare il resto del tentativo invece di lavoro documentale dei pm sui flussi finanziari e sulle oggettive incongruenze dell’iter della trattativa contrattuale in Nigeria.

Un tesoro dentro l’assoluzione. Ma la più preziosa è, per le persone giuridiche Eni e Shell, l’assoluzione dall’illecito amministrativo previsto dalla legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle società per reati commessi dai vertici nell’interesse aziendale, perché essa vale una fortuna: consente infatti alle due multinazionali di schivare la colossale confisca di 1 miliardo e 92 milioni caldeggiata dall’ufficio inquirente del procuratore Francesco Greco, e l’altrettanto ingente risarcimento dei danni chiesto dallo Nigeria costituitasi parte civile. Ed ora Eni, che con Shell rimarca di aver investito complessivamente 2 miliardi e mezzo anche in infrastrutture inutilizzate, lamenta il fatto che, tra cause in Nigeria e processi in Italia, la licenza esplorativa Opl 245 sia paradossalmente prossima a scadere già fra due mesi, senza che sia ancora mai stato estratto un barile di petrolio.

La battaglia attorno al giacimento. La Procura addebitava alle società petrolifere Eni e Shell le intese corruttive con l’ex ministro nigeriano del Petrolio (ai tempi del dittatore Sani Abacha), titolare in modo illegittimo (dietro la prestanome società Malabu) della licenza di esplorazione Opl 245. In una prima fase la Shell e l’Eni si avvalsero di intermediari per i rapporti con Etete. Shell usò l’avvocato d’affari russo Ednan Agaev, ex ambasciatore in Colombia, in rapporti con l’ex capo del servizio segreto britannico MI6 in Nigeria, John Copleston, divenuto manager Shell (come il collega Guy Colegate già 007 a Honk Kong) sotto l’egida del capo del settore commerciale di Shell, Peter Robinson. Il loro interlocutore era il generale Aliyu Gusau, capo dei servizi segreti nigeriani. Eni invece si servì di un intermediario nigeriano (Emeka Obi in tandem con il socio d’affari Gianluca Di Nardo) che il lobbista Luigi Bisignani aveva accreditato presso l’allora n.1 Eni Paolo Scaroni, che a sua volta lo aveva raccomandato a Descalzi. Su pressione di Shell a un certo punto Obi (che attendeva di ricevere una grossa commissione da Eni) fu tagliato fuori dal seguito dell’affare, e per i pm anche Eni trovò comunque troppo elevato il rischio reputazionale di comprare la licenza da Etete, che in Francia per altre vicende aveva già avuto una condanna per riciclaggio. Così sarebbe stato ideato il secondo schema, che replicava il primo ma in apparenza senza più intermediari e senza l’ingombrante presenza di Etete: insomma, per dirla con una metafora di Agaev e del settimanale inglese Economist, lo stesso schema ma con il «preservativo», nel senso che in teoria Eni e Shell passavano a comprare la licenza (a chiunque appartenesse dietro la società Malabu) direttamente dal governo nigeriano. Ma quegli accordi, era la tesi della Procura ora non validata dal Tribunale, comprendevano già il fatto che in apparenza il prezzo di 1 miliardo e 92 milioni venisse pagato ufficialmente nel 2011 su un conto del governo nigeriano, ma in realtà con la pattuita consapevolezza che andasse poi a remunerare gli sponsor politici di Etete, quali il presidente Goodluck Jonathan (in passato insegnante privato dei figli di Etete), il ministro della Giustizia Adoke Bello (già suo avvocato, e ora riparato proprio nella Olanda di Shell), o il successivo ministro del Petrolio Diezani Alison-Madueke (ex assistente di Etete e già top manager di Shell). Tutti burocrati che, al netto della quota maggioritaria trattenuta direttamente da Etete sul miliardo e 92 milioni, per la Procura erano poi stati corrotti con la provvista di almeno 500 milioni di dollari fisicamente prelevati in contanti e gestiti poi dal faccendiere nigeriano Abubakar Aliyu presso uffici di cambio di Abuja. Obi però non si rassegnò ad essere escluso dall’affare da cui si attendeva laute commissioni e nel luglio 2011 fece causa a Etete a Londra, ottenendo dalla giustizia civile inglese il diritto a ricevere da Etete 119 milioni di dollari (dei quali 21 milioni di franchi svizzeri girati a Di Nardo), ma disvelando nella causa alcuni passaggi della vicenda che, anche su impulso poi delle organizzazioni non governative Re:Common, The Corner House e Global Witness, innescarono l’inchiesta milanese nel 2014 con il sequestro dei soldi di Obi e Di Nardo, condannati nel 2018 in rito abbreviato di primo grado a 4 anni e alla confisca dei soldi.

Il contrasto con l’altra condanna. L’assoluzione di oggi nel filone principale, che per questi 13 imputati esclude la corruzione internazionale nell’affare «Opl 245», non si concilia con la condanna che - nel settembre 2018 ma con rito abbreviato in uno stralcio giudicato prima - proprio per la medesima corruzione internazionale fu invece inflitta dalla giudice dell’udienza preliminare Giusi Barbara al coimputato intermediario Emeka Obi e al suo socio Gianluca Di Nardo (partner d’affari di Bisignani): 4 anni di carcere e confisca dei 100 milioni (sequestrati loro nel 2014 in Svizzera) che Obi e Di Nardo erano riusciti a farsi riconoscere a Londra da una Corte inglese, davanti alla quale avevano fatto causa a Etete per farsi da lui pagare la commissione alla quale ritenevano di avere diritto per la propria intermediazione. Neanche a farlo apposta, il processo d’appello (i cui atti non coincidono con quello del filone principale odierno, perché in più ha le dichiarazioni rese in abbreviato da Obi e le intercettazioni napoletane di Scaroni-Bisignani non acquisibili dal processo principale) inizierà la settimana prossima.

L’inchiesta sul «complotto». Adesso alla Procura di Milano resta da concludere, con una richiesta di giudizio o di archiviazione, l’indagine-contenitore che da tre anni sta conducendo per l’ipotesi di «induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria», e cioè sul cosiddetto «complotto». Ossia sui depistaggi di varia natura che - secondo i pm, e secondo quanto ha affermato Armanna in tribunale nel luglio 2020 - avrebbero influenzato nel 2016-2017 l’ondivago comportamento processuale di Armanna tra affermazioni, ritrattazioni, e controritrattazione delle ritrattazioni attribuite a una strategia di inquinamento di matrice Eni: strategia ispirata, in un primo schema d’ipotesi esplorato dai pm, dall’allora responsabile degli affari legali Massimo Mantovani, e in un secondo schema d’accusa dal numero tre Eni, Claudio Granata, nell’interesse di Descalzi. In attesa di definizione sono anche i fascicoli per le ipotesi di «corruzione tra privati» riguardanti tra gli altri l’ex numero due Eni, Antonio Vella, Armanna e Amara.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2021. Siccome «dopo» saranno capaci tutti - di incensare le condanne ottenute dai pm o di saltare sul carro dei vincitori assolti - serietà vorrebbe che sui processi per corruzione internazionale si facessero invece i conti con una verità, e con un fraintendimento, «prima» dell'odierna sentenza del processo milanese Eni/Shell-Nigeria, riguardante quella che l'accusa asserisce essere la più grande tangente di sempre, 1 miliardo e 92 milioni pagati come prezzo al governo nigeriano nel 2011 per la licenza petrolifera Opl 245. Il fraintendimento è di chi manifesta insofferenza già solo per la celebrazione di processi tacciati di frenare l'export italiano in Paesi dove senza ungere i politici non ci si aggiudicherebbe le commesse, e quindi di penalizzare gli interessi nazionali a beneficio di concorrenti esteri più spregiudicati ma meno tarpati dalle rispettive magistrature. È un'insofferenza malriposta, perché è la Convenzione Ocse del dicembre 1997 - a tutela della concorrenza internazionale, e a contrasto dei cleptocrati affamatori di nazioni saccheggiate nelle proprie materie prime - che impone agli Stati aderenti di perseguire le tangenti a politici stranieri: se poi l'applicazione di questi trattati appare più «interventista» in Italia, ciò dipende dal fatto che la magistratura non è sottoposta all'esecutivo e agisce in regime di obbligatorietà dell'azione penale, mentre in altri Paesi (ad azione penale discrezionale e controllo più o meno diretto dell'esecutivo) sono le contingenti opportunità politiche a stoppare o aizzare i magistrati. E persino questi Paesi, quando ritengono, non lesinano mano pesante anche verso i propri campioni nazionali: l'anno scorso il colosso aerospaziale francese Airbus ha accettato di pagare 2,1 miliardi di euro alla Francia, 984 milioni alla Gran Bretagna e 526 milioni agli Stati Uniti che indagavano congiuntamente su 13 anni di commesse militari a Malesia, Russia, Cina e Ghana. Tuttavia il rosario di processi in Italia conclusi da ricorrenti assoluzioni di tutti i vertici imputati (come nei casi Saipem-Algeria e Agusta/Finmeccanica-India) contiene invece un nucleo di verità, pur al netto dell'amnesia su parziali risultati di segno contrario, quali il patteggiamento (7,5 milioni nel 2014) di AgustaWestland prima del processo ai poi assolti amministratori Finmeccanica, o il pagamento nel 2010 di 365 milioni da Eni agli Stati Uniti propiziato a cascata della prima indagine milanese in Nigeria, o l'intenzione adesso proprio di Eni di patteggiare (anche se non per corruzione ma per induzione indebita) un'altra indagine a Milano sul Congo. La pioggia di assoluzioni segnala che struttura della norma e stratificarsi della giurisprudenza hanno molto alzato l'asticella delle prove richieste. Non basta l'enormità magari delle commissioni pagate dalle aziende italiane al mediatore di turno, non potendo valere l'assunto (sensato storicamente ma non giudiziariamente) che pagare il mediatore intimo di un ministro equivalga di per sé a pagare il ministro; a volte neppure il passaggio di denaro dal mediatore al ministro è stato ritenuto prova sufficiente della destinazione al ministro proprio di «quelle» somme stanziate dall'azienda al mediatore; e indispensabile - in multinazionali i cui grandi capitani d'azienda si rimpiccioliscono di colpo fin quasi a semplici passanti tutte le volte che i controlli interni appaiono degni di una bocciofila - resta dare la prova dell'accordo corruttivo stretto dall'azienda con il mediatore nell'interesse del pubblico ufficiale straniero, nonché individuare lo specifico atto d'ufficio compravenduto. Tutte tessere di un puzzle che, già non semplici da ricostruire in Italia, spesso diventano ardue da recuperare con rogatorie in Paesi tutt' altro che collaborativi. È forse in questa frustrazione che va rintracciata la molla psicologica dei magistrati milanesi a ipervalutare taluni controversi testimoni (come nel processo odierno il coimputato ex manager Eni Vincenzo Armanna o l'ex avvocato esterno Eni Piero Amara), in apparenza in grado di colmare i tasselli mancanti a provare (non più solo per via logica o di indirette mail) un ruolo diretto dei vertici aziendali nella destinazione corruttiva dei soldi finiti ai potentati locali. Quando fuori piove, piove anche se lo dice Armanna, hanno argomentato in requisitoria i pm, convinti che sbagli chi, osservando questi tre anni di udienze, ha invece ricavato l'impressione di testimoni specializzati nel dire, su 10 cose, una riscontrata vera ma non importante, una riscontrata falsa ma non decisiva, e otto in teoria cruciali ma dette apposta in un modo che ne renda inverificabile la verità o falsità. Una scommessa ad alto azzardo, quindi. Che la Procura di Milano ha giocato confidando le valga da asso pigliatutto. Ma che può viceversa trasformarsi in un boomerang, finendo per indebolire anche lo sforzo investigativo profuso sulle anomalie dell'iter contrattuale e sui rivoli dei 500 milioni di dollari prelevati in contanti negli uffici di cambio nigeriani.

Luca Fazzo per "il Giornale" il 23 marzo 2021. La grande inchiesta della Procura di Milano sull' Eni era basata sulle false accuse di un calunniatore: a dirlo non sono gli avvocati difensori ma la Procura generale del capoluogo lombardo, chiamata a sostenere l' accusa nel processo d' appello a due presunti mediatori delle presunte tangenti pagate dall' Eni in Nigeria. I due erano stati processati a parte e condannati in primo grado a quattro anni di carcere. Ieri il procuratore generale Celestina Gravina chiede l' assoluzione per entrambi e la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica perché indaghi su Vincenzo Armanna. Ovvero l' ex manager Eni, responsabile delle attività nell' Africa subsahariana, le cui dichiarazioni sono di fatto l' asse portante dell' intera indagine Eni-Nigeria. La settimana scorsa erano stati assolti, al termine di un lungo processo di primo grado, l' Eni e la Shell (sua alleata nel contratto nigeriano) insieme all' ex amministratore delegato dell' azienda italiana Paolo Scaroni e al suo successore Claudio Descalzi. Il pm Fabio De Pasquale aveva chiesto per entrambi otto anni di carcere, portando tra i suoi argomenti proprio la condanna già inflitta ai due mediatori: se sono colpevoli i due mediatori, come possono essere innocenti i diretti interessati? Ma ieri arriva l' ennesimo colpo di scena. Davanti alla seconda sezione si apre il processo d' appello ai mediatori, il nigeriano Emeka Obi e l' uomo d' affari italiano Gianfranco Di Nardo. E nella sua requisitoria è il pg Gravina a chiedere che la condanna venga azzerata, i due vanno assolti «perché il fatto non sussiste». La testimonianza che secondo la Procura li incastrava è non solo priva di riscontri ma smentita da tutte le altre circostanze. Armanna, dice la rappresentante dell' accusa, ha mentito deliberatamente: l' ex manager sarebbe un «avvelenatore di pozzi». Ora a indagare su Armanna dovrà essere la stessa Procura della Repubblica che per anni lo ha considerato attendibile, dando luogo a una indagine - come ha sottolineato la Gravina - lunga e dispendiosa. Sui motivi che avrebbero portato Armanna a accusare falsamente l' Eni dovrà ora scavare l' inchiesta. Di certo c' è che l' unico italiano ad avere ricevuto con certezza una parte dei soldi versati al governo nigeriano dai due colossi occidentali per chiudere l' affare è stato proprio Armanna, sul cui conto alla Popolare di Bergamo sono stati individuati e sequestrati 900mila euro fattigli avere dall' ex ministro della Giustizia nigeriano Bajo Ojo. Prima ancora che la dottoressa Gravina prendesse la parola per la richiesta di assoluzione, la Corte - presieduta dal giudice Rosa Polizzi - aveva già preso una decisione indicativa della volontà di vedere fino in fondo nel garbuglio Eni: quella di acquisire agli atti la sentenza ormai definitiva che ha assolto Eni e i suoi manager nel processo (assai simile) per le presunte tangenti versate in Algeria, un precedente significativo sulla difficoltà per il pm De Pasquale di portare in aula prove convincenti. Mentre subito dopo i giudici hanno rifiutato invece di acquisire agli atti la memoria d' accusa che proprio De Pasquale aveva presentata nel processo principale per le tangenti in Nigeria. La stessa memoria che De Pasquale ha mandato nei giorni scorsi via whatsapp a tutti i pm milanesi, nel pieno delle polemiche scoppiate all' interno della Procura sulla gestione del caso Eni. Se anche questo filone finisse con un nulla di fatto, la Procura milanese dovrebbe prendere atto di avere dato la caccia per anni a un reato indimostrato e forse indimostrabile. «L' azione penale è obbligatoria», ha ricordato nei giorni scorsi il procuratore Francesco Greco ai suoi sostituti, rivendicando per intero le indagini compiute da De Pasquale sul fronte Eni e la sua gestione dei processi. Anche le assoluzioni, come le condanne, fanno parte della normalità dei processi. Ma se su un fronte così delicato una Procura incassa solo sconfitte, qualche domanda è inevitabile.

Monica Serra per "la Stampa" il 25 marzo 2021. Dopo il caso Eni è scontro aperto all' interno del palazzo di giustizia di Milano. L' ultimo colpo lo ha sferrato il procuratore Francesco Greco che in una nota si è schierato pubblicamente «al fianco» del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, rappresentanti dell' accusa al processo. «I quali, nonostante le intimidazioni subite, hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza». Il riferimento è al processo sulla presunta maxi tangente da oltre un miliardo di euro che per i pm sarebbe stata pagata da Eni e Shell finito in primo grado con l' assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Una sentenza cui ha fatto seguito una moltitudine di polemiche che hanno dato spunto anche a un velenoso botta e risposta in una chat di whatsapp interna della procura. Dove sono «volati gli stracci», finiti poi qualche giorno fa sulle pagine de Il Giornale. Qualcuno ha chiesto un' assemblea nella procura che però è stata rifiutata, ma la discussione non si è fermata ai pm. Perché nelle scorse ore è intervenuto il presidente del Tribunale, Roberto Bichi, che ha inviato una lettera «di solidarietà» al collegio giudicante del processo Eni Nigeria, al presidente Marco Tremolada e ai colleghi Mauro Gallina e Alberto Carboni, con un ringraziamento «istituzionale» per la conduzione del processo Eni. -Nigeria, nonostante «polemiche di carattere mediatico». La presa di posizione è contro chi ha sollevato dubbi sull' imparzialità del collegio, paventando una vicinanza tra i giudici del caso e le difese degli imputati. Dubbi emersi nel corso di un' altra inchiesta, quella sulle presunte attività di depistaggio per condizionare le indagini sul caso Eni-Nigeria, aperta dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal pm Paolo Storari, e segnalati alla procura di Brescia, competente a indagare sui magistrati milanesi. Che, però, ha già archiviato il fascicolo aperto, contro ignoti, per traffico di influenze illecite e abuso d' ufficio. «Stante la gravità delle insinuazioni fatte circolare e riprese e diffuse dai media - scrive Bichi - immagino il riflesso emozionale che ciò può avervi indotto». Passano poche ore dalla lettera di Bichi e arriva la nota del procuratore Greco. Che innanzitutto fa presente che per i fatti su cui si concentra l' inchiesta sul presunto depistaggio delle indagini su Eni, «gli imputati» coinvolti nelle indagini correlate condotte dalle procure di Roma e Messina «tra i quali un magistrato (l' ex pm di Siracusa, Giancarlo Longo, ndr.) , hanno ammesso gli addebiti e sono già stati condannati». E aggiunge che «nell' azione di inquinamento, chi l' ha ideata e portata avanti ha anche cercato di delegittimare il pubblico ministero di Milano». In più, a chi anche sui giornali ha parlato del processo Eni come un «grande spreco di denaro», Greco ha ribadito che «in materia di corruzione internazionale l' obbligatorietà dell' esercizio dell' azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato italiano con la convenzione Ocse di Parigi del 1997». Nel pieno del caso Palamara, con il delicato ruolo del Csm e la prossima nomina del sostituto del procuratore Greco, che andrà in pensione a novembre, la spaccatura nel Palazzo di Giustizia di Milano, con la fronda interna di alcuni pm, è molto più di una schermaglia tra magistratura inquirente e giudicante. Ma la questione rischia di diventare un caso politico per governo e Quirinale.

CBas. per "il Giornale" il 25 marzo 2021. «Il procuratore della Repubblica, nel ribadire che in materia di corruzione internazionale l' obbligatorietà dell' esercizio dell' azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato italiano con la Convenzione Ocse di Parigi del 1997, è al fianco dei colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, i quali, nonostante le intimidazioni subite, hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza». Firmato: il procuratore della Repubblica Francesco Greco. Una pagina su carta intestata per dichiarare esplicitamente, all' esterno e all' interno del Palazzo di giustizia milanese, il proprio appoggio incondizionato a chi ha sostenuto l' accusa nel processo Eni-Nigeria. Quello approdato pochi giorni fa all' assoluzione in primo grado di tutti gli imputati.

Continua Greco: «In relazione ai recenti articoli di stampa sul processo denominato Eni-Nigeria, si precisa che: nel corso delle indagini sono stati imbastiti da un avvocato dell' Eni, presso la Procura di Trani e presso la Procura di Siracusa, due procedimenti, finalizzati a inquinare l' inchiesta condotta dalla Procura di Milano e a danneggiare l' immagine di alcuni consiglieri indipendenti dell' Eni». Cioè Luigi Zingales e Karina Litvack. «Per taluni fatti specifici - continua la nota - gli imputati, tra i quali un magistrato, hanno ammesso gli addebiti e sono già stati condannati».

Secondo punto: «Nell' azione di inquinamento, chi l' ha ideata e portata avanti ha anche cercato di delegittimare il pubblico ministero di Milano». Non si fermano quindi gli strascichi delle assoluzioni per la presunta maxi tangente per lo sfruttamento del blocco petrolifero Opl 245. La presa di posizione del capo della Procura milanese, a sostegno del proprio aggiunto e del proprio sostituto, non sembra tanto una risposta agli attacchi dei giornali (che non sarebbero una novità) dopo la sconfitta. Quanto uno scudo dopo le critiche, anche aspre, che si sono sollevate proprio al quarto piano del Palazzo attraverso la chat interna. Con alcuni colleghi che hanno attaccato frontalmente il «sistema» messo in piedi contro Eni e poi crollato. E non è l' ultimo colpo alla Procura, per importanza, quello sferrato lunedì dalla Procura generale che ha chiesto l' assoluzione in Appello dei presunti intermediari della corruzione. Definendo l' intera inchiesta «un enorme spreco di risorse».

Processo Eni, il tribunale contro i pm: «Gravi le accuse ai giudici». La lettera del presidente Bichi ai colleghi: «Insinuazioni gravi e subdole». Simona Musco su Il Dubbio il 25 marzo 2021. «Innanzi tutto vi confermo un ringraziamento istituzionale e mio personale per l’impegno che avete profuso per portare a termine il processo cosiddetto Eni-Nigeria: impegno che avete attuato con efficienza, riserbo, rispetto del difficile ruolo che impone al giudice di evitare ogni coinvolgimento in polemiche di carattere mediatico o in iniziative che vogliano ledere il carattere di terzietà del giudice, che deve essere affermato nella sostanza e anche nelle forme comportamentali esterne». A scrivere è il presidente del tribunale di Milano, Roberto Bichi, che ha deciso di manifestare la propria solidarietà al collegio giudicante del processo a Eni e Shell – presidente Marco Tremolada, affiancato dai colleghi Mauro Gallina e Alberto Carboni -, conclusosi pochi giorni fa con l’assoluzione degli imputati «perché il fatto non sussiste». La lettera rappresenta una dura presa di posizione contro chi, nei giorni scorsi, ha sollevato dubbi sull’imparzialità del collegio, paventando una vicinanza, al momento non provata, tra i giudici del caso e le difese degli imputati. Il presidente Bichi non ci va leggero e tenta di mettere un punto alle polemiche interne al mondo della magistratura milanese, che nei giorni scorsi hanno intasato le chat whatsapp. «Stante la gravità delle insinuazioni fatte circolare e riprese e diffuse dai media, immagino il riflesso emozionale che ciò può avervi indotto – scrive Bichi -. Aver mantenuto la freddezza e la razionalità necessarie per gestire questo processo e la serenità per affrontare la camera di consiglio sono quindi vostri meriti “rafforzati”». Bichi sottolinea la forte pressione mediatica che avvolge il Tribunale di Milano, per il quale il processo Eni è stato, probabilmente, uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni. «Chi fa il giudice presso il Tribunale di Milano è frequentemente impegnato in processi di grande importanza, di forte rilevanza anche mediatica e a ciò si correla una condizione che rende il magistrato, o meglio, la sua decisione suscettibile di critiche (e ciò è fisiologico), ma purtroppo spesso di attacchi scomposti e a volte offensivi – afferma Bichi -. È una prassi che verifichiamo sempre più di frequente e che – al di fuori di eventuali iniziative a tutela previste dal nostro Ordinamento – ritengo che sia bene non determini il coinvolgimento diretto del magistrato o del Tribunale in reazioni che lo trascinino in polemiche; d’altra parte è nostro obbligo rispettare i principi di correttezza, riserbo ed equilibrio, che devono informare la nostra attività, specificatamente puntualizzati nel dovere di riservatezza con riguardo agli affari in corso di trattazione, come sancito normativamente dal D.Lgs n. 109/2006». Il presidente parla di «subdole insinuazioni», provenienti proprio dall’interno del mondo della magistratura e che costituirebbero per la magistratura stessa «una espressione di degrado gravissima». Il caso, stando alla lettera, non si chiuderà qui. Perché, scrive Bichi, «vi sarà modo di esaminare l’insieme delle circostanze una volta acquisito ogni elemento utile, per una valutazione compiuta della vicenda». I sospetti nascono dalle dichiarazioni di Piero Amara, l’avvocato ideatore del “Sistema Siracusa”, accusato di aver costruito un vero e proprio sistema per condizionare le inchieste, a fronte di mazzette e prebende. A Milano Amara aveva dichiarato di aver saputo da Michele Bianco, a capo dell’ufficio legale di Eni, e dalla collega Alessandra Geraci, che Paola Severino e Nerio Diodà, tra i principali difensori del processo, “avevano accesso” al presidente Tremolada. A fine gennaio 2020 il procuratore Francesco Greco, mentre il processo era in corso, ha trasmesso le dichiarazioni di Amara alla procura di Brescia, competente per i reati commessi dai magistrati milanesi. Lì viene aperto un fascicolo a carico di ignoti, con le accuse di traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio. Il pm Fabio De Pasquale tenta di far entrare tali dichiarazioni nel processo, ma senza riuscirci. Nel frattempo il fascicolo a Brescia si sgonfia – Bianco e Geraci negheranno i fatti attribuiti da Amara, che non verrà mai sentito né indagato per calunnia – e l’indagine viene archiviata. Ma quei fatti verranno ancora utilizzati per gettare ombre sull’operato del collegio. Il procuratore di Milano Francesco Greco ha replicato duramente attraverso una nota, con la quale ha ribadito la vicinanza all’aggiunto Fabio De Pasquale e al pm Sergio Spadaro, titolari dell’accusa nel processo Eni-Nigeria, che «nonostante le intimidazioni subite hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza». La nota diffusa dal procuratore fa riferimento «ai recenti articoli di stampa sul processo» che mettevano in discussione l’opportunità di istruire lunghe e complesse indagini a carico dei grandi gruppi italiani che operano all’estero e ribadisce «che in materie di corruzione internazionale l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato Italiano con la Convenzione OCSE di Parigi del 1997».

Caso Eni, veleni tra toghe a Milano: tra pm e giudici ora volano gli stracci. Il procuratore Francesco Greco replica alla lettera del presidente del Tribunale di Milano e difende i due magistrati che hanno condotto l'inchiesta sulla presunta tangente con «serenità, professionalità e trasparenza». Simona Musco su Il Dubbio il 26 marzo 2021. Una vera e propria spaccatura. È quella che si è consumata nel Palazzo di Giustizia di Milano, dopo la recente assoluzione dei vertici Eni nel processo sulla presunta tangente da un miliardo e 92 milioni ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero, secondo l’accusa la più grande tangente mai pagata da una compagnia italiana. Per i giudici del collegio giudicante – presidente Marco Tremolada, a latere Mauro Gallina e Alberto Carboni – il fatto non sussiste. Dunque una bocciatura in piena regola del lavoro della Procura, che giovedì, tramite una nota del procuratore Francesco Greco, si è chiusa a riccio a difesa dei due magistrati che hanno condotto l’inchiesta, l’aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, ai quali Greco ha manifestato vicinanza per aver svolto, «nonostante intimidazioni subite» il loro lavoro con «serenità, professionalità e trasparenza». Un chiarimento che segue la lettera inviata dal presidente del Tribunale, Roberto Bichi, ai giudici del collegio, vittime di «gravi insinuazioni», avanzate proprio dalla procura. Il riferimento è alle dichiarazioni di Piero Amara, l’avvocato ideatore del cosiddetto “Sistema Siracusa”, accusato di aver costruito un vero e proprio sistema per condizionare le inchieste, a fronte di mazzette e prebende. A Milano Amara aveva dichiarato di aver saputo da Michele Bianco, a capo dell’ufficio legale di Eni, e dalla collega Alessandra Geraci, che Paola Severino e Nerio Diodà, tra i principali difensori del processo, “avevano accesso” al presidente Tremolada. A fine gennaio 2020 il procuratore Francesco Greco, mentre il processo era in corso, ha trasmesso le dichiarazioni di Amara alla procura di Brescia, competente per i reati commessi dai magistrati milanesi. Lì è stato aperto un fascicolo a carico di ignoti, con le accuse di traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio. E il pm Fabio De Pasquale ha tentato di far entrare tali dichiarazioni nel processo, senza riuscirci. Nel frattempo il fascicolo a Brescia si sgonfiò – Bianco e Geraci negarono i fatti attribuiti da Amara, che non fu mai sentito né indagato per calunnia – e l’indagine venne archiviata, proprio per l’evanescenza delle accuse. Ma quei fatti, accusa Bichi, sono stati utilizzati per gettare ombre sui giudici. Il presidente parla di «subdole insinuazioni», provenienti proprio dall’interno del mondo della magistratura e che costituirebbero per la magistratura stessa «una espressione di degrado gravissima». Il caso, stando alla lettera, non si chiuderà qui. Perché, scrive Bichi, «vi sarà modo di esaminare l’insieme delle circostanze una volta acquisito ogni elemento utile, per una valutazione compiuta della vicenda». Bichi ha infatti chiesto l’accesso agli atti dell’inchiesta archiviata a Brescia, dichiarazioni che hanno gettato un’ombra sul collegio, in particolare su Tremolada, facendo riferimento a «interferenze delle difese Eni».La sentenza ha rappresentato, dunque, l’occasione per rispolverare vecchie polemiche interne al Palazzo. E anche la scelta della procura generale, rappresentata da Celestina Gravina, di chiedere l’assoluzione per i due mediatori del caso Eni-Nigeria – l’avvocato nigeriano Emeka Obi e l’uomo d’affari Gianluca Di Nardo, condannati in primo grado a 4 anni di reclusione in uno stralcio del procedimento principale -, conferma la spaccatura. I due sono accusati di corruzione internazionale, ma per Gravina l’intera inchiesta avrebbe rappresentato «un enorme spreco di risorse», definendo un «avvelenatore di pozzi» Vincenzo Armanna, l’ex dirigente Eni che nel corso del processo ha accusato la compagnia e l’ad Claudio Descalzi (tra gli assolti nel processo ordinario), al punto di chiedere la trasmissione degli atti per l’ipotesi di reato di calunnia. Un «travisamento dei fatti», dovuto ad una «errata lettura degli atti». E l’ultimo capitolo della vicenda Eni è arrivato ieri, con l’ok del gip Sofia Fioretta al patteggiamento per l’inchiesta Congo, con un risarcimento di 11 milioni di euro. Una decisione alla quale si è arrivati passando per la riqualificazione del reato, da parte del pm Paolo Storari, da corruzione internazionale ad induzione indebita internazionale. Non «un’ammissione di colpevolezza», si legge in una nota di Eni, ma un modo per evitare un nuovo, costoso e lungo processo.La sentenza sul caso Nigeria, spiega al Dubbio Frank Cimini, storico cronista di giudiziaria dal Palazzo di Giustizia di Milano, ha fatto dunque da detonatore. Nel suo comunicato, Greco ha ribadito che «in materia di corruzione internazionale l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato Italiano con la Convenzione Ocse di Parigi nel 1997». E sull’obbligo, ovviamente, non si discute. Ma in aula la stessa accusa, ricorda Cimini, ha ammesso l’assenza della «pistola fumante» e, dunque, la fragilità dell’intero impianto. Greco ha puntato il dito contro i «recenti articoli di stampa», ricordando i tentativi di inquinamento dell’inchiesta, che rappresenterebbero un tentativo di «delegittimare il pubblico ministero di Milano». La spaccatura, a pochi mesi dal pensionamento del procuratore, apre ora diversi scenari. La questione – nel mentre i magistrati invocano un’assemblea, attualmente congelata – potrebbe arrivare anche davanti al Csm. Le reciproche accuse, infatti, potrebbero spingere qualcuno a chiedere l’apertura di una pratica a tutela di una (o entrambi) le parti, ma si potrebbe arrivare anche ad uno scenario più pesante, ovvero la richiesta di trasferimento, qualora gli strascichi portassero a determinare una eventuale incompatibilità ambientale.

La Procura chiedeva 8 anni di reclusione. Presunte tangenti Eni, crolla il teorema dei giudici: tutti assolti, “il fatto non sussiste”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Tutti assolti. I quindici imputati nel processo di primo grado per la presunta maxi tangente pagate da ENI alla Nigeria, per la Procura di Milano la più grande mai pagata da una azienda italiana, non sono colpevoli: il fatto “non sussiste”. Gli imputati, tra cui le società ENI e Shell, l’amministratore delegato di ENI Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, erano accusati di corruzione internazionale nell’ambito dell’acquisizione da parte di ENI e Shell della licenza per esplorare un vasto tratto di mare al largo della Nigeria. L’accusa rappresentata dal procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e dal sostituto Sergio Spadaro aveva chiesto nei confronti dei due top manager dell’azienda italiana il massimo della pena, 8 anni di reclusione, mentre al ministro del Petrolio nigeriano fino al 1998, Dan Etete, 10 anni. Per il collegio presieduto dal giudice Marco Tremolada (coi giudici Mauro Gallina e Alberto Carboni) invece “il fatto non sussiste”. Al centro del processo la vicenda relativa ad una presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari versata da ENI e Shell per ottenere nel 2011 la licenza sui diritti di esplorazione del giacimento nigeriano. Al centro del processo la vicenda relativa ad una presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari versata da ENI e Shell per ottenere nel 2011 la licenza sui diritti di esplorazione del giacimento nigeriano Opl-245, in un tratto di mare nel Golfo della Guinea a circa 150 chilometri dalla terraferma. Per i magistrati milanesi il prezzo pagato per il giacimento, circa 1,3 miliardi di dollari, era troppo basso e nascondeva una possibile corruzione dei politici locali. La Procura aveva quindi ricostruito un presunto scambio di denaro con una serie di passaggi bancari – transitando dalla società nigeriana Malabu Oil & Gas – con i soldi finiti nelle tasche del titolare Dan Etete, già ministro del Petrolio, e da lì ad altri politici e funzionari nigeriani e italiani. Nell’elenco degli imputati assolti figurano anche l’ex responsabile operativo del gruppo di San Donato nell’Africa sub-sahariana Roberto Casula, l’ex manager della compagnia italiana nel Paese africano e ‘grande accusatore’ Vincenzo Armanna, l’ex manager di Nae, controllata Eni in Nigeria, Ciro Antonio Pagano, il ‘faccendiere’ Luigi Bisignani, il russo Ednan Agaev, l’ex viceconsole in Nigeria Gianfranco Falcioni, l’ex presidente di Shell Foundation Malcom Brinded e gli ex dirigenti della compagnia olandese Peter Robinson, Guy Jonathan Colgate e John Coplestone. “Finalmente a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda”: è stato il commento dell’avvocato Paola Severino, difensore dell’AD della compagnia petrolifera italiana. Per Scaroni si tratta della seconda assoluzione ‘di peso’ per vicende riguardanti ENI. L’ex AD della compagnia petrolifera era stato accusato di corruzione internazionale anche nel processo per il caso Saipem-Algeria. Per il legale di Scaroni. Enrico De Castiglione, “il Tribunale ha ritenuto quello che noi avvocati abbiamo ribadito per tutto il processo, e cioè che non ci fossero dei motivi solidi per contestare il reato di corruzione internazionale” all’ex AD e agli altri imputati. Con la seconda assoluzione quindi l’avvocato spera che “sia finita questa barbarie, Scaroni è sotto processo da 12 anni per varie vicende ed è sempre stato assolto in tutti i gradi di giudizio e sempre con formula piena. Sicuramente di questa ulteriore sentenza sarà molto contento”.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 18 marzo 2021. L' amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore, Paolo Scaroni, sono stati assolti dal tribunale di Milano dall' accusa di corruzione internazionale, e con loro tutti gli altri imputati. Il fatto non sussiste, dice la sentenza, ovvero non sussiste la tangente da un miliardo abbondante di euro versata, secondo la procura, alle autorità nigeriane per i diritti di esplorazione di un blocco petrolifero. Da una trentina d'anni i magistrati milanesi indagano su Eni e, dopo le condanne per la celebre maxitangente Enimont, non è che abbiano raccolto successi straordinari. Scaroni, per esempio, è sotto inchiesta da oltre un decennio perché, prima della questione Nigeria, dovette rispondere di una faccenda simile in Algeria, anche quella chiusa con niente di fatto. Non so se abbiate idea del danno di questi processi sulla seconda più grande azienda italiana, con i vertici che girano per il mondo con la fama dei tangentari pizza mandolino. Sul Corriere della Sera un giornalista imprescindibile, Luigi Ferrarella, ci invita a non dolercene troppo: altrove le grandi aziende non finiscono sotto inchiesta, forse perché ovunque le procure (non i giudici) sono sotto il controllo del potere politico, mentre solo da noi, virtuosi, godono di totale indipendenza. Ecco, magari dovremmo chiederci se davvero tutto il mondo sbaglia a sottomettere l' attività di indagine alla politica, fosse pure con lo scopo di proteggere le imprese strategiche per lo Stato dal rischio di una condanna, mentre da noi gli inquirenti fanno quello che vogliono, e non le proteggiamo nemmeno dalla mania del sospetto.

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 18 marzo 2021. Tutti assolti «perché il fatto non sussiste». Si è concluso così, dopo poco più di tre anni, il processo di primo grado per corruzione internazionale che ha visto imputate le società Eni e Shell e altre tredici persone per una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari che sarebbe stata versata dalle due compagnie petrolifere ad alcuni politici della Nigeria per ottenere la concessione del blocco Opl245 al largo delle coste del Paese africano. «La più grande tangente pagata da una compagnia italiana», sosteneva la Procura di Milano. Ora si scopre che quella super mazzetta non è mai esistita. I giudici della settima sezione penale del Tribunale di Milano, presieduta da Marco Tremolada, hanno smontato l' impianto accusatorio con una sentenza arrivata dopo quasi sei ore di camera di consiglio. Dunque, per aggiudicarsi i diritti di esplorazione del giacimento africano, non c' è stato alcun pagamento illecito.

«REPUTAZIONE RESTITUITA». Assolti l' amministratore delegato dell' Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, l' ex ministro del petrolio della Nigeria, Dan Etete, oltre a quattro ex manager di Shell, ex dirigenti di Eni e alcuni intermediari. Fra questi Roberto Casula, ex capo divisione esplorazioni di Eni, Vincenzo Armanna, ex vicepresidente di Eni Nigeria, Ciro Antonio Pagano, all' epoca dei fatti managing director di Nae, Emeka Obi, avvocato che avrebbe fatto da intermediario nell' operazione, e Luigi Bisignani, anch' egli considerato mediatore. L' accusa aveva chiesto 8 anni di carcere per Scaroni e Descalzi e 10 anni per Etete. «Finalmente a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda», afferma l' avvocato Paola Severino, difensore dell' ad della compagnia petrolifera. «Dopo decine di udienze, migliaia di documenti esaminati, finalmente una sentenza restituisce a Descalzi intatta la sua reputazione di manager e all' Eni il suo ruolo di grande azienda italiana, di cui siamo tutti orgogliosi». L' accusa contro Shell ed Eni si basava sulle dichiarazioni dell' imputato Vincenzo Armanna, dirigente Eni licenziato nel 2013: Armanna ha raccontato della presunta retrocessione di 50 milioni di dollari ad alti dirigenti Eni sulla base di quanto gli avrebbe riferito l' ufficiale dei servizi di sicurezza nigeriani, Victor Nwafor. Il quale però, ascoltato dal Tribunale, ha detto di non aver mai visto Armanna. Che identifica quindi altri due Victor come la sua vera fonte: per il secondo i giudici non accolgono la richiesta di convocazione in aula, si presenta il terzo Victor che di nuovo smentisce Armanna. Così l' accusa arriva alla fine del dibattimento senza testimonianze decisive né riscontri: i sequestri, le perquisizioni e le rogatorie non hanno dimostrato la versione di Armanna.

SPECCHIO OLANDESE. «È un risultato di grande civiltà giuridica», riflette Nerio Diodà, legale del gruppo petrolifero. «Per me, che rappresento Eni, i suoi circa tremila dipendenti e un centinaio di società in giro per il mondo è un onore poter dire che è estranea a qualsiasi illecito penale e amministrativo. Ci sono voluti anni, impegni, confronti anche duri, ma l' esito è da considerare una garanzia di giustizia equilibrata per tutti i cittadini». Aggiunge Enrico de Castiglione, difensore di Scaroni: «Speriamo di aver finito questo calvario, perché il mio assistito è sotto processo da dodici anni ed è stato assolto in tutti i gradi di giudizio con formula piena», così come Eni, «per il caso di presunta corruzione internazionale Saipem-Algeria». Nel processo Eni Nigeria le difese hanno sostenuto che il contratto è stato firmato con il governo africano e che i soldi sono stati versati su un conto bancario di Londra intestato all' esecutivo della Nigeria: «La Procura ha dato un' immagine distorta dell' assegnazione del blocco petrolifero», ha spiegato nella sua arringa l' avvocato Paola Severino. «Le circostanze suggestive» di cui dispongono i pm «non hanno neanche il rango di indizio», ha rilevato. «Visto che i pm definiscono le mail di Shell lo specchio olandese, ricordo allora che nella pittura fiamminga lo specchio olandese era appunto lo specchio deformante».

Alessandro Da Rold per “la Verità” l'11 aprile 2021. Dopo l'assoluzione di Eni e dell' amministratore delegato Claudio Descalzi nel processo sul giacimento nigeriano Opl 245, c'è attesa per l' appello di martedì 13 dove si deciderà per una nuova assoluzione o la conferma di condanna a carico di Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, i due presunti intermediari della tangente da 1,1 miliardi di dollari. I due avevano scelto il rito abbreviato e sono stati condannati in primo grado nel settembre del 2018. Quella sentenza aveva rafforzato le tesi dell'accusa che aveva indagato il cane a sei zampe e Shell per corruzione internazionale, insieme con Descalzi e l' ex presidente Paolo Scaroni. Ora la situazione si è ribaltata. Se il 17 marzo, nel filone principale, gli imputati sono stati assolti perché «il fatto non sussiste», allo stesso tempo la Procura generale che doveva aprire il secondo grado su Di Nardo e Obi ha completamente smontato le tesi dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Lo si può leggere nella requisitoria di 25 pagine, dove non viene solo evidenziato «l'enorme dispiego e spreco di risorse» da parte della Procura diretta da Francesco Greco, ma vengono contestati anche i tipi di reati contestati dall' accusa, come la posizione della Nigeria o la stessa testimonianza dell' imputato/accusatore Vincenzo Armanna. Quest'ultimo «non è un fantasioso ballista, ma un avvelenatore di pozzi bugiardo». L'ex responsabile Eni nell'Africa subsahariana, quello che avrebbe visto le mazzette, «mescola verità e bugie» ed «è totalmente inaffidabile». Il Procuratore generale Celestina Gravina, ha nella sua requisitoria spiegato più volte che «non esiste il fatto contestato, non esiste in natura. Non esiste e ne abbiamo la prova». Per Gravina la condanna in primo grado era «gravata da un travisamento gravissimo dei fatti» in particolare sulla posizione di Obi, imputato centrale in tutta la vicenda. Per la Procura generale di Milano, insomma, «la lettura degli atti è stata distorta totalmente». E il reato «non esiste perché per altro verso la sentenza si basa su una serie di assunti indimostrati soprattutto per ciò che attiene alla vicende» legate «alla storia della titolarità di questa licenza petrolifera in capo alla società nigeriana Malabu». Secondo Gravina, infatti, quando detto dai pubblici ministeri dovrebbe essere totalmente ribaltato. Per quale motivo? Per il Procuratore generale «sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale». Nella sentenza, in sostanza, non sono stati lette con dovizia di particolari le vicende nigeriane ancora oscure, sono stati fatti errori da matita «blu» di diritto amministrativo, tanto da intravedere uno sproloquio «inseguendo una impostazione di tipo ideologico». Gravina se la prende anche con le denunce delle Ong, perché il pubblico ministero avrebbe sposato «l' idealità o l' ideologia avanzata da queste strutture che hanno le loro logiche, imponendola in una «fattispecie processuale, un' accusa che deve rispondere ad altri criteri di solidificazione del racconto e della prova del racconto». L'obiettivo sarebbe stato «quello di assemblare pezzi di episodi di storie diverse in modo che ne» uscisse «una suggestione negativa insuperabile, una stigmatizzazione moralistica». Per la pg, in pratica, se di reato si deve parlare sarebbe quello di appropriazione indebita o semmai di false fatturazioni. Ma le stilettate contro i pubblici ministeri non si fermano qui. Gravina contesta soprattutto le diverse dichiarazioni rilasciate da Armanna a processo. Nel quarto interrogatorio del 27 aprile 2016, proprio l'ex manager Eni si sarebbe inventato l' incontro tra Descalzi, il presidente della Repubblica della Nigeria Goodluck Jonathan e Abubakar, dove si sarebbe parlato di Obi. Descalzi che ha spiegato che «lui non c' era in Nigeria nei mesi di maggio e giugno quando ci sarebbero stati questi incontri». Per la Procura generale, «l' argomento» non è stato «approfondito in alcun modo dal pubblico ministero» dal momento che poteva essere «verificato in fatto».

La guerra dei Pm. Tutti assolti, la tangente Eni alla Nigeria non esisteva, i giornali che la davano per certa chiederanno scusa? Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Marzo 2021. L’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi e l’ex ad Paolo Scaroni, sono stati assolti perché il fatto non sussiste dalle accuse sostenute dal solito Pm, de Pasquale, relative a ipotetiche tangenti pagate in Nigeria per assicurare appalti all’Eni. Non è la prima volta che Scaroni viene assolto. La guerra che ha subìto da parte di pezzi di magistratura è una guerra di lunga durata. Stavolta il Pm aveva chiesto otto anni di prigione. Otto. Circa una volta e mezzo della pena che si chiede, di solito, per uno stupro. Certo, ormai è così: una eventuale bustarella è considerata come cosa ben più abominevole della violenza sessuale contro una donna. Ogni periodo storico ha la sua moralità. Poi, per fortuna, oltre ai Pm ci sono anche i giudici. I quali, talvolta, chiedono le prove, e quando ai Pm – ad alcuni Pm – chiedi le prove, spesso loro cadono dalle nuvole, e un po’ si indignano. È successo così anche all’accusa contro Descalzi e Scaroni. Il quale Scaroni ancora recentemente era stato assolto dall’imputazione di essere un tangentaro. Il fatto che sia stato assolto non vuol dire che non abbia pagato un prezzo abbastanza salato ai processi che gli hanno fatto. Scaroni è stato un grande manager, è un personaggio che ha difeso e reso grande l’Eni, ha difeso l’economia del nostro paese, credo che proprio per questo sia stato sbattuto tante volte al banco degli imputati. Del resto non è una grande novità. Noi poi ci chiediamo perché l’Italia che all’inizio degli anni Novanta era la quarta potenza economica al mondo ora scivola verso il decimo posto ed è previsto che – salvo inversioni di tendenza – presto finirà al ventesimo. La guerra della magistratura all’iniziativa economica c’entra parecchio con questa deriva.

P.S. Chissà se i giornali che in questi anni hanno dato per certa la colpevolezza, di Descalzi e Scaroni, chiederanno scusa.

Alessandro Sallusti per "il Giornale" il 18 marzo 2021. Per una decina di anni la più grande e prestigiosa azienda pubblica italiana, l' Eni, è stata tenuta sotto scacco dalla Procura della Repubblica di Milano con una inchiesta su una fantomatica tangente di oltre un miliardo di euro al governo nigeriano, che ha coinvolto anche gli ultimi due amministratori delegati, Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, per i quali il sostituto procuratore Fabio De Pasquale aveva chiesto otto e dieci anni di carcere. Ieri la sentenza: tutti assolti «perché il fatto non sussiste». Ai due manager è andata meglio di un loro predecessore, il presidente dell' Eni Gabriele Cagliari che, finito nell' estate del '93 in piena Tangentopoli nelle mani dello stesso De Pasquale, si tolse la vita in carcere al rifiuto del magistrato di firmare la sua scarcerazione. Oggi giustizia è fatta ma, al di là del calvario degli imputati, il danno al sistema Paese, di immagine e di sostanza, è stato enorme e ovviamente resterà impunito. Eppure era evidente fin dall' inizio che questa inchiesta si basava su un fantasioso teorema, per di più inquinato da rivelazioni e ritrattazioni di loschi faccendieri e noti millantatori, di fronte alle quali un magistrato avrebbe dovuto ammettere l' errore e fermare le macchine. Invece niente, De Pasquale è andato avanti ingaggiando una sfida personale, ben sostenuta dal circo mediatico giudiziario raccontato da Luca Palamara nel suo libro intervista. Al punto che ancora ieri, vigilia di sentenza, addirittura il Corriere della Sera ha pubblicato una articolessa della sua firma giudiziaria, Luigi Ferrarella, per mettere le mani avanti dopo anni passati a fare da cassa di risonanza alle strampalate tesi dell' accusa. Se ci sarà una assoluzione è il senso dell' intervento sarà perché «la struttura della norma e lo stratificarsi della giurisprudenza hanno molto alzato l' asticella delle prove richieste». Come dire, essere assolti non significa non essere colpevoli, riedizione del «un innocente è un colpevole che l' ha fatta franca», pronunciato da Piercamillo Davigo ai microfoni di Bruno Vespa. Che il Corriere della Sera si erga a giudice ed emetta una condanna, nella sua ambiguità perpetua, nei confronti della prima azienda italiana e dei suoi manager per salvare dal fallimento un magistrato amico «che ha profuso un enorme sforzo» non è una bella notizia, non soltanto per noi garantisti ma per tutta l' informazione.

Di Pietro e il processo Eni. "Indagine senza senso. Intervenga il Parlamento". L'ex pm: «Cercare i colpevoli prima dei reati è un modello sbagliato che usano in tanti». Luca Fazzo - Ven, 19/03/2021 - su Il Giornale. Un'inchiesta fatta al contrario, puntando ai presunti colpevoli prima ancora di avere scoperto il reato, e andando poi alla caccia di qualcosa da attribuire loro. Questa è stata l'indagine della Procura di Milano sulle tangenti che l'Eni avrebbe versato in Nigeria, azzerata dalla sentenza che mercoledì, dopo un processo durato tre anni, ha assolto tutti gli imputati: a partire dall'ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni e dal suo successore Claudio Descalzi. A dirlo, puntando il dito contro i sistemi investigativi della Procura di cui anche lui ha fatto parte per dieci anni, è Antonio Di Pietro, il pm simbolo di Mani Pulite. «Fin da quando ho avuto modo di apprendere dell'esistenza di questa indagine e della metodologia utilizzata, ho avuto delle riserve», dice l'ex parlamentare, parlando dell'inchiesta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale sui vertici dell'azienda energetica di Stato. Una sola concessione Di Pietro fa all'accusatore dell'Eni: «Ho rispetto personale per l'ex collega pm Fabio De Pasquale e sono intimamente certo della sua totale buona fede e del fatto fosse convinto della bontà dell'indagine che ha condotto». Ci mancherebbe altro, verrebbe da dire. Ma per il resto i giudizi di Di Pietro - affidati ad una lunga intervista all'Adnkronos - sono duri come sassi. «In questi anni - spiega Di Pietro - ho molto riflettuto su questa inchiesta, anche perché riguarda persone che in qualche modo ho indagato anch'io a suo tempo»: il riferimento è a Scaroni, che «Tonino» arrestò per i reati commessi in Techint. «Si tratta di un'inchiesta indubbiamente interessante se la si osserva tentando di capire cosa avviene alle spalle. Il fatto in sé è un fatto che coinvolge Stati prima ancora che persone, e riguarda un ambito di primissima grandezza economico-finanziaria». Ma «dal primo momento, proprio perché conosco il modello di indagine posto in essere da una parte dei pm della procura della Repubblica, l'inchiesta mi ha lasciato molto perplesso». É un attacco frontale, senza mezzi termini. Ero perplesso, dice lo scopritore di Tangentopoli, «e i fatti mi hanno dato ragione, perché si tratta di un modello di indagine alla ricerca di un reato, non è un modello di indagine alla scoperta del colpevole di un reato certo, avvenuto. Tanto è vero che l'assoluzione è stata perché il fatto non sussiste». A rendere grave l'accusa di Di Pietro ai colleghi è che in nessun articolo il codice prevede che una inchiesta possa nascere e venire condotta in questo modo. «Le attività di indagine dei pm hanno due livelli: primo, l'esistenza del reato, secondo, chi l'ha commesso. Ma se io mi metto a indagare prima su chi l'ha commesso senza accertare se il reato è stato commesso, ho creato di fatto una colpevolezza prim'ancora che ci sia». E purtroppo secondo Di Pietro il caso Eni non è un caso isolato: «Quel modello di indagine, che non riguarda certamente solo il procuratore De Pasquale, già da quando c'ero io in procura rappresentava una spaccatura che permane ancora all'interno non solo della procura di Milano ma del sistema complessivo dell'attività investigativa italiana. Spaccatura che può essere risolta solo dal legislatore per evitare inchieste dagli effetti disastrosi e che dovrà dirimere una questione: quando deve intervenire il pm? Per accertare se è stato commesso un reato o per accertare, premesso che il reato è stato commesso, chi è il colpevole?»

Derby tra sinistra e destra giudiziaria. Dietro la sentenza su Eni c’è la guerra tra le correnti in magistratura. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Ieri in Procura a Milano il silenzio era assoluto. Nessuno fra i pm aveva voglia di commentare l’assoluzione di tutti gli indagati eccellenti del processo “Eni-Nigeria”. Quella frase pronunciata il giorno prima dai giudici, “il fatto non sussiste”, ha lasciato il segno. Le indagini, costate milioni di euro – tutti soldi dei contribuenti italiani – fra rogatorie, acquisizione di atti, perizie e consulenze varie, oltre a tre anni di dibattimento e settantaquattro udienze, non erano riuscite infatti a dimostrare che Eni e Shell avessero pagato una tangente di oltre un miliardo di euro ad esponenti del governo nigeriano per l’utilizzo del giacimento petrolifero Opl 245, uno dei più ricchi al mondo. Il fascicolo, il più importante dai tempi di Mani pulite, era stato assegnato al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, responsabile del dipartimento “reati economici transazionali”, stretto collaboratore del numero uno della Procura milanese, Francesco Greco. Fin dalle prime udienze, però, fra tutti gli addetti ai lavori l’impressione era che il collegio si stesse formando un convincimento difforme rispetto alle valutazioni dei pm che avevano tenuto il punto fino all’ultimo giorno. La Procura milanese è notoriamente progressista. Un “santuario inviolabile” come disse l’ex zar delle nomine Luca Palamara rispondendo a chi gli domandava come mai tutti i procuratori degli ultimi quarant’anni, e la quasi totalità degli aggiunti, fossero sempre stati esponenti di Magistratura democratica, la sinistra giudiziaria. Il collegio giudicante di “Eni-Nigeria”, presidente Marco Tremolada, a latere Mauro Gallina e Paola Maria Braggion, era composto, invece, da magistrati di area non progressista. Anzi. Gallina è una toga di punta di Magistratura indipendente, il gruppo di “destra”, nel distretto di Milano, e ha ricoperto anche l’incarico di segretario della locale giunta Anm. Braggion, poi sostituita da Alberto Carboni, è ora consigliera del Csm sempre di Magistratura indipendente. La bomba, amplificata dai giornali di riferimento della Procura di Milano, ad iniziare dal Corriere della Sera, sul collegio viene sganciata a dicembre del 2019. La Procura milanese aveva interrogato l’avvocato siciliano Piero Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani. Amara è una sorta di Scarantino del terzo millennio: viene chiamato da molte Procure italiane come testimone contro i magistrati. Ad iniziare da Perugia dove è uno dei principali testimoni contro Palamara. Come Scarantino, però, Amara non sempre è affidabile. A Milano Amara aveva puntato direttamente il presidente del collegio Tremolada con una accusa micidiale che poteva far saltare tutto il processo. Davanti ai pm milanesi racconta, in particolare, di aver saputo dal capo dell’ufficio legale di Eni, l’avvocato Michele Bianco e dall’avvocata Alessandra Geraci, che i due principali difensori del processo, Paola Severino (che assiste Claudio Descalzi), e il legale di Eni Nerio Diodà “avevano accesso” al presidente Tremolada. A fine gennaio 2020 il procuratore Greco con l’altro aggiunto Laura Pedio, in pieno dibattimento Eni-Nigeria, trasmette alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dalle toghe milanesi, il verbale di Amara con la testimonianza esplosiva nei confronti di Tremolada. A Brescia viene subito aperto un fascicolo, a carico di ignoti, per traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio. De Pasquale, omissando parte del verbale di Amara, tenterà di produrlo all’udienza del 15 febbraio senza riuscirci. Bianco e Geraci nel frattempo sono ascoltati a Brescia e negano di aver mai detto nulla di ciò ad Amara. L’avvocato siciliano non viene indagato per calunnia, come ci si sarebbe aspettato, in quanto la sua deposizione, ritenuta fondamentale dalla Procura di Milano, sarebbe stata alquanto generica. Il gip di Brescia, su richiesta dei pm, archivierà allora il 24 dicembre dello scorso anno. Ma che la credibilità di Amara sia quasi sempre pari a zero lo aveva evidenziato nel gennaio 2019 l’allora pm romano Stefano Rocco Fava. L’autore del celebre esposto contro Giuseppe Pignatone. Il magistrato, che lo stava indagando da tempo per bancarotta e altri reati, aveva chiesto per lui la custodia cautelare, evidenziando come fosse stato reticente in più occasioni nei suoi rapporti proprio con Eni. Arrestato la prima volta a febbraio del 2018, Amara aveva ricevuto a maggio successivo da Eni 25 milioni. Una circostanza sospetta per Fava. Di diverso avviso i suoi colleghi, ad iniziare dal procuratore aggiunto Paolo Ielo che aveva deciso di non procedere con la cattura, ritenendo fosse un atto che “indeboliva” le indagini. Fava sarà poi estromesso dalle indagini nei confronti di Amara.

Dagoreport il 19 marzo 2021. La sentenza Eni, che dopo otto anni di indagini e tre di dibattimento, ha assolto i vertici di Eni e altri 13 imputati, riapre l'irrisola questione della (mala)giustizia italiana. Se la più grande azienda di Stato viene portata alla sbarra e, dopo anni di sputtanamento internazionale, il risultato ottenuto dai pm è “il fatto non sussiste” un problema di "qualità giudiziaria" esiste, eccome. Il cortocircuito del “Sistema”, il groviglio disarmonico tra magistrati, politica e potere, era già stato portato a galla dal caso Palamara e dalle rivelazioni bomba che l’ex presidente dell’Anm ha infilato nel suo libro-intervista con Sallusti, tra i più venduti in Italia (a proposito: per le sue affermazioni esplosive Palamara ha ricevuto finora solo la querela di Paolo Ielo, gli altri si guardano bene dall’aprire bocca…). In un paese con un'opinione pubblica pimpante e non rincoglionita dalle risse tra i virologi, sarebbe scoppiato un putiferio. O almeno, certificato il marcio del "Sistema", un dibattito pubblico sulla giustizia sarebbe stato preteso ad horas. E invece? Le toghe fanno orecchie da mercante, anzi si oppongono a ogni seria riforma del Csm che ponga un argine alle prerogative delle correnti. La politica sul tema è asintomatica: è parte del problema ma finge di non vedere. I giornali, divisi in tifoserie, si auto-relegano al ruolo di trombettieri della corrente più amica. I cittadini, spremuti e logorati dalla pandemia, hanno altro a cui pensare. In questo marasma, arriverà al voto probabilmente dopo Pasqua il parere del Csm sulla riforma della giustizia Bonafede, che alla Camera è in attesa degli emendamenti proposti da Marta Cartabia. La neo-ministra, nonostante abbia approcciato la questione in punta di piedi, è già stata rintuzzata dal Consiglio superiore della magistratura che ha respinto ogni ipotesi di essere ridimensionato nelle sue “prerogative costituzionali”. A Roma, dopo l’annullamento del Tar della nomina di Michele Prestipino, la procura di piazza Clodio è acefala. Sul fu “porto delle nebbie” si è già aperto un nuovo conflitto, visto che il Csm ha impugnato la decisione davanti al Consiglio di Stato. Non va meglio a Milano dove il procuratore Francesco Greco andrà in scadenza a novembre, quando compirà 70 anni. Greco s’avvicina all’uscita con la bruciante sconfitta, in tandem con il pm Fabio De Pasquale, nel processo Eni. Una mazzata più grave di quanto si possa immaginare. Lo ha spiegato chiaramente ieri Carlo Bonini su “Repubblica”: “L'assoluzione perché "il fatto non sussiste" censura il lavoro della pubblica accusa su un punto qualificante. Non essere riuscita a produrre elementi di prova solidi in grado di sostenere una richiesta di condanna”. Un ceffone al lavoro di Fabio De Pasquale e Francesco Greco. Ecco: si può chiedere una condanna di 8 anni di galera solo in base agli indizi? A rivelarlo il 22 luglio 2020 fu lo stesso pm Fabio De Pasquale che, dopo ben 6 anni di indagine, rivolto al tribunale, riscrive il diritto penale: “Non chiedeteci una prova diabolica, non siamo in un film dove c’è la pistola fumante: vi chiediamo di valutare le prove come le intendono le convenzioni internazionali, quindi anche gli indizi nel loro complesso, quindi anche i pezzi della pistola fumante quando li si trova in giro...”. “È una censura - prosegue Bonini - che segnala come, durante il dibattimento, non solo non sia stata prodotta la pistola fumante, ma sia soprattutto venuta meno l'attendibilità del suo "impumone", l'imputato-testimone su cui, alla fine, buona parte dell' impalcatura accusatoria poggiava. Quel Vincenzo Armanna, ex manager Eni, capace di ritrattare più volte, a suo dire intimidito dalla stessa Eni e tuttavia demolito dalle difese nel corso del processo”. Il flop dei magistrati di Milano - che in queste ore stanno valutando il ricorso - non è legato solo al merito e ai metodi dell’indagine ma - come evidenzia ancora Bonini - a “quell'insopportabile e tossico contesto che ha trasformato una vicenda scivolosa, comunque opaca, in un ennesimo ‘Giudizio di Dio’. Su entrambi i lati della barricata”. E questo, ovviamente, è un problema enorme per il Sistema Paese che - su ogni inchiesta “sensibile” - si divide in ultrà, fazioni, conventicole armate che finiscono per ignorare i diritti della difesa, i limiti dell’accusa e il contesto sociale e politico. Di questi numerosi e articolati problemi della giustizia dovrebbe occuparsi anche chi, del Csm, è il capo: il presidente della Repubblica. A proposito, il vice del CSM Ermini che fa? Il capo del CSM Mattarella se ne occupa? Il suo mandato è in scadenza: a gennaio 2022 lascia il Quirinale. Gli conviene sporcare il candore del suo semestre bianco, che più bianco non si può, con il fango del “Sistema”? Ovvio che no. Sergione, stai sereno. Se ne occuperà qualcun altro. Forse.

Luca Fazzo per “Il Giornale” il 20 marzo 2021. Non era mai accaduto che un processo spaccasse così frontalmente la Procura di Milano. E non era mai accaduto che un capo della Procura si sentisse rivolgere, nel pieno del brusco scambio di opinioni, l' invito che viene mandato giovedì mattina a Francesco Greco da uno dei suoi pm: «Francesco, non ci prendere in giro». Al centro di tutto c' è il processo più importante condotto in questi anni dalla Procura milanese, e culminato mercoledì scorso nella sua sconfitta più cocente, l' indagine sulle tangenti che l' Eni avrebbe pagato in Nigeria per ottenere lo sfruttamento del giacimento Opl245. L' Eni e i suo top manager Paolo Scaroni e Claudio Descalzi sono stati assolti con formula piena dopo un processo durato tre anni, e dopo la richiesta di otto anni di carcere avanzata per Scaroni e Descalzi dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Una botta epocale, che ha portato alla luce divisioni che forse un esito diverso avrebbe tacitato. Così ieri il gruppo WhatsApp interno alla Procura milanese diventa l' arena per uno scontro senza precedenti e senza timori reverenziali. A monte ci sono le risorse e l' ostinazione con cui De Pasquale ha formulato una indagine di formidabile visibilità mediatica ma in cui fin dall' inizio le prove concrete sono apparse inafferrabili. A peggiorare il clima, le divisioni interne alla Procura sulla scelta di attaccare il presidente del tribunale che stava processando l' Eni, accusato di essere troppo innocentista. A dare il via alla polemica è un sostituto procuratore che posta sul gruppo la copia dell' articolo di Mattia Feltri, apparso all' indomani della sentenza sulla prima pagina della Stampa, intitolato semplicemente «La mania», che spiega che in tutto il mondo le imprese strategiche vengono protette dalle inchieste, «mentre da noi gli inquirenti fanno quello che vogliono, e non le proteggiamo nemmeno dalla mania del sospetto». È un articolo di tale asprezza che nella Procura di una volta, o riferito a un altro processo, avrebbe suscitato l' esecrazione generale. Invece viene divulgato, e iniziano i commenti. Alcuni critici, alcuni no. Al punto che deve scendere in campo Francesco Greco con un lungo post, rivendicando per intero l' inchiesta di De Pasquale, ricordando che l' azione penale è obbligatoria e che perseguire la corruzione internazionale è una indicazione che viene anche dall' Ocse, l' Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. Ma il dibattito non si ferma. Lo stesso De Pasquale interviene a propria difesa pubblicando su WhatsApp la memoria d' accusa depositata al processo Eni, invitando i colleghi a documentarsi. Ma ormai il sasso è lanciato. «A volte non si può stare zitti a costo di perdere la propria dignità. Ma di cosa state parlando? Vi siete mai chiesti cosa pensano i cittadini africani di questa situazione? Francesco per piacere non prenderci in giro, io so quello che è successo e un giorno andrà detto fino in fondo». Una pm scende in campo in difesa di Greco e si vede definita «dama di compagnia come tanti». E poi: «Il problema non è il terzomondismo ma quello che è successo in questo processo. Di questo un giorno dovremo discutere, non di Ocse o convenzioni internazionali».

Quelle trame sul processo Eni. E spunta una chat del Pm. Il pg di Messina consegna a Cantone gli sms con De Pasquale I veleni del "Sistema" toccano Roma, Milano e la Sicilia. Luca Fazzo - Dom, 21/03/2021 - su Il Giornale. Alla fine un pm sbotta sul gruppo di whatsapp: «Se c'è un segreto d'ufficio c'è il dovere di stare zitti. Se si vuole parlare si deve parlare in modo che tutti capiscano. Altrimenti diventa il metodo dell'insinuazione, dello schizzo di fango». Eh sì. Perché sullo scambio di chat - di una asprezza senza precedenti - scatenato tra i pm milanesi dalla sconfitta della Procura nel processo Eni e rivelato ieri dal Giornale incombe una quantità di cose non dette, appena accennate, alluse, in una situazione dove i veleni del caso Palamara si incrociano con la gestione dell'inchiesta Eni. E dove bisogna sperare che davvero alla fine accada quello che promette uno dei sostituti procuratori: «Io so quello che è successo e un giorno andrà detto fino in fondo». L'unica certezza è per ora è che si incrociano due manovre. Una è quella che, secondo la Procura milanese, sarebbe stata orchestrata in ambienti vicini all'Eni per delegittimare Fabio De Pasquale, il pm titolare dell'inchiesta sull'ente petrolifero di Stato. L'altra è quella, di segno esattamente opposto, che aveva nel mirino Marco Tremolada, il giudice del processo Eni, sospettato dalla Procura di un eccesso di garantismo: e in effetti alla fine ha assolto tutti. Il problema è che queste due manovre hanno per comune denominatore la stessa fonte: Pietro Amara, avvocato siciliano dai mille oscuri rapporti. Amara è una gola profonda a tempo pieno, utilizzato da almeno tre procure (Roma, Perugia, Palermo) in un incrocio di inchieste di cui non si capisce bene l'origine e ancor meno il fine. Amara è la fonte che rivela alla Procura milanese che, secondo una confidenza di terza mano, il presidente del processo Eni Marco Tremolada sarebbe stato avvicinabile dai legali dell'azienda. È Amara a raccontare, sempre a Milano, di un complotto ordito dall'ufficio legale Eni contro il pm Fabio De Pasquale. Ma è sempre Amara ad accusare il procuratore generale di Messina, Barbaro, di avere tramato con Luca Palamara per fare carriera e di avergli rivelato dettagli sull'inchiesta che aveva nel mirino il lobbista Fabrizio Centofanti, grande amico dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Cosa c'entra Barbaro nelle cose milanesi? C'entra. Dieci giorni fa, l'11 marzo, il pg di Messina viene interrogato a Roma da Raffaele Cantone, capo della Procura di Perugia, titolare dell'inchiesta contro Palamara. Barbaro spiega di avere «allentato» i contatti con Palamara fin dal marzo 2017, perché durante una trasferta a Roma «Paolo Ielo (procuratore aggiunto, ndr) nel corso di un colloquio all'interno della macchina nel tragitto dalla procura di Roma a questo ufficio mi disse di prestare attenzione a Luca Palamara in quanto amico di Fabrizio Centofanti». Barbaro consegna a Cantone i messaggi con Ielo, rimasti sul suo telefono. Ma, senza apparente motivo, consegna anche i messaggi scambiati il 7 febbraio 2018 con Fabio De Pasquale. Il giorno prima le Procure di Messina e di Roma hanno arrestato Amara insieme al pm corrotto Giancarlo Longo, un altro avvocato, Giuseppe Calafiore, ha evitato le manette perché è all'estero; Centofanti è indagato. De Pasquale appare assai soddisfatto; «Ciao Vincenzo, mi pare che l'operazione sia andata bene. Quantomeno grande armonia, cosa non sempre scontata di questi tempi. Messina può andare più in profondità degli altri uffici.. spiramu (anche De Pasquale è messinese come Barbaro, ndr)». Barbaro risponde che ormai lui è in Procura generale e non ha diretto il blitz, ma De Pasquale replica: «Lo so che non sei sul campo ma hai dato il calcio d'inizio. È importante rimanere collegati ora. Vediamo che dice Longo». Cosa intende De Pasquale quando dice che Messina andrà più a fondo «di altri»? E per quale indagine invita Barbaro a restare collegati? (Di certo c'è che in quel momento, nonostante sia stato messo sull'avviso da Ielo, Barbaro continua a tenere stretti rapporti con Palamara. Parlano di nomine e di carriere. Intanto sotto Natale Barbaro chatta: «Ciao mi mandi il telefono della Balducci? Le ho promesso i torroncini». E Palamara: «Due mandali anche a me!)

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 19 marzo 2021. La Procura di Milano ha provato fino all'ultimo a far condannare l'Eni e i suoi massimi dirigenti. E fino all'ultimo ci hanno provato anche alcune grandi penne, dando fiato alle trombe dei pm. Come dimenticare infatti la pagina uscita una settimana fa sul Corriere della Sera a firma di Milena Gabanelli? E come non considerare l'articolo, anche quello di una pagina e pure quello pubblicato all' inizio di marzo, sul Fatto Quotidiano a firma di Gianni Barbacetto, una vita da cronista in tribunale, e titolato: «Nigeriagate, tutte le fake news sui giornali per assolvere l' Eni»? Ad assolvere la più grande azienda italiana dall' accusa di aver pagato la più grande tangente della storia a uomini politici nigeriani, alla fine non sono stati i giornali, con le loro fake news, come titolava il quotidiano diretto da Marco Travaglio, ma i giudici, i quali hanno ritenuto inverosimili e prive di prove le accuse sostenute dalla procura. A dire il vero, di motivi per dubitare dell' inchiesta condotta da Fabio De Pasquale ce ne erano anche prima che arrivasse la sentenza che ha mandato assolti tutti gli imputati «perché il fatto non sussiste». Bastava infatti aver seguito qualche udienza del processo per rendersi conto che la storia raccontata dai pm non stava in piedi, a cominciare dalla confessione della gola profonda da cui era partito tutto. Vincenzo Armanna, ex dirigente dell' Eni, era un accusato, ma soprattutto un accusatore. Era lui il teste chiave che aveva raccontato dell' aereo carico di una montagna di dollari. Che il velivolo non potesse neppure decollare con a bordo un simile peso era per i magistrati un dettaglio secondario. Come secondarie erano le zoppicanti dichiarazioni rese in aula, quando a conferma delle sue tesi Armanna aveva fatto chiamare davanti ai giudici una serie di improbabili testimoni, che non solo avevano smentito le accuse, ma addirittura avevano smentito di essere testimoni. Sì, quello all' Eni è stato un processo farsa, altro che fake news. Un processo che probabilmente non avrebbe mai dovuto neppure iniziare, perché prima che i presunti reati finissero davanti al tribunale di Milano erano già stati vagliati dalla giustizia americana e inglese, dato che sia Eni che Shell, altra società petrolifera coinvolta nel caso, sono quotate a New York e a Londra. No, nessuno aveva trovato traccia di tangenti, ma i magistrati di Milano erano convinti del contrario, ovvero che fosse stata pagata una super stecca per aggiudicarsi una concessione petrolifera in Nigeria. Per questo, oltre a chiedere la condanna di tutti i manager, presenti e passati, volevano sequestrare 1 miliardo e 92 milioni all' azienda del cane a sei zampe. Alla fine, direte, tutto è bene quel che finisce bene e non dobbiamo dolerci per avere ai vertici dell' Eni una banda di corruttori. Dunque, la giustizia - sebbene questo sia solo il primo grado - alla fine ha trionfato. Sì, vero. Ma quest' indagine non è stata gratis. Solo le parcelle legali alla società sono costate 60 milioni e non immaginiamo quanto siano costate le indagini, tra intercettazioni, viaggi, perizie, rogatorie e interrogatori. Anche in questo caso pensiamo milioni. Sono i costi della giustizia? Sì, certo. Se non fosse che da decenni la Procura indaga su Eni e da almeno dieci anni sbatte la testa contro il muro, respinta da sentenze spesso passate in giudicato. Anni fa, i pm arrivarono ad avanzare la richiesta di commissariare l' azienda in Kazakistan, vietandole di occuparsi del più grande giacimento scoperto negli ultimi 30 anni. Motivo? Venti milioni di dollari di tangenti pagate al genero del presidente kazako. Ma il giudice respinse la misura interdittiva presentata da Fabio De Pasquale, lo stesso magistrato uscito sconfitto l' altro ieri dall' inchiesta Nigeriagate. Dopo l' indagine sui rapporti con Astana, piovvero altre accuse, però questa volta riguardanti l' Algeria. Eni e Saipem avrebbero pagato una stecca e per questo la Procura sollecitò un sequestro di quasi 200 milioni. Dopo anni di indagini e di processi, il gruppo è stato assolto, con sentenza passata in giudicato. Poi, è arrivato il capitolo riguardante il Congo, anche in questo caso l' ipotesi iniziale prevedeva la corruzione, ma ieri i pm hanno chiesto al giudice di derubricare tutto in induzione indebita internazionale. In pratica, invece di un nuovo processo, i magistrati sono pronti a un accordo: in cambio del pagamento di una multa da 800.000 euro, più 11 milioni di risarcimento, il procedimento verrebbe chiuso. Eni si eviterebbe un ulteriore giudizio (e un'ulteriore spesa in parcelle legali) e i magistrati forse un' ulteriore sconfitta, ma così potrebbero recuperare un po' di soldi, compensando un poco quelli andati in fumo con il Nigeriagate. Non so come la pensiate voi: magari in Eni esulteranno, noi no. Perché dopo vent' anni di inchieste e assoluzioni, forse è giunta l' ora che qualcuno ci spieghi che cosa è successo. E magari, se ci sono stati errori, qualcuno eventualmente paghi.

Nigeria, processo Eni Shell: dove sono finiti 1,3 miliardi di dollari. DATAROOM Milena Gabanelli 15 marzo 2021. A giorni il tribunale di Milano deciderà su uno dei più grandi processi per corruzione internazionale: l’acquisto da parte di Eni e Shell della licenza ad esplorare il ricco blocco petrolifero OPL 245 al largo delle coste nigeriane. Somma versata allo stato nigeriano: 1,3 miliardi di dollari. Il fatto accertato è che ai nigeriani sono finiti gli spiccioli e nulla più arriverà: l’accordo prevede niente compartecipazione sui futuri profitti.

Il ministro si assegna un giacimento. L’OPL 245 è uno dei blocchi petroliferi più importanti d’Africa, sicuramente della Nigeria. Nel 1998 l’allora Ministro del Petrolio Dan Etete lo aveva assegnato a se stesso o, meglio, alla Malabu, che faceva capo allo stesso Etete, il quale nel 2001 si sceglie come partner tecnico la Shell. Nel 2002 il governo Obasanjo ritira la licenza alla Malabu e la assegna sempre a Shell, ma tramite gara. La compagnia anglo olandese firma il contratto, deposita il «bonus di firma» di 210 milioni di dollari e inizia ad esplorare sostenendo un costo di 350 milioni in 3 anni. Il petrolio lo trova: i fondali sono ricchissimi. E qui iniziano i contenzioni nelle corti nigeriane: Etete chiede la restituzione del blocco alla Malabu e nel 2006 l’allora ministro della giustizia Bayo Ojo lo accontenta. A sua volta Shell porta la Nigeria a un arbitrato internazionale chiedendo danni miliardari. Passa qualche anno e l’arbitrato non andrà da nessuna parte perché nel frattempo si apre un altro scenario.

Come inizia la trattativa con Eni. Shell, attraverso una unità di intelligence, riapre il tavolo con Etete e a inizio 2010 entra in scena Eni tramite un giovane uomo d’affari nigeriano, Emeka Obi, che conosce Gianluca di Nardo, socio di Bisignani, il noto faccendiere legato a Paolo Scaroni. Ed è proprio all’allora amministratore delegato di Eni Scaroni che Bisignani propone l’affare. «Bisignani era la persona che ci aveva messo in contatto con Obi e ci aveva consentito di cominciare le trattative per OPL 245» racconterà ai magistrati l’attuale amministratore di Eni Descalzi durante l’interrogatorio. Dunque Obi è il mediatore fra Eni ed Etete. A trattare in Nigeria il l’allora numero due di Eni Descalzi e i suoi dirigenti sul posto Roberto Casula e Vincenzo Armanna, project leader dell’intera operazione. È la prima persona di Eni a incontrare Dan Etete nella sua villa di Lagos.

L’accordo con il governo. La trattativa va avanti quasi un anno, ma quando è il momento di chiudere Eni si chiede se può permettersi di comprare da uno che si è intestato un pezzo di Stato. In più a carico di Etete c’è una condanna per riciclaggio in Francia, dove ha comprato immobili con i proventi di tangenti incassate durante la sua attività di ministro. E questo Eni lo sa, lo dice la due diligence chiesta dalla società petrolifera italiana alla The Risk Advisory Group prima dell’acquisto dell’OPL 245. La storia è legata allo scandalo di Bonny Island, sempre in Nigeria, in cui fu coinvolta e condannata la nostra Saipem, all’epoca una società dell’Eni. Il rischio di reputazione quindi per Eni è troppo alto. La decisione è presa: trattare direttamente con il governo nigeriano. Alla guida del Paese c’è Goodluck Jonathan, buon amico di Etete nonché professore privato dei suoi figli quando era ministro del Petrolio. Siamo a novembre 2010, gli intermediari scompaiono dalla negoziazione, un paio di mesi dopo anche Etete e ad aprile 2011 si sigla l’accordo con il governo: prezzo pattuito 1,3 miliardi. Shell versa 319 milioni (vengono attualizzati i costi già sostenuti) ed Eni ci mette il resto.

Si apre l’inchiesta. Chiusa l’ operazione Obi si presenta alla corte inglese: rivendica da Etete il pagamento di circa 200 milioni di dollari per il lavoro di mediazione svolto. Porta le carte al giudice che dispone il sequestro, gli dà ragione e nel 2013 gliene riconosce 110. Della questione vengono a conoscenza due organizzazioni non governative, l’inglese Global Witness e l’italiana Re:Common che denunciano la vicenda presso la procura a Milano. Il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale apre l’inchiesta e segue i soldi. Dal conto di Obi 20 milioni in franchi svizzeri arrivano a Gianluca di Nardo (socio di Bisignani). Sia Obi sia Di Nardo chiedono il rito abbreviato e a settembre 2018 vengono condannati a quattro anni dalla Gip Giusy Barbara e i soldi confiscati. Ritornando al 2011, presso la JPMorgan di Londra ci sono 1.092.040.000 di dollari versati da Eni e intestati al governo nigeriano. Il primo tentativo da parte del ministro delle finanze della Nigeria è trasferire i soldi alla BSI di Lugano su un conto riconducibile a Gianfranco Falcioni, all’epoca vice console onorario a Port Harcourt. Il mandato è quello di trasferirli a sua volta all’ex ministro del Petrolio, trattenendo qualche decina di milioni. La risposta della BSI è lapidaria: «Dan Etete è stato condannato da un tribunale europeo per riciclaggio. Bsi non può intrattenere rapporti con persone condannate per tali tipologie di reati». E rimanda i soldi a Londra. Seguiranno altri tentativi, su una banca di Beirut, andati a vuoto.

Il prezzo della corruzione. Alla fine, e siamo ad agosto 2011, il procuratore Generale nigeriano Adoke Bello conferma la legittimità della transazione e i fondi vengono inviati presso due conti di «Malabu Oil and Gas» in Nigeria. In entrambi il firmatario autorizzato era Dan Etete che a sua volta li smista su diverse società inesistenti. Dalla ricostruzione dei flussi finanziari ben 500 milioni (ovvero la metà del bilancio annuale della sanità della Nigeria) sono stati ritirati e movimentati in contanti. Inoltre: acquistato un aereo, preziosi, auto di lusso, safari. Coinvolti anche funzionari pubblici: pagato il mutuo per un terreno al centro di Abuja di Adoke Bello, il procuratore che ha seguito la chiusura dell’accordo. Mentre 10 milioni di dollari sono andati a Bajo Ojo, l’ex ministro della giustizia che aveva restituito la licenza dell’OPL 245 ad Etete, che poi gira 1,2 milioni al dirigente Eni Armanna sulla Popolare di Bergamo (sequestrati dalla Procura).

Lo schema della spartizione. Alla fine quindi tutto è andato come era previsto. Nei documenti sequestrati ai dirigenti Shell c’è lo schema di pagamento, proposto da Eni a settembre 2010, in un’equazione: X + SB + Y = Z. Dove X è il valore che Eni è pronta a pagare (800 milioni), SB è il bonus di firma che Shell aveva depositato da anni a favore del Governo nigeriano (207 milioni); Y è l’importo di Shell (165 milioni), Z invece è il totale da pagare a Etete che sarà accettabile da tutti i players (cioè il governo): 1,172 miliardi. La cifra sarà poi ritoccata al rialzo. Questa secondo l’accusa è la prova della corruzione. Per la difesa nulla di più di una suggestione: il contratto è stato firmato con il governo nigeriano, i soldi sono stati versati sul conto di Londra intestato al governo. I giudici stabiliranno se i dirigenti di Eni e Shell erano consapevoli che il beneficiario finale sarebbe sempre stato Etete e che, in realtà, al governo nigeriano sarebbero arrivati poco più di 200 milioni.

I nigeriani emigrano in Italia. Quello che è certo è che, nonostante i rigorosi codici etici di queste compagnie, nell’accordo si legge che hanno ottenuto la licenza escludendo lo Stato dai futuri profitti, senza dover pagare royalties e tasse. La Nigeria è fra i Paesi africani uno dei maggiori produttori di petrolio e gas naturale. Dai dati di Banca Mondiale: Il pil procapite è fermo al 1981, poco più di 2000 dollari l’anno, mentre il 43% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Fra i 15 e i 49 anni il 35% delle donne e il 22% degli uomini non è scolarizzato. Il flusso più numeroso di migranti africani verso l’Italia arriva dalla Nigeria: 80.000 negli ultimi 5 anni, 22.000 sono minori. (ha collaborato Luca Chianca)

L’Eni chiede 25 milioni per zittire la Gabanelli. Stefano Corradino, direttore articolo21.org, su Il Fatto Quotidiano il 3 aprile 2013. Ci sono tanti modi per chiudere la bocca alle voci non omologate. Il fascismo vietava direttamente la pubblicazione dei contenuti scomodi e incarcerava i giornalisti non allineati. Qualche anno più tardi la strategia censoria consisteva nel mettere l’informazione sotto il rigido controllo dei governi. Si chiamava P2, loggia massonica che poi fu sciolta ma con alcuni dei suoi illustri accoliti, tuttora in parlamento, ad esercitarne la pervicace continuità. Oggi il bavaglio si avvale di strumenti più sottili ma non meno temibili. Uno di questi è rappresentato dalle cosiddette “querele temerarie“: in pratica se un’inchiesta giornalistica dà fastidio al potente di turno, politico, economico o religioso che sia, scatta la querela. Con richiesta milionaria di risarcimento. E così, il più delle volte, l’autore smette di proseguire il suo lavoro di documentazione intimorito dal procedimento legale. Il 16 dicembre 2012 la giornalista Milena Gabanelli lancia un servizio dal titolo “Ritardi con Eni” per fare chiarezza sull’attività del gruppo produttore di energia. Ieri l’azienda, sesto gruppo petrolifero mondiale per giro di affari, con un atto di querela di ben 145 pagine accusa Report di averne leso l’immagine, e fa richiesta di risarcimento: 25 milioni di euro. Chi si sente diffamato ha tutto il diritto di tutelarsi ma è piuttosto evidente che una cifra di queste proporzioni si configura come un palese tentativo di intimidazione. Una minaccia non pronunciata ma che di fatto suona così: “la prossima volta ci penserai bene prima di occuparti di noi”. La Gabanelli ha vinto praticamente tutte (tante) le cause a cui è stata sottoposta. Sicuramente anche in questo caso non arretrerà di un passo e non chiederà nemmeno all’Eni di ritirare la querela per dimostrare, come ha fatto in ogni circostanza, la veridicità delle sue inchieste. Normalmente questo tipo di cause non vanno a compimento (anche perché occorrono svariati anni per completare l’iter dei dibattimenti). E così il querelato viene assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Ciononostante il querelato ha comunque incassato la vittoria che si proponeva fin dall’inizio: bloccare l’inchiesta giornalistica nei suoi confronti. Per questo il meccanismo perverso dell’intimidazione preventiva va assolutamente demolito. Come afferma l’avvocato Domenico D’Amati, membro del comitato giuridico di Articolo21 e molto competente sulla materia, “con le querele temerarie si verifica che lo strumento giudiziario è utilizzato con scopi intimidatori. Tra l’altro la Suprema Corte di Cassazione ha iniziato a recepire le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo, laddove questa afferma che il diritto all’integrità della reputazione, e il diritto alla riservatezza cedono di fronte alla libertà di informazione”. Su questa materia il parlamento ha avviato un lavoro bipartisan nella passata legislatura. Un iter che ovviamente giace ora impolverato nei cassetti. Sul sito Change.org lanciamo una petizione per chiedere che il nuovo parlamento voglia immediatamente mettere mano ad una revisione della materia che preveda una sostanziosa penalità nei confronti di chi utilizza strumentalmente questo tipo di richieste, condannando il querelante, in caso di sconfitta in sede giudiziaria, al pagamento del medesimo importo: se cioè chiedi 25 milioni di euro alla Gabanelli di risarcimento e poi perdi la causa la risarcisci della stessa cifra. E vince il diritto di informare ed essere informati. Dura lex sed lex.

Aggiornamento delle 19,50. Ricevo e pubblico una replica dell’Eni al mio post: Stefano Corradino: Gentile Direttore, con riferimento all’articolo pubblicato oggi sul sito del Fatto Quotidiano dal titolo “L’Eni chiede 25 milioni per zittire la Gabanelli” a firma di Stefano Corradino ci preme sottoporle alcune osservazioni. Eni ha chiesto un risarcimento di 25 milioni alla Rai (e non alla signora Gabanelli) a fronte di un servizio come quello trasmesso a dicembre da Report, interamente costruito su una serie di affermazioni e illazioni tese a dare un’immagine apparentemente verosimile e solo negativa della società, alla quale è stato tra l’altro precluso un normale contraddittorio. Eni, facciamo presente, è un’azienda composta da oltre 80 mila persone che ogni giorno lavorano credendo seriamente in quello che fanno. Questa nostra decisione, evento straordinario e insolito per la nostra azienda, è stato un atto doveroso innanzitutto nei loro confronti, oltre che naturalmente a difesa del top management e del nome della società. Noi avevamo proposto alla Signora Gabanelli di realizzare un’intervista in diretta. Questo sì che sarebbe stato un contraddittorio (“giornalista che fa domande e l’interlocutore che risponde”, come ci spiega la stessa Gabanelli oggi sul Corriere). La cosa ci è stata negata poiché il format della trasmissione non prevede la diretta. Non siamo noi a dovervi spiegare che poi le interviste vengono montate e spesso tagliate, aggiungiamo noi, e su questo tema purtroppo con Report abbiamo pessime esperienze pregresse. Questo comunque non ci ha impedito di rispondere a ogni richiesta di informazioni che la trasmissione ci ha inviato prima della messa in onda, risposte che abbiamo dato in modo puntuale e trasparente e che potete trovare pubblicate sul sito di Affari Italiani. Una cosa è il sacrosanto diritto di critica, altra è lo stravolgimento delle informazioni. Riteniamo che libertà di informazione significhi anche offrire una vera opportunità di replica. Non si tratta di un tentativo di intimidazione (il dottor Corradino cita addirittura il fascismo, santo cielo!) ma un’ azione attraverso la quale esercitiamo il diritto/dovere di difendere il lavoro di migliaia di persone. Confido, per completezza di informazione, nella pubblicazione di questa nostra posizione. Cordialmente GdG Gianni Di Giovanni Eni – Executive Vice President External Communication Agi –  Chairman 

Alessandro Da Rold per "La Verità" il 26 febbraio 2021. C'è un documento del 14 giugno 2018 che potrebbe mettere in serio imbarazzo il governo della Nigeria, costituitosi parte civile nel processo Opl 245, dove Eni e Shell sono accusate di corruzione internazionale. È una lettera firmata dall'ex ministro del petrolio Emmanuel Ibe Kachiwu dove si possono leggere le richieste da parte di Abuja di esercitare il diritto di «back-in right» (il diritto di rientrare con una quota dopo i rischi di esplorazione), in linea con gli accordi del 2011 stipulati proprio con le due compagnie petrolifere sotto accusa. La missiva, indirizzata a Massimo Insulla (direttore di Nigerian Agip exploration), rivela quindi che il governo nigeriano, a ben sette anni di distanza dal contratto e per di più a processo già in corso, non ravvedeva alcun problema o illecito nella condotta di Eni e Shell. I toni del ministro del Petrolio sono molto cordiali, si legge appunto che Abuja intende rispettare l'articolo 11 dell'accordo del 2011 e che soprattutto è interessata alla decisione delle compagnie petrolifere di iniziare a estrarre petrolio. In pratica i nigeriani convengono con Eni e Shell, come si dice nel gergo petrolifero, di passare dalla «oil prospecting license» alla «oil mining lease»: dopo aver trovato il petrolio bisogna iniziare a estrarlo. La lettera smentisce anche la costituzione di parte civile decisa dal governo il 5 marzo del 2018, in apertura del processo Opl 245 di fronte alla settima sezione del Tribunale di Milano. Perché chiedere i danni su una licenza di estrazione che sarebbe stata comprata grazie alla corruzione e poi invece, tre mesi dopo, riconoscere la validità del prodotto di quella stessa licenza? Per di più nella richiesta di parte civile presentata dall'avvocato Lucio Lucia si smentisce il ministro nigeriano dell'epoca, perché si sostiene che le clausole di «back-in rights» siano stata ottenute «illegittimamente» e siano persino un ostacolo per il rientro del governo. Di più, si sostiene che Eni e Shell abbiano cercato in ogni modo di escludere la Nigeria da diritti contenuti nel contratto: un'affermazione smentita dalla lettera del 2018 di Emmanuel Ibe Kachiwu. Non è l'unico dei tanti misteri che ha caratterizzato in questi anni la linea difensiva del Paese africano. Del resto nel 2017 la Nigeria non intendeva costituirsi parte civile. Poi nel 2018 cambiò idea, decidendo di affidarsi allo studio legale Johnson & Johnson, dove il titolare è lo sconosciuto Babatunde Olabode Johnson, un presunto avvocato che si fa coprire le spese legali da una società anonima, l'americana Poplar falls llc, fondata nel 2016 nel Delaware dal fondo Drumcliffe partners. Come già raccontato dalla Verità lo scorso anno, in questa ragnatela di sconosciute società si nascondono particolari molto particolari. Stando ai contratti, infatti, Poplar falls incasserà il 35% in caso di successo nella causa. Si potrebbe trattare di una cifra spropositata, perché gli avvocati che seguono la Nigeria nel processo di Milano hanno chiesto danni per 1,1 miliardi di euro. La cifra, quindi, dovrebbe toccare i 382 milioni di euro per la Poplar, a cui si aggiungerebbero anche 55 solo per Drumcliffe. Sempre stando agli accordi con Johnson & Johnson, i soldi che potrebbero arrivare in caso di condanna di Eni e Shell non andranno subito al governo di Abuja, quindi non torneranno ai cittadini nigeriani, ma rimarranno su un conto vincolato controllato da un avvocato nominato sempre da Poplar. Queste strane vicende sono da mesi all'attenzione dell'opinione pubblica nigeriana. In Italia in tanti hanno iniziato a porsi delle domande su dove voglia davvero andare a parare il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari. Del resto, il comportamento incomprensibile del 2018 negli anni successivi è proseguito. Mentre il processo continuava a celebrarsi nelle aule del Tribunale di giustizia di Milano, sempre la Nigeria - a metà 2020 - ha deciso di affidarsi a un altro studio legale di Londra, Franklin Wyatt. Quest' ultimo sarebbe stato incaricato di trovare un nuovo accordo con Eni e Shell, con l'obiettivo di evitare la data di scadenza della concessione, ovvero il maggio del 2021. Ma qualcosa è andato storto. Non a caso Eni ha deciso di avviare un arbitrato internazionale presso la Banca mondiale per dirimere la controversia sul giacimento. Il prossimo 17 marzo si aprirà la camera di consiglio sul processo. E i giudici di Milano decideranno l'innocenza o la consapevolezza delle due compagnie petrolifere come dei loro amministratori, tra cui l'attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. Dopo un investimento di 2 miliardi di dollari, infatti, Eni e Shell perderanno a maggio i diritti di estrazione senza aver mai estratto una goccia di petrolio. Il governo di Abuja spera di incassare 1,1 miliardi di euro. Ma non si sa dove andranno a finire i soldi. Mentre l'indotto delle estrazioni petrolifere, 200.000 posti di lavoro e 41 miliardi di dollari in 25 anni, è andato perso. Del resto, dopo dieci anni così, quale compagnia vorrà occuparsi di Opl 245?

·        Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Il caso Consip e i conflitti di interesse. Processo Romeo, Woodcock è incompatibile: lo ha detto Melillo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Novembre 2021. Leggete questa breve dichiarazione rilasciata da un altissimo magistrato, qualche settimana fa, nel corso di un convegno: «Bisogna procurarsi la fiducia della collettività, perfino dell’imputato. Bisogna abbandonare gli atteggiamenti incompatibili con questa professione e prendere atto che la magistratura è chiamata a svolgere un ruolo di responsabilità rispetto al funzionamento complessivo del sistema». L’ autore di questa dichiarazione assai saggia – e sicuramente in linea con le prime decisioni del nuovo governo e con gli orientamenti del nuovo ministro è Giovanni Melillo, Procuratore di Napoli, magistrato molto esperto e stimato, ora candidato alla superprocura antimafia. Tenete a mente queste parole, perché tra qualche riga ci torniamo. Ora cambiamo scena. Vi parlo di un processo che conosco abbastanza bene perché l’imputato principale è un mio amico, ed è anche l’editore di questo giornale. Alfredo Romeo. Al processo che è in corso a Napoli, giorni fa depone una testimone che si chiama Elvira Capecelatro. Deve dire alla Corte se è sua o no la firma in calce a una attestazione che servì a Romeo per ottenere una attestazione di qualità per le sue aziende. Il Pm sostiene che quella firma non è della signora Capecelatro, cioè è una firma falsa, e la incalza, la mette alle corde e ottiene la sua dichiarazione: non è mia. Dichiarazione decisiva per vincere il processo. Eppure c’è già una formale sentenza di un tribunale civile che ha accertato che quella firma invece è vera, verissima, autentica, sulla base di una perizia calligrafica. Il Pm non sapeva di questa sentenza? Non sapeva neanche che ci fosse un processo civile in corso? Possibile che abbia svolto il suo compito senza informarsi su fatti di assoluta rilevanza come questi? Per risolvere la questione è stato necessario il controinterrogatorio della testimone da parte della difesa, nel corso del quale è stata mostrata (e depositata agli atti) la sentenza del tribunale che scagiona la Romeo gestioni e smentisce le dichiarazioni che il Pm ha spinto la testimone a rilasciare. Stesso processo, udienza successiva. Il testimone stavolta è un certo Vadorini. Secondo l’accusa fu assunto dalla Romeo Gestioni per fare un favore a un amico del Vadorini, un certo Giovanni Annunziata, funzionario del Comune che avrebbe potuto aiutare Romeo a ottenere le strisce pedonali davanti all’ingresso del suo albergo sul Lungomare (era suo pieno diritto avere le strisce pedonali). Vadorini – sostiene Romeo – fu assunto perché era un ex dipendente che aveva diritto all’assunzione a norma di legge. Non si poteva non assumerlo. Il Pm sostiene invece che c’è stata corruzione. Vadorini avrebbe ottenuto l’assunzione al prezzo delle strisce pedonali. Le strisce, in realtà, sebbene diritto acquisito, non sono mai state realizzate. Il Pm vuole interrogare Vadorini come testimone per avere conferma della corruzione realizzata da Romeo. Ma se le cose stanno come dice il Pm anche il Vadorini è imputabile e quindi non può essere ascoltato come testimone. Né avrebbe dovuto essere interrogato come testimone, e senza avvocato, negli interrogatori a cui era stato sottoposto precedentemente. La difesa lo fa notare al giudice che stabilisce che la difesa ha ragione. Vadorini ha il diritto di non rispondere secondo le regole del codice di procedura penale. E se ne avvale. Perché il Pm non glielo ha detto prima? Non conosce il codice di Procedura che vieta a un Pm di interrogare come testimone una persona imputabile per le dichiarazioni che rilascia? Possibile? Il Pm in questione – magari qualcuno di voi lo ha già indovinato – si chiama Henry John Woodcock. È uno dei sostituti procuratori proprio di Napoli, dove Melillo è procuratore. Mi chiedo: il dottor Melillo sa che il suo sostituto in processo si comporta in questo modo? Immagino di no. Lo informiamo noi. Perché a me sembra che questi atteggiamenti del Pm siano esattamente quelli che il dottor Melillo ha dichiarato incompatibili con la professione. Ha detto proprio così: incompatibili. Che fiducia nella giustizia può avere un imputato che vede il Pm assumere atteggiamenti aggressivi, intimidatori e persecutori, e che invece di mettere a suo agio un testimone, per cercare la verità, tenta di metterlo con le spalle al muro costringendolo a dire quello che lui vuole che dica, per dare forza all’accusa? Magari voi potete anche pensare che io abbia qualcosa di personale contro Woodcock. Non vi sbagliate. Mi ha querelato – cioè ha querelato il Riformista – per un articolo che ho scritto tempo fa. Vuole che io sia condannato a qualche mese o qualche anno di prigione per avere criticato alcuni suoi comportamenti, e vuole, evidentemente, che lo risarcisca, o che lo risarcisca il mio giornale. In questo articolo raccontavo una serie di irregolarità che ho riscontrato nelle indagini (da lui coordinate) che hanno avviato il processo Consip. In particolare ho contestato la correttezza di una perquisizione effettuata dal capitano Scafarto, su mandato di Woodcock, nell’ufficio e nell’abitazione dell’architetto Gasparri (all’epoca funzionario Consip), che è l’unico accusatore di Romeo nel processo Consip al quale mi riferisco. La perquisizione avvenne dopo una telefonata alla moglie di Gasparri, nella quale Scafarto (che si trovava in compagnia dello stesso Gasparri) avvertiva la signora che sarebbe stato lì dopo una mezz’ora per perquisire la casa, e dunque di “fare quel che doveva fare”. È evidente che una perquisizione annunciata non ha nessun valore ed è del tutto irregolare. Per di più, nell’articolo raccontavo di una telefonata tra Gasparri e l’avvocato Diddi, nella quale Gasparri diceva della perquisizione e l’avvocato Diddi rispondeva: tranquillo, so tutto, sto qui nell’ufficio del Pm, tu non fare cazzate e spicciati a nominarmi tuo difensore. Beh, capite bene, che se le cose sono andate come dico io, è da escludere che la testimonianza di Gasparri, e cioè la chiamata di correità a Romeo, abbia neppure la parvenza della spontaneità. E se manca la spontaneità, a norma di legge, la chiamata di correo vale zero. Il problema è che il processo è in corso a Roma , e che il Pm non è più Woodcock, ma il processo si basa solo sulle indagini realizzate da Woodcock. Se si accerta che le indagini non reggono e che erano irregolari, è tutto il processo ad andare all’aria. Naturalmente è da dimostrare che le cose che io ho scritto siano vere. Per questa ragione io ho chiesto di essere interrogato a Roma, sono stato interrogato, ho ribadito le cose che avevo scritto e ho prodotto tutte le intercettazioni – regolarmente depositate – dalle quali risulta che ogni parola che ho scritto è vera. Ora mi rivolgo di nuovo – cambiando ancora discorso – al procuratore Melillo. In queste condizioni è legittimo che il processo di Napoli continui con Woodcock Pm? Non esiste un conflitto di interessi, quantomeno per il fatto che lui ha querelato il Riformista, cioè il giornale di Romeo, che vuole un risarcimento dal Riformista e che l’imputato del suo processo è Romeo? Non credo che esistano altri paesi in Occidente dove una commedia così potrebbe andare avanti. Mi auguro che non possa succedere anche in Italia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

In difesa del partito dei Pm. Marco Travaglio, la guardia del corpo di Sir John Woodcock. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Il Fatto Quotidiano, si sa, è nato più o meno dichiaratamente come giornale del partito dei Pm. (Non della magistratura: Il Fatto odia, per esempio, i giudici che assolvono…). Quindi è logico e giusto che difenda i Pm, quando – assai raramente – vengono criticati da qualche giornale. Talvolta, forse, lo fa con zelo un po’ eccessivo, ma si sa come vanno le cose del mondo. Così Marco Travaglio è saltato su come una molla quando ha visto che il Riformista criticava il Pm Woodcock e faceva notare che non si è mai visto un Pm che querela un giornale il cui editore è suo imputato. Dice Travaglio: No, no, è il contrario, è l’imputato che ha fondato il giornale per criticare Woodcock. Sarà. Se uno però ogni tanto legge il Riformista si accorge che non è proprio Woodcock l’unico Pm che noi critichiamo. Diciamo che effettivamente siamo nati per coprire un vuoto: la critica al potere della magistratura. Magari anche Travaglio avrà sentito dire che i giornali, di regola, dovrebbero servire per fare i cani da guardia contro il potere. In Italia, purtroppo, tutti i poteri sono criticabili, ma quello dei Pm no. Ora ci siamo noi, e ci siamo sobbarcati questo compito. Dopodiché Marco dice che noi abbiamo diffamato Woodcock e che lui ci ha querelato per questo. No, Marco, non abbiamo diffamato nessuno: ci siamo limitati a pubblicare documenti ufficiali, depositati, dai quali risultano alcune irregolarità abbastanza gravi nelle indagini che Woodcock coordinò a Napoli. Documenti indiscutibili. La querela in questo caso non è un atto di difesa per la diffamazione, ma come tu sai benissimo che spesso succede (deve esserti capitato anche a te qualche volta) un atto di intimidazione verso il giornalista. Sono abituatissimo alle intimidazioni, non ti preoccupare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Funziona tutto alla rovescia. Consip, crollano tutte le accuse ma a processo ci va Romeo che è la parte lesa…Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Il caso Consip torna d’attualità con tutte le sue insensatezze. Ieri al processo contro Alfredo Romeo (lo stralcio che riguarda la presunta corruzione di tal Marco Gasparri, ex dipendente Consip) è stato ascoltato come testimone proprio Gasparri, che si è confermato molto contraddittorio nelle sue dichiarazioni. Due cose sono risultate piuttosto chiare, probabilmente anche alla giudice: la prima è che Gasparri non era in grado di fare nessun favore a Romeo, e dunque non esiste un movente della ipotetica corruzione. La seconda è che ci sono molti, molti dubbi sulla spontaneità della sua confessione e della sua chiamata di correo (oltre a mancare qualunque riscontro sui pagamenti che Gasparri dichiara di aver ricevuto da Romeo, e Romeo nega di avere mai effettuato). Di conseguenza scricchiola l’unico elemento sul quale si basa l’accusa, e cioè proprio l’atto di accusa di Gasparri. Naturalmente la parola “scricchiola” è un eufemismo imposto dalle buone maniere. Si potrebbe anche scrivere: crolla. Su tutto questo torneremo nei prossimi giorni. Oggi vogliamo occuparci invece dei fatti del giorno prima. E cioè delle decisioni del Gup che ha condannato a un anno di prigione Denis Verdini, Ezio Bigotti (imprenditore) e Ignazio Abbrignani (ex parlamentare verdiniano) e ha poi anche rinviato a giudizio tra gli altri Tiziano Renzi e Alfredo Romeo, per traffico di influenze, prosciogliendoli però dalle accuse maggiori, e soprattutto dalla madre di tutte le accuse che è la turbativa d’asta per la gara principale, quella famosa da 2 miliardi e 700 milioni. Verdini e gli altri sono stati anche loro prosciolti per questa accusa (e quindi lo scandalo Consip si è clamorosamente sgonfiato) ma sono stati condannati per un’altra turbativa d’asta (anche se, a occhio e croce, sono stati condannati senza uno straccio di prova a carico). La cosa curiosa è che per la gara principale, quella, appunto, che complessivamente aveva appalti per quasi tre miliardi, la giudice ha stabilito che non c’è stata nessuna turbativa d’asta ma invece c’è stato traffico di influenze da parte di Tiziano Renzi e Carlo Russo a favore di Romeo. Traffico, evidentemente, che però non ha turbato in nessun modo l’asta. Diciamo un traffico molto poco intenso. Ieri diversi giornali hanno parlato di questo traffico, sostenendo che di conseguenza il caso Consip è ancora tutto in piedi per via di questo traffico intorno ai 2,7 miliardi. Scrive ad esempio Marco Lillo sul Fatto: “Ricordiamo in sintesi la parte dell’accusa che riguarda Renzi: “Carlo Russo (amico di Tiziano, ndr) il quale agiva in accordo con Tiziano Renzi sfruttando relazioni esistenti con Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip Spa (…) relazioni ottenute anche per il tramite del concorrente nel reato Tiziano Renzi, come prezzo della propria mediazione illecita costituita nell’istigare Marroni al compimento di atti contrari al proprio ufficio consistenti nell’intervenire sulla commissione aggiudicatrice della gara FM4 (…) per facilitare la Romeo Gestioni Spa partecipante a detta gara (…) si faceva dare da Romeo Alfredo, il quale agiva in concorso con Italo Bocchino, utilità (…) nonché si faceva promettere denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi”.

Certo, non si tratta di una condanna ma solo di un rinvio a giudizio. Certo, per altre ipotesi di reato ‘laterali’ (la turbativa sulla medesima gara Consip e il traffico più un’altra turbativa di gara su Grandi Stazioni) ci sono stati i proscioglimenti del Gup. Però la notizia di ieri è che l’ipotesi più rilevante dell’accusa iniziale (quella sui fatti che emergevano già dall’indagine di Napoli condotta nel 2016 dal pm Henry John Woodcock con la collega Celeste Carrano) resta in piedi. Lillo, giustamente, si limita a riportare la tesi dell’accusa. Il problema – che segnaliamo anche a lui, cronista sempre attentissimo (non è una presa in giro: Lillo ha tanti difetti e con lui in genere io litigo fino quasi a venire alle mani, però è indubbio che è un cronista informato e scrupoloso) – è che ci sono delle carte che contraddicono in modo definitivo la tesi dell’accusa. In particolare il testo dell’interrogatorio tenuto nientedimenoché da Giuseppe Pignatone in persona e dal Pm Palazzi a Luigi Marroni, amministratore di Consip non indagato e dunque ritenuto attendibilissimo. L’interrogatorio si riferisce proprio alle raccomandazioni di Carlo Russo. Leggete qui:

PALAZZI: fece mai riferimento a Romeo e alle società di Romeo?

MARRONI: No.

PALAZZI (insiste, ndr): Un riferimento, non so di che genere…

MARRONI: Non mi ricordo questa cosa.

PALAZZI: cioè nessuna conversazione con Russo viene associata in qualche modo a un ricordo di una discussione con Romeo?

MARRONI: A meno che non fosse in quella famosa società che lei…

PIGNATONE: La società di Romeo si chiama Romeo Gestioni.

PALAZZI: Romeo Gestioni?

MARRONI: No, non mi disse delle aziende di Romeo che devono fare e devono…

PALAZZI: Comunque lì non associa a nessun…

MARRONI: Non fu associata.

PIGNATONE: Immagino che lei sa che esista un Gruppo Romeo…

MARRONI: lo sapevo.

Non so se è chiaro. I Pm chiedono a Marroni se ha ricevuto raccomandazioni per la Romeo. Marroni aveva dichiarato di aver ricevuto raccomandazioni per altre società concorrenti con Romeo e in questo interrogatorio, messo a verbale, nega di averne ricevute per Romeo. Qualche mese più tardi, nuovamente interrogato, rincara la dose. Spiega di avercela con Romeo, perché gli ha fatto causa per la mancata assegnazione degli appalti che aveva vinto, ma tuttavia di dover ammettere che lui non ha ricevuto nessuna raccomandazione per Romeo e non lo ha in nessun modo favorito. Come andarono le cose è piuttosto chiaro. La Gara Fm4, cioè questa famosa supergara da 2 miliardi e sette, si svolse con alcune aziende che avevano brigato per far fuori la Romeo Gestioni, che era conosciuta come di gran lunga la più qualificata a vincere. Queste altre aziende furono favorite, e la parte lesa fu la Romeo gestioni. Che ora, in modo paradossale e abbastanza comico (ma non comico per Romeo…) è finita sotto processo ed è stata esclusa da tutte le gare.

L’accusa su cosa si basa? Boh. Secondo Il Fatto Quotidiano si baserebbe su un biglietto stracciato, ritrovato in un cassonetto della spazzatura (vicino alla sede della Romeo gestioni, a Roma), che fu attribuito alla scrittura di Romeo (il quale nega che quella fosse la sua scrittura). In questo biglietto c’erano scritte delle sigle: 30 a T, 5 a R… L’accusa sostiene che volessero dire che si davano 30 mila euro a Tiziano Renzi, 5000 a Carlo Russo eccetera. Certo, un bel po’ di fantasia. Soprattutto per una circostanza forse importante. Questo biglietto fu scritto nel novembre del 2016, circa sei mesi dopo la conclusione delle gare e le assegnazioni. Cioè, l’ipotesi è che Romeo avrebbe prima subito una turbativa d’asta a suo sfavore, e poi, una volta mazziato, non contento avrebbe deciso di pagare quelli che l’avevano mazziato.

Noi speriamo che le cose non siano andate così, per una ragione semplice: siccome – come sapete – Romeo è l’editore di questo giornale, se le cose fossero davvero andate in questo modo dovremmo fortemente dubitare della salute mentale del nostro editore…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Molte assoluzioni e tre rinvii a giudizio. Caso Consip, fioccano assoluzioni e proscioglimenti; lo “scandalo” si ridimensiona. Redazione su Il Riformista il 28 Settembre 2021. Il caso Consip si sgonfia. Ieri c’è stata la sentenza per una parte degli imputati (che avevano scelto l’abbreviato) e l’udienza preliminare per gli altri. Le decisioni del Gup sono abbastanza variegate ma nella sostanza riducono moltissimo la montagna delle accuse. Vediamo nel dettaglio. Gli imputati nell’abbreviato sono stati assolti da diverse accuse ma condannati a un anno di carcere per turbativa d’asta: Denis Verdini, l’ex parlamentare Abrignani e l’imprenditore Ezio Bigotti. Sono loro che avrebbero turbato l’asta per la principale delle gare Consip. Poi ci sono i rinvii a giudizio. Rinviati tra gli altri Tiziano Renzi (che era il bersaglio grosso) e Alfredo Romeo. Il quale Romeo – che è l’editore di questo giornale – è stato assolto per i due principali reati dei quali era accusato (due turbative d’asta) ma invece rinviato a giudizio per un traffico di influenze, una terza turbativa d’asta e una corruzione. Tra poche righe vedremo il merito delle imputazioni (e anche alcune contraddizioni). Anche Tiziano Renzi è stato rinviato a giudizio per traffico di influenze, insieme a Romeo. In cosa consista il traffico di influenze tra Tiziano Renzi e Romeo non è chiarissimo. Voi sapete che questo del traffico di influenze è un reato inventato nel 2012 dalla ministra Severino, che in questi anni ha prodotto moltissimi processi, persino qualche arresto, ma nessuna condanna. Zero. È un reato molto vago, che sostanzialmente consiste nell’individuazione (sempre molto incerta) di una raccomandazione. In questo caso il raccomandato sarebbe stato Romeo, la raccomandazione sarebbe stata all’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, il quale però non è indagato e – interrogato da Pignatone – ammise di avere ricevuto delle raccomandazioni ma giurò di non averne ricevute per Romeo. E assicurò a Pignatone, che insisteva, di avere escluso Romeo dalle gare. Poi per Romeo c’è l’accusa di corruzione di un pubblico ufficiale, un certo Pandimiglio, ma probabilmente l’accusa è un errore tecnico perché Pandimiglio non è un pubblico ufficiale. Infine c’è la turbativa d’asta, e l’asta in questione sarebbe proprio quella per la quale sono stati condannati Verdini, Abrignani e l’imprenditore Bigotti. Romeo però – che aveva presentato un esposto proprio per denunciare la probabile turbativa da parte degli altri concorrenti – fu sconfitto in quell’asta da Bigotti. L’accusa sostiene che ad asta conclusa Bigotti avrebbe proposto a Romeo di fare un accordo in modo che Romeo non presentasse ricorso. Dalle intercettazioni però risulta che Romeo rifiutò l’accordo. Ora si va al processo, e non è da escludere che, data l’inconsistenza delle accuse, almeno per Romeo, il processo sarà velocissimo. Si inizia a metà novembre.

Consip, processo per Tiziano Renzi. L'Espresso il 27 settembre 2021. Il padre del leader di Italia Viva rinviato a giudizio per traffico d’influenze. Denis Verdini condannato a un anno per turbativa d’asta ma assolto dall’accusa di concussione. Tiziano Renzi, padre dell'ex premier e ora leader di Italia Viva Matteo, andrà a processo con l'accusa di traffico di influenze illecite nell'ambito di uno dei filoni dell'inchiesta Consip. Il gup di Roma Annalisa Marzano insieme a Tiziano Renzi ha rinviato a giudizio per lo stesso reato l'ex parlamentare Italo Bocchino e gli imprenditori Carlo Russo e Alfredo Romeo. Per loro l'udienza è stata fissata per il 16 novembre. Renzi senior è stato prosciolto invece dall'accusa di turbativa d'asta e da un altro episodio di traffico di influenze. In rito abbreviato invece, il giudice ha condannato a un anno l'ex senatore Denis Verdini, l'imprenditore Ezio Bigotti e l'ex parlamentare Ignazio Abrignani per il reato di turbativa d'asta. Verdini, come Abrignani e Bigotti, è stato assolto dall'accusa di concussione. Per loro il pm di Roma, Mario Palazzi, aveva chiesto l'assoluzione. La vicenda, che risale al biennio 2014 al 2016, ruota quasi esclusivamente su presunti illeciti intorno all'appalto FM4 indetto da Consip. A Verdini vengono contestati i reati di turbativa d'asta e concussione, mentre per Bocchino i pm contestano il traffico di influenze illecite, la turbativa d'asta e reati tributari. La tranche di indagine è legata alla decisione del gip Gaspare Sturzo che aveva parzialmente respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura chiedendo per gli indagati un supplemento di accertamenti e sollecitato, contestualmente, l'iscrizione nel registro degli indagati di Verdini e di altre due posizioni. Le accuse a Renzi senior riguardano il ruolo svolto nell'appoggiare l’attività dell'imprenditore Carlo Russo. Secondo i capi di imputazione Russo, agendo in accordo con Tiziano Renzi e “sfruttando relazioni esistenti con l'allora amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni” avrebbe istigato quest'ultimo “al compimento di atti contrari al proprio ufficio” e “consistenti nell'intervenire sulla commissione aggiudicatrice della gara FM4”. In particolare l’attività illecita sarebbe stata compiuta sul presidente della commissione aggiudicatrice Licci, “anche per il tramite di Domenico Casalino”, per “facilitare la Romeo Gestioni, partecipante alla FM4, mediante l'innalzamento del punteggio tecnico nella fase di valutazione tecnica dei progetti”. Il gup ha assolto l'ex ad di Consip, Domenico Casalino, e il suo omologo in Grandi Stazioni, Silvio Gizzi. Inoltre Russo, in base al capo di accusa, “si faceva dare da Alfredo Romeo, che agiva in accordo con Italo Bocchino, utilità consistite nella stipula di un contratto di lavoro” a favore della cognata, “e numerose ospitalità negli hotel di proprietà del gruppo Romeo, nonché si faceva promettere denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi” e “promettere la stipula di un contratto di consulenza”. Il processo davanti ai giudici dell'ottava sezione penale del tribunale di Roma è stato fissato per il prossimo 16 novembre.

Consip, babbo Renzi a giudizio. Verdini condannato a un anno. Luca Fazzo il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Resta solo l'accusa di traffico di influenze. La procura punta al maxi-processo e unifica tutti i filoni d'inchiesta. A sette anni dai fatti, con la prescrizione in agguato: ma il prossimo 16 novembre Tiziano Renzi dovrà entrare in un'aula del tribunale di Roma, e sedersi in pubblica udienza sul banco degli imputati. Dopo un percorso giudiziario - ma anche politico e giornalistico - quanto mai controverso, l'indagine sugli affari della Consip, la centrale degli appalti pubblici, arriva comunque al risultato di portare a giudizio il padre dell'ex presidente del Consiglio. Traffico d'influenze, per avere cercato di spianare la strada degli appalti all'imprenditore napoletano Alfredo Romeo. Una accusa di cui il difensore di Renzi senior, Federico Bagattini, si dichiara sicuro di dimostrare l'inconsistenza, dopo avere rimarcato che dei quattro capi d'accusa ne sono già caduti tre, i due relativi agli appalti di Grande Stazioni e quello relativo alla turbativa d'asta Consip. «Faremo l'en plein», dice l'avvocato. Che gli elementi d'accusa non siano solidissimi d'altronde sembra saperlo la stessa procura di Roma (il pm Mario Palazzi e l'aggiunto Paolo Ielo) che per le stesse accuse aveva già proposto l'archiviazione integrale, scontrandosi con il diniego del giudice preliminare. Di questa divergenza tra magistrati arriva la riprova anche nell'udienza di ieri, e ne fa le spese Denis Verdini, anche lui accusato di avere tramato sul fronte Consip a favore della cordata rivale a Romeo: aveva chiesto il rito abbreviato, il pm Palazzi chiede la sua assoluzione da tutte le accuse, il giudice Annalisa Marzano gli rifila un anno per turbativa d'asta. Babbo Renzi invece va a processo: anzi, a quanto pare, al maxiprocesso. Perché la Procura di Roma, sbrigata anche l'udienza di ieri, si accinge a riunire in un unico filone la diaspora di giudizi scaturita dal calderone Consip: convinta che solo in un’unica sede si possa davvero capire cosa è accaduto in questo groviglio di politici forse affaristi e di carabinieri sicuramente chiacchieroni, tra soffiate e scoop vari. Basti pensare che Tiziano Renzi finisce a processo sull'ipotesi che ci fosse lui alle spalle di Carlo Russo, l'imprenditore fiorentino che si dava da fare a favore di Romeo: ma nemmeno la Procura si sente di escludere che Russo millantasse quando vantava aderenze con il babbo dell'attuale leader di Italia Viva. Il problema è che con l'accusa di avere truccato l'informativa sui rapporti tra Russo e Renzi per incastrare il secondo è ora sotto processo l'ex maggiore dei carabinieri Giampaolo Scafarto. Il processo a Scafarto è uno di quelli che la Procura di Roma punta a unificare con quello a Renzi senior; il secondo è il dibattimento, anch'esso già in corso ma alle battute iniziali, dove è imputato Russo (e questo appare inevitabile, visto che i due sono accusati di essere complici). A rendere tutto più complicato c'è il fatto che nel filone dove è imputato Scafarto ci sono anche l'ex braccio destro di Renzi, Luca Lotti, e il generale dell'Arma Emanuele Saltalamacchia, che avrebbero spifferato ai vertici Consip l'esistenza dell'inchiesta. E in quel processo è citato come testimone, insieme ad una altra cinquantina di sconosciuti e di eccellenti, anche Matteo Renzi: che se tutto diventa un unico processo, dovrà testimoniare nel processo contro il padre. Un processo all'apogeo del renzismo, questo si annuncia il maxiprocesso Consip. Dove l'unico punto fermo è finora la condanna di un altro generale dei carabinieri, Tullio Del Sette: dieci mesi per avere consigliato al capo di Consip di non parlare troppo al telefono. 

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Matteo Renzi attacca le toghe al Senato? Prima l'indagine su presta, poi il padre al giudizio: solo un caso? Libero Quotidiano il 27 settembre 2021. Dalla "giustizia a orologeria" si passa direttamente alla "vendetta delle toghe". Non usa mezzi termini, il Giornale, per delineare la situazione di Matteo Renzi. Pochi giorni fa il leader di Italia Viva aveva denunciato apertamente le correnti nella magistratura italiana, intervenendo in Senato sulla Riforma Cartabia. "Appena parla - scrive il quotidiano diretto da Augusto Minzolini - rispunta l'indagine di Bankitalia sui fondi di Lucio Presta". E oggi peraltro suo padre, Tiziano Renzi, è stato rinviato a giudizio per traffico d'influenze nell'ambito della maxi-inchiesta Consip. Due indizi che, secondo i più maliziosi, farebbero una prova. "Sarà sospetta l'operazione, ma pure la tempistica non scherza", scriveva Massimo Malpica sul Giornale. ricapitolando la vicenda dell'inchiesta su Renzi e il manager televisivo Presta, indagato per finanziamento illecito e false fatturazioni in relazione al compenso percepito per il documentario dell'ex sindaco Firenze secondo me. Quei bonifici, secondo gli inquirenti, sarebbero in realtà un finanziamento occulto e illecito all'attività politica di Renzi. A far saltare la mosca al naso al Giornale è il fatto che si sia tornati a parlare di quella vicenda, che risale all'estate, quattro giorni dopo il duro discorso a Palazzo Madama del leader di IV. In aula, Renzi aveva sottolineato di aver preso "due avvisi di garanzia" subito dopo aver detto che "c'era una procura che stava oltrepassando i limiti dell'azione giudiziaria". E la rappresaglia dei magistrati e del mondo che gravita intorno alle Procure, anche mediatico, non si sarebbe fatta attendere, è la tesi del Giornale. "Il problema non è la separazione delle carriere - aveva tuonato in Senato Renzi -, bensì lo strapotere vergognoso delle correnti della magistratura. Devi fare carriera se sei bravo non se sei iscritto ad una corrente. Per anni noi abbiamo acconsentito non a singoli magistrati, ma alla subalternità della politica di far decidere a un pm chi poteva fare politica e chi no perché si è consentito che l’avviso di garanzia fosse una condanna". E il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi, da anni "vittima designata" per molti giornali vicinissimi alla magistratura come il Fatto quotidiano, sembra essere un'altra pagina da aggiungere al dossier.

Verdini condannato a un anno in abbreviato. Si sgonfia il caso Consip, rinvii a giudizio per traffico di influenze ma cadono altre accuse. Redazione su Il Riformista il 27 Settembre 2021. Continua a sgonfiarsi l’inchiesta Consip. Oggi è arrivato il rinvio a giudizio per Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo, che dovrà rispondere di traffico di influenze nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta. La decisione è stata presa dal giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, Annalisa Marzano, che ha però deciso il proscioglimento di Renzi senior da altri tre capi d’accusa. Con lui andranno a processo per la stessa fattispecie penale, che partirà il prossimo 16 novembre davanti all’ottava sezione penale del Tribunale di Roma, l’imprenditore Alfredo Romeo (editore de Il Riformista), l’ex parlamentare Italo Bocchino, Carlo Russo e Stefano Massimo Pandimiglio. Nell’ambito dello stesso procedimento, Tiziano Renzi è stato prosciolto dall’accusa di turbativa d’asta e da un’altra accusa di traffico di influenze. Anche per questo, il legale Federico Bagattini, difensore del papà del leader di Italia Viva, accoglie con “grande soddisfazione le 3 assoluzioni su 4 capi di imputazione” e aggiunge: “Dopo Genova e Cuneo ora anche Roma. Per l’ein plain aspettiamo con fiducia il dibattimento“. Nell’udienza di oggi, lunedì 27 settembre, il gup ha poi condannato, nel processo con rito abbreviato, l’ex senatore Denis Verdini, l’imprenditore Ezio Bigotti e l’ex parlamentare Ignazio Abrignani a un anno di reclusione (con pena sospesa) per turbativa d’asta. Per i tre, nel giugno scorso, la Procura aveva sollecitato l’assoluzione per tutte le accuse. Lo stesso Verdini, così come gli altri due, è stato assolto dall’accusa di concussione. Assolto anche Bocchino da un reato fiscale contestato dal pm. Tiziano Renzi sarà processato in merito alla contestazione relativa alla gara Fm4 da 2,7 miliardi. Dovrà dunque rispondere dell’accordo che, secondo gli inquirenti, avrebbe stabilito con l’imprenditore Carlo Russo che, “sfruttando relazioni esistenti con Luigi Marroni, ex Ad di Consip Spa, relazioni ottenute anche per il tramite (..) di Tiziano Renzi”, sarebbe intervenuto per “facilitare la Romeo Gestioni” che intendeva aggiudicarsi un lotto della gara da 2,7 miliardi di euro bandita dalla Consip. Russo, secondo le accuse, avrebbe tra l’altro ottenuto numerose ospitalità negli hotel di proprietà del gruppo Romeo, nonché si faceva promettere denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi nonché promettere la stipula di un contratto di consulenza”. Un reato continuato fino all’autunno del 2016 e quindi a rischio prescrizione. In una prima fase la procura romana aveva sollecitato l’archiviazione per Tiziano Renzi e le altre posizioni. Archiviazione alla quale, nel febbraio del 2020, si oppose il gip Gaspare Sturzo che ha disposto nuove indagini su Renzi senior e l’iscrizione nel registro degli indagati di Verdini, Abrignani e Bigotti per la vicenda legata a presunti illeciti nell’appalto Fm4. Secondo il gip, la procura capitolina, davanti a due gruppi che si contendevano gli appalti Consip (uno guidato da Bigotti e l’altro da Romeo) avrebbe acquisito “materiale probatorio sufficiente” solo sull’imprenditore partenopeo. Archiviate invece le contestazioni di traffico di influenze relative ad una gara per alcuni servizi di pulizia a cui – secondo l’accusa – partecipava anche la Romeo Gestioni. Coinvolti dai pm capitolini lo stesso Tiziano Renzi, l’imprenditore Romeo e Bocchino. Non ha retto la tesi della procura secondo la quale i tre indagati avrebbero provato a convincere l’ex ad di Grandi Stazioni, Silvio Gizzi, a favorire la Romeo Gestioni in cambio di “utilità consistenti in somme di denaro periodiche”.

Clamorosi sviluppi del caso Consip. Romeo fu arrestato da Pignatone dopo aver presentato esposto contro Bigotti, socio del fratello del procuratore…Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Vi dico subito che il protagonista – e la vittima – della storia che sto per raccontarvi è l’editore di questo giornale. Cioè Alfredo Romeo. Vi aggiungo che Alfredo, oltre ad essere il mio editore, è anche un mio amico. Poi vi dico che ieri, dopo aver letto i due articoli di Paolo Comi che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi, a proposito del secondo dei video sequestrati nel corso delle indagini sul famoso avvocato Amara – video che oltre che su Amara forniva notizie su un certo Ezio Bigotti, imprenditore, e sull’avvocato Roberto Pignatone -, sono andato a parlare proprio con Romeo perché mi chiarisse alcune cose. Gli ho chiesto: ma è vero quello che mi hai raccontato tempo fa, e cioè che tu cinque anni fa presentasti all’Anac e all’Antitrust e a Consip due esposti contro Bigotti? Lui ha fatto la faccia stupita e ha ammesso. E allora gli ho chiesto: ma è vero anche che dopo quei due esposti sei stato arrestato? Lui mi detto di nuovo di sì, ancora più stupito, e giurando che lui era del tutto innocente, che non c’era nessuna prova contro di lui, e che nelle gare Consip lui fu sempre vittima di manovre mai chiarite di altri gruppi. Eh già, gli ho risposto. Questo lo ho capito. Ma tu hai capito quanto sei stato ingenuo a presentare quei ricorsi? Alfredo è caduto dalle nuvole, e allora gli ho spiegato quello che ora spiego anche a voi. Dunque succede questo. C’è una gara Consip, chiamata “Luce”, nel 2016, alla quale partecipa la Romeo con ottime probabilità di vittoria in due lotti. In effetti li vince tutti e due (e due, per regolamento, era il limite dei lotti che si potevano vincere in questa gara) ma la Consip, prima di proclamare i vincitori, esclude la Romeo dalla gara perché – dice – uno dei partecipanti al consorzio non è in regola col Durc (pratica burocratica per accertare che le ditte abbiano pagato tutti i contributi). In realtà poi si scopre che non era vero: era in regola. Secondo la Consip questo “consorziato” era in debito di 600 euro. I due lotti perduti dalla Romeo assegnavano lavori per circa mezzo miliardo di euro. A questo punto la Consip proclama vittoriosa una società che si chiama Conversion&Lighting. La Romeo protesta, per due ragioni. La prima ragione è che questa Conversion&Lighting non aveva nemmeno partecipato alla gara. Si può – come insegna de Coubertin – partecipare senza vincere, ma si può anche vincere senza partecipare? Poi c’è una seconda ragione che impediva quella vittoria. Il fatto che – si scopre – la Conversion&Lighting è una società che risulta al 51 per cento di proprietà della Exitone e che la Exitone è una società a socio unico Sti e la Sti è una società di Enzo Bigotti. E si scopre che la Sti di Bigotti, direttamente o con società controllate, si è aggiudicata cinque degli otto lotti in gara. Mentre la legge prevedeva che non potesse aggiudicarsi più di due lotti. Dunque cosa è successo? Che Consip ha escluso con un pretesto la Romeo, che avrebbe vinto due lotti, e non si è accorta che la Sti di Bigotti aveva ottenuto molti più lotti di quelli che le spettavano. A questo punto la Romeo presenta un esposto all’Anac, a Consip e all’Antitrust. Anche per chiedere che si vigili sulle future gare in Consip, soprattutto sulle gare denominate Fm4 (e cioè quelle che poi saranno al centro dello scandalo Consip) che valgono alcuni miliardi. L’esposto viene passato alla Procura, per conoscenza? Questo noi non lo sappiamo. Sarebbe stato logico, visto che nell’esposto si segnalavano dei reati. Sappiamo comunque che Romeo non riceve nessuna risposta né dall’Anac né dall’antitrust, che le gare Fm 4 si svolgono normalmente, e che probabilmente, almeno in parte, sono truccate, sappiamo che a Romeo vengono tolti tutti gli appalti, e che per di più viene arrestato. Non ci credete? Capisco che voi non ci crediate. Ma le cose sono andate esattamente così. Romeo denuncia una turbativa d’asta, i presunti turbatori vengono lasciati indisturbati e continuano a vincere gare, e Romeo – direi per ripicca – viene arrestato. Cioè si mette in cella forse l’unico concorrente che è fuori dai giochi. Romeo non ha mai capito perché è stato arrestato. Ha sempre pensato di aver pagato per qualche ragione il sostegno che nel 2013 aveva dato a Matteo Renzi. Ora però viene a sapere – cadendo dalle nuvole – che Bigotti, cioè l’imprenditore contro il quale aveva firmato l’esposto, era in rapporti economici importanti con il fratello del Procuratore di Roma, che la procura di Roma dopo il suo esposto lo fa arrestare, e che la stessa Procura prima accantona e poi archivia il filmato dal quale risultano i rapporti tra Bigotti e il fratello del Procuratore. I Pm che archiviano sono gli stessi che oggi sostengono le accuse contro Romeo, che è ancora sotto processo.

P.S. Qualche mese fa le gare Consip che erano finite al centro dello scandalo, sono state tutte ripetute. Su otto lotti in palio (stavolta senza il limite dei due lotti) Romeo ne ha vinti otto. Come a dire: quando le aste si svolgono pulite… Beh insomma, mi fermo qui, le conseguenze traetele voi.

P.S. 2. Ho raccontato ad Alfredo una storia tragicissima che da vecchio cronista ricordo, e che avvenne, credo all’inizio degli anni ottanta. Un imprenditore del caffè, un certo Palombini, fui rapito. Credo dalla banda, allora famigerata, capeggiata da Laudovino de Santis. Lo portarono in una capanna in un bosco. Lui una sera riuscì a liberarsi. Fuggì, corse nel bosco per diversi minuti e poi trovò una casa abitata. Bussò. Gli aprì Laudovino…Che c’entra con la storia di Romeo? Non so, lui però quando gliel’ho raccontata ha fatto una smorfia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Clamorosi sviluppi del caso Consip. Romeo fu arrestato da Pignatone dopo aver presentato esposto contro Bigotti, socio del fratello del procuratore…Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Vi dico subito che il protagonista – e la vittima – della storia che sto per raccontarvi è l’editore di questo giornale. Cioè Alfredo Romeo. Vi aggiungo che Alfredo, oltre ad essere il mio editore, è anche un mio amico. Poi vi dico che ieri, dopo aver letto i due articoli di Paolo Comi che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi, a proposito del secondo dei video sequestrati nel corso delle indagini sul famoso avvocato Amara – video che oltre che su Amara forniva notizie su un certo Ezio Bigotti, imprenditore, e sull’avvocato Roberto Pignatone -, sono andato a parlare proprio con Romeo perché mi chiarisse alcune cose. Gli ho chiesto: ma è vero quello che mi hai raccontato tempo fa, e cioè che tu cinque anni fa presentasti all’Anac e all’Antitrust e a Consip due esposti contro Bigotti? Lui ha fatto la faccia stupita e ha ammesso. E allora gli ho chiesto: ma è vero anche che dopo quei due esposti sei stato arrestato? Lui mi detto di nuovo di sì, ancora più stupito, e giurando che lui era del tutto innocente, che non c’era nessuna prova contro di lui, e che nelle gare Consip lui fu sempre vittima di manovre mai chiarite di altri gruppi. Eh già, gli ho risposto. Questo lo ho capito. Ma tu hai capito quanto sei stato ingenuo a presentare quei ricorsi? Alfredo è caduto dalle nuvole, e allora gli ho spiegato quello che ora spiego anche a voi. Dunque succede questo. C’è una gara Consip, chiamata “Luce”, nel 2016, alla quale partecipa la Romeo con ottime probabilità di vittoria in due lotti. In effetti li vince tutti e due (e due, per regolamento, era il limite dei lotti che si potevano vincere in questa gara) ma la Consip, prima di proclamare i vincitori, esclude la Romeo dalla gara perché – dice – uno dei partecipanti al consorzio non è in regola col Durc (pratica burocratica per accertare che le ditte abbiano pagato tutti i contributi). In realtà poi si scopre che non era vero: era in regola. Secondo la Consip questo “consorziato” era in debito di 600 euro. I due lotti perduti dalla Romeo assegnavano lavori per circa mezzo miliardo di euro. A questo punto la Consip proclama vittoriosa una società che si chiama Conversion&Lighting. La Romeo protesta, per due ragioni. La prima ragione è che questa Conversion&Lighting non aveva nemmeno partecipato alla gara. Si può – come insegna de Coubertin – partecipare senza vincere, ma si può anche vincere senza partecipare? Poi c’è una seconda ragione che impediva quella vittoria. Il fatto che – si scopre – la Conversion&Lighting è una società che risulta al 51 per cento di proprietà della Exitone e che la Exitone è una società a socio unico Sti e la Sti è una società di Enzo Bigotti. E si scopre che la Sti di Bigotti, direttamente o con società controllate, si è aggiudicata cinque degli otto lotti in gara. Mentre la legge prevedeva che non potesse aggiudicarsi più di due lotti. Dunque cosa è successo? Che Consip ha escluso con un pretesto la Romeo, che avrebbe vinto due lotti, e non si è accorta che la Sti di Bigotti aveva ottenuto molti più lotti di quelli che le spettavano. A questo punto la Romeo presenta un esposto all’Anac, a Consip e all’Antitrust. Anche per chiedere che si vigili sulle future gare in Consip, soprattutto sulle gare denominate Fm4 (e cioè quelle che poi saranno al centro dello scandalo Consip) che valgono alcuni miliardi. L’esposto viene passato alla Procura, per conoscenza? Questo noi non lo sappiamo. Sarebbe stato logico, visto che nell’esposto si segnalavano dei reati. Sappiamo comunque che Romeo non riceve nessuna risposta né dall’Anac né dall’antitrust, che le gare Fm 4 si svolgono normalmente, e che probabilmente, almeno in parte, sono truccate, sappiamo che a Romeo vengono tolti tutti gli appalti, e che per di più viene arrestato. Non ci credete? Capisco che voi non ci crediate. Ma le cose sono andate esattamente così. Romeo denuncia una turbativa d’asta, i presunti turbatori vengono lasciati indisturbati e continuano a vincere gare, e Romeo – direi per ripicca – viene arrestato. Cioè si mette in cella forse l’unico concorrente che è fuori dai giochi. Romeo non ha mai capito perché è stato arrestato. Ha sempre pensato di aver pagato per qualche ragione il sostegno che nel 2013 aveva dato a Matteo Renzi. Ora però viene a sapere – cadendo dalle nuvole – che Bigotti, cioè l’imprenditore contro il quale aveva firmato l’esposto, era in rapporti economici importanti con il fratello del Procuratore di Roma, che la procura di Roma dopo il suo esposto lo fa arrestare, e che la stessa Procura prima accantona e poi archivia il filmato dal quale risultano i rapporti tra Bigotti e il fratello del Procuratore. I Pm che archiviano sono gli stessi che oggi sostengono le accuse contro Romeo, che è ancora sotto processo.

P.S. Qualche mese fa le gare Consip che erano finite al centro dello scandalo, sono state tutte ripetute. Su otto lotti in palio (stavolta senza il limite dei due lotti) Romeo ne ha vinti otto. Come a dire: quando le aste si svolgono pulite… Beh insomma, mi fermo qui, le conseguenze traetele voi.

P.S. 2. Ho raccontato ad Alfredo una storia tragicissima che da vecchio cronista ricordo, e che avvenne, credo all’inizio degli anni ottanta. Un imprenditore del caffè, un certo Palombini, fui rapito. Credo dalla banda, allora famigerata, capeggiata da Laudovino de Santis. Lo portarono in una capanna in un bosco. Lui una sera riuscì a liberarsi. Fuggì, corse nel bosco per diversi minuti e poi trovò una casa abitata. Bussò. Gli aprì Laudovino…Che c’entra con la storia di Romeo? Non so, lui però quando gliel’ho raccontata ha fatto una smorfia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Lo strano intreccio tra indagini, amicizie, fratelli, appalti e arresti inspiegabili...Le mani di Pignatone e della Procura di Roma sugli appalti Consip: così fu fatto fuori Romeo? Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Luglio 2021. In questi giorni il nostro Paolo Comi sta raccontando la storia – interamente documentata – dei rapporti intrattenuti da un gruppo di imprenditori e consulenti con un avvocato che si chiama Roberto Pignatone ed è il fratello dell’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. L’interesse giornalistico per questa vicenda sta nel fatto che alcuni di questi imprenditori erano anche indagati, per vari motivi, dalla Procura di Roma, e che il Procuratore, all’epoca, era proprio Giuseppe Pignatone. Il quale effettivamente segnalò a un certo punto al Procuratore generale, cioè a Giovanni Salvi, la sua condizione di probabile incompatibilità: però la segnalò dopo aver svolto un bel numero di atti relativi a quella indagine. Salvi oltretutto respinse la segnalazione e decise che non c’era nessuna incompatibilità. Forse però, nel prendere questa decisione, violò un pochino le regole del buon senso: può un Procuratore occuparsi delle indagini a carico degli amici di suo fratello. Ora succede che, siccome questo giornale è edito da Alfredo Romeo, noi giornalisti del Riformista abbiamo una conoscenza particolarmente approfondita delle storie che riguardano uno di quegli imprenditori indagati dalla procura di Roma. Un certo Ezio Bigotti. Il quale si è trovato più volte ad essere il concorrente di Alfredo Romeo in alcune gare di Consip, per ottenere pubblici appalti. Bigotti, di solito, pur perdendo le gare otteneva gli appalti (con società delle quali era socio direttamente o con altre società di cui erano socie altre società, della quali erano socie altre società ancora eccetera eccetera, delle quali infine Bigotti era socio di maggioranza…). E come otteneva gli appalti? Grazie all’esclusione di Romeo (attraverso il contenzioso amministrativo al Tar ed al Consiglio di Stato, esclusione che Romeo considerava illegittima e che produceva un notevole aumento dei costi per lo Stato). Così, nel 2016, successe che Romeo fece un esposto per protestare contro le decisioni di Consip di escluderlo pretestuosamente da alcune gare e di assegnare gli appalti a una società riconducibile a Bigotti (che tra l’altro non aveva partecipato alla gara…). Nell’esposto si chiedeva anche che si facesse attenzione alle successive gare Consip (quelle che poi finirono al centro dello scandalo Consip) e si garantisse la loro regolarità. Romeo sosteneva che c’era il rischio che un cartello irregolare turbasse la correttezza delle aste. Non ebbe successo quell’esposto. Anzi, fu rovinoso. Nessuno diede retta a Romeo e la Procura di Roma addirittura lo fece arrestare: lui ancora non ha capito il perché. Dopodiché – è cosa di questi giorni – si scopre che esiste un filmato, tenuto in un cassetto per cinque anni dalla Procura di Roma e poi archiviato, dal quale risulta che Bigotti e Roberto Pignatone avevano rapporti di consulenza e quindi anche economici. E la cosa inquieta un pochino chi vuole guardare con distacco tutta la vicenda. Proviamo a riassumere in due battute: Romeo vince delle gare. La Consip lo esclude con un pretesto. Romeo protesta. La Procura di Roma lo arresta e avoca a sé l’inchiesta Consip che era all’epoca nelle mani della procura napoletana. Le gare Consip non vengono annullate – caso unico nella storia, di fronte allo scandalo di cui parlano tutti i giornali- ma vengono vinte tutte dalle aziende concorrenti di Romeo comprese quelle di questo Enzo Bigotti. Poi si scopre che Bigotti è amico del fratello del Procuratore. Infine, se vai a spulciare, trovi un passaggio dell’interrogatorio del giugno 17 (mentre Romeo era in carcere) dei magistrati romani all’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, che fa venire i brividi alla pelle. Lo trascrivo:

MARRONI (Amministratore di Consip): Comunque, dottore, non so se lo studio Severino che ci assiste gliel’ha detto, glielo dirà anche formalmente, che noi abbiamo preso con Romeo la decisione di escluderlo dalla gara Fm4 anche oltre la decisione del Tribunale di Roma dell’interdittiva (…).

PALAZZI (sostituto procuratore e Pm al processo Romeo): Sì, Sì.

MARRONI: Possiamo anche dare il verbale del consiglio di amministrazione. E questo è successo prima che uscisse la notizia del Tribunale di Roma… (…).

PIGNATONE: avete dato i chiarimenti richiesti.

MARRONI: sono stati dati i chiarimenti. Sono state apprezzate molto tutte le nuove procedure che ho messo in atto. Quindi conclude dicendo che a loro gli va bene e controlleranno che noi applichiamo le procedure. Così come abbiamo preso la decisione di escludere…

IELO (Procuratore aggiunto di Roma): Sono cose già formalizzate queste?

MARRONI: La decisione io l’ho proposta al consiglio di amministrazione che l’ha votata. Ora io sto dando gli atti, mando le lettere e quindi…

PIGNATONE: Però la decisione già c’è.

MARRONI: La decisione è già presa, su mia proposta perché sono parte del Consiglio, ma l’ho fatta io la proposta. Ho anche suggerito e caldeggiato un atteggiamento severo al consiglio di amministrazione.

Tutto chiaro? Marroni, nell’interrogatorio su Consip, si vanta di avere escluso Romeo da tutte le gare, di sua iniziativa, e di essersi impegnato, e di avere chiesto estrema severità. Occhei? E che c’entra questo con la necessità di scoprire se ci sono state irregolarità nelle gare? Niente: sembra che l’unica cosa che interessa è l’esclusione di Romeo. E perché a Pignatone interessa tanto sapere se Romeo è stato escluso? Chissà. Non dovrebbe cercare piuttosto eventuali reati? Chissà. E come mai tra i tanti inquisiti per il presunto scandalo Consip non c’è Marroni, cioè l’unico che si è salvato è Marroni che pure era l’amministratore delegato di Consip e aveva ampie possibilità di influenzare gli esiti delle gare? Chissà.

Poi un’ultima domanda: chi ha guadagnato dall’esclusione di Romeo (il quale poi, sia detto in una parentesi, quando cinque anni dopo le gare si sono ripetute stavolta in piena regolarità, in modo pulito, le ha vinte tutte…Sì: tutte)? Sicuramente tra chi ci ha guadagnato c’è anche e forse soprattutto questo Ezio Bigotti. (Oltre alla Team Service, che è la società per la quale si è scoperto che lavorava Marco Gasparri, cioè l’unico testimone che accusa Romeo).

Ultimissima domanda: c’è una relazione tra le prime domande e l’ultima risposta? Boh.

Domanda supplementare, che magari non c’entra niente o magari invece qualcosa c’entra: si hanno notizie di quella famosa Loggia Ungheria, che forse un tempo – o forse anche ora – dominava la Giustizia e in parte anche l’economia, e sulla quale indagava il dottor Storari, prontamente bloccato dalla procura di Milano e ora candidato alla rimozione?

Vedrete che non lo sapremo mai.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Nuovo colpo di scena. L’accusa di Amara: “I Pm fecero sparire il video del fratello di Pignatone”. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Esiste un altro video, anche questo mai depositato al processo Eni-Nigeria, in cui l’avvocato Piero Amara, sempre nell’ufficio romano dell’imprenditore torinese Enzo Bigotti, discute di strategie per condizionare le attività del colosso petrolifero di San Donato e dei suoi vertici. La “prima” videoregistrazione, di cui si ebbe notizia in maniera assolutamente casuale all’udienza del 23 luglio 2019 grazie al difensore di un imputato che l’aveva rinvenuta in un altro procedimento, riguardava l’incontro del 28 luglio 2014 tra lo stesso Amara, l’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna ed alcuni faccendieri. Negli uffici di Bigotti, uno dei protagonisti del “Sistema Siracusa”, Armanna, fresco di licenziamento per falsi rimborsi spese, manifestava l’intenzione di vendicarsi nei confronti dei suoi ex capi. Ed infatti due giorni più tardi si presenterà in Procura a Milano per denunciare episodi corruttivi asseritamente commessi da Eni e dai suoi vertici, diventando il principale teste d’accusa nel processo imbastito dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Nella sentenza milanese, presidente Marco Tremolada, depositata il mese scorso e che ha assolto i vertici dell’Eni portati alla sbarra da De Pasquale per il reato di corruzione internazionale, la circostanza del video “nascosto” era stata duramente stigmatizzata. «Risulta incomprensibile – scrivono i giudici – la scelta del pubblico ministero di non depositare il video con il rischio di eliminare dal processo un dato di estrema rilevanza». La “nuova” videoregistrazione, invece, fatta il 18 dicembre 2014, sempre negli uffici di Bigotti, riguarda un incontro tra il manager, gli imprenditori Andrea Bacci e Giancarlo Cecchi, e il solito Amara. Nella conversazione si parla di Eni, del cittadino nigeriano chiamato KK, molte volte menzionato anche nell’incontro del 28 luglio, dell’amministratore delegato dell’azienda petrolifera Paolo Scaroni, poi imputato nel processo milanese, della gestione dei servizi in Eni-Congo e di una gara che vale venti milioni di euro e di una operazione, sempre riferita a Eni-Congo, che vale 250milioni di euro all’anno. Sennonché di questa videoregistrazione si sono perse le tracce. Per capire il motivo è necessario fare un passo indietro. Entrambe le registrazioni vennero acquisite durante una perquisizione effettuata dai carabinieri che nel 2015 stavano svolgendo accertamenti su Bigotti a proposito di un appalto per la linea ferroviaria Torino-Ceres. Titolare del fascicolo era il procuratore aggiunto del capoluogo piemontese Andrea Becconi. Le registrazioni per competenza territoriale vennero poi trasmesse da Torino a Roma. La Procura di Roma, visionati i nastri, decise di inviare a sua volta a Milano per competenza solo quella del 28 luglio 2014, mentre quella del 18 dicembre 2014 la inserirà in un fascicolo “atti non costituenti notizia di reato” assegnato dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone all’aggiunto Paolo Ielo. Quest’ultimo, poi, lo assegnerà al pm Mario Palazzi il quale, a fine 2020, lo archivierà “de plano”, senza passare dal gip, con la controfirma del neo procuratore della Capitale Michele Prestipino. Nella lunga conversazione, trascritta dai carabinieri e che il Riformista ha potuto leggere, Amara e soci parlano anche del fratello di Pignatone, il tributarista Roberto e degli incarichi che costoro gli hanno conferito nel corso degli anni. Una circostanza, quella degli incarichi, che verrà riportata nel celebre esposto che l’ex pm romano Stefano Rocco Fava depositerà nel 2019 al Csm e di cui si sono perse le tracce. Il video del 18 dicembre 2014, “oscurato” ai giudici milanesi, agli imputati ed ai loro difensori nella sua interezza, ha certamente impedito ogni possibile valutazione da parte dei soggetti interessati in un processo così importante come quello Eni-Nigeria. C’è solo da sperare a questo punto che la Prima commissione del Csm, svegliandosi dal torpore ora che sta facendo le audizioni proprio su questa vicenda, e la Procura di Brescia che ha indagato De Pasquale, si interessino alle ragioni che hanno indotto la Procura di Roma a non trasmettere a Milano il video del 18 dicembre 2014 e ad archiviarlo in un fascicolo che non è passato al vaglio di alcun giudice. Paolo Comi

Nuovi retroscena. Amara parlava del fratello di Pignatone, ma il procuratore non mollò il fascicolo…Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2021. L’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone assegnò il fascicolo ricevuto da Torino, contenente una videoregistrazione in cui, come emerse successivamente, veniva citato il fratello Roberto, tributarista di Palermo, all’aggiunto Paolo Ielo, senza astenersi e con l’indicazione “conferire”. Emergono nuovi particolari nella vicenda raccontata ieri dal Riformista relativa alla videoregistrazione effettuata il 18 dicembre 2014 nell’ufficio romano dell’imprenditore nel settore del facility management Ezio Bigotti. Tutto inizia a maggio del 2015 quando i carabinieri del capoluogo piemontese, svolgendo indagini sull’appalto da 130 milioni di euro per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Ceres, decidono di perquisire l’ufficio di Bigotti. Fra i vari documenti i militari trovano anche due filmati. Uno del 28 luglio 2014 in cui compare, oltre a Bigotti, l’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, l’avvocato Piero Amara ed alcuni faccendieri. E l’altro, appunto, del 18 dicembre successivo. Il primo filmato, dove Armanna, fresco di licenziamento per falsi rimborsi spese, manifestava l’intenzione di vendicarsi nei confronti dei suoi ex capi, venne trasmesso alla Procura di Milano che stava svolgendo indagini nei confronti del colosso petrolifero. Questo filmato, però, una volta arrivato nel capoluogo lombardo non verrà mai depositato dalla Procura nel processo Eni-Nigeria. Il secondo video, con una prima trascrizione, arrivò invece a Piazzale Clodio in quanto si faceva riferimento ad appalti Consip e Roma in quel periodo stava indagando sulla centrale acquisti della Pubblica amministrazione. Il 22 aprile 2017 Pignatone lo assegnò in un procedimento modello 45 (gli atti non costituenti notizie di reato) al numero 4637 di quell’anno, passandolo poi Ielo e scrivendo a penna “conferire”. Nella trascrizione dei carabinieri di Torino si poteva leggere questa frase di Amara: «Il professor – poi incomprensibile – è consulente del presidente Ezio Bigotti di tutte le società Exit One, lavora molto con il mio studio, lui è professore di diritto tributario a Palermo è persona splendida meravigliosa». Pignatone, pur essendo nominato il fratello, farà richiesta di astensione al procuratore Generale della Corte di Appello di Roma solo il mese successivo. Tornando al fascicolo, dopo due anni, per la precisione il 3 aprile del 2019, Ielo deciderà di riassegnarlo al pm Mario Palazzi. Passato un anno e mezzo e, da quanto risulta, senza aver fatto altri accertamenti, Palazzi a sua volta, il primo dicembre 2020, con il visto del procuratore Michele Prestipino, lo archivierà definitivamente. Trattandosi di un fascicolo iscritto a “modello 45” senza passare dal gip. Nell’esposto poi presentato dall’ex pm romano Stefano Fava su questa vicenda, verrà indicato che Pignatone non aveva mai riferito che Bigotti fosse cliente di Amara e che il fratello Roberto aveva rapporti con quest’ultimo. Per la comunicazione dei rapporti, ai fini dell’astensione, fra i due bisognerà attendere diversi mesi. Amara ieri, per la cronaca, si è costituto ad Orvieto essendo stata rigettata la domanda di affidamento che aveva presentato nelle scorse settimane. Riarrestato il mese scorso dalla Procura di Potenza con l’accusa di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione nell’ambito di una indagine in cui era coinvolto anche l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, Amara aveva iniziato una collaborazione con i pm. Essendosi guadagnato la fiducia dei magistrati – soprattutto del procuratore lucano Francesco Curcio – l’avvocato siciliano era stato scarcerato, ottenendo l’obbligo di dimora a Roma. Forte di questo provvedimento, Amara aveva presentato al Tribunale di Sorveglianza di Roma una istanza di affidamento in prova ai servizi sociali dal momento che per le medesime accuse di Potenza aveva patteggiato nel 2019 in un procedimento aperto dalla Procura della Capitale. Paolo Comi

Conflitti d'interesse in procura. Sul fratello di Pignatone e Amara le date non tornano…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Aumentano di ora in ora le firme dei magistrati milanesi a sostegno del pm Paolo Storari, finito nei scorsi giorni sotto la scure del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare. Storari, secondo Salvi, avrebbe gettato “discredito” sul procuratore di Milano Francesco Greco e sulla sua più stretta e fidata collaboratrice, l’aggiunto Laura Pedio, consegnando i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria a Piercamillo Davigo. Per questo motivo Salvi ha chiesto alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura di trasferire Storari, cambiandogli anche le funzioni: da pm a giudice. Una richiesta durissima in quanto Storari ha sempre dichiarato di aver fatto solo il proprio dovere. Il pg della Cassazione, noto ai più per aver indetto lo scorso anno, prima volta nella storia, una conferenza stampa per annunciare azioni disciplinari per la vicenda dell’hotel Champagne e per essere l’autore della circolare che esclude la punibilità per i magistrati che si “autosponsorizzano” per un incarico, è colui che in passato aveva la “vigilanza”, quando era procuratore generale della Corte di Appello di Roma, su Giuseppe Pignatone, collocato da Luca Palamara al centro del “sistema”. La vigilanza di Salvi su Pignatone riguardava, in particolare, i rapporti professionali intrattenuti dal fratello di quest’ultimo, il tributarista Roberto, con l’avvocato Amara e l’imprenditore Ezio Bigotti che il Riformista ha raccontato la scorsa settimana. Per Salvi, come si legge nel suo provvedimento del 9 aprile 2019 che ha certificato la bontà dell’operato dell’ex procuratore di Roma, «va solo conclusivamente rilevato che il dr Giuseppe Pignatone rappresentò correttamente a questo ufficio tutti i profili di potenziale incompatibilità di sua iniziativa e non appena ne venne a conoscenza informandone peraltro i magistrati del suo ufficio». La realtà, però, è “leggermente” diversa. Il Riformista, infatti, ha avuto modo di visionare l’intera pratica. Per capire come andarono effettivamente le cose, è necessario però partire dalla fine.

Il 19 marzo 2019, 20 giorni prima della nota di Salvi, l’ex procuratore di Roma scrive all’allora pm Stefano Rocco Fava: «Ribadisco quanto affermato durante la riunione del 5 c.m. con i colleghi Prestipino (Michele), Sabelli (Rodolfo), Ielo (Paolo), Palazzi (Mario) e Tucci (Fabrizio) e cioè di essere sicuro di aver informato la S.V. a suo tempo, e cioè nella seconda metà del 2016 quando divennero oggetto di indagini l’Amara Pietro e il Bigotti Ezio, dell’esistenza di rapporti professionali peraltro già cessati tra il Bigotti e mio fratello avv. Roberto Pignatone».

Sempre nella stessa nota Pignatone scrive: «Di tutto era stato informato tempestivamente il procuratore generale (Salvi)».

Nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017, Pignatone aveva scritto a Salvi che del primo procedimento penale che ha visto indagato il faccendiere Fabrizio Centofanti per corruzione – il procedimento numero 7175/16 c/ RICUCCI ed altri – aveva avuto notizia prima dell’estate del 2016.

Scrive infatti: «In epoca di poco successiva (all’arresto del fratello di Centofanti avvenuto il 4 maggio 2016) sono emersi a carico del Centofanti Fabrizio indizi di reità in ordine al reato di cui agli artt. 319 ter e 321 cp nell’ambito di un procedimento iscritto originariamente a carico del noto imprenditore Ricucci Stefano e del dr Nicola Russo consigliere di Stato».

Sempre nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017, Pignatone scrive: «Subito dopo l’estate 2016 la figura del Centofanti è emersa in altro procedimento penale n. 44630/ 16 mod. 21 di cui sono titolari oltre che il dr G. Cascini anche i dottori Ielo, Tescaroli (Luca) e Fava».

Passano due anni e il 4 marzo 2019 Pignatone scrive a Fava: «Voglio invece ricordare che allorquando nel corso dell’anno 2016 questo ufficio ha iniziato, iscrivendoli nel registro degli indagati, indagini preliminari nei confronti di Amara Piero e Bigotti Ezio nell’ambito di più procedimenti penali ho subito informato la S.V. e tutti gli altri colleghi di volta in volta interessati (dr. G. Cascini, dr. Ielo, dr. Tescaroli, dr. Sabelli e dr. Palazzi), nonché gli ufficiali di p.g. delegati per le indagini, che sapevo – in modo del tutto vago – che essi avevano rapporti professionali con mio fratello avvocato Roberto Pignatone, professore associato di diritto tributario a Palermo e che esercita attività di avvocato e consulente in tale settore (e che non ha mai difeso in nessun procedimento penale a Roma)».

Nella stessa nota si legge: «Ho a suo tempo dettagliatamente informato il procuratore generale che con suo provvedimento del 3 luglio 2017 ha ritenuto che non ci fosse alcun elemento che rendesse opportuna, o tanto meno necessaria, la mia astensione». Paolo Comi

La seconda puntata della nostra inchiesta. Pignatone indagava su Amara e co. mentre lavoravano con suo fratello…Paolo Comi su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, dopo aver appreso, nella seconda metà del 2016 dei rapporti fra l’avvocato Piero Amara e l’imprenditore Ezio Bigotti, entrambi indagati dal suo ufficio, con il fratello Roberto, tributarista a Palermo, il 17 maggio dell’anno successivo decise di inoltrare una richiesta di astensione. La richiesta venne depositata, però, soltanto dopo che Pignatone aveva adottato atti nei confronti di Amara, in particolare assegnando ad alcuni pm, fra cui Stefano Rocco Fava, un’informativa di reato che riguardava l’avvocato siciliano insieme a Bigotti, il 14 novembre 2016. Pignatone, quindi, fece passare molti mesi prima di fare richiesta di astensione, per poi affermare che questi rapporti erano “già cessati”. L’ex procuratore di Roma, come riportato ieri, affermò di aver immediatamente informato di questa situazione la guardia di finanza, senza però procedere altrettanto tempestivamente ad informare il procuratore generale dell’epoca Giovanni Salvi. Nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017 Pignatone scrive: «Nel settembre 2016 l’avv. Amara gli aveva chiesto (al fratello, ndr) una disponibilità a intensificare i rapporti professionali ed in particolare a garantire una presenza quindicinale presso il suo studio a Roma. Dopo alcuni contatti preliminari con possibili clienti, mio fratello nel novembre 2016 ha comunicato all’avv. Amara la sua intenzione per ragioni varie di non proseguire il suo impegno professionale a Roma e non ha più visto l’avv. Amara, con cui si erano creati rapporti cordiali, dal 28 novembre 2016». A tal proposito, nella missiva del 4 marzo 2019 indirizzata a Fava, Pignatone scrive: «Mio fratello mi ha detto di avere, per sue ragioni, interrotto i rapporti professionali con l’Amara nel novembre 2016». Risulterebbe dimostrato, quindi, che Pignatone abbia adottato atti del proprio ufficio pur in presenza di rapporti del fratello con un suo indagato e che tale circostanza non venne rilevata da Salvi. In un’altra richiesta di astensione, datata 26 marzo 2019 e diretta a Salvi, Pignatone scrive: «A questo proposito allegava un documento da cui risultava un progetto di parcella emesso da mio fratello nei confronti della NICO spa, che ritengo dato il contesto riconducibile al Bigotti, registrato il 18 luglio 2016». In realtà la NICO non era riconducibile a Bigotti bensì ad altro indagato del medesimo procedimento, Pietro Balistrieri altro cliente di Amara. La società di Bigotti era infatti la STI, società che aveva conferito incarichi al fratello di Pignatone e ciò risultava chiaramente dai documenti. Pignatone, in altre parole, non avrebbe mai comunicato al procuratore generale che un altro indagato, Balistrieri, cliente di Amara, aveva conferito incarichi al fratello. Pignatone, poi, non avrebbe comunicato il rapporto di amicizia che lo legava ad un altro indagato di quel procedimento, il magistrato Riccardo Virgilio, presidente di sezione del Consiglio di Stato indagato per corruzione in atti giudiziari. Come risulta dalla missiva inviata a Pignatone il 5 marzo del 2019 da Fava, anche per Virgilio erano state fatte delle “comunicazioni” verbali dal procuratore di Roma nel 2016 circa una amicizia risalente a circa trenta anni tra egli e Virgilio. Ma di tale rapporto nulla risulta segnalato al procuratore generale. Sempre nella richiesta di astensione del 17 maggio 2017, Pignatone scrive: «Quanto al Bigotti gli è stato presentato da un penalista catanese il prof Angelo Mangione e ha svolto per le sue società attività professionale in campo tributario dal 1/ 10/ 2014 al 30/ 6/ 2016». Non dice, però, che il professor Mangione era socio di studio di Amara (come risulta anche dalla carta intestata) e che Bigotti era cliente di Amara. Pignatone, infine, nella richiesta di astensione del 26 marzo 2019 scrive: «Anzi a questo proposito aggiungo per precisione che dai controlli eseguiti è risultato che la prima iscrizione nel registro degli indagati per Amara Pietro è avvenuta in data 16 /1 /17 e per Bigotti Ezio in data 19 /1/ 2017 mentre le operazioni di intercettazione nei loro confronti sono cominciate rispettivamente il 24 /11/ 2016 e il 30/ 1/ 2017». In realtà Amara venne iscritto il 18 novembre 2016. Come poteva infatti essere intercettato dal 24 novembre 2016 senza essere stato prima iscritto quale indagato? In conclusione Pignatone non ha mai comunicato al procuratore generale di avere adottato atti del proprio ufficio nei confronti di Amara pur in presenza dei rapporti che costui intratteneva con il fratello. Paolo Comi

Le rivelazioni di Racanelli. La minaccia di Pignatone sulla richiesta di arresto di Amara: “Chi darà retta a Fava si farà male…” Paolo Comi su Il Riformista il 18 Giugno 2021. «Chi darà retta a questo esposto di Fava, chi seguirà questo esposto, si farà male, molto male». L’autore della “fatwa” è Giuseppe Pignatone, l’ex procuratore di Roma. La frase è stata riportata dal procuratore aggiunto della Capitale Antonello Racanelli, ex segretario generale di Magistratura indipendente, durante la sua audizione il mese scorso davanti alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. In Commissione era stata aperta nei suoi confronti una pratica per “incompatibilità ambientale” a seguito della pubblicazione dei colloqui che aveva avuto con l’ex zar delle nomine Luca Palamara. Durante l’audizione Racanelli ha toccato, oltre all’esposto del pm Stefano Rocco Fava, molti altri argomenti che forniscono un quadro esaustivo del clima che si respirava nella Procura di Roma fra i pm alla vigilia della nomina del successore di Pignatone. «Tenga presente che non rientravo nel cerchio magico del procuratore Pignatone e con il procuratore Pignatone non c’era circolazione di notizie», esordisce, però, Racanelli. Fava, come abbiamo raccontato in queste settimane, aveva presentato alla fine di marzo del 2019 al Csm un esposto circa mancate astensioni di Pignatone e del procuratore aggiunto Paolo Ielo in alcuni procedimenti penali. In particolare quello aperto nei confronti del celebre avvocato Piero Amara. A Fava era stato poi tolto il fascicolo. «Il procuratore mi dette l’impressione di essere una persona fortemente seccata per questo esposto, ma fortemente convinta di avere ragione», afferma Racanelli. «Ero andato a casa per pranzo, perché io abito vicino al palazzo di giustizia. Appena tornai la mia segretaria disse: “guardi, l’ha cercata il procuratore”». Racanelli, allora, corse da Pignatone. «Mi tiene ben trenta, quaranta minuti, in cui mi spiega per filo e per segno tutte le vicende dell’esposto di Fava», prosegue Racanelli. «Io sono stato mezz’ora – continua – mi ha spiegato tutto. Lì ho avuto l’impressione ancora una volta che lui era scocciato di questo esposto, però era convinto di essersi comportato correttamente». «Io non sono in grado di dire se avesse ragione lui o avesse ragione Fava», puntualizza il procuratore aggiunto. Racanelli sottolinea più volte di non aver letto all’epoca l’esposto e di aver saputo del suo contenuto in ambito ufficio: «Escludo Fava, non ricordo se l’ho saputo da Palamara». «A memoria d’uomo un caso unico di revoca di un fascicolo. Non mi risultano altri casi. Quindi un caso che faceva abbastanza scalpore e quindi se ne parlava», prosegue ancora. «Un magistrato che fa un esposto all’organo di autogoverno non si può ritenere a priori denigratorio nei confronti dei soggetti che vengono accusati nell’esposto», puntualizza Racanelli, stigmatizzando la decisione del Csm di bollarlo come “denigratorio”. Ed a proposito della fondatezza del suo contenuto, «non c’è stato ancora un accertamento su questo esposto a distanza di due anni». I consiglieri chiedono quindi a Racanelli notizie sulla nomina del successore di Pignatone. «I giornalisti erano i più informati e lo avevano da fonte consiliare certa», dice Racanelli. Il canale privilegiato in quel periodo, sembra, fosse il consigliere di Area, la corrente progressista della magistratura, Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma come Racanelli. Cascini, pare, avesse messo in moto un meccanismo informativo di tipo circolare: «Se Cascini diceva qualcosa a Bianconi (Giovanni, giornalista del Corriere della Sera, ndr), Bianconi veniva a piazzale Clodio e ce lo diceva». «Quindi avevamo una serie di informazioni molto chiare su questa vicenda», aggiunge Racanelli. «Il dottor Bianconi, che è molto più informato di me sapeva tutto quello che succedeva in Commissione (incarichi direttivi, ndr)». Racanelli racconta, poi, che venne “acchiappato” da Cascini la sera del saluto di commiato di Pignatone il 7 maggio 2019. «Cascini mi disse che loro non avevano assolutamente nessuna voglia di votare Viola (Marcello, procuratore generale di Firenze, ndr), volevano a tutti costi votare Lo Voi (Francesco, procuratore di Palermo, ndr)”. Cascini, aggiunge, «espose il problema di come appoggiare Ardituro (Antonello, pm a Napoli, ndr) per la Procura nazionale antimafia». Palamara, presente al saluto, notò la scena e, appena terminata la conversazione con Cascini, chiese a Racanelli cosa si fossero detti. Palamara, appresa la notizia, aveva poi avvisato delle future mosse di Cascini l’allora consigliere del Csm Luigi Spina, di Unicost. Racanelli racconta, infine, che si presentò da lui Francesco Lo Voi: «Fu portato da me dalla segretaria del procuratore Pignatone». «Guarda Franco, non devi parlare con me, devi andare a parlare con i consiglieri che stanno al Consiglio», gli disse secco. L’ufficio di Racanelli era un porto di mare in quel periodo. «Una mattina venne da me Palazzi (Mario, pm di Roma, esponente di Area, ndr) in ufficio mi tenne mezz’ora a volermi convincere della bontà della scelta di Lo Voi. Quello che poi accadde è noto. Nella serata di ieri è giunta da Perugia la notizia che le intercettazioni del procedimento a carico di Palamara saranno utilizzabili. Lo ha deciso il gup Piercarlo Frabotta che ha respinto anche la richiesta della difesa di Palamara di disporre una perizia sul server a Napoli di Rcs, la società che aveva fornito gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni con il trojan. Le indagini avevano evidenziato che si trattava di un server non “dichiarato”: per legge si sarebbe dovuto trovare a Roma, dove veniva effettuati gli ascolti. Sul punto la Procura di Firenze sta facendo accertamenti, dopo aver indagato i vertici di Rcs. Il gup di Perugia, però, ha deciso senza aspettare le conclusioni da Firenze. Alla perizia si erano opposti i pm di Perugia. L’8 luglio prossimo inizierà la discussione. Paolo Comi

Nuovi retroscena. Amara parlava del fratello di Pignatone, ma il procuratore non mollò il fascicolo…Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2021. L’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone assegnò il fascicolo ricevuto da Torino, contenente una videoregistrazione in cui, come emerse successivamente, veniva citato il fratello Roberto, tributarista di Palermo, all’aggiunto Paolo Ielo, senza astenersi e con l’indicazione “conferire”. Emergono nuovi particolari nella vicenda raccontata ieri dal Riformista relativa alla videoregistrazione effettuata il 18 dicembre 2014 nell’ufficio romano dell’imprenditore nel settore del facility management Ezio Bigotti. Tutto inizia a maggio del 2015 quando i carabinieri del capoluogo piemontese, svolgendo indagini sull’appalto da 130 milioni di euro per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Ceres, decidono di perquisire l’ufficio di Bigotti. Fra i vari documenti i militari trovano anche due filmati. Uno del 28 luglio 2014 in cui compare, oltre a Bigotti, l’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, l’avvocato Piero Amara ed alcuni faccendieri. E l’altro, appunto, del 18 dicembre successivo. Il primo filmato, dove Armanna, fresco di licenziamento per falsi rimborsi spese, manifestava l’intenzione di vendicarsi nei confronti dei suoi ex capi, venne trasmesso alla Procura di Milano che stava svolgendo indagini nei confronti del colosso petrolifero. Questo filmato, però, una volta arrivato nel capoluogo lombardo non verrà mai depositato dalla Procura nel processo Eni-Nigeria. Il secondo video, con una prima trascrizione, arrivò invece a Piazzale Clodio in quanto si faceva riferimento ad appalti Consip e Roma in quel periodo stava indagando sulla centrale acquisti della Pubblica amministrazione. Il 22 aprile 2017 Pignatone lo assegnò in un procedimento modello 45 (gli atti non costituenti notizie di reato) al numero 4637 di quell’anno, passandolo poi Ielo e scrivendo a penna “conferire”. Nella trascrizione dei carabinieri di Torino si poteva leggere questa frase di Amara: «Il professor – poi incomprensibile – è consulente del presidente Ezio Bigotti di tutte le società Exit One, lavora molto con il mio studio, lui è professore di diritto tributario a Palermo è persona splendida meravigliosa». Pignatone, pur essendo nominato il fratello, farà richiesta di astensione al procuratore Generale della Corte di Appello di Roma solo il mese successivo. Tornando al fascicolo, dopo due anni, per la precisione il 3 aprile del 2019, Ielo deciderà di riassegnarlo al pm Mario Palazzi. Passato un anno e mezzo e, da quanto risulta, senza aver fatto altri accertamenti, Palazzi a sua volta, il primo dicembre 2020, con il visto del procuratore Michele Prestipino, lo archivierà definitivamente. Trattandosi di un fascicolo iscritto a “modello 45” senza passare dal gip. Nell’esposto poi presentato dall’ex pm romano Stefano Fava su questa vicenda, verrà indicato che Pignatone non aveva mai riferito che Bigotti fosse cliente di Amara e che il fratello Roberto aveva rapporti con quest’ultimo. Per la comunicazione dei rapporti, ai fini dell’astensione, fra i due bisognerà attendere diversi mesi. Amara ieri, per la cronaca, si è costituto ad Orvieto essendo stata rigettata la domanda di affidamento che aveva presentato nelle scorse settimane. Riarrestato il mese scorso dalla Procura di Potenza con l’accusa di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione nell’ambito di una indagine in cui era coinvolto anche l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, Amara aveva iniziato una collaborazione con i pm. Essendosi guadagnato la fiducia dei magistrati – soprattutto del procuratore lucano Francesco Curcio – l’avvocato siciliano era stato scarcerato, ottenendo l’obbligo di dimora a Roma. Forte di questo provvedimento, Amara aveva presentato al Tribunale di Sorveglianza di Roma una istanza di affidamento in prova ai servizi sociali dal momento che per le medesime accuse di Potenza aveva patteggiato nel 2019 in un procedimento aperto dalla Procura della Capitale. Paolo Comi

"Gravi violazioni del diritto di difesa". Caso Consip, Perugia apre un’inchiesta sul processo a Romeo. Redazione su Il Riformista il 28 Maggio 2021. La Procura di Perugia ha aperto un’inchiesta sul processo ad Alfredo Romeo in corso a Roma dopo che le indagini si erano svolte a Napoli. L’ha aperta in seguito all’esposto presentato dallo stesso Romeo nel quale si denunciano moltissime irregolarità commesse dagli inquirenti, in fase preliminare, a danni dell’imputato. La notizia dell’apertura di un’inchiesta l’ha data ieri sera il sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto, rispondendo a una interrogazione che era stata presentata dalla deputata di Forza Italia Matilde Siracusano. Nell’interrogazione si chiedeva l’intervento degli ispettori ministeriali per verificare le irregolarità che – secondo Romeo – stanno minando la credibilità del processo. Il sottosegretario Sisto ha risposto che “nel caso di specie si assume la occorsa e grave violazione di diritti di un imputato a mezzo di ritenute irregolari condotte riconducibili all’organo inquirente”.  Il Sottosegretario ha anche spiegato come la Costituzione garantisce l’inviolabilità dei diritti di difesa e che questi mai possono essere ridotti o conculcati. Però ha precisato che il ministero non può intervenire finché è in corso un’inchiesta giudiziaria sui fatti denunciati. E questa inchiesta – ha annunciato – è in corso a Perugia, dove è stato avviato un procedimento penale “che evidentemente è ancora in fase coperta da segreto investigativo”. Perciò, al momento, è impossibile mandare ispettori. L’on. Siracusano ha ringraziato il sottosegretario e ha detto di avere molta fiducia nell’impegno del ministero e del ministro Cartabia per porre fine ai casi di malagiustizia. Questa vicenda del processo a Romeo – ha detto – è emblematica ma non è certo isolata o rara. Ci sono stati e ci sono centinaia di altri casi simili. E bisogna trovare il modo perché questo non possa più succedere.

Processo Consip, Sansonetti: “Un miliardo di ragioni per cui Gasparri si è auto accusato coinvolgendo Romeo…” Redazione su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti in un video editoriale torna sulla vicenda del processo Consip: “Torna alla ribalta il Caso Consip e soprattutto Alfredo Romeo (editore di questo giornale, ndr). Romeo ha presentato due esposti nelle quali denuncia irregolarità che sono avvenute in questo processo. Se ne è accorto persino Il Fatto Quotidiano che dà conto di come si stanno svolgendo le cose e solleva qualche domanda”. Il direttore poi sottolinea: “Stesso il giornale di Marco Travaglio sottolinea che il processo si basa solamente sulla testimonianza di Marco Gasparri. La novità è che i processi sono due ma con un unico Pm. C’è una mole enorme di intercettazioni, circa 20mila, che però l’accusa ha usato solo nel processo Consip 1, anche contro Tiziano Renzi, Denis Verdini e Luca Lotti, e non nel Consip 2. La difesa di Romeo queste intercettazioni non ha potuto ascoltarle per anni perché il Pm aveva garanti che al loro interno non c’era nulla di interessante. Adesso, depositate le registrazioni al Consip 1, la difesa di Romeo ha potuto ascoltarle e scoperto cose clamorose”. Sansonetti quindi fa sapere che “dalle intercettazioni si evince che la testimonianza di Gasparri non era spontanea e che le perquisizioni fatte a casa sua non erano a sorpresa. Questo fa crollare l’accusa contro Romeo. Il Fatto fa un’unica obiezione: perché Gasparri si sarebbe dovuto auto accusare? Non c’è un motivo…“. Sansonetti conclude: “Visto che il Fatto lo chiede gli do una mano: gara Consip, vince Romeo e perde Teamservice. Scandalo, casino, Gasparri si auto accusa e coinvolge Romeo. L’appalto viene tolto a Romeo e viene dato a Teamservice. Cosa si scopre? Che Gasparri lavora per Teamservice che si aggiudica un appalto miliardario”.

Chiariamo i punti oscuri del Fatto. Caso Consip, perché Gasparri ha accusato Romeo? Tutti i dubbi del processo d’argilla…Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Il Fatto Quotidiano riporta alla ribalta il caso Consip e il ruolo di Alfredo Romeo, che è il principale imputato ed è anche l’editore di questo giornale. Lo fa con un ampio articolo di Vincenzo Bisbiglia e Vincenzo Iurillo nel quale si dà conto dei due esposti presentati da Romeo a varie Procure, al Csm e alla ministra Cartabia, nei quali si racconta di parecchie irregolarità che hanno accompagnato le indagini, soprattutto, sembra, nella loro fase iniziale. Curiosamente – permettetemi questa osservazione scherzosa – l’articolo è corretto, non contiene eccessive asprezze polemiche, e illumina abbastanza bene alcune – almeno alcune – goffaggini di questo processo. Dico “stranamente” perché sinora il Fatto era sempre sembrato, sul caso Consip, la voce ufficiale dell’accusa. Tuttavia l’articolo lascia alcuni punti un pochino oscuri, e qui proviamo a chiarirli. Il Fatto spiega che tra le tante irregolarità segnalate da Romeo la principale riguarda la non spontaneità della chiamata di correo di tal Marco Gasparri nei suoi confronti. E osserva che se per caso dovesse essere accertata la non spontaneità di quella chiamata di correo, cadrebbe la deposizione di questo Gasparri e il processo potrebbe andare a carte quarantotto, perché si regge tutto su questo atto di accusa. Vediamo di capire di cosa si tratta: Romeo è sotto accusa in due processi, anche se i fatti contestati sono sempre gli stessi. Uno dei due processi è quello dove ci sono tanti imputati eccellenti (tra gli altri Verdini, Lotti e il papà di Renzi) per il quale i Pm avevano chiesto l’archiviazione, respinta però dal Gip Sturzo e ora si dovrà andare all’udienza preliminare. Chiamiamolo Consip 1. Il secondo processo invece è ad hoc: solo contro Romeo. Questo secondo processo (chiamiamolo Consip 2) si fonda interamente sulla testimonianza di questo Marco Gasparri, un ex funzionario Consip che negli anni passati veniva spesso a trovare Romeo. A quale fine? L’accusa sostiene che Romeo lo pagò in cambio di un aiuto per vincere le gare Consip. Appalti per centinaia di milioni, che la Romeo – prima azienda italiana nel settore del “facility management” – vince da svariati anni. I fatti però dicono quattro cose:

primo, questo Gasparri non aveva nessuna possibilità di influire sull’esito delle gare, e Romeo lo sapeva.

Secondo, dalle intercettazioni e dagli interrogatori dei dirigenti Consip che decisero l’esito delle gare risulta che non ci fu nessun favoritismo nei confronti di Romeo ma ci furono favoritismi verso altre aziende e a danno di Romeo.

Terzo, dopo lo scandalo furono istituiti controlli rigorosissimi nelle gare successive; recentemente si sono concluse le gare per otto lotti. Chi sono le aziende che le hanno vinte? Una sola azienda e le ha vinte tutte con largo distacco: la Romeo Gestioni. E questo fa sospettare che la Romeo vincesse (e non sempre) le gare non perché tramava ma perché era largamente la migliore. Circostanza, peraltro, che tra gli addetti ai lavori era stra risaputa.

Quarto, Gasparri ha sostenuto di avere avuto dei soldi da Romeo, ma non ha mai saputo dire né quando, né come, né dove, né perché, né cosa abbia fatto di questi soldi. Non c’è traccia del denaro, nessuno ha mai trovato traccia. Romeo ha sempre negato. I colloqui tra Romeo e Gasparri da sempre sono intercettati e in nessun colloquio si è parlato di soldi.

Bene. Il processo ora è in corso e volge al termine. Si gioca tutto attorno l’autoaccusa di Gasparri che ha patteggiato una pena modesta e ha evitato il carcere (Romeo invece ha fatto molti mesi di carcere, che poi la Cassazione ha giudicato immotivato). Recentemente però è giunta una novità davvero clamorosa, e che rovescia la situazione. Gli avvocati di Romeo hanno potuto ascoltare 20 mila intercettazioni che sono state depositate all’altro processo (quello con Lotti, Verdini e Tiziano Renzi) e sono intercettazioni che fino a qualche mese fa erano segrete. Dalle intercettazioni – come racconta il Fatto – emergono elementi che suggeriscono molto concretamente l’idea che la perquisizione a casa di Gasparri sia stata concordata, che l’avvocato di Gasparri al momento della perquisizione stesse nell’ufficio del Pm, che l’atto di autoaccusa sia stato preparato e concordato in varie forme e non avesse nulla di spontaneo. Dunque che sia inutilizzabile. Cosa manca nella ricostruzione del Fatto? Un particolare abbastanza importante. Le intercettazioni che mettono in mora Gasparri e le sue accuse sono state negate alla difesa per anni. E se il Gip dell’altro processo (il Consip 1) avesse accettato la richiesta di archiviazione sarebbero scomparse. Le conosceva il Pm (del Consip 2 che è lo stesso Pm del Consip 1) ma non la difesa. E quando la difesa le chiese, perché sapeva che esistevano, il Pm disse che garantiva lui che in quelle intercettazioni non c’era nulla che riguardava l’affare Gasparri. Non era vero. Ora è evidente che non era vero. Che Dio lo benedica! Beh, non è un particolare da niente. Così come non è da niente il particolare che le indagini sull’esposto di Romeo siano state assegnate proprio al Pm che sta sostenendo l’accusa contro Romeo, cioè all’oggetto dell’esposto. La Procura gli ha detto: guarda un po’ qui, fai un’indagine su te stesso e poi dicci se hai ragione o torto… Non fanno così neanche nei tribunali di Maduro. Il Fatto ci informa però che il Pm ha avviato le indagini su se stesso e ha interrogato il maggiore dei carabinieri Giampaolo Scafarto, che è il protagonista delle perquisizioni dolci a casa di Gasparri. E ci dice anche che l’indagine contro Scafarto sarà archiviata. Ce lo dice, evidentemente, utilizzando doti di preveggenza delle quali noi non disponiamo (ma a pensarci bene ne disponiamo un po’ anche noi: sì, sarà archiviata…). Del resto è stato proprio il Pm che sta indagando – evidentemente con molta imparzialità come farebbe chiunque di noi se gli chiedessero di indagare su se stesso…- ad aver dichiarato, in una recente udienza del processo a Romeo, che le ipotesi dell’esposto di Romeo sono un “film”. Cioè fantasia, cioè infondate. E questo spiega con quanta cura e meticolosità si svolgerà l’indagine sull’esposto. Il Pm si riserva di decidere se si tratta di un film di fantascienza o di fantasia. Fin qui i fatti. Poi c’è la domanda insinuante che il Fatto Quotidiano pone – fuori dall’articolo -, in prima pagina, con grande evidenza. Questa: “Il dirigente Gasparri patteggia per tangenti da Romeo e questo solleva dubbi sulla confessione. Ma perché dovrebbe confessare reati non commessi?” Naturalmente è una domanda che non necessariamente richiede una risposta. In giurisprudenza una chiamata di correo non è di per sé una prova di colpevolezza. Occorrerebbero dei riscontri. Non a caso esiste, ad esempio, il reato di autocalunnia. E i riscontri toccano all’accusa. Tuttavia voglio venire incontro agli amici del Fatto perché, siccome da diversi mesi seguo questa vicenda, una risposta io ce l’avrei. Dunque – come dice giustamente l’articolo di Bisbiglia e Iurillo – dopo la condanna, Gasparri è stato licenziato da Consip e ha cambiato vita. Come? Ha iniziato a lavorare, insieme a suo fratello, per un’azienda che era concorrente dell’azienda di Romeo nella gara Consip. Questa azienda, che non era specializzata nel settore del facility management e infatti non aveva mai vinto gare in passato, fu sconfitta da Romeo. Era in gioco un appalto bello grosso. Un miliardo, 51 milioni e 400 mila euro. Questo appalto, per via delle accuse di Gasparri a Romeo, è stato tolto a Romeo e assegnato alla società alle cui dipendenze era passato Gasparri. La Team Service. Diciamo che Gasparri aveva circa un miliardo di ragioni per accusare Romeo, non vi sembra?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Tutte le stranezze nella ricostruzione di Libero. Caso Consip, dopo 4 anni spuntano 20mila intercettazioni nascoste a Romeo: inchiesta manipolata? Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Aprile 2021. Dalle 20mila intercettazioni tenute nascoste per anni alla difesa ai mancati rapporti stilati dai carabinieri che procedevano nelle indagini per conto prima della procura di Napoli e poi di quella di Roma. Renato Farina sul quotidiano Libero ricostruisce minuziosamente le tappe dell’inchiesta Consip, nata nel 2016, che coinvolge l’imprenditore ed editore del Riformista Alfredo Romeo e Tiziano Renzi, padre dell’attuale leader di Italia Viva. Nel suo articolo Libero paragona l’inchiesta Consip alla sceneggiatura di un teatrante dell’assurdo volta a denigrare la giustizia italiana. Farina riprende l’esposto presentato dall’imputato Romeo alla procura di Napoli e relativo alle intercettazioni nascoste alla difesa e riemerse dopo 4 anni (un file non con un paio di telefonate, ma ventimila grazie alla potenza invasiva del trojan), mandati di perquisizione in cui si citano dichiarazioni di un reo che ci saranno dopo una settimana, camminate sui tetti di carabinieri riconosciuti come tali perché non sono vestiti da carabinieri in borghese (sul serio). Consip è l’ente pubblico che gestisce appalti miliardari e nell’inchiesta in oggetto in ballo c’era la (presunta) corruzione di funzionari per assegnare ad alcune ditte la pulizia e i servizi di gestione di scuole, caserme, tribunali eccetera. Affari per miliardi di euro sarebbero stati affidati per la modica cifra di 50mila euro da un reo (spontaneamente o forse spontaneamente) confesso prima ancora di essere indagato e subito in grado di dar modo al pm napoletano Henry Woodcock e alla sua polizia giudiziaria, rappresentata dai carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico), di procedere con la spada infuocata da angeli vendicatori, scrive Farina. Nel corso dell’articolo, Libero mette in fila le figurine dei personaggi, muovendoli sul palcoscenico dell’indagine senza pretesa di esaurire la pratica, che toccherà (chissà mai agli ispettori del ministero inviati dal ministro Cartabia o forse in seguito dal Csm valutare).

1. Alfredo Romeo, 68 anni, avocato, imprenditore napoletano nel ramo delle utility, oggi anche editore del Riformista. È a processo a Roma. Autore dell’esposto. Cosa scopre nel corso del processo? Che in un altro procedimento connesso sono state nel frattempo depositate intercettazioni del 2016-2017 mai messe a disposizione della difesa! Ventimila file che nel corso delle indagini difensive si stanno ancora sbobinando. Sono materiale sorprendentemente tenuto occultato non solo prima da Napoli ma in seguito dalla procura capitolina. È da qui che saltano fuori i pasticci.

2. Marco Gasparri, architetto, dipendente di Consip, ha patteggiato e cosi è usato da ogni processo. Prima ancora che fosse indagato, Gasparri si reca, il 29 novembre 2016, negli unici di Romeo neUa Capitale. I carabinieri del Noe non vogliono far sapere di sospettare ci sia andato per incassare tangenti, per cui bloccano il taxi su cui era salito fingendo un controllo per terrorismo, Non trovano soldi. Ma che fanno? Anzi, cosa non fanno? Non scrivono il rapporto. Lo stendono dopo parecchi mesi. Il 16 maggio 2017. Perché aspettano tanto? Guarda un po’, l’hanno redatto dopo che Gasparri si è reso disponibile e ha incastrato Romeo. Si capisce tutto dalla trascrizione delle intercettazioni sepolte e risorte non dopo tre giorni ma dopo 4 anni. In realtà, Gasparri non è scemo, e mangia la foglia, comprende di essere nel mirino. E da chi va? Dal suo avvocato, Alessandro Diddi. Un legale di primo livello, in rapporti di lavoro con i capi della Procura (Pignatone, lelo) come difensore di Buzzi in mafia-capitale. Che fa? Chiede legittimamente se il suo cliente è sotto indagine? Ovvio. A Napoli, a Napoli!

3. Henry Woodcock (pm a Napoli), capitano del Noe Gianpaolo Scafarto (poi maggiore, ora assessore alla legalità a Castellammare di Stabia). Ipotesi. E qui siamo alla “perquisizione profetica” e favolosamente anomala. È il 7 dicembre 2016 allorché si esegue la perquisizione nell’ufficio e nell’abitazione di Gasparri. Per la prima volta nella storia dell’umanità essa è effettuata all’alba (ironia) delle 13,25 “a sorpresa”. Dalle sbobinature adesso salta fuori che proprio quel 7 dicembre la segretaria di Gasparri gli riferisce di una telefonata di un certo capitano Scafarto del Noe che lo sta cercando per «effettuare una notifica». Comunicazioni simili si susseguono. Il capitano invita in caserma Gasparri, il quale cerca l’avvocato Diddi e quello prima che possa parlare gli dice «so già tutto» e gli spiega di trovarsi – guarda un po’ – nello studio di Woodcock! Ma la faccenda è guarnita da bugie sonanti: il trojan non perdona e rivela che la perquisizione degli uffici Consip non è durata un’ora come da verbale, ma 8 minuti e 20 secondi, come un pit stop della Ferrari di una volta, un record mondiale. Non solo: si fa riferimento a «denaro sistematicamente versato in contanti direttamente nelle mani dello stesso Gasparri». Peccato – e qui sta la meravigliosa profezia – che queste dichiarazioni di Gasparri non ci sono ancora state (ufficialmente). Insomma, non ci si raccapezza, o ci si raccapezza fin troppo. Ma ecco un altro salto. Il procedimento – grazie a Diddi? – finisce a Roma. Con un escamotage giuridico. Cambia la prospettazione del reato. Corruzione vera e propria e non più qualcosa di minore come aveva fissato Woodcock per tenersi i fascicoli. Tocca alla procura di Pignatone. Peccato che il prezzo di questo passaggio sia la carcerazione preventiva di Romeo.

4. Diddi bis. Enrico Mentana lo intervista il 7 marzo 2017, poche ore dopo l’arresto di Romeo. Anche lui è molto colpito dalla sagacia dell’avvocato, cerca di capire come mai si sia recato a Napoli in tempo per far trasferire il processo a Roma e dunque fare arrestare Romeo. Intuizioni investigative che probabilmente hanno determinato la sua assunzione come promotore di giustizia (pm) in Vaticano, dove intanto Pignatone è diventato presidente di Tribunale. Riferì di aver capito che la chiave era Romeo e che bisognasse correre da Woodcock dal fatto che vide persone sospette sul tetto della sua casa assai vicina alla sede degli uffici di Romeo a Roma, e di aver dedotto che piazzavano dall’imprenditore le loro cimici. Un genio. Lo si deduce da come lo capì . «Erano carabinieri travestiti da carabinieri in borghese». Ciao giustizia.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 faccio parte della redazione del Riformista.

Otto su otto e con largo distacco. La nuova Consip rifà le gare, Romeo le vince tutte e sbaraglia gli avversari. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Marzo 2021. Torna alla ribalta lo scandalo Consip. Ma stavolta torna alla rovescia, cioè torna nelle vesti di non-scandalo. O qualcosa del genere. Sentite cosa è successo. Avete presente l’origine di tutto? Le gare Consip svolte nel 2016 per l’assegnazione di svariati appalti per quasi tre miliardi di euro. A queste gare parteciparono diverse società e alcune di queste società le vinsero. Una delle società che partecipò era quella di Alfredo Romeo, che da molti anni concorreva alle gare Consip e di solito le vinceva. In quel maledetto 2016 ne vinse tre e ne perse una, ma – dopo l’intervento della magistratura – gli cancellarono le tre vittorie. Dopodiché scoppiò lo scandalo. La magistratura napoletana e poi quella romana sospettavano che le gare fossero truccate, misero sotto indagine molte persone, però ne arrestarono una sola: Alfredo Romeo. Perché lui e solo lui? Non lo sappiamo, probabilmente non lo sapremo mai, al massimo possiamo sospettarlo. Comunque le cose andarono così, e da allora Romeo fu preso di mira sia dai magistrati sia da ripetute campagne di stampa, subendo danni personali ingenti e danni devastanti per la sua società. Bene, in seguito allo scandalo, la Consip ha cambiato tutto il suo gruppo dirigente. Sono stati messi al vertice personaggi sicurissimi, i controlli sulle gare ora sono massimi, la legittimità delle gare è diventata assoluta. E finalmente sono state indette le nuove gare: ventiquattro lotti. Il regolamento stabilisce che nessun gruppo può partecipare a più di un terzo dei lotti. La Romeo Gestioni decide di concorrere a ben otto lotti, il massimo dei lotti possibile. Il risultato è pazzesco: li vince tutti e otto. Capito? Otto su otto. E li vince con gran distacco sui secondi, mentre di solito queste gare si vincono al fotofinish. Che vuol dire? Non lo so, vedete un po’ voi se c’è qualche conclusione filosofica da trarre. A me, così, di primo acchito, viene il dubbio che sia vero quello che Romeo ha sempre detto: e che cioè la sua azienda è la numero 1 in Italia nel suo campo (quello che si chiama il facility management, e corrisponde alla gestione integrata del patrimonio immobiliare pubblico). Cioè, che non è una vanteria del mio amico Alfredo, ma proprio una cosa dimostrabile. E se così fosse, almeno dal punto di vista logico verrebbe a cadere tutto il castello delle accuse. Cioè, uno, magari un po’ ingenuo, potrebbe chiedere: ma se lui è il più bravo, di gran lunga il più bravo, e questo è accertato, allora perché mai non avrebbe dovuto vincere le gare in passato? Anzi, perché mai non vinceva tutte le gare, e non solo alcune, e perché nel 2016 fu dichiarata la sua sconfitta in diverse gare? Per caso fu ostacolato da qualcuno? Per caso fu vittima di una gestione irregolare degli appalti? Per caso quella intercettazione del colloquio tra l’Ad di Consip, Luigi Marroni, e il capo della commissione giudicante, Francesco Licci (nel quale Marroni diceva che sebbene le gare le avrebbe dovute vincere Romeo non si poteva però affidargli la vittoria –“sennò succede il finimondo” -), era una intercettazione che spiegava quasi tutto dello scandalo Consip? Consip, erano tutti raccomandati tranne Romeo: perché è stato arrestato e processato?

Ecco, proviamo a riassumere bene, seppure per grandi linee, tutta la vicenda. La Consip nasce alla fine del secolo scorso, per iniziativa soprattutto dell’attuale presidente del Consiglio, cioè Mario Draghi, che all’epoca era il direttore generale del Tesoro. È una società pubblica che deve gestire tutti gli appalti: le gare, le assegnazioni, le regole. Dal momento della sua nascita a oggi è sempre affidata alla direzione di personalità importanti, apolitiche, dell’alta dirigenza statale. Tecnici e manager esperti e onesti (in realtà ha avuto anche due amministratori scelti dalla politica, ma che si sono sempre fatti dirigere dal Mef). Negli anni passati (dal 2000 in poi) si sono svolte, tra le altre, le gare che si chiamano con la sigla Fm1, e poi Fm2 e poi Fm3. La Romeo ha partecipato a molte di queste gare per la gestione del patrimonio e ha vinto tre volte di seguito le gare che riguardavano la Campania, Roma e la Lombardia. Poi, nel 2015, qualcosa cambia. Sotto il governo Renzi vengono nominati nuovi manager e l’impressione è che questi manager siano nominati con criteri non più tecnici ma politici. Il 12 giugno del 2015 inizia il mandato di Luigi Marroni, che poi verrà allontanato da Consip nel 2017. È in questo periodo che succede qualcosa di non molto chiaro. Lo stesso Romeo interviene, presentando degli esposti alle autorità competenti perché – sostiene – lui sospetta che stiano agendo dei “cartelli” e che gli appalti non siano più trasparenti. Non è un esposto che gli porta fortuna perché il Pm Woodcock apre un procedimento proprio contro di lui, e la procura di Roma decide addirittura di arrestarlo e di avocare l’inchiesta. Il Gip che firma l’arresto di Romeo si chiama Gaspare Sturzo. È il nipote del fratello di don Sturzo, il fondatore della Dc. È un Gip un po’ speciale. Nel senso che qualche anno prima di firmare l’arresto di Romeo ha partecipato alle elezioni regionali in Sicilia. Come candidato presidente. Vedete bene che davvero è un gran pasticcio: non solo la politica è entrata in Consip, sotto il governo Renzi, stravolgendone la tradizionale rigorosità, ma è entrata, sembrerebbe, anche nei tribunali che ora si occupano di Consip. In una inchiesta che coinvolge, come indiziati, anche molti esponenti politici, viene chiamato a giudicare un giudice che a sua volta è stato esponente politico. A me non risulta che una cosa del genere sia possibile in qualche altro paese del mondo. Magari mi sbaglio. L’inchiesta evidentemente punta a Renzi (ma solo nella prima fase: la fase napoletana), anche con informative dei carabinieri taroccate. E per puntare a Renzi qualcuno decide che la via più breve sia Romeo. Comunque lo scandalo, quando esplode, produce un testacoda in Consip. E così nel 2017 tutto il vertice viene sostituito con personalità indiscutibili. L’amministratore delegato, nominato dal Mef, è un manager con una lunga e limpida carriera. Si chiama Cristiano Cannarsa, viene da Finmeccanica, dall’Imi, da Cassa Depositi e Prestiti, da Terna. Lo sceglie un ministro del quale si possono dire molte cose, ma della cui serietà mai nessuno ha dubitato: Pier Carlo Padoan. Arrivano dal Mef dirigenti nuovi e molto stimati, come Valeria Vaccaro e Michele Petrocelli. Sono loro a indire le nuove gare, controllatissime. E qui scatta la sorpresa: forse non era mai successo che una sola azienda vincesse otto gare su otto, e tutte per distacco. Avete presente il triplete nel calcio? Beh, qui siamo oltre: siamo all’ottoplete…È evidente che questo risultato consegna alla Romeo il titolo di indiscussa numero uno nel campo del facility managment. Chissà se poi qualcuno ci spiegherà perché nel 2016 scattò la persecuzione nei confronti proprio dell’azienda numero 1. E magari in questo modo ci potremmo anche spiegare come mai, da un quarto di secolo a questa parte, l’economia italiana è fanalino di coda in Europa. Eravamo quarti al mondo, ormai galleggiamo verso il decimo posto. Anzi, non galleggiamo: affondiamo. Presto, se non cambia qualcosa, saremo ventesimi. Può mai funzionare l’economia in un sistema nel quale se un imprenditore lavora bene e produce grandi risultati, allora è meglio arrestarlo? (Romeo negli ultimi 15 anni è stato arrestato tre volte, ha fatto un anno di carcere, è stato indagato in 15 diversi processi, assolto o prosciolto in 14 e prescritto in uno. È incensurato).

P.S. Può darsi che qualcuno dirà che ho scritto queste cose perché Romeo è il mio editore. Ok. Però allora spiegatemi, per favore, anche se quelle otto gare su otto le ha vinte solo nella mia fantasia o le ha vinte nella realtà. Se c’è qualcosa di inventato, in questo mio articolo, chiederò scusa. Altrimenti, però, sarebbe gentile se qualcuno chiedesse scusa a Romeo, no?

Il caso Consip spiegato bene: nessun reato, solo una guerra tra magistrati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Maggio 2020. C’è un mio amico ingegnere che mi chiede sempre: «Ma in cosa consiste questo caso Consip?». E poi ride con una risata tipicamente romana. Ride anche perché io non so rispondere. Nessuno sa rispondere. Consip è lo scandalo politico che ha fatto più rumore negli ultimi cinque o sei anni, in Italia, ha tenuto le prime pagine di tutti i giornali, guidati da Travaglio, ha fatto tremare politici e imprenditori. Mari di intercettazioni, belle toste anche se tutte – tutte – irrilevanti. Ma in cosa consiste? Se vai a vedere le carte non capisci niente: ci furono della gare Consip, furono più o meno svolte tutte in modo regolare tranne alcune nelle quali fu vistosamente e volontariamente danneggiato un imprenditore napoletano (Alfredo Romeo), c’è qualche intercettazione che conferma che c’era l’ordine di danneggiare questo imprenditore (il fatto che sia il mio editore non cambia niente nella assoluta oggettività di questo articolo) e poi ci furono, forse, delle fughe di notizie sul fatto che stava partendo un’inchiesta, ma questa inchiesta nessuno sa bene cosa dovesse accertare. E non si sa bene neanche come andarono le fughe di notizie, visto che gli indiziati sono esponenti politici ma – a occhio e croce – la fuga di notizie deve essere partita dalle Procure. Poi, dietro – o davanti, o al centro – dello scandalo c’è il nome di Matteo Renzi, perché, forse, l’inchiesta era volta a colpire Renzi. Almeno all’inizio. Da un certo momento in poi pare che le cose cambiarono, e l’inchiesta sembrò volta a salvare Renzi. Cosa era successo nel frattempo? Una cosa semplice, una guerra lampo – una guerra vera e propria – tra bande di magistrati. I napoletani, che puntavano probabilmente a colpire Renzi furono scippati dai romani con un colpo di mano (l’arresto di Alfredo Romeo, che solo dopo qualche mese la Cassazione giudicherà assolutamente illegittimo), e i romani da quel momento lavorarono in direzione opposta. È un gran pasticcio, no? Per cercare di fare luce su questo pasticcio basta cambiare gli occhiali con i quali si guarda a questa vicenda. Se la chiami Inchiesta-Consip, sbagli. Se la chiami Manovra-Consip forse riesci a capire qualcosa. Manovra politica. La verità è questa qui, e le intercettazioni ce la mostrano. La parte “vincente” della magistratura lavorava esattamente come un semplice e potentissimo gruppo di potere. Era un gruppo diviso in fazioni tra loro in guerra. Ma in guerra su un unico terreno: il terreno del potere. Nessuna di queste fazioni era interessata ad affermare o sconfiggere una certa idea di giustizia, o di diritto, o di funzionamento della giurisdizione. Ciascuna era interessata solamente ad aumentare il proprio potere sul territorio e il proprio potere di condizionamento e di ricatto del mondo politico. Il mondo politico a sua volta era interessato ad interfacciarsi con i gruppi di potere della magistratura, sia per proteggersi dagli assalti giudiziari (che sono diventati da una trentina d’anni lo scenario principale degli scontri politici) sia per avere a propria volta un controllo sulla stessa magistratura e sulle sue dinamiche di guerra. Sul nostro giornale abbiamo pubblicato le notizie che abbiamo raccolto sul modo nel quale fu fatto fuori il procuratore Viola, che avrebbe dovuto diventare procuratore di Roma. Perché fu scartato? Perché non era ricattabile, dice in una telefonata un consigliere potente del Csm a Palamara. Anzi: è l’unico che non era ricattabile. Tutti gli altri erano sottotiro. E dunque se fosse diventato procuratore nella Procura più importante d’Italia poi non sarebbe stato più controllabile. Niet. Ecco, il gioco era quello: ricatti, promesse, raccomandazioni, scambi, accordi. A nessuno mai è venuto in mente di decidere una nomina usando un criterio di merito o di competenze. Non solo, ma a quanto pare alcuni processi andavano in un modo o in un altro a seconda dei desideri di una corrente, o di una banda, o di un gruppo, o di uno scambio tra loro. Poteva anche succedere che si scambiasse una condanna o un’assoluzione con la nomina di un Procuratore o di un aggiunto. E l’imputato? Merce. E nessuno era in grado (nessuno è in grado) di opporsi. Del resto anche nel caso Consip questo appare evidentissimo. L’arresto di Romeo è il prezzo che Roma paga a Napoli. E né Roma né Napoli si preoccupano del fatto che l’arresto sia illegittimo. Non è quello il punto. La legittimità o meno di un atto giudiziario è un aspetto del tutto marginale della battaglia, o della manovra politica che si sta svolgendo. Le cose stanno così. Cos’è il caso Consip? Ieri ho telefonato al mio amico ingegnere e gliel’ho detto. Gli ho detto: è il paradigma di un colpo di stato, lungo trent’anni, che ha cancellato dal nostro Paese il diritto del diritto. L’aspetto più sconvolgente della Repubblica Giudiziaria che ha sostituito la Repubblica democratica, non è tanto la delegittimazione della politica, che pure è un fatto gravissimo e sconvolgente, ma è la sostituzione del diritto con lo strapotere e l’abitudine alla sopraffazione della magistratura. Ecco qua, ingegnere, ora lo sai cos’è il caso Consip.

(ANSA il 29 gennaio 2021) - L'ex comandante dei carabinieri, il generale Tullio Del Sette, è stato condannato a 10 mesi (pena sospesa) nell'ambito di un processo-stralcio della maxinchiesta sul caso Consip. Lo ha deciso la ottava sezione collegiale del tribunale di Roma. Del Sette, per il quale la Procura aveva sollecitato una condanna a 1 anno e due mesi, è accusato di rivelazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. I giudici hanno riconosciuto le attenuanti generiche. Secondo l'impianto accusatorio, Del Sette avrebbe informato nel maggio del 2016, Luigi Ferrara, all'epoca presidente di Consip, dell'esistenza di una inchiesta penale sul conto dell'imprenditore campano Alfredo Romeo e di essere cauto "nelle comunicazioni a mezzo telefono".

Chiesto supplemento di indagine. Caso Consip, Sturzo il Gip al quale piaceva perder tempo e voleva lo scalpo di Renzi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Febbraio 2020. Quindi sono gli avvocati che cercano di rallentare le indagini, e poi i processi, e poi intasano tutto con i loro ricorsi e i controricorsi, e lo fanno per ottenere la prescrizione. L’avete sentita dire cento volte questa cosa, no? Anche in Tv, l’avete letta sui giornali, sui social. E a forza di ripeterla, ripeterla, una cosa è come se diventasse vera. Se chiedete a cento persone se è così, almeno un’ottantina vi risponderanno: sì, sì, è così, tutta colpa degli avvocati. Allora seguitemi un attimo, attenti alle date. C’è un’ipotesi di reato che risale al 2016. Una inchiesta che parte proprio nel 2016 e si conclude due anni dopo con una richiesta da parte del Pm di archiviazione. I Pm non hanno trovato reati. Il Gip però non è d’accordo, respinge la richiesta di archiviazione e chiede un po’ di tempo per pensare a cosa fare. Pensa, pensa, pensa, un mese, due, tre, quattro: quindici mesi. Dopo 15 mesi di pensieri, sebbene l’inchiesta dei Pm dimostri che non c’è uno straccio di prova di colpevolezza, il Gip ha la bella idea di chiedere un supplemento di indagini. Gli è servito quasi un anno e mezzo di meditazione per chiedere un supplemento di indagini. Ha detto al Pm – che aveva chiesto l’archiviazione – di cercare ancora per 90 giorni. Poi, se il Pm gli ripeterà che non ha trovato nulla, forse sarà lui stesso a decidere l’imputazione coatta, e probabilmente, per fare questo, gli saranno necessari ancora 15 o 16 mesi. Non è un caso ipotetico, quello che ho raccontato. È il caso di una delle inchieste Consip. Il Pm in questione è il Pm romano Mario Palazzi, un magistrato piuttosto noto e molto esperto. Il Gip che gli ha rimandato indietro la richiesta di archiviazione è Gaspare Sturzo, magistrato dal nome celebre, in Italia, perché è il nipote del fondatore del Partito Popolare e della Democrazia Cristiana. Sturzo, lunedì sera, ha respinto la richiesta di archiviazioni di Palazzi avanzata nell’autunno del 2018 e ha preteso nuove indagini sugli indiziati (tra gli altri il padre di Renzi, Luca Lotti e Alfredo Romeo) e anche su Denis Verdini e un gruppetto di suoi amici che indiziati non erano. Gli avvocati degli imputati in questa vicenda hanno potuto fare ben poco. Chi si è impegnato a fondo per intralciare la velocità della giustizia è stato solo ed esclusivamente il Gip. Bisognerà che l’Anm, o i magistrati eccellenti, come Davigo, o i legislatori dei 5 Stelle, tengano conto di questa vicenda. Ora il Pm Palazzi dovrà comunque, quasi un anno e mezzo dopo aver chiuso la sua indagine, ricominciare daccapo, riprendere in mano le carte, forse interrogare nuovi testimoni, e probabilmente dovrà lasciare per strada altre inchieste alle quali stava lavorando. Che magari cadranno in prescrizione…Come si spiega questo corto circuito e questo simil-suicidio della stessa magistratura, che poi protesta e chiede che sia bloccata la prescrizione per impedire agli avvocati di ritardare i processi? Forse si spiega con una sola e brevissima parolina magica: Renzi. Il bersaglio è quello, e quel bersaglio spiega tante cose. Tra le vittime di questa inchiesta dai tempi infiniti, diciamolo subito, c’è il nostro editore, Alfredo Romeo. Che da diversi anni è stato coinvolto nei vari rivoli dell’inchiesta Consip. E ha anche scontato diversi mesi di detenzione. Quando poi tutto sarà finito potremmo forse fare un calcolo approssimativo dei danni provocati da queste inchieste alle sue aziende. E l’entità dei danni sarà tanto maggiore quanto più sarà lunga la durata delle inchieste. Proviamo a prendere il caso Romeo e a moltiplicarlo – ad esempio – per dieci o per cento, quanti sono gli imprenditori che finiscono in una inchiesta giudiziaria simile e che poi si concluderà nel nulla: otterremo un risultato pari a diversi miliardi di danni. Forse uno o due punti di Pil. Non ci credete? È così, una delle ragioni della stagnazione o della recessione dell’economia italiana sta lì: nella burocrazia giudiziaria, nella macchina del sospetto che si è alimentata in tutti questi anni di politica, di populismo, di giustizialismo. Ora ve la racconto la storia delle indagini su Alfredo Romeo, come risulta dalle carte che il Gip Gaspare Sturzo ha potuto esaminare. L’accusa del Gip – che qui ha assunto una funzione di vero e proprio pubblico ministero aggiunto – è la seguente. L’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, avrebbe ricevuto pressioni da due diverse persone in nome di due diverse aziende che partecipavano a una delle gare d’appalto della Consip. Anno 2016, mese aprile. Una di queste persone è l’ex parlamentare Ignazio Abrignani, il quale avrebbe sostenuto l’azienda Cofely, legata – si dice – a Denis Verdini. L’altra persona è Carlo Russo, presunto amico di Tiziano Renzi e che avrebbe sostenuto l’azienda di Romeo. Su che base il Gip-Pm sostiene questa tesi? Sulla base di alcune dichiarazioni rilasciate da Luigi Marroni durante alcuni interrogatori. In una prima dichiarazione Marroni dice di avere ricevuto pressioni a favore della Cofely dall’ex parlamentare Abrignani, e pressioni da Russo a favore di un’altra azienda della quale non ricordava il nome. In un successivo interrogatorio Marroni sostiene ancora di non ricordare il nome dell’azienda raccomandata da Russo, ma esclude che fosse quello dell’imprenditore Romeo. Su questa base si è deciso di indiziare di reato Romeo e ora anche Verdini e gli altri. Non però Marroni. Ora, francamente, questa è una circostanza difficilissima da spiegare dal punto di vista della logica formale. Se uno sostiene che si è svolta una gara, che questa gara l’ha vinta Romeo, che per vincerla ha influenzato o corrotto l’amministratore delegato della Consip, cioè Marroni, e se si decide, su questa base – e sulla base di un teorema privo di uno straccio di indizio – di procedere contro Romeo che ha corrotto Marroni, ma come diavolo si fa a non procedere anche contro Marroni e la Consip? Dopodiché, naturalmente, si possono raccontare anche tante altre cose che non stanno nell’inchiesta. Per esempio si potrebbe fare questa domanda: è vero che il figliastro di Marroni gestisce insieme al figlio di Verdini un ristorante di gran successo a Roma? Voi – giustamente, direte: e cosa c’entra questo con il caso Consip? Niente, amici, proprio niente. Per questo l’ho scritto. Per continuare a seguire la logica del Gip Sturzo. Fondata sul sospetto, sul sospetto, sul sospetto. Posso avere un sospetto anch’io?Ho il sospetto che tutto questo ambaradam privo di senso, e che serve solo a intasare la macchina della giustizia e la Procura romana, abbia un unico obiettivo, e vi ho già detto qual è. Il padre di Renzi, e poi Renzi. È politica: tutto qui. La giustizia c’entra zero. Però – devo dire, così, senza nessun riferimento ai fatti – sia De Gasperi che don Sturzo, quando dicevano “politica” intendevano una cosa molto più seria.

Il caso. Magistratopoli, spunta il nome di Gaspare Sturzo: il Gip del caso Consip chiedeva raccomandazioni a Palamara. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Proprio lui, Gaspare Sturzo, l’incorruttibile! Sapete chi è? Beh, il nome è noto, perché il fratello di suo nonno era un sacerdote ed è stato il fondatore della Dc. Scrisse nel marzo del 1919 il famoso appello agli uomini Liberi e forti che poi è il pilastro attorno al quale fu costruito il popolarismo italiano. Anche Gaspare presiede una associazione che porta il nome di quel manifesto. Liberi e Forti. E però stavolta sembra che libero libero non fosse… Ieri l’Espresso online ha pubblicato un altro pacchetto delle intercettazioni del Palamara-gate, e stavolta Gaspare Sturzo non fa una gran figura. Chiede al solito potentissimo Palamara una raccomandazione per diventare sostituto procuratore in Cassazione. Non so se è un reato, ma è una brutta cosa. Si lamenta perché il suo compagno di corso, Luigi Argan, ha ottenuto una nomina importante e lui ancora niente. Domanda a Palamara se ha notizie e poi, in un messaggio Whatsapp, illustra tutti i suoi meriti professionali. Dice di aver lavorato a Palermo all’antimafia, di aver partecipato al pentimento di Siino (ministro delle finanze di Cosa Nostra) di avere guidato il processo “mafia appalti” (che per la verità non è mai stato fatto) di essere tra quelli che hanno catturato Provenzano e poi soprattutto di avere lavorato a Roma come Gip e come Gup e spiega che di questo non c’è bisogno neanche di parlare «Perché dovrebbero essere noti al Csm per la loro rilevanza». Questa cosa del suo lavoro come Gip e Gup a Roma, chissà perché, è scritto tutto con lettere maiuscole, come per sottolinearne l’aspetto decisivo. E cosa avrebbe fatto di così rilevante, da Gip, da sopravanzare per clamore e merito persino la cattura di Provenzano? Beh, un po’ questa storia la conosco. Perché riguarda il mio editore, cioè Alfredo Romeo. Pensavo che fosse una cosa minore nella storia giudiziaria di questi ultimi anni, ma invece Sturzo sembra farla pesare come vicenda molto importante. Forse non importante dal punto di vista giuridico, evidentemente importante dal punto di vista politico. E così nota – pare – agli addetti ai lavori, da non aver bisogno neppure di essere descritta. La storia, per quel che ne so, è questa. Sturzo è il Gip che firmò l’ordine di arresto per Alfredo Romeo. Nel 2017. All’apice del caso Consip. E in questo modo riuscì a portare l’inchiesta Consip a Roma, togliendola a Napoli. Io ho letto l’ordine di arresto. È una lettura un po’ inquietante. L’idea è che Romeo è colpevole ed è un maledetto corruttore per il semplice motivo che non si fa intercettare e non si riescono a trovare prove contro di lui. Se uno non si lascia intercettare e non semina prove è chiaro che ha qualcosa da nascondere. E se un Pm lo sospetta di corruzione per avere vinto tre gare d’appalto della Consip avendo fatto l’offerta migliore, è evidente che va imputato per corruzione. L’ordine d’arresto non lo ho letto solo io, lo hanno letto i giudici della Cassazione. Che lo hanno annullato perché del tutto infondato. Il bello della giustizia italiana è questo: possono anche darti ragione, ma tu comunque devi pagare. Sei mesi di galera, le gare annullate, e i processi che non finiscono mai. I Pm avevano chiesto a Sturzo di archiviare il processo contro Romeo, perché non ci sono indizi. E Sturzo ha respinto la richiesta dei Pm. Ha detto: se gli indizi non ci sono, cercateli. Prima o poi li troverete. E perché? Sempre per quella ragione: Romeo spesso smetteva di parlare al telefono con gli interlocutori e gli dava un appuntamento da qualche parte. Ieri leggendo le intercettazioni delle telefonate tra Palamara e Sturzo mi è venuta in mente proprio questo ragionamento di Sturzo. Perché ci sono vari scambi di messaggi nei quali Sturzo chiede a Palamara di vederlo, e ottiene un appuntamento in un certo luogo e a una certa ora. E perché mai – dico – non scrive direttamente su Whatsapp il motivo del colloquio? Un giudice uguale a lui lo incriminerebbe subito, non vi pare… Sturzo sarà pure Libero e Forte, sarà incorruttibile, però come molti altri magistrati chiede raccomandazioni. E fa capire che lui ritiene di avere i titoli per una promozione proprio per l’opera meritoria nell’affare Consip. Con l’arresto di Romeo, evidentemente, e poi con il rifiuto di archiviare deve aver reso un servizio a qualcuno. Vorrebbe il corrispettivo. Certo la vicenda Consip resta una vicenda misteriosa. Piena di ombre, di cose non dette. Tempo fa ci occupammo di alcune carte dalle quali risultava che l’amministratore di Consip, Luigi Marroni, e il capo della commissione dei concorsi, Francesco Licci, si confessavano che era necessario non assegnare gli appalti a Romeo, anche se aveva vinto le gare. E poi decidevano di mettere in cantiere “una strategia per Il Fatto Quotidiano”. Per giorni e giorni abbiamo chiesto ai colleghi del Fatto Quotidiano di spiegarci se poi questa strategia di Consip si fosse realizzata. E quale fosse. E quali risultati avesse portato. Niente: silenzio. Chissà se stavolta il dottor Sturzo, invece, vorrà risponderci e spiegarci perché la sua azione su Consip e l’arresto di Romeo avrebbero dovuto essere premiati con la nomina a sostituto procuratore in Cassazione. Temo che non avremo mai queste risposte. Così come temo che nessuno vorrà affondare il coltello in questo scandalo che ci sta mostrando il volto vero della magistratura e del giornalismo giudiziario italiano. È un volto molto brutto. Difficile che qualcuno possa smentire: la magistratura italiana che esce dal Palamara-gate è una organizzazione di potere che non ha nessuna relazione e nessun interesse per la giustizia. La competenza di cui dispone sulla giustizia è solo un mezzo per espandere il proprio potere e le possibilità di vessazione. E il giornalismo giudiziario, del tutto privo di indipendenza, è solo uno strumento delle Procure, che accetta il suo ruolo subalterno con baldanza e saccenteria. I grandi giornali hanno ignorato per settimane e settimane le intercettazioni. E oggi i giornalisti che sono stati coinvolti nelle intercettazioni per il loro rapporti speciali coi Pm, continuano a non rendere conto di niente e a scrivere fingendo che non sia successo nulla. A voi sembra un paese libero questo? Sembra un paese libero quello dove detta legge una magistratura che ammette di voler colpire Salvini anche se lo ritiene innocente e ammette di aver bastonato Berlusconi per ragioni politiche? E vogliamo andare a cercare perché colpendo Mastella fecero cadere il governo Prodi? Qualcuno ha voglia di prendere atto del fatto che una parte consistente e molto attiva della magistratura italiana ha svolto in questi anni un ruolo eversivo, in modo molto più sfacciato di quanto fu fatto, ad esempio, 50 anni fa al tempo del “Piano Solo” e del tentato golpe del Sifar?

E la giustizia? Beh, un'altra volta. Consip, la Procura mette sotto indagine il Gip Sturzo: processo tutto da rifare? Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Marzo 2021. Il processo Consip sta diventando il processo più buffo del mondo. Dico così, per mantenere il buonumore. Dunque c’è un giudice – uno di quelli che chattava con Palamara per questioni relative alla propria carriera – che in realtà più che un giudice è un uomo politico. Ed è stato chiamato lui a giudicare nell’inchiesta Consip, cioè l’inchiesta giudiziaria più politica degli ultimi dieci anni. E ora si è scoperto che qualche anno fa aveva avuto ottimi motivi di contrasto e di rancore (politico) verso uno dei principali imputati che poi è stato chiamato a giudicare. E questo giudice non solo ha giudicato gli imputati (i futuri imputati) ma ha giudicato anche i Pm, respingendo la loro richiesta di archiviazione e mantenendo in vita il processo più politico e più scombiccherato del decennio. E per essere ancora più chiari, questo giudice è il capo di un movimento politico (diciamo politico-culturale, per essere molto precisi, perché poi questo giudice ha anche la querela facile) e alla testa di questo movimento si è presentato alle elezioni regionali in Sicilia come candidato presidente. Voi magari pensate che io sia impazzito, vi giuro che non è così. Ora vi spiego bene ma tutto quello che ho scritto è vero. Un candidato presidente alla Regione Sicilia è stato chiamato a giudicare in una inchiesta giudiziaria nella quale sono coinvolti ex parlamentari di vari schieramenti, il padre dell’ex presidente del Consiglio, diversi imprenditori accusati di avere illegittime simpatie politiche, un certo numero di funzionari pubblici e di alti ufficiali dei carabinieri. Io personalmente non so se esistono altri paesi, magari in quello che si chiamava terzo mondo, nei quali un candidato presidente alle regionali può giudicare dei suoi ex colleghi politici. Però non credo che esistano. Il bello è che questo giudice ha un nome (diciamo un cognome) coi fiocchi: Gaspare Sturzo. E Sturzo è esattamente lo stesso cognome del fondatore della Democrazia Cristiana, grande sacerdote, grande intellettuale, grande politico, perseguitato dai fascisti, che – per la precisione – è il fratello di suo nonno. Chissà che avrebbe detto don Sturzo se avesse saputo che un aspirante presidente della regione finiva a fare il Gip in un processo politico contro i suoi avversari nell’Italia democratica e repubblicana. Forse sarebbe scappato un’altra volta a Londra, come fece nel 1924 inseguito dalle guardie di Mussolini…Bene, la storia è questa. Caso Consip. Cioè il processo per accertare se ci furono reati vari in alcune gare Consip svolte tra il 2015 e il 2016. Appalti da assegnare. Tutto parte da Napoli, Pm – indovinate chi? – Woodcock. L’obiettivo evidentemente è Renzi, che all’epoca era segretario del Pd, ma gli imputati sono molti altri. Il filone principale del processo finisce a Roma, lo prendono in mano Pm di primissimo piano come Palazzi e Ielo, il Gip è Sturzo. Il quale, chissà perché, decide di fare arrestare una persona sola, e cioè Alfredo Romeo, che, come sapete, è l’editore di questo giornale. Romeo in realtà non è affatto un renziano, ma viene considerato renziano, perché ha – alla luce del sole – offerto un finanziamento alla campagna per le primarie di Renzi. Dunque ottimo aggancio per arrivare a Renzi. Lo arresti, magari parla. Ma Romeo non ha niente da dire. Gli viene negata la scarcerazione ma non esce niente. Romeo è finito in questa buffissima inchiesta (per lui non tanto buffa) perché ha partecipato a varie gare Consip, nel suo settore di attività che è la gestione del patrimonio pubblico. La sua azienda è di gran lunga la numero 1 in Italia in questo campo, e la logica vorrebbe che le gare le vincesse tutte lui. Non è così. Anche perché (ce lo racconta una intercettazione eseguita dagli inquirenti) i dirigenti di Consip (alcuni dei quali però non vengono inquisiti) si dicono tra loro: certo che dovrebbe vincerle Romeo, ma noi non possiamo farlo vincere sennò è una tragedia. Palazzi e Ielo chiedono l’arresto di Romeo. Solo di Romeo. Diciamo, della vittima. Succede. Sturzo firma. Poi la Cassazione annullerà l’arresto perché non ce ne erano i presupposti, ma intanto Romeo si è fatto sei mesi al fresco, più i domiciliari, e le sue aziende hanno preso mazzate. Succede. I Pm, però, mandano avanti l’inchiesta e si accorgono che è tutta aria fritta. Peraltro si scopre che alcune informative dei carabinieri sono taroccate. Un vero casino. Cosa fanno i Pm? L’unica cosa che si può fare: chiedono l’archiviazione. E Sturzo – penserete voi – accoglie l’archiviazione come si fa sempre in questi casi? Macché: Sturzo respinge la richiesta, chiede nuove indagini e tra i nomi delle persone da inquisire mette il nome di Denis Verdini. I Pm, loro malgrado, pur senza acquisire nuovi elementi, sposano la richiesta di Sturzo e stracciano la loro convinzione precedente. Si saranno detti, come spesso fanno i Pm: “in dubio pro Gip…”. E così il processo riparte e si avvia all’inchiesta preliminare. Ora però è intervenuta la Procura di Perugia aprendo un fascicolo a carico di Sturzo. Ipotizza il reato di abuso di ufficio. Perché? Sturzo nel 2012 fu proposto da una parte di Forza Italia come candidato del centrodestra alla presidenza della Regione. Verdini si oppose (costringendo il povero Sturzo a candidarsi con la sua lista). Dunque c’erano ragionevoli possibilità di inimicizia tra Sturzo e Verdini, e Sturzo avrebbe dovuto astenersi. Forse anche prima della sua richiesta di ulteriori indagini, perché il nome di Verdini era presente negli atti processuali di Romeo. Ora Sturzo, forse, finirà lui sotto processo. E si immagina che il Pg della Cassazione, o il ministro, chiederanno al Csm di provvedere al procedimento disciplinare. Ma il processo Consip? Può proseguire nonostante tutto quello che è successo? Non sarà il caso di ricominciare tutto da capo come in questi casi si fa dove vige lo stato di diritto? Si può passare sopra a tutto questo inguacchio solo con l’argomento che comunque è un processo tutto da ridere? Una cosa è certa. Quando noi diciamo che la politica e i pasticci di potere spesso influiscono sulle inchieste e sulle sentenze, abbiamo ragione da vendere. Tutta la giurisdizione è ferita da questa pratiche. E nessuno è autorizzato a dire: ho piena fiducia nella magistratura. Nessuno.

Denis Verdini gli stoppa la candidatura, "e anni dopo...". Palamara, occhio alla chat: il giudice in politica, vendetta sull'ex forzista? Libero Quotidiano il 13 marzo 2021. Gaspare Sturzo, giudice e pronipote del fondatore del Partito popolare e Denis Verdini, imprenditore, banchiere, politico. Sturzo, giudice preliminare a Roma, due anni fa rifiutò di archiviare l'inchiesta su Verdini (e su Tiziano Renzi, padre di Matteo) costringendo la Procura a un supplemento di indagine, sfociato tre mesi fa in una richiesta di processo. Ma Sturzo e Verdini otto anni prima si erano scontrati perché il primo puntava a fare il candidato del centrodestra alla presidenza della Sicilia. E il secondo stoppò la candidatura. Nessuno pensa, scrive il Giornale, che il giudice abbia voluto prendersi una vendetta quando si è trovato a dover giudicare Verdini, ma la domanda che si pone il quotidiano è quella che probabilmente Sturzo non avrebbe fatto meglio ad astenersi quando proprio sul suo tavolo approdò la richiesta di archiviazione dell'indagine in cui comparivano Verdini e Renzi senior, filone laterale dell'affare Consip? "A chiederselo è anche la Procura di Perugia, competente per i reati commessi dai colleghi romani, che sulla mancata astensione di Sturzo ha aperto una indagine, interrogando Verdini e Gianni Letta, che della candidatura del magistrato in Sicilia era stato uno degli sponsor", scrive il Giornale. Ipotesi di reato (per ora non formalizzata): abuso d'ufficio. Nel frattempo Sturzo cercò anche di fare carriera in magistratura, indicando proprio il ruolo svolto come gip a Roma tra i suoi titoli di merito. E chiese aiuto a Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, e leader della sua corrente, Unicost.  L'obiettivo di Sturzo era un posto alla Procura generale della Cassazione. A raccontarlo sono le chat estratte dalla Guardia di finanza dal telefono di Palamara, che documentano l’intenso pressing di Sturzo sul potente collega tra il maggio e il luglio 2018. Sturzo, per esempio, se la prende con Maurizio De Lucia, procuratore della Repubblica a Messina, che ha fatto carriera grazie alle indagini fatte insieme a lui in Sicilia: "Ma le carte le facevo tutte io".

Verdini fermò la sua nomina. E il giudice poi lo processò. Sturzo nei guai per non essersi astenuto. Nelle chat chiedeva aiuto a Palamara per fare carriera. Luca Fazzo - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. Da una parte Gaspare Sturzo, giudice con la passione e il Dna della politica, pronipote del fondatore del Partito popolare. Dall'altra Denis Verdini, imprenditore, banchiere, politico. Le strade dei due si incrociarono quasi due anni fa, quando Sturzo, giudice preliminare a Roma, rifiutò di archiviare l'inchiesta su Verdini (e su Tiziano Renzi, padre di Matteo) costringendo la Procura a un supplemento di indagine, sfociato tre mesi fa in una richiesta di processo. Ma ora si scopre che Sturzo e Verdini otto anni prima erano entrati in rotta di collisione per tutt'altra faccenda: perché il primo puntava a fare il candidato del centrodestra alla presidenza della Sicilia. E il secondo, potente colonnello di Forza Italia, stoppò la nomination. Certo, sarebbe inverosimile - nonostante la proverbiale lunghezza della memoria dei siciliani - ipotizzare che a otto anni dalla mancata candidatura il giudice Sturzo si sia preso la soddisfazione di mandare Verdini a processo per motivi personali. Ma è inevitabile chiedersi, visto il precedente, se Sturzo non avrebbe fatto meglio ad astenersi quando proprio sul suo tavolo approdò la richiesta di archiviazione dell'indagine in cui comparivano Verdini e Renzi senior, filone laterale dell'affare Consip. A chiederselo è anche la Procura di Perugia, competente per i reati commessi dai colleghi romani, che sulla mancata astensione di Sturzo ha aperto una indagine, interrogando Verdini e Gianni Letta, che della candidatura del magistrato in Sicilia era stato uno degli sponsor. Ipotesi di reato (per ora non formalizzata): abuso d'ufficio. Fin da ora, però, un dato è certo: nei mesi precedenti alla sua decisione di portare Verdini e Renzi sul banco degli imputati contro il parere della Procura di Roma, Sturzo cercò di fare carriera, indicando proprio il ruolo svolto come gip a Roma tra i suoi titoli di merito. A chi si rivolse Sturzo? A Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, e leader della sua corrente, Unicost. A raccontarlo sono le chat estratte dalla Guardia di finanza dal telefono di Palamara, che documentano l'intenso pressing di Sturzo sul potente collega tra il maggio e il luglio 2018, con ripetute inviti e richieste di incontri. L'obiettivo di Sturzo è un posto alla Procura generale della Cassazione. Il 26 luglio alle 16.03 scrive a Palamara segnalando che un suo collega di corso ha già avuto il posto cui aspirava, e chiede lumi sulla sorte della sua domanda. Meno di due ore dopo, un secondo messaggio, assai più lungo, in cui rivendica tutti i propri meriti: come la cattura in Sicilia del vice di Provenzano, Benedetto Spera. E poi: «dei procedimenti romani come Gip e come Gup non occorre parlarne perché sono noti al CSM PER LA RILEVANZA». Tutto maiuscolo. Il riferimento al caso Consip è palese, perché è di gran lunga il più importante tra i fascicoli seguiti da Sturzo come giudice preliminare. E non è tutto: Sturzo se la prende con Maurizio De Lucia, procuratore della Repubblica a Messina, che ha fatto carriera grazie alle indagini fatte insieme a lui in Sicilia: «Ma le carte le facevo tutte io». De Lucia è un fedelissimo di Giuseppe Pignatone, allora procuratore a Roma. Io non sto con Pignatone, manda a dire tra le righe Sturzo. Ma ho diritto anche io di fare carriera.

E' accusato di rivelazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. Consip, condanna a 10 mesi per l’ex capo dei carabinieri Tullio Del Sette. Redazione su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. Dieci mesi (con pena sospesa) per l’ex comandante dei carabinieri, il generale Tullio Del Sette. E’ quanto stabilito dai giudici dell’ottava sezione collegiale del Tribunale di Roma nell’ambito di un processo-stralcio sull’inchiesta Consip. Del Sette è accusato di rivelazione del segreto di ufficio e favoreggiamento con i giudici che hanno riconosciuto le attenuanti generiche. La Procura di Roma aveva chiesto una condanna a un anno e due mesi. Stando all’impianto accusatorio, Del Sette nel maggio del 2016 avrebbe informato nel maggio Luigi Ferrara, all’epoca presidente di Consip, dell’esistenza di una inchiesta sul conto dell’imprenditore campano Alfredo Romeo e di essere cauto “nelle comunicazioni a mezzo telefono”.

Perché il generale Del Sette è stato condannato per il caso Consip. Redazione su Il Riformista il 30 Gennaio 2021. Prima condanna per il caso Consip. I giudici di Roma hanno inflitto 10 mesi di carcere al generale Tullio Del Sette, ex comandante generale dei carabinieri accusato di rivelazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. La sentenza è arrivata nell’ambito di un processo-stralcio che era stato sollecitato dallo stesso Del Sette, che ha rinunciato all’esame di testimoni, dopo il rinvio a giudizio nel filone principale della maxi-indagine condotta dal pm Mario Palazzi. L’ottava sezione collegiale ha sostanzialmente accolto l’impianto accusatorio della Procura che aveva sollecitato una condanna a un anno e due mesi. I giudici hanno riconosciuto per l’imputato le attenuanti generiche disponendo la sospensione della pena. Del Sette, che non era presente in aula al momento della lettura della sentenza, è accusato di avere informato nel maggio del 2016, Luigi Ferrara, all’epoca presidente di Consip, dell’esistenza di una inchiesta penale sul conto dell’imprenditore campano Alfredo Romeo e di avergli detto di essere cauto “nelle comunicazioni a mezzo telefono”. Nel corso della requisitoria, nell’udienza del 13 novembre scorso, il pm parlando dell’inchiesta ha affermato che il «procedimento è stato martoriato da molteplici fughe di notizie con rivelazione del segreto e favoreggiamento». Nel corso del processo Del Sette ha rilasciato dichiarazioni spontanee. «Sono qui con molto imbarazzo e amarezza – aveva detto a novembre davanti ai giudici -. Ho fatto 47 anni di carriera nell’Arma, ho lottato per la legalità, mi ritrovo da quattro anni in questa condizione di estremo disagio e ho voluto che il processo venisse celebrato il prima possibile». Nel procedimento principale sono imputati, tra gli altri, l’ex ministro Luca Lotti, il generale dei carabinieri, Emanuele Saltalamacchia e l’ex maggiore Del Noe Gianpaolo Scafarto. Nei giorni scorsi la Procura ha depositato una lista di oltre cinquanta nomi che compariranno come testimoni. Tra gli altri dovranno sfilare davanti ai giudici dell’ottava l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Nella lista presente anche il colonnello Sergio Di Caprio, il capitano “Ultimo”. Alla sbarra anche Emanuele Saltalamacchia all’epoca dei fatti comandante dei Carabinieri della legione Toscana, l’ex presidente di Publiacqua Firenze Filippo Vannoni, i carabinieri Gianpaolo Scafarto e Alessandro Sessa e l’imprenditore Carlo Russo. Nelle prossime settimane, infine, si celebrerà davanti al gup l’udienza preliminare che dovrà vagliare la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura per Tiziano Renzi, papà dell’ex presidente del Consiglio, e per altre 11 persone coinvolte in un altro filone di indagine. I pm hanno chiesto il processo anche per Denis Verdini, per l’imprenditore Alfredo Romeo e per l’ex parlamentare Italo Bocchino.

Il caso Consip. La verità di Romeo: “Incontrai Tiziano Renzi ma non lo dissi, vi spiego perché”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. Ma tu perché avevi detto di non avere mai incontrato il papà di Renzi, se invece lo avevi incontrato? “Vuoi saperlo? – mi risponde Alfredo Romeo – Perché ero impaurito. Ora ti spiego”…Pausa. Prima di raccontarvi bene questo mio colloquio con Romeo serve un breve riassunto dei capitoli precedenti. Allora: Il Fatto Quotidiano sta conducendo, con ammirevole impegno, una campagna contro Alfredo Romeo. Che poi è il mio editore. Perché? Non so con precisione il perché. Immagino per due ragioni. La prima è che Il Fatto Quotidiano (soprattutto nella persona di Marco Lillo) è convinto di avere avuto il ruolo di Pm e di Gip ( e ora aspira di avere anche il ruolo di giudice) in tutta questa indagine su Consip, e quindi, dal momento che Romeo, tra tutti i coinvolti nel caso Consip, è l’unico ad essere finito in prigione, Il Fatto Quotidiano si sente in dovere di difendere le proprie scelte processuali, compreso l’arresto di Romeo, delle quali sente di avere la responsabilità diretta. E poi – suppongo – per una seconda ragione. Recentemente Marco Lillo chiese a Romeo di sottoporsi ad un interrogatorio, che lui (lui Lillo) avrebbe condotto personalmente: Romeo accettò di buon grado, incontrò Lillo, poi si fece mandare da Lillo tutte le domande che voleva, scritte, infine rispose puntualmente ad una per una, con mille dettagli e anche offrendo a Lillo alcune notizie inedite. Come quelle relative al suo incontro con papà Renzi avvenuto in un piccolo bar di Firenze il 16 luglio del 2017. Romeo si aspettava che il verbale dell’interrogatorio fosse reso pubblico, visto che Lillo – a parte il suo lavoro principale, che è quello di Pm, Gip, Gup e giudice – svolge anche un lavoro come giornalista presso la redazione del Fatto Quotidiano. Invece Lillo disse che le risposte non gli piacevano, e non le rese pubbliche. Cioè si rifiutò di pubblicarle sul giornale. Non so se la decisione fu sua o di Travaglio e se fu presa autonomamente o su pressione di qualcuno dei magistrati che ha collaborato con Lillo in questa inchiesta Consip. Allora pubblicammo noi sul Riformista il testo dell’intervista, mandando Lillo su tutte le furie (tanto che a quel punto fu costretto a chiedere a Gomez di ripubblicare il nostro testo sull’edizione on line del Fatto). Successivamente Lillo è tornato sull’argomento in alcuni articoli scritti sul Fatto ma anche nei suoi interventi su Twitter. Lillo sostiene che il motivo per il quale non ha voluto pubblicare le sue domande e le risposte di Romeo è semplicissimo. Perché le risposte contenevano molte bugie. Quali bugie? Beh, non è chiaro. Lillo ha citato, mi pare, tre ipotetiche bugie. La prima sarebbe la risposta che Romeo ha dato a Lillo sulla questione dell’incontro tra lui e papà Renzi. La seconda riguarderebbe i messaggi a Luca Palamara inviati dal giudice Sturzo (Sturzo è il Gip affiancato a Lillo nel processo Consip: è quello che firmò l’ordine di cattura contro Romeo, poi annullato dalla Cassazione dopo che Romeo aveva però già scontato un po’ più di cinque mesi in cella e poi era stato scarcerato). In quei messaggi Sturzo chiedeva aiuto a Luca Palamara per un salto di carriera. Voleva andare in Cassazione. La terza bugia sarebbe l’affermazione di Romeo di essere stato intimidito, o comunque intimorito, dall atteggiamento molto aggressivo di Sturzo. La seconda e la terza accusa di Lillo mi sono parse del tutto infondate, e tra poche righe proverò a spiegare perché. La prima, invece, va argomentata meglio. Lillo sostiene che Romeo in due interviste rilasciate negli anni scorsi ha affermato di non avere mai incontrato il papà di Renzi. Nell’intervista che ha rilasciato a lui, invece, Romeo dice di averlo incontrato e sostiene che l’incontro non aveva niente a che vedere con l’affare Consip. Sono andato a controllare negli archivi di Repubblica e ho trovato le due interviste. Che contenevano una linea di difesa molto serena e molto convincente, da parte di Romeo, che coincideva in modo evidentissimo, quasi in tutto, con l’intervista rilasciata qualche settimana fa a Marco Lillo. Tranne che su un punto: in quelle due interviste, appunto, Romeo negava di avere incontrato mai Tiziano Renzi. Proprio per questo sono andato da Romeo a chiedergli conto di questa contraddizione. E quindi torniamo all’inizio di questo articolo.

Ho un rapporto molto amichevole con Romeo. Sono entrato nel suo ufficio con le fotocopie delle due interviste e gli ho chiesto a brutto muso di spiegarmi la doppia versione. Lui, altrettanto a brutto muso mi ha domandato: “sei mai stato in prigione?“.

– Io?

– Sì, tu.

– Una notte – ho risposto – quando avevo 18 anni, mi avevano preso durante una manifestazione contro la Nato, mi hanno liberato alle 5 di mattina, è venuto a prendermi mio padre. Era incazzatissimo…

– Ecco, invece a me non mi hanno liberato alle 5 di mattina: sono rimasto in cella per 168 giorni a Regina Coeli. Cioè per più di cinque mesi. Nel 2017. Più i domiciliari. E nove anni prima ci ero stato per due mesi e mezzo, a Poggioreale. Chiaro? La prima volta fui liberato e poi prosciolto pienamente. Mi avevano accusato di avere turbato un’asta ma si accorsero che l’asta non c’era mai stata stata… La seconda volta fui tenuto dentro quasi per metà anno. La Cassazione accertò che l’arresto non era legittimo, e il tribunale della libertà mi scarcerò. Voi giornalisti e magistrati non sapete bene cos’è stare in prigione. L’isolamento, la paura, il freddo, la noia, la solitudine, l’assenza di libertà, soprattutto l’angoscia delle prime settimane. E non sapete nemmeno alla lontana quanto possa pesare sulla tua psicologia e sul tuo sistema nervoso l’atteggiamento di un giudice che deve decidere se scarcerarti o no, se mandarti in famiglia per natale, e ti tratta con durezza e ti fa capire che se non fai quello che vuole lui il Natale a casa te lo scordi e anche a Pasqua. Non sapete che un innocente che è stato in prigione poi ha paura di tutto. Perché sa che può tornare in carcere anche se non ha fatto niente, solo perché qualcuno interpreta male una tua frase. Beh, quando fui intervistato da Repubblica erano passati pochissimi giorni dalla mia liberazione. Ero molto scosso. Tra l’altro, siccome era la seconda volta, avevo capito che alcuni magistrati mi avevano messo nel mirino e non erano contenti finché non trovavano qualche reato.

– Quali magistrati?

– (sorride) Non te lo dico… Tieni conto che io – lo hai scritto anche tu – sono stato già processato 15 volte e 15 volte assolto. Quindici. Fare l’imputato sta diventando il mio mestiere. Non ho commesso mai reati ma di prigione ne ho già scontata tanta. Quando mi fecero quell’intervista ero molto impaurito. I magistrati non mi avevano mai ascoltato su quel punto del papà di Renzi. Ancora oggi nessuno mi ha mai chiesto niente. Io sapevo che ero finito in mezzo a un processo gigantesco, e c’erano dentro l’ex presidente del Consiglio, alcuni ministri, il capo dei carabinieri, servizi segreti, la lotta tra Procura di Roma e Procura di Napoli, e sapevo che il padre dell’ex premier aveva detto di non avermi mai incontrato, e invece io ricordavo di averlo visto una volta, per parlare di un convegno sulla gestione del territorio da tenere a Roma, parlammo 10 minuti, Consip non c’entrava niente (su Consip Tiziano Renzi appoggiò una cordata che si era presentata per battere me) e però ora Tiziano Renzi diceva di non avermi mai visto: dovevo smentirlo a Repubblica, senza neppure sentire l’avvocato, così, su due piedi, senza ragione? Non me la sono sentita. Ho pensato che poi avrei spiegato tutto al magistrato quando mi avrebbe ascoltato. Ma nessuno ha voluto ascoltarmi. Così, ora, quando me lo ha chiesto Lillo, ho detto la verità.

– Ma allora perché Lillo si è arrabbiato, se tu dicevi proprio a lui la verità?

– Le supposizioni falle tu. Io sono imputato.

Beh, l’unica supposizione che posso fare è che Lillo abbia stabilito che l’intervista, nel suo insieme, non sarebbe andata a genio al giudice Sturzo. E allora qui arriviamo alle altre due possibili bugie. Una sarebbe quella che non è vero che Romeo si è sentito intimorito da Sturzo. Probabilmente Lillo è in buona fede: lui davvero non immagina che un giudice possa intimorire un imputato prigioniero. Un giudice? Il giudice è il bene, il bene assoluto. Quel che fa è giusto, perché averne paura? Come dice il titolo del libro di Luigi Manconi e Federica Graziani, “per il tuo bene ti mozzerò la testa…”

L’altra bugia riguarderebbe sempre Sturzo, per il quale Lillo ha una speciale attenzione, forse solo per spirito di colleganza. Secondo Lillo, Sturzo non avrebbe mai chiesto una raccomandazione a Palamara. Allora spieghiamoci bene. Sturzo, in un messaggio Whatsapp a Palamara, si lamenta perché la commissione del Csm addetta alle nomine non lo ha proposto al Plenum per il passaggio in Cassazione. Toccherà poi al Plenum, nei giorni successivi, decidere se accettare la graduatoria preparata dalla commissione (su criteri oggettivi) o modificarla. Sturzo evidentemente pensa che Palamara abbia la possibilità di modificarla a suo favore. In questa graduatoria di 46 aspiranti (per otto posti) Sturzo è trentaduesimo. Cioè tra gli ultimi. Nella scheda che ha presentato al Csm elenca tra i suoi meriti l’arresto di Romeo. Anche nel messaggio a Palamara elenca i suoi meriti. Uno sarebbe quello di avere condotto il processo “mafia appalti”, che però a noi risulta che non si sia mai tenuto (il dossier “mafia appalti” fu archiviato da Scarpinato). Un altro è avere avuto la settima valutazione positiva (non è vero: ha ottenuto solo la sesta). Il terzo (e questo è scritto tutto in lettere maiuscole per metterlo in evidenza) è di avere condotto il processo Consip. Attenzione: non come Pm ma come Gip. Un Pm, effettivamente, può rivendicare il merito di una inchiesta. Dice: sono io che ho scoperto tutto. Ok. Ma un giudice al quale viene assegnata che merito ha? L’unico merito che può avere è quello di avere preso le decisioni giuste, cioè quelle che piacciono a questa o quella autorità. Cosa volevano? Che firmasse l’arresto di Romeo, per esempio? Firmato. Che respingesse la richiesta di archiviazione? Respinta…Mentre esco dal suo ufficio, Romeo mi fa vedere alcune carte. Sono quelle dalle quali risulta che diversi potentati agirono effettivamente per manomettere i risultati della gare Consip. Se non ci fossero stati interventi esterni le gare le avrebbe vinte tutte lui. La Romeo Gestioni è considerata ovunque la numero 1 nel campo del “facility management”. Poi però intervennero Russo, papà Renzi, Verdini, Gasparri e tanti altri, e bloccarono le assegnazioni a suo favore. C’è una intercettazione dalla quale risulta che l’Ad di Consip, Marroni, dice al presidente della commissione che assegna gli appalti che non si possono assegnare a Romeo sennò c’è il finimondo. E un’altra intercettazione dalla quale risulta che Marroni chiede al presidente della Commissione come si può intervenire sul Fatto Quotidiano, e il presidente gli risponde che la pratica è stata già assegnata a una agenzia specializzata. Abbiamo chiesto decine di volte a Travaglio di spiegarci come andò a finire quella pratica. Silenzio. Marroni mentiva? Strano, lui non è imputato. E il Fatto non lo ha mai attaccato… Ma Sturzo, chiedo a Romeo, ti conosce bene? Secondo te ha studiato a fondo i tuo caso? “Non so – mi risponde – Posso dirti che nella citazione che ho ricevuto da lui qualche settimana fa mi chiamava ingegnere. Io sono avvocato…”

L'intervista censurata. Caso Consip, l’intervista di Marco Lillo ad Alfredo Romeo che il Fatto non ha pubblicato. Redazione su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Abbiamo incontrato Alfredo Romeo nella sede della sua società, a due passi dal Parlamento, dove veniva nel 2016 Carlo Russo, l’amico del padre del premier di allora. Proprio qui secondo i pm, mentre parlava con Russo, Romeo avrebbe scritto il foglietto con l’offerta ‘30mila euro per T.”, alias Tiziano Renzi. Romeo nega di averlo scritto. Tiziano dice che non ne sapeva nulla ma venerdì è arrivata per tutti e tre la richiesta di rinvio a giudizio per traffico di influenze e turbativa per le gare Consip da 2,7 miliardi e Grandi Stazioni da 50 milioni circa. A quattro anni esatti dall’avvio del caso Consip abbiamo chiesto un’intervista a Romeo che ha accettato a una condizione: domande e risposte scritte. Eccole.

I pm hanno chiesto il suo rinvio a giudizio con Russo e Tiziano Renzi per il caso Consip. Il Fatto ha scritto molte volte di un incontro tra voi tre a Firenze. Tiziano lo nega. Ci racconta come è andata davvero quel giorno in questo ‘barettino’, come lo chiama lei nelle intercettazioni? Parlaste di Consip?

«Lei insiste con questo foglietto con la scritta “30.000 a T”. Allora: primo, la calligrafia non è mia; secondo, questo foglietto è stato trovato nella spazzatura a 200 metri dal mio ufficio; terzo, nel foglietto non si parla di soldi e non sono indicati nomi; quarto: il foglietto viene scritto, secondo gli investigatori, il 14 settembre 2016, quando le gare si erano già chiuse. Dunque l’ipotesi sarebbe questa: che io – avendo tutti i titoli per vincere le gare, visto che chiunque in Italia può confermarle che nel settore sono il numero uno – decido di dare 30 mila euro al mese a Tiziano Renzi per delle gare che sono già chiuse. Può darsi anche che io sia un po’ cretino, dottor Lillo, ma non così cretino, le sembra? C’è poi la testimonianza dell’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni. Sia in sede di interrogatorio dal Pm sia nelle intercettazioni: nessuno gli raccomandò Romeo, anzi, qualcuno, – il Presidente della Commissione -, gli disse che se avesse vinto Romeo sarebbe stato il finimondo. L’incontro col papà di Renzi lo ho avuto nel luglio del 2015. Ci siamo visti per dieci minuti al banco di un bar, senza neanche sederci. Abbiamo parlato solo del convegno che stavo organizzando con l’Osservatorio Risorsa Patrimonio, l’IFMA Italia ed il Sole24Ore sulla “Gestione delle città”. Al convegno interveniva anche Raffaele Cantone e avrei avuto piacere che a concludere fosse il presidente del Consiglio. C’è un appunto di un mio collaboratore, che portai con me, sulla struttura del convegno, scritto il giorno prima dell’incontro. Tutto qui. Nessun mistero. Nessuna relazione con Consip. Del resto sono intercettato giorno e notte da dieci anni e da nessuna delle varie informative minuziosissime, che lei conosce bene, risulta che io abbia parlato di Consip con Tiziano Renzi. Per lo stesso convegno mi aveva chiamato in aprile anche una signora della Segreteria di Palazzo Chigi. Mi aveva dato assicurazioni ma non se ne fece niente».

E allora perché non ha mai raccontato l’incontro a nessuno?

«Nessuno me lo ha mai chiesto. Su Renzi sono stati interrogati tutti tranne Romeo. Lei oggi me lo chiede. Io le rispondo. In tutti questi anni sono stato interrogato una sola volta, appena arrestato, dal Gip Gaspare Sturzo. Mi intimorì. Non mi fidai e mi avvalsi della facoltà di non rispondere. Feci bene. Sturzo si è accanito vessatoriamente contro di me in ogni occasione possibile, anche contro la richiesta di archiviazione della Procura. Non so se qualcuno gli aveva chiesto di accanirsi. Dalle “chat Palamara” che sono state pubblicate sembra che poi Sturzo si sia vantato di aver condotto il caso Consip in quel modo, e sembra addirittura che abbia chiesto un premio al Csm. Mah».

Lei ha incontrato recentemente Matteo Renzi qui. Sotto c’è la sede del Riformista e lei è accusato di avere proposto proprio qui a Russo 30 mila euro al mese per T.. Come spiega la disinvoltura del figlio Matteo che pranza qui con lei? Garantismo? Un segnale di vicinanza?

«Sui 30 mila a T. le ho già risposto. Con Matteo Renzi ho parlato due sole volte, una quando era Presidente della Provincia di Firenze e una quando venne a trovarmi un paio di mesi fa. Ho trovato naturale che fosse suo interesse incontrarmi con il direttore Piero Sansonetti nella mia qualità di editore de Il Riformista».

Lei è imputato per corruzione perché il funzionario Marco Gasparri ha confessato di avere ricevuto soldi da lei. La sua difesa in aula ha attaccato la spontaneità e l’attendibilità del Gasparri. Cosa non va per voi?

«Qual è l’azienda più qualificata in Italia nel facility management? Chiunque le risponderà: la Romeo. La Romeo però non vince gare in Consip dal 2011. E l’imputato sono io. Perché? Perché un certo Marco Gasparri, che era un funzionario Consip (che non aveva ruolo, funzioni e poteri per intervenire sulle gare), dice di avere avuto dei soldi da me. Quanti? 100 mila euro, dice nella sua prima deposizione-confessione. Poi scende. Forse solo 20 mila. Quando? Boh. Dove? Boh. Dove sono finiti questi soldi? Boh. Gasparri concorda una piccola pena, viene licenziato e subito ottiene una collaborazione per lui ed il fratello dalla azienda che – grazie alla sua deposizione- subentra nella graduatoria della gara FM4 alla Romeo Gestioni per quasi 400 milioni di euro di valore. A quel punto il povero Gasparri incrementa decisamente il suo tenore di vita, compra case, frequenta costosi circoli, si trasferisce in villa con piscina in Portogallo, etc. sembra aver vinto al Totocalcio. Il suo giornale ha parlato di intercettazioni dalle quali risulta che il maggiore Scafarto avvertì Gasparri di una perquisizione in casa sua, dando il tempo a sua moglie di bonificare, e di altre intercettazioni dalle quali risulta che il suo avvocato, ancora da nominare, quando Scafarto perquisiva, sapeva tutto e seguiva dall’ufficio del Pm Woodcock, conoscendo già la data in cui Gasparri sarebbe stato sentito dal magistrato auto accusandosi e accusando me. Risulta poi che Gasparri sapeva di dover essere interrogato a Roma quando Roma ancora non indagava. Mi dica la verità: lei crederebbe mai a un testimone del genere? Tantopiù che in ore e ore di intercettazioni sui colloqui tra me e Gasparri, mai e poi mai si parla di soldi o di favori. Come possono condannarmi? Qualche amico mi ha detto: “Attento, ci sono molti giudici che, per amicizia o colleganza, si appiattiscono sulle posizioni della Procura”. Non credo proprio che sia il mio caso».

Comunque, almeno ammetterà di avere ecceduto nella ‘difesa’ offrendo cose che non doveva offrire a Russo e Gasparri?

«Io non ho offerto niente a nessuno. Sono intercettato da 10 anni, le mie aziende sono state passate al setaccio più volte. Sono poche le aziende che sarebbero uscite linde da un assalto di questo genere. A Napoli sono imputato insieme ad altre 53 persone, per un vorticoso giro di tangenti che ammontano a quasi 800 euro. Non scherzo, dottor Lillo: 800 euro che diviso per 54 fa 14 euro e 81 centesimi a testa. A Roma sono imputato in vari processi, perché la magistratura ha preferito spezzettare il processo Consip in diversi rivoli. Per levare il processo a Napoli, salvare Renzi e tutelare Consip ero io lo strumento ed il capro espiatorio ideale. A tal fine i Pm romani hanno cambiato il mio capo di accusa da “corruzione per atto dovuto – art. 318 c.p.” (come avevano ipotizzato i pm di Napoli ) a “corruzione per atto improprio – 319 c.p.” acquisendone la competenza territoriale. Woodcock che voleva arrestare tutti è fuori dal gioco, Romeo è il parafulmine di tutto, si salva Tiziano Renzi, si salva la Consip e si insabbiano le manovre sulle grandi gare gestite dal renziano AD di Consip Marroni. Nessuno mi ha mai convocato per un interrogatorio. Se la Procura di Roma avesse indagato a fondo ne avrebbe scoperte delle belle ma non ha voluto farlo. Hanno deciso di accanirsi su di me per salvare Renzi. Lei non ci crede? Proprio così: sono vittima di due congiure contrapposte: la prima, napoletana, per colpire Renzi; la seconda, romana, per salvare Renzi. Io non ho corrotto nessuno. Ho fatto un’altra cosa: due esposti (nell’aprile e nel maggio 2016) alla Consip, all’Anac ed all’AGCM per denunciare, anche nell’interesse istituzionale dell’IFMA di cui ero Presidente, le pratiche anticoncorrenziali tollerate dalla stessa Consip. Non mi hanno ascoltato. Da anni i pm di due procure cercano indizi contro di me ma tutto porta dalla parte opposta. Io non c’entro con il cartello. Sto pagando la scelta di lavorare sempre da solo. Senza cordate. Senza protettori. Le indagini dimostrano la realtà: il Pd stava con le cooperative rosse, gli ex parlamentari Denis Verdini e Ignazio Abrignani stavano con Cofely, Russo e il papà di Renzi stavano con la Omnia Servitia, Gasparri e Marroni con la Team Service. L’Ad di Consip, il renziano Marroni, garantiva. I Pm però hanno intimorito e condizionato Consip, Tar, Consiglio di Stato e anche l’AGCM, che ha addirittura sanzionato la Romeo per fatti di cui era denunciataria e vittima pur avendo le prove della sua innocenza. Così hanno escluso Romeo da molte gare danneggiando in modo devastante la mia azienda».

Nel 2016 lei e il suo consulente Italo Bocchino dite che Carlo Russo vi fu inviato dall’ex amministratore della Consip Domenico Casalino. Lei sapeva che Casalino si vedeva con Russo e una volta – in un bar a Roma – con Russo e Tiziano Renzi?

«Casalino mi chiese attraverso Bocchino di incontrare Russo sostenendo che era stato Luca Lotti a pregarlo di mandarlo da me. Fu lo stesso Casalino a farci sapere dopo che a suo giudizio Russo era un millantatore e che anche Lotti, successivamente, gli aveva detto di non stare ad ascoltarlo e… di stare attenti».

Lei ha incontrato con Russo a Roma il 4 marzo 2015 Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd. Poi Russo incontra Bonifazi a Firenze e nel settembre 2016 cerca di convincerlo a cedere a lei l’Unità in crisi.

«Mi è sempre piaciuta l’idea di fare l’editore. L’ho anche dimostrato con il Riformista. Penso di saperlo fare. Avrei voluto anche l’Unità, perché ne sono un vecchio lettore e quando ero ragazzino la distribuivo davanti alle fabbriche. Non se ne fece niente, anche per il mio vizio di lavorare da solo».

Fuga di notizie false. Associazione a delinquere di Romeo e altri 54: giro d’affari di ben 800 euro. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Marzo 2021. Venerdì sera la Gup di Napoli Simona Cangiano (il Gup è il giudice dell’udienza preliminare) ha in parte respinto e in parte accolto la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal Pm John Woodcock nei confronti di Alfredo Romeo e di altre 54 persone accusate di spaventosi reati, come ha spiegato Il Fatto nell’edizione di sabato (il sindaco de Magistris invece ha parlato di trama delittuosa “devastante”). Ne abbiamo già riferito su questo giornale. L’accusa è di aver orchestrato un piano molto articolato di episodi di corruzione che avrebbe fruttato ai corrotti un malloppo di quasi 800 euro. I corrotti per la verità avrebbero incassato una cifra parecchio più piccola, ma nella somma che dà il giusto valore al delitto vanno considerati anche 350 euro di mancato pagamento di una fattura. L’ipotesi dell’accusa – se ho capito bene – è che i corruttori abbiano fatto una colletta, mettendo circa 10 euro a testa, per poi distribuire ad alcuni pubblici ufficiali regali vari, tra i quali alcune piante (in particolare un myrtillocactus del valore di oltre 90 euro) e alcuni buoni scontati per entrare nella Spa di un albergo napoletano che appartiene a Romeo. L’ingresso nella Spa, di solito, costa 65 euro, la signora corrotta da Romeo e dai suoi 54 amici l’avrebbe pagato solo 32 euro e cinquanta centesimi, cioè a metà prezzo (in questa occasione ciascuno dei 55 associati a delinquere avrebbe versato un po’ meno di 60 centesimi). Poi ci sono i due delitti grossi: il primo è quello di avere assunto un amico di un funzionario comunale in cambio della decisione di mettere le strisce pedonali davanti all’ingresso dell’albergo (ma le strisce non furono mai messe e poi si è scoperto che l’amico del funzionario era stato assunto da qualche anno dalla Romeo e gli fu solo confermato il contratto); il secondo delitto grosso è di avere pagato una sola settimana di affitto del marciapiede davanti all’albergo per pulire le vetrate utilizzando le impalcature. Il lavoro, causa pioggia, fu interrotto e dunque concluso con alcuni giorni di ritardo: Woodcock ritiene che per questa ragione si sarebbe dovuto pagare un supplemento di circa 350 euro, e la cosa non avvenne. Infine altri vari reati paralleli, che non c’entravano con la corruzione (o con l’eventuale traffico di influenze). Per esempio evasione fiscale e furto di energia elettrica. Il furto (del valore complessivo di oltre 10 euro) avvenne perché la Romeo – che gestiva le pulizie sia del Palazzo di Giustizia che del Cardarelli – usò le lavatrici dei giudici per lavare le lenzuola del Cardarelli. Di solito quando un Pm chiede un rinvio a giudizio, il Gup lo concede. Stavolta, a sorpresa, la Gup ha avuto da eccepire. Ha negato il rinvio a giudizio su varie possibili imputazioni, tra le quali un paio di corruzioni e i reati fiscali. L’ha concessa però per furto di energia (le lenzuola lavate a sbafo), traffico di influenze (il myrtillocactus) e associazione a delinquere. In cosa consiste questa associazione? Nel collegamento tra i 54 complici di Romeo per le varie azioni delittuose che vi abbiamo appena descritto (la colletta della quale parlavamo all’inizio di questo articolo). Prima di parlarvi, però, della questione dell’associazione a delinquere – che è una faccenda molto interessante – vorrei raccontarvi come la notizia è stata data ai giornali venerdì sera. Con un paio di note di agenzia nelle quali si parlava di rinvio a giudizio per corruzione e per il sistema appalti e per reati fiscali. Le note di agenzia erano sbagliate, dicevano cose non vere, perché per questi reati c’era stato il proscioglimento. Per correggere le prime note di agenzia è stato necessario l’intervento degli avvocati di Romeo.

Come mai erano sbagliate queste note? Quale era la fonte? Sarebbe interessante indagare, ma per indagare bisognerebbe indagare anche su quel che succede dentro la procura, e su qual è il rapporto tra la Procura, o tra alcuni magistrati della procura, e i giornalisti. Il dispositivo emesso dalla Gup Cangiano nel tardo pomeriggio di venerdì definiva solo i reati chiesti dal Pm e per i quali invece si dichiarava il non luogo a procedere (reati fiscali e corruzione) ma non indicava i reati per i quali si accettavano le richieste del Pm. Come può un giornalista, sulla base di questa sentenza, scrivere esattamente il contrario di quello che nella sentenza c’è scritto? Il dubbio che mi hanno suggerito alcuni amici – ma io non credo ovviamente a tanta maliziosità – è che i giornalisti disponessero di un altro comunicato, scritto prima della sentenza, e che dava per scontato che la sentenza – come di norma – avrebbe accolto tutte le richieste. Se i miei amici, sempre sospettosi, dovessero avere ragione, sarebbe una cosa gravissima. Io credo però che la Procura di Napoli non indagherà mai sulla fuga di notizie false, e che dunque, senza dannarci l’anima, possiamo attribuire l’errore a un attacco di follia dei giornalisti…E veniamo alla questione dell’associazione a delinquere. Che ha reso felice Marco Travaglio, il quale le ha dedicato molto spazio sul suo giornale (che tra l’altro annovera Woodcock fra i suoi collaboratori, e dunque dovrebbe essere sempre molto informato sulle sue inchieste). La Gup Cangiano effettivamente ha accolto la richiesta di Woodcock di rinviare a giudizio per l’associazione a delinquere, evidentemente ritenendo ragionevole la tesi della colletta da 10 euro a testa per mettere insieme la somma con la quale poi si è realizzata la corruzione (che però nella sentenza è diventato semplice traffico di influenze). La cosa curiosa è che un altro giudice, un Gip, (si chiama Mario Morra) nell’ottobre di quattro anni fa aveva respinto la richiesta di Woodcock relativa all’associazione a delinquere. La stessa identica associazione a delinquere per la quale venerdì sono stati rinviati a giudizio Romeo e i suoi 54 amici. Aveva scritto esattamente così, il Gip: «Venendo al caso in esame, deve ritenersi che la lettura complessiva delle risultanze investigative non supporti la tesi accusatoria in ordine alla sussistenza di un’associazione a delinquere tra Romeo Alfredo ed i propri collaboratori». Capite? In Italia può succedere questo: il giudice delle indagini preliminari dice che il reato non c’è e poi, quattro anni dopo, un Gup – che magari non conosce la decisione del Gip – senza che sia cambiato nessun elemento di prova e nessun indizio, decide di rinviarti a giudizio. È una cosa grave? Magari per gli imputati no, perché è chiaro che nessun tribunale mai al mondo potrà condannare 53 persone per associazione a delinquere per avere regalato una pianta a una vigilessa. Per il sistema giustizia sì. Intasato per anni da un processo che sembra un film comico. E anche per il sistema informazione, intravaglito dai rapporti scorretti tra giornalisti e alcuni Pm.

Peripezie e infortuni dell'informazione giudiziaria. Corruzione: prosciolto Romeo ma le agenzie scrivono il contrario. Redazione su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Alfredo Romeo (cioè il nostro editore) oggi ha vinto una battaglia importante in Tribunale (Finora su 20 procedimenti giudiziari avviati contro di lui ne ha vinti in modo definitivo 17, e altri tre sono in corso). Il Gup di Napoli lo ha prosciolto in serata da tutti i reati importanti per i quali era stato indagato, e soprattutto dal reato di corruzione, che era il pezzo forte del processo, e dai reati fiscali. Ha deciso il rinvio a giudizio solo per alcuni reati minori, il principale è il furto di energia elettrica. Il reato consiste nell’aver utilizzato le lavatrici di Palazzo di giustizia per alcuni bucati di indumenti e lenzuola dell’ospedale Cardarelli. Il beneficio del reato è stato tutto per l’Ospedale. La cosa curiosa è che le agenzie di stampa hanno fatto circolare notizie del tutto diverse. Hanno scritto che Romeo era stato rinviato a giudizio (insieme all’ex presidente della regione Stefano Caldoro) per corruzione, per evasione fiscale e per aver truccato gli appalti. Notizie assolutamente infondate. Bisognerebbe capire chi le ha fornite alle agenzie di stampa. Probabilmente non lo sapremo mai.

I PRIMI DUE LANCI NON VERITIERI (ANSA)  – L’imprenditore Alfredo Romeo è stato rinviato a giudizio dal Gup di Napoli nell’inchiesta che lo accusa di essere stato “promotore e l’organizzatore” di un sistema in grado di condizionare appalti in strutture pubbliche e non, e di controllare la gestione di patrimoni immobiliari di pubbliche amministrazioni. Rinviato a giudizio per i reati contestati, tra i quali quello associativo, corruzione, millantato credito, evasione fiscale, frode in pubbliche forniture, prosciolto per alcuni capi minori. Rinvio a giudizio per l’ex parlamentare Italo Bocchino, l’ex governatore Stefano Caldoro e l’attuale dg dell’AslNa1 Centro Ciro Verdoliva. Per l’attuale direttore dell’AslNa1 Ciro Verdoliva il rinvio a giudizio riguarda la frode in pubbliche forniture, la rivelazione di segreti d’ufficio, il favoreggiamento, la falsità materiale, la corruzione e l’induzione a dare o a promettere utilità. Verdoliva è stato prosciolto per alcune condotte contestate in concorso con alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine. Tra gli episodi contestati al direttore dell’Asl, figurano anche alcuni interventi manutentivi, nella sua abitazione, da parte di due dipendenti e il titolare di una imprese che stava svolgendo lavori in subappalto nell’ospedale Cardarelli di Napoli di cui Verdoliva, all’epoca dei fatti era dirigente. Prosciolto da alcuni reati “minori” anche Alfredo Romeo, tra cui quelli fiscali, per i quali l’imprenditore non è stato rinviato a giudizio. L’ex presidente della Regione Campania Stefano Caldoro è stato rinviato a giudizio per traffico di influenze, insieme con l’ex parlamentare Italo Bocchino e con lo stesso Romeo. Prosciolti dalle accuse di corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio i tre agenti della Polizia di Stato Aniello Ippolito, Francesco D’Ambrosio e Elio Di Maro, difesi dall’avvocato Sergio Pisani. A giudizio invece due finanzieri. L’accusa di associazione per delinquere, tra le altre, viene contestata, insieme con la corruzione, anche a Ivan Russo, collaboratore storico di Romeo. Il reato di corruzione viene contestato anche a un dirigente di prima fascia del ministero della Giustizia, Emanuele Caldarera, all’epoca dei fatti con funzioni di Direttore generale per la gestione e manutenzione degli uffici ed edifici del complesso giudiziario di Napoli. L’udienza, per evitare assembramenti, visto il considerevole numero di indagati e, quindi, anche di avvocati, si è tenuta nell’aula bunker del carcere di Napoli-Poggioreale. Assoluzione, invece, per il funzionario del Comune di Napoli, Ciro Salzano, che è stato giudicato con il rito abbreviato.

LA RETTIFICA – (Ripetizione con titolo e testo corretti) L’imprenditore Alfredo Romeo è stato rinviato a giudizio dal gup di Napoli nell’ambito di una inchiesta dei sostituti procuratori Carrano, Woodcock e Raffaele. All’imprenditore difeso dagli avvocati Carotenuto, Sorge e Vignola, viene contestato il reato associativo e altri reati minori. Assolto con l’architetto Ivan Russo della Romeo Gestioni dall’unico reato di corruzione contestato. Rinvio a giudizio anche per l’ex parlamentare Italo Bocchino, l’ex governatore Stefano Caldoro e l’attuale dg dell’AslNa1 Centro Ciro Verdoliva. Per l’attuale direttore dell’AslNa1 Ciro Verdoliva il rinvio a giudizio riguarda la frode in pubbliche forniture, la rivelazione di segreti d’ufficio, il favoreggiamento, la falsità materiale, la corruzione e l’induzione a dare o a promettere utilità. Verdoliva è stato prosciolto per alcune condotte contestate in concorso con alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine. Tra gli episodi contestati al direttore dell’Asl, figurano anche alcuni interventi manutentivi, nella sua abitazione, da parte di due dipendenti e il titolare di una imprese che stava svolgendo lavori in subappalto nell’ospedale Cardarelli di Napoli di cui Verdoliva, all’epoca dei fatti era dirigente. Prosciolto da alcuni reati “minori” anche Alfredo Romeo, tra cui quelli fiscali, per i quali l’imprenditore non è stato rinviato a giudizio. L’ex presidente della Regione Campania Stefano Caldoro è stato rinviato a giudizio per traffico di influenze, insieme con l’ex parlamentare Italo Bocchino e con lo stesso Romeo. Prosciolti dalle accuse di corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio i tre agenti della Polizia di Stato Aniello Ippolito, Francesco D’Ambrosio e Elio Di Maro, difesi dall’avvocato Sergio Pisani. A giudizio invece due finanzieri. L’accusa di associazione per delinquere, tra le altre, viene contestata, insieme con la corruzione, anche a Ivan Russo, collaboratore storico di Romeo. Il reato di corruzione viene contestato anche a un dirigente di prima fascia del ministero della Giustizia, Emanuele Caldarera, all’epoca dei fatti con funzioni di Direttore generale per la gestione e manutenzione degli uffici ed edifici del complesso giudiziario di Napoli. L’udienza, per evitare assembramenti, visto il considerevole numero di indagati e, quindi, anche di avvocati, si è tenuta nell’aula bunker del carcere di Napoli-Poggioreale. Assoluzione, invece, per il funzionario del Comune di Napoli, Ciro Salzano, che è stato giudicato con il rito abbreviato. L’imprenditore e avvocato Alfredo Romeo è stato assolto anche dal reato di evasione fiscale insieme con l’amministratore delegato della Romeo Gestioni Enrico Trombetta. Non è stata mai contestata all’avvocato Romeo e all’azienda Romeo Gestioni alcuna ipotesi relativa ad appalti.

Il nuovo tipo di giornalismo. Il Fatto censura intervista di Marco Lillo ad Alfredo Romeo sul caso Consip. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti in un video pubblicato sui suoi canali social racconta la storia dell’intervista di Marco Lillo ad Alfredo Romeo censurata. “Vi devo raccontare una storia fantastica di giornalismo moderno. La storia di un’intervista. Solitamente il giornalista fa le domande, l’intervistato risponde. Al Fatto Quotidiano hanno inventato una nuova forma di interviste. Il giornalista fa le domande e l’intervistato deve rispondere come vuole l’intervistatore“. “Marco Lillo – prosegue Sansonetti – un investigatore ed è vice direttore del Fatto Quotidiano ha chiesto una intervista a Romeo sul caso Consip. Romeo ha accettato qualsiasi domanda e chiesto solo di farla per iscritto. Marco Lillo dopo un po’ di tempo gli ha inviato diecimila battute di domande, quasi da Pm, non da giornalista. Romeo ha risposto a tutte le domande e ha compilato diecimila battute anche lui. A quel punto Lillo ha detto che era troppo lunga… Fa così una sintesi di settemila battute cambiando domande e risposte. A quel punto Romeo ha detto che è un atto di censura. Lillo quindi ha chiesto a Romeo di rispondere alle nuove domande e di non superare in totale (con le domande), le 10mila battute totali“. “Nell’intervista c’è un po’ tutto – sottolinea Sansonetti –, dall’accanimento dei Pm alla lotta tra le procure di Roma e Napoli e il fatto che ci va sempre in mezzo Romeo. Romeo racconta tutto, racconta le cose, critica i Pm, il gip Sturzo che l’ha arrestato e tenuto sei mesi in prigione. Lillo legge l’intervista e poi dice: “Io non la posso pubblicare”. Ma come non la può pubblicare? E Lillo dice che le risposte possono essere offensive e ingiuriose nei confronti dei magistrati…“. “Lillo quindi alla fine ha deciso di non pubblicare l’intervista a Romeo. Questo apre una riflessione: sul tipo di giornalismo che si sta affermando in Italia. E’ attività dei Pm e delle procure che ha la sua espressione cartacea in alcuni giornali che escono nelle edicole, ma ci dice molte cose sulla vicenda Consip… una brutta storia. L’intervista a Romeo – conclude Sansonetti – è il primo caso di giornalista che si censura da solo“.

Il caso. Intervista censurata a Romeo, Marco Lillo ritiene di essere il gip del caso Consip. Redazione su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti, in un video editoriale torna sulla vicenda dell’intervista ad Alfredo Romeo censurata dal Fatto Quotidiano. Il direttore riassume la vicenda: Marco Lillo, vice direttore del Fatto Quotidiano chiede un’intervista ad Alfredo Romeo che è l’editore del Riformista e anche uno degli imputati nel processo Consip. Tema dell’intervista è il processo Consip. “Romeo risponde subito di sì perché non ha problemi a parlare e non ha mai nascosto niente – dice Sansonetti –  Però il Fatto è il Fatto, non è un giornale che gode di una grande fama di correttezza e oggettività. Quindi chiede domande scritte e risposte scritte. Le domande che vuoi tu, quello che vuoi, io rispondo a tutte. Arrivano domande lunghissime, 10 cartelle di domande, Romeo risponde con 15 cartelle di risposte, Lillo risponde che sono troppo lunghe e propone una versione più breve. Ci si mette d’accordo, tra domande e risposte in tutto sono 10 cartelle. Ma Lillo dice che non può pubblicarle perché non le condivide”. “Ma si tratta di un’intervista, mica di un documento comune – continua il direttore del Riformista – Le interviste funzionano così: uno fa le domande e l’altro risponde. In genere le interviste più belle sono quelle dove c’è scontro, differenza di opinione. L’intervista si fa per conoscere l’opinione, l’opinione del giornalista va nell’editoriale. Così Lillo decide di censurare l’intervista”. “La pubblichiamo noi del Riformista, raccontando la storia – dice Sansonetti – Lillo corre ai ripari, qualcuno deve avergli detto che ha fatto una figuraccia. Prova a trovare una soluzione e pubblica l’intervista online spiegando che su carta non si può perché si rischiano le querele e invece online si può. Con una nota in cui spiega perché non l’ha pubblicata veramente curiosa. Da una parte insiste nel dire che non condivide le risposte, dall’altra dice che le risposte sono false perché ipotizzano fatti diversi da quelli ipotizzati dall’accusa. Lui non parla di accusa ma di magistrati, per lui l’accusa non esiste. I magistrati sarebbero il Pubblico Ministero. Queste sono le sue tesi pubblicate sul Fatto online”. “Faccio un paio di osservazioni – continua il direttore nel video editoriale –  La prima e sull’idea di giornalismo. Questa idea che il giornalismo è una forma di assistenza alla magistratura, non è più considerata come attività intellettuale indipendente, ma di servizio alla magistratura. Si chiama giornalismo giudiziario e ormai dilaga perché nei giornali ha preso il comando, non a caso Marco Lillo è il vice direttore del Fatto. Poi non è che Travaglio sia differente, pensa quelle cose lì. Fine del giornalismo. La mia proposta è che si abolisca l’Ordine e che si confluisca nel CSM e di consegnare ai magistrati la direzione della nostra professione perché ormai è così”. “L’altra cosa che mi colpisce  – continua nel video editoriale – è l’idea di processo, cioè al Fatto sono convinti che il processo consiste in questo: c’è l’accusa, il pubblico ministero che indaga se vuole, ha la verità in pugno, poi l’imputato può provare a chiedere scusa e avere una pena attenuata, oppure a trovare delle prove che smontino le accuse, non il contrario. Tutta la storia del Diritto è smantellata. L’idea non è quella che bisogna costruire un processo, cercare la verità e confrontare tesi diverse. C’è un magistrato che ha diritto di esprimere una sua congettura e quella è sicuramente la verità. Lillo parla delle ‘verità dell’accusa che sono indiscutibili e tu non mi stai portando le prove che sono false’. Questo non è vero perché Romeo nell’intervista porta le prove di interrogatori e intercettazioni. Ma a Lillo le prove non bastano. E comunque non ci vorrebbero, le prove le deve portare l’accusa nel diritto moderno. Ma loro sono ancorati a questa idea che si fa strada nella società italiana. Quelli che dicono che esiste uno Stato di Diritto vengono quasi considerati dei complici dei delinquenti che sicuramente sono dei delinquenti”. “Poi – continua Sansonetti – Lillo si impunta su un fatto: su un bigliettino trovato a 300 metri dall’ufficio di Romeo, che l’accusa attribuisce a Romeo ma una perizia dichiara che la calligrafia non è la sua, nella quale c’è scritto ‘30mila euro mese T.’ Non è vero, euro non c’è scritto. Lillo, sebbene sostenga di essere il principale autore di questa inchiesta, più volte sostiene che l’ha fatta lui non i Pubblici Ministeri, "se era per loro l’inchiesta era già perduta". Per questo lui ci tiene molto a questa inchiesta, perché la considera sua. Nella sua idea avrebbe fatto il salto di carriera e da gioranlista- vicepm sarebbe passato direttamente a pm o addirittura a Gip perché sarebbe stato lui a costringere il Gip Gaspare Sturzo a respingere la richiesta di archiviazione. Per Lillo sarebbe questo biglietto la prova che Romeo dava 30mila euro al mese a Tiziano Renzi. Anche se Tiziano Renzi dalle intercettazioni emerge che premeva per far vincere le gare d’appalto ad altri. Il biglietto poi è stato trovato dopo mesi dalla fine delle gare”.

Storia di un’intervista oscena censurata da Travaglio. Altro che eredi di Montanelli, Travaglio e co. e il giornalismo che diventa lo scantinato di un Tribunale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Dicembre 2020. Immagino che voi pensiate che una intervista sia un genere giornalistico nel quale l’intervistatore pone delle domande, possibilmente cattive e incalzanti, e l’intervistato risponde come pensa che sia giusto rispondere. Beh, siete gente antica. Al Fatto Quotidiano hanno inventato altri generi di intervista. Più moderni. Il principale è stato battezzato il “genere Lillo”, perché inventato proprio da Marco Lillo, uno dei principali investigatori del Fatto di cui è anche vicedirettore. Lillo immagina che una intervista consista in un gruppo di domande (modificabili) poste dall’intervistatore, e in un gruppo di risposte che lo stesso intervistatore detta all’intervistato. In particolare, se per caso l’intervistato è un imputato, è molto importante – e su questo il compito dell’intervistatore è vigilare bene – che le risposte dell’intervistato corrispondano perfettamente alla versione dell’accusa. Altrimenti è oltraggio. E un giornale serio come il Fatto (che talvolta definisce vermi i propri avversari, talvolta nani, bomba, innominabile, pregiudicato…) non può permettersi di oltraggiare qualcuno. Comunque mai i magistrati. Questa è la storia della mancata intervista di Marco Lillo, vicedirettore del Fatto, ad Alfredo Romeo, fondatore della Romeo Gestioni (azienda leader in Europa nel facility management, che più o meno vuol dire manutenzione cura e restauro di edifici e strutture edilizie) ed editore di questo giornale. Conosco bene la storia di questa intervista perché, essendo amico di Romeo, l’ho seguita giorno dopo giorno. È durata un paio di settimane. Probabilmente ce ne sono molte altre di interviste abortite, simili, che io non conosco. Credo comunque che valga la pena raccontarla. Alfredo Romeo un mesetto fa si presenta al suo processo (Consip) e rilascia una lunga dichiarazione spontanea, nella quale spiega come e perché non esista traccia di nessun reato da lui commesso, e come e perché le gare Consip siano state truccate ai suoi danni. Accusa il mondo politico e lo stato maggiore di Consip. E anche alcuni magistrati che ritiene si siano comportati in modo non corretto o non adeguato o persecutorio. Il Fatto non scrive una riga, anche perché in questa udienza l’accusa parla pochissimo e quando parla fa una specie di autogol. Dunque non c’è ragione di riferire sul Fatto. Però, probabilmente, Lillo si incuriosisce. Forse perché nella deposizione di Romeo ci sono dei riferimenti non troppo lusinghieri su Matteo Renzi. Roba ghiotta per il Fatto. Non so se è per queste ragioni che pochi giorni dopo la deposizione Marco Lillo chiede un’intervista a Romeo. Il quale, come spesso gli succede, non ha grandi problemi a parlare, se qualcuno vuole interrogarlo (capita raramente). Lillo, tra l’altro, vuol sapere se c’è stato quel famoso incontro tra Romeo e Tiziano Renzi (sì, c’è stato e non si è parlato di Consip) attorno al quale si discute da anni (nessuno però l’ha mai chiesto a Romeo). Benissimo, dice Romeo, tutte le domande che vuole, risponderò a tutte senza silenzi o reticenze. Però scritte. Domande scritte e risposte scritte. Okay, dice Lillo e si mette a lavorare. Ci mette un po’ a preparare 10mila battute di domande. Non molto brillanti, per la verità, sembrano scritte più da un Pm, o da una guardia, che da un giornalista. Romeo non fa una piega. Risponde a tutte le domande. Con circa 15 mila battute. È raro, francamente, vedere un’intervista dove le risposte non siano almeno il doppio più lunghe delle domande, ma Romeo si adegua e accetta la sproporzione. Manda il tutto a Lillo. Nel frattempo arriva la richiesta di rinvio a giudizio per Romeo e per gli altri imputati Consip (nel secondo dei processi Consip, perché i magistrati hanno preferito spezzettare i processi) e Lillo scrive sul Fatto che il merito di questa richiesta è suo (in un primo momento i Pm avevano chiesto l’archiviazione) e che l’inchiesta in realtà l’ha condotta lui, e che finalmente la verità prevale. Credo che su questo abbia ragione (non sulla verità ma sulla conduzione dell’inchiesta). L’inchiesta è sua. E forse anche la richiesta di rinvio a giudizio. Dopodiché scrive a Romeo che il testo delle risposte non va bene, perché è troppo lungo. E allora lui ha fatto un sunto. Riducendo da 25 mila battute complessive a 7.000, cambiando tutte le risposte e persino le domande. Queste 7000 battute sono un’opera di fantasia del tutto priva di legami con il pensiero di Romeo. Il quale gli risponde: Amico mio, così non si può fare. Tu mi hai censurato e io non ti autorizzo a pubblicare. Lillo risponde a sua volta, cadendo dalle nuvole, che per carità, nessuna censura, è solo una questione di lunghezza, e chiede a Romeo di riscrivere tutto, partendo dalle nuove domande, ma di non superare le 10 mila battute. Romeo accetta e l’altro ieri manda il nuovo testo. 10 mila battute comprese tutte le domande di Lillo. Le risposte contengono critiche ad alcuni magistrati (in particolare il Gip Sturzo, ma anche altri) e accuse ai vertici Consip e a diversi esponenti politici, tra i quali Renzi e i renziani. Romeo spiega come lui sia stato escluso da tutte le gare sebbene sia considerato, nel campo, di gran lunga il numero uno, riferisce delle intercettazioni, agli atti, dalle quali risulta che i vertici Consip avevano l’ordine di escludere Romeo dagli appalti, se la prende con l’ AD di Consip, con i renziani, con Verdini e con altri, e infine smonta la storiella del bigliettino con scritto “30 a T e 5 a Rc” che secondo Lillo è la prova della corruzione e invece non è nulla. Racconta anche di come, dalle intercettazioni sempre agli atti di uno dei due processi, risulta che gli investigatori concordarono con un imputato una perquisizione e alcuni interrogatori. E questo imputato – evidentemente molto poco credibile – è l’unica fonte di indizi contro Romeo. La tesi di Romeo è che ci sia stata una congiura? No: due congiure. Una dei magistrati di Napoli che volevano colpire Renzi a tutti i costi, e una dei magistrati di Roma che, a tutti i costi, volevano salvare Renzi. Lui, Romeo, è finito in mezzo come doppio parafulmine e capro espiatorio. Benissimo. Tutto a posto. Si aspetta la pubblicazione. Ma in serata arriva un messaggio di Lillo che spiega che lui non può pubblicare l’intervista perché le cose sostenute da Romeo non coincidono con le opinioni di Lillo e soprattutto con le accuse dei Pm. E ciò, ovviamente, non è ammissibile. Quindi, o Romeo cambia radicalmente le risposte, o l’intervista è impubblicabile. Spiego a Romeo che queste cose, tanti anni fa, le faceva anche un magistrato russo che si chiamava Vyšinskij. Lui però non si rassegna al sistema Vyšinskij e non cambia le risposte. Siccome però era una bella intervista, la pubblichiamo noi. Ringraziando Lillo per la collaborazione. 

Accuse e inesattezze del primo cittadino. De Magistris nasconde i suoi fallimenti con le bugie: e fa autogol. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Marzo 2021. Cita la Costituzione, ma sembra farlo solo per quella che nello slang del linguaggio parlato viene definita «paraculaggine». E racconta fatti del passato, ma a modo suo e in maniera completamente inesatta. Di chi parliamo? Di lui, Luigi de Magistris, il sindaco di quella rivoluzione arancione che a Napoli ha procurato solo confusione e disagi. In quanto ex magistrato, la Costituzione dovrebbe essere per lui il faro che illumina il pensiero garantista, invece la getta nel buio del populismo più giustizialista. Come? Basta leggere il più recente post pubblicato sulla sua pagina Facebook: «Il Gup del Tribunale di Napoli dispone il processo per numerosi imputati per il cosiddetto Sistema Romeo. La presunzione d’innocenza fino a sentenza passata in giudicato non va mai dimenticata. Sono fiero, però, da sindaco di Napoli, di aver estromesso Alfredo Romeo, imputato per reati gravissimi, dalla gestione del patrimonio immobiliare, da noi internalizzato ed affidato a lavoratrici e lavoratori pubblici». Poi lancia accuse anche su Ciro Verdoliva, direttore dell’Asl Napoli 1, e sugli «uomini del presidente De Luca travolti come birilli da una devastante questione morale». Di fronte a questo fiume di parole in libertà è necessario fare chiarezza, perché l’unico dato oggettivo è che lui, de Magistris, è sindaco di Napoli (ancora per poco, visto che tra pochi mesi ci saranno le amministrative, lui vuole candidarsi in Calabria e Napoli si libererà di una gestione i cui risultati sono sotto gli occhi, stanchi e avviliti, di tutti). Il post è un insieme di accuse e inesattezze. A cominciare da quelle relative al “sistema Romeo”: sarebbe il caso che de Magistris desse un’occhiata alla sentenza con cui, nel 2017, la Cassazione ha escluso l’esistenza di quel sistema. Altra inesattezza è quella relativa al rinvio a giudizio che serve solo a far sì che venga valutata, in dibattimento, la fondatezza di accuse tutte da provare; senza dimenticare che, disponendo il proscioglimento per vari capi di imputazione, il gup ha comunque ridimensionato l’iniziale quadro accusatorio delineato dalla Procura. Altre inesattezze ancora, invece, fanno riferimento al fatto che Alfredo Romeo non è mai stato estromesso dalla gestione del patrimonio immobiliare di Napoli. E de Magistris dovrebbe ricordarlo bene visto che, carte alla mano, i numeri del patrimonio immobiliare della città, durante il periodo della Romeo gestioni, sono stati esaltanti. Difficile immaginare che il sindaco possa averne perso memoria, forse preferisce non ricordare. Perché? Probabilmente perché i numeri fatti segnare dalla Romeo gestioni sono stati il frutto di una strategia efficace, mentre quelli attuali sono valori tipici di un’amministrazione che arranca. Quanto ai rapporti tra la Romeo gestioni e il Comune di Napoli per i servizi di inventariazione e gestione del patrimonio immobiliare comunale, il primo contratto fu stipulato nel 1998, il secondo nel 2005 per la durata di sette anni e infine ci fu un ulteriore rinnovo per altri sette anni fino alla naturale scadenza nel dicembre 2012. Ciò significa che la società di Romeo non è mai stata estromessa dalla gestione del patrimonio comunale, ma ha semplicemente esaurito il suo mandato. Tutto molto diverso, quindi, da quanto scrive su Facebook de Magistris. Inoltre, proprio nel 2012 la Romeo gestioni concluse la vendita di oltre 3mila unità del patrimonio comunale portando nelle casse di Palazzo San Giacomo introiti per oltre 108 milioni di euro. Si trattava di immobili di edilizia popolare, tra Ponticelli e il Vomero: vendendoli agli inquilini si riuscì a salvare l’amministrazione dal dissesto. Inoltre, si ebbe anche un positivo effetto di riqualificazione urbana perché gli inquilini, divenuti proprietari, decisero di rimettere a nuovo immobili e spazi circostanti. Alla Romeo gestioni fu anche erogato un incentivo di buona gestione, 1.143.870,17 euro, che come ha stabilito la Corte dei Conti era stato correttamente erogato in base al criterio di calcolo stabilito nel contratto col Comune. È dunque la storia a smentire de Magistris che di sicuro non ha reso un buon servizio alle casse comunali dicendo addio a Romeo gestioni. «È l’evidenza dei fatti – aggiunge Michele Saggese, ex assessore comunale al Bilancio – Una volta passato alla Napoli Servizi, il patrimonio immobiliare comunale non ha subìto quell’accelerazione che de Magistris immaginava. Ed è altrettanto evidente che un rinvio a giudizio non è una condanna. Quindi, il sindaco si attenga ai fatti e pensi alla città che mai come oggi ha bisogno di essere amministrata. Alla sua campagna elettorale ci penserà più in là».

·        Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.

L'ex capo della procura milanese. Francesco Greco: “Vedo molto revisionismo su Mani pulite”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Ripristinare l’autorizzazione a procedere. Perché no? Se ne parla, e lo auspica uno studio molto serio. Guardate chi c’era, una sera a Milano. Rilassato, fuori dalla mischia del Palazzo di giustizia e di una procura covo di vipere come non mai, abbiamo ritrovato Francesco Greco impegnato a discutere di un tema decisamente più alto di quelli che lo avevano visto coinvolto nelle ultime settimane che hanno preceduto il suo pensionamento. Immunità parlamentare, check and balance, equilibrio tra i poteri: aria pura, o almeno così dovrebbe essere. L’occasione è data dalla presentazione milanese del libro dell’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, “L’eutanasia della democrazia. Il colpo di Mani Pulite” (Rubbettino, 14 euro), prefazione di Sabino Cassese. Cento pagine da distillare, concetti da assaporare uno a uno, perché c’è proprio tutto. Il quadro comparato tra i sistemi anglosassoni di common law e quelli europei di civil law. Il dibattito sull’articolo 68 dei padri costituenti tra il 1946 e il 1948, e poi quello in Parlamento tra il 1992 e il 1993. I primi cercavano di ricostruire l’equilibrio tra i poteri dopo gli anni sanguinosi, anche per il diritto, del fascismo. I secondi, terrorizzati durante la stagione di Mani Pulite, mostrarono di preferire alla fine la repubblica giudiziaria rispetto a una democrazia liberale. Francesco Greco ha il tono e la giovialità ritrovata di chi si è veramente tolto un peso. Anche se gli costa un po’ dirlo. Preferisce pizzicare, non senza una certa allegria, un paio di testate giornalistiche che non si sono fatte coinvolgere dal momento bello del suo commiato. Ho offerto champagne francese, quello vero, rivendica, e Repubblica il giorno dopo ha titolato “Greco lascia, brindisi al veleno”. E sul Riformista ..(fa il nome di una giornalista che conosce da molti anni) mi voleva in pensione sei mesi prima del tempo, e diceva “ma quando se ne va?”. Ma, champagne a parte, il veleno tra toghe, quello che ha portato la procura di Brescia a sottoporre a indagine diversi magistrati milanesi, non è arrivato dall’esterno della casta. Non dai giornalisti. Men che meno dalla politica. Hanno fatto tutto da soli. Sull’equilibrio tra i poteri e sul rapporto, in Italia decisamente malato, tra politica e giustizia, il procuratore Greco non cede di un millimetro. Rispetto al libro, la cui tesi sul tragico errore del Parlamento sull’articolo 68 è molto chiara, ma anche molto documentata e motivata, anche con il supporto e l’autorevolezza di Sabino Cassese, butta lì subito “Ritenevo assorbito il problema dal ‘93”. Il suo ragionamento è elementare: non siamo stati noi di Mani Pulite a distruggere i partiti della prima repubblica, i partiti si sono distrutti da soli, perché la politica costa e in Italia si commettono troppi reati. Problema assorbito dalla cultura del Paese, dunque? E’ stata solo una giusta punizione nei confronti della classe politica, e quindi del Parlamento, l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere, che aveva il compito di impedire iniziative politiche da parte della magistratura? L’ avvocato Benedetto spiega con chiarezza perché, in un sistema in cui la magistratura è totalmente autonoma e nominata in modo burocratico, dove non c’è la separazione delle carriere e oltre a tutto esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, è indispensabile un contrappeso che difenda le prerogative del Parlamento. Ma non c’è verso di comprendersi. Perché ogni richiamo ai principi sacrosanti di ogni società liberale, quelle in cui l’immunità dei parlamentari fa parte dell’equilibrio dei poteri, viene considerata come un attentato a quelle inchieste che furono, ai tempi di Tangentopoli. Non a caso Greco recita più volte “il revisionismo non mi è mai piaciuto”. Vasto programma, vien da dire. Ma lui lo precisa: “Su Mani Pulite vedo molto revisionismo”. E non è un caso il fatto che lui stesso ricordi come, avendo conosciuto, nel suo ruolo di capo della procura più famosa d’Italia, pubblici ministeri di tutto il mondo, si sia sempre sentito “un privilegiato”. Infatti il caso italiano è unico al mondo. Ma per la carenza di democraticità, andrebbe aggiunto. E per la protezione assoluta della casta dei magistrati, in particolare dei pubblici ministeri che non rispondono a nessuno. I suoi colleghi inglesi e americani infatti, e soprattutto i pm, nelle patrie del principio dell’habeas corpus, hanno uno stretto rapporto con il potere politico. Il quale non necessita quindi di essere protetto da particolari guarentigie, al contrario dei Paesi europei del civil law dove esiste il giudice burocrate, una figura impensabile sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito. Ma anche nella stessa Europa l’Italia rappresenta una “stranezza”. Perché il pubblico ministero è un soggetto potentissimo e irresponsabile (in altri Paesi risponde al guardasigilli), ma anche perché, al contrario di quel che accade in Francia, in Germania e in Spagna , con la controriforma del 1993, il parlamentare è un cittadino in balia di qualunque anomalia politico-giudiziaria, senza protezione alcuna. E non è che manchino gli esempi di quel che è accaduto, dal 1992 in avanti. Un argomento molto in uso è quello che dell’immunità parlamentare e dell’autorizzazione a procedere si era abusato nel passato. Verissimo. Ma altrettanto vero è che, prima di tutto proprio negli anni di Tangentopoli il Parlamento aveva cambiato registro, con esami più oculati di ogni singolo caso e concessioni più frequenti alla magistratura di indagare. E comunque, perché eliminare le guarentigie solo perché erano state mal applicate? Il cibo può essere buono anche se qualcuno ha fatto indigestione. Tra l’altro, nel corso del dibattito che tenne impegnati a lungo Camera e Senato, si era arrivati a una buona mediazione, spostando il momento della richiesta di autorizzazione alle Camere dall’inizio delle indagini a quello dell’esercizio effettivo dell’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pm. Ma non ci fu nulla da fare. Spirava in quel periodo un’ariaccia fetida in cui il ruolo di moralizzatore dei costumi se lo era assunto la Lega Nord, un po’ come più di recente i seguaci di Beppe Grillo. Il Parlamento era pieno di politici indagati, la gran parte dei quali anni dopo verrà assolta. Inutilmente Marco Pannella, uno dei pochi ad avere a cuore la sacralità del Parlamento, radunava tutti alle sette del mattino. Ma era in gran parte gente terrorizzata, che cercava solo il modo di non finire in galera. Avrebbero votato qualunque cosa. E così fu, purtroppo. E inutilmente un giorno lo stesso Pannella nell’aula gridò contro la demagogia e il populismo: “ Il nostro compito, per non essere antipopolari, è di essere semmai impopolari in alcuni momenti. Viva la Costituzione repubblicana! Viva l’articolo 68! Viva il Parlamento che saprà difenderlo!”. Andò diversamente. Il revisionismo non piace ai procuratori? Un motivo di più per riformare l’articolo 68 della Costituzione e rendere l’Italia un Paese più liberale e più libero.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Davigo, Di Pietro e gli "arresti facili"? Parla il giudice Salvini: "Ecco come facevano", bomba sulla Procura di Milano. Libero Quotidiano l'11 dicembre 2021. Con Mani Pulite le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano venivano assegnati sempre ad un unico giudice, pronto ad accogliere con rapidità fulminea tutte le richieste di cattura spiccate dal pool. Scrive il giudice Guido Salvini, tuttora gip a Milano: "Era comodo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già "direzionato", e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare "difficoltà" alle indagini (...) così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall'arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un "registro" che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall'essere da gestite dal pool". Titolare del mega-fascicolo era il giudice Italo Ghitti. "Questo espediente dell'unico numero - scrive Salvini - impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool". Una sola volta, rivela il Giornale, una richiesta di manette firmata dal pool arrivò sulla scrivania di Salvini. "Ma nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti. Bisognava evitare che qualsiasi altro gip dell'ufficio "interferisse" nella macchina di Mani pulite", ricorda Salvini. "Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell'ufficio". Contro la sottrazione del fascicolo, Salvini scrisse invano al suo capo, Mario Blandini. Ma l'inchiesta Mani Pulite continuò a macinare arresti. "Blandini venne promosso procuratore generale. Ghitti venne eletto al Consiglio superiore della magistratura", conclude il Giornale.

Mani pulite, ecco il trucco dei pm del pool di Milano per arrestare più indagati. Luca Fazzo l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice. Durante l'inchiesta Mani Pulite, le regole di assegnazione dei fascicoli nel tribunale di Milano vennero sistematicamente aggirate per garantire alla Procura di poter contare sempre e soltanto su un unico giudice, pronto ad accogliere con rapidità fulminea tutte le richieste di cattura spiccate dal pool: un sistema che ora viene descritto con dovizia di particolari da un magistrato che nei mesi ruggenti del 1992 lavorava nell'ufficio da cui gli ordini di arresto venivano sfornati quotidianamente.

Settimo piano del Palazzo di giustizia, ufficio del giudice per le indagini preliminari, quello cui tocca firmare o negare gli arresti. Per garantire l'imparzialità dei gip, la norma prevede l'assegnazione automatica dei fascicoli in base ai turni prestabiliti. Cosa accadeva, invece, durante Mani Pulite? Scrive il giudice Guido Salvini, tuttora gip a Milano: «Era comodo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare difficoltà alle indagini (...) così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall'arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall'essere da gestite dal pool».

Titolare del mega-fascicolo, che portava il numero 8566/92, era il giudice Italo Ghitti. Tutte, nessuna esclusa, le richieste del pool Mani Pulite arrivavano così a Ghitti, con la certezza di venire accolte nel giro di poche ore, alimentando la spirale delle confessioni a catena. «Questo espediente dell'unico numero - scrive Salvini - impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Una sola volta, per una sorta di svista, una richiesta di manette firmata dal pool arrivò sulla scrivania di Salvini, che era il giudice competente per turno. Ma «nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti». Bisognava evitare che «qualsiasi altro gip dell'ufficio interferisse nella macchina di Mani pulite. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell'ufficio». Contro la sottrazione del fascicolo, Salvini scrisse invano al suo capo, Mario Blandini. Mani Pulite continuò a macinare arresti. Blandini venne promosso procuratore generale. Ghitti venne eletto al Consiglio superiore della magistratura.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Il periodo di Tangentopoli. Italo Ghitti, l’unico gip di Mani Pulite: svelato il trucco del pool per sceglierselo. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Italo Ghitti è stato “il Gip di Mani Pulite”. L’unico. Per capirci: se il Pool ha aperto in quel periodo, per dire, cento indagini, cioè cento fascicoli diversi, per reati tra loro diversi, con indagati diversi, contesti diversi, insomma diversi, il Gip è stato sempre lui tutte e cento le volte. Lo sappiamo da sempre, noi penalisti lo abbiamo denunciato da subito e per decenni, ma nulla, come se niente fosse. Ora una meritevole intervista ad un Gip milanese, il dott. Guido Salvini, almeno ci fa sentire meno soli. Come è potuto accadere? Semplicissimo. I Pubblici Ministeri, gli eroici cavalieri senza macchia e senza paura del leggendario pool di Mani Pulite, inventarono un banale trucco. Tutte le nostre indagini fanno in realtà parte di una unica indagine, dissero (anzi, se lo dissero tra di loro, figuriamoci se qualcuno osò fare domande). Il fenomeno criminale è unico, la Corruzione ed il Finanziamento Illecito della Politica. Dunque tutti i fatti sui quali indaghiamo, dal Pio Albergo Trivulzio alla tangente Enimont, sono capitoli di una unica indagine purificatrice. Dunque un unico numero di procedimento e, per conseguenza, un unico Gip, Italo Ghitti. Un autentico gioco delle tre carte, che nemmeno a Forcella. Se un qualsiasi Procuratore oggi si azzardasse a fare una roba del genere, finirebbe diritto per diritto davanti ad un giudice disciplinare (almeno) a renderne conto. Per capirci, è come se la Procura di Palermo sostenesse che tutte le indagini di Mafia, qualunque siano i fatti, le cosche e i protagonisti, debbano ritenersi facenti parte di un unico fascicolo, e dunque affidate agli stessi inquirenti ed al controllo giurisdizionale di un unico Gip. La stampa nostrana non fece un plissé, e nemmeno ora, a babbo morto. I Santi non si toccano e non si bestemmiano. I famosi “cani da guardia” della verità contro i poteri, girano il muso da un’altra parte, abbassano le orecchie e semmai abbaiano contro i pochi che dovessero azzardarsi a dire qualcosa, quando si tratta del potere giudiziario. Nessuno che provi ad alzare il ditino, e a fare la ineludibile domanda: perché? Già, perché, secondo voi? Sarebbe bastato fare quello che normalmente si ha il dovere di fare, e cioè aprire per ogni nuova indagine un fascicolo nuovo con un nuovo numero, ed ecco lì che il Gip cambia. Dunque, la risposta è semplicissima: la Procura di Milano fece l’impensabile: si scelse il “suo” Gip. Punto. Traetene voi da soli le conseguenze. Io mi limito a ricordare quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, il ruolo ed il compito del Giudice delle Indagini Preliminari, per facilitarvi nel vostro giudizio su quello scandalo, oggi denunciato perfino da un coraggioso giudice milanese. Il Gip è colui che è chiamato ad esercitare il “controllo giurisdizionale” sulle indagini e sull’esercizio dell’azione penale. Perché, pensate un po’, nel nostro sistema processuale il Pubblico Ministero è certamente il dominus incontrastato delle indagini; ma appena ritiene di dover adottare misure che vanno ad impattare sui diritti delle persone indagate, non può far altro che “chiedere” al Gip di essere autorizzato a farlo. Può solo “chiedere” di intercettare, di sequestrare, di arrestare. Nei casi di urgenza può farlo di propria iniziativa, ma poi deve immediatamente informarne il Gip, che verificherà la legittimità dell’atto adottato con urgenza, e potrà convalidarlo o invece annullarlo. Il Pm chiede, ma è il Gip che adotta i provvedimenti più importanti nella fase delle indagini. L’analfabetismo diffuso fa dire che “Gratteri ha arrestato”, che “la Procura di Milano” ha disposto intercettazioni, che “la Procura di Palermo” ha sequestrato, ma non è così, perché quei provvedimenti sono del Gip. Ora voi comprendete bene quanto possa contare, per una Procura, avere un Gip, come dire, sulla propria lunghezza d’onda. Un Gip che non si metta a sindacare, ad approfondire, a questionare, e soprattutto a respingere le richieste. La partita della terzietà del Giudice, garante costituzionale dei diritti e del procedimento, si gioca innanzitutto e in modo quasi assorbente nella fase delle indagini. Il pool di Mani Pulite, a suggello della propria onnipotenza, si consentì il lusso di avere un solo Gip. Non voglio mancare di riguardo a nessuno, ma possiamo ragionevolmente dare per scontato che, come minimo, l’orientamento di quel Giudice non fosse sgradito all’Ufficio? Io penso proprio di sì. E più in generale: se si parla solo dei Pm quando si arresta, si intercetta, si sequestra, nonostante sia il Gip che ha arrestato, intercettato, sequestrato, non vi sorge il dubbio che in questo Paese il tema della terzietà del giudice, innanzitutto del giudice delle indagini preliminari, sia la vera, grande, decisiva, clamorosa emergenza della nostra giustizia penale?

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

«La forzatura sul gip Ghitti dimostra che Mani pulite fu un’operazione politica». Lo storico dirigente del Psi parla del trucco, rivelato sul Dubbio, dal giudice Salvini, relativamente all'inchiesta "Mani pulite", coordinata dal famoso pool di Milano. Errico Novi su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. «È un artifizio tecnico, che però svela il senso politico di Mani pulite». Ugo Intini è stato direttore dell’Avanti, portavoce del Psi craxiano, dirigente combattivo in un partito travolto dalla “rivoluzione” del ’ 92. Riflette sull’espediente inventato dal Pool di Milano per consegnare sempre a un unico gip, Italo Ghitti, tutte le richieste di misure cautelari.

Un “trucco” rivelato, in un articolo sul Dubbio, dal giudice Guido Salvini: venne creato un «registro», utilizzato impropriamente come un «fascicolo» unitario per tutti i filoni d’inchiesta, e dotato di un «numero con cui iscriveva qualsiasi novità riguardasse tangenti», ha raccontato Salvini, oggi come allora in servizio all’ufficio gip di Milano. «Salvini contribuisce ad avvalorare una tesi ormai inconfutabile: Mani pulite fu un’operazione politica, ispirata», dice Intini, «all’idea che della politica si potesse fare a meno, e che perciò fosse necessario e opportuno radere al suolo i partiti della Prima Repubblica».

Nell’intervento sul Dubbio, Salvini non esita a notare come il «gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool». Diversi altri quotidiani hanno ripreso in questi giorni l’intervento del magistrato milanese.

Ieri, per esempio, il Giornale lo ha ricollegato alla vicenda di Davide Giacalone, allora braccio destro di Oscar Mammì: Giacalone fu arrestato su richiesta del Pool, subito accolta da Ghitti, e poi prosciolto addirittura in udienza preliminare «Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari», ha raccontato Giacalone al Giornale, «era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall’articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».

C’era un sistema scientifico, Intini, ma nessun giornale si sforzò di scoprirlo. Ha dovuto parlarne un giudice coraggioso a trent’anni da Mani pulite.

Non mi meraviglio. Il silenzio sulle forzature tecniche compiute dal Pool si spiega con l’assoluto sostegno assicurato, a quei pm, dai giornali, ridotti a ufficio stampa della Procura. Rientra appieno nella logica da golpe strisciante in cui si inserì l’inchiesta del ’ 92.

Perché golpe strisciante?

Vede, se un ufficio inquirente arriva a forzare le regole organizzative interne alle Procure pur di consegnare sempre allo stesso gip, evidentemente in sintonia coi pm, le richieste cautelari, è chiaro che c’è una determinazione politica rispetto a quell’iniziativa giudiziaria. Una determinazione chiara nel perseguire non ipotesi di reato ma un preciso obiettivo: annientare i partiti della Prima Repubblica. Ed è un disegno, ritenuto giusto dai pm milanesi di allora, che si inserisce perfettamente nel disegno più generale di annichilimento della politica, emerso all’epoca non solo in Italia ma in tutto l’Occidente.

Dietro l’onda giudiziaria del ’ 92 ci fu la regìa di altri poteri?

Fukuyama, politologo americano, teorizzò che con la caduta del comunismo si fosse arrivati alla fine della storia, dunque all’esaurirsi delle funzioni proprie della politica. Se la politica è inservibile, restano solo i poteri economici, indisturbati. Ci si doveva sbarazzare dei partiti. Avvenne anche in altri Paesi, ma in nessuno si verificò, come da noi, una vicenda giudiziaria oggettivamente rivoluzionaria, in un quadro generale da golpe strisciante. La giustizia non funzionò in modo imparziale: fu condizionata da quell’obiettivo.

Ma a suo giudizio i pm del Pool di Milano puntavano consapevolmente a uno svuotamento della politica?

È più corretto dire che dopo i primi successi, dopo il clamore suscitato dai primi passi dell’inchiesta, i magistrati della Procura di Milano si sentirono spinti ad andare avanti lungo quella strada, a perseguire l’obiettivo dell’annichilimento. Mi riferisco al favore dell’opinione pubblica, ma anche dei grandi giornali. La grande stampa condivideva certo non a caso uno schema in cui i vecchi partiti avrebbero lasciato posto al dominio del mercato.

Quanto influì, su quella stagione, la crisi economica?

Moltissimo. Una cosa era chiara a tutti: gli equilibri precedenti, basati sul rapporto fra politica e sistema produttivo, non reggevano più. Gli stessi imprenditori si convinsero che della politica ci si potesse liberare. Ne ho fatto un libro, nel 2001: La privatizzazione della politica. Fu un ’ 68 rovesciato.

In che senso?

Il ’ 68 fu ispirato a solidarismo e comunitarismo. Nel ’ 92 si impose una rivoluzione dell’individualismo e del liberismo. Con una rottura, com’era avvenuto un quarto di secolo prima. Ma di segno del tutto diverso.

Senza il “trucco” del gip, chissà se Mani pulite sarebbe andata in quel modo.

C’erano forzature tecniche anche di altra natura, a cominciare dall’upgrading del finanziamento pubblico trasformato in corruzione, e della corruzione elevata a concussione.

Guido Salvini ha avuto il merito di chiarire come andarono le cose.

È un magistrato già noto per il coraggio, per la capacità di assumere posizioni controcorrente rispetto al resto della magistratura. Penso a quanto disse a proposito delle trame nere o dell’assassinio Tobagi. Ma fra i magistrati la maggioranza, a mio giudizio, condivide la critica all’esercizio autoreferenziale della funzione requirente. Peccato questa maggioranza sia ostaggio di un’agguerrita minoranza, tuttora dominante nell’Anm e, in generale, nell’ordine giudiziario.

Il “trucco” di Mani pulite tra gelida indifferenza e opposte “concordanze”. Luca Palamara nel suo “il Sistema”, Ilda Boccassini in “La stanza numero 30” e Nino Di Matteo ne “I nemici della giustizia”, descrivono un contesto deprimente della magistratura. Valter Vecellio su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Otto dicembre scorso: Guido Salvini, giudice per le Indagini Preliminari in forza a Milano, scrive per Il Dubbio un circostanziato articolo, con espliciti riferimenti, fatti, nomi e cognomi, e spiega cosa è accaduto nell’ufficio del Gip della sua città nella stagione di “Mani Pulite”. Per riprendere l’efficace sintesi giornalistica: “Il pool escogitò il semplice ma efficace trucco di un ‘registro’ con lo stesso numero per tutti i reati che era così di competenza di un solo Gip: Italo Ghitti”. Sempre Salvini racconta come un fascicolo, in questo modo, con questo “trucco” gli viene sottratto; stessa cosa accade ad altri Gip, il tutto con la fattiva copertura e tolleranza dei Capi dell’ufficio: “Non era il tempo di seguire la strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream”. In guerra e in amore tutto è lecito, si dice. Ma appunto: in guerra e in amore; amministrare la giustizia, applicare le leggi, non rientra nelle pratiche belliche, e neppure in quelle amorose, checché ne possa pensare qualcuno. Ad ogni modo: reazioni? Sì, qualche isolata voce, presto silenziata. Per il resto, sostanziale fastidio, gelida indifferenza. Un ulteriore passo indietro. A metà novembre Nino Di Matteo, magistrato attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia un’intervista a La7. Confessa un timore: “che si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Questa situazione dove (e chi) l’ha evocata e descritta prima di Di Matteo? Si deve recuperare un libro di grande successo, “Il sistema”, lunga conversazione tra l’ex magistrato Luca Palamara e Alessandro Sallusti: “…Le spiego una cosa fondamentale per capire che cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni”, dice Palamara. “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione…Ecco se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo interno. Soprattutto perché fanno parte di un ‘Sistema’ che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Nella sostanza le affermazioni di Di Matteo e Palamara si possono sovrapporre, due “opposti” che coincidono. Ma Di Matteo dice anche altro, nel libro “I nemici della giustizia”, scritto con Saverio Lodato. Quando si arriva alle pagine 75 e 76 si può leggere: “…Una cordata sorta attorno a qualche magistrato, di solito un importante procuratore, che ha saputo acquistare nel tempo, e spendere, la sua autorevolezza e il suo prestigio per occupare spazi sempre più ampi di potere dentro e fuori la magistratura…” con lo scopo “di fidelizzare altri colleghi, alti esponenti delle forze dell’ordine, acquisendo un potere tale da riuscire a influenzare scelte e nomine all’interno della magistratura e persino delle forze di polizia. Cordate, non più correnti…”. Ora idealmente si può far scendere idealmente in campo un altro personaggio, l’ex magistrato Ilda Boccassini. Ha scritto “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, di cui molto si è parlato e scritto, più che altro per il quarto capitolo: il racconto di una liason con Giovanni Falcone. Capitolo che fa perdere di vista il cuore dei problemi che questo libro pone. Perché in fin dei conti, cos’abbiano combinato sono affari di Boccassini e Falcone; si può al massimo eccepire che questa storia poteva restare nel cono d’ombra dove era relegato, conosciuta da pochi. Ma è la sostanza delle questioni che si è persa di vista. La sostanza è il racconto di anni e anni di storia della magistratura, dei magistrati, del loro operare: il loro letterale trescare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: dal libro di Boccassini insomma, emerge un quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta. Del lato meschino e vanesio di magistrati ed ex magistrati famosi; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma: un contesto, una “scena” e tanti retroscena, deprimenti. Significative queste ‘concordanze’ di personaggi così diversi, perfino opposti. Tutto ciò aggravato dal fatto che tutto ciò sembra scivolare come acqua su pietra liscia. Si può infine segnalare un’ulteriore, non meno grave “indifferenza”, che evidentemente (mal)cela una diffusa ostilità: verso i sei referendum per una giustizia più giusta promossi da Partito Radicale e Lega. Hanno superato il primo ostacolo, il vaglio della Corte di Cassazione. Ora la parola spetta alla Corte Costituzionale; non potrà falcidiare l’intero pacchetto; potrà dichiarare che qualche quesito non può essere sottoposto a referendum popolare, ma bocciarli tutti e sei non è cosa. Dunque, se non saranno sciolte le Camere (evento non meno improbabile), a primavera ci si pronuncerà su importanti questioni di giustizia e di come la si vuole amministrare. Che cosa attendono i mezzi di comunicazione, e in particolare quello che dovrebbe essere il servizio pubblico radio-televisivo, ad allestire spazi di informazione, confronto e dibattito tra sostenitori e avversari delle referendarie, non si capisce (o al contrario: lo si comprende bene). ‘Conoscere per deliberare’ è uno dei precetti di Luigi Einaudi: diritto alla conoscenza presupposto senza il quale non è data una vera democrazia. Curioso, ma anche indicativo, che filosofi, giuristi, commentatori, dedichino tempo ed energie nella denuncia di rischi e pericoli più supposti che reali per la democrazia, in Italia, in Europa, nel mondo, a proposito di una Pandemia che sconvolge il pianeta; e non una briciola di attenzione sul fatto che una questione essenziale come la giustizia e il modo in cui si amministra è argomento tabù: è scattato un verboten a cui pochi volenterosi vogliono e sanno sottrarsi, rapidamente, implacabilmente, silenziati: ridotti come il protagonista del celebre dipinto del norvegese Edvard Munch.

"Io, travolto dal trucco del pool Mani pulite per arrestare più gente". Luca Fazzo il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'ex braccio destro di Mammì arrestato 30 anni fa: "Quel gip soddisfaceva i pm". «Ah, dunque è così che andò....». Sono passati quasi trent'anni dalla mattina in cui lo vennero ad arrestare su ordine del pool Mani Pulite, e a Davide Giacalone tocca oggi scoprire che dietro il suo mandato di cattura c'era una manovra di gravità sconcertante messa in atto negli uffici giudiziari milanesi, e rivelata solo ora da un testimone dell'epoca.

È sull'inchiesta che travolse Giacalone, allora giovane e brillante braccio destro del ministro repubblicano Oscar Mammì, che si consuma l'episodio raccontato nei giorni scorsi dal giudice milanese Guido Salvini con un articolo sul Dubbio: il fascicolo con le richieste di arresto che arriva sul tavolo di Salvini, ma che gli viene sottratto dal capo dell'ufficio del giudice preliminare Mario Blandini. E assegnato a Italo Ghitti, il gip che monopolizzava tutte le richieste di cattura del pool e le accoglieva tutte istantaneamente. Il trucco: un unico fascicolo con un numero unico, divenuto - scrive Salvini - «un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse». Titolare, Italo Ghitti, «che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool». Ghitti quando seppe che l'inchiesta contro Giacalone era finita a Salvini fece fuoco e fiamme per farsela ridare. Appena la ottenne ordinò la cattura del 34enne politico.

Che effetto le fa scoprire che per arrestarla dovettero persino portare via il fascicolo a un giudice?

«Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari, studiando anche le ore e i minuti migliori per inviare le richieste di cattura, era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall'articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».

Perché era così importante che a gestire tutto fosse Ghitti? Secondo Salvini, col sistema del fascicolo unico il pool milanese poteva indagare anche su vicende lontane dalla sua competenza territoriale.

«Come nel mio caso: alla fine venne stabilito che la competenza era di Roma e non di Milano. Ma arrivarci non fu una passeggiata. A Milano dopo dieci giorni di carcere mi diedero i domiciliari, ma a quel punto intervenne la Procura di Roma che mi rispedì in prigione. In cella mi arrivavano a giorni alterni gli ordini di custodia dalle due città, sembrava una gara tra Procure a chi me ne mandava di più per rimarcare la propria competenza. Anche gli agenti di custodia erano impietositi».

Salvini dice che il collega Ghitti era «direzionato» a favore della Procura, per questo bisognava impedire che qualunque altro gip «interferisse» con le indagini su Tangentopoli.

«La storia di Mani Pulite la conosciamo tutti. Per quanto riguarda il mio caso personale, posso solo ricordare che le accuse per cui il dottor Ghitti ordinò il mio arresto ritenendole gravi precise e concordanti si rivelarono talmente infondate che alla fine venni assolto in udienza preliminare senza neanche venire rinviato a giudizio».

Beh, è finita bene.

«In Italia la giustizia di merito, quella che arriva all'esito dei processi, funziona abbastanza bene, al netto degli inevitabili errori giudiziari. Il dramma è quanto accade prima, durante le indagini, quando a garantire i diritti del cittadino sotto inchiesta dovrebbe essere il giudice delle indagini preliminari, una figura da barzelletta, costretto a decidere solo sulla base delle carte che gli vengono sottoposte dai pm, e che dovrebbe prendersi la briga di dire ai pm vi siete sbagliati. Quando mai? Al massimo assistiamo a qualche teatrino, invece del carcere lo mando ai domiciliari. Poi arriva la sentenza che dice che l'imputato è innocente. Ma che te ne fai dopo dieci anni?»

Con lei quanti anni sono serviti?

«Dodici».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Buccini presenta “Il tempo delle Mani Pulite”. Il procuratore Ielo: “Indagine? Tentativo di legge uguale per tutti, non si voleva la rivoluzione”. Alberto Sofia il 18 novembre 2021 su Il Fatto Quotidiano. Nella cornice della Sala Valdese a Roma, Goffredo Buccini, giornalista ed editorialista del Corriere della Sera, ha presentato con la collega Fiorenza Sarzanini e il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, il suo ultimo libro “Il tempo delle Mani pulite”, edito da Laterza. “Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia, ma è stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione, quella secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia, l’idea che un Paese potesse cambiare attraverso un processo. Ma ciò non è vero, i cambiamenti sono più lenti e questo volume racconta questa delusione e questa illusione, quella di un’intera generazione”, ha rivendicato Buccini. Il giornalista ha precisato di “non essere un pentito”: “Non credo sia stato un golpe giudiziario, anzi abbiamo assistito a un suicidio politico. Ma questa idea ha poi permeato una certa destra italiana, nella sua contestazione aperta alla magistratura. Ma allo stesso tempo non credo nemmeno al mito dell’inchiesta mutilata, secondo cui non fu permesso ai magistrati di continuare a indagare”. Oggi, continua Buccini, “paghiamo ancora le conseguenze dopo 30 anni, con una frattura tanto grande”. “Mani Pulite‘? Non voglio parlare di inchiesta mutilata, credo sia stata espressione di una contingenza, di un periodo storico, va contestualizzata. Forse poi mancavano le condizioni. Ma quando provavamo a fare processi con le regole che esistevano e dovevano valere per tutti, indipendentemente se fossero buone o sbagliate, queste non andavano più bene e venivano cambiate”, ha invece precisato il procuratore Paolo Ielo. E ancora: “Se abbiamo mai pensato di voler cambiare il mondo? Ma no, questa idea di un gruppo di persone che dietro a un tavolo decideva di fare la rivoluzione e di mettere questo o quello non c’era“, ha affermato nel corso della presentazione a Roma del volume. Lo stesso procuratore ha infine spiegato di non ritenere che la corruzione sia rimasta identica: “Il segno tangibile era l’ammontare delle tangenti: oggi abbiamo corruzioni che avvengono per poco o nulla, 5 o 10 mila euro”, ha aggiunto Ielo.

Buccini, invece, ha poi concluso come il nostro Paese abbia “la capacità di rialzarsi nei momenti più complessi, come fu quel momento nel ’92”. Per questo, ha aggiunto, la speranza è che si possa ancora “migliorare l’Italia”, ha concluso Ielo. 

Mani pulite, una rilettura istruttiva di Goffredo Buccini. Cesare Zapperi il 21 Novembre 2021 su socialbg.it. “Il tempo delle Mani pulite” è un libro che merita di essere letto. Perché il racconto del drammatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, attraverso l’inchiesta dei magistrati milanesi, affidato alla penna di Goffredo Buccini, inviato speciale del Corriere della Sera a quel tempo cronista di punta a palazzo di giustizia (suoi molti scoop), parla di loro (i politici e le toghe) ma anche di noi (cittadini), facili a passare dal giustizialismo al garantismo come foglie che cambiano colore al mutare delle stagioni.

Buccini ripercorre quasi giorno per giorno i due anni (1992-1994) che sconvolsero il Paese raccontando fatti e retroscena, rievocando atmosfere e umori, riproponendo ad uso di chi li visse ma soprattutto di chi è nato o cresciuto dopo fatti e misfatti di quella vicenda giudiziaria. Lo fa con un esercizio di profonda autocritica non comune e tantomeno scontato (prima di lui lo ha fatto con il suo “Novantatré. L’anno del terrore di Mani pulite” Mattia Feltri) che lo porta ad ammettere che nello scrivere di avvisi di garanzia, arresti e interrogatori, fu spinto anche dalla passione politica che in quegli anni giovanili gli faceva credere di poter cambiare il mondo.

Chi ha vissuto quella stagione, seppur da lontano, ricorda il clima rivoluzionario, la voglia di veder cadere nella polvere tanti potenti, la sete di giustizia. Gli eccessi c’erano, anche abbastanza evidenti come annota lo stesso Buccini, ma su tutto prevalevano la sostanza (il sistema, politico ed economico, era marcio) e il desiderio di pulizia e di onestà. Il libro racconta tutto, anche il desiderio di affermarsi di un cronista di razza (che oggi ammette di essersi ritrovato a comportarsi in modo tale da non riconoscersi) autore di interviste che sono entrate nello storia patria, oltre che del giornalismo. Ci descrive la parabola di magistrati prima osannati come eroi e diventati via via sempre più ingombranti fino ad assurgere, per alcuni, al ruolo contro natura di antagonisti politici.

E poi naturalmente ci sono loro, i politici. Scorrono sotto i nostri occhi tante storie: il suicidio di Sergio Moroni e la sua profetica lettera d’addio, il bombardamento di avvisi di garanzia al bergamasco Severino Citaristi, il coinvolgimento e la battaglia senza esclusione di colpi di Bettino Craxi, l’avviso a comparire a Silvio Berlusconi (il grande colpo giornalistico di Buccini con il collega Gianluca Di Feo). Noi (i cittadini) rimaniamo sullo sfondo, come spettatori che prima fanno un tifo forsennato per i magistrati e poi, non appena dagli squali si scende ai pesci piccoli (il commercialista, l’avvocato, l’impiegato) cominciano a diventare insofferenti fino a spingersi dalla parte opposta, secondo la legge del pendolo che da sempre regola la vita pubblica italiana. Guarda caso quello che stiamo vivendo proprio di questi tempi. “Il tempo delle Mani pulite” è quindi a suo modo una piccola storia dell’Italia e degli italiani. Leggerla aiuta a conoscere e a capire. Il passato ma anche, o soprattutto, il presente. 

Trent’anni dopo Mani Pulite è tempo che la guerra finisca. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti. Alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, le piazze italiane erano infiammate da giovani persuasi che fosse ragionevole uccidere i propri coetanei a causa dell’avversa appartenenza politica. Erano passati tre decenni dalla fine della guerra di liberazione. Ma era come se fascismo e antifascismo (l’antifascismo militante, di matrice comunista) non avessero smesso nemmeno per un momento di combattersi. Non pochi genitori di quei ragazzi, del resto, divisi tra la paura del golpe nero e il timore dell’esproprio rosso, ne assecondavano l’aberrazione ottica e ideologica, finendo di fatto per regolare conti in sospeso per interposta persona. Si osserverà che trent’anni sono forse pochi per tramutare in storia i drammi quotidiani. Eppure, potrebbero essere sufficienti almeno a un ripensamento, a una prima analisi critica o, se non altro, a un raffreddamento degli animi. Così non fu, ci dicemmo, perché l’Italia d’allora era debole quanto a condivisione dei valori. 

Nonostante la successiva, lunga e faticosa ricerca di valori condivisi, così non pare essere neppure ora, con riguardo alla stagione più tumultuosa della nostra Repubblica, quella segnata dallo spartiacque di Mani pulite. Anche questa fase sembra sottomettersi alla ripetitività della guerra dei Trent’anni, del passato che non passa. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti per fede ma assai simili per scarsa o nulla propensione a riconoscere dignità all’avversario. 

Senza neppure il bisogno di scorrere l’emeroteca delle passate e infelici stagioni, basta uno sguardo alle cronache recenti per avere un’idea del tasso di avvelenamento del discorso pubblico: la battaglia mai sopita attorno al finanziamento della politica, ora incarnata dall’inchiesta sulla fondazione Open col suo strascico di ovvietà miste a rivelazioni più o meno riservate, o l’intemerata televisiva di un procuratore di primo piano contro talune scelte della ministra Guardasigilli sono soltanto le ultime stazioni della via crucis inflitta a giustizia e politica ove vengano incrociate in un chiacchiericcio astioso che disorienta il Paese. 

Due sono i miti fondanti, ma del tutto infondati, di questo nuovo trentennio tossico: ed entrambi hanno radici nell’inchiesta dei magistrati di Milano tra il 1992, l’anno del principio, e il 1994, quello dell’invito a comparire a Silvio Berlusconi e dell’addio di Antonio Di Pietro alla toga. 

Il primo è il mito del golpe giudiziario. Nato negli ambienti politici più duramente colpiti dall’inchiesta (segnatamente i socialisti meneghini) e da essi propalato durante gli anni successivi, riconduce il lavoro del pool dei magistrati a un’unica trama, magari eterodiretta, volta a distruggere la nostra democrazia parlamentare. La realtà è ben diversa. Non a un golpe giudiziario assistemmo, quanto piuttosto al dissennato suicidio di partiti che durante gli anni Ottanta avevano scambiato consenso elettorale con debito pubblico e appalti truccati con finanziamenti illeciti: fu il loro prestigio ridotto al rango di barzellette da bar che li consegnò, indifesi, ai magistrati. 

Il secondo mito è, per converso, quello della Mani pulite mutilata, dell’inchiesta interrotta bruscamente a causa del ricompattamento del sistema, travasato nella cosiddetta Seconda Repubblica. Questo mito («non ci hanno fatto finire il lavoro!») promana direttamente dai dipietristi ed è servito a giustificare l’inopinata uscita di scena del pubblico ministero più popolare d’Italia appena prima di dover interrogare Silvio Berlusconi. Anche in questo caso, la realtà è tutt’altra. Innanzitutto, perché, come ha ricordato Paolo Ielo (allora giovane sostituto del pool milanese e oggi procuratore aggiunto a Roma) Mani pulite non finì nel 1994 ma proseguì per anni con altri protagonisti. Certo, aveva perso consenso: ma ciò dipese dalla stanchezza popolare per l’assai discutibile uso della galera e dal timore nato in molti italiani che, scendendo l’indagine di livello, quella galera toccasse a loro stessi. 

Accade però che questi falsi miti abbiano figliato, nel frattempo. In una parte della destra, generando una aprioristica avversione contro la magistratura fino ad atteggiamenti corrivi con i reati dei colletti bianchi (se la giustizia è ingiusta, del resto, vale il «tana libera tutti»). E, sul fronte opposto, in una certa sinistra a lungo persuasa di poter prevalere sugli avversari per via giudiziaria, e soprattutto nel primo grillismo, che ha immaginato di «completare l’opera» in piazza, magari con un lacerto di intercettazione usato come ghigliottina sui social. La magistratura stessa ha finito per assumere i vizi della cattiva politica anziché perseguirli: a riprova del fatto che non c’è toga abbastanza elastica da coprire lo strappo tra moralità e moralismo. 

È tempo che la guerra dei Trent’anni finisca. Che i ragazzi di oggi, pur in buona misura ignari di chi fossero i protagonisti di Mani pulite, non subiscano di quella stagione i miasmi politici e il cinismo antistituzionale. La ricerca di valori condivisi è mera retorica se non si superano garantismo peloso e giustizialismo giacobino, se non si esce da uno schema binario (con noi o contro di noi) recuperando il senso delle posizioni dialoganti. È difficile immaginare scorciatoie. Tuttavia, un personaggio pubblico in grado di migliorare di molto il clima sarebbe ancora in campo. 

Per paradossale che appaia, si tratta proprio di Berlusconi: il quale, senza abiure né confessioni, certo, ma solo dismettendo con un gesto, una frase, un messaggio, i panni da perseguitato della giustizia nei quali si è blindato (anche) per ragioni difensive, potrebbe aprire una nuova stagione smontando i miti fasulli della precedente. Tutto contraddice quest’ipotesi fantapolitica: rancori cristallizzati, diffidenze reciproche, la divisione in due del Paese tra berlusconiani e antiberlusconiani. Tutto, tranne il senso di una missione perfino più appassionante del miraggio del Colle: aiutare gli italiani di domani a entrare nel futuro senza inutili fardelli. 

"Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto". Chiacchierata con Goffredo Buccini, autore de "Il tempo delle mani pulite" (Laterza). Sui pm: "L'autonomia va garantita ma col pool ci fu abuso industriale degli arresti". Su Craxi e Di Pietro: "Il 1992 ha illuso una generazione e prodotto il grillismo". Stefano Baldolini su huffingtonpost.it il 22/10/2021.  “Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto”. Non ha mezzi termini Goffredo Buccini, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera, nel suo “Il tempo delle mani pulite” (Laterza), libro di ricostruzioni, di memoria e di forte autocritica. Testimone dei fatti del 1992-1994, dall’escalation “industriale” degli arresti all’avviso di garanzia all’“uomo nuovo” Berlusconi. Un biennio drammatico che ha lasciato eredità complesse e non ancora risolte. 

Domanda di prammatica: perché è nata Mani Pulite?

“Per una serie di concause, anche internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino gli italiani avevano ripreso a votare liberamente senza ‘doversi turare il naso’, per citare Montanelli. Ma soprattutto perché i soldi erano finiti. Questo è un punto dirimente. I soldi erano il centro dell’accordo fondamentale tra impresa e politica che prevedeva da una parte il finanziamento illecito e dall’altra l’accesso agevolato agli appalti. Era un intero sistema ammalato che a un certo punto si è spezzato, in un momento di grande debolezza della politica. E questo ha fatto sì che la magistratura fosse chiamata a esercitare un ruolo di supplenza che in una città viva ed eticamente reattiva come Milano è diventata l’inchiesta Mani Pulite.”

Quindi il sistema non si è ammalato con Mani Pulite?

“Certamente no. Lo era da un pezzo e produceva consenso politico. Non è un caso che negli anni ’80 abbiamo avuto l’impennata del debito pubblico. Il sistema comprava consenso pompando debito. Comprava il nostro consenso a nostre spese. Dalla fine degli anni ’70 è andato via via avvitandosi su se stesso.”

Mani Pulite inizia il 18 febbraio 1992 con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Ma in realtà il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano non parla per cinque settimane. Poi arriva la parola chiave -“mariuolo” - pronunciata da Bettino Craxi. 

“La vulgata vuole che Chiesa si sia sentito schiaffeggiato da Craxi in pubblico. In realtà penso che l’interpretazione più corretta sia che in quel preciso momento Chiesa percepì il senso di debolezza del leader socialista. Dobbiamo confrontare questa situazione con l’arresto negli anni ’80 di Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese, snodo della circolazione delle tangenti. E soprattutto padre politico di Craxi, che lo andò a trovare in carcere da presidente del Consiglio. Poi lo fece senatore, e l’autorizzazione a procedere venne negata. Fu una manifestazione di forza del sistema straordinaria. Chiesa invece, che non è scemo, capisce che è stato lasciato solo, ha grandi problemi, anche personali, da risolvere e a quel punto comincia a parlare.”

E la slavina ha inizio. Nell’aprile successivo vengono arrestati otto imprenditori. Però a differenza di Chiesa che venne preso, citando Antonio Di Pietro, “con le mani nella marmellata”, i colletti bianchi milanesi non erano in ‘flagranza di reato’. È corretto dire che quello è stato il primo cambio di fase?

“Sì, ed è un cambio di fase clamoroso. L’idea di arrestare degli imprenditori, a Milano, non in flagranza di reato è un salto decisivo. Anche perché deriva sostanzialmente dalle confessioni di Chiesa e quindi apre un meccanismo esponenziale che nel giro di qualche settimana porterà alla grande serie di arresti veri e solo minacciati e alla grande fila di confessioni davanti alla porta di Di Pietro. Ognuno di quegli otto parla di altri otto. In una gigantesca catena di Sant’Antonio, e non è una facile battuta. Non era mai successo.” 

Ma perché si era creata la corsa a confessare?

“Bisogna essere onesti, la paura di essere arrestati è molto forte. E non stiamo parlando di persone della mala milanese, ma di borghesi abituati a una certa rispettabilità, che viene compromessa. Questa cosa peraltro si riverbererà nei suicidi degli indagati. Dopo di che, da un certo punto in poi c’è una sorta di condizionamento ambientale, di una grande bolla dentro cui tutti ci troviamo. Opinione pubblica, indagati, magistrati, giornalisti. È brutto dirlo, ma come in un rito catartico collettivo.

Poi un ruolo decisivo l’hanno giocato i cosiddetti avvocati “accompagnatori” degli indagati alla stanza 254 di Di Pietro, anticipando le istanze dello stesso pm. Lo racconta bene Gherardo Colombo che parla di fila di questi “penitenti” e del problema per il pool di Mani Pulite, siamo nell’estate ’92, di star dietro a questa messe di confessioni, ammissioni, chiamate di correo...”

Il pool si è già formato?

“Il pool nasce verso maggio-giugno per affiancare a Di Pietro, lui stesso non si è mai ritenuto un giurista raffinato, due magistrati di maggiore spessore dal punto di vista giuridico, strutturatissimi, di orientamento politico opposto, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Com’è noto, a coordinare il nucleo storico c’era il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, e l’esperto di reati finanziari, Francesco Greco.”

Un gruppo composito.

“Borrelli era una grande alchimista, grande conoscitore dei suoi pm e dell’animo umano. Bisogna tener conto però che all’inizio a parte Di Pietro nessuno ci credeva, a questa inchiesta. Ed è una delle ragioni per cui i giornalisti che la seguono sono le seconda file della giudiziaria e della cronaca, non le grandi firme. Non ci credeva nemmeno Borrelli che caricava Di Pietro di ‘processetti’. E una delle ragioni per cui lo stesso Di Pietro comincia ad avere relazioni con noi giornalisti è per avere un rapporto strumentale a suo favore.”

Addirittura.

“L’uomo è molto sveglio. Fa uscire piccoli brandelli di notizie, per spaventare questo o quell’indagato, ma soprattutto per mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica. E il suo obiettivo era tenere alta l’attenzione per tutto il tempo necessario per produrre effetti ulteriori. Fino alla grande svolta mediatica che arriva il primo maggio ’92 con il sindaco e l’ex sindaco di Milano, Tognoli e Pillitteri, indagati. Quando si capisce per la prima volta dove si stava andando a parare.”

“Solo chi confessa spezza il vincolo associativo: non può delinquere, quindi può uscire di galera”. Il metodo del ‘dottor sottile’ Davigo è efficace. 

“Intendiamoci su Davigo che nonostante si sia perso nelle sue reiterate iperboli per ‘épater le bourgeois’, da piccolo borghese lombardo che ama stupire, ha una fortissima cultura giuridica. Tuttavia, quel metodo era odioso e oggi provocherebbe reazioni molto forti. Ma non era un metodo illegale, com’è stato ampiamente riconosciuto, concorrendo nel manager o nel politico le note ragioni per cui puoi arrestarlo: il pericolo inquinamento prove, di reiterazione di reato e pericolo di fuga. Il problema semmai è l’abuso, è l’uso industriale. Ma questo diventa possibile proprio in virtù della debolezza della politica, del sistema, che non fu in grado di reagire in modo credibile e anzi si divise, e iniziò a scappare da tutte le parti. Anche con una certa miopia, e qui arrivo al discorso di Craxi del luglio del ’92. Alla chiamata di correità, a cui si reagisce o col silenzio o pensando di trarne vantaggio, senza capire che stava saltando tutto.” 

Per parlare di responsabilità, però neanche voi giornalisti che raccontavate Tangentopoli dagli albori avete colto che qualcosa non andava. Che c’erano delle storture, a partire dal metodo, dallì‘abuso ‘industriale’ degli arresti?

“Detto con una battuta, perché in parte su di noi aveva ragione Berlusconi.”

In che senso?

“Quando si è lamentato che i giornalisti sono tutti comunisti, ci è andato vicino. È indubbio che la mia generazione si è formata a sinistra. Il gruppo di ragazzini che seguivamo i fatti di Palazzo di Giustizia di Milano, tutti tra i 28 e i 32-33 anni, a parte rare eccezioni, era fortemente orientato a sinistra. Cresciuto in ambienti politici, universitari, liceali, di sinistra. Un grande brodo di coltura dove più o meno si pensava che Craxi fosse un manigoldo, Ligresti fosse un imprenditore della Piovra, che gli andreottiani fossero tutti marci. Così quando ti trovi a seguire un’inchiesta che ti racconta esattamente questo, tu pensi ‘hai visto, hai trovato la verità, non c’è altra verità da cercare’. Nel libro uso l’espressione: ‘Eravamo gli eroi del nostro stesso fumetto’.”

Sintesi notevole.

“Allora, io ho sempre pensato che uno che ha vent’anni e vuole fare il giornalista e non vuole cambiare il mondo, a cinquanta fa una brutta fine, perché è un mascalzone. A vent’anni devi avere dei sogni, delle utopie. Il problema è che quando ti sembra si stiano realizzando, devi essere pronto anche a guardare altrove. A non accontentarti di dire ‘è fatta’. Almeno questo è stato il mio sbaglio, la mia responsabilità. Poi ognuno si assuma le proprie.”

Quindi è stato un errore di visione politica?

“Direi di visione culturale. Eviterei di associare l’idea del Minculpop rosso al nostro pool. Che peraltro durò un anno e che nacque per le stessa esigenze del pool di Borrelli. Noi avevamo dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno. Non aveva senso farsi concorrenza tra testate, anzi il tuo unico problema era verificare che fossero tutte vere, non polpette avvelenate, che pure giravano, perché erano in molti a voler inquinare l’inchiesta. Tant’è che il pool dei giornalisti è finito, si è spaccato, quando è entrato in ballo il Pds e la Fininvest, le grandi questioni divisive, e quando le notizie sono diventate di meno. Quando la spinta di Mani Pulite iniziò ad affievolirsi e il consenso generale scemare perché - come racconta Gherardo Colombo - dagli intoccabili si iniziava a scender per li rami, a sfiorare la gente comune.” 

Quanti eravate prima di dividervi?

“Una decina, e non abbiamo guardato in tutte le direzioni perché quella direzione corrispondeva a una nostra formazione culturale. Errore gravissimo. Sto dicendo che altrimenti avremmo scoperto una Spectre dietro Mani Pulite? No, perché non lo penso nemmeno oggi. Ma avremmo scoperto che gli eroi non sono tutti giovani e forti ma sono anche dei personaggi con una vita con dei compromessi. Avremmo potuto tingere di chiaroscuro il nostro quadro per permettere ai lettori di averne uno più vero. E in secondo luogo avremmo dovuto avere più attenzione ai diritti individuali. Dietro a ognuno di quegli indagati c’era una persona, e io, parlo per me ovviamente, questo non lo coglievo molto chiaramente.”

Un’autocritica forte.

“Assolutamente. Per dire, il primo indagato che ho visto come persona è stato Sergio Cusani. Di Sergio Moroni, ho scritto due righe quando è stato indagato e l’ho ritrovato a settembre quando si è suicidato. Non l’ho mai visto. Ma il punto era proprio quello. Quando tu scrivi della gente dovresti guardarla in faccia. Non era semplicissimo allora ma avremmo dovuto farlo. Quando ho guardato in faccia Cusani ho visto una persona estremamente più complessa, comprensibile e persino giustificabile, rispetto a quello che era stato tratteggiato semplicisticamente come ‘il Marchesino rosso’ dal chiacchiericcio della procura.” 

Se ho capito bene si è trattato di una fase molto disumanizzante.

“Non c’è dubbio e questa è una responsabilità che ci portiamo dietro. Certo, abbiamo attenuanti, bisognava starci per capire quanto il contesto fosse complicato per mantenere la barra dritta.”

Traspare un po’ di senso di colpa.

“Il senso di colpa è una categoria che non mi piace mettere dentro un dibattito pubblico. Eventualmente faccio i conti con me stesso. Sicuramente, dopo i primi suicidi avremmo dovuto lavorare diversamente. La lettera di Moroni - premesso che tutte le accuse a suo carico saranno confermate e i coimputati tutti condannati - ha una forza che viene colta dall’opinione pubblica, dai giornali, ma archiviata troppo in fretta. Avrebbe dovuto accompagnarci nel lavoro dei mesi successivi, invece fummo subito presi dalla rincorsa ‘alla prossima cosa’. Al vero bersaglio di quella stagione, il ‘toro’, Bettino Craxi. Il cui avviso di garanzia arrivò dopo tre mesi. Inoltre c’era una retorica odiosa, autoassolutoria e un po’ ipocrita, per cui la colpa dei suicidi era del sistema a cui apparteneva il suicida. Sicuramente abbiamo fatto, e ho fatto, errori importanti.”

Non per discolparti, e prendendo spunto dallo straordinario spaccato del giornalismo italiano di quegli anni che si trova nel libro, c’è da dire che le responsabilità non erano solo di chi come te stava in procura, o per strada, ma anche dei vostri superiori...

“Non c’è dubbio. Ma i giornalisti italiani, capiredattori, direttori... non erano scesi da Marte, ma appunto erano italiani e stavano in un Paese dove la selezione, le scelte erano fortemente condizionati. Si sono mescolati il senso di appartenenza, che poi diventava colpa, a senso di opportunismo. Non c’è bisogno di citare Flaiano per parlare degli italiani, della capacità di passare dalla parte dei vincenti.”

Come vincente fu l’irruzione di Berlusconi, nel momento più duro per il ‘toro’ ferito Craxi.

“Questo è il paradosso di tutta la storia. Berlusconi era un uomo con i colori della Prima Repubblica eppure viene percepito come nuovo. Gli stessi italiani che, nel giorno dei funerali per le vittime della bomba di via Palestro, inneggiano a Borrelli, Di Pietro e co., una sorta di corteo spontaneo e forcaiolo, sono gli stessi che neanche un anno dopo plebiscitano l’imprenditore più assistito dal sistema della Prima Repubblica. Questo è un popolo che cerca sempre una palingenesi ma non si guarda mai dentro. E non è un gran popolo.”

Non salvi né Craxi né Di Pietro. 

“Perché ciascuno dei due ha compiuto mosse che hanno condizionato gli italiani nel non credere ulteriormente nell’Italia. E non parlo delle vicende strettamente giudiziarie. Ma se un uomo di Stato a fronte di due condanne definitive comminate da sei collegi di magistrati se ne va all’estero, cosa sta dicendo agli italiani? Che non si può credere al Paese che pur si ama.

Prendiamo poi Di Pietro, che esce dalla magistratura in modo ambiguo e inspiegabile, e due anni dopo aver interrogato duramente Prodi come testimone diventa suo ministro. Per non parlare della candidatura al Mugello sostenuta dallo stesso Pds che la vulgata dice essere stato graziato dalle sue inchieste. Il combinato disposto delle due cose produce il messaggio che non si può credere alla magistratura. Se il moralizzatore passa alla politica che non è riuscito a moralizzare, non c’è nulla di vero. L’esito finale di queste due vicende personali è, molti anni, dopo il grillismo, l’onda selvaggia, la fine della credibilità delle istituzioni. Tu deludi e uccidi i sogni di un’intera generazione, i ragazzi degli anni ’90.” 

Siamo arrivati alla ‘rivoluzione interrotta’.

“Sì, anche se non penso affatto che quella fosse una rivoluzione. I Paesi non cambiano così. La scelta giusta, di medio e lungo periodo, l’ha fatta invece Gherardo Colombo, che ha lasciato la magistratura e ha iniziato a insegnare. Con l’idea che si debba ripartire non dai processi, ma dalla formazione di una classe dirigente, di una cittadinanza. La via giudiziaria non è risolutiva.” 

Concludendo, in occasione del trentennale di Mani Pulite, anche grazie al tuo libro, non c’è un rischio revisionismo? Senza parlare di criminalizzazione dei magistrati, che comunque ce la stanno mettendo tutta per perdere di consenso, non si corre il pericolo opposto, che non debba salvarsi proprio nulla del ’92? 

“Assolutamente. Di quel periodo va invece salvata la spinta di molta gente in perfetta buona fede. Va salvata in parte l’autonomia della magistratura, da rivedere ma non da cancellare completamente col rischio di uno scenario ungherese o polacco, di asservimento all’esecutivo. È stata una stagione di grande speranza, che non va buttata via. Però dopo trent’anni credo che se ne possa parlare diversamente, abbandonando i radicalismi, senza vedere l’altra parte necessariamente come un nemico. Basta con la storia della ‘rivoluzione’ contro i ‘manigoldi’. Troviamo una medietà e una compostezza che dobbiamo anche ai nostri figli. Ecco, io vorrei poter parlare con i ragazzi dell’età di mia figlia di quella storia, e del nostro mestiere. Perché quella è stata anche la storia del nostro mestiere. E di come questo si possa fare con più autonomia, con più coraggio, e forse con più attenzione.”

Mani Pulite? Ha fatto meno errori di quelli che vede Buccini. Tano Grasso su L'Espresso il 4 dicembre 2021. Goffredo Buccini, "Il tempo delle mani pulite. 1992-94", Laterza, euro 18. Avevo appena finito di scrivere la recensione del libro dell’inviato del Corriere della Sera Goffredo Buccini che racconta i due anni di “Mani pulite”, dall’arresto di Mario Chiesa alle dimissioni dalla magistratura di Antonio Di Pietro, quando sono stato costretto a rivederla dopo che era apparso sul Corriere un editoriale dello stesso Buccini con il titolo “Trent’anni dopo ‘Mani pulite’: è tempo che la guerra finisca” (20.11.21). Lo si interpreti come un lungo post scriptum o un capitolo-bis di quello conclusivo del libro (“Trent’anni dopo”), l’articolo affronta problemi con un’accentuazione che non si era percepita nelle 232 pagine del libro. 

Nell’articolo Buccini interviene con più nettezza rispetto alla conclusione del libro dove auspica «la riconciliazione e il riconoscimento reciproco» come condizione per superare il «moto pendolare inesausto tra un giustizialismo fazioso e un garantismo peloso» (p. 231). Il problema è, prima ancora, intendersi su questa “guerra dei Trent’anni”, sui suoi protagonisti e se e in che modo è stata combattuta. È innegabile l’esistenza di quelle due correnti in settori di opinione pubblica, ma la loro dimensione varia nel tempo, a  volte si estende a beneficio dell’una e si restringe in danno dall’altra e viceversa.

Probabilmente continueranno a permeare il dibattito pubblico: per fare un esempio, il populismo ha sempre attraversato un pezzo di storia politica, per molto tempo è stato marginale, qualche volta è stato al Governo. La soluzione non si trova tra giacobini e garantisti.  La palla è nelle mani di chi non ha condiviso quei due miti o ha iniziato ad allontanarsene, un’area trasversale che deve essere ulteriormente estesa e, soprattutto, deve trovare voce autorevole per propugnare una normalità fondata sulla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia dei giudici. Prima ciò avviene, prima andranno incontro ad un destino residuale.

Quindi, quando si parla di “guerra” è indispensabile distinguere lo scontro tra correnti d’opinione dall’aggressione di una parte politica contro la magistratura. Si tratta di grandezze tra loro incommensurabili. Bene ha fatto Buccini in tutte le pagine del suo libro a raccontare una storia che non ha avuto nulla di golpe giudiziario. Esiste un problema tra magistratura e politica e di tutela di un equilibrio istituzionale? Bene, si discuta di questo; ma non di una guerra che una parte politica (Berlusconi e dintorni) ha sferrato all’indipendenza della magistratura, una guerra dichiarata unilateralmente.

Vero è che negli ultimi anni si sono sommati errori, eccessi, degenerazioni all’interno di settori della magistratura italiana, ma questo non giustifica il riferimento ad una guerra combattuta tra due parti contrapposte. Né tanto meno la questione si può risolvere con un beau geste di Berlusconi. Altro serve, altri devono agire. Infine, temo che la tesi di una guerra a cui porre termine possa diventare un’idea consolatoria, idonea ad offrire nuovi alibi, rimandando tutto al punto di partenza in un disperato e ripetitivo gioco dell’oca.

Buccini offre varie possibilità di lettura del libro (come sottotitolo potrebbe avere “Col senno di poi”, un’espressione usata dall’autore in più luoghi). Spiega Primo Levi: «I fatti storici acquistano il loro chiaroscuro e la loro prospettiva solo a qualche decennio dalla loro conclusione». Può essere svolta una rigorosa valutazione storica su fatti e persone di 30 anni fa senza per questo mettere in discussione il valore di quella esperienza? Decisivo è non perdere il senso della storia: il senno di poi non può significare guardare con gli occhi di oggi, ma con il rispetto di quel contesto e di quel momento. Ciò non esclude di interrogarci sulla possibilità, per diversi attori (politica, magistratura, informazione), di alternative credibili. Erano possibili altre scelte? A partire dalla politica.

In questi anni è prevalsa una vulgata secondo cui le indagini dei giudici di Milano hanno determinato la fine della prima Repubblica. Non è così: la Repubblica dei partiti è deceduta per suicidio. Mani pulite è stata semplicemente la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un sistema già da tempo agonizzante, come ha dimostrato la totale assenza di lucidità politica dei partiti negli anni 1992-93, sia nell’interpretazione degli avvenimenti che nella loro gestione: era come vedere pugili suonati in attesa della spugna sul ring.

Questa disfunzione ha continuato a caratterizzare in buona parte la vita politica negli anni successivi come se una forza oscura impedisse alla Seconda repubblica di crescere ed affermarsi. Buccini offre due importanti sollecitazioni. In primo luogo, emerge l’assenza cronica del principio di responsabilità politica, l’incapacità di esercitare una autovalutazione sui comportamenti dei propri dirigenti indipendentemente dagli esiti dell’azione penale. Una abnormità che continua a permanere ancora oggi nella vita delle organizzazioni politiche costituendo un gravissimo vulnus alla loro autorevolezza.

Quando Borrelli alla vigilia di Natale del 1993 a pochi mesi dalle elezioni politiche invita «chi farà politica domani», «chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte» (p.1 39), di fatto, pone la necessità di ricondurre l’azione penale alla sua fisiologica funzione e, dall’altro, sollecita i partiti a riappropriarsi del principio di responsabilità.

Naturalmente le esortazioni non sortiscono alcun effetto e, così, la storia continua a girare a vuoto. Se si consegna ai pubblici ministeri la selezione della propria classe dirigente ogni procedimento penale è destinato a diventare terreno di scontro politico. È da qui che nasce la stagione del populismo giudiziario, l’attribuzione di una funzione diversa dalla giurisdizione ai magistrati in quanto tali, chiamati ad assumere il ruolo di interprete delle reali esigenze di giustizia del popolo e a cercarne il consenso. Tutto è regolato dalla proporzionalità inversa: meno credibile e certa è l’assunzione di responsabilità politica, maggiore sarà la forza della delega alla magistratura. Il principio della responsabilità politica è la principale premessa per il recupero dell’autonomia della politica e, quindi, della sua autorevolezza, con conseguente ridefinizione del ruolo della magistratura secondo la sua funzione originaria.

Nel commentare l’esibizione di un cappio alla Camera dei deputati nella seduta del 16 marzo 1993, scrive Buccini: «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese» (p. 92). Ecco la seconda sollecitazione del libro. Solo la politica contro altra politica può determinare cambiamenti duraturi e non effimeri. Si è assistito in quel biennio a una situazione paradossale: tanto l’opposizione di destra che l’opposizione di sinistra, anche se questa con esitazioni e non sempre con compattezza, si sono trovati a cavalcare l’onda delle indagini milanesi, nel frattempo estese ad altre regioni (quasi in ogni procura italiana emerge un “dipietro”). Con un’inesorabile nemesi storica.

Tre decenni di storia politica hanno dimostrato che l’unico esito politico possibile della “rivoluzione giudiziaria” è il populismo politico e gli unici beneficiari, non a caso, sono stati la Lega, in quella fase politica, e il Movimento 5 Stelle negli ultimi anni. La Lega non ha tenuto conto che quella rivoluzione giudiziaria, prima o poi, sarebbe scesa dai gradini più alti per raggiungere quei settori, le cosiddette partite Iva, la cui ricchezza si fonda su margini, più o meno ampi,  di illegalità, a partire dall’evasione fiscale.

Buccini fa parlare Gherardo Colombo: «All’inizio delle indagini, le prove coinvolgono persone molto in alto, con cui quasi nessuno si può identificare […] Via via che l’inchiesta prosegue, però, le prove ci portano a scoprire la corruzione di persone comuni […] La disponibilità si trasforma in chiusura e i canali di afflusso delle prove progressivamente si inaridiscono» (p. 155). Per la sinistra il discorso è diverso: la lotta politica per via giudiziaria, estranea alla sua tradizione, si ritorce come un boomerang con il successo di Berlusconi alle elezioni del 1994; per poi ritorcersi anche contro il tycoon che con le sue televisioni aveva esaltato quei due anni di indagini. Già in questa fase inizia ad avverarsi la profezia di Sergio Cusani: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima» (p. 130).

Veniamo alla magistratura. Le indagini da subito rendono evidente che non si tratta solo di finanziamento illecito dei partiti, secondo la tesi craxiana. Le imprese «pagando quei soldi truccavano a loro vantaggio le gare d’appalto e facevano fuori la concorrenza in modo sleale» (p. 90). Rispetto ai politici e ai giornalisti l’ambito per scelte alternative da parte dei magistrati nell’esercizio dell’azione penale è particolarmente ristretto: da un lato questa è disciplinata da norme precise, dall’altro ogni atto è sottoposto alla verifica dei meccanismi di controllo interni sino alle sentenze delle varie corti.

Se sul merito delle indagini, pur di fronte agli inevitabili errori e a certe forzature, si può tenere un giudizio moderatamente critico, le cose cambiano quando ci si riferisce all’approvazione popolare, un discorso che, scrive Buccini, «ha un retrogusto inquietante» (p. 128). È quello che avviene con il decreto Conso e quello Biondi. Nel 1993 Borrelli legge un comunicato per denunciare «la paralisi delle indagini» e la fine «di qualunque forma di collaborazione» (p. 92); l’anno successivo sono i quattro pubblici ministeri del pool a presentarsi davanti alle telecamere per accusare con la voce di Di Pietro quel provvedimento che «non consente più di investigare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato» (p. 177).

Oggi, di fronte a interventi di questo tipo, si avrebbe una quasi corale reazione di rigetto, nel mondo politico e nell’informazione; ma oggi quanto accaduto con il decreto Biondi non potrebbe accadere, anche perché il prestigio di cui gode l’ordine giudiziario non è per nulla paragonabile a quello di quegli anni. E nel 1993 e nel 1994? Nel primo caso, a parte alcuni esponenti dell’ex pentapartito, pochi sono quelli che mettono in discussione l’intervento del pool; nel 1994, in una situazione completamente diversa per il successo elettorale di Berlusconi, sull’iniziativa del pool si divide la nuova maggioranza costringendo il Governo ad un passo indietro.

La parte più interessante e originale del libro è quella con il diretto coinvolgimento personale dell’autore quando esamina il ruolo dell’informazione. Ed è come assistere ad una seduta di autocoscienza (e, ovviamente, anche di autocritica).  Intanto si apprende che il “pool dei giornalisti  ragazzini” che seguono le vicende di Mario Chiesa sono divenuti organo di polizia giudiziaria: «Le prime fughe di notizie pilotate seguono insomma questa doppia strategia: spaventare il detenuto che continua a tacere e fomentare l’opinione pubblica o, almeno, cercare di tenerla desta» (p. 19).

A proposito della tragedia di Sergio Moroni, il deputato socialista indagato e suicida, Buccini descrive bene il clima e i sentimenti prevalenti in una parte del mondo dell’informazione: «Dovremmo fermarci? Smettere di sparare ogni nome sul giornale? Impossibile mi dico […] Forse dovremmo fermarci a pensare, dovrei, forse dovremmo staccare, stoppare la macchina, discutere qualche giorno […] Ma il giorno dopo l’inchiesta ricomincia, altri arresti, altri avvisi, altri blocchi da cinquanta o sessanta nomi, sta cambiando il mondo, forse lo stiamo cambiando anche noi, sotto a chi tocca» (p. 67).

E, ancora, altri interrogativi a proposito dell’avviso di garanzia a Craxi, “il Cinghialone”: «Dovremmo chiederci se sia normale che un’inchiesta abbia un bersaglio, peraltro marchiato con un nomignolo così feroce. O se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo l’atto di accusa contro un indagato» (p. 74).

Quando poi maldestramente viene messo in discussione Di Pietro, Buccini è ancora più netto con la sua professione: «Abbiamo perso qualcosa di essenziale della nostra funzione, guardando troppo spesso in una sola direzione e non consentendo a tanti lettori moderati e non militanti di formarsi un’opinione davvero indipendente» (p. 127).

Tutte riflessioni che meritano di essere seriamente valutate ancora oggi: il potere dei media è immenso, incide sull’onore e la dignità delle persone, è un grande potere («Se il titolo è grande la notizia diventa subito importante», spiega seccamente il signor Kane in “Quarto potere”) che richiede grande responsabilità nel praticarlo. E, soprattutto, deve essere indipendente dagli altri poteri se vuole esercitare bene il proprio, offrendo, quando occorre, anche una valutazione critica sugli atti giudiziari.

“Una notte di luglio a Milano”, sicuramente il capitolo più bello e più coinvolgente del libro (la strage del 27 luglio 1993 in via Palestro a Milano), aiuta a capire cosa fosse diventata l’Italia in quegli anni: «Lo sbandamento è generale», scrive Buccini. «Forse il luglio ’93 è il mese più buio della Prima Repubblica, forse siamo già nella cosiddetta Seconda, noi non ce ne siamo accorti ancora ma i criminali sì e ci hanno anticipato» (p. 111). Anni terribili quelli, da Capaci a via d’Amelio, a Firenze, Roma, Milano e ognuno di noi da quegli eventi è stato indelebilmente segnato.

Mani pulite è una pagina positiva scritta da una magistratura finalmente indipendente: viene abbattuto il tabù dell’impunità dei colletti bianchi; politici, imprenditori, professionisti, funzionari rispondono davanti alla legge. Indubbiamente vi sono stati errori e forzature, ma non tali da alterare il giudizio d’insieme (neanche su Di Pietro: l’analisi del personaggio delineata dall’autore non mi ha convinto).

Nel tempo, e c’è ne è stato tanto, a quegli errori si sarebbe dovuto porre rimedio. Anche se non ho condiviso alcune affermazioni di Buccini, mi trovo d’accordo quando afferma che bisogna «smettere di chiedere ai magistrati di supplire alle nostre carenze, invocandone l’intervento salvifico dove non siamo capaci di riformarci come corpo sociale e politico, per poi dolerci delle loro invasioni di campo» (p. 231).

E ritorniamo alla politica: da un lato ha continuato a vivere con soggezione e subalternità il rapporto con la magistratura (una parte importante della sinistra) e, da un altro lato, si è scatenata in brutali campagne di delegittimazione e di attacco frontale all’indipendenza dei giudici offrendo quelle nefaste leggi ad personam (Berlusconi e dintorni). Tuttavia, neanche la magistratura ha dimostrato la capacità di porre rimedio a quegli errori, sino alle degenerazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Ma sarebbe una grave mistificazione della Storia far risalire il “sistema” emerso con il caso Palamara all’esperienza positiva di Mani pulite.

"Il Tempo delle Mani pulite". La storia la scrissero i magistrati segnando la morte della politica. Francesco Storace su Il Tempo il 12 dicembre 2021. Un libro che riavvolge il nastro sulla politica italiana. Come eravamo, potremmo dire leggendo tutte le pagina de “Il Tempo delle mani pulite”, scritte da Goffredo Buccini – penna brillante del Corriere della Sera – edito da Laterza. Buccini è uno dei protagonisti di una storia trentennale: fu sua la notizia – diventata storia – che nel ’94 informò gli italiani dalla prima del Corrierone dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi. Era appena diventato premier, presiedeva un’importante riunione internazionale contro il crimine. I magistrati di Milano non lo perdonarono.

Per quanto tempo sei stato orgoglioso di aver dato per primo notizia di quell’avviso di garanzia a Berlusconi?

“Orgoglio non è la parola giusta. Pensavo di star facendo il mio mestiere e ancora penso di averlo fatto. Allora ero un cronista e il lavoro di un cronista è trovare notizie: quella era una signora notizia e, una volta accertato che fosse vera, andava data, senza se e senza ma. Naturalmente si poteva e si può discutere (e molto si è discusso) sull’opportunità che la Procura mandasse un invito a comparire a Berlusconi nei giorni di un vertice mondiale sulla criminalità che proprio Berlusconi presiedeva quale premier italiano. La Procura ha sempre sostenuto che la scelta di tempo fosse obbligata dall’indagine. Io ho sempre pensato che la scelta di tempo fosse infelice.”  

E immaginavi che sarebbe accaduto il finimondo?

“Certo che sì. Ed ero anche molto preoccupato. Nel libro racconto anche di quelle ore, dell’ansia, della notte insonne prima che la notizia fosse confermata. Eravamo certi di ciò che pubblicavamo sul Corriere della Sera, ma in un caso così delicato la certezza non è mai abbastanza. Poi ho impiegato anni per togliermi di dosso lo stigma di quella notizia. Ci sono notizie che possono schiacciare un giovane giornalista: e io ero giovane”. 

Quanto ha influito il giornalismo di mani pulite nell’azione dei giudici?

“Certamente l’azione di sostegno che il giornalismo fece in quegli anni è stata molto importante nella creazione di una certa mitologia sull’indagine e sugli inquirenti. Ed è stata anche responsabile di omissioni. Nel libro spiego chiaramente che avremmo dovuto guardare di più e meglio la vicenda e i suoi protagonisti. Eravamo, noi cronisti, giovani e quasi tutti formati a sinistra da ragazzi. Dunque, con un’idea precisa e preconcetta di verità riguardo alla moralità di certi socialisti autonomisti “traditori” della causa, a quella di certi imprenditori che parevano la caricatura della Piovra. Se per strada incontri un’inchiesta che ti dimostra proprio quelle cose, ti convinci che la verità sia tutta lì e non ci sia bisogno di guardarla da altre angolazioni. Sbagliato. E te lo spiego con un esempio. Sergio Moroni, il deputato socialista che si uccise a settembre 1992 dopo un avviso di garanzia, era colpevole, sì, di finanziamento illecito (lui stesso lo ammetteva nella lettera d’addio): ma non era un ladro, non s’era mai messo in tasca un soldo; la verità è una ma ci sono molti modi per spiegarla. Mettere tutti nello stesso calderone è stato uno sbaglio”.     

La politica è cambiata o è rimasta la stessa?

“La politica è morta. Le culture politiche non si sono mai riprese da allora. Trent’anni dopo il sistema è ancora in grave fibrillazione e in piena transizione, non è chiaro verso dove. Va però detto che la politica aveva fatto harakiri. La storia del golpe giudiziario è una balla. Durante tutti gli anni Ottanta i partiti avevano comprato consenso in cambio di debito pubblico e finanziamenti illegali in cambio di appalti truccati. Quando la crisi economica fa scarseggiare i soldi, salta il patto con gli imprenditori. Mani pulite nasce così, altro che golpe”.

Craxi, Berlusconi: trent’anni dopo li rileggi con lo stesso giudizio di allora?

“Craxi è luci e ombre. Ha avuto grandi intuizioni e grandi colpe: l’errore principale è che sei uno statista (e lui lo era) non puoi restare in latitanza con due condanne definitive addosso, stai dicendo agli italiani che dell’Italia non ci si può fidare. Al netto della vicenda giudiziaria, Berlusconi è ancora oggi parte della questione. Trent’anni dopo il Paese continua a dividersi tra berlusconiani e antiberlusconiani. È ora di smetterla e lui dovrebbe fare un passo verso la pacificazione: è l’unico che può farlo oggi tra i protagonisti di allora”.   

Perché la sinistra fu salvata?

“Intanto il Pds milanese fu investito pesantemente dall’inchiesta. Quanto al livello nazionale, penso che abbia fatto molta differenza lo schermo delle cooperative: quelli erano comunisti, non parlavano al primo tintinnio di manette, Greganti lo dimostra. E comunque il Pds fu miope, perché nessuno si è salvato. Una simile frana ammazza tutta la politica, senza superstiti”. 

E la magistratura? Davvero siamo tutti colpevoli e se assolti l’abbiamo semplicemente fatta franca?

“Quella è una (infelice) iperbole di Davigo che molti citano in modo strumentale. Direi però che la magistratura ha seguito lo smottamento della politica. È diventata pura lotta per il potere, le sue correnti stanno disorientando l’opinione pubblica, creando sfiducia tra la gente. E questo è molto pericoloso in termini di tenuta sociale”.  

Vedere Piercamillo Davigo sotto indagine che effetto ti fa?

“Premetto che considero Davigo un servitore dello Stato. Perciò provo tristezza. Citerei Aznavour: il faut savoir, devi sapere quando alzarti dal tavolo con grazia. Lui non ci è riuscito a tempo debito e gli stanno mettendo in conto trent’anni, non merita una demonizzazione ad opera per lo più di carneadi. Eviterei di cercare un altro capro espiatorio nella storia”.

Ogni anno mille innocenti - lo dicono i processi con le sentenze - vengono assolti. Il tempo non sembra cambiare mai 

“Il tema è ancora tutto sul tavolo da trent’anni (anzi da prima, se pensi al caso Tortora), in attesa di una revisione complessiva. Però la politica è troppo debole per affrontarlo, ha paura della gente: quindi passa ancora da eccessi di giustizialismo feroce a forme di garantismo peloso, si invoca tolleranza zero ma solo contro chi non ci sta simpatico. Occorre equilibrio, una dote che nel panorama politico contemporaneo sembra quasi del tutto assente”.

Il cittadino comune che assiste allo spettacolo che rivoluzione deve ancora attendere?

“Il cittadino potrebbe imparare prima o poi a non delegare la rivoluzione a qualche mallevadore cui poi attribuire tutte le colpe dei fallimenti nell’arco di una stagione. Per ricondurre la magistratura nel suo alveo forse basterebbe smettere di invocarla quale supplente quando non riusciamo a riformarci per via politica per poi demonizzarla a causa delle sue invasioni di campo. Lo Stato siamo noi non è uno slogan, è un programma per un domani migliore”.

Il vuoto identitario e la ricomposizione della sinistra. Cicchitto sbaglia, Enrico Berlinguer non era un giustizialista. Michele Prospero su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Nella sua riflessione (uscita sabato sul Riformista) Fabrizio Cicchitto si interroga sulle ragioni della conversione al giustizialismo da parte dei comunisti. Ne indica due. La prima conduce alle relazioni intessute da Violante con alcune grandi procure, viste come il motivo che spiegherebbe una certa benevolenza dei magistrati verso le pratiche illecite di reperimento di denaro compiute anche dai vertici di Botteghe Oscure. Più interessante, rispetto a questo tasto polemico nel quale si avverte ancora la ferita aperta per la incidenza delle manette nella uccisione del Psi, è l’altro che coglie l’impatto di alcuni mutamenti intercorsi nella cultura politica del Pci già ai tempi di Berlinguer.

Non c’è dubbio che una distanza si avverte tra il primo Berlinguer, regista di una clamorosa espansione elettorale del Pci, e il leader che nei primi anni ’80 deve gestire una ritirata strategica che non riguardava solo la sinistra italiana. Uno dei punti più elevati della cultura politica di Berlinguer si può rintracciare nell’importante comitato centrale del giugno 1974, nel corso del quale egli riservò alcune bacchettate a Terracini, Longo, Spriano (su questo snodo ha richiamato l’attenzione G. Crainz, Il paese mancato, Roma, 2003, p. 495). In discussione era la recente legge sul finanziamento pubblico dei partiti e Umberto Terracini pronunciò un intervento durissimo nel quale (era ancora fresca la strage di Brescia) chiedeva lo scioglimento per decreto del Msi, senza attendere alcuna pronuncia dei tribunali. Inoltre egli si scagliava contro i soldi statali alle organizzazioni politiche. «Non c’è giustificazione che valga a tacitare lo stupore esterrefatto popolare», disse, dinanzi a «un provvedimento in sé impopolare» come quello della destinazione dei fondi del contribuente ai movimenti politici (comprese le formazioni neofasciste).

Anche Paolo Spriano concesse qualcosa alle istanze anti-partito dell’epoca asserendo che «se è vero che il termine classe politica è un termine di confusione e di mistificazione» occorreva tuttavia delineare una partecipazione di massa che andasse ben oltre «le rappresentanze tradizionali di partiti». Di altro segno erano le parole di Napolitano che, come risposta alle degenerazioni della politica, anticipò il tema delle «modifiche istituzionali che possono essere necessarie per superare la crisi di funzionalità del regime democratico». La replica di Berlinguer stigmatizzò come «puramente demagogica» l’ostilità di Terracini al finanziamento pubblico dei partiti. Molto nitide furono le sue connessioni tra autonomia della politica dai poteri privati (anche grazie alla copertura finanziaria pubblica dei costi della politica) ed effettiva moralizzazione della vita democratica. «Al di là della cortina fumogena di tutte le ipocrite prediche moraleggianti sulla classe politica», Berlinguer invitava a valorizzare, anche con i riconoscimenti economici necessari, la funzione democratica e costituzionale dei partiti.

Tra queste drastiche censure alla demagogia antipolitica e le parole, quasi da precursore di Travaglio, riportate nell’intervista a Scalfari sette anni dopo c’è un abisso. Forse aveva ragione Ferrara ad avanzare qualche dubbio sulla fedeltà della trascrizione. Comunque non era giustizialista il senso ultimo della diversità berlingueriana. Si trattava di un retaggio terzinternazionalista, presente anche in Togliatti o in Amendola, che lo coniugava con il rigorismo etico della destra storica, e che coincideva con il mito del partito, con l’intransigenza morale della militanza rivoluzionaria (“una scelta di vita”). E, più che ai tribunali, l’ultimo Berlinguer guardava alla fabbrica. Con un solco scavato rispetto al realismo totus politicus togliattiano, scendeva sul piano del sociale ed evocava «un movimento di massa che spontaneamente esprime l’animo popolare e la coscienza di classe».

È solo con la caduta dell’identità comunista che la diversità assumerà i colori del nuovismo e del giustizialismo raccattati nel mercato delle idee come surrogati dell’ideologia archiviata. Occhetto fece la scalata alla leadership con un impianto neocomunista che alludeva «ai vari salti qualitativi e non alle semplici correzioni miglioriste». Caduto il Muro, il vuoto identitario venne riempito con una tattica movimentista che collocava la Quercia vicino alle toghe e ai gruppi referendari. Scartata la via della ricomposizione della sinistra storica italiana, il modo di sopravvivere fu trovato dal Pds (come ha testimoniato Piero Sansonetti in un libro di alcuni anni fa, La sinistra è di destra, Milano, 2013) nella sintonia totale con i grandi giornali padronali rapiti dinanzi al fascino del tintinnio delle manette.

Più che in trattamenti di favore ricevuti nelle inchieste o in un condizionamento dei risultati dell’azione penale, il giustizialismo del Pds si può misurare nel rigetto di ogni soluzione politica a Tangentopoli.

La sua ostilità ad ogni risposta di sistema alle consuetudini di illecito finanziamento dei partiti pare riconducibile alla subalternità culturale rispetto alle forme dell’antipolitica che nei primi anni ’90 risultarono egemoni nella fase fondativa della seconda Repubblica. Si tratta di una manifestazione di giustizialismo ancora più pesante di quello “darwiniano” che lamenta Cicchitto, perché esso ha una radice culturale e ha scavato un fossato mai più riempito dai post-partiti che vagano impotenti nel tempo storico del populismo. Michele Prospero

Il Pci di Berlinguer non era manettaro ma anti-craxiano. Michele Prospero su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. La replica di Fabrizio Cicchitto contiene alcuni spunti di analisi che sarebbe un peccato non cogliere per cercare di definire meglio i punti di dissenso (su dettagli per così dire filologici) rispetto alla condivisione della censura definitiva del giustizialismo come malattia distruttiva che ha prodotto una devastazione trentennale della democrazia dalla quale ancora non si esce. La “diversità” è un punto forte della stagione berlingueriana e tracce se ne ricavano in certa misura anche in Togliatti. «Noi siamo un organismo politico; siamo però un organismo politico di tipo speciale», diceva. La diversità era in lui declinata con vocaboli vagamente religiosi (come vocazione, entusiasmo, causa, devozione, disciplina, serietà), utili per celebrare «quei nostri militanti che hanno dedicato alla lotta del nostro partito tutta la loro esistenza». Un concetto totalizzante del partito affiorava anche in Togliatti leader terzinternazionalista, che pure non disdegnava moderatismo, senso del compromesso, laicità. «Non basta essere buoni politici. Tutti dicono oggi che noi siamo i migliori politici, i politici puri, e così cercano di spiegare i nostri successi. Orbene, se siamo buoni politici, non lo so; so però che, se lo siamo, è perché abbiamo tenuto e teniamo fede in ogni istante a princìpi che trascendono la politica, perché siamo in ogni istante fedeli a quella vocazione che spinse e spinge milioni di uomini a vivere e lottare». La diversità come principio di trascendenza si coniugava in Togliatti con la pienezza dell’immanenza e cioè il realismo, l’aderenza ai tempi, il richiamo al principio istruttivo dei rapporti di forza. Anche in Amendola compariva il riferimento “alla nostra vecchia morale comunista, severa e rigorosa”. Lucio Magri ricordava in una pagina del suo libro che, in occasione del celebre convegno degli anni Sessanta sulle tendenze del capitalismo italiano, quando incrociava Amendola a Botteghe Oscure veniva rimbrottato per non essere un vero bolscevico. La maschera della identità serviva ad Amendola per coprire degli affondi verso la sinistra sindacale e politica (Pci e Psi, da Ingrao e Trentin a Lombardi). Nella III Conferenza dei comunisti di fabbrica (Genova 1965) egli scriveva: «La richiesta di case, scuole, ospedali parve troppo moderata, socialdemocratica, si disse già allora, di fronte a grandiosi progetti di transizione al socialismo, tanto moderata che ancora oggi, quindici anni dopo, case scuole ed ospedali, restano obiettivi non ancora raggiunti». Il problema non pare dunque la diversità in sé, ma le conseguenze che dalla copertura identitaria si traggono nella concreta condotta politica. In Amendola (in questo poggia la sua notevole differenza rispetto a Napolitano, che utilizza altri linguaggi, diverse metafore) l’identità serviva come scudo per lanciare svolte, discontinuità, anche eresie. Negli anni 80 la diversità divenne in Berlinguer una formula di chiusura e di regressione culturale dal politico al sociale che in quanto tale venne combattuta dentro il Pci, non solo dai miglioristi. L’esito della diversità non fu ancora il giustizialismo (il Pci sostenne nel referendum l’abolizione dell’ergastolo, cioè l’opposto di quanto vorrebbe un populismo manettaro alla Travaglio), ma una profonda frattura verso il Psi che venne sorretta da un impianto di tipo tardo-operaista (referendum sulla scala mobile) in polemica contro la “modernità” craxiana. Negli anni del secondo Berlinguer si ebbero mutamenti nelle analisi, altri paradigmi concettuali furono impiegati nella comprensione dei processi sociali scaturiti dal tempo della ristrutturazione tecnologica del capitalismo. E però il miope e suicida “duello a sinistra” non prevedeva l’affidamento alle procure del compito di risolvere con le manette la questione socialista. C’era nel Pci degli anni Ottanta un conservatorismo istituzionale e una enfasi operaista di cui “i ragazzi di Berlinguer” si sbarazzeranno con estrema disinvoltura sposando il nuovismo referendario, la militanza giustizialista con il popolo dei fax e dei telepredicatori, il mito delle privatizzazioni, il vangelo della precarietà. Cicchitto vede una continuità di tutto ciò con la cultura della diversità denunciata come matrice di un antisocialismo irriducibile. In Togliatti la diversità riempiva la dimensione mitica, aveva una collocazione metapolitica. In Berlinguer divenne invece una immediata strategia politica con le inevitabili ricadute in termini di isolazionismo ed estraneità valoriali rispetto al gioco politico. Con i limiti e gli schematismi delle letture moralistiche che sono diventate dominanti nella seconda stagione berlingueriana, le scelte tragiche successive (rifiuto di ogni salvataggio del sistema dei partiti in nome del repulisti giudiziario-referendario) non sono però imputabili al leader scomparso e ricadono solo sugli eredi che certo hanno camminato su un terreno di cultura politica reso friabile già negli anni Ottanta. Michele Prospero

L'impossibile memoria condivisa su Mani Pulite. Fu l’ultimo Berlinguer che rese giustizialista il Pci: nacque così il partito delle procure. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. Sulla vicenda di Mani Pulite il dibattito è sempre aperto e probabilmente non si chiuderà mai, malgrado gli appelli melensi ad una impossibile “memoria condivisa”: e poi “condivisa” fra chi? Fra chi ha fatto un autentico colpo di mano mediatico-giudiziario e chi lo ha subìto? Dopo un’autentica, anche se atipica guerra civile (gli avvisi di garanzia, gli arresti, i titoli dei giornali, i telegiornali, Samarcanda, gli editti in diretta del pool dei pm di Milano che sono stati il corrispettivo dei carri armati e dei paracadutisti per cui Curzio Malaparte potrebbe scrivere una nuova edizione del suo libro: Tecnica di un colpo di Stato) la memoria condivisa è impossibile, a meno che la storia non sia scritta solo dai vincitori. Ma su questo terreno invece i vinti si sono fatti sentire e continueranno a farlo. Gli ultimi significativi contributi sull’argomento sono costituiti da due saggi sul Foglio, uno di Luciano Violante (Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia), l’altro di Paolo Cirino Pomicino (Le conversioni di Violante), da un libro assai vivace, con intenti giustificazionisti, di Goffredo Buccini (Il tempo delle Mani Pulite) e un altro di Pier Camillo Davigo, L’occasione mancata (ma la principale occasione mancata è costituita proprio dal libro di Davigo che invece di impegnarsi in una riflessione critica porta avanti, fra minacce e rinnovate condanne, una esaltazione di tutti gli atti del pool e dei suoi protagonisti ). I due saggi sul Foglio si pongono su piani totalmente diversi. Luciano Violante colloca il suo saggio in una dimensione che, per usare una espressione cara a Gramsci, è “fur ewig”, quasi che negli anni cruciali dal 1970 al 2000 egli sia stato uno studioso indipendente. Invece dagli anni ’70 agli anni ’90 Violante è stato uno dei fondatori del giustizialismo sostanziale, ha operato a monte del Parlamento nella costruzione di un rapporto profondo fra il Pci e alcune procure, e poi dalla presidenza della Commissione Antimafia ha contribuito ad elaborare testi assai importanti.

Invece Paolo Pomicino ha scritto il suo saggio con il cervello, con la memoria storica, e anche con la partecipazione di chi da un certo uso politico della giustizia è stato colpito in modo molto duro. Alla luce di tutto ciò Pomicino, nel suo saggio assai polemico, finisce con l’attribuire a Violante il ruolo di deus ex machina di tutto quello che è accaduto. Invece, a nostro avviso, se si vuole andare davvero al fondo della questione, bisogna fare i conti con la storia del Pci dal 1979 in poi. Se li facciamo vediamo che è “l’ultimo Berlinguer” ad essere alle origini di tutto, compresa l’involuzione giustizialista dal Pds. L’azione politica sviluppata dal gruppo dirigente che ha cambiato nome al Pci e ha fondato il Pds (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino e, appunto, Violante) è in assoluta continuità con quel lascito berlingueriano. “L’ultimo Berlinguer” (descritto in modo magistrale in un saggio di Piero Craveri sulla rivista XXI secolo – marzo 2002) ha prodotto due guasti. In primo luogo ha accentuato, non ridotto, le divisioni verificatesi fra il Pci e il Psi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria: certamente Togliatti era un sofisticato stalinista e anche dopo il XX Congresso lavorò per ricostruire su nuove basi il legame di ferro con l’Urss. Però Togliatti non fu mai un giustizialista (la sua scelta per l’amnistia ebbe un significato profondo) e dal 1944 al 1964 mantenne sempre ferma la scelta strategica fatta dall’Internazionale comunista nel VII Congresso (I fronti popolari, il rapporto preferenziale con i partiti socialisti, la linea gradualista in Europa) e quindi non regredì mai verso il settarismo del VI Congresso (1928) fondato appunto “sul socialfascismo”. In secondo luogo Berlinguer con la sua enfatizzazione della questione morale e con la sua damnatio degli “altri partiti” (quasi che il Pci fosse davvero “diverso” da essi sul terreno del finanziamento irregolare) ha rappresentato una delle fondamentali scuole di pensiero (quella di sinistra), che hanno ispirato la successiva affermazione della demonizzazione dei partiti e dell’antipolitica.

Le altre scuole su questo terreno sono state tutte di destra o di ispirazione confindustriale e poi sono state anche quelle che hanno drenato più consensi. Di fronte all’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio Berlinguer scartò nettamente la proposta del segretario della Cgil Luciano Lama che era quella di dare una sponda politica e sindacale alla novità costituita dal fatto che per la prima volta un socialista diventava presidente del Consiglio. Anzi Berlinguer fece la scelta del tutto opposta, quella della contrapposizione frontale. Ciò derivava da un’analisi totalmente negativa su Craxi e sul gruppo dirigente socialista sviluppata nel ristretto laboratorio cattocomunista che assisteva Berlinguer nella definizione della politica interna (invece in politica estera egli aveva una autonomia assoluta e faceva tutto di testa sua). In una lettera del 18 luglio 1978 Antonio Tatò, uno dei due consiglieri di Berlinguer in politica interna, scriveva “Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un nemico dell’unità operaia e sindacale, un nemico nostro e della Cgil, un bandito politico di alto livello”.

Di lettere su questa falsa riga ce ne stanno altre. Partendo da un’analisi siffatta in una riunione della direzione Berlinguer sostenne che il Psi puntava ad acquisire la direzione del paese con la presidenza del Consiglio addirittura “sulla base di uno spostamento a destra” dell’asse politico. Berlinguer ammonì “di non dimenticare il periodo del cosiddetto “socialfascismo” in cui le socialdemocrazie avevano aperto la strada alla reazione e al nazismo con le loro posizioni antipopolari e antioperaie (attorno agli anni ‘30) per cui si potevano controllare i toni della polemica ma sarebbe stato un errore non mettere in chiaro la pericolosità della posizione del Psi”. Per chi conosce il valore di certe espressioni “simboliche” del linguaggio comunista la frase usata da Berlinguer a proposito di Craxi sul “socialfascismo” aveva un significato profondo. Da qui una scelta politica di fondo: il nemico da battere era il Psi di Craxi. Per altro verso l’alternativa lanciata a Salerno era contro tutto e tutti. Gli unici alleati possibili erano la sinistra cattolica e quella democristiana. Arriviamo così al 1989.

Cossiga capì subito che il crollo del comunismo avrebbe avuto conseguenze non solo per il Pci ma anche per la Dc, per il Psi e per i partiti laici. Egli sostenne l’esigenza di una profonda autocritica da parte di entrambi gli schieramenti contrapposti che duranti gli anni della guerra fredda avevano messo in atto molte illegalità. Questo invito fu nettamente respinto prima dal Pci di Berlinguer poi dal Pds e anzi Cossiga fu addirittura criminalizzato. A quel punto i cosiddetti poteri forti (dalla Confindustria a Mediobanca alla Fiat alla Cir, ad altri grandi gruppi) ritirarono la loro delega alla Dc e al Psi e anzi manifestarono forti propensioni per l’antipolitica e ancor di più una netta repulsione per la “repubblica dei partiti” e per le imprese pubbliche. Di conseguenza il Pds fu di fronte ad una scelta di fondo.

I miglioristi proposero di rispondere a tutto ciò con la formazione di un grande partito socialdemocratico e riformista e comunque con l’unità fra il Psi e il Pds. Invece sulla base dell’analisi e della linea politica di Berlinguer la risposta di coloro che Folena appellò in un suo libro I ragazzi di Berlinguer fu di segno opposto e fu espressa in modo lucido da Massimo D’Alema: “Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo cambiare nome. Volevamo entrare nell’Internazionale socialista, dunque non potevamo continuare a chiamarci comunisti. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi, era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che aveva lo svantaggio di essere Craxi.

Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affarista avvinghiato al potere democristiano. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista” (Fasanella-Martini: D’Alema). Qui è il punto cruciale. Quando in seguito alla presa di distanza dai partiti tradizionali da parte dei poteri forti decollò il cosiddetto circo mediatico-giudiziario alle origini il Pds non ne faceva parte, tant’è che tremò sapendo bene di essere inserito a suo modo nel sistema del finanziamento irregolare dei partiti. Questa fu la ragione per cui Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani.

A sua volta per una fase Borrelli accarezzò l’idea che a un certo punto “il presidente della Repubblica come supremo tutore” avrebbe “chiamato a raccolta gli uomini della legge e soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo una folla oceanica sotto i nostri balconi, ma un appello di questo genere del capo dello Stato”. Quando fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto il vice procuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, ebbe buon gioco a convincere Borrelli e gli altri che il pool aveva bisogno di un partito di riferimento e che esso avrebbe potuto benissimo essere il Pds, visti gli ottimi rapporti che il Pci aveva avuto con alcune procure strategiche (Milano, Torino, Palermo). Ecco che così il Pds ebbe un rapporto speciale con il pool di Milano e attraverso di esso poté procedere alla occupazione dello spazio storicamente coperto dal PSI distruggendolo per via mediatico-giudiziaria. In una prima fase questo disegno non fu contrastato dalla Dd perché Antonio Gava si illuse che consegnando Craxi e il Psi “ad bestias” tutta la DC si sarebbe salvata.

Le cose non andarono così: quando la ghigliottina si mette in moto essa non si arresta facilmente: in quel caso essa fu interrotta solo per la sinistra democristiana. A proposito di tutto ciò valgono le osservazioni fatte da un personaggio al di sopra di ogni sospetto come Giovanni Pellegrino, del Pds, già presidente della Commissione Stragi: “l’innesto di alcuni magistrati come Luciano Violante nel gruppo dirigente aveva finito col cambiarne (del Pds, n.d.r.) la cultura. Comincia a nascere un “partito delle procure” e si forma una corrente di pensiero secondo cui i problemi politici si risolvono con i processi. Il gruppo dirigente del partito era convinto che cavalcando la protesta popolare e con una riforma elettorale maggioritaria un partito del 17%, quale era allora il Pds, avrebbe conquistato la maggioranza assoluta dei seggi […]. Occhetto e parte del gruppo dirigente pensavano di avere il monopolio della astuzia […]. La nostra astuzia era al servizio di un disegno fragile che alla fine ha prodotto Berlusconi. Berlusconi è nato perché a sinistra in tanti erano convinti che la magistratura poteva essere la leva per arrivare al governo” (in G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Bur). Questi a nostro avviso sono gli elementi fondamentali di una vicenda che ha segnato in modo profondo la storia del nostro paese.

Comunque fra i protagonisti di quella stagione Violante è l’unico che negli anni 2000 ha portato avanti una riflessione critica e sostanzialmente autocritica. A parte il suo lungo articolo sul Foglio Luciano Violante ha il merito di aver fatto una battuta fulminante per commentare la situazione in cui si trova attualmente la magistratura italiana: “la prima riforma della giustizia da fare è quella della divisione delle carriere fra pm e cronisti giudiziari”. Quella battuta ci porta direttamente al libro di Goffredo Buccini. Nel 1992 Buccini era un giovanissimo giornalista del Corriere della Sera. Egli ricostruisce dal lato dei cronisti giudiziari quella che non fu una rivoluzione, ma una confusa guerra civile. Le rivoluzioni sono cose serie e producono anche una nuova classe dirigente di livello, una nuova cultura, nuovi valori. Le cose invece con Mani Pulite non sono andate così: sul mucchio selvaggio dai giovani cronisti descritti da Buccini, sugli avvocati accompagnatori, sugli imprenditori e su alcuni politici presi dalla sindrome di Stoccolma, si innestò una operazione politica fondata sulla scelta di due pesi e di due misure, uno adottato a favore del Pci-Pds e della sinistra democristiana, l’altro per colpire Craxi, i segretari dei partiti laici e l’area di centro-destra della Dc.

Ciò è avvenuto, come abbiamo già visto, perché i poteri forti dopo il 1989 hanno ritenuto di interrompere il loro rapporto globale (compresi i finanziamenti) con i tradizionali partiti di governo (Dc, Psi, partiti laici) per cui hanno dato licenza di uccidere agli organi di stampa da loro condizionati anche andando incontro nell’immediato ad alcune difficoltà di immagine e anche a vicende giudiziarie risolte come fecero Romiti e De Benedetti con alcune confessioni-genuflessioni fatte al pool dei pm di Milano. Di conseguenza un nucleo ben assortito di pm della procura di Milano non ha avuto più alcun condizionamento e si è scatenato “sulla politica”. A quel punto però se la razionalità e specialmente l’equanimità avessero prevalso sarebbero stati ipotizzabili due grandi operazioni. Una ipotesi era quella della grande e reciproca confessione (visto che il Pci era finanziato in modo ancor più irregolare della Dc e del Psi) come sostennero in modo diverso da un lato Cossiga, dall’altro lato Craxi nel suo discorso in parlamento del luglio 1992. Ciò avrebbe dato luogo a nuove procedure, a nuove regole, a una vera amnistia (non quella del 1989 che servì solo a mettere a riparo il Pci da conseguenze penali per il finanziamento del Kgb) e a un nuovo sistema politico di stampo europeo.

L’altra ipotesi sul terreno della equanimità era invece quella di una totale rottura per una ipotetica palingenesi con i magistrati assunti al ruolo di “angeli sterminatori” nei confronti di tutti i peccatori, vale a dire i partiti senza eccezione alcuna e i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici. Avvenne esattamente il contrario, Mani Pulite fu gestita in modo del tutto unilaterale con i due pesi e le due misure a cui ci siamo riferiti precedentemente. Il libro di Buccini costituisce una straordinaria conferma di questa unilateralità. Tutti i cronisti giudiziari erano di sinistra e nessuno di essi ha mai contestato la grande mistificazione su cui si è fondata Mani Pulite. I segretari della Dc, del Psi, dei partiti laici “non potevano non sapere” e invece, per non far nomi, Occhetto, D’Alema, Veltroni “potevano non sapere” anche quando Gardini si recava a via delle Botteghe Oscure per incontrare uno o due di loro portando con sé una valigetta con dentro un miliardo. Buccini rimane all’interno del paradigma su cui si è fondato Mani Pulite quando sottovaluta il discorso di Craxi alla Camera del 1992, liquidandolo con la battuta: “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”: la sostanza era proprio quella; il finanziamento irregolare riguardava tutti da tempo immemorabile e a loro volta magistrati e giornalisti sapevano tutto benissimo. Solo che, indubbiamente in seguito a un fatto storico come il 1989, ad un certo punto qualcuno (in primo luogo i poteri forti) decise che le regole del gioco all’improvviso cambiavano.

Parliamoci chiaro: con i metodi adottati dalla procura di Milano Togliatti, Secchia, Amendola, Longo, lo stesso Berlinguer per interposti amministratori del partito, De Gasperi, Fanfani, i dorotei, Marcora, De Mita e Donat-Cattin si sarebbero venuti a trovare in condizioni analoghe a quelle di Bettino Craxi, di Forlani, di Altissimo e di Giorgio La Malfa. Buccini descrive anche quali erano i rapporti reali dei cronisti con il nucleo leninista dei pm: “Davigo mi ha preso a ben volere – riservatissimo e un po’ misantropo mi lascia intravedere a volte uno spiraglio di amicizia […] passeggiandomi accanto fra le file di uffici semideserti a quell’ora mi dice che quando nasceranno le Commissioni di epurazione dei giornalisti io dovrei proprio farne parte perché sono un ragazzo perbene: lo guardo e naturalmente deve stare scherzando” (Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, pag. 145). “È un pezzo che mi sto curando Borrelli, Alfonso, suo segretario, mi guarda con il compatimento di uno zio affettuoso […]. La scena è abbastanza umiliante, devo ammetterlo, ma nel mestiere la sostanza conta più del talento” (idem, pag. 166) e “Borrelli mi dice […] in un’ennesima intervista, i colleghi in sala stampa mi sfottono acidi definendomi la penna preferita del procuratore, ma starebbero volentieri al mio posto” (idem, pag. 186). Infine, ma questa è invece un’osservazione assai seria perché va al fondo della questione: “l’indagine si è avvalsa e nutrita dell’uso smisurato delle manette” (idem, pag. 178).

A ciò va aggiunto che ci fu un unico Gip, cioè Ghitti, del tutto allineato, che addirittura parlò della liquidazione di un intero “sistema”. Infine, quanto al libro di Davigo, c’è un punto fondamentale che per molti aspetti è sorprendente e disarmante perché tratta con argomenti puramente giuridici una decisiva questione politica: “le successive indagini fecero emergere l’esistenza di un sistema nazionale in cui le principali imprese che avevano rapporti prevalenti con la pubblica amministrazione pagavano imponenti somme di danaro ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza mentre le cooperative rosse pagavano il Pci (dal 1991 Pds). La questione è stata oggetto di polemiche infinite sull’assunto che il Pci-Pds non sarebbe stato perseguito con la stessa energia con cui sarebbero state svolte le indagini nei confronti degli altri partiti, per poi trarvene l’accusa di politicizzazione agli inquirenti”.

In queste poche righe Davigo liquida una questione fondamentale perché dietro questo pretesto (quello che i segretari del Pci-Pds ignoravano l’apporto delle cooperative rosse mentre a loro volta i pm hanno volutamente ignorato che ad esempio la percentuale fra il 20 e il 30% riservata alle cooperative in sede Italstat, dove tutti gli appalti erano manipolati, era il modo con cui al Pci in quanto tale erano indirizzate enormi tangenti) è stata realizzata la manipolazione che ha portato a un uso politico della giustizia molto mirato. Se poi a questo si aggiunge che quando è stato provato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure per vedere i massimi dirigenti del Pds portando con sé una valigetta con dentro un miliardo si è trovato il pretesto per evitare di inviare ad essi un avviso di garanzia e in sede di processo Enimont il presidente Tarantola addirittura ha rifiutato di accogliere la richiesta dell’avvocato Spazzali di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni perché quello era un processo totalmente dedicato a sputtanare i segretari dei partiti di governo, ecco che la misura è colma e l’unilateralità della operazione Mani Pulite è assolutamente evidente.

Infine non bisogna mai dimenticare che per due volte il pool fece una sorta di “pronunciamiento” contro proposte di legge del governo. Addirittura una volta, dopo aver fatto saltare il decreto Biondi, a Cernobbio il pool presentò una propria proposta di legge per la sistemazione di tutta la vicenda. Infine, ben due esponenti del pool, cioè il vice procuratore D’Ambrosio e il protagonista dell’operazione di “sfondamento” cioè Antonio Di Pietro sono stati eletti per più legislature nelle liste del Pds. Dopodiché oggi il risultato finale di un colpo di mano senza rivoluzione è del tutto evidente: leaders effimeri, che durano lo spazio di un mattino, partiti liquidi e movimenti privi di spessore politico e culturale. La conseguenza è netta. Nel momento più drammatico del nostro paese dal 1945 il destino dell’Italia dipende da due persone: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Fabrizio Cicchitto

Cicchitto: «Quel gip a disposizione dei pm era parte del sistema orchestrato dal pool». Intervista a Fabrizio Cicchitto dopo le rivelazioni di Guido Salvini: «Borrelli credeva che un nucleo di magistrati possa avere l'incarico dal Quirinale. L’idea tramonta ed è D’Ambrosio a spiegare al pool che serviva un punto di riferimento politico e tanto valeva guardare al Pds». Rocco Vazzana su Il Dubbio il 17 dicembre 2021.

«È incredibile che i grandi giornali italiani non abbiano ripreso una testimonianza così importante come quella che il giudice Salvini ha consegnato al Dubbio». Fabrizio Cicchitto – ex dirigente socialista, ex berlusconiano di ferro e oggi presidente di Riformismo e Libertà – non si capacita di come il racconto del giudice milanese sugli anni di Tangentopoli sia stato notato solo da Libero e dal Foglio. Salvini, allora come oggi in servizio all’ufficio gip di Milano, ha svelato infatti il “trucco” con cui il pool di Mani Pulite faceva in modo che qualsiasi richiesta di misura cautelare finisse sempre nelle mani dello stesso Gip: Italo Ghitti. «Era comodo per la procura avere un unico gip già sperimentato che per alcuni era già direzionato e non doversi confrontare con una varietà di posizioni di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio del gip», ha scritto Salvini su questo giornale.

«Così il pool escogitò un semplice ma efficace trucco, costruendo a partire dall’arresto di Mario Chiesa un fascicolo che in realtà non era tale, ma era un registro che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro, completamente diversi, unificati solo per essere gestite dal pol». Bastava dunque iscrivere qualsiasi reato con lo stesso numero (8655/92) e il goco era fatto. Una novità storica che oggi fa dire a Cicchitto: «È stata un’incredibile forzatura. Il pool aveva scelto un unico gip che poi, guarda caso, verrà promosso al Csm».

Cicchitto, perché ritiene la testimonianza di Salvini così importante?

Perché è quasi decisiva. Perché se unita ad altri elementi già emersi diventa evidente che le carcerazioni preventive facilissime venivano usate per le confessioni. La minaccia stessa del carcere veniva usata come ricatto per persuadere alcuni imprenditori a parlare in modo da colpire alcuni uomini politici, a partire da Bettino Craxi. Il racconto di Salvini inoltre rivela l’evidente unilateralità di tutta l’operazione: il sistema Tangentopoli riguardava tutto e tutti, ma Mani Pulite ha colpito in madiera discriminata, nel senso che non ha mai nemmeno sfiorato il nucleo dirigente ristretto del Pds.

Intende dire che c’era un progetto preciso di salvare il Pds?

È lo stesso Antonio Di Pietro a raccontarlo in qualche modo, quando parla un episodio cardine: la procura sapeva che Raul Gardini si era presentato con una valigetta contenente un miliardo di lire a Via delle Botteghe Oscure per incontrare Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Ma non è mai saltata fuori la prova di questo fatto, nonostante Sergio Cusani e Carlo Sama siano poi stati condannati come corruttori.

Ma perché la procura avrebbe dovuto “coprire” solo una parte politica?

A un certo punto, in quella fase di tracollo politico, Francesco Saverio Borrelli crede che un nucleo di magistrati possa avere l’incarico dal Presidente della Repubblica. E quando questa idea tramonta è Gerardo D’Ambrosio a spiegare al pool che bisognava comunque avere un punto di riferimento politico e tanto valeva guardare al Pds col quale anche in passato, ai tempi del Pci, alcune procure avevano avuto rapporti profondi per la lotta al terrorismo e alle mafie.

Esistono altri elementi per sostenere una tesi del genere?

Esistono altri esempi: quando Giuliano Spazzali, avvocato di Cusani, chiese che venissero escussi come testimoni Occhetto e D’Alema in un processo specificatamente dedicato a mettere alla gogna i segretari di partito, il presidente Giuseppe Tarantola non lo consentì.

Quindi la magistratura, secondo questa analisi, avrebbe agito in maniera autonoma per distruggere il sistema dei partiti, salvo gli ex comunisti?

Secondo me alle origini di tutto quel terremoto non c’è la magistratura. Cossiga capì prima degli altri che nel momento in cui crollava il muro di Berlino le conseguenze avrebbero riguardato tutti, non solo il Pci. Anzi, sarebbero stati travolti anche tutti i partiti laici che godevano di una rendita di posizione data dal fatto che bisognava impedire che il Partito comunista più forte d’Occidente andasse il potere in Italia. Così quando lo spauracchio sovietico viene meno, un bel pezzo di mondo industriale ed editoriale, i poteri forti diremmo oggi, decidono di togliere la delega alla Dc e al Psi, proprietari atipici del sistema delle partecipazioni statali che doveva essere smantellato.

A colpi di avvisi di garanzia…

Il momento chiave arrivò quando Enrico Cuccia, tramite Salvatore Ligresti, inviò un messaggio a Craxi dicendo: «Cavalca la tigre, hai la personalità per intestarti un’operazione neogollista che mandi al diavolo il sistema partitocratico e prenditi come ministro dell’Economia Giorgio La Malfa». Craxi sottovalutò del tutto questo messaggio, convinto che il sistema dei partiti fosse più solido di quanto non fosse. La risposta di Cuccia fu: «Peccato, era la sua ultima occasione». A quel punto Craxi diventò il “cinghialone” e fu data “licenza di uccidere” a un pezzo del mondo editoriale e a un pezzo di magistratura.

Ma i finanziamenti illeciti esistevano davvero…

Che ci fosse un sistema irregolare di finanziamento ai partiti lo sapevano tutti in Italia, ma c’era un vincolo di sistema che teneva insieme tutto. Venendo meno quel vincolo, ovvero il comunismo, è venuto giù tutto, per cui la procura di Milano e il mondo dell’informazione hanno proceduto in quel modo. Pensi che ogni sera, alle 19, c’era una riunione tra i direttori di Repubblica, del Corriere e dell’Unità in cui venivano concertati anche i titoli sulla base delle soffiate dei pm. Questo meccanismo era infernale. Se capitavi in un gorgo di questo tipo e ti consegnavano un avviso di garanzia che veniva sparato su tutti i giornali e le televisioni la sentenza era praticamente già stata emessa.

Eppure il pool godeva di un immenso consenso popolare. Era tutto un abbaglio?

Quello che dice Salvini spiega come il circo mediatico-giudiziario rendesse impossibile la dialettica all’interno dello stesso mondo della magistratura: c’e un gip che approva qualsiasi richiesta della Procura, i tre o quattro grandi giornali che rilanciano, le tv, comprese quelle di Berlusconi, che fanno da gran cassa e il gioco è fatto. È facile trascinare la gente così. Ovviamente i partiti tradizionali erano usurati, ma non ci fu un’occasione per rinnovarli, ci fu un’occasione per distruggerli.

Tangentopoli è finita, il legame tra procure e informazione no. È l’eredità di quella stagione?

Quel sistema è rimasto assolutamente in piedi ma si è parcellizzato, come si è parcellizzato tutto, compresa la corruzione che non è più sistemica ma avviene per reti, con singole catene.

Mani Pulite fu una pagina cupa della giustizia italiana. I magistrati del pool di Mani Pulite celebrano il collega Francesco Greco, esaltando senza alcun rimpianto quella terribile stagione. Francesco Damato Il Dubbio l'11 novembre 2021. Delle cronache sulla festa celebrata in suo onore dai colleghi di Francesco Greco arrivato all’epilogo della carriera di magistrato come capo della Procura della Repubblica di Milano, al netto dei brindisi, della solita goliardia di Antonio Di Pietro corso dalla sua campagna molisana interrompendo la raccolta delle olive, e delle immancabili voci e allusioni sugli assenti, in questo caso dai nomi altisonanti di Pier Camillo Davigo e di Ilda Boccassini, ciò che mi ha colpito di più è l’occasione che non ha voluto lasciarsi scappare Gherardo Colombo per retrodatare l’epopea di cui un po’ tutti si consideravano i fortunati superstiti. Più che il 17 febbraio del 1992, quando l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa fu arrestato in flagranza di tangenti, diciamo così, cercando di buttare nello scarico del bagno una parte dei soldi che Di Pietro aveva contrassegnato come corpo del reato; più che questa scena non po’ tragica e un po’ anche comica di una tangente fra le tante che sporcavano non certo dal giorno prima la politica ambrosiana, al pari di tutta quella praticata nel resto del territorio italiano, e anche oltre; Gherardo Colombo ha voluto ricordare la circostanza tutta drammatica del suo approccio col tribunale di Milano. Gli era capitato, in particolare, di prendere praticamente servizio da magistrato il 29 gennaio 1979, quando il suo collega Emilio Alessandrini, di soli quattro anni meno giovane di lui, fu ucciso in auto da un commando di terroristi di “Prima Linea” mentre si dirigeva al tribunale. Ecco. Questa è la vera, epica storia della Procura di Milano che personalmente preferisco ricordare anch’io, riconoscendomi tutto e per intero nella parte dei magistrati, senza il cui sacrificio, senza la cui totalizzante fedeltà allo Stato temo che la democrazia non sarebbe sopravvissuta, Dell’altra epopea, invece, quella che prese il nome delle indagini “Mani pulite” contro il finanziamento illegale della politica e la corruzione spesso collegata, non sempre, come alcune sentenze avrebbero riconosciuto nella indifferenza generale, non mi sento per niente nostalgico, a dispetto dei tanti che invece la celebrano con puntualità: specie quelli che le debbono le loro fortune professionali di magistrati, politici e giornalisti. Sono passati gli anni e non ancora riesco a dimenticare, o a ricordare senza raccapriccio, le retate previste o preannunciate da quel cronista televisivo del Biscione, non della Rai, che parlava come un invasato mentre scorreva alle sue spalle il tram proveniente o diretto al tribunale. Né riesco a ricordare senza lo stesso raccapriccio le telecamere puntualmente appostate di notte davanti al portone da cui sarebbe uscito ammanettato il tangentaro vero o presunto di turno. Né riesco a togliermi dalla testa senza fastidio la faccia di quel magistrato ancora in servizio, ora chissà alla scalata di quale postazione giudiziaria, che dopo avere interrogato in carcere il povero, ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari se andò in ferie così poco interessato, diciamo così, alla liberazione che ormai il suo imputato attendeva, da lasciarlo precipitare nella disperazione del suicidio. «Siamo stati sconfitti», si lasciò scappare pressappoco Di Pietro senza farsi minimamente tentare con quel plurale generoso, visto che a quel passaggio non aveva partecipato, ad un gesto riparatorio di dimissioni. Non riesco neppure a dimenticare lo sgomento del povero Giovanni Galloni, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoprì di avere fra i consiglieri, regolarmente eletto dai colleghi, un giudice di “Mani pulite” che, non potendo disporre l’arresto di un indagato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica a corto di competenza, indicava a matita sul foglio il diverso reato, con relativo articolo del codice, cui doversi richiamare per garantirsi l’assenso. Potrei continuare a lungo con questi ricordi non risparmiando nessuno, ma proprio nessuno dei tanti magistrati morti dicendo di avere fatto allora solo il loro dovere, inchiodati – senza avere peraltro tutti i torti in questo paradosso- alle leggi scritte e approvate dalla Camere come peggio non si potesse. Potrei continuare, dicevo, se non me ne avesse esonerato in qualche modo prima di morire Francesco Saverio Borrelli in persona, il capo carismatico di quella Procura. Che era cosi esaltato all’inizio della sua opera rigeneratrice da chiedere all’amico giurista Giovanni Maria Flick – come Il Dubbio ha appena riprodotto- se fosse proprio necessario celebrare i processi e scrivere le sentenze di condanna dopo tante confessioni spontanee di imputati. Ebbene, dopo una più lunga e proficua riflessione, ma soprattutto vedendo il mondo della politica e degli affari prodotto dall’epopea di “Mani pulite”, il povero Borrelli si chiese se fosse stato giusto davvero demolire tutto quello che era stato demolito della cosiddetta prima Repubblica, e se non fosse opportuno scusarsi con gli italiani per averli affidati in mani ancora peggiori. Le scuse, per quanto lo riguardavano, furono subito accordate in un libro autobiografico da Claudio Martelli, che peraltro era grato del riconoscimento ricevuto da Borrelli di essere stato se non il migliore, almeno fra i migliori ministri della Giustizia succedutisi fra la prima e la seconda Repubblica. Contro di lui, in effetti, diversamente da Giovanni Conso, da Alfredo Biondi, da Roberto Castelli, non apprezzato neppure come ingegnere acustico, Borrelli e i suoi emuli non si erano mai spesi in proteste e minacciosi annunci di dimissioni. 

La commemorazione di Tangentopoli non sarà un pranzo di gala. Mancano ancora 4 mesi all'ora X - i trent’anni esatti dall’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa - ma una cosa è già chiara: la commemorazione di Tangentopoli rischia di trasformarsi in una nuova guerra. Davide Varì su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. Ieri sera, in un teatro romano a pochi passi dal Parlamento, è iniziata ufficialmente la lunga commemorazione pubblica di Tangentopoli. In realtà siamo leggermente in anticipo: la data ufficiale del trentennale è quella del 17 febbraio 2022, giorno in cui ricorreranno i trent’anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa, “il mariuolo”, come lo definì Bettino Craxi, divenuto icona e simbolo dell’inizio di Tangentopoli. Possiamo dire subito una cosa: non sarà una commemorazione come le altre, non sarà un pranzo di gala; sarà invece uno scontro duro, un confronto serrato tra chi pensa che Tangentopoli fu l’inizio del rinascimento italiano e chi invece è convinto che si sia trattato di un golpe messo in atto da un pezzo di magistratura col sostegno di qualche servizio straniero. Ma torniamo a quella sala del teatro Umberto di Roma. Sul palco, a parlare di quella stagione e a commentare il bellissimo libro di Giuseppe Gargani – “In nome dei pubblici ministeri” – , c’era anche Gherardo Colombo. Colombo, come tutti sanno, è stato uno degli attori principali di quella stagione, uno dei pm del pool che insieme a Di Pietro e Davigo, e sotto la guida raffinatissima di Borrelli, ha cambiato i connotati della politica italiana. Gherardo Colombo, a dire il vero, è sempre stato considerato la colomba – nomen omen – di quel gruppo di magistrati molto determinati e convinti che la loro fosse una missione che andava ben al di là della giustizia: molti di loro pensavano di dover cambiare la coscienza stessa del paese, il “precario” senso di legalità degli italiani. Per questo devono aver pensato che qualche piccola forzatura del diritto tutto sommato fosse accettabile, giustificata dall’obiettivo imponente che si erano prefissi. E così l’uso della galera preventiva, degli avvisi di garanzia branditi come condanne e dati in pasto ai giornali prima ancora che il diretto interessato ne fosse informato, erano “effetti collaterali inevitabili”. Ma Colombo, che pure è un raffinato giurista e un uomo devoto al dialogo, non ha ceduto di un millimetro, non ha mai riconosciuto neanche il minimo deragliamento da parte della magistratura italiana. Anzi, ha rivendicato con fermezza, a tratti con durezza, l’assoluta correttezza e trasparenza del lavoro svolto dal pool milanese. Eppure fu un suo collega a dire «noi non li mettiamo in carcere per farli parlare, ma li liberiamo se parlano…». Insomma, il dottor Colombo ha parlato a lungo di pacificazione ma non ha mai messo in discussione l’operato della procura di Milano. La pacificazione è un’intenzione seria ma è anche un processo lungo e doloroso: ognuno deve avere la forza e il coraggio di guardare ai propri errori, ai propri eccessi, senza ipocrisie e liberandosi di qualsiasi tentazione corporativa. E quegli arroccamenti sembrano più le premesse di una nuova guerra. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno…

Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita. Venanzio Postiglione su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza.

Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo.

«Il tempo delle mani pulite» di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18)

Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa. È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro «Corriere della Sera» non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, «il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva», che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione. Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino. «Il telefono squilla presto e troppo», scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ’92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del «Corriere», talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte. Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. «Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti». Il ’92 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di «un popolo di confidenti e flagellanti», è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma «i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». E qui Buccini ci va dritto: «Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione». Non solo. «Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?». C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores. Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: «Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica». Craxi dice che «hanno creato un clima infame», Gerardo D’Ambrosio replica che «il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati». E i giovani socialisti contro-replicano: «Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare». Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora. Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…». Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa. Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: «La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!». Borrelli è il più lucido: «Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra». La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento («un’autobiografia nazionale»), si confida con l’autore del libro: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima». Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso. Tocca al «nuovo miracolo italiano», alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che «tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale». La stiamo ancora aspettando. Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, «perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria». La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: «Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto». La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore.

Tangentopoli e quelle leggi sbagliate che diedero vita allo strapotere delle toghe. Giuseppe Gargani, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998 “In nome dei Pubblici Ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”.  Francesco Damato su Il Dubbio il 27 maggio 2021. Giuseppe Gargani, Peppino per gli amici, democristiano di origine controllata e mai davvero rassegnato alla fine della Dc, 86 anni da poco compiuti e meravigliosamente portati, dei quali 37 trascorsi da deputato fra la Camera e il Parlamento europeo, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, presidente di commissioni e commissario dell’Autorità di Garanzia nelle comunicazioni, purtroppo non quelle giudiziarie, di cui da garantista com’è sempre stato avrebbe fatto strage; Peppino, dicevo, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998  “In nome dei Pubblici Ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”. Sbagliate dalle maggioranze di turno in Parlamento non sapendo l’abuso cui si potevano prestare per fare uscire l’amministrazione della Giustizia dai binari voluti dai costituenti. Temo tuttavia che qualcuno abbia giocato davvero sporco, legiferando male proprio perché avvenisse quello che è accaduto, cioè lo sconfinamento delle toghe e i danni inevitabili della loro autoreferenzialità o onnipotenza. Che si sta peraltro ritorcendo contro la stessa magistratura per il crescente discredito o – se preferite – per la decrescente credibilità e per un carrierismo che si è rivelato peggiore di ogni cattiva previsione. Giustamente Gargani ha riproposto già nella presentazione del suo libro – aggiornato con la prefazione di Mattia Feltri e con altri suoi interventi successivi al 1998, compresi alcuni articoli scritti per Il Dubbio – il fastidio avvertito nell’esplosione della cosiddetta Tangentopoli da “uno dei magistrati più intelligenti del pool di Milano”, Gherardo Colombo. Il quale si dolse del “ruolo politico di supplenza” assegnato alla magistratura con leggi malfatte, appunto, delegando “al magistrato la soluzione di questioni che non spettano alla giurisdizione” perché “politiche”. In una prateria così spianata le toghe più politicizzate, a volte persino inconsapevolmente, tanto erano convinte di avere una missione purificatrice da svolgere, hanno potuto produrre una situazione dalla quale temo che non si possa uscire con la speranza ancora nutrita da Gargani di “un’autocritica fatta dai partiti di opposizione e da una magistratura che vuole essere “indipendente” per una pacificazione nazionale, per un chiarimento necessario alla giurisdizione: questo sì capace – ha scritto l’autore – di far prevalere la questione morale su quella penale”. Temo che non verrà mai il momento considerato opportuno da tutte le parti in campo per procedere ad una riforma tanto condivisa quanto efficace. Se la politica non ritroverà il coraggio di riappropriarsi delle proprie competenze, con le buone o con le cattive, con nuove leggi o con l’abrogazione referendaria di quelle sbagliate, come sembra avere capito adesso anche la Lega di Matteo Salvini dopo avere partecipato con quel famoso cappio a Montecitorio all’ondata giustizialista e manettara dei primi anni Novanta, non se ne uscirà mai. E’ purtroppo accaduto proprio alla sinistra, anche a quella democristiana da cui proviene Gargani, di partecipare con sofferenza o di assistere con impotenza, come per una maledizione, alla degenerazione dei rapporti fra la magistratura e la politica. Ricordo il compianto Giovanni Galloni, amico e collega di partito e corrente di Gargani, alla vice presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura mentre a Milano si faceva uso assai disinvolto, per esempio, delle manette sino a provocare suicidi, che venivano cinicamente liquidati come incidenti di percorso o, peggio ancora, come ammissioni finalmente di colpe. Proprio contro quel fenomeno che grida ancora vendetta Gargani si mosse come presidente della Commissione Giustizia della Camera per rimediarvi con norme condivise “anche da parte del Pci”, come ha ricordato. Ma non si riuscì a concludere nulla perché -ricordo ancora fisicamente il malumore in Transatlantico del compianto deputato del Pds-ex Pci Giovanni Correnti- il capogruppo Massimo D’Alema non trovò quello il momento opportuno per intervenire, vista evidentemente la popolarità delle manette. Con sarcasmo di stile manzoniano Gargani ha scritto che “abbiamo dovuto subire l’epidemia del coronavirus per ottenere un richiamo formale del Procuratore generale presso la Cassazione ai magistrati ad applicare la legge, e cioè arrestare solo se necessario”. Il Covid insomma è arrivato con una trentina d’anni di ritardo: un’osservazione tanto paradossale quanto tragica, al pari della speranza che possano essere almeno i cosiddetti vincoli derivanti dall’integrazione europea a quella riforma della giustizia che da soli non siamo riusciti a realizzare: una prospettiva che non a caso ha indotto il giustizialismo politico e mediatico italiano a collocarsi in questi giorni su posizioni di vecchio e svillaneggiato sovranismo.

Quando il pool sconfisse la politica (e la legalità). Quando la politica consegnò lo scettro alle procure. David Romoli su Il Riformista il 31 Luglio 2021. La sfida tra magistratura e governo a cui assistiamo da giorni non riguarda solo la materia del contendere, la riforma Cartabia e in particolare le nuove norme sulla prescrizione. Il braccio di ferro ha valenza più complessiva: riguarda la divisione dei poteri e la facoltà o meno dell’esecutivo e del legislativo di legiferare in materia di giustizia senza veti da parte del potere giudiziario. Di scontri tra politica e magistratura, a partire dalla metà degli anni ‘80, ce ne sono stati innumerevoli, ma c’è una vicenda precisa che segna lo spartiacque, a partire dal quale quel potere di veto è stato informalmente riconosciuto e rigorosamente rispettato per 25 anni: quelle del decreto Biondi del 1994, ribattezzato subito – col classico linguaggio squadrista dell’epoca, che è molto simile al linguaggio squadrista di oggi – e poi passato alla storia come “decreto salva-ladri”. Il 13 luglio 1994 l’Italia era impegnata nella semifinale dei mondiali calcio, al Giant Stadium di New York, contro la Bulgaria. Secondo i malpensanti proprio per quella coincidenza, destinata negli auspici a distrarre l’attenzione del grande pubblico, il governo Berlusconi scelse proprio quella data per tentare l’affondo contro i magistrati che indagavano sulla corruzione, al primissimo posto quelli del pool Mani pulite di Milano e contro il metodo con cui l’inchiesta veniva condotta da oltre due anni: l’uso molto disinvolto della carcerazione cautelare finalizzato a estorcere confessioni e denunce. Il governo varò un decreto firmato dal ministro della Giustizia Alfredo Biondi, già leader liberale universalmente rispettato e importante avvocato, ma secondo le voci dell’epoca ispirato dal ministro della Difesa e discusso avvocato di Berlusconi Cesare Previti. Al momento di formare il suo primo governo Berlusconi avrebbe in effetti voluto Previti come guardasigilli, salvo poi sostituirlo con Biondi in seguito al diluvio di critiche. È dunque plausibile che almeno in parte lo zampino dell’avvocato romano nel decreto Biondi ci fosse davvero. Il dl, oltre a secretare l’avviso di garanzia, limitava fortemente la possibilità di disporre la custodia cautelare per tutte le fattispecie di reato connesse con tangentopoli, sostituendola con gli arresti domiciliari. Il governo interveniva così sugli anelli nevralgici delle inchieste che da oltre due anni terremotavano la politica italiana e lo faceva seguendo una strada semplice: procedere all’attuazione, almeno parziale, della Costituzione. L’arresto era infatti adoperato quasi alla luce del sole non per evitare il rischio di fuga o di inquinamento delle prove ma per costringere alla confessione e alla chiamata di correo. Senza quell’abuso della carcerazione preventiva le inchieste non sarebbero mai state in grado decollare. Nelle rare occasioni in cui l’arrestato tenne duro, come nel caso allora notissimo di Primo Greganti, ex Pci poi Pds, l’inchiesta si arenò. Era un azzardo, anche perché nel mirino di Mani pulite in quel momento c’erano proprio i rapporti tra Fininvest e la guardia di finanza. Biondi era dubbioso. Riteneva che fosse consigliabile procedere con una legge invece che con un decreto. Ma Berlusconi si sentiva fortissimo dopo aver vinto le elezioni politiche di marzo con una sorta di doppia coalizione, con la Lega al nord e con An al sud, e dopo essere balzato, nelle europee del 12 giugno, oltre il 30%. Insistette per il decreto. A botta calda la strategia della distrazione a mezzo Mondiali di calcio sembrò funzionare: non ci furono reazioni immediate al varo del decreto. Ma già il giorno dopo il pool si riunì e decise la contromossa, ad alto effetto scenico. Antonio Di Pietro, l’uomo di punta del pool e allora forse il più amato in assoluto dagli italiani, apparve in diretta tv. Intorno a lui l’intero pool: Gherado Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco. Di Pietro esordì con la voce rotta: “Scusate se sono un po’ emozionato”. Poi lesse un breve comunicato del pool: “L’odierno decreto non consente più di affrontare efficacemente i delitti sui quali abbiamo finora investigato. Quando la legge contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità diventa molto difficile compiere il proprio dovere. Abbiamo pertanto informato il Procuratore della nostra determinazione di chiedere al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico”. Poi, di fronte alle telecamere, i magistrati che da due anni e passa occupavano in pianta stabile le prime pagine dei giornali ed erano agli occhi di milioni di italiani veri e propri eroi, si abbracciarono commossi. Era un pronunciamento in piena regola ed era anche una mossa mediatica abilissima, che sfidava e metteva all’angolo Berlusconi, il grande comunicatore, sul suo stesso terreno. Il Cavaliere scoprì di aver sbagliato i conti. Il pool era troppo forte e troppo popolare per poter essere sfidato. I partiti alleati di Fi, Lega e An, avevano sempre appoggiato Mani pulite, avevano sventolato cappi nelle aule del Parlamento, dovevano buona parte dei loro consensi proprio agli strepiti contro la corruzione e i “politici ladri”. I loro elettori non avrebbero perdonato il voltafaccia. La stampa fece muro insieme ai Pm. In una concitata conferenza stampa Giovanna Pajetta, figlia di Giancarlo (icona del Pci), e cronista del manifesto arrivò a uno scontro senza precedenti col premier, che abbandonò a metà la conferenza, inseguìto dagli urli della giornalista, dopo averla definita “un’agit-prop”. Il colpo di grazia lo diedero le scarcerazioni. Grazie al decreto uscirono dal carcere il 16 luglio (tre giorni dopo il varo del decreto) 472 persone, destinate a superare quota 1100 due giorni dopo. Tra queste alcuni imputati eccellentissimi di tangentopoli incluso l’ex ministro della Sanità De Lorenzo, il più detestato di tutti dall’opinione pubblica. Berlusconi provò a difendere il decreto ma gli alleati presero le distanze. Il leghista Maroni, ministro degli Interni, disse di aver firmato solo perché ingannato da Berlusconi e Biondi: “Mi avevano garantito che non ci sarebbero state scarcerazioni”. Il premier reclamò scuse immediate. Biondi, ex pugile dilettante, propose a Bobo Maroni di risolvere la faccenda sul ring, nonostante la cospicua differenza d’età. Fini chiese al premier di ripensarci. Bossi fu più sintetico: “Se mette la fiducia se la vota da solo”. La borsa calò a picco. La stampa internazionale mitragliò. Una parte di Fi, guidata dal ministro per i Rapporti per il Parlamento Giuliano Ferrara, insisteva perché Berlusconi portasse lo scontro alle estreme conseguenze dimettendosi e affrontando nuove elezioni. Forse sarebbe stata la mossa giusta ma non era nel carattere del leader azzurro. Preferì la resa. Il 19 luglio la commissione Affari costituzionali della Camera negò al decreto i presupposti di costituzionalità, e la destra al governo votò contro se stessa: 29 voti contro 2 e 7 astenuti. La scena si ripeté due giorni dopo in aula: 418 voti contro il dl, 33 a favore, 41 astenuti. Il dl fu sepolto. Non fu solo la sconfitta del governo Berlusconi, che imboccò la china che lo avrebbe portato a cadere meno di 6 mesi più tardi. Fu la battaglia campale che sancì di fatto la possibilità per il potere giudiziario di decidere sulle leggi che riguardavano la giustizia. Tre anni dopo il solo tentativo serio mai fatto di riformare la Costituzione sbatté e fallì proprio per quel veto della magistratura. Il 21 luglio del 1994, con il decreto Biondi fu sepolta la separazione dei poteri e un pezzetto dello Stato di diritto. Fu riconosciuta la prevalenza del potere giudiziario sugli altri poteri e sulla società. Più di un quarto di secolo dopo è giunto il momento di chiudere questa fase buia della storia italiana? Riuscirà questa impresa a Marta Cartabia? Vedremo. David Romoli

Dalla rivoluzione al pool di Mani Pulite. Chi è Francesco Greco, ascesa e caduta del procuratore di Milano. Frank Cimini su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Non vale certo per tutti ma per molti decisamente sì. Vale per il procuratore capo di Milano Francesco Greco che da giovane pm fece parte di una sparuta ma combattiva pattuglia di magistrati che tra Roma e Milano come “sinistra di Md” si oppose strenuamente all’emergenza antiterrorismo, alle leggi speciali. Greco scriveva su “Woobly collegamenti” un foglio dell’area dell’Autonomia e insieme a chi verga queste povere righe, a Gianmaria Volontè, al libraio Primo Moroni, a magistrati e avvocati prese parte a un collettivo, “il gruppo del mercoledì” impegnato a perorare la causa dell’amnistia per i detenuti politici. Insomma ne è passata di acqua sotto i ponti per arrivare ai giorni nostri, gli ultimi della carriera di Francesco Greco che il 14 novembre andrà in pensione dopo aver fatto cose molto diverse, eufemismo, dal contenuto delle sue idee giovanili. Greco fu la cosiddetta “mente finanziaria” del pool Mani pulite, una nuova emergenza dove recitò fino in fondo il ruolo di chi stava dalla parte di una categoria che approfittando del credito acquisito anni prima saltava al collo della politica per dire “adesso comandiamo noi”. Stiamo parlando di un magistrato che diede un enorme contributo ai mille pesi mille misure dell’inchiesta che avrebbe dovuto, stando alle aspettative, cambiare in meglio il paese. E invece tanto per fare un esempio Sergio Cusani che non aveva incarichi e nemmeno firme sui bilanci in Montedison prese il doppio delle pene riservate ai manager Sama e Garofano. Greco è stato il delfino di Edmondo Bruti Liberati, storico esponente di Md corrente nata a metà degli anni ‘60 teorizzando l’orizzontalità negli uffici giudiziari ai danni della verticalità. Bruti, con al fianco Greco e supportato dal capo dello Stato e presidente del Csm Giorgio Napolitano, usò tutta la verticalità possibile nello scontro con l’aggiunto Alfredo Robledo esautorato e trasferito perché voleva fare le indagini su Expo. E da quello scontro interno alla procura di Milano è derivata la linea generale del Csm che adesso lascia i capi delle procure liberi di scegliersi gli aggiunti senza interferire e rinunciando in pratica al suo ruolo. Tanto è vero che Greco riusciva a far nominare tra i suoi vice Laura Pedio che aveva titoli di gran lunga inferiori a quelli di Annunziata Ciaravolo. Ciaravolo aveva preannunciato a Greco la propria candidatura e il capo della procura aveva dato l’ok. Poi, è storia nota, Greco chiedendo l’appoggio di Palamara riusciva a ottenere il grado per la sua protetta. Adesso la rogatoria eseguita in Nigeria dall’aggiunto Pedio per il caso Eni è al centro di uno scontro furibondo con la procura di Brescia che chiede quelle carte nell’ambito dell’inchiesta sui pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Greco ha risposto picche spiegando che gli atti fanno parte di una istruttoria in corso coperta da segreto. Il procuratore di Brescia Francesco Prete, in questa lotta a chi ce l’ha più duro, si è rivolto al Governo che dovrebbe chiedere lumi alla Nigeria. Lo stato africano avendo fornito assistenza alla procura di Milano non dovrebbe creare problemi per il passaggio delle carte anche a Brescia. Ma nella vicenda Eni che sta facendo vivere alla procura milanese e al suo capo i giorni più difficili della sua storia nulla è scontato. Frank Cimini

Una risposta all'arroganza dei procuratori. Lo schiaffo dei Pm ai mandarini Salvi e Greco. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 27 Luglio 2021. L’arroganza è sempre una cattiva consigliera, figurarsi nella gestione dei rapporti gerarchici tra magistrati. A maggior ragione se ad adottarla sono due figure apicali come il procuratore generale della Cassazione Salvi e il procuratore capo di Milano Greco. Esse si muovono in un contesto nel quale sono già avvenuti terremoti sia a livello di Anm e di Csm sia per ciò che riguarda Milano, che è nell’occhio del ciclone per una serie di questioni. Ma innanzitutto per una: siccome i pm De Pasquale e Spadaro hanno puntato tutte le loro energie per distruggere il gruppo dirigente dell’Eni, l’assoluzione, accompagnata da una durissima motivazione, già aveva rappresentato una sconfitta bruciante per la procura nel suo complesso con code processuali visto che De Pasquale e Sergio Spadaro sono sottoposti ad un procedimento presso la procura di Brescia. A monte di tutto ciò c’è il preteso caso Palamara, preteso perché esso coinvolge tutto il funzionamento interno della magistratura per ciò che riguarda l’assegnazione delle cariche. Palamara infatti era una ruota dell’ingranaggio e non si è inventato lui la permanente trattativa fra le correnti indipendentemente dai curricula e dai meriti. Se non che ad un certo punto Palamara, leader della corrente di centro, ha commesso l’errore di rovesciare le alleanze passando da una alleanza di centrosinistra ad una di centrodestra. Così è partito non un proiettile, ma un missile a più stadi, cioè il trojan. Attraverso le intercettazioni del trojan, è stato messo in piazza il sistema, appunto, non le malefatte di Palamara. A quel punto, per salvare la magistratura ed il suo prestigio, occorreva una sorta di Rivoluzione Culturale con l’azzeramento di tutto, con le dimissioni del Csm, del suo vicepresidente Ermini, con la messa in questione anche della nomina – peraltro derivata da una dimissione – del pg della Cassazione Salvi, perché tutto derivava non da Palamara, ma dal Sistema nel quale Palamara era uno dei dirigenti del traffico. Invece, con un misto di arroganza e cecità, si è pensato di mantenere in piedi l’impianto, operando un assassinio mirato (il medesimo Palamara appunto, addirittura espulso dalla magistratura) con qualche mezzo suicidio selezionato (dimissioni talora sollecitate dalle correnti di riferimento anche di soggetti poi risultati innocenti). Già l’operazione era asfittica di per sé, poi è avvenuta in un contesto nel quale la contestazione di questo sistema giustizia era crescente: bastava solo che qualcuno accendesse un cerino. Il libro di Palamara e Sallusti è stato questo cerino che ha dato fuoco alla prateria. Neppure questo segnale è bastato. Questo è il retroterra utile a spiegare ciò che è avvenuto in questi giorni: un caso di straordinaria arroganza, posto in essere dal Procuratore di Cassazione Salvi in stretta connessione con il Procuratore di Milano Greco. Per raggiungere l’obiettivo di radere al suolo il gruppo dirigente dell’Eni, due avvocati in rottura con quella azienda, cioè Amara e Armanna, risultavano per i pm molto utili. Il primo aveva addirittura fatto oblique affermazioni secondo le quali il dottore Tremolada che guidava il processo, un magistrato da tutti stimato, “era avvicinabile dalla difesa dell’Eni” (questa affermazione se raccolta poteva far saltare il processo), in secondo luogo i due pm Di Pasquale e Spadaro sono in giudizio a Brescia per non aver inserito negli atti del processo delle prove favorevoli alla difesa (come è noto il pm esercita la pubblica accusa non per i fatti propri ma a nome del popolo italiano e quindi deve raccogliere anche eventuali prove favorevoli agli accusati): è quello che ai tempi di Mani pulite fece il vice di Borrelli dottor Dambrosio, quando raccolse prove a favore di Greganti e quindi del PCI – PDS). In un contesto già di per sé così ambiguo ed inquietante, Amara ha riferito al pm Storari che egli faceva parte di una loggia segreta, la Hungaria, insieme a personalità di grande rilievo (e ha fatto i nomi di alcune di esse che manipolavano i processi e contribuivano a costruire carriere nella magistratura). Non è affatto detto che Amara abbia raccontato la verità, però quello che egli ha messo a verbale andava accertato seguendo il meccanismo classico: avvisi di garanzia, indagini, perquisizioni, intercettazioni, magari anche con il trojan. Se non che Storari ha verificato che il suo procuratore capo Greco non si muoveva e allora si è rivolto ad una personalità rilevante del Csm cioè Davigo per suonare un campanello d’allarme. Ieri Davigo ha fornito sul Corriere della Sera un imbarazzante resoconto di tutte le personalità da lui interpellate, fino a lambire la presidenza della Repubblica. Quello che è avvenuto dimostra due cose: la prima è che si sono inceppati alcuni meccanismi procedurali nel sistema. La seconda è che, come ha affermato Sabino Cassese, la magistratura non può esercitare i meccanismi disciplinari su se stessa, perché, anche per l’esistenza delle correnti, ciò può produrre incredibili disastri. Comunque, come se in questi mesi non fosse successo niente, come se il Sistema fosse solidissimo, il procuratore capo della Cassazione Salvi, anch’egli contestabile perché espresso proprio da quel Sistema, ha deciso di prendere la scimitarra e di tagliare la testa di Storari, del solo Storari, addirittura allontanato da Milano per ridare serenità a quella procura e privato per il futuro di poter esercitare ancora il ruolo di pubblico ministero. Parliamoci chiaro: l’obiettivo di questo attacco frontale del Procuratore Salvi nei confronti di Storari ha come retroterra filosofico un motto tipico degli anni Settanta: colpiscine uno per educarne cento. E si fonda sulla forza del principio di autorità, in questo caso sostenuto anche dal procuratore capo di Milano Greco. L’iniziativa dei due potentissimi procuratori avrebbe dovuto mettere in riga tutti. Ma Salvi e Greco non hanno fatto i conti con la situazione attuale: essi sono gli ultimi dei “mandarini” di un sistema in crisi dalle fondamenta. Così, invece di andare a baciare la pantofola dei due procuratori, c’è stata l’iniziativa di un documento eterodosso sostenuto da un Pm di grande prestigio come Alberto Nobili che ha ottenuto più di cento firme, fra cui 56 su 64 fra i componenti della Procura. Il documento è assai calibrato, ma colpisce al cuore, anzi ridicolizza, le esagitate esternazioni di Salvi nel punto cruciale: «La loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega nell’esercizio delle sue funzioni presso la procura della Repubblica di Milano». Se qualcuno voleva risolvere con una operazione disciplinare il problema Storari, che non è più tale ma è quello della Procura di Milano, si è sbagliato di grosso. Che poi la sezione disciplinare di questo Csm delegittimato sia a sua volta in grado di affrontare a colpi di scimitarra una questione di questo spessore ci sembra del tutto impossibile. Passando dalla magistratura alla politica, è come se qualcuno pensasse di risolvere i tanti problemi politici che ha il Pd con la stessa metodologia autoritaria usata a suo tempo dal gruppo dirigente del Pci nei confronti del manifesto. Se Salvi pensa di trattare Storari come a suo tempo Longo, Amendola, Natta trattarono Pintor fa un errore colossale. La crisi è di sistema. Comunque bisogna dare atto si magistrati inquirenti di Milano di aver dato la prova di avere la schiena dritta. Il documento apre però problemi enormi per ciò che riguarda, al di là dell’episodio in oggetto, proprio il funzionamento della magistratura. Fabrizio Cicchitto

La lettera di 150 toghe in difesa di Storari. Valanga sulla procura di Milano, dopo 30 anni sotto accusa il metodo Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Una valanga. È ormai una valanga quella che si sta abbattendo sulla Magistratopoli milanese, sul capo della procura Francesco Greco e il suo asse che pareva inattaccabile con il pg della Cassazione Giovanni Salvi e i vertici di Magistratura democratica, la corrente sindacale che sostenne trent’anni fa la roccaforte di Mani Pulite e i loro metodi che oggi sono sul banco degli imputati. Una piccola ricompensa per le tante vittime di quel sistema, e soprattutto per i 41 che proprio per quello si tolsero la vita. Una valanga che oggi porta le firme di 58 pm milanesi su 64, e poi gip e giudici di tribunale e corte d’appello, e l’intera procura di Busto Arsizio, fino a superare il numero di 150 toghe che, dietro le righe di una solidarietà al collega Paolo Storari che Salvi vuole cacciare da Milano e da qualunque procura, dicono “basta” alla Magistratopoli lombarda. Il pg della cassazione (e con lui il capo della procura di Milano) ritiene che i magistrati milanesi non siano sereni, se Storari rimane lì. Siamo molto sereni qui con lui, rispondono in coro i colleghi. Quasi dicendogli “stai sereno” tu. Non è importante stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, per capire le ragioni di quel che sta succedendo. È stato il libro di Palamara e Sallusti a far rotolare il primo sassolino che diventerà valanga o è il caso Storari-Davigo con la maledizione del processo Eni a disvelare che ormai da tempo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si dice che “il re è nudo”? Nessuno pensava che un giovane sostituto fosse così importante, e probabilmente non lo è. Ma in tanti tra quelli più anziani negli uffici hanno la memoria lunga. E qualcuno sicuramente ricorderà le aspettative di chi avrebbe potuto diventare nel 2016 il capo della procura quando invece la scelta del Csm –quello in cui spopolava il sistema Palamara- era caduta su Francesco Greco, esponente di Magistratura democratica come gli altri candidati (a Milano finora è sempre andata così) ma soprattutto ex componente di quel gruppo che si arrogò il diritto di definirsi di Mani Pulite. Non è un caso che il leader dei giovani di procura che hanno steso il documento che, difendendo Storari, colpisce al cuore l’asse Salvi-Greco, si chiami Alberto Nobili e che sia, a quanto pare, il primo firmatario dello scritto di solidarietà al giovane pm che osò ribellarsi, pur con procedure sgrammaticate, al proprio capo. Chi ha la memoria più che lunga, addirittura lunghissima, tanto da saper andare, senza errori, fino all’indietro di trent’anni, potrà constatare che il Metodo, il Sistema, di certi procuratori, quello criticato con fermezza dal tribunale che ha assolto i vertici Eni nonostante la procura avesse esercitato pressioni di ogni tipo per arrivare alla condanna, non sono mai cambiati. Sono stati inventati allora e vengono messi in pratica ancora. Quando il procuratore Borrelli diceva come non fosse vero che loro tenevano le persone in carcere per farle confessare, ma che li scarceravano solo dopo che avevano parlato. Quando colui che allora era un semplice sostituto, Francesco Greco, al collega romano che era anche stato suo mentore Francesco Misiani che gli contestava la costante violazione della competenza territoriale, rispondeva come non fosse importante quale procura facesse le inchieste, ma “chi” potesse permettersi di farle. Cioè loro, gli alfieri con le Mani Pulite. Quel che è successo al processo Eni, e nei filoni complementari, ne è la plateale dimostrazione. Non è un caso che, proprio nei giorni scorsi, il procuratore Greco si sia rifiutato di consegnare ai colleghi bresciani una rogatoria fatta nel 2019 in Nigeria dalla collega e fedelissima Laura Pedio, che indagava insieme al collega Storari, su un filone parallelo rispetto al processo principale e che veniva chiamato del “falso complotto”. Anche senza entrare troppo nel merito, appare palese il fatto che la mentalità di allora si rispecchi nell’oggi: non è importante di chi è la competenza, ma “chi” è il predestinato a svolgere certe indagini. E Milano non dà le carte al procuratore di Brescia Francesco Prete, che è costretto a rivolgersi al governo. Così la procura di Milano, già all’attenzione del ministero (che ha mandato gli ispettori), del Csm (che sta ascoltando tutti, e proprio ieri Fabio Tremolada, che ha presieduto il processo Eni) e dei pubblici ministeri di Brescia (che indagano sia su Storari e Davigo per la diffusione di atti segreti, che su De Pasquale e Spadaro perché avrebbero nascosto al processo Eni importanti atti a discarico degli imputati) è decisamente sul banco degli imputati. Lo è per il metodo, e per l’arroganza. Come definire diversamente quel che è accaduto al processo Eni? Basta dare un’occhiata alle motivazioni della sentenza che ha assolto i vertici dell’azienda petrolifera per restare allibiti. Che i protagonisti dell’accusa si spendano per ottenere la condanna degli imputati è logico. Pur se si dovrebbe sempre ricordare che il pm è obbligato anche a portare in causa eventuali elementi a discarico. Se i due pm, come pare, non l’hanno fatto, nascondendo al processo una serie di prove che avrebbero dimostrato l’inattendibilità di un loro teste-accusatore, saranno sicuramente rinviati a giudizio dalla magistratura bresciana, competente a giudicare i colleghi milanesi. Ma il fatto più inquietante è un altro, anche perché ha una coda che riguarda personalmente il procuratore capo Greco e l’aggiunto Pedio. A un certo punto del dibattimento Eni, i pubblici ministeri avevano tentato di far entrare nel processo un verbale dell’avvocato Piero Amara (quello che aveva parlato della famosa “Loggia Ungheria”) in cui si metteva in dubbio l’integrità del presidente del tribunale Fabio Tremolada, definito come uno “avvicinabile”. Un tipo di testimonianza, soprattutto se resa da un personaggio discutibile come Amara, che in genere dovrebbe prendere la strada del cestino e essere trattato come carta straccia. Invece no. I due pm De Pasquale e Spadaro ci hanno provato, pur non potendo ignorare che un atto di quel tipo avrebbe potuto portare il presidente all’astensione e il blocco dell’intero processo. Ma la cosa ancora più grave è il fatto che il procuratore Francesco Greco e la fidata Laura Pedio inviarono quel pezzo di carta straccia alla procura di Brescia. A tutela del presidente Tremolada? Certamente. Quando mai ci si fanno gli sgambetti tra colleghi? Soprattutto quando un processo molto “politico” e molto mediatico sta andando male per la procura? Ora si vedrà se il Csm, se questo Csm che non ha avuto la forza di dare veri segnali di cambiamento dopo il “caso Palamara”, tenterà o meno di chiudere tutta la faccenda usando il pm Paolo Storari come capro espiatorio, come del resto ha chiesto il pg Giovanni Salvi, cacciandolo da Milano. Sarebbe un passo indietro, inaccettabile per la valanga delle firme che chiede il contrario. Ma se il procuratore della Cassazione, che forse ha a sua volta il problema di qualche cena di troppo e di qualche dichiarazione assolutoria nei confronti dei colleghi che si fanno raccomandare per fare carriera (ma non si chiama “traffico di influenze” se lo fa un politico?) da farsi perdonare, venisse sconfessato, dovrebbe dimettersi. E forse sarebbe ora di una svolta che rompesse anche la tradizione milanese quando a novembre Francesco Greco andrà in pensione.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Tangentopoli, l'imprenditore che denunciò Mario Chiesa: "Ho avviato Tangentopoli e mi sono rovinato". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2020.  Il 17 febbraio del 1992, con l'arresto di Mario Chiesa in flagranza di reato, cominciava Tangentopoli. Era un lunedì pomeriggio, l'inizio di una vicenda che trasformò completamente la politica, e quindi la società italiana. Sono passati quasi trent' anni da quel giorno, tutti conosciamo il nome di quel giudice a capo del pool Mani Pulite, Antonio Di Pietro. Ma per comprendere la spinta popolare che caratterizzò e sostenne quel momento storico, mi piace ricordare un estratto dell'intervista realizzata dal direttore Vittorio Feltri, e comparsa sul giornale "L'Indipendente " il 5 giugno del 1992, al magistrato molisano. Scrisse Feltri: «... e la gente, la quale, come pensano i politici, non capisce niente ma, contrariamente a quanto pensano i politici, intuisce tutto, ha intuito anche questo: che Di Pietro è uno sgobbone, uno che ci dà dentro, uno che va avanti per la sua strada anche se la strada non c'è, una persona che si muove in un ambiente, quello dei partiti, che di serio ha solamente la disonestà. Signor giudice. è consapevole della simpatia, della stima che la circondano? "So che c'è ansia di chiarezza, un profondo desiderio di moralità; e questo incoraggia chi fa il mio mestiere"». Ecco che cosa animava quel periodo storico: il desiderio di chiarezza rispetto a un mondo, quello politico, che stava da troppo tempo dimostrando una protervia insopportabile. E fu proprio la protervia, la mancanza di rispetto e, oserei dire, la maleducazione che hanno poi fatto decidere un giovane imprenditore, Luca Magni, di denunciare, facendolo per l'appunto cogliere in fragranza di reato, il presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa.

Dottor Magni, con la sua denuncia partì l'inchiesta "Mani Pulite". Era consapevole dell'importanza di quel suo gesto?

«Avevo trentun anni e pensavo semplicemente di fare qualcosa di giusto, ma non prevedevo minimamente tutto ciò che sarebbe accaduto dopo».

Lei, o meglio la sua società di pulizie, all'epoca lavorava per il Pio Albergo Trivulzio: come arrivò a quell'incarico?

«Avevo lavorato per un po' di tempo come funzionario tecnico di una società legata a Unilever, che aveva inventato un sistema di pulizia per ospedali molto avanzati. Le vendite erano importanti, noi prendevamo in gestione un reparto-campione per uno o due mesi, dopodiché la direzione sanitaria decideva se quel procedimento di sanificazione e pulizia poteva andar bene per loro».

Fu lì che conobbe Mario Chiesa?

«In realtà lo conobbi qualche tempo dopo, quando misi a punto la mia società. A Chiesa fui introdotto da chi era il mio capo precedente».

Come fu il suo incontro con il presidente del Trivulzio?

«Devo dire che il Pio Albergo Trivulzio, quando lo vidi la prima volta, era in uno stato di degrado assoluto. Ho il ricordo di alcuni vecchietti seduti su una sedia in uno stanzone mal tenuto, che guardavano una televisione non funzionante».

Una brutta situazione, quindi.

«Bruttissima. E Mario Chiesa stava davvero ristrutturando e riportando al giusto decoro quel luogo simbolo per la città di Milano. Insomma, devo ammettere che stava facendo un buon lavoro».

E dunque che cosa accadde?

«Venni chiamato dalla sua segreteria, perché mi veniva affidato un appalto di 140 milioni di lire. Andai da lui in ufficio e mi disse subito che il dieci per cento doveva essere a lui versato».

Rimase colpito?

«Molto, per i modi così immediati. Ma soprattutto rimasi esterrefatto da come costantemente la sua segretaria, la signora Stella (a cui furono trovati 13 miliardi di lire nella cassaforte), mi spronasse a versare quella tangente».

Mi spieghi.

«Mia sorella era ricoverata in ospedale perché stava male, io passavo le giornate accanto a lei ed ero molto preoccupato. Stella continuava a chiamarmi per ricordarmi di pagare la tangente. Era pressante e insistente in un modo davvero fuori luogo. Inoltre il Pio Albergo Trivulzio pagava con grande ritardo. Ma la cosa che più mi diede fastidio fu l'arroganza di Mario Chiesa».

In che senso? Mi faccia un esempio.

«Quando passava nei corridoi trattava sempre male chiunque, dagli operai agli infermieri. Era come se sentisse il bisogno di esercitare la propria supremazia attraverso la maleducazione».

E fu per questo che decise di denunciarlo?

«Assolutamente sì. Inoltre aggiunga che la mia provenienza familiare era di una famiglia molto ligia alla moralità. Così mi diressi verso il comando dei carabinieri di Milano, in via Moscova, e davanti al comandante Zuliani raccontai della richiesta di tangente».

E dopo?

«Arrivò il 17 febbraio, giorno in cui era si era deciso il blitz. Mi portarono da Antonio Di Pietro, in tribunale a Milano, dove rimasi solo con lui per confermare la mia denuncia».

Com' era Di Pietro?

«Molto digitalizzato, allora non era così comune. Aveva al suo fianco un fascicolo pronto su Chiesa e fu gentile e rassicurante, in quanto era palpabile la mia agitazione».

C'era stata la denuncia della ex moglie contro Chiesa.

«Sì, anche quell'aspetto fa comprendere l'arroganza e la prepotenza di Chiesa».

Dopodiché che cosa accadde?

«Andammo a segnare le banconote in via Moscova, mi misero il microfono e mi prepararono per cogliere sul fatto il presidente del Trivulzio. Partimmo in macchina in quella missione che era chiamata "Mike Papa", e il carabiniere al mio fianco aveva il nome di missione "Lupo"».

E quando arrivaste al Pio Albergo Trivulzio?

«Chiesa mi fece aspettare un'ora e mezza. Poi entrai nella sua stanza e diedi sette dei quattordici milioni pattuiti. Gli dissi: "Presidente, io così non posso andare avanti"».

Chiesa che cosa rispose?

«Anche la sua reazione mi colpì tantissimo: come se nulla fosse prese i soldi e commentò "quando mi porta gli altri?". È a quel punto che intervenne Lupo, gli disse di ridare i soldi che non erano suoi. Mario Chiesa andò in bagno e, si dice, si sbarazzò di altre mazzette, ma venne arrestato».

Come visse dopo quel momento, che ora si può definire storico?

«Mi ero liberato di un peso grande sulla coscienza ed ero contento. Improvvisamente ero diventato il centro di ogni trasmissione televisiva. Ma il lavoro calò vertiginosamente».

Perché?

«Perché non ero più considerato affidabile. Passai da fatturare più di un miliardo di lire a nemmeno cento milioni. Decisi così di chiudere l'azienda».

Lo rifarebbe, alla luce di ciò che le è accaduto?

«Sì, mille volte. Ma forse starei più attento e, quantomeno, mi costituirei parte civile per avere ciò che mi spettava economicamente in sede civile».

Lei ha più rivisto o sentito Mario Chiesa?

«Mai. Solo una volta venni chiamato dalla Guardia di Finanza e mi spaventai. Aspettai due giorni, e quando andai nella loro sede mi dissero che Chiesa mi aveva denunciato per delle mie affermazioni su un giornale».

Come andò a finire?

«Venne tutto archiviato».

Adesso come vive?

«Con mia moglie ed i miei tre figli. Due anni fa ho rischiato di morire a causa di un infarto, fumavo troppo».

E il lavoro?

«Ho una impresa di pulizie nuova che sta andando bene».

Ha rapporti con gli enti pubblici?

«No, lavoro solo con i privati. Almeno questo l'ho capito».

·        Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.

The whistleblower. Report Rai PUNTATA DEL 13/12/2021 di Emanuele Bellano. Collaborazione di Greta Orsi  

Le lacune nel sistema di controllo delle banche nella distribuzione e vendita dei diamanti. Con la crisi finanziaria le banche si sono trovate di fronte a riduzioni dei profitti, perdite e problemi di solidità. I loro consigli di amministrazione hanno dato il via libera a operazioni spregiudicate che hanno fatto perdere decine di migliaia di euro a milioni di risparmiatori. Nel 2016 Report ha scoperto che Mps, Banca Intesa, Unicredit e Banco BPM vendevano ai loro clienti diamanti per un valore complessivo di circa 1,5 miliardi di euro. I vertici di DPI, una delle due società che vendevano diamanti tramite i circuiti bancari, sono stati arrestati dalla procura di Milano e indagati per autoriciclaggio di varie decine di milioni. E nel 2019, tornando sulla vicenda, Report aveva ricostruito il coinvolgimento dei vertici di alcuni istituti bancari. Banca D'Italia, nel suo ruolo di vigilanza e di sanzionamento, ha avviato un'ispezione su banca Mps. Una testimonianza esclusiva, interna al team ispettivo, rivela a Report il coinvolgimento dei massimi livelli di Mps nel sistema di distribuzione e vendita dei diamanti. Dalla fonte e grazie ai documenti recuperati, Report ha ricostruito le lacune dell’intero sistema di controllo delle banche. 

“THE WHISTLEBLOWER” Di Emanuele Bellano Collaborazione Greta Orsi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Torneremo su una vicenda che ci ha visto protagonisti, quella della truffa dei diamanti che abbiamo denunciato nel 2016. Diamanti venduti con la complicità delle banche sulle quali avrebbe dovuto vigilare Banca d’Italia. Questa sera, però, il salto di qualità sta nel fatto che per la prima volta, forse nella storia della televisione, parla un whistleblower di Banca d’Italia, che solitamente è così riservata, e produrrà anche degli audio originali. Ecco, il whistleblower, che ci mette anche la faccia, ha detto: “Siamo andati a toccare personaggi e poteri molto forti che forse anche un’istituzione importante come Banca d’Italia non ha la capacità né di gestire e, nel caso, di punire.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In Europa la borsa dove vengono venduti e acquistati i diamanti è Anversa, in Belgio, dove gli scambi quotidiani e il rapporto tra domanda e offerta decidono il prezzo di ogni diamante.

EMANUELE BELLANO Quali sono gli elementi che determinano il valore di un diamante?

STEVEN TRANQUILLI - DIRETTORE FEDERPREZIOSI Il taglio, il colore della pietra che varia dal bianco al giallo paglierino, il peso e poi quella che è la purezza della pietra.

EMANUELE BELLANO Che cos’è il listino Rapaport?

STEVEN TRANQUILLI - DIRETTORE FEDERPREZIOSI È un listino di riferimento che ormai è in uso dalla fine degli anni Ottanta ed è il punto di riferimento per le vendite all’ingrosso ma anche per le vendite al dettaglio. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Cioè un listino internazionale che stabilisce il reale prezzo dei diamanti. Eppure, a un certo punto, le banche si sono messe a venderli a un prezzo doppio o triplo del loro valore. Una truffa ai danni dei risparmiatori su cui aveva cominciato a indagare un ispettore: è il primo whistleblower della storia di Banca d’Italia.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA La mia storia inizia quando, in qualità di responsabile in Banca d’Italia di un team che vigila su una delle principali banche del paese, congiuntamente a colleghi di BCE, ci imbattiamo in una problematica molto grave.

EMANUELE BELLANO Qual era la banca oggetto della vigilanza?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA La banca era il Monte dei Paschi di Siena.

EMANUELE BELLANO In che condizioni si è trovato a svolgere questo suo ruolo di vigilanza e controllo?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA C’è stato un crescendo, a un certo punto le pressioni subite erano, a mio avviso, fortissime, dopo qualche mese ho dovuto lasciare immediatamente team Mps divisione e poi alla fine mi sono arreso perché ero distrutto.

EMANUELE BELLANO Che cos’è che alla fine ha fatto esplodere la sua situazione?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Probabilmente siamo andati a toccare personaggi e poteri molto forti che forse anche un’istituzione come la Banca d’Italia non ha la capacità e la libertà di gestire e, se nel caso, di punire.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Di quali poteri parla? Lo vedremo nel corso della puntata. Intanto è proprio sul meccanismo della valutazione del diamante che si è consumata la mega truffa. Gli investitori e i risparmiatori si rivolgevano alle banche di fiducia per acquistare quello che pensavano un bene rifugio. E invece lo acquistavano a un prezzo doppio, a volte anche triplo, rispetto al valore reale. Ora, ci sono cascati nella trappola anche i vip: Vasco Rossi ha investito circa 2.500.000 euro, l’imprenditrice del settore farmaceutico Diana Bracco oltre 1 milione e 300 mila euro, la presentatrice Federica Panicucci 54.900 euro. La showgirl Simona Tagli oltre circa 30 mila euro. Ora, il meccanismo nella sua semplicità era diabolico. A vendere i diamanti erano due società: la DPI di Maurizio Sacchi e la IDB di Giacobazzi. Questi due signori prendono direttamente accordi con le banche nel 2012, con quelle più importanti in Italia, si tratta di Monte Paschi di Siena, Banca Intesa, Banco Popolare e poi queste banche che cosa fanno: vendono i diamanti in base a quale valutazione? Quella che è presente su un listino del Sole 24 Ore che, però, non è quello ufficiale del valore di mercato, il cosiddetto listino Rapaport, ma è un listino confezionato ad hoc e posto sul Sole 24 Ore acquistando uno spazio pubblicitario proprio dalle due società che vendevano: IDB e DPI. Insomma, incentivati anche dai premi bancari hanno venduto alla fine 1 miliardo e 300 milioni di euro in diamanti. E i bancari più bravi intascavano tablet, telefonini, soldi e anche gioielli. Fino a quando, però, non è arrivata la denuncia di Report che ha fatto saltare il banco. È intervenuta anche la magistratura che oggi ha imputato 104 tra manager, bancari e ha portato anche al rinvio a giudizio di alcune banche. Ma chi doveva vigilare invece sulle banche, come ha vigilato? Seguendo la traccia dei diamanti siamo arrivati a vedere e a scoprire delle complicità di politici, di massoni, di altissimi dirigenti di banca che, addirittura, per risolvere i loro problemi chiedono l’autorizzazione alla mafia. Il nostro Emanuele Bellano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I poteri di cui parla che l’ispettore di banca d’Italia Bertini sono quelli che ruotavano intorno alla vendita dei diamanti a investitori e risparmiatori da parte delle principali banche italiane. In particolare, Bertini indaga sul Monte dei Paschi di Siena. Una vicenda nella quale Report ha avuto un ruolo importante.

EMANUELE BELLANO Come nasce l'indagine di Banca d'Italia sulla vicenda Diamanti in Mps?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Nasce a seguito dell'impatto che hanno avuto sull'attività di vendita di diamanti da investimento in primis la puntata di Report e poi, qualche mese dopo, la sanzione dell'Antitrust per pratiche commerciali scorrette e successivamente l'avvio di un'indagine penale da parte della Procura di Milano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Mps era una delle banche che insieme a Intesa Sanpaolo, Banco BPM e Unicredit aveva deciso di vendere diamanti ai loro clienti come investimento. Le banche si affidavano per l'operazione a due società: la Inter market Diamond Business e la DPI, Diamond Private Investments. Di proprietà dell'imprenditore marchigiano Maurizio Sacchi, nel 2016 D.P.I. fatturava 300 milioni di euro ed era a un passo dal quotarsi in borsa.

ALFONSO SCARANO – ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE DPI nel 2012 non superava il milione di euro. Il balzo è da meno di un milione a 50 milioni che si è espanso fino a 286 milioni.

EMANUELE BELLANO Questo balzo nel fatturato da che cosa è dipeso?

ALFONSO SCARANO – ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE È dipeso dal canale di distribuzione bancario.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le due società DPI e IDB hanno venduto in totale ai risparmiatori attraverso le banche diamanti per 1,3 miliardi di euro, assimilando l’investimento all’acquisto di beni rifugio. Tra coloro che più consigliavano di puntare sui diamanti c’era l’ex viceministro dell’economia Mario Baldassarri.

MARIO BALDASSARRI - ECONOMISTA Nel lungo periodo si vede che il diamante mantiene il valore capitale e dà un rendimento, non grandissimo. Lo si vede qui, guardi: la riga azzurra è l'inflazione, la riga rossa sono i rendimenti dell'oro che vede può anche crollare di 3 o 400. Il diamante è la riga verde.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In televisione, come nei dépliant distribuiti ai clienti in banca la DPI, Diamond Private Investments, raccontava che il rendimento del diamante era sempre costante, indipendentemente dalla congiuntura economica e dalle oscillazioni di mercato. Oggi la Procura di Milano ha messo nel mirino le banche e le società che vendevano diamanti, a tutela dei consumatori ha effettuato un sequestro nei loro confronti per oltre 700 milioni di euro e 104 dirigenti rischiano il processo per truffa e autoriciclaggio.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Quando ci siamo imbattuti nella vicenda diamanti ovviamente la prima cosa che abbiamo fatto è stato approfondirla e cercare di capire il meccanismo. Ovviamente gli elementi che ci portavano a ritenere che si potesse trattare di una truffa erano molteplici. Il passo successivo è stato quello di provare ad individuare le responsabilità e di capire esattamente che cosa era successo all'interno della banca che noi vigilavamo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Mps vendeva diamanti in collaborazione con la DPI di Maurizio Sacchi. Dal 2013 al 2017 ha piazzato ai suoi clienti 340 milioni di euro in diamanti incassando commissioni al 15 per cento pari a 42 milioni di euro. Quando il meccanismo si blocca, Maurizio Sacchi contatta la Kamet Advisory di Niccolò Maria Pesce e le affida 20 milioni di euro.

EMANUELE BELLANO Sacchi a un certo punto si accorge di avere, di essere nell'obiettivo della Procura, ha del denaro che ha paura che in qualche maniera gli possa essere sequestrato dai magistrati nell'ambito dell'inchiesta che lo riguarda, e cerca un modo per, in qualche maniera, sottrarre questo denaro alla…

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Non è questa la vicenda.

EMANUELE BELLANO E com’è andata, mi faccia capire.

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Il signor Sacchi si è presentato da me, io ho chiesto di verificare dei soldi derivanti dalla truffa dei diamanti e quindi dei soldi derivanti dalla DPI. Non ho mai percepito un solo centesimo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Niccolò Pesce, in realtà, per il riciclaggio del denaro di Sacchi ha patteggiato una pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione. 20 milioni di euro dei risparmiatori sono finiti nelle sue società. Pesce ne ha investiti una parte acquistando sterline d’oro dalla Nexia Gold, società di Milano che vende lingotti d'oro.

JESSICA LEONE– AMMINISTRATRICE NEXIA GOLD Ha acquistato presso di noi beni per circa 800mila euro.

EMANUELE BELLANO Nello specifico che cosa ha comprato Niccolò Pesce?

JESSICA LEONE– AMMINISTRATRICE NEXIA GOLD Allora lui ha acquistato sterline. Soprattutto nei momenti di grande crisi è come possedere una moneta internazionale quindi lei ovunque va nel mondo è possibile cambiarla.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli 800mila euro in sterline d’oro sono, ad oggi, spariti nel nulla. La Guardia di Finanza immagina siano ben nascosti nei forzieri di qualche paese esotico. Ma è solo uno dei mille rivoli in cui sarebbero finiti i soldi degli investitori.

EMANUELE BELLANO 690 mila euro che vanno alla società Pesce Palla. A cosa sono serviti? Cioè, perché lei parte di quei denari li ha indirizzati a questa società Pesce Palla?

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Semplicemente per un investimento che poi era negli accordi taciti presi.

EMANUELE BELLANO Con chi, con Sacchi?

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Certo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO rifare L’investimento questa volta è nel settore della ristorazione. La società Pesce Palla gestisce l'omonimo ristorante a Forte dei Marmi che con quei soldi viene implementato e migliorato. Poi ci sono gli investimenti immobiliari.

EMANUELE BELLANO C’è un milione di euro circa con cui è stato acquistato un immobile a via Vincenzo Monti.

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Su questo lascerei, lasciare cadere il silenzio perché c'è ancora oggi un'indagine aperta

EMANUELE BELLANO La P&L Trade no?

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Sì.

EMANUELE BELLANO Di cosa si occupava? Gli vanno anche qui mi sembra un 200 mila euro.

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Non sono io la persona a cui dovete chiedere questo.

EMANUELE BELLANO Fa riferimento a lei. È una società di Carrara che ha una cava, no? Ma, da quello che è stato ricostruito, il marmo raccolto e gestito da questa società è stato usato poi per le finiture del bagno della casa di via Monti.

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL No.

EMANUELE BELLANO No?

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Sarebbe stato molto carino….

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’immobile nella prestigiosa via Vincenzo Monti a Milano ha un valore di 2milioni di euro. Le finiture del bagno in marmo, secondo la Procura, arriverebbero proprio dalla società di Carrara riconducibile a Pesce. La Guardia di Finanza sequestra poi una Porsche, due Mercedes, una Lancia d'epoca del ’72, un taxi veneziano e lo yacht “Mijuca”, un 35 metri acquistato per 900mila euro, tutti intestati alla società di Pesce MBA Condor che riceve 539mila euro dal re dei diamanti Maurizio Sacchi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quindi, Maurizio Sacchi, con la sua DPI, aveva accumulato milioni vendendo diamanti attraverso il circuito delle banche fino a quando, nel 2016, scoppia lo scandalo grazie anche alla denuncia di Report. A quel punto tutti gli investitori, risparmiatori che avevano comprato i diamanti, come previsto da contratto, volevano restituire i diamanti e riprendere indietro i soldi, solo che c’erano i soldi? Giacobazzi della IDB non regge allo scandalo e si uccide. Maurizio Sacchi invece è preoccupato di mettere al riparo quello che aveva accumulato e si rivolge ad un altro imprenditore, Nicolò Pesce. Gli affida dei soldi con i quali compra delle auto di lusso, un immobile, dei marmi pregiati, addirittura uno yacht e anche delle sterline d’oro. Nicolò Pesce patteggerà una pena di 4 anni e 4 mesi dalle accuse di riciclaggio. Ma come ha fatto Maurizio Sacchi in 4 anni circa a passare da un fatturato di meno di un milione di euro a circa 300 milioni di euro? È grazie sicuramente alla complicità del circuito bancario, che si manteneva sulla fiducia dell’investitore nei confronti della propria filiale di banca. Gli prospettavano i diamanti come investimento sicuro e invece facevano il doppio gioco. Questo emerge chiaramente dalla documentazione di cui è entrato in possesso il nostro Emanuele Bellano e che riguardava i bancari di Monte Paschi di Siena. Sapevano perfettamente che stavano vendendo un diamante che veniva valutato dal mercato reale oltre 24mila euro a 46 mila euro, e sapevano perfettamente che il sistema si reggeva in piedi fino a quando c’erano le due società che vendevano i diamanti. Se fosse accaduto qualcosa a queste due società il sistema sarebbe crollato. Solo che Maurizio Sacchi e queste società che vendevano i diamanti avevano le radici ben profonde nel sistema finanziario. Avevano complicità con ministri dell’epoca, avevano complicità nei bancari e c’era anche un uomo dentro Banca d’Italia, che è stato per trent’anni in Banca d’Italia, e che ha diretto anche quel dipartimento che avrebbe dovuto vigilare su eventuali truffe ai risparmiatori. È quello che ha cercato in qualche modo di fare il nostro ispettore Carlo Bertini, che ha scoperto ad un certo punto che l’accordo tra Sacchi e i vertici del Monte Paschi di Siena era avvenuto già nel 2012 quando c’era presidente Profumo e amministratore delegato Viola. E poi il mercato della vendita dei diamanti si è proprio sviluppato fino a raggiungere il suo apice nel 2016. Proprio in quell’asse di reggenza di Viola e Profumo. Poi è arrivato Report che ha fatto saltare il banco. Solo in quel momento è emerso il fatto che banchieri e società di diamanti avevano messo insieme una specie di schema Ponzi.

ALFONSO SCARANO – ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE Lo schema Ponzi è: io ti do grandi risultati economici ma questo richiede un’entrata di tanti altri, tra virgolette, polli.

EMANUELE BELLANO Cioè è un circolo, è una catena di Sant’Antonio.

ALFONSO SCARANO – ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE È una catena di Sant’Antonio. Quindi fino a che la catena di Sant’Antonio è alimentata, lo schema Ponzi, dal punto di vista finanziario, si mantiene. Nel momento in cui iniziano i riscatti, lo schema Ponzi rapidamente collassa.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il meccanismo è definito schema Ponzi dal truffatore italo americano Charles Ponzi che negli anni 20 mette in piedi negli Stati Uniti varie truffe di questo tipo. Partito a febbraio 1920 con 5.000 dollari a luglio è milionario. La sua corsa si ferma a novembre 1920 quando viene dichiarato colpevole di frode fiscale e imprigionato

EMANUELE BELLANO Ponzi è considerato un truffatore, è stato per 10 anni in carcere ed è finito in povertà. Questo meccanismo, in questo caso invece, veniva avallato dalle principali banche italiane.

ALFONSO SCARANO – ANALISTA FINANZIARIO INDIPENDENTE Hanno distribuito diamanti Banca Intesa, Unicredit, Monte dei Paschi e tante altre banche e quindi afferma un declino della governance bancaria e un danno enorme alla reputazione bancaria.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'accordo quadro tra la Dpi di Maurizio Sacchi e Banca Monte Paschi di Siena per vendere i diamanti ai risparmiatori risale al 2012. Nel 2013 venivano definiti i dettagli della vendita di diamanti. Il dirigente Mps responsabile dell'area investimenti privati è Eugenio Periti. Nella sua agenda elettronica il 13 settembre 2013 appunta: Sacchi ha incontrato Viola cioè l'amministratore delegato di MPS.

EMANUELE BELLANO Salve. Eugenio Periti? È lei? Questa è una sua agenda all'epoca del 2013 Outlook dove c'è appuntato che Sacchi ha incontrato Fabrizio Viola, l'amministratore delegato di Mps. Mi può dire come mai si sono incontrati, qual è il motivo per cui si sono incontrati?

EUGENIO PERITI – RESPONSABILE PRIVATE BANKING MPS FEBBRAIO 2010- GENNAIO 2018 No, dovrebbe chiederlo a loro eventualmente.

EMANUELE BELLANO Però lei lo ha appuntato, l’ha registrato sulla sua agenda, ci sarà stato un motivo per cui si sono incontrati. Era per discutere su come organizzare la questione diamanti?

EUGENIO PERITI – RESPONSABILE PRIVATE BANKING MPS FEBBRAIO 2010- GENNAIO 2018 Guardi la ringrazio.

EMANUELE BELLANO Mi può dire che tipo di relazione c'era tra Sacchi e Viola?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Periti non risponde. Ma le risposte si trovano nelle mail interne di Mps. In una mail del 12 ottobre 2012 si legge: il dott. Sacchi, presidente della Diamond Investment, ha un contatto diretto col presidente del gruppo Mps, cioè Alessandro Profumo. Il 7 febbraio 2013 un collega di Mps scrive a Eugenio Periti: “Ho appena finito l'incontro con Maurizio Sacchi”. Periti risponde: “ottimo lui è amico di Baldassarri Mario il quale conosce molto bene anche il nostro presidente”, Alessandro Profumo. Mario Baldassarri, ex viceministro all'Economia, nel 2013 è senatore del Pdl e presidente della commissione Finanze e siede nel Cda della Dpi, la società di Maurizio Sacchi che venderà i diamanti con Mps. Dalla agenda della Banca emerge che l'ad di Mps, Fabrizio Viola, poche ore dopo aver incontrato il manager dei diamanti Sacchi, abbia incontrato anche Baldassarri. L’ex viceministro che dalla Tv invitava ad investire in diamanti aveva qualche interesse? Pare di sì visto che era nel cda della DPI di Sacchi. Avevamo intervistato Mario Baldassarri subito dopo aver scoperto la truffa dei diamanti.

EMANUELE BELLANO La Diamond Private Investments vende i diamanti a un prezzo che è almeno il doppio di quello che sono quotati sul listino internazionale

MARIO BALDASSARRI - ECONOMISTA Scusi, scusi…. Siccome l'ha detto lei, io sono membro del consiglio d'amministrazione e quindi non voglio entrare in conflitto di interessi parlando della Diamond Private Investments. Lei ha tutti i dati, se li va a cercare, nei siti. Essendo membro del consiglio di amministrazione francamente non posso rispondere a delle domande specifiche.

EMANUELE BELLANO Cioè lei non ha idea di come vengono venduti questi diamanti?

MARIO BALDASSARRI - ECONOMISTA Non è il mio lavoro, non è il mio mestiere. Credo che vengano venduti attraverso gli sportelli bancari.

EMANUELE BELLANO Ma a che prezzo, per esempio? Vengono venduti a un prezzo che è il doppio, almeno il doppio del prezzo di mercato di quello stesso diamante specifico, identificato con le stesse caratteristiche.

MARIO BALDASSARRI - ECONOMISTA Ma francamente lo voglio dire. Questa sua affermazione è del tutto arbitraria.

EMANUELE BELLANO Io voglio farle…

MARIO BALDASSARRI - ECONOMISTA Mi dispiace ma io non posso risponderle. Grazie e arrivederci.

EMANUELE BELLANO Niente. La finiamo qui?

MARIO BALDASSARRI - ECONOMISTA Sì. EMANUELE BELLANO Ma questo meccanismo chi lo ha partorito, insomma? Cioè il sistema di vendita, quello che è rappresentato dal contratto?

MARIO BALDASSARRI - ECONOMISTA Il professor Massimo Santoro che è stato presidente fino a pochi mesi fa, che è morto, che è persona di grandissimo livello a mio parere e che ha seguito tutte le procedure in modo che fosse tutto trasparente e corretto. E

MANUELE BELLANO FUORI CAMPO Prima di dedicarsi ai diamanti, Massimo Santoro è stato per trent'anni un alto dirigente di Banca d'Italia dove ha ricoperto, fino al 1997, il ruolo di direttore centrale dell'area vigilanza creditizia e finanziaria, proprio il dipartimento che vigila sull’operato delle banche e che controlla che non siano messe in atto truffe ai danni dei risparmiatori. Nel 2011 diventa presidente di Diamond Private Investment dove pianifica il meccanismo di vendita dei diamanti attraverso gli sportelli bancari.

EMANUELE BELLANO Lei nel corso dell'indagine aveva trovato tutto? Cioè, le mail di Periti sull'amicizia tra Profumo e Mario Baldassarri e gli incontri di Viola con Baldassarri e Sacchi a Roma?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Sì, abbiamo trovato anche di più. Ad esempio, abbiamo trovato un contest che prevedeva dei premi ai dipendenti per aumentare le vendite e le segnalazioni di diamanti da investimento e avevamo trovato che questo contest era stato firmato ai massimi livelli della banca.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Si tratta di un concorso interno con tanto di regolamento che aveva come scopo quello di incentivare i dipendenti di Mps a piazzare più diamanti possibili ai clienti. Prevedeva un sistema di premi che andavano da un paio di orecchini con diamanti da 0.20 carati per chi trovava 5 clienti, a uno smartphone, fino a un solitario con diamante da 0.40 carati, valore 900 euro, per i dipendenti che piazzano diamanti ad almeno 15 clienti.

EMANUELE BELLANO Formalmente la banca, Mps, che cosa dice a Banca d'Italia a riguardo?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Ma ci dice che i vertici della banca, il presidente e l’amministratore delegato non avevano la minima idea di questa attività.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Invece l’ispettore di Banca d’Italia Bertini, frugando tra i documenti di Mps, trova quello con la firma dell’amministratore delegato Fabrizio Viola, che aveva approvato la gara apremi per i bancari che vendevano diamanti.

EMANUELE BELLANO Lei trova questo documento con la firma di Fabrizio Viola. Che cosa significa?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Che evidentemente l'amministratore delegato di Mps era al corrente di questa, dell'attività che la banca poneva in essere e, consapevolmente, aveva autorizzato l'introduzione di un sistema incentivante per spingere le vendite di diamanti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Carlo Bertini, che è a capo del team che sta indagando su Monte Paschi di Siena, incappa sulla vicenda diamanti, acquisisce documentazione che farebbe sospettare un accordo tra Viola, Profumo e il manager della DPI, Maurizio Sacchi, nella vendita dei diamanti. Acquisisce anche l’autorizzazione firmata da Viola per incentivare i bancari a vendere i diamanti, e frugando nell’agenda scopre anche le amicizie, le relazioni tra gli amministratori di Monte dei Paschi di Siena e l’ex viceministro Baldassari, viceministro all’Economia nel governo Berlusconi 2001-2006, capo della commissione Economia e Finanze. Baldassari ha anche un ruolo all’interno della DPI, dove è membro del consiglio di amministrazione. Insomma, ha interesse anche a promuovere i diamanti come investimento – l’abbiamo sentito in alcune trasmissioni televisive – però poi quando il nostro Emanuele Bellano gli chiede “ma lei sa con quale valutazione e quotazione vengono venduti i diamanti dalle banche?”, questo non gli interessa. Ma a margine dell’intervista ci confida un particolare importante: l’ideatore di tutto questo sistema di diamanti venduti nelle banche sarebbe un uomo che è stato in Banca d’Italia per trent’anni, Massimo Santoro, era stato anche a capo del dipartimento di vigilanza sulle banche per evitare che venissero truffati i risparmiatori. Con queste competenze Massimo Santoro, nel 2011, diventa presidente della Dpi, la società di Sacchi che vende i diamanti attraverso le banche. Quando nel 2017 Carlo Bertini entra in MPS ed acquisisce documentazione che farebbe sospettare un coinvolgimento degli amministratori delle banche Viola e Profumo, informa i suoi capi ma nota che c’è qualche cosa che non va. Il suo attivismo non è né incentivato né apprezzato, allora comincia a registrare i colloqui a partire da quello che ha con il suo responsabile Ciro Vacca.

CIRO VACCA - CAPO DEL SERVIZIO SUPERVISIONE BANCARIA DI BANCA D’ITALIA Carlo, io sono convintissimo che tutti i vertici delle banche non solo sapessero ma parlo non solo di Mps, di Intesa avessero sicuramente agevolato questa operatività. Io sono assolutamente convinto che Viola e Profumo non potevano non sapere. Il problema è che gli elementi che noi avevamo erano veramente pochi e quindi questa cosa è stata presa ed è stata mandata all'autorità giudiziaria che ha i poteri per poter accertare questa cosa. Quindi come può venire fuori questa cosa? Può venir fuori dagli interrogatori, cioè che il magistrato mette sotto pressione quelli che stavano sotto Profumo e Viola e, sotto la paura che gli tolgono la casa e così via, parlano.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Però è vero non siamo PM ma, se si tratta di approfondire, di acquisire qualche informazione in più, sennò rischiamo di fare la figura di quelli che pettinano le bambole.

EMANUELE BELLANO A quel punto cosa succede?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Succede che noi riteniamo che gli elementi a nostra disposizione siano, siano sufficienti, siano sufficientemente robusti, li formalizziamo.

EMANUELE BELLANO Cioè vengono comunicati ai capi della vigilanza di Banca d’Italia?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Esattamente e ci viene detto che, proprio alla luce del contenuto del nostro documento, le indagini sarebbero proseguite per altri due mesi.

EMANUELE BELLANO E poi l'indagine prosegue?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA No, dopo pochi giorni si chiude come da programma.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La posizione ufficiale di Banca d'Italia è in questo rapporto datato 8 giugno 2018, a firma di Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza di Banca d'Italia, e registrato come riservatissimo. I rapporti con la società Dpi, si legge, sarebbero stati intrattenuti direttamente dai responsabili dell'operatività retail cioè da manager intermedi di Mps. Gli organi di vertice della banca non avrebbero preso invece contezza del fenomeno. Dunque, secondo il capo della vigilanza di Banca d’Italia, la vendita dei diamanti sarebbe avvenuta all’insaputa del presidente Profumo e dell’amministratore delegato di Mps Viola, smentendo quanto invece era stato scoperto dell’ispettore Carlo Bertini.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA E proprio per questa ragione che riteniamo opportuno formalizzare in un documento, diciamo ufficiale, le nostre conclusioni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 20 settembre 2018, Carlo Bertini scrive ai colleghi di Banca d'Italia la mail che segnerà la sua carriera.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Sostanzialmente diciamo che non riusciamo a trovare una spiegazione logica che ci consenta di escludere un'ipotesi molto grave e cioè che sostanzialmente l'intera banca fosse pienamente consapevole che quell'attività era un'attività illecita, truffaldina.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Carlo Bertini mette nero su bianco tutte le criticità dell'indagine. Più procediamo nella lettura e rilettura delle carte, scrive, più crescono in noi i dubbi sul fatto che la nostra indagine sia sufficientemente attendibile. Difficile, infatti, trovare spiegazione razionale al perché una lunga serie di warning non sia giunta ai vertici della banca, nella quale la crescita esponenziale delle vendite di diamanti è avvenuta anche grazie a un contest firmato dallo stesso amministratore delegato. Al fatto che anche dopo la puntata di Report la vendita sia proseguita per diversi mesi, al fatto che l’audit in Mps sia partito solo a seguito della perquisizione della Guardia di Finanza.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Quest’e-mail scatena l'inferno. Il mio capo servizio mi dice che il capo dell'ispettorato lo chiama come un pazzo. E poi aggiunge, ma letteralmente come un pazzo, perché pensava che io fossi d'accordo con te. Poi mi dice che la voce arriva al capo della vigilanza il quale, se ben ricordo, da ex ispettore dice ma questo è impazzito, certe cose non si scrivono in una e-mail ma si dicono a voce o si scrivono su un pezzo di carta. Mi viene detto che la voce era arrivata anche all'allora vicedirettore generale della Banca d'Italia, io chiedo ah e come l'ha presa il vicedirettore generale? E il mio caposervizio mi dice che ovviamente non l'ha presa bene.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 22 ottobre 2019 Bertini incontra il suo caposervizio Ciro Vacca negli uffici di Banca d'Italia.

EMANUELE BELLANO Di che cosa l’accusa il suo capo in questo incontro?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Ma il mio capo mi accusa di grossi problemi di relazione con i colleghi della divisione e il mio team, mi dice che sono arrogante, che tratto male le persone, che il mio team sta esplodendo per colpa mia.

CIRO VACCA - VICE CAPO DIPARTIMENTO VIGILANZA BANCARIA E FINANZIARIA BANCA D'ITALIA Il punto è che la situazione è molto peggiorata. Quindi io la prima cosa che ti consiglierei…

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Va be’… se è così… ho bisogno di un po' di riposo.

CIRO VACCA - VICE CAPO DIPARTIMENTO VIGILANZA BANCARIA E FINANZIARIA BANCA D'ITALIA Secondo me è questo, secondo me purtroppo è questo, perché tu non sei questa persona, io ti conosco, cioè… non ti appartiene un certo modo di relazionarti. Fattela una chiacchierata coi tuoi colleghi.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Ma quindi loro cosa lamentavano, li trattavo male?

CIRO VACCA - VICE CAPO DIPARTIMENTO VIGILANZA BANCARIA E FINANZIARIA BANCA D'ITALIA Sì, sì, molto… comportamenti arroganti, improvvisi e così via. Io stanotte non ci ho dormito. A questo punto da manager purtroppo sono costretto a dover comunque, come dire, stimolare delle decisioni nell'interesse del gruppo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le decisioni che Ciro Vacca intende stimolare riguardano il trasferimento di Carlo Bertini in un altro ufficio. Ad esprimere la solidarietà al funzionario di Banca d’Italia sono gli stessi componenti del suo del team.

COLLABORATRICE CARLO BERTINI Carlo se posso dare un benché minimo supporto in questa assurda vicenda esprimendoti tutta la mia solidarietà stima e affetto per il capo che sei stato, be’ per me è un onore e un piacere. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Messaggi di stima e di incredulità per le accuse ricevute arrivano anche da altri membri del team con cui Bertini ha lavorato per mesi.

EMANUELE BELLANO Questa situazione ha un impatto sulla sua carriera e sul ruolo che lei aveva nell'ambito dell'istituzione?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Assolutamente sì. Mi dicono che devo lasciare immediatamente sia il team Mps che la divisione di appartenenza.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A dicembre 2019 Banca d'Italia comunica a Carlo Bertini che deve sottoporsi a visita psichiatrica al fine di accertare la sua idoneità a continuare a lavorare. Il funzionario si presenta negli uffici di Medicina del Lavoro dell'Università di Tor Vergata e va a colloquio con due medici.

EMANUELE BELLANO Essere stato sottoposto a questa visita come l'ha fatta sentire?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA (piange)

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L'esito della perizia viene emesso il 14 gennaio 2020. Si legge nel documento: “Idoneo alla mansione specifica”. In altre parole, Carlo Bertini non solo può svolgere tranquillamente il suo lavoro, ma non ha neppure bisogno neanche di un periodo di riposo. Ma come si è arrivati a questo punto? Da quando Carlo Bertini aveva raccolto materiale all’interno di Monte Paschi di Siena ed era convinto a portare avanti un’inchiesta e ad aprire un procedimento per sanzionare i vertici di Monte Paschi di Siena. Solo che i suoi responsabili sono molto più tiepidi, aspettano l’intervento della magistratura. Ma Bertini non ci sta, dice se non portiamo avanti l’inchiesta sembra che siamo qui a pettinare le bambole. Dopo pochi giorni gli viene tolta l’inchiesta e il capo degli ispettori di Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo, scrive che “le modalità di vendita dei diamanti sarebbero un affare esclusivamente tra la DPI di Sacchi e i responsabili retail delle banche”. Insomma, il presidente Profumo e AD Viola sarebbero stati, secondo Barbagallo, all’oscuro della modalità truffaldine con cui venivano venduti i diamanti. Ma Carlo Bertini non ci sta e porta le sue rimostranze sul tavolo del capo della vigilanza di Banca d’Italia, Paolo Angelini.

PAOLO ANGELINI – VICEDIRETTORE GENERALE BANCA D’ITALIA Tu hai moglie? Hai dei bambini?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Sì.

PAOLO ANGELINI – VICEDIRETTORE GENERALE BANCA D’ITALIA Ecco pensa anche a loro cioè mi sembri veramente molto coinvolto, troppo. A un certo punto uno dice: alt un secondo signori, ho un problema, cioè qualcuno qua ha fatto una porcata? Io vado all’internal audit, vado da Visco, scrivo una lettera, vado dal magistrato, fai quello che ti pare ma io personalmente te lo sconsiglio. Tu vuoi lavorare, vuoi stare tranquillo o vuoi partire con una guerra contro chi?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Ho una dignità e non mi fermo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Pochi giorni dopo questo colloquio, Bertini scrive una mail al governatore di Banca d'Italia, Ignazio Visco. Successivamente scriverà per chiedere un colloquio anche all'allora direttore generale di Banca d'Italia Daniele Franco, oggi ministro dell'Economia nel governo Draghi. Poi avvia la procedura interna per il whistleblowing e per l’antimobbing.

EMANUELE BELLANO Che esito hanno avuto queste procedure?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Pur essendo previsto dalla circolare che norma questa procedura nessuno mi ha mai contattato quindi non ci sono stati ulteriori passi da parte della Banca d'Italia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questo clima i vertici della vigilanza di Banca D’Italia devono decidere se avviare o meno l’attività sanzionatoria per la questione diamanti, una multa che può arrivare fino al 10 per cento del fatturato di Mps.

EMANUELE BELLANO Chi sono i destinatari della sanzione?

ALDO ANGELO DOLMETTA - DOCENTE DIRITTO BANCARIO UNIVERSITÀ CATTOLICA MILANO La banca e poi i suoi organi apicali, e quindi gli amministratori fondamentalmente, in quanto gestori di base della attività. Si assume che comunque loro conoscessero o dovessero conoscere l’attività.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ciro Vacca è il capo servizio dell’ispettore Bertini. È lui che coordina in Banca d'Italia la vigilanza su Mps per la questione diamanti. E infatti, ritenendo solide le indagini di Bertini, aveva chiesto di attivare le sanzioni per Profumo e Viola.

CIRO VACCA - VICE CAPO DIPARTIMENTO VIGILANZA BANCARIA E FINANZIARIA BANCA D'ITALIA Che cosa emerge? Emerge palesemente che c'erano tra virgolette delle carenze spaventose e quindi il sottoscritto si attiva immediatamente e questo avviene già a fine 2017 affinché si avvii questa cazzo di procedura sanzionatoria. Benissimo, questa cosa è andata avanti un anno per una maledetta “stop and go” di Bernasconi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Alto dirigente di Banca d'Italia, Fabio Bernasconi è all'epoca capo del Servizio Rapporti istituzionali di vigilanza, cioè colui che coordina l'attività di Banca d'Italia con le procure e che gestisce le procedure sanzionatorie.

CIRO VACCA - VICE CAPO DIPARTIMENTO VIGILANZA BANCARIA E FINANZIARIA BANCA D'ITALIA La procedura sanzionatoria perché non andava avanti? Non andava avanti perché si doveva decidere se si doveva andare con la procedura sanzionatoria che la facciamo noi o quella della Bce e io a insistere facciamola noi perché poi dopo ce la casseranno la cosa ma lasciamo traccia che noi l’abbiamo fatta la procedura sanzionatoria. Risultato: questa cosa non avviene. E

MANUELE BELLANO FUORI CAMPO Banca d'Italia alla fine passa la patata bollente alla Bce dove gli incartamenti arrivano nella primavera del 2019. EMANUELE BELLANO A che punto è la procedura per la questione diamanti?

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Noi mandammo le carte a Francoforte a marzo 2019. Un anno dopo la procedura era sostanzialmente ancora ferma.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo al 2 aprile 2020, da un anno circa si è conclusa l’indagine su Monte Paschi di Siena e viene coinvolta la BCE, dopo un anno di stop and go. E il dipartimento che è competente sulle procedure sanzionatorie della BCE, scrive in una nota riservata di cui Report è venuto in possesso. La BCE dice “che non è in grado di esercitare la propria attività di investigazione sulla questione diamanti Mps, poiché è in attesa che banca d’Italia invii altre informazioni per valutare se il Monte Paschi di Siena abbia infranto o meno la legge”. Oggi invece, su nostra richiesta, ci scrive: “La vendita di diamanti è da considerare una pratica commerciale scorretta e quindi non è ritenuta sanzionabile”. Cioè ci devono pensare altri, insomma non hanno detto se poi Banca d’Italia gli ha mandato o meno il materiale che aspettavano. Ma perché le banche dovrebbero smettere di avere un comportamento truffaldini se poi nessuno le sanziona. Deve intervenire, come al solito, la magistratura. Quando l’ispettore Carlo Bertini dice: “Io mi sono reso conto di essermi scontrato con dei poteri forti”. Tutto da lì cominciano i suoi guai. Ma quali poteri forti sono? Seguendo la traccia dei soldi si arriva all’avvocato Giancarlo Pittelli, ex Forza Italia, entrato poi in Fratelli d’Italia, oggi è coinvolto in una brutta inchiesta sulla criminalità organizzata, è anche il legale delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta della Calabria: Piromalli e Mancuso. E ha anche immancabili legami con la massoneria.

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL È stato direttamente signor il Sacchi a chiedermi di volturare tali denari.

EMANUELE BELLANO All'avvocato Pittelli?

NICCOLÒ MARIA PESCE – AMMINISTRATORE UNICO KAMET ADVISORY SRL Esattamente.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Giancarlo Pittelli, ex senatore di Forza Italia, passato dal 2017 in Fratelli d’Italia, è dal 1980 avvocato delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta Piromalli e Mancuso ed è avvocato e amico di Maurizio Sacchi, il re dei diamanti proprietario della società Dpi. Maurizio Sacchi trasferisce 300 mila euro a Niccolò Pesce che a sua volta li gira sul conto corrente personale di Giancarlo Pittelli. Pittelli in quel momento non sa di essere intercettato nell’inchiesta di mafia che lo poterà agli arresti e parla con il manager dei diamanti Maurizio Sacchi su come investire bene i 300 mila euro e trasformali in 30 milioni.

INTERCETTAZIONE GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Io ho una società, questa società trasferisce il terreno a una newco, dove il 50 per cento lo tieni tu e il 50 per cento lo intesto o a me o a mia figlia. Punto. Andiamo d'urgenza a prenderci l'altro terreno e lo intestiamo direttamente alla società. A questo punto si può fare misto appartamenti e hotel. È uscita il 21 di marzo la nuova legge, l’hai vista? Sul Condhotel, condominio-hotel. Benissimo, iniziamo a costruirci con 300 mila euro ci facciamo due lotti di appartamenti. Si vendono e si va avanti, si vendono e si va avanti. Alla fine con 10 mila metri quadri da costruire, parliamo di 30 milioni di euro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La società viene costituita a Catanzaro, come previsto 50 per cento delle quote vanno a Maurizio Sacchi, il resto alla famiglia Pittelli. Sacchi, oltre ai soldi inviati per tramite di Pesce, trasferisce alla società altre tre tranche di denaro per un valore totale di un milione di euro.

PIETRO COMITO – GIORNALISTA LACTV La storia inizia quando emerge la volontà di Giancarlo Pittelli di realizzare un importante complesso residenziale turistico a Copanello, che è una frazione di Stalettì, lungo la fascia ionica catanzarese.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sulle acque incontaminate delle vasche di Cassiodoro c'è la baia di Copanello, scogliere a piombo sul mare e reperti archeologici di età bizantina ne fanno uno dei luoghi più suggestivi della costa ionica. Perfetto per costruire una struttura alberghiera

PIETRO COMITO – GIORNALISTA LACTV Giancarlo Pittelli ha terreni di sua proprietà ma ci sono anche altri terreni che risultano gravati da un'ipoteca. Un'ipoteca di un valore di circa 750 mila euro. Per utilizzare quei terreni, bisogna rimuovere questo vincolo reale. Allora cosa fa? Decide di attivare i suoi canali per cercare di addivenire a una transizione con il detentore di questo credito che è transitato ad una società per azioni che si chiama Fbs, che è una società con sede a Ravenna. A Ravenna chi ha Pittelli? Ha un aggancio importantissimo. SIGNORE Che cos’è lui maestro, no?

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Lui è il sovrano, è il capo del rito scozzese. Leo Taroni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Leo Taroni, sovrano, gran commendatore del rito scozzese antico ed accettato è al vertice di questo ramo della massoneria con legami che spaziano dai Caraibi alla Russia.

LEO TARONI - SOVRANO GRAN COMMENDATORE DEL RITO SCOZZESE ANTICO E ACCETTATO Pronto.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Buongiorno maestro, sono Giancarlo Pittelli da Catanzaro.

LEO TARONI - SOVRANO GRAN COMMENDATORE DEL RITO SCOZZESE ANTICO E ACCETTATO Ue, buongiorno.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Perdona il fastidio.

LEO TARONI - SOVRANO GRAN COMMENDATORE DEL RITO SCOZZESE ANTICO E ACCETTATO Dimmi Giancarlo, non ti preoccupare.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Io sono a Roma.

LEO TARONI - SOVRANO GRAN COMMENDATORE DEL RITO SCOZZESE ANTICO E ACCETTATO Anch'io.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Quando vuoi io ti raggiungo.

LEO TARONI - SOVRANO GRAN COMMENDATORE DEL RITO SCOZZESE ANTICO E ACCETTATO Allora guarda tu vieni a Piazza del Gesù, dopo le 11 quando ti pare.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Perfetto, grazie tante. Grazie.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie all'intermediazione della massoneria per Giancarlo Pittelli si prospetta la possibilità di ridurre l'ipoteca sui suoi terreni da 750 a 290 mila euro. A quel punto la sua attenzione si concentra sui legami con l'alta finanza.

PIETRO COMITO – GIORNALISTA LACTV Pittelli comprende che c'è un'altra importante strada da percorrere per realizzare il proprio sogno. Si chiama Prelios. Egli si rivolge direttamente al suo amico Fabrizio Palenzona, uno dei più grandi finanzieri italiani.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Banchiere e dirigente d'azienda, Fabrizio Palenzona è stato al vertice delle principali istituzioni finanziarie italiane, da Unicredit ad Abi. Dal 2018 è a capo di Prelios, società di gestioni immobiliari e mette a disposizione dell'amico Giancarlo Pittelli la società e il suo uomo di fiducia, Luigi Aiello. L'incontro avviene negli uffici della Prelios a Milano.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Io ho bisogno di vedere, verificare la possibilità di un finanziamento non grossissimo, ma almeno di 2 -3 milioni, oppure l'ingresso, se possibile, di Prelios nell'operazione.

LUIGI AIELLO - CHIEF CORPORATE & BUSINESS DEVELOPMENT GRUPPO PRELIOS Va bene, possiamo vederla, però volevo dirle un'altra cosa. Noi abbiamo un problema: un villaggio turistico, in Calabria, che è rimasto all'interno del nostro fondo, e che non sappiamo che cosa farci.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Qual è? Il Valtur?

LUIGI AIELLO - CHIEF CORPORATE & BUSINESS DEVELOPMENT GRUPPO PRELIOS Sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per anni villaggio vacanze ricercatissimo oggi il Valtur di Nicotera Marina vicino Vibo Valentia è in preda all'abbandono. Perché su quel territorio non si compra e non si vende nulla se non c'è l'autorizzazione di chi comanda.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO ED EX SENATORE DI FORZA ITALIA Questo è per condizionamenti mafiosi di Nicotera, dei Mancuso e bisogna parlare con i difensori dei Mancuso.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Pochi giorni dopo Pittelli farà di meglio: convoca Luigi Mancuso, il capo dei capi; ripreso dalle telecamere dei Ros il potente capo di ‘ndrangheta entra nello studio di Pittelli a Catanzaro. Poi i due si spostano nel palazzo di fronte, dove c'è l'appartamento di Giancarlo Pittelli.

EMANUELE BELLANO Come viene definito nelle carte, nei documenti dell'antimafia di Catanzaro l'avvocato Pittelli?

PIETRO COMITO – GIORNALISTA LACTV Per la Procura antimafia di Catanzaro Giancarlo Pittelli è il Giano bifronte cioè l'uomo capace di mettere in relazione, di osservare dalla stessa prospettiva, il mondo del potere legale, quello della politica, delle istituzioni, anche della Massoneria, e il mondo del crimine organizzato. Emerge in tutta la sua, in tutta la sua evidenza, come proprio egli avesse delle entrature massoniche di altissimo rilievo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 19 dicembre 2019 Giancarlo Pittelli viene arrestato dalla Procura antimafia di Catanzaro. Le informazioni su di lui e sul suo coinvolgimento con massoneria e ‘ndrangheta diventano pubbliche. Carlo Bertini capisce l'intreccio di potere che ha toccato la sua indagine su Maurizio Sacchi e sui diamanti venduti in Mps, incontra la vicedirettrice generale di Banca d'Italia, membro del direttorio Alessandra Perrazzelli.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA L'avvocato Giancarlo Pittelli lo conosce?

ALESSANDRA PERRAZZELLI - MEMBRO DEL DIRETTIVO E VICE DIRETTRICE GENERALE DELLA BANCA D'ITALIA Di nome.

CARLO BERTINI – FUNZIONARIO BANCA D’ITALIA Insomma, pare che ci siano legami con la vicenda diamanti, lui è considerato l'anello di congiunzione tra ‘ndrangheta, massoneria, poteri forti, finanza.

ALESSANDRA PERRAZZELLI - MEMBRO DEL DIRETTIVO E VICE DIRETTRICE GENERALE DELLA BANCA D'ITALIA Però vede lei ha capito dei gangli no di questa vicenda, gestire questo tipo di cose richiede una grande libertà. Non mi sembra che sia la modalità ma non solo qui dentro, sa? tutte le grandi strutture, tutte le grandi organizzazioni si muovono in maniera militare. Allora io le racconto delle cose di me che forse non dovrei condividere ma io nella mia vita professionale mi sono trovata di fronte a delle cose spaventose nei confronti delle quali mi veniva detto che io dovevo essere come una statua di marmo, quindi farmele scivolare addosso, no? Come l’acqua… E questa cosa qui mi ha aperto gli occhi sostanzialmente su come, in Italia e nel mondo, si fa carriera.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo certi che una professionista con le qualità della vicedirettrice di Banca d’Italia, Alessandra Perrazzelli, la carriera l’avrebbe fatta a prescindere. Ovviamente abbiamo chiesto il punto di vista a tutti i dirigenti di Banca d’Italia che sono entrati nella vicenda Bertini. Solo che ci hanno scritto, questo per fornire un’informazione ovviamente più completa, ci hanno scritto che sono vincolati al segreto istruttorio concernente le indagini penali e anche dal segreto d’ufficio sulle operazioni di vigilanza. Mentre Bertini, dopo essere stato intervistato dal nostro Emanuele Bellano, è stato sospeso dal lavoro e dallo stipendio. Bertini ha deciso di parlare con noi della sua vicenda professionale e anche personale dopo avere cercato di dirimere la questione all’interno di Banca d’Italia, ma quando ha visto che le sue denunce sono cadute nel vuoto, aveva due strade: o girarsi dall’altra parte e continuare come se nulla fosse accaduto o denunciare all’esterno. È ovvio che ha scelto la strada più tormentata e anche quella più rischiosa, potrebbe rimanere senza lavoro. Ora, indipendentemente dal fatto in questione, mancando il punto di vista di Banca d’Italia, ogni giudizio va sospeso però noi, da cittadini vorremmo avere sempre degli ispettori che vigilino sulle banche in modo appassionato con la voglia di andare fino in fondo, visto che gli esempi che abbiamo visto fino adesso non sono stati certo virtuosi. È difficile che qualcuno gli dirà grazie, glielo diciamo noi, grazie. Anche immaginando di condividere questo pensiero con quei risparmiatori e investitori che sono stati truffati dalla vendita dei diamanti. Proprio grazie, invece, alla magistratura a luglio scorso c’è stato il patteggiamento di Banca Intesa per le sue responsabilità amministrative nel vendere i diamanti. Ha patteggiato anche la DPI. Invece per IDB, l’altra società che vendeva diamanti, e le altre banche Monte Paschi di Siena, Unicredit, Banco Bpm e Banca Aletti, la Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio. Così come ha chiesto il rinvio a giudizio di 104 tra manager e banchieri. È sempre grazie alla magistratura, ma anche grazie un po’ a Report, se sul miliardo e 300 milioni di euro di diamanti venduti ben 900 milioni sono tornati nelle tasche degli investitori. 400 milioni di euro invece non si sa che fine abbiano fatto.

Pittelli, ecco l’intercettazione integrale su Mps: «David Rossi ucciso, se riaprono le indagini è un casino». Il noto penalista di Catanzaro intercettato nel 2018 nella maxioperazione sulla 'ndrangheta parla dell'ex responsabile della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena morto in circostanze misteriose nel 2013. Nel suo collegio difensivo l'ex presidente della banca toscana. Francesco Altomonte su lacnews24.it l'1 settembre 2021. In principio sembrava una verità accertata: David Rossi si è suicidato per paura di essere risucchiato negli scandali che stavano provocando un terremoto in Monte dei Paschi di Siena. A queste conclusioni, sulla morte del responsabile della comunicazione di Mps avvenuta nel 2013, arrivano le prime inchieste della magistratura. David Rossi fu ripreso da una videocamera mentre cadeva dalla finestra del suo ufficio nella sede di Rocca Salimbeni. Il suo corpo senza vita ritrovato in strada.

Pittelli, l'intercettazione e Monte dei Paschi di Siena. Le voci sul suo presunto omicidio in verità non si sono mai placate del tutto, tanto che il Parlamento ha deciso nel marzo scorso di istituire una commissione d’inchiesta per cercare di fare piena luce sull’accaduto. Intanto, però, succede che da un’inchiesta compiuta in Calabria dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri (Rinascita Scott), che nulla a che vedere con Siena e Mps, salta fuori un’intercettazione che getta una nuova e inquietante ombra sulla sorte di Rossi. Mentre gli investigatori indagano sull’avvocato Giancarlo Pittelli e le sue presunte relazioni con la ‘ndrangheta, sentono e registrano il famoso penalista mentre afferma senza troppi tentennamenti che «Rossi non si è suicidato…Rossi è stato ucciso». Quell'intercettazione di Pittelli, imputato eccellente dell’inchiesta, è stata fatta ascoltare in esclusiva nella seconda puntata del format LaC Tv sul maxiprocesso Rinascita Scott, condotto da Pietro Comito e Pino Aprile. Un audio che getta una luce sinistra sulla morte del responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, trovato morto il 6 marzo del 2013 nella strada dove si affacciava il suo ufficio. Ebbene, Pittelli pare avere pochi subbi su cosa sia successo quel giorno di 8 anni fa: «Non si è suicidato…non si è suicidato…Rossi non si è suicidato…Rossi è stato ucciso» dichiara l’ex parlamentare di Forza Italia a un suo interlocutore rimasto anonimo.

Pittelli e l'ex presidente di Monte dei Paschi di Siena. Pittelli, quindi, è a conoscenza di elementi utili agli inquirenti e alla Commissione parlamentare d’inchiesta? Intanto possiamo partire da un dato che forse c’entra poco con questa storia, ma che vale la pena sottolineare. Il penalista calabrese ha un collegamento con il Monte dei Paschi di Siena, perché nel suo staff difensivo c'è anche Giuseppe Mussari, che è stato presidente della banca tra il 2006 e il 2012 e dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana, tra il 2010 e il 2013. Un nome che ai più non dirà nulla, ma negli ambienti bancari è molto conosciuto. Nel 2001 David Rossi diventa stretto collaboratore di Mussari e quando nel 2006 quest’ultimo diviene presidente di Mps, Rossi viene nominato responsabile della comunicazione della Banca.

Pittelli e la crisi di Monte dei Paschi di Siena. L’avvocato infatti pare a conoscenza anche di altro che riguarda l’importante istituto di credito di Siena: «La cauzione per una ordinanza al tar di sospensione dell’efficacia di un provvedimento dell’Authority per la concorrenza - spiega Pittelli al suo interlocutore - ed il mercato che ha bloccato di fatto una società che vende diamanti attraverso le banche. Tu pensa che il bilancio è passato da 300 milioni di euro l’anno a zero. Zero. Il maggior lavoro lo facevano con Monte Paschi. Monte di Paschi se n’è andata all’aceto. Assaltando Monte dei Paschi hanno bruciato in quattro giorni tre miliardi e mezzo di euro». Adesso, aldilà delle considerazioni di Pittelli sulle cause della crisi di Mps, il noto penalista pare sapere qualcosa di importante sulla morte di Rossi.

«In borsa – afferma - sono dei folli sono».

Interlocutore: «La colpa ce l’ha Visco su Monte dei Paschi».

Pittelli: «Non dovevano far…non dovevano finanziarlo. E se riaprono l’indagine sulla morte di Rossi succederà un grosso casino…Se si sa chi lo ha ammazzato».

Interlocutore: «Ma perché secondo te è morto di overdose…».

Per Pittelli l’omicidio pare un dato di fatto, una questione sulla quale non vale la pena soffermarsi: «Non si è suicidato…non si è suicidato…Rossi non si è suicidato…Rossi è stato ucciso».

Interlocutore: «Pure Calvi si è suicidato con le tasche piene di pietre…Ti ricordi, Sindona che si è suicidato in carcere con un caffè». Nella discussione tra Pittelli e il suo interlocutore il caso di David Rossi viene addirittura accumunato a quello di Calvi e Sindona, un tuffo nel passato più buio della storia della Repubblica.

Tra le ipotesi che avevano alimentato la teoria dell’omicidio di David Rossi c’era quella legata a un presunto giro di festini gay a Siena ai quali avrebbero preso parte notabili della città del Palio. Segreti inconfessabili che avrebbe spinto qualcuno a uccidere Rossi. Una tesi rilanciata anche da una inchiesta delle Iene e che ha trovato la sponda della procura di Genova e della commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Pier Antonio Zanettini.

«Siamo venuti a Siena – ha dichiarato Zanettini il 9 settembre scorso - perché la commissione ha dei dubbi e perplessità sulle ricostruzioni che fino ad oggi sono state ipotizzate quindi volevamo vedere con i nostri occhi e soprattutto ascoltare dei testimoni. Possiamo dire che i lavori della commissione proseguiranno in modo spedito e raccolto molto materiale e ipotesi di altre audizioni: ci sono elementi che hanno portato alla tesi del suicidio che ci lasciano perplessi, non ci convincono del tutto».

In merito al suicidio da David Rossi, al contrario della Commissione, Pittelli non pare invece nutrire perplessità, ma una solida certezza: «Rossi è stato ucciso e se riaprono l’indagine sulla morte di Rossi succederà un grosso casino».

Francesco Altomonte Giornalista

I rapporti tra sinistra e Mps, sponsorizzazioni e finanziamenti. L’inchiesta sulla banca “vicina al Pd”. Milena Desanctis sabato 14 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Si torna parlare dei rapporti tra sinistra e Mps.  Nei giorni scorsi era stato duro l’attacco di Giorgia Meloni contro il piano di vendita di Mps a Unicredit.  «Non abbiamo pregiudizi ma solo come sempre il faro dell’interesse nazionale. Con una premessa: occorre che i cittadini sappiano quanto costa allo Stato il salvataggio della banca che per decenni è stata gestita dalla sinistra». Gestita «prima dal Pci e poi dai suoi eredi del Pd. Potremmo chiamarla la “cassaforte” degli scandali».  Ora in un’inchiesta il Giornale svela: «I nomi ci sono, ma a essere note sono solo le cifre del foraggiamento ai partiti della banca vicina al Pd, senza specificare il “chi”». Lo scrive il giornalista Massimo Malpica in un articolo dal titolo Finanziamenti, sponsorizzazioni e prestiti. Lo stretto legame tra Pd e Monte dei Paschi.

Mps, l’inchiesta del Giornale. Sono poche le eccezioni, «come le annuali, prevedibili sponsorizzazioni delle feste dell’Unità e poi delle feste del Pd nell’area del Senese da parte di Mps, che “timbrava” col suo logo gli eventi dem. O la fondazione dalemiana, Italianieuropei, a cui nel 2009 andarono quasi 600mila euro di pubblicità». E poi si legge ancora: «E lo stesso ex grande capo di Fondazione Mps e poi della stessa banca, Giuseppe Mussari, a titolo personale, tra 2002 e 2012, ha erogato lecitamente al Partito democratico quasi 700mila euro di finanziamenti, eloquenti quanto al rapporto in essere tra il management e il partito “di riferimento” della banca». Ecco cosa scriveva il blog delle Stelle nel novembre del 2016: «Il Monte dei Paschi di Siena è stato usato come un bancomat dai partiti, ex Ds poi Pd in testa».

I finanziamenti “alle sigle politiche”. Si ricorda ancora: «Così nel 2018 i manager di Mps ammettono che la banca aveva erogato finanziamenti a favore di 13 differenti partiti politici, ritrovandosi crediti per circa 10 milioni di euro, il 97 per cento dei quali deteriorati ovvero “non performing”. E oltre ai soldi distribuiti alle sigle politiche, chissà quali, c’erano altri 67 milioni di euro di finanziamenti erogati a persone politicamente esposte, ossia, raccontava il Fatto Quotidiano, “persone fisiche che occupano o hanno occupato importanti cariche pubbliche come pure i loro familiari diretti o coloro con i quali tali persone intrattengono notoriamente stretti legami”. E di questo tesoretto di crediti vantati, aggiungevano nelle risposte agli azionisti i dirigenti del gruppo Monte Paschi, ben 61 milioni erano “non performing”».

«I crediti nei confronti di due partiti (rimasti anonimi)». Il tema è poi tornato di attualità la scorsa primavera, scrive ancora il quotidiano, «quando i piccoli azionisti hanno ribadito gli stessi quesiti ai manager prima dell’assemblea dei soci tenuta ad aprile, ed è saltato fuori che a tutto il 2020 Mps vantava ancora crediti ma solo nei confronti di due partiti (sempre rimasti anonimi) per la più esigua cifra di 102mila euro (un anno prima i partiti erano 8 e il credito pari a 1.547 milioni di euro, 1,536 dei quali “in sofferenza”) e a fare due conti viene da pensare che si tratti del solito dato «depurato» dai crediti deteriorati, anche se gran parte di questa cifra (97.930 euro, riferibile a un solo partito dei due finanziati) era “non performing”».

 Finanziamenti, sponsorizzazioni e prestiti. Lo stretto legame tra Pd e Monte dei Paschi. Massimo Malpica il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. Matteo Salvini sul Giornale chiede i nomi di partiti e politici che hanno avuto prestiti da Mps o dalla Fondazione della banca senese. E i nomi ci sono, eccome, ma a essere note sono solo le cifre del foraggiamento ai partiti della banca vicina al Pd, senza specificare il «chi». Poche le eccezioni, come le annuali, prevedibili sponsorizzazioni delle feste dell'Unità e poi delle feste del Pd nell'area del Senese da parte di Mps, che «timbrava» col suo logo gli eventi dem. O la fondazione dalemiana, Italianieuropei, a cui nel 2009 andarono quasi 600mila euro di pubblicità. E lo stesso ex grande capo di Fondazione Mps e poi della stessa banca, Giuseppe Mussari, a titolo personale, tra 2002 e 2012, ha erogato lecitamente al Partito democratico quasi 700mila euro di finanziamenti, eloquenti quanto al rapporto in essere tra il management e il partito «di riferimento» della banca. «Il Monte dei Paschi di Siena è stato usato come un bancomat dai partiti, ex Ds poi Pd in testa», scriveva il blog delle Stelle nel novembre del 2016, chiedendo chiarezza su «quei soldi dati soprattutto (80%) a grandi gruppi amici di partito o società partecipate e malgestite da Comuni e Regioni o chissà chi altro». Dopo l'esplosione dello scandalo e l'inizio dell'odissea giudiziaria, qualche punta dell'iceberg è spuntata sopra le limacciose acque oscurate dalla privacy. Merito del lavoro ai fianchi dei piccoli azionisti e delle loro domande all'istituto di credito in occasione delle assemblee. Così nel 2018 i manager di Mps ammettono che la banca aveva erogato finanziamenti a favore di 13 differenti partiti politici, ritrovandosi crediti per circa 10 milioni di euro, il 97 per cento dei quali deteriorati ovvero «non performing». E oltre ai soldi distribuiti alle sigle politiche, chissà quali, c'erano altri 67 milioni di euro di finanziamenti erogati a persone politicamente esposte, ossia, raccontava il Fatto Quotidiano, «persone fisiche che occupano o hanno occupato importanti cariche pubbliche come pure i loro familiari diretti o coloro con i quali tali persone intrattengono notoriamente stretti legami». E di questo tesoretto di crediti vantati, aggiungevano nelle risposte agli azionisti i dirigenti del gruppo Monte Paschi, ben 61 milioni erano «non performing». Dunque i politici si erano fatti foraggiare e in grande maggioranza (più del 90 per cento) si erano ben guardati dal rimborsare i finanziamenti. Il tema è poi tornato di attualità la scorsa primavera, quando i piccoli azionisti hanno ribadito gli stessi quesiti ai manager prima dell'assemblea dei soci tenuta ad aprile, ed è saltato fuori che a tutto il 2020 Mps vantava ancora crediti ma solo nei confronti di due partiti (sempre rimasti anonimi) per la più esigua cifra di 102mila euro (un anno prima i partiti erano 8 e il credito pari a 1.547 milioni di euro, 1,536 dei quali «in sofferenza») e a fare due conti viene da pensare che si tratti del solito dato «depurato» dai crediti deteriorati, anche se gran parte di questa cifra (97.930 euro, riferibile a un solo partito dei due finanziati) era «non performing». Più sorprendente, invece, l'esistenza di crediti verso 1.048 persone politicamente esposte per complessivi 59.546.238,07 euro. E dei politici finanziati (alcuni ancora nel 2020, visto che nel 2019 i crediti verso i pep erano 785), stavolta solo 39, per un valore di poco meno di 1,4 milioni, erano stati declassati a «non performing». 

Gianluca Paolucci per “la Stampa” l'1 agosto 2021. I pm milanesi Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici sono indagati dalla procura di Brescia per le vicende relative all'inchiesta Mps condotta dai tre magistrati. Il fascicolo, assegnato alla pm Erica Battaglia, è in fase di indagine preliminare e lo scorso 15 luglio è stata chiesta la proroga delle indagini. L'ipotesi di reato è l'omissione di atti d'ufficio. Il filone riguardante le responsabilità di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente presidente e amministratore delegato tra il 2013 e il 2016, sono state al centro di un lungo braccio di ferro tra procura e giudici. Nel maggio scorso i tre pm si sono spogliati del fascicolo, dopo che il gip Guido Salvini aveva respinto l'ennesima richiesta di archiviazione delle posizioni degli ex vertici della banca senese, ordinando una nuova perizia e assegnando altri 45 giorni per svolgere indagini nel filone che riguarda la contabilizzazione dei crediti deteriorati dell'istituto. Dopo la riassegnazione del fascicolo, nelle settimane scorse, la Guardia di finanza ha effettuato una serie di acquisizioni di documenti e sentito manager della banca, consulenti e funzionari della Bce. I tre pm hanno complessivamente avanzato per sei volte richieste di assoluzione o archiviazione per Profumo e Viola, in due distinti filoni: oltre a quello dei crediti deteriorati, c'è anche un distinto filone che riguarda la contabilizzazione dei derivati Alexandria e Santorini per il quale i due manager sono stati condannati in primo grado nell'ottobre scorso. L'indagine della procura di Brescia è partita da una denuncia di Giuseppe Bivona. La procura di Brescia, competente per gli accertamenti sui magistrati milanesi, sta già indagando per omissione di atti d'ufficio, in un diverso fascicolo, il procuratore Francesco Greco. Greco, secondo quanto trapelato, non avrebbe avviato tempestivamente le indagini in seguito alle dichiarazioni rese nel dicembre del 2019 da Piero Amara, avvocato siciliano interrogato per la vicenda del complotto Eni, su una fantomatica associazione segreta in grado di condizionare nomine in magistratura e in incarichi pubblici (loggia Ungheria). Indagini aperte solo 5 mesi dopo, con le iscrizioni il 12 maggio di Amara, del suo collaboratore Alessandro Ferraro e dell'ex socio Giuseppe Calafiore. Per la stessa vicenda è indagato anche il pm Paolo Storari.

Francesco Greco indagato? Difeso dallo stesso legale dell'Anm e degli ex vertici di Mps: toh che caso...Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 05 agosto 2021. Per rendere ancora di più incandescente il clima alla Procura di Milano ci mancava solo il "conflitto d'interessi" fra toghe. A sollevare il caso è stato il manager romano Giuseppe Bivona, fondatore del fondo inglese Bluebell. Bivona questa settimana ha scritto al procuratore di Brescia, Francesco Prete, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, e ai componenti del Consiglio superiore della magistratura. Oggetto della nota del manager sono i profili di "opportunità" nella scelta del procuratore di Milano Francesco Greco di essere difeso dallo stesso legale dagli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, aloro volta imputati eccellenti della Procura guidata da Greco. Bivona, in passato, aveva anche manifestato perplessità sulla conduzione delle indagini su Mps dirette dai pm milanesi Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici del dipartimento "reati economici". I tre magistrati erano i titolari, in particolare, del fascicolo sui crediti deteriorati di Mps nel quale erano stati iscritti per "falso in bilancio" Profumo, Viola e Paolo Salvadori, altro top manager di Rocca Salimbeni. Per i pm milanesi i tre non avrebbero commesso alcuna irregolarità. Di diverso avviso, invece, il giudice Guido Salvini che aveva respinto la richiesta d'archiviazione nei loro confronti, disponendo altri accertamenti. La perizia di Salvini aveva permesso di accertare che tra il 2012 e il 2015 la banca senese avrebbe ritardato la contabilizzazione di ben 11,4 miliardi di euro di rettifiche. Dalle segnalazioni di Bivona erano partite, poi, le indagini bresciane a carico di Baggio, Civardi e Clerici. Profumo e Viola, difesi da Mucciarelli, sono stati condannati a ottobre 2020 in primo grado a sei anni per i derivati Alexandria e Santorini. Mucciarelli assiste Greco a Brescia nel procedimento per "omissione d'atti d'ufficio" per aver ritardato gli accertamenti sulle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara a proposito della Loggia segreta Ungheria. Il fascicolo era stato aperto dopo la denuncia del pm Paolo Storari. Mucciarelli, lo scorso anno, era stato anche incaricato dall'Associazione nazionale magistrati, durante la presidenza del pm milanese Luca Poniz, di costituirsi parte civile nel procedimento penale nei confronti di Luca Palamara. Tornado a Storari, invece, ieri si è svolta l'udienza in camera di Consiglio davanti alla Sezione disciplinare del Csm. La Procura generale della Cassazione ha chiesto per il magistrato il trasferimento di sede ed il cambio di funzioni: da pm a giudice. Per il procuratore generale Giovanni Salvi, Storari con il suo comportamento avrebbe creato «grave discredito» nei confronti di Greco e della sua vice Laura Pedio.  Storari, come si ricorderà, vista «l'inerzia» dei sui capi nel compiere accertamenti, aveva consegnato personalmente all'allora componente del Csm Piercamillo Davigo i verbali degli interrogatori di Amara, effettuati in Procura a Milano nelle ultime settimane del 2019 nell'ambito del procedimento sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. E per questo motivo era stato poi indagato per rivelazione del segreto d'ufficio. In difesa di Storari si erano espressi circa 250 magistrati, firmando un appello in suo favore. Fra i promotori della raccolta firme, il capo dell'antiterrorismo di Milano, il procuratore aggiunto Alberto Nobili. «Non abbiamo mai depositato la lista delle persone che hanno accordato la loro fiducia e la loro simpatia umana», ha però specificato il legale di Storari, l'avvocato Paolo della Sala, all'uscita dal Csm. «Ci tengo a rappresentare con chiarezza che la fiducia accordata dai magistrati al mio assistito non è mai stata in alcun modo strumentalizzata», ha poi aggiunto.  

Mps, inquisiti tre pm milanesi: non indagarono su Siena, troppo morbidi verso gli ex manager. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 03 agosto 2021. Forse sarebbe il caso che il ministro della Giustizia Marta Cartabia mandasse gli ispettori alla Procura di Milano. Si è, infatti, perso il conto dei pm attualmente sotto indagine. Uno dei primi ad essere finito sotto procedimento è Francesco Greco, il capo dei pm, accusato di "omissione d'atti d'ufficio". Il procuratore di Milano, secondo le accuse, non avrebbe fatto accertamenti dopo le dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, sulla loggia "Ungheria", l'associazione segreta ed illegale composta da magistrati, professionisti, imprenditori ed alti ufficiali delle Forze dell'ordine, creata per aggiustare i processi e pilotare le nomine ai vertici degli uffici pubblici. Sempre per il medesimo reato è indagato uno dei vice di Greco, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, capo del dipartimento "reati economici e trasnazionali", ed il pm Sergio Spadaro, fresco di nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura alla neo costituita Procura europea con sede in Lussemburgo. I due, titolari del procedimento Eni-Nigeria, non avrebbero depositato prove a favore degli imputati. In particolare dei video in cui il principale accusatore dei vertici del colosso petrolifero di San Donato stava pianificando contro di essi una strategia di discredito, accusandoli di corruzione. Il processo Eni-Nigeria era, comunque, finito in una bolla di sapone con tutti gli imputati assolti. E' invece indagato per "rivelazione del segreto" il pm Paolo Storari. Il magistrato, anche sotto procedimento disciplinare al Csm (domani è attesa la decisione, ndr), aveva consegnato alcuni verbali di Amara a Piercamillo Davigo al fine, verosimilmente, di informarlo della "inerzia" dei propri capi nel fare le indagini. Anche Davigo è stato poi indagato per rivelazione del segreto. 

REATI ECONOMICI. Sono poi indagati i pm Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici del dipartimento "reati economici". I tre avevano il fascicolo sui crediti deteriorati di Mps nel quale erano iscritti per "falso in bilancio" gli ex vertici di Rocca Salimbeni Alessandro Profumo, Fabrizio Viola e Paolo Salvadori. I top manager di Mps, per i tre pm, non avrebbero commesso alcuna irregolarità. Di diverso avviso il giudice Guido Salvini che aveva respinto la loro richiesta d'archiviazione, disponendo altri accertamenti. La perizia di Salvini aveva permesso di accertare che tra il 2012 e il 2015 la banca senese avrebbe ritardato la contabilizzazione di ben 11,4 miliardi di euro di rettifiche. A seguito di ciò era scattata la denuncia contro i tre pm per "omissione d'atti d'ufficio" da parte di Giuseppe Bivona, manager del fondo Bluebell Parteners che aveva chiesto anche l'intervento della Consob. Questa vicenda ricorda, in parte, quanto accaduto al sindaco di Milano Beppe Sala nel procedimento Expo. Anche all'epoca la Procura di Milano retta da Greco aveva deciso di non procedere, chiedendo l'archiviazione per tutte le accuse. La Procura generale diretta da Roberto Alfonso, però, si era messa di traverso. E dopo aver "avocato" il fascicolo e disposto nuovi accertamenti aveva chiesto il processo per il sindaco. Sala era stato poi condannato in primo grado a sei mesi di carcere, convertiti in una multa da 45mila euro, per il reato di "falso ideologico e materiale". Il gran numero di pm indagati in quello che ai tempi di Mani pulite era considerato il santuario della legalità potrebbe, allora, essere il motivo per cui diversi magistrati che aspiravano al posto di Greco, in pensione fra un paio di mesi, non hanno formalizzato la candidatura. Fra i nomi di punta che si sono sfilati, il procuratore di Napoli Giovanni Melillo e il procuratore antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri.

Dagospia il 5 agosto 2021. Estratto da “Controcorrente”, di Matteo Renzi, ed. Piemme. Ma volendo volare più basso torniamo alla nostra Italia nell'inverno 2020. Il Governo e le aziende pubbliche tornano a fare tanta pubblicità sui giornali e in tv. Sono denari sonanti per le anemiche casse degli editori italiani strangolati dalle difficoltà del mercato pubblicitario privato. La Consob, il cui presidente è nominato dal Governo populista, evita di intervenire sulle vicende complicate di Urbano Cairo e della sua causa a Blackstone. Ovviamente nessuno fiata, per paura delle reazioni del principale editore italiano, ma il fatto che la Consob non ritenga di accertare la presenza di eventuali accantonamenti al gruppo RCS impegnato in una controversia legale del valore di circa seicento milioni di euro è uno degli scandali più incredibili del mondo finanziario degli ultimi anni. Altro che banche popolari e cooperative: il mancato accantonamento di RCS è una clamorosa ingiustizia per i risparmiatori. E forse non è un caso che alcune trasmissioni de La7 e la testata filogovernativa «il Fatto Quotidiano» — anch'essa in difficoltà economica dopo il crollo delle vendite della direzione Travaglio rispetto alla direzione Padellaro, e come tale costretta a ricorrere al sostegno finanziario dei Decreti Conte — stringano una fortissima collaborazione: prendiamo ad esempio la trasmissione più vista, la storica Otto e mezzo condotta dalla ex europarlamentare Lilli Gruber.

Marcello Zacché per “il Giornale” il 5 agosto 2021. Urbano Cairo non intenderebbe accantonare risorse di Rcs in vista della causa intentata da Blackstone a New York. La società lo comunicherà al mercato nella relazione semestrale che sarà sottoposta al cda venerdì prossimo 30 luglio. Per Cairo la causa di Blackstone non sarebbe fondata, oltre a non esserci nemmeno la competenza territoriale. Per questo, assistito da legali e consulenti, ritiene che non servano gli accantonamenti. Come noto il gruppo di fondi Usa chiede a Rcs 600 milioni di dollari di risarcimento per la mancata vendita dell'immobile di via Solferino e per i relativi danni. La questione deriva dal fatto che quando Cairo ha preso il controllo di Rcs, nel 2016, ha contestato a Blackstone di aver acquistato la sede storica del Corriere approfittando della situazione di difficoltà in cui versava Rcs. Ma l'arbitrato concluso a Milano qualche settimana fa ha escluso questa circostanza. E il presidente, fondatore e ceo di Blackstone Stephen A. Schwarzman, assai offeso per un'accusa di quel tipo, ha riavviato la causa rimasta in sospeso. In attesa che il procedimento avanzi, intorno a Rcs e al suo azionista di controllo (Cairo detiene il 63% di Rcs) girano Cassandre e nubi cariche di tempesta. A Milano la storia appassiona ogni salotto che si rispetti e i grandi nomi della finanza e dell'industria quali Mediobanca, Pirelli, Unipol e Della Valle, che sono rimasti nel capitale Rcs anche dopo la sconfitta del 2016. Da allora hanno lasciato il controllo ma non il cda. Quello che si dice è che, si presentasse l'occasione, sarebbero pronti a tornare all'attacco. E troverebbero tanti disposti ad accodarsi. Dagli Angelucci, editori di Libero, ben consapevoli che per imprenditori romani della sanità una strada in solitaria verso il Corriere è improponibile, ma dentro a una cordata sarebbe un'altra cosa; ai Riffeser, già editori del gruppo Poligrafici e ben noti a Mediobanca; al cosiddetto «gruppo di Italo», gli imprenditori che hanno lanciato il treno privato ad alta velocità capitanati da Luca di Montezemolo; fino a Intesa, la prima banca italiana al fianco di Cairo nella scalata Rcs, ma i cui rapporti con l'editore si sono incrinati (anche per la faccenda Blackstone) proprio quando si sono stretti quelli con Mediobanca. Bisognerà vedere se nel cda di venerdì prossimo qualcuno contesterà la scelta di Cairo. Ma al momento non tira aria di tempesta. «Alla fine una soluzione con i finanzieri di Blackstone si troverà - dice un socio della vecchia guardia - e Cairo farà il suo cammino di Compostela». Per quanto riguarda la Consob, bisognerà vedere se all'Autorità guidata da Paolo Savona la semestrale di Cairo sarà giudicata sufficiente per la tutela dei soci Rcs. Certo, le pressioni non mancano. E arrivano anche da un ex premier, Matteo Renzi, che, a pagina 25 del suo ultimo libro, «Controcorrente» scrive che il mancato intervento della Consob «il cui presidente è nominato dal governo populista» sugli accantonamenti non effettuati da Rcs per la causa Blackstone «è uno degli scandali più incredibili del mondo finanziario degli ultimi anni». Renzi attacca Cairo perché non gli garba - e lo scrive - la linea filo grillina tenuta da La7, di cui è pure editore. E che gli avrebbe dato una mano tramite Savona. Ma così mantiene alta la pressione sul futuro del Corrierone. Di sicuro quel 63% del capitale è «tanta roba» come si dice oggi. Tanto che Cairo ripete che «me lo devono portare via a forza», riferendosi all'impossibilità di un'operazione di mercato. Certo, tutto cambierebbe se per far fronte a un problema finanziario Rcs avesse bisogno di così tanto capitale da costringere Cairo a diluirsi sotto il controllo. Per questo Blackstone accende la fantasia di tanti. E per lo stesso motivo è montata anche la questione dei fornitori di Rcs con fatture scadute da mesi e mesi. Tra questi ci sarebbe anche, secondo il sito Dagospia, Andrea Ceccherini, il promotore e presidente dell'Osservatorio permanente giovani editori. Un «fornitore» illustre, quindi. Tra quelli che possono tenere alto il pressing. 

Camilla Conti per "la Verità" il 5 agosto 2021. Non c'è solo il Pd a piangere lacrime di coccodrillo per il futuro del Monte dei Paschi. Al grido di dolore di questi giorni di campagna elettorale senese per le suppletive di ottobre, con il nodo esuberi che incombe sui voti per il candidato-segretario Enrico Letta, si uniscono i sindacati. Con un «no pasaran» quasi unanime, se si esclude la posizione di Lando Maria Sileoni della Fabi, che martedì ha ridimensionato gli allarmi, sottolineando che il problema si risolve con i prepensionamenti garantiti dal fondo di settore. Proprio come molti esponenti del centrosinistra che oggi piangono dopo aver attivato il processo di rimozione kafkiano, anche una parte del sindacato soffre però di improvvise amnesie. Sfortunatamente chi negli ultimi 20 anni ha seguito da cronista finanziario le vicende del Monte dei Paschi ha ottima memoria. E ricorda che nel cda di Mps, negli anni d'oro della gestione di Giuseppe Mussari, sedeva l'ex segretario provinciale della Cgil: Fabio Borghi. Consigliere appunto del Monte dal 2003 al 2012, nominato su indicazione della Fondazione Mps (di cui era stato membro dal settembre 2001 all'aprile 2003). La carriera di Borghi è tutta nella galassia Mps: è stato presidente del Fondo pensione complementare per i dipendenti del Monte, consigliere della Cassa di previdenza aziendale per il personale, presidente di Mps Gestione crediti, di Mps Banca personale e presidente di Mps leasing and factoring. E fuori da Siena, anche membro del cda di Banca Monte Parma e di Unipol Gruppo finanziario. Ma soprattutto Borghi era nel board che a novembre 2007 approva l'acquisto di Antonveneta. Per questo viene ascoltato il 14 novembre del 2012 dai pm senesi: «Ho saputo della possibilità dell'acquisizione di Antonveneta nel corso della riunione tenutasi alle ore 8 circa dell'8 novembre 2007 presso l'ufficio del presidente Mussari. Il 7 sera fui chiamato dal segretario del presidente, che mi convocò per il giorno dopo dicendomi che il presidente ci doveva dare delle informazioni riservate. A quella riunione», racconta ancora Borghi, «erano presenti anche gli altri componenti del cda nominati dalla Fondazione e il direttore generale Antonio Vigni. Nell'occasione, Mussari ci disse che vi era la possibilità di acquisire Antonveneta al prezzo di 9 miliardi, ci illustrò le ricadute sulla banca in termini di contrazione dei costi e di redditività. Gli chiedemmo come si era determinato il prezzo e in che modo sarebbe stato pagato. Per grandi linee ci disse che tra gli strumenti che sarebbero stati utilizzati per pagare il prezzo vi era anche un aumento di capitale. Non ci disse che aveva già informato gli altro soci», ma «che dopo l'incontro con i consiglieri nominati dalla fondazione aveva in programma degli incontri anche con altri consiglieri». E poi Borghi aggiunge: «Non dissi ad alcuno di quanto avevamo saputo da Mussari nel corso della riunione . Ricordo però di avere inviato a Maurizio Cenni, allora sindaco di Siena, un sms del seguente tenore: "Allora ci compriamo Antonveneta?" senza ricevere alcuna risposta». Lo stesso Cenni, del resto, era un ex sindacalista (segretario provinciale di Latina) prima di essere eletto nelle liste del Pds e infine diventare primo cittadino. Un altro esponente della Fisac, Paolo Calosi, dopo la nomina di Borghi alla presidenza di Mps leasing, era diventato capo del personale della stessa. E sempre in Mps leasing sedeva anche Claudio Vigni, anche lui ex segretario generale della Cgil di Siena. Resta agli atti il comunicato stampa vergato insieme dalle segreterie di Cgil, Cisl e Uil, nelle loro sigle bancarie, subito dopo l'acquisto della banca padovana: «Esprimiamo grande soddisfazione per l'operazione Antonveneta, che mette al riparo Mps da speculazioni mediatiche e finanziarie». Amen.

Gianluca Paolucci per "la Stampa" il 5 agosto 2021. L'ultimo incubo dei risparmiatori per Mps si chiama Fondo Socrate. Una vecchia, vecchissima storia che risale al 2007, prima del disastro Antonveneta e prima che la gestione impersonata da Giuseppe Mussari venisse travolte dalle inchieste giudiziarie. Riemersa però in questi giorni, con le «grandi pulizie» avviate nel dipartimento legale per ridurre il contenzioso e preparasi alla cessione. Il fatto è che dopo 14 anni e due proroghe della durata però il Fondo Socrate è ancora lì. Scadrà nel 2022, ma dal suo lancio ha perso oltre i due terzi del valore. Problema: è stato venduto dalla rete di sportelli Mps a 500 euro per ogni quota a oltre seimila clienti della banca, con un investimento minimo fissato a 3000 euro. Ieri scambiava a 149 euro. Nel corso della sua esistenza ha distribuito circa 50 euro per quota, che rende la perdita meno amara per i sottoscrittori. Il fondo fa capo a Fabrica Sgr (gruppo Caltagirone, che quando il fondo è stato venduto era socio e consigliere della banca senese) e le relazioni trimestrali, pubblicate sul sito, indicano un valore della quota (al 31 dicembre 2020) di 468,38 euro, sulle base delle perizie di stima degli immobili. La differenza tra questo valore e quello espresso dalla Borsa è abissale. Nel frattempo, le vendite degli immobili procedono lentamente e il fondo non riesce ad essere liquidato come previsto, tema comune a molti fondi immobiliari. L'ultima proroga è arrivata con il decreto Ristori quater, a pochi giorni dalla scadenza prevista per il 31 dicembre 2020. «Lo strumento in sé non è cattivo, come qualsiasi altro prodotto, ma al solito viene usato badando esclusivamente al profitto. Discorso ancora più valido quando gestori e soprattutto collocatori sono grandi soggetti con ampia clientela e dove quindi il successo della vendita è garantito in partenza», dice Giuseppe D'Orta, consulente finanziario indipendente. Oltre a Socrate, hanno richiesta la proroga anche Atlantic1 (Dea Capital real estate), Immobiliare dinamico (Bnp Paribas Reim sgr) e Amundi Italia (Amundi Re).

Da iltempo.it il 5 agosto 2021. Gli scheletri nell’armadio della sinistra tirati fuori e fatti venire alla luce da Massimo Cacciari. Negli ultimi giorni la storia del possibile acquisto del Monte dei Paschi di Siena da parte di Unicredit ha scatenato enormi polemiche, visto che Pier Carlo Padoan è l’attuale presidente dell’istituto di credito è stato ministro dell'economia dal 22 febbraio 2014 al 1 giugno 2018 nei governi guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Cacciari parla del problema Siena partendo dalla candidatura di Enrico Letta nelle elezioni suppletive: “Per forza doveva candidarsi. Può il leader del Partito Democratico restare fuori dal Parlamento? No. Caso Monte Paschi? Ma non è certo di oggi. Non c'è un leader di Centrosinistra che abbia più di 30 anni che non conosca vita, morte e miracoli delle nefandezze compiute dalla sinistra e anche da altri a Siena da un secolo a questa parte. È  il segreto di Pulcinella. Qualunque persona che faccia politica a sinistra o nel Centrosinistra e che abbia almeno 50-60 anni conosce la 'fogna' di Siena". "L'ammanigliamento totale - spiega meglio Cacciari ad affariitaliani.it - tra il potere finanziario e le strutture politiche e sociali della città. L'unica eccezione sono i quartieri del Palio, che si sono sempre arrangiati per conto loro. Padoan? Nulla di nuovo. Sono successe - evidenzia il filosofo ed ex sindaco di Venezia -cose analoghe anche in Germania e negli Stati Uniti. Il capitalismo attuale prevede una totale simbiosi tra i grandi poteri della finanza e la politica. Sbaglio o l'ex Cancelliere tedesco di sinistra Schroeder andò a guidare il colosso russo del petrolio? E allora, di che cosa stiamo parlando? Sono argomenti che spiego da tempo e che vado in giro a predicare da anni, poi - conclude Cacciari, che gli scorsi giorni ha fatto discutere per le sue parole sul green pass - ci si stupisce di cose ovvie".

Mps, Meloni: «I conflitti di interesse tra Pd e finanza sono dannosi per banche e contribuenti». Mia Fenice lunedì 2 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia.  «La probabile acquisizione a prezzi di saldo di Monte dei Paschi di Siena da parte di Unicredit, il cui attuale presidente è lo stesso Pier Carlo Padoan del Pd che da ministro del Tesoro tanto si occupò delle sorti di Mps, è solo l’ennesima conferma del vergognoso modus operandi della sinistra italiana che usa lo Stato per opache manovre finanziarie e per proprio tornaconto politico e personale». Così la leader di FdI, Giorgia Meloni, in una lettera al Corriere della Sera. «Nel 2017 Padoan – ricorda Meloni – salvò Mps coi soldi dei contribuenti italiani, operazione costata oltre 5 miliardi, si fece quindi eleggere l’anno successivo parlamentare a Siena, ma per non farsi mancare nulla, ora da presidente di UniCredit è pronto al colpaccio: acquisire la banca senese a condizioni molto vantaggiose, da lui stesso create in qualità di ministro e con la norma DTA inserita nella legge di Bilancio dal suo sodale, l’allora ministro Gualtieri, ora candidato a sindaco di Roma». La leader di FdI scrive ancora: «L’attuale segretario del Pd, Enrico Letta, non vuole restare escluso dal banchetto e annuncia la sua candidatura nel collegio di Siena, proprio mentre le sorti della banca sono di nuovo ostaggio delle decisioni del governo di cui il Pd ha una buona dose di ministri politici e tecnici. I conflitti di interessi tra Pd e finanza sono dannosi per le banche e fatali per i contribuenti come hanno dimostrato le vicende di questi anni. Oggi Unicredit di Padoan acquisisce solo la parte attiva del Monte dei Paschi di Siena mentre le passività e i contenziosi restano al Mef, e cioè a noi cittadini. Crediti deteriorati e debiti ereditati da decenni di gestione clientelare targata Pd vengono per l’ennesima volta scaricati sui cittadini, così come i risarcimenti miliardari per le cause legali, per non parlare dei cosiddetti “esuberi”, cioè di migliaia di lavoratori che dovranno abbandonare l’istituto». «Passano i governi – ricorda ancora Giorgia Meloni – ma le ricette del Pd per le crisi bancarie no: privatizzare i profitti e scaricare sui contribuenti le perdite. Stavolta è il capitolo di Unicredit con Mps con un conto per lo Stato di altri potenziali 10 miliardi oltre quelli già corrisposti. Gli speculatori finanziari ringraziano e la mangiatoia della sinistra si allarga. Fratelli d’Italia darà battaglia in ogni sede contro questo scandalo a partire dal Parlamento: chiediamo ancora una volta e con determinazione al governo e al ministro dell’Economia, Daniele Franco, di riferire tempestivamente sul tema in Aula». E infine conclude: «L’esecutivo ha già incredibilmente respinto questa richiesta avanzata da FdI, dimostrando ancora una volta che per questa maggioranza la democrazia parlamentare vale solo quando si tratta di creare governi nei laboratori del Palazzo, umiliando la volontà dei cittadini. Ma non quando l’esecutivo deve rispondere del suo operato davanti ai rappresentanti del popolo».

Pd, la denuncia di Repubblica: "I dem di Roma rubano i giornali", articoli gratis per tutti gli iscritti. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 02 agosto 2021. L'accusa è gravissima ma ben circostanziata: il Partito democratico è "tecnicamente un ladro". In particolare si tratta del Pd romano e la denuncia proviene nientemeno che dalla cronaca locale di Repubblica, che si affida alla breve requisitoria di Giuliano Foschini. Titolo: «Se anche il Pd deruba i lavoratori». Svolgimento, in estrema sintesi: sul proprio canale Telegram, i democratici capitolini offrono ai loro iscritti «l'intera rassegna stampa del Comune di Roma»... centinaia di pagine con dentro una lunga selezione di articoli provenienti da vari giornali, tutti naturalmente protetti da copyright. «Si tratta di un reato. E anche piuttosto grave», osserva Repubblica, è cioè un furto appesantito dalla non trascurabile aggravante che a perpetrarlo con tale spudorata leggerezza è «un partito asseritamente di sinistra». Sicché la brutta faccenda non configura soltanto «un reato ma è anche un calpestio volgare del lavoro, della passione di migliaia di persone (giornalisti, poligrafici, tipografi, edicolanti) che svolgono, ciascuno nel migliore dei modi possibili, un mestiere che in qualche modo è anche un servizio pubblico, un sostegno della democrazia».

Il j' accuse è assai pesante: l'intera catena del valore dell'informazione, dall'ideatore al distributore, cade vittima di un brigantaggio quotidiano contro il quale Repubblica evoca a giusto titolo l'intervento della Guardia di Finanza. E che i colpevoli siano proprio gli esponenti del principale partito italiano di sinistra, colti a pubblicare «gratuitamente e integralmente quello che invece si dovrebbe comprare», rappresenta un desolato spunto in più per riflettere sui fondamentali di una denuncia sinceramente democratica che travalica la cronaca minuta. In attesa di leggere o ascoltare le spiegazioni dei dirigenti più alti in grado (il compagno Enrico Letta non ha ancora preso gli opportuni provvedimenti?), dobbiamo intanto accontentarci delle scuse del capogruppo dem all'assemblea capitolina, Giulio Pelonzi, che ha fatto ammenda e chiuso in tutta fretta il canale telematico. Ora, premesso che la pratica di rubacchiare online le prime pagine o gli articoli della stampa nazionale e straniera è divenuta una prassi diffusissima e sempre più difficile da estirpare, è bene sottolineare come la circostanza in questione confermi con forza inesorabile l'avvenuto scollamento tra la classe dirigente democratica e il mondo del lavoro intellettuale. Passi per gli operai, che da almeno un quarto di secolo votano in larga maggioranza a destra, l'ultima ridotta della sinistra asserragliata nei centri storici metropolitani era rappresentata dal variegato paesaggio giornalistico e da quello della selezionata intellighenzia degli scrittori impegnati; sebbene giornali se ne vendano pochi, libri meno ancora e pure la tv non si senta molto bene. Ma a ben vedere la proditoria rapina via Telegram si combina in modo perfetto con la recente cooptazione di Fedez in qualità di maître à penser della ditta, ovvero con la sopraggiunta sostituzione del desueto intellettuale organico gramsciano con il più contemporaneo cantante e influencer, nonché marito della influencer Chiara Ferragni. Non saremo certo noi, qui, a rimpiangere i bei tempi andati in cui i militanti del Pci - di cui il Pd vuoi o non vuoi è erede più o meno legittimo - volantinavano per strada le copie dell'Unità, il quotidiano di partito la cui diffusione serviva a scolpire di giorno in giorno il verbo dell'ideologia marxista. Oggi, in definitiva, anche l'egemonia del pensiero è divenuta un sogno astratto soppiantato dalla fluidità di genere. Ogni genere. E può dunque accadere che a squadernare il tradimento inflitto ai lavoratori sia il giornale ora posseduto dagli Agnelli ma editato fino a pochi anni fa da Carlo De Benedetti, la famosa tessera numero uno (ricordate?) del nascente Partito democratico. È la farsa che si fa storia nel suo ultimo atto: compagni che sbagliano, capitalisti che se ne accorgono e giocano ai supplenti... mondi avviati parallelamente al crepuscolo.

Alessandro Sallusti, Pd ladro? "Cari colleghi di Repubblica, il vero furto i compagni lo hanno fatto in banca". Libero Quotidiano l'01 agosto 2021. «Pd ladro», tuonano i colleghi di La Repubblica per il furto perpetrato quotidianamente dai dirigenti del partito che invece di acquistare i quotidiani, rubano e regalano un bene, l'informazione, che invece andrebbe comperata. Sottoscriviamo ma ci permettano i colleghi di Repubblica di ricordare il loro silenzio- a tratti complice - del più grande furto commesso dal Pd, cioè il salvataggio forzato del Monte dei Paschi di Siena, banca di famiglia usata per finanziare impunemente fuori da ogni logica di mercato il sistema comunista prima della sinistra radical chic poi. Finiti i soldi, cinque anni fa lo Stato salvò dalla bancarotta la banca e il partito mettendo sul tavolo quasi sei miliardi di soldi nostri, circa novecento euro a famiglia, peraltro inutilmente perché il baraccone così come è non sta in piedi. A ore è atteso l'ennesimo tentativo di metterci una pezza da parte di UniCredit che, guarda caso, ha da poco cooptato come presidente il "compagno" Piercarlo Padoan già ministro dell'Economia dei governi Pd Renzi e Gentiloni. Questo per dire che quella del Monte dei Paschi non è una tragedia del mondo bancario ma della sinistra italiana. Sinistra che ancora oggi non ne vuole sapere di ammettere le colpe e pagare il conto. Altro che dare la caccia ai quaranta milioni della Lega, altro che arrestare Denis Verdini, all'epoca plenipotenziario di Forza Italia, per i conti sballati della sua piccola banca poco più che familiare. Se in questo Paese esistesse una magistratura appena decente dovrebbe chiedere conto a tutti i segretari ancora in vita del partito di sinistra, a tutti i sindaci di Siena, ovviamente PCI-PDS-Pd che hanno occupato il consiglio della Fondazione che gestiva la banca del più grande crack finanziario dopo quello del Banco Ambrosiano del duo Calvi-Gelli. Ecco, cari colleghi di La Repubblica, ci sarebbero tanti buoni e seri motivi per dare dei ladri agli amministratori del Pd in tutte le sue versioni. Avete scelto l'unico che tocca le vostre tasche. Anche questo è molto di sinistra.

Mps, la bomba di Maria Elena Boschi: "Gli strani accordi ispirati dal mondo di D'Alema". Libero Quotidiano l'1 agosto 2021. "Pier Carlo Padoan ha evitato il disastro su Mps e i responsabili dei guai della banca vanno cercati negli ispiratori degli strani accordi con il mondo dalemiano in Puglia". Maria Elena Boschi si schiera con l'ex ministro del Tesoro e attacca l'ex segretario del P, dopo le nuove polemiche sul Monte dei Paschi di Siena. "Padoan ha evitato il disastro nel 2017. Chi l’ha distrutta va cercato negli ispiratori degli strani accordi con Banca 121 e il mondo dalemiano in Puglia, fino alla sciagurata operazione Antonveneta. Ma purtroppo la storia delle banche in questo Paese viene raccontata solo a senso unico", ribadisce l'esponente di Italia Viva. La Boschi, in una intervista alla Stampa, parla anche di Enrico Letta candidato a Siena. "Penso che Letta vincerà. Del resto è uno dei collegi più sicuri di tutto il Paese. Fossi un senese vorrei essere rappresentata da una persona con un ruolo di primo piano nella politica nazionale". Sulla riforma della Giustizia spiega che, "abbiamo fatto due diverse mediazioni, solo perché i Cinque Stelle hanno cambiato idea. Entrambe approvate all’unanimità. Se adesso cambiano idea di nuovo, non è più un nostro problema politico ma di loro credibilità. La verità è che la riforma Bonafede non c’è più: è archiviata. Con una battuta potrei dire: prescritta". Su un’alleanza con i democratici per le prossime politiche, spiega che "bisogna chiederlo al Pd non a noi. Io continuo a mangiarmi le mani per Roma. Se il Pd avesse appoggiato Calenda oggi sarebbe tutto un altro film. Se il Pd recupera lucidità e abbandona l’illusione grillina, siamo competitivi ovunque. Quanto a Bersani Speranza e D’Alema, dovrebbero provare solo vergogna per gli applausi alla festa di Leu mentre Travaglio insultava Draghi", conclude con una fucilata agli altri alleati di sinistra del governo Draghi.

Enrico Letta, salasso Mps: perché il suo seggio costa agli italiani 10 miliardi di euro. Sandro Iacometti su Libero Quotidiano l'1 agosto 2021. I conti esatti si faranno alla fine. Ma ad occhio e croce la corsa di Enrico Letta per il seggio di Siena potrebbe costare agli italiani oltre 10 miliardi. Eh sì, perché per l'ennesima volta la strada del Pd si intreccia con quella di Mps. E se guardiamo i precedenti, per i contribuenti c'è poco da stare allegri. Attenti a non perdere il filo poiché la trama è intricata. Tralasciamo, per semplificare, la storia antica della banca senese, per decenni controllata dalle giunte locali rosse, attraverso la Fondazione, e i pasticci gestionali che hanno fatto saltare i bilanci. Arriviamo direttamente agli anni delle grandi crisi bancarie, quando il governo a guida Pd si è trovato alle prese con i crac di Etruria & Ce delle popolari venete. Quando arriva il turno del Monte dei Paschi, nel 2017, il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, mette sul piatto 5,4 miliardi di denaro pubblico. Non per agevolare la liquidazione e la cessione dell'istituto, come fu per Pop Vicenza e Veneto Banca, ma per far entrare direttamente il Tesoro nel capitale. Dopo una lunga trattativa per convincere Bruxelles che non si trattava di aiuti di Stato, ma di un'operazione temporanea a condizioni di mercato (la ricapitalizzazione precauzionale), il Pd cerca anche di far passare la mossa come un affare per le casse dell'erario. Ecco il risultato: la quota del 64,2% acquistata per 3,9 miliardi oggi vale 700 milioni. Prima di bruciare oltre tre miliardi dei contribuenti, però, Padoan passa all'incasso: si presenta e vince (seppure non di molto) nel 2018 nel collegio di Siena. Si arriva così agli anni più recenti, con la scadenza fissata dalla Ue per l'uscita del Tesoro da Mps sempre più vicina e la situazione della banca "nazionalizzata" sempre più disastrosa. In questo scenario si inserisce il tentativo dell'ex ministro piddino Roberto Gualtieri di mollare l'istituto a Unicredit. L'allora ad Jean Pierre Mustier, però, non ne vuole sapere. Una parte del Pd, soprattutto quello toscano, neanche. E i mesi passano. Finché non c'è il colpo di scena: nel novembre del 2020 Padoan lascia la politica (e il seggio che in autunno vuole prendersi Letta con le suppletive) ed entra nel cda di Unicredit per diventare presidente. Dopo un po' capitola anche Mustier. Al suo posto va Andrea Orcel. Il resto è storia di questi giorni. Il nuovo amministratore delegato ha avviato una trattativa con il Tesoro per verificare se esistono le condizioni per una acquisizione. Non di tutta Mps, ovviamente, ma solo della parte buona. Il che significa lasciare a carico dello Stato tutto il marcio rimanente, dalle sofferenze al contenzioso, fino agli sportelli e ai dipendenti in eccesso. Analisti ed esperti si stanno arrovellando in queste ore a calcolare quanto potrà costare l'operazione per i contribuenti. A spanne, tra gli oltre due miliardi di crediti fiscali già stanziati dal governo, i circa 2 miliardi di aumento di capitale, i 4 miliardi di contenziosi e gli oneri per Npl ed esuberi la cifra si avvicinerà ai 10 miliardi. In cambio lo Stato potrebbe entrare, questa volta sperando di ricavarci qualcosa, in Unicredit con una quota intorno al 5%. Si può fare di meglio? Forse. Ma è difficile pensare che Mario Draghi e il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che non sono proprio dei novellini in fatto di banche, si avventureranno in un'operazione dolorosa se non sarà l'unica a disposizione. La verità è che i danni sono già stati fatti. E ora non resta che limitarli. Tutto il contrario di quello che sembra pensare il Pd, che dopo un iniziale imbarazzo si è schierato ufficialmente contro la trattativa che sta scatenando l'ira dei sindacati e la rivolta del territorio. A livello locale con il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, che definisce l'ipotesi inaccettabile e chiede un tavolo con gli enti locali, e a livello nazionale con i capigruppo di Camera e Senato, che hanno chiesto a Franco di riferire con urgenza in Parlamento. Intendiamoci, i Dem non sono isoli in queste ore a fare baccano. Ma sono gli unici che hanno mangiato per anni con Mps e che ora, dopo aver messo in ginocchio la banca e prosciugato le tasche dei contribuenti, si presentano a Siena per chiedere l'ennesimo dividendo. Una decina di miliardi, sembra di capire, sono già andati. Il rischio, più che concreto, è che per garantire uno strapuntino al segretario, il Pd faccia diventare il conto ancora più salato.

Una privatizzazione a carico dei cittadini. Carlo Lottieri il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. A quanto pare, la vicenda del Monte dei Paschi di Siena sta per giungere a una conclusione e, in qualche modo, si tratterà di una (parziale) privatizzazione. A quanto pare, la vicenda del Monte dei Paschi di Siena sta per giungere a una conclusione e, in qualche modo, si tratterà di una (parziale) privatizzazione. Mentre solo pochi giorni fa gli stress test dell'Eba avevano collocato questa banca in fondo alla classifica dei 50 istituti di credito europei esaminati, ormai sembra che Unicredit possa acquisire Mps, ma soltanto in virtù del fatto che i crediti deteriorati resteranno in mano al Tesoro. Per un liberale, una privatizzazione è sempre un fatto positivo, dato che un'economia di mercato si regge su privati che interagiscono liberamente, contando sui profitti delle loro attività e, in caso d'insuccesso, sopportando le perdite. Quando lo Stato rinuncia a un pezzo del sistema economico, è difficile esprimere contrarietà, ma è pur vero che l'intreccio tra pubblico e privato è tale che simile schema generale non sempre funziona. La rinuncia del Tesoro al controllo, d'altra parte, non è stata dettata da una svolta culturale, ma solo da decenni di cattiva politica aziendale. Siena è stata a lungo controllata da Mps, che è servita alla sinistra per comprare il consenso. Il fallimento gestionale è stato la conseguenza di ciò e ora la cessione appare la sola strada percorribile. Va aggiunto che quando sono i ministri o gli assessori a vendere pezzi di beni pubblici nessuno può dormire sonni tranquilli. Negli accordi tra un politico che dispone di mezzi collettivi (non quindi propriamente suoi) e un privato che invece ha tutto l'interesse a fare buoni affari, è facile prevedere che in molti casi il secondo otterrà condizioni di favore. Al di là dell'episodio specifico, è quindi indispensabile che lo Stato non si limiti a cedere qualche pezzo del patrimonio, ma che rinunci a giocare in prima persona: gestendo e regolando ogni cosa. Anche perché è chiaro che a pagare sarà il Pantalone di sempre. Come nel caso di Alitalia (adesso Ita), queste ristrutturazioni si sforzano sempre di tenere in considerazione i lavoratori, ma per far ciò scaricano i maggiori costi sui contribuenti. Ed è già chiaro a tutti che l'uscita dello Stato da Mps sarà resa possibile dal fatto che ogni fardello è stato messo sulle spalle dello Stato, e quindi si tradurrà in nuovi oneri per quanti già ora pagano tasse molto alte. Privatizzare è un'ottima cosa quando c'è un disegno strategico che vuole ridimensionare lo Stato e liberare l'economia. Quando non è così, è legittima la sensazione che si possa continuare ad assistere a rapporti non del tutto chiari tra politici e uomini d'affari: sia quando lo Stato acquisisce sia quando lo Stato cede. Carlo Lottieri

Il Tesoro ha solo 4 mesi per "liberarsi" di Mps. Ma costerà 3,7 miliardi. Gian Maria De Francesco il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Lo Stato è obbligato a trovare un acquirente entro fine 2021. L'Ue non consente proroghe. C'è un dato incontrovertibile nella trattativa Unicredit-Mps. Se il Tesoro ha atteso che il gruppo guidato da Andrea Orcel si avvicinasse, come da tempo auspicato, all'istituto senese, è perché dalla Commissione Ue e dalla Bce non devono essere giunti segnali rassicuranti. Le autorità europee non intendono prorogare la scadenza del 31 dicembre 2021 per l'individuazione del partner destinato a rilevare il Monte dei Paschi entro i primi sei mesi del prossimo anno. E Unicredit, dopo che Intesa Sanpaolo ha acquisito Ubi Banca, è l'unica realtà con le spalle sufficientemente larghe per «digerire» le parti migliori di un complesso attanagliato da oltre un decennio da una crisi irreversibile. Insomma, Via XX Settembre per uscire dalle secche in cui si è impelagato rilevando la maggioranza di Mps nel 2017, ha a disposizione poco più di quattro mesi. Ora la speranza del premier Draghi e del ministro dell'Economia Franco è che la politica non metta troppi bastoni tra le ruote dopo aver causato un dissesto gigantesco. La responsabilità soggettiva della crisi di Rocca Salimbeni è del Pd: ha avallato l'acquisizione sconsiderata per oltre 10 miliardi di euro di Antonveneta per evitare che il Monte diventasse preda di altre banche perdendone il controllo. E ha chiuso gli occhi sulla sottoscrizione scellerata di contratti derivati per garantire un minimo di dividendi alla Fondazione controllante, dissanguata dagli aumenti di capitale che hanno sostenuto la crescita. Ma c'è anche la responsabilità oggettiva di un'opposizione senese che non ha mai alzato troppo la voce. Oggi la politica usa argomenti capziosi per modificare una situazione alla quale non esistono alternative praticabili, salvo voler perdere la faccia con il commissario alla Concorrenza Margrethe Vestager, e il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. E così si utilizza il tema dei costi che comunque il Tesoro dovrà sopportare per agevolare Unicredit. Lo Stato, infatti, dovrà garantire la neutralità patrimoniale a Unicredit, cioè dovrà assicurare che il suo capitale non si deteriori in virtù dell'acquisizione. E questo significa confermare, come già fatto per legge, i crediti d'imposta sugli attivi (dta) per oltre 2 miliardi, ma anche una ricapitalizzazione di Mps per altri 2 miliardi di cui 1,5 a carico del socio pubblico. Allo stesso modo, se tutto andrà come previsto, lo Stato tramite Amco assorbirà oltre 4,4 miliardi (dopo gli 8 miliardi già assunti nel 2020) di non performing loans del Monte, scaricandolo (si vocifera di Fintecna) inoltre del contenzioso legale di 6,5 miliardi circa. L'operazione potrebbe anche effettuarsi con una scissione parziale di Mps a favore di Unicredit che ne acquisirebbe la parte in bonis lasciando la bad company allo Stato che, in cambio, diventerebbe socio di minoranza di Orcel & C. Ecco, la politica dimentica che questi costi sarebbero, in ogni caso, stati imputati al Tesoro anche nella remota ipotesi in cui fosse rimasto socio di maggioranza. Certo, dopo aver speso già 5,4 miliardi nel 2017, il contribuente medio non può certo sorridere dinanzi a questa evenienza. Ma nel 2016 e nel 2017 ci fu una generale accettazione dell'intervento pubblico affinché non si ripetesse il caso delle quattro banche «risolte» (Etruria, Marche, CariFerrara e CariChieti) con gli obbligazionisti azzerati in piazza. Tant'è vero che, giustamente, quasi nessuno ha protestato quando Intesa ha rilevato la parte in bonis di PopVicenza e Veneto Banca. E, peggio ancora, nessuno protesta quando la concessione «politica» del credito genera questi disastri. Lasciando a Draghi e a Franco soli quattro mesi.

Gian Maria De Francesco. Barese, classe 1973, laurea in Filosofia e specializzazione in Giornalismo all’Università Luiss di Roma. Mi occupo dei maggiori avvenimenti economico-finanziari da oltre vent’anni. Ho scritto un libro nel 2019 intitolato «Tassopoly: dall’Irpef alla pornotax, il folle gioco delle tasse». Ho tre grandi passioni: la famiglia, il Bari e il Brit-pop.

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2021. L'affaire Unicredit-Mps, con l'aperture delle trattative fra il ministero dell'Economia e l'istituto milanese di piazza Cordusio, diventa un caso politico. L'operazione finisce sul tavolo del Pd perché a ottobre ci saranno le elezioni suppletive a Siena, considerata un feudo della sinistra. In questo contesto le due capogruppo di Camera e Senato del Pd, Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, chiedono al ministro Daniele Franco di riferire alle commissioni competenti. «È indispensabile - osservano - che il Parlamento venga coinvolto nelle sue sedi opportune». Presa di posizione che viene ribadita dal responsabile economico del Nazareno, Antonio Misiani, e dalla segretaria del Pd in Toscana, Simona Bonafé: «Riteniamo indispensabile che il governo - azionista di maggioranza di Mps - discuta in Parlamento le ragioni dell'operazione e le prospettive della banca e avvii immediatamente un confronto con le organizzazioni sindacali e le istituzioni territoriali interessate». Dalle parti del centrosinistra c'è molta preoccupazione, in primo luogo per la tutela dei lavoratori e del marchio Mps. Non a caso il presidente della Regione Roberto Giani è infuriato: «Vedere il Monte inghiottito da Unicredit con una trattativa che salta il territorio e non considera il patrimonio di un istituto, che è capillarmente radicato nel Centro Italia, ma presente nell'intero Paese, non è accettabile». Si mostra dubbioso anche Renato Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione. «Era questo il momento di fare una proposta da parte di Unicredit? Probabilmente no. Che si aprano le segrete stanze dei consigli di amministrazione. Se Mps deve sposarsi o fidanzarsi che se ne discuta nel Paese. E che se ne discuta anche in Consiglio dei ministri». Postilla finale del ministro forzista: «Vorrei che non finisse in spezzatino. Serve trasparenza e responsabilità. Non ho dubbi che il governo Draghi lo farà». Il senatore Maurizio Gasparri denuncia: «Bisogna intervenire in Parlamento sul mostruoso conflitto di interessi Unicredit-Pd-Mps». Il dirigente azzurro si riferisce al triplo passaggio di Pier Carlo Padoan: prima ministro dell'Economia in un governo di centrosinistra, poi eletto a Siena come parlamentare, e oggi presidente di Unicredit. Critico anche il leader Cgil Maurizio Landini: no allo spezzatino. Stefano Fassina di Leu parla di ritardi di via XX Settembre, sottolineando che «la legge prevede che il ministro dell'Economia riferisca preventivamente alle Camere su eventuali operazioni di aggregazione societaria o di variazione della partecipazione detenuta in Mps». Dall'opposizione Galeazzo Bignami (FdI) suggerisce di chiedere «una deroga alla Ue per superare il termine d'uscita dello Stato da Mps, fissato al 31 dicembre 2021», così da evitare di «neutralizzare i rischi di esposizione per Unicredit con un impegno per oltre 10 miliardi da parte dello Stato». Durissimo il socialista Riccardo Nencini: «Che la banca più antica del mondo scompaia con Unicredit che ne acquista solo la rete commerciale è peggio di una bestemmia».

Maurizio Belpietro per “la Verità” l'1 agosto 2021. Quanto sono costate agli italiani le campagne elettorali e clientelari del Pd? Beh, diciamo che solo negli ultimi anni non siamo molto lontani dai 17 miliardi. La cifra vi stupisce? Ma è solo la somma di quanto ha speso lo Stato per evitare che il Monte dei Paschi di Siena fallisse e trascinasse con sé mezzo establishment del Partito democratico, facendo perdere ai compagni il controllo sulla rossissima Toscana. La banca senese è sempre stata la cassaforte della regione e i vertici dell'istituto, ovviamente di sinistra, per decenni hanno contribuito a tenere in vita una macchina del consenso, oltre che finanziare le attività della zona. Così è stato conservato il potere, prima del Pci, poi del Pds-Ds e infine del Pd. Ma ora siamo alla resa dei conti e il saldo dell'ultimo quinquennio fa appunto circa 17 miliardi: mica male per un partito che ogni giorno si presenta agli elettori come il custode del rigore economico. Ma andiamo con ordine. Nel 2017, quando già il bubbone di Mps era scoppiato da un pezzo, costringendo alle dimissioni Giuseppe Mussari, ossia il presidente voluto da Massimo D'Alema, e quando i tentativi di piazzare il banco nelle mani di Jp Morgan, come voleva Matteo Renzi, erano naufragati, al governo toccò mettere mano al portafogli. All'epoca, tanto per chiarire le responsabilità, a Palazzo Chigi c'era Paolo Gentiloni e al ministero dell'Economia Pier Carlo Padoan. In totale, vennero spesi 5,4 miliardi: 3,85 per iniettare mezzi freschi in una banca che aveva dilapidato il patrimonio e 1,5 per comprare le azioni dell'istituto che erano state assegnate ai titolari di obbligazioni subordinate della banca senese. Così, a differenza di ciò che accadde con Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Etruria e via fallendo, a pagare non furono i risparmiatori, ma lo Stato, cioè tutti gli italiani, perché il Pd non si poteva permettere una bancarotta, per di più a pochi mesi dalle elezioni. Tanto per capire come sia stato redditizio l'investimento, basti dire che nel 2017 il Tesoro pagò le azioni circa 7 euro l'una e oggi quei titoli valgono 1,17 euro. Dunque il Tesoro, che di Mps possiede il 68,24 per cento del capitale, a oggi ha perso 4,5 miliardi, ovvero l'85 per cento di ciò che aveva investito. A decidere l'operazione, come detto, furono Gentiloni e Padoan, il quale poi si candidò proprio nel collegio di Siena, vincendo la competizione. Dunque, si può dire che la sola elezione di Padoan al Senato, ovviamente nelle liste del Pd, è costata al contribuente la bella cifra di 4,5 miliardi, all'incirca 75 euro a testa, neonati compresi. Non è finita. I soldi gettati nel calderone di Mps, com' era ovvio, non sono bastati, anche perché la ristrutturazione del banco avrebbe richiesto un'opera generale di pulizia che contrastava con gli interessi del territorio. Dunque, i problemi, insieme con i crediti deteriorati, si sono trascinati fino a oggi. E così riecco lo Stato, cioè noi, a dover di nuovo mettere mano al portafogli. Ma questa volta la cifra rischia di essere più grande, perché per far sposare Mps con Unicredit bisogna offrire una discreta dote, in quanto nessuno si compra un debito senza contropartita. Risultato, se i contenziosi del Monte dei Paschi rimangono fuori dal perimetro dell'acquisizione, cioè restano a carico del Tesoro, bisogna calcolare 6 miliardi, a cui però poi serve aggiungerne altri 4 di crediti deteriorati, che non verranno trasferiti a Unicredit, ma rimarranno in capo allo Stato. In pratica, la dote implicita per indurre Unicredit a prendersi una zitella che nessuno vuole arriva a 10 miliardi, che sommati ai 4,5 di perdita sul capitale, sfiorano già i 15. Basta e avanza? No, perché poi ci sono altri 2,4 miliardi di crediti fiscali che lo Stato regalerà a Unicredit per invogliare l'istituto guidato da Andrea Orcel a comprare Mps. Il totale sfiora dunque i 17 miliardi. E al momento non sono calcolati i costi degli esuberi, cioè dei 6.000 dipendenti che dovranno essere prepensionati e che, lo diamo per scontato, lo saranno a carico dell'Inps e dunque sempre dello Stato. Insomma, a fare due conti, non credo che si sia molto lontani dai 20 miliardi, senza contare le perdite dei risparmiatori e senza neppure addentrarci troppo sui valori dei crediti deteriorati che il Tesoro, tramite la sua controllata, paga più del mercato. In questo disastro finanziario, sulla scena del delitto si trovano come detto le impronte digitali della sinistra. Non solo per i danni del passato, con Mussari e compagni, ma anche per quelli del presente. Pier Carlo Padoan è colui che, dopo aver licenziato i vertici dell'istituto, ha tenuto a battesimo l'ingresso dello Stato nel capitale. Ma poi si è candidato a Siena, incassando il bottino politico della più straordinaria operazione di voto di scambio che si sia mai vista, e dopo poco ha lasciato il Senato per la presidenza di Unicredit. Oggi, in pratica, Padoan è a capo della banca che comprerà Mps a spese dello Stato. C'è di più? Dove si vuole candidare Enrico Letta per entrare in Parlamento e trovare un lavoro oltre che uno stipendio? Ma è ovvio: a Siena. Risultato, il Pd ogni volta passa all'incasso e gli italiani ogni volta pagano. 

(ANSA il 3 agosto 2021) Non siamo al supermercato, respingo fortemente l'idea che questa città rimanga supina di fronte a qualsiasi decisione". Così il sindaco di Siena Luigi De Mossi su Mps durante un incontro con i giornalisti. "Gli uomini Monte hanno fatto grande questa città e hanno diritto di non essere rottamati" ha aggiunto De Mossi. (ANSA)

Camilla Conti per "la Verità" il 3 agosto 2021. C'è una foto che rappresenta il simbolo di quel «groviglio armonioso» che per decenni ha stretto Siena. Dietro a una finestra della Fondazione Mps, in quello scatto ormai ingiallito dal tempo, ci sono tre persone che osservano la corsa del Palio: Giuseppe Mussari, già asceso dalla Fondazione al vertice del Monte grazie a un accordo politico fra esponenti della Margherita e dell'allora Pci; Giuliano Amato (ex premier oggi giudice e vicepresidente della Corte costituzionale); e l'ex sindaco di Siena, Franco Ceccuzzi. Ricordi di gruppo, quando la sinistra aveva la sua banca con vista su piazza del Campo. E quando le lotte interne ai Ds determinavano le mosse del risiko. All'inizio del 2000, Mps compra Banca 121, la banca del Salento, nel cuore della Puglia, collegio di Massimo D'Alema, e la paga 2.500 miliardi di vecchie lire. A guidare Banca 121 c'era Vincenzo De Bustis, considerato vicino al «líder Maximo» e diventato poi direttore generale dello stesso Monte (e poi anche ad della Popolare di Bari). Ma a creare fratture tra le correnti è il fidanzamento fra il Monte e la romana Bnl, che avrebbe dovuto portare a una fusione saltata almeno un paio di volte. La prima è nell'estate del 2000, quando le nozze fra Siena e Roma vengono sponsorizzate dall'allora presidente Ds, D'Alema, con il placet del governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio. Altre pressioni arrivano anche da Vincenzo Visco, in quel periodo ministro del Tesoro, e da Amato. Il matrimonio con Bnl, però, salta per lo stop di Walter Veltroni (allora sindaco di Roma e antagonista di D'Alema dentro al nascente Pd), con il sostegno dei prodiani. Poco dopo scoppierà la calda estate delle scalate bancarie e Bnl finirà nel mirino delle coop rosse capitanate dall'allora patron di Unipol, Giovanni Consorte: il 31 dicembre 2005 Il Giornale pubblicherà stralci di un'intercettazione fra lui e Piero Fassino, allora segretario dei Ds, in cui quest' ultimo gli chiedeva: «E allora siamo padroni di una banca?». È anche l'estate dei «furbetti del quartierino» (copyright Stefano Ricucci), capitanati da Gianpiero Fiorani e che tenteranno, invano, di mettere le mani su Antonveneta. Da quelle scalate si sfila il Monte, che però due anni dopo comprerà proprio la banca padovana. L'inizio della fine, Il «peccato originale» della crisi del Monte. Accompagnato in quel novembre del 2007, dal plauso unanime degli esponenti in casa Ds-Pd. Galvanizzati dall'ingresso nell'alta finanza. Nomi e cognomi finiti nei faldoni delle inchieste giudiziarie. Prima quella del 2010 sulla privatizzazione dell'aeroporto di Ampugnano e poi quelle uscite nel 2013 sull'inchiesta Antonveneta. Gabriello Mancini, ex presidente della fondazione, nel luglio 2012 ai magistrati senesi racconta della spartizione di poltrone: «La mia nomina, come quella dell'avvocato Mussari alla guida della banca, fu decisa dai maggiorenti della politica locale e regionale e condivisa dai vertici della politica nazionale». L'ex sindaco di Siena nonché ex deputato inquadrato nell'area dalemiana dei Ds, Ceccuzzi, cita un colloquio con Fassino, che disse «di fare scelte oculate per il bene della banca e del territorio». E con D'Alema lo stesso Ceccuzzi parla della nomina di Alessandro Profumo: «Nell'autunno del 2011 pensammo di cambiare direttore generale e ci rivolgemmo anche ad Alessandro Profumo, che però rifiutò lasciando la porta aperta a una sua possibile nomina alla presidenza. Con il passare dei mesi la situazione diventava sempre più difficile e mi rivolsi a Massimo D'Alema. Naturalmente lo invitai a contattare Profumo per fare pressioni perché accettasse l'offerta». L'incontro ravvicinato con D'Alema si svolse in piazza Farnese, a Roma, nella sede di Italianieuropei. Eppure qualche mese prima, il 24 gennaio del 2013, lo stesso D'Alema aveva dichiarato: «Il Monte dei Paschi non è mai stato un punto di riferimento del nostro partito». D'Alema, Veltroni e anche Matteo Renzi. Che a Repubblica, nel luglio del 2016, ammette: «Su Mps, non prendiamoci in giro: le responsabilità di una parte politica della sinistra, romana e senese, sono enormi». Già, non prendiamoci in giro. Tre anni prima l'ex sindaco di Siena, Bruno Valentini, aveva mandato un sms a Renzi: «Allora procedo così su Mps?». A raccontarlo è lo stesso Renzi il primo settembre del 2013, quando è ancora sindaco di Firenze, sul palco della festa democratica di Genova: «Ieri mi ha mandato un messaggino, "Matteo, allora vado a dritto sulle nomine, okay?". E io gli ho risposto: "Bruno ma che c'entro io con le nomine del Monte Paschi". Perché la politica non deve mettere bocca in queste cose». È lo stesso Renzi che poi da premier, nel luglio 2016, avrebbe incontrato a pranzo il gran capo di Jp Morgan, Jamie Dimon, per fargli risanare il Monte già scassato. In questi giorni Renzi ha consigliato a Enrico Letta, candidato alle suppletive di ottobre, di «fare una chiamata a Scaramelli che in quel collegio ha preso il 7,5%», riferendosi al maggiorente senese di Italia viva, Stefano Scaramelli, nonché vicepresidente del Consiglio regionale della Toscana. Qualche anno fa lo stesso Scaramelli, ex sindaco di Chiusi, racconta in un'intervista a una radio della città di una riunione avvenuta nel 2011 in cui si era deciso che la fondazione avrebbe coperto l'aumento di capitale per l'acquisto di Antonveneta: presenti tutti gli organi del partito e il presidente della Fondazione Mps, Gabriello Mancini, decisero (Scaramelli dice di essere stato contrario) sull'aumento di capitale della banca. Abbiamo raccontato i grovigli del passato che il Pd, così preoccupato ora per i destini di Siena, sembra aver dimenticato con un processo di rimozione kafkiano. Ma se oggi siamo arrivati alla trattativa tra Unicredit e il Mef è anche per la strategia assai più recente e dunque difficile da omettere con amnesie improvvise. Il «pacchetto» proposto ad Andrea Orcel è stato infatti impostato da un dalemiano di ferro come l'ex ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri. Che a settembre 2020 assicurava: «Una grande banca come Mps va rilanciata, non spezzettata». E nel frattempo spingeva per la soluzione Unicredit con Pier Carlo Padoan presidente, che avrebbe potuto chiudere un cerchio aperto tanti anni fa.

·        Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

(ANSA il 14 dicembre 2021) - Favoreggiamento, omissione d'atti d'ufficio e falso. Sono questi i reati che potrebbero essere ipotizzati dalla procura di Genova quando riceverà gli atti dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte del capo comunicazione Mps David Rossi, avvenuta nel marzo 2013 a Siena. Pierantonio Zanettin, presidente della commissione, aveva annunciato l'invio degli atti ai magistrati genovesi, competenti a indagare sui magistrati del distretto toscano, dopo l'audizione del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, all'epoca comandante provinciale di Siena.

Morte Rossi: test Ris, pioggia artificiale e caduta orologio. (ANSA il 21 dicembre 2021.) Proseguono in orario senza luce naturale i rilievi e le simulazioni del Ris dei carabinieri nel vicolo di Monte Pio a Siena, dove il 6 marzo 2013 è morto David Rossi, ex capo comunicazione di banca Mps, precipitando dalla finestra del suo ufficio dentro la sede di Rocca Salimbeni. In condizioni di illuminazione simili a quella sera la perizia sta utilizzando la telecamera di sorveglianza della banca senese che immortalò la caduta di Rossi; per creare le stesse condizioni meteorologiche vengono effettuati anche test con pioggia artificiale. Dalla finestra dell'ufficio dell'ex manager e anche da quella al piano superiore, il quarto, vengono inoltre effettuati test di caduta libera e parabolica di un orologio dello stesso modello di quello di Rossi e che, la sera del 6 marzo 2013, è stato immortalato dalle telecamere di sorveglianza mentre cadeva sul selciato qualche minuto dopo la caduta del manager. Accertamenti, infine, con fari di automobili per studiare il fenomeno di proiezione delle ombre così come furono riprese sempre dalla telecamera. (ANSA).

Marco Maffettone per l’ANSA il 16 dicembre 2021. "Assolutamente no". Ha risposto così Carla Ciani, la mental coach di banca Mps alla domanda se avesse mai avuto la percezione che David Rossi stesse per suicidarsi. La risposta è arrivata nel corso dell'audizione alla Commissione parlamentare che indaga sulla morte del manager senese avvenuta il 6 marzo 2013, durante l'audizione di Ciani svoltasi oggi. Il 6 marzo di 8 anni fa Ciani ebbe un colloquio di due ore con l'ex capo comunicazione della banca, ritrovato poi morto la sera stessa. E Al termine del colloquio "mi ha detto ci vediamo il 13, grazie per tutto, mi ha fatto bene parlare un po'" ha aggiunto la professionista che poi ha precisato riferendosi sempre all'ipotesi del suicidio: "Non ho avuto la percezione e non sono assolutamente in grado di poter immaginare il fatto che potesse prendere una decisione del genere".

"Ho lasciato una persona lucida e anche sul pezzo rispetto alle cose che avrebbe dovuto fare" ha concluso la mental coach. Con le dichiarazioni di Carla Ciani sembrano non finire mai le rivelazioni sul caso Rossi. E un nuovo colpo di scena nella tragica vicenda del manager del Monte dei Paschi, morto dopo essere precipitato dal suo ufficio, è emerso nel corso di una conferenza stampa a cui hanno preso parte anche la moglie di Rossi, Antonella Tognazzi e la figlia Carolina Orlandi. 

Un testimone afferma di avere visto David Rossi nel giorno della sua morte, il 3 marzo del 2013, in una stradina di Siena, vicolo di Vallerozzi, tra le 15.30 e le 16. Un incontro di cui aveva raccontato, nell'ambito di sommarie informazioni, anche agli inquirenti che però, a detta dell'onorevole Walter Rizzetto, membro della commissione parlamentare di inchiesta, "non hanno proceduto con la verbalizzazione". 

Rizzetto ha annunciato che il testimone oculare verrà chiamato in audizione davanti alla commissione. "Abbiamo parlato con questa persona - ha aggiunto Rizzetto -, la cui testimonianza è ritenuta da noi molto affidabile. Colloca Rossi in vicolo Vallerozzi tra le 15.30-16. Il manager stava parlando mentre camminava, aveva un cappuccio calato e di fatto si è involontariamente scontrato con il teste. Da buon cittadino lui, dopo i fatti, si è recato dagli inquirenti per raccontare quanto aveva visto ma le sue parole non sono state messe a verbale: è un fatto molto grave".

Rizzetto ha affermato, inoltre, che gli inquirenti avrebbero detto al testimone di "non preoccuparsi" perché "in quei giorni "Rossi era emotivamente provato e che forse stava parlando da solo, adducendo che lui non utilizzava gli auricolari". Anche per l'avvocato Carmelo Miceli, legale dei familiari, siamo in presenza di una fatto grave.

"Chiunque abbia immagini, anche solo all'apparenza non rilevanti, ci contatti: chiunque sappia ci può informare anche nel modo più riservato", l'appello lanciato dal penalista. Dal canto loro la moglie e la figlia di Rossi tornano a chiedere "verità e giustizia". "In un Paese sano sarebbero dovute arrivare da sole - hanno affermato -. Ci troviamo qui dopo nove anni a chiedere cosa sia successo quella sera. Per anni ci hanno accusato di essere delle complottiste, delle visionarie, ma oggi sappiamo che non era così. Si indaghi per omicidio". Ma non solo.

"Non c'è più traccia di 61 fotografie e 2 filmati video, della polizia scientifica, dai fascicoli dei magistrati", ha svelato ieri sera Massimo Giletti nel corso di Non è l'Arena. "Io devo annunciare una cosa importante, nuova. - ha detto Giletti nel corso della trasmissione- Che aggraverà ancora questa storia. Una persona a me vicina, sapendo che io avrei affrontato questo tema, mi ha chiamato e mi ha detto 'Guarda che nel fascicolo dei magistrati, la polizia aveva portato altre 61 fotografie e altri 2 filmati di cui non c'è più traccia" Intanto i familiari hanno ringraziato i componenti della Commissione del lavoro che stanno svolgendo.

Una attività che proseguirà anche la prossima settimana. Martedì, a Siena, è in programma, nell'ambito della maxiperizia affidata ai carabinieri, la prova del manichino antropomorfo con uno scanner 3d che ricostruisce in tre dimensioni la scena del crimine. Sulla vicenda del manager dell'istituto di credito toscano è intervenuto anche il presidente della Commissione antimafia, Nicola Morra, che ha riferito che ieri "nell'Ufficio di presidenza un gruppo parlamentare ha avanzato la richiesta di far partire un'attività istruttoria in Antimafia afferenti Mps.

Ci sono gli estremi perché questo avvenga". "La morte di David Rossi, a distanza di anni, è avvolta ancora nel mistero. Le ombre, le omissioni e i depistaggi sull'ex manager del Monte dei Paschi di Siena, sono ormai evidenti. Fratelli d'Italia, attraverso l'istituzione della Commissione d'Inchiesta, si è sempre battuta per la ricerca della verità. Ci auguriamo che la Procura riapra presto le indagini sulla sua morte. Facciamo luce su quanto avvenuto: lo dobbiamo alla moglie Antonella, a Carolina e a tutti i suoi familiari", il commento della presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. (ANSA). 

(ANSA il 16 dicembre 2021) - "Chiediamo verità e giustizia, che in un Paese sano sarebbero dovute arrivare da sole. Ci troviamo qui dopo nove anni a chiedere cosa sia successo quella sera. Per anni ci hanno accusato di essere delle complottiste, delle visionarie, ma oggi sappiamo che non era così". E' quanto ha affermato Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi, la moglie di David Rossi, il manager di Monte Paschi di Siena, morto il 6 marzo del 2013, nel corso di una conferenza stampa.  "Chiunque abbia immagini, anche solo all'apparenza non rilevanti, ci contatti: chiunque sappia ci può informare anche nel modo più riservato". E' quanto affermato dall'avvocato Carmelo Miceli, legale della moglie di David Rossi, Antonella Tognazzi e della figlia Carolina Orlandi. "Ringraziamo il modo in cui sta lavorando la commissione d'inchiesta - ha aggiunto il penalista -. In questa vicenda la famiglia parla di omicidio perché ci sono dei soggetti che anche davanti all'autorità giudiziaria hanno affermato questa cosa. Noi da tempo chiediamo che la magistratura ci dia lo spazio per vagliare l'attendibilità di un teste che parla di omicidio. Si continua a definire quelli che vogliono raccontare qualcosa come dei visionari". "Alla luce dei nuovi e inquietanti fatti che emergono in queste ore sulla morte di David Rossi, si conferma l'importanza di una commissione di inchiesta promossa e richiesta con forza da Fratelli d'Italia. È doveroso fare luce su una vicenda che ha ancora troppi lati oscuri e per assicurare che sia fatta giustizia, come legittimamente richiesto dalla famiglia di Rossi. Ringrazio il collega Walter Rizzetto per l'impegno particolare e con lui tutti quelli che lavoreranno nel nome della verità e della giustizia". Lo ha detto il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida, partecipando alla conferenza stampa promossa dal deputato FDI Walter Rizzetto sul caso dell'ex capo della Comunicazione di Mps.- "Il senatore Nicola Morra, che ormai presiede una Commissione universale, lancia l'ipotesi di aprire un'istruttoria sulla morte di David Rossi. Che ci azzecca? Direbbe qualcuno." È quanto dichiara il senatore di Forza Italia Luigi Vitali a commento delle ultime dichiarazioni del Presidente Morra in merito alla richiesta avanzata ieri nell'Ufficio di Presidenza della Commissione Antimafia, di avviare un'istruttoria sul caso Mps. "La morte del manager, ad ora rubricata come suicidio, ha destato fin da subito clamore e dubbi ma cosa centra l'Antimafia?" prosegue il parlamentare. "A maggior ragione che il Parlamento ha già istituito una Commissione speciale sulla questione. Si occupi delle sue prerogative Morra - conclude Vitali - e lasci lavorare gli organi preposti: senza intralciare o ritardare. Forza Italia è comunque contraria a questa iniziativa".(ANSA) 

Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” il 17 Dicembre 2021. La morte di David Rossi è un giallo sempre più fitto: ora spuntano 61 foto e due video girati dalla polizia la tragica sera del 6 marzo 2013. Si tratta di materiale inedito, perché non allegato al fascicolo che i pm senesi aprirono per indagare sulla morte del capo della comunicazione di Mps, morto dopo essere volato giù dal terzo piano del suo ufficio di Rocca Salimbeni, a Siena. Il caso è stato sollevato da Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7. Nell'indagine della Procura, chiusa come «suicidio», risultavano già 60 fotografie, realizzate da una poliziotta della scientifica, Federica Romano, intervenuta la notte della tragedia scattando e filmando sequenze sullo stato dei luoghi nella stanza in cui lavorava Rossi. Il materiale inedito, la cui esistenza era emersa il 25 novembre durante l'audizione alla Camera della medesima Romano, è stato ora acquisito dalla commissione parlamentare istituita per far luce sui troppi punti oscuri della tragedia. «Queste foto e questi video non sono stati distrutti, ma erano custoditi negli archivi della questura di Siena - spiegano fonti interne alla commissione -. Si tratta di un atto doveroso. Perché i pm senesi non allegarono questo materiale? Erano doppioni? Erano immagini giudicate non rilevanti? E perché? Troppe cose non tornano». Ma le ultime novità, compresa la testimonianza di una blogger senese che aveva incontrato Rossi prima della tragedia ma non venne poi interrogata, hanno innescato un'accelerazione. La commissione parlamentare ha infatti deliberato la trasmissione al Csm, al procuratore generale presso la Cassazione e alla Procura di Genova di copia dei resoconti stenografici, anche nella parte segreta, dell'audizione del colonnello dei carabinieri Aglieco, di quella del luogotenente Nesticò e dei poliziotti Gigli, Marini e Romano. Ai medesimi destinatari saranno inviate le copie delle 121 fotografie scattate in totale da quest' ultima. «La morte di Rossi, a distanza di anni, è avvolta nel mistero. Le ombre, le omissioni e i depistaggi sull'ex manager di Mps, sono ormai evidenti. Noi di Fratelli d'Italia - dice la leader Giorgia Meloni - ci siamo sempre battuti per la ricerca della verità. Ci auguriamo che la Procura riapra presto le indagini». I deputati della commissione, promossa appunto da FdI, hanno ricevuto una chiavetta contenente le immagini, tutte criptate e visibili solo con un complicato sistema. Più componenti chiedono ora di desecretare foto e video inediti, per poterli comparare con il materiale agli atti, già per il 21 dicembre prossimo. Perché quel giorno, a Siena, su richiesta della commissione parlamentare verrà nuovamente simulata la caduta di Rossi per mezzo di un avveniristico sistema 3D che, grazie alla collaborazione tra il Ris dei carabinieri e l'università, è in grado di riprodurre nel dettaglio la dinamica della tragedia di quella sera, tenendo conto anche delle condizioni di buio e di pioggia. L'esistenza di materiale inedito non allegato al faldone sulla morte di Rossi è l'ennesimo elemento che innesca dubbi su come vennero condotte le indagini 8 anni fa. Nei giorni scorsi il colonnello Aglieco aveva raccontato che, subito dopo la morte del capo della comunicazione di Mps, l'allora pm senese Antonino Nastasi (lo stesso co-titolare dell'inchiesta sulla fondazione Open di Matteo Renzi) avrebbe risposto a una chiamata sul cellulare di Rossi mentre si trovava nel suo ufficio per i primi rilievi, aprendo quindi all'ipotesi di inquinamento della scena di un possibile crimine. Infine, ieri in commissione, è stata ascoltata la mental coach Carla Ciani, consulente di Mps, che vide Rossi poco prima della tragedia: «Non ho avuto la percezione e non sono assolutamente in grado di poter immaginare il fatto che potesse prendere una decisione del genere (il suicidio, ndr ) - ha concluso -. Ho lasciato una persona lucida e anche sul pezzo rispetto alle cose che avrebbe dovuto fare».

Antonella Mollica per "il Corriere della Sera" il 20 giugno 2021. La sera in cui morì David Rossi - il capo comunicazione del Monte dei Paschi di Siena trovato senza vita dopo un volo dalla finestra del terzo piano di Palazzo Salimbeni - nessuno rispose al suo telefono. A rivelarlo sono i tabulati e l'esame del cellulare di Rossi depositati agli atti delle due inchieste archiviate dalla Procura di Siena. L'iPhone 5 di David Rossi venne ritrovato sulla scrivania del suo ufficio la sera del 6 marzo 2013, quando gli investigatori entrarono dopo il ritrovamento del corpo nel vicolo Monte Pio. Lì alle 19.43 una delle telecamere di sorveglianza riprende il manager mentre si schianta al suolo. Dal registro eventi dell'iPhone gli investigatori estraggono cento telefonate, in entrata e in uscita, dalla mattina del 3 marzo fino alle 22 del 6 marzo. L'ultima telefonata fatta risulta quella alle 19.02 alla moglie Antonella Tognazzi e dura otto secondi. Da quel momento l'iPhone continua a squillare ma registra solo telefonate perse, compresa quella di Daniela Santanchè, amica di vecchia data di David che chiama alle 21.59, quando nell'ufficio è in corso il sopralluogo dei tre pm Nicola Marini, di turno quel giorno, Aldo Natalini e Antonino Nastasi, che stavano indagando sul Monte dei Paschi. Il riscontro a quella telefonata non risposta arriva dai tabulati. Quelli della Telecom, ma anche quelli di altre compagnie telefoniche: Tre e Fastweb. Il giorno successivo alla morte di Rossi la Procura di Siena richiede i tabulati telefonici diretti e indiretti sul numero del manager. Dagli operatori telefonici la risposta è la stessa: nessuno risponde dopo la morte di Rossi. Nel tabulato Fastweb, dove vengono indicati 38 secondi della telefonata di Santanchè alle 21.59, c'è l'indicazione di chiamata «libero-non risponde». Questi dati cozzano con le dichiarazioni del colonnello dell'Arma Pasquale Aglieco che, sentito dalla commissione parlamentare sulla morte di Rossi nei giorni scorsi, ha detto che il pm Nastasi avrebbe risposto alla telefonata dell'attuale senatrice di Fratelli d'Italia Daniela Santanchè qualificandosi come pm. E cozzano anche con le ultime dichiarazioni di Santanchè che, a distanza di anni, dice di ricordare che qualcuno rispose ma senza pronunciare parola. Nel 2017 aveva detto in una trasmissione televisiva di non aver ricevuto risposta. Alle 20.16 dai tabulati risulta una telefonata di tre secondi di Carolina Orlandi, figlia della moglie di Rossi. Quella chiamata però non c'è nel registro chiamate dell'iPhone. La chiamata al numero misterioso 4099099 non emerge dai tabulati. Secondo i tecnici della Tim quel numero è una deviazione di chiamata nel momento in cui c'è un credito esaurito. Stessa cosa che potrebbe essere accaduta alla telefonata delle 22.18 di un giornalista della durata di 14 secondi (secondo i tabulati). Laura Bidignetti, dirigente della Tim, ha escluso che quel numero sia stato digitato dal telefono di Rossi. «È solo un errore di rappresentazione dell'evento e Tim all'epoca ha dato una comunicazione sbagliata», ha spiegato. Domani riprende il lavoro della commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Pierantonio Zanettin, che nei prossimi giorni chiederà alla Tim i tabulati della settimana in cui è morto Rossi. Poi si passa agli accertamenti del Ris: verrà simulata con un manichino la caduta dall'ufficio. Dopo le feste toccherà ai tre pm raccontare la loro versione dei fatti su quello che accadde quella notte a Siena.

La moglie di David Rossi: «Suicida? No, custodiva segreti. Mai stata sulla sua tomba, fa troppo male». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2021. «Il primo invito a cena? Me lo ricordo nei minimi dettagli, anche perché ero talmente emozionata che non riuscii a mangiare niente. Era l’estate del 1998. David mi portò in una trattoria a Volpaia, nel cuore del Chianti. Lo conoscevo da tempo: la nostra storia non decollò subito. Lui era molto riservato e non esternava i sentimenti, io venivo da una separazione e con una bimba, Carolina. Poi ci innamorammo, una simbiosi completa». Antonella Tognazzi era la moglie di David Rossi, il capo della comunicazione di Mps che la sera del 6 marzo 2013 precipitò dal terzo piano di Rocca Salimbeni, a Siena, sede della banca, dove aveva il suo ufficio. Un caso che al termine di due inchieste, e migliaia di pagine tra documenti e testimonianze, è stato archiviato come suicidio. Ma nel corso degli anni, a più riprese, sono emersi nuovi elementi e ricostruzioni che oggi, dopo le testimonianze rese davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta, hanno riacceso i riflettori sulla tragedia di Rossi, con la moglie Antonella e la figlia acquisita Carolina Orlandi che chiedono giustizia, convinte che qualcuno, da quella finestra, David lo abbia spinto, volendolo morto.

Signora Antonella, la prima immagine che le viene in mente di suo marito? «David col sigaro in bocca nella nostra casa di montagna, sull’Amiata. Assieme al nostro cane Ernesto, un jack russell, con un libro in mano. Mio marito era questo, curioso della vita».

Non certo un profilo da rider della finanza. Può darsi che ciò fosse un tallone d’Achille per uno che ricopriva un ruolo apicale, con fortissime tensioni da gestire? «Assolutamente no. David era un professionista che non si risparmiava, neanche a Natale. Ma leggo ricostruzioni false: la sua vita non era il suo lavoro. Per lui la vita era andare in bici e a cercare funghi».

Leggendo le carte delle inchieste, all’inizio emerge anche una marcata convinzione, sua e di Carolina, che si trattasse di un suicidio. Poi avete invertito rotta, perché? «Non direi “marcata”. Davanti a tutti quegli elementi, che motivo avevo io di diffidare dei magistrati? Ero travolta da un dramma».

Ricorda un episodio in particolare? «La prima volta fu nel leggere questa presunta lettera di addio, che i pm mi mostrarono: “Ciao Toni... Amore, scusa”. David non mi aveva mai chiamato Toni. Mi chiamava Antonella e basta. E mai “amore”, nemmeno “scusa”, parola che non diceva mai pure quando ammetteva un errore. Poi iniziarono a dissequestrare gli apparecchi informatici di David. Mia cognata, Chiara Benedetti, ingegnere informatico, iniziò a lavorarci sopra. C’è una mail del 3 marzo, quella che David avrebbe inviato a Fabrizio Viola (allora amministratore delegato di Mps, ndr) scrivendo: “Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!”. Perché nessuno ha risposto? Perché nessuno ha preso provvedimenti? In un caso del genere si allertano le forze dell’odine, anche per procurato allarme, si avverte la famiglia. È possibile una mancanza del genere da parte di chi dirigeva una banca così importante? Poi iniziammo a scartabellare tutti gli atti e iniziarono a non tornare le cose. A partire dal video in cui David cade dalla finestra, che all’inizio dà la convinzione che ciò sia avvenuto 16 minuti più tardi rispetto a quanto appurato».

Il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, in Commissione parlamentare, . Cosa ha provato ascoltandolo? «Mi sono sentita come un leone in gabbia, tanta era la rabbia che avevo addosso. Questa persona sa tutte queste cose e le racconta dopo quasi nove anni? Ha di fatto rivelato che l’ufficio di David, scena di un possibile crimine, sarebbe stato inquinato dai pm, maneggiando varie cose prima dell’intervento della Scientifica. . Perché Aglieco avrebbe dovuto dire queste cose? Era evidente che si stesse tirando addosso un problema».

Però ci sono . «Risultano 38 secondi di risposta. I carabinieri del Ros sono stati incaricati dalla Commissione di fare una perizia anche su questo».

Non avete la percezione, con la discesa in campo della politica, di una possibile strumentalizzazione della morte di suo marito? «No. Perché se una persona vale io la seguo a prescindere dal credo politico, su cui non faccio distinzione».

Quando potrà riposare in pace suo marito? «Quando gli verrà resa giustizia e verrà riconosciuto che persona era David. Lo hanno fatto passare da tutto. E qualora si fosse voluto togliere la vita, come dice sua mamma Vittoria, non lo avrebbe fatto certo in banca».

Però agli atti ci sono prove che suo marito aveva segni sui polsi. Sembrano inconfutabili segni di autolesionismo, non crede? «David era pieno di segni. Al tempo ci disse che erano gesti di rabbia, che se li era procurati perché sotto pressione».

Ogni quanto lo va a trovare? Che fiore gli porta? «Mai. Non sono mai andata al cimitero e non ci andrò mai. Perché fa troppo male (si commuove, ndr) e perché so che David sosteneva che quando si muore si va in cielo».

Leggi anche

Simulata la morte di David Rossi, sulle telefonate una perizia del Ros David Rossi e il mistero dell’ultima telefonata Morte di David Rossi, spuntano 61 foto e due video Inquinate le prove, la procura di Genova apre una nuova inchiesta Santanché: «Gli telefonai e qualcuno rispose, ma lui era già morto»

Perché qualcuno avrebbe dovuto uccidere suo marito? «È la domanda su cui lavoriamo da nove anni. E a cui purtroppo non c’è ancora risposta».

C’è stato anche il fronte di questi ipotetici festini con sesso e droga. Crede che vi avesse partecipato anche David o che qualcuno avesse avuto paura che ne rivelasse l’esistenza e i nomi dei partecipanti? «La seconda ipotesi, non c’è dubbio. Temo che David custodisse informazioni molto sensibili, specie per il ruolo nevralgico che ricopriva in una città come Siena».

Anche lei è finita sotto inchiesta della Procura. I pm avevano ipotizzato che lei avesse dato a un giornalista la mail inviata a Viola con la minaccia di suicidio, al fine di chiedere un cospicuo risarcimento. «Non ho mai chiesto niente. Mi sono anche fatta due anni di processo, con il giudice che mi ha assolto con formula piena. Anche questo ho dovuto sopportare».

David Rossi, "sesso e festini? Credo di sì". Ma no solo: i segreti inconfessabili, confessione-bomba della vedova. Libero Quotidiano il 22 dicembre 2021. Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi, ha rilasciato un’intervista alla Stampa in cui ha ribadito di credere che dietro tutta questa vicenda possano esserci anche sesso e affari sporchi. “Probabilmente tutto - ha dichiarato - non lo so e non escludo nulla. Ma se la pista è quella, David può essere morto perché custodiva segreti inconfessabili. Se credo ai festini? Sì”. Già quattro anni fa della questione se ne è parlato molto, dato che Anna Ascani, compagna del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, scrisse alle Iene chiedendo di indagare sui festini in cui l’ex manager di Mps sarebbe stato coinvolto in prima persona: “Indagate sul compagno con cui andava in villa. Siena è piena di misteri, di uomini che amano uomini e di donne che fanno finta di essere mogli”. Tra l’altro inizialmente anche la compagna di Rossi credeva che si fosse trattato di suicidio: “Così me l’avevano presentato i pm. Mi fidavo. Ma ho cominciato a dubitare quando ho letto i messaggi che mi aveva scritto David”. Il perché è presto spiegato: “Ci sono tre parole precise che noi due regolarmente menzionavamo scherzando. La prima è il mio soprannome Toni: a me piaceva, a lui no. L’altra ‘amore’: non me l’ha mai detta, nemmeno una volta perché non era nei suoi modi e io me ne lamentavo. Infine ‘scusa’: David non chiedeva mai scusa, anche quando faceva capire di aver sbagliato”.

David Rossi, "nella stessa via dove fu uccisa la prostituta": la testimonianza non verbalizzata, una svolta sconvolgente. Libero Quotidiano il 17 dicembre 2021. Troppi ancora i punti oscuri sulla morte di David Rossi. Tra questi una strana anomalia riscontrata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta, che ha scoperto un racconto non verbalizzato da parte di una testimone. La donna si presentò in questura, ma le sue parole non vennero trascritte: "Era sconvolto, lo incrociai in via Vallerozzi", ha detto la signora parlando della stessa via in cui, pochi giorni prima, era stata uccisa una prostituta. Un delitto - sono le ipotesi del reo confesso dell'omicidio- che potrebbe avere collegamenti con la morte del capo comunicazione del Monte dei Paschi di Siena. Una scoperta che potrebbe finalmente portare a una svolta e che ha spinto la famiglia a chiedere la riapertura di un'indagine per omicidio. "Chi sa qualcosa - ha detto ieri giovedì 16 dicembre Carolina Orlandi, figlia di David - parli adesso. Non siamo interessati a indagini pro-forma, scollegate dall'accertamento delle cause sulla sua morte". Indagini, quelle sul decesso di Rossi, irte di ostacoli. Ad ammetterlo anche il deputato Walter Rizzetto. La settimana scorsa, l'audizione dell'ex comandante dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, mai comparso in nessun verbale, che ha ammesso di aver partecipato al primo sopralluogo nello studio di Rossi, la notte del 6 marzo 2013, insieme ai pm Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi. L'ufficiale ha descritto alcune azioni dei pm che potrebbero aver inquinato la scena del crimine, ma Nastasi ha già smentito. Ma i misteri sono diversi. Tra questi l'assenza dal fascicolo di due video e 61 foto scattate dalla polizia scientifica, che sono state poi acquisite dalla commissione parlamentare. Per questo e tante altre ragioni, la famiglia dell'ex capo comunicazione ha intenzione di andare fino in fondo alla vicenda, convinta che David non aveva alcuna intenzione di suicidarsi. 

David Rossi morto, ecco le foto otto anni dopo: l'agghiacciante dossier della polizia (mai arrivato in procura). Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 18 dicembre 2021. Cosa c'è che non può essere visto all'interno del fascicolo fotografico realizzato dall'assistente della polizia di Siena, Federica Romano? Il giallo sulla morte di Davide Rossi ogni giorno che passa si arricchisce di qualche colpo di scena. L'ultimo in ordine di tempo riguarda proprio il dossier effettuato dalla polizia scientifica della città toscana, intervenuta per effettuare i rilievi la sera del 6 dicembre 2013. Di quel fascicolo, composto da oltre 120 voto e due video, si erano perse le tracce. Agli atti della Procura di Siena, infatti, non risultava mai essere stato depositato. Lo ha scoperto invece la Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta da Pierantonio Zanettin (FI), che sta indagando da cinque mesi sulla morte dell'ex responsabile della comunicazione di banca Monte dei Paschi. Interrogando nelle scorse settimane i vari poliziotti, fra cui Romano, che avevano proceduto ai rilievi nell'ufficio di Rossi, i commissari sono venuti a conoscenza che erano state effettuate queste foto e i due video di diversi minuti. Tutto materiale rimasto per otto lunghi anni nei polverosi archivi della Questura di Siena. Come mai non venne consegnato alla Procura? E come mai in questi anni, pur a fronte del clamore mediatico sollevato dalla vicenda, nessuno ne ha rivendicato l'esistenza? Un mistero. Ma un altro mistero è la modalità con cui la Questura di Siena l'altro giorno, su richiesta della Commissione, ha trasmesso il fascicolo fotografico: con il vincolo del segreto. Le foto ed i video, in pratica, possono essere visti solo dai commissari. Una modalità d'inoltro alquanto sorprendente, dal momento che le indagini sulla morte di Rossi sono state chiuse da anni e il segreto investigativo è finito da un pezzo. Perché, allora, imporre il segreto su delle foto che erano in archivio da marzo del 2013 e riguardano un evento che è stato archiviato come suicidio? I commissari, a microfoni spenti, hanno fatto sapere che in quelle foto c'è la chiave per capire cosa sia successo la sera che Rossi precipitò dalla finestra del suo ufficio. Sarebbe clamoroso se la Questura, avendo la soluzione del giallo, abbia tenuto tutto in archivio per anni. Si voleva proteggere qualcuno d'importante? La Commissione d'inchiesta ha comunque deciso ieri di trasmettere, ovviamente con il segreto, queste foto al Consiglio superiore della magistratura e alla Procura generale della Cassazione. Un indizio importante. Essendo uffici che non svolgono attività investigative ma che si interessano dell'operato dei magistrati, il sospetto è che ci siano di mezzo i tre pm che erano intervenuti prima della polizia scientifica, Aldo Natalini, Antonino Nastasi e Nicola Marini. E continua a far discutere il ruolo avuto quella sera dal colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco. L'ex comandante provinciale di Siena, pur essendo entrato per primo insieme ai tre pm nell'ufficio di Rossi, non compare in nessun verbale. Anche in questo caso, come mai? Il colonnello non fece una relazione di servizio su quanto effettuato quella sera. Aglieco ha dichiarato che era libero dal servizio e stava andando a comprare un pacchetto di sigarette quando vide una Volante della polizia che accorreva proprio nel vicolo di Monte Pio dove era riverso al suolo il corpo di Rossi. Aglieco ha dichiarato di aver effettuato numerose telefonate, al personale dipendente, al questore al prefetto della città, per informarli di quanto era accaduto. È possibile che non esista alcuna traccia di tutte queste attività? E chi ha firmato la segnalazione alla scala gerarchica? In attesa che si faccia luce su questi misteri, ieri mattina si è tenuta una conferenza stampa dei familiari di Rossi. «Chiediamo verità e giustizia: non siamo visionari. Chiunque abbia immagini o informazioni, ci contatti», l'appello di Carolina Orlandi, figlia della moglie di Rossi. Che ha concluso: «Vengano riaperte delle indagini per omicidio».

Da liberoquotidiano.it il 16 dicembre 2021. Filmati e video scattati dalla polizia scientifica nello studio di David Rossi, tutti spariti. Massimo Giletti sgancia la bomba a Non è l'arena sul caso del responsabile comunicazione di Mps "suicidatosi" (il condizionale è d'obbligo) nel 2013 in circostanze mai del tutto chiarite, gettandosi dalla finestra del proprio studio a Siena. Anzi, nuovi sviluppi mettono ora nel mirino le leggerezze dei pm di Siena intervenuti sul luogo del delitto, a botta caldissima. Giletti manda in onda la scena: "La giacca è sistemata, mentre nella prima parte del filmato non era messa così. La finestra è chiusa, prima era aperta. E guardate nella parte bassa, ci sono tutti dei reperti probabilmente buttati fuori da quel cestino". "Dovevano già stare nella catena di custodia - incalza Antonino Monteleone, giornalista che con le Iene ha contribuito a tenere alta l'attenzione sul caso -. Dovevano essere già stati isolati e spediti per le analisi". "Io devo però aggiungere un fatto nuovo che aggraverà questa storia - sottolinea Giletti -. Una persona a me vicina mi ha chiamato e mi ha detto: nel fascicolo dei magistrati la polizia aveva portato altre 61 fotografie e altri 2 filmati, di cui non c'è più traccia. Quello che sto dicendo è di una gravità inaudita, la persona che me lo ha detto ha la certezza matematica e me ne assumo la responsabilità. Perché quelle foto e quei video sono sparite dai fascicoli? Vi risulta?". "Assolutamente no", scuote il capo attonita Caterina Orlandi, figlia di Rossi da sempre in prima linea per scoprire la verità. "Chi è a casa deve ricordare che questa cosa succede due giorni dopo che Rossi dice: 'Voglio andare a parlare con i magistrati, perché ho paura che mi abbiano inquadrato molto male. Io conosco molto bene la città, ho lavorato per la banca, per la fondazione e per il comune e posso offrire una prospettiva'. Poi succede tutto questo", sottolinea Monteleone. Quindi Giletti manda in onda un audio originale di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia molto vicino a Mussari, ex presidente Mps: "Se riaprono  le indagini su David Rossi succederà un casino grosso, non si è suicidato, è stato ucciso".

Non è l'arena, David Rossi "ucciso, non suicidato". Giletti e l'audio rubato: chi parla, una pista clamorosa. Libero Quotidiano il 16 dicembre 2021. Filmati e video scattati dalla polizia scientifica nello studio di David Rossi, tutti spariti. Massimo Giletti sgancia la bomba a Non è l'arena sul caso del responsabile comunicazione di Mps "suicidatosi" (il condizionale è d'obbligo) nel 2013 in circostanze mai del tutto chiarite, gettandosi dalla finestra del proprio studio a Siena. Anzi, nuovi sviluppi mettono ora nel mirino le leggerezze dei pm di Siena intervenuti sul luogo del delitto, a botta caldissima. Giletti manda in onda la scena: "La giacca è sistemata, mentre nella prima parte del filmato non era messa così. La finestra è chiusa, prima era aperta. E guardate nella parte bassa, ci sono tutti dei reperti probabilmente buttati fuori da quel cestino". "Dovevano già stare nella catena di custodia - incalza Antonino Monteleone, giornalista che con le Iene ha contribuito a tenere alta l'attenzione sul caso -. Dovevano essere già stati isolati e spediti per le analisi". "Io devo però aggiungere un fatto nuovo che aggraverà questa storia - sottolinea Giletti -. Una persona a me vicina mi ha chiamato e mi ha detto: nel fascicolo dei magistrati la polizia aveva portato altre 61 fotografie e altri 2 filmati, di cui non c'è più traccia. Quello che sto dicendo è di una gravità inaudita, la persona che me lo ha detto ha la certezza matematica e me ne assumo la responsabilità. Perché quelle foto e quei video sono sparite dai fascicoli? Vi risulta?". "Assolutamente no", scuote il capo attonita Caterina Orlandi, figlia di Rossi da sempre in prima linea per scoprire la verità. "Chi è a casa deve ricordare che questa cosa succede due giorni dopo che Rossi dice: 'Voglio andare a parlare con i magistrati, perché ho paura che mi abbiano inquadrato molto male. Io conosco molto bene la città, ho lavorat per la banca, per la fondazione e per il comune e posso offrire una prospettiva'. Poi succede tutto questo", sottolinea Monteleone. Quindi Giletti manda in onda un audio originale di Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia molto vicino a Mussari, ex presidente Mps: "Se riaprono le indagini su David Rossi succederà un casino grosso, non si è suicidato, è stato ucciso".

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 19 giugno 2021. Il colonnello Pasquale Aglieco si sarebbe inventato tutto la scorsa settimana davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta dall'onorevole Pierantonio Zanettin (FI), sulla morte di Davide Rossi. I pm di Siena, che verranno sentiti nelle prossime settimane a Palazzo San Macuto, hanno deciso in queste ore di passare al contrattacco, smentendo quanto affermato nei loro confronti dall'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena. È falso, ad esempio, che avrebbero risposto a Daniela Santanché che chiamava Rossi sul cellulare non sapendo che fosse deceduto, ed è falso che rovesciarono il contenuto del cestino dei rifiuti sulla scrivania del manager. Inattesa, dunque, di ascoltare cosa diranno i tre magistrati, Aldo Natalini, Antonino Nastasi e Nicola Marini, presenti la sera del 6 marzo 2013 nell'ufficio dell'allora capo della comunicazione di Banca Monte dei Paschi, c'è un'altra notizia, anche questa clamorosa, che rischia di creare ulteriore confusione. Aglieco, hanno infatti scoperto i commissari, non era da solo quella sera. Ad accompagnarlo nell'ufficio di Rossi, prima dell'arrivo della polizia scientifica, ci sarebbero stati ben quattro ufficiali dell'Arma: i colonnelli Giuseppe Manichino e Rosario Mortillaro, l'allora capitano Edoardo Cetola, il luogotenente Marcello Cardiello. Come per Aglieco, però, i nomi di costoro non erano mai comparsi in alcun verbale. Una circostanza che ha subito insospettito la Commissione. «Da avvocato garantista (Zanettin, ex componente del Csm, è titolare di uno studio legale fra i più importanti di Vicenza, ndr) ritengo opportuno dare la possibilità a chiunque è chiamato in causa di dire la sua», afferma il presidente della Commissione annunciando che i quattro carabinieri saranno sentiti il prossimo 22 dicembre. Troppe persone sono entrate quella sera nell'ufficio di Rossi senza un giustificato motivo e, soprattutto, senza lasciare traccia del loro passaggio. Presenze che avrebbero inquinato irreparabilmente la scena del delitto. 

LA COMMISSIONE

L'attivismo della Commissione, comunque, sta facendo storcere il naso a molti. «Non è la Commissione che dubita del suicidio: a dubitare del suicidio è stata la Camera che ha deliberato all'unanimità l'istituzione di una Commissione d'inchiesta», afferma Zanettin, rispondendo indirettamente a chi negli ultimi giorni ironizzava sul fatto che la Commissione sta dubitando del suicidio a fronte delle archiviazione della magistratura.  «Io non ho ancora una idea chiara se si sia trattato di suicidio o di un omicidio. Non a caso abbiamo chiesto ai Ris dei carabinieri di valutare sia l'ipotesi del suicidio che quella della defenestrazione. Aspettiamo con interesse i risultati delle loro investigazioni», aggiunge Zanettin. Martedì prossimo a Siena verrà effettuata per la prima volta una super perizia con delle prove di caduta tramite un manichino antropomorfo. La Commissione, che sarà presente sul posto, ha anche acquistato tre orologi del modello che Rossi portava quella sera. Fra i tanti misteri, il lato della cassa che ha attutito il colpo al suolo è l'opposto di quello che avrebbe impattato se fosse stato al polso dell'uomo, come se l'orologio fosse stato gettato nel vicolo in secondo momento. I Ris procederanno anche ad un test di trazione della sbarra a cui sarebbe rimasto appeso Rossi prima di cadere. Rossi cadde in verticale, con la faccia rivolta verso il palazzo. Sul suo corpo vennero però trovati segni non compatibili con la caduta: due ferite, una sul labbro superiore e una sul naso, e una contusione all'inguine. Fino ad oggi si è sempre pensato che Rossi, dopo essere rimasto appeso a questa sbarra, abbia poi sfregato contro il palazzo. E c'è da capire, infine, perché la Questura di Siena non abbia mai deposito agli atti del fascicolo in Procura le decine di foto, oltre ai video, che furono scattate durante il sopralluogo. Era stata l'assistente di polizia Federica Romano a rivelare alla Commissione l'esistenza negli archivi della Questura di questo materiale

Morte David Rossi, Quarta Repubblica: "Nuovi e inquietanti dettagli". Il servizio sulle rivelazioni del colonnello Aglieco.  Da corrieredisiena.corr.it. il 14 dicembre 2021. "Emergono nuovi e inquietanti dettagli su come si sono mossi gli inquirenti nelle ore successive alla morte di David Rossi". Del caso che da otto anni scuote la città di Siena, si è tornata ad occupare anche Quarta Repubblica, la trasmissione di Rete 4 condotta da Nicola Porro. Ampio spazio alle novità sulla morte dell'ex responsabile della comunicazione di Banca Monte dei Paschi di Siena, che perse la vita precipitando dalla finestra del suo ufficio. Un caso archiviato come suicidio ma che continua a sollevare dubbi su dubbi. Durante la trasmissione si è parlato a lungo delle verità che stanno emergendo a seguito del lavoro della Commissione parlamentare d'inchiesta, in particolare da quelle rivelate dall'audizione di Pasquale Aglieco, colonnello dei carabinieri, allora responsabile dell'Arma nella provincia di Siena. 

Aglieco non solo ha raccontato che era presente nell'ufficio di David Rossi durante la prima perlustrazione degli inquirenti, ma anche cosa è avvenuto e i particolari di cui fino ad ora nessuno era a conoscenza, se non coloro che quella sera erano all'interno della stanza. Nel servizio mandato in onda durante Quarta Repubblica è stata ricostruita la drammatica notte della morte di David Rossi, poi i riflettori sono stati puntati proprio sui nuovi dettagli, definiti "inquietanti".  

Morte David Rossi, Borghi (Lega): "Superficialità a tutti i livelli nelle indagini. Come se ci fosse fretta di chiudere"

"A svelare i nuovi particolari - ha spiegato il servizio di Alessandro Gilardino - in cinque ore di deposizione spontanea davanti alla Commissione, è stato il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco". Quarta Repubblica ha ribadito che Aglieco non è stato mai ascoltato dai pm, che è stato tra i primi ad arrivare davanti al corpo senza vita di Rossi e a identificarlo. "Aglieco ha raccontato di essere entrato nella stanza di Rossi insieme a ben tre pm: Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonio Nastasi. E che proprio Nastasi si sarebbe seduto sulla sedia di Rossi e avrebbe acceso il computer, muovendo il mouse con una penna. Poi Aglieco sostiene che uno dei tre pm avrebbe preso il cestino della carta straccia per svuotarlo sulla scrivania. C'erano dei fazzolettini sporchi di sangue e dei bigliettini. Pratiche, stando alla versione di Aglieco, quantomeno inconsuete e inopportune che determinerebbero una evidente contaminazione della scena del crimine. E non basta - continua il servizio di Gilardino - perché Aglieco racconta anche che mentre si trovava nella stanza con i tre pm, il telefono di David Rossi è squillato un paio di volte". Nel servizio è stata mandata in onda la voce di Pasquale Aglieco nel momento in cui ha raccontato della telefonata della parlamentare Daniela Santanchè, a cui rispose proprio Nastasi. 

Il caso del dirigente Mps. David Rossi, parla la moglie Antonella Tognazzi: “Custodiva segreti, non si è suicidato”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. David Rossi potrà riposare in pace “quando gli verrà resa giustizia e verrà riconosciuto che persona era David. Lo hanno fatto passare da tutto. E qualora si fosse voluto togliere la vita, come dice sua mamma Vittoria, non lo avrebbe fatto certo in banca”. Lo ha detto in un’intervista in esclusiva a Il Corriere della Sera Antonella Tognazzi, moglie del capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena che la sera del 6 marzo 2013 precipitò dal terzo piano della sede di Rocca Salimbeni, dov’era il suo ufficio. Il caso, dopo due inchieste, è stato archiviato come suicidio ma nuovi elementi emersi negli anni hanno riportato il caso davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta.

Il primo invito a cena, l’inizio della relazione, lo sport e il tempo libero di Rossi. La donna racconta anche il lato umano, non professionale, slegato dalla tragedia del marito nell’intervista. Tognazzi e la figlia Carolina Orlandi non credono alla tesi del suicidio. All’inizio Tognazzi, “travolta da un dramma”, si era affidata alla ricostruzione dei magistrati, alla tesi del suicidio. Quindi i dubbi: una lettera che non la convinse, le e-mail, il video della caduta dalla finestra.

La donna si dice sconvolta dalle dichiarazioni del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco: “Ha di fatto rivelato che l’ufficio di David, scena di un possibile crimine, sarebbe stato inquinato dai pm, maneggiando varie cose prima dell’intervento della Scientifica. E uno di loro, Nastasi, avrebbe addirittura risposto al telefono di mio marito, su cui stava chiamando l’onorevole Daniela Santanché. Perché Aglieco avrebbe dovuto dire queste cose? Era evidente che si stesse tirando addosso un problema”. Sul giallo della telefonata di Santanché – secondo gli atti depositati nelle due inchieste, senza risposta – sono al lavoro i carabinieri del Ros incaricati dalla Commissione di una perizia. Santanché ricorda che qualcuno rispose ma senza pronunciare parola, quando ormai Rossi era già morto. Il dirigente aveva segni sui polsi. Tognazzi dice che se li procurava per rabbia, in quei giorni di grande tensione alla Mps – era l’epoca dell’inchiesta sul crac della banca condotta dai pm Marini, Natalini e Nastasi. Non è mai andata a trovare il marito in cimitero “e non ci andrò mai. Perché fa troppo male”. Non sa perché qualcuno avrebbe eventualmente voluto uccidere il marito. Forse, ipotizza, sapeva troppo, anche a proposito di alcuni ipotetici festini con sesso e droga. “Temo che David custodisse informazioni molto sensibili, specie per il ruolo nevralgico che ricopriva in una città come Siena”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Versioni che non coincidono. Morte David Rossi, il mistero dell’ultima telefonata: nei tabulati non ci sono tracce della chiamata della Santanchè. Redazione su Il Riformista il  20 Dicembre 2021. I misteri nell’inchiesta sulla morte di David Rossi, l’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena trovato senza vita il 6 marzo del 2013 dopo esser volato dalla finestra al terzo piano di Palazzo Salimbeni, sono sempre più fitti. Come rivelato dai tabulati e dall’esame del cellulare di Rossi depositati agli atti delle due inchieste archiviate dalla Procura di Siena, non vi sono tracce della presunta ultima telefonata ricevuta da Rossi. Nessuno infatti avrebbe risposto al suo telefono durante il sopralluogo effettuato nel suo ufficio subito dopo la sua morte. A rivelarlo oggi è il Corriere della Sera: una versione che dunque è in netto contrasto con quanto riferito durante l’audizione in commissione parlamentare d’inchiesta dal colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, all’epoca dei fatti comandante provinciale dei carabinieri di Siena.

Le telefonate in questione sarebbero due: una da parte di un giornalista e l’altra di Daniela Santanché, senatrice che in realtà nel 2017 durante una trasmissione tv aveva spiegato di non aver ricevuto risposta, mentre dopo l’audizione di Aglieco ha poi cambiato versione precisando che qualcuno rispose dal telefono, ma senza pronunciare mai parola.

In base ai tabulati presenti nelle carte dell’inchiesta archiviata, l’ultima telefonata registrata sul telefono dell’allora capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena la sera della sua morte fu quella della moglie, otto secondi di conversazione alle 19:02.

Da quel momento lo smartphone di Rossi, un iPhone 5, registrerà solo chiamate perse, compresa quella di Daniela Santanché. Il manager di Mps si schianterà al suolo, ripreso da una telecamera di sorveglianza, alle 19:43 di quel 6 marzo 2013.

LA DIFESA DEI PM – Una ricostruzione dei fatti, quella fornita in commissione parlamentare d’inchiesta dal colonnello Aglieco, che i tre pm intendono ‘rovesciare’. Nastasi, Marini e Natalini, che saranno ascoltati tra gennaio e febbraio, in primo luogo intendono dimostrare che Aglieco non fosse presente nella stanza di David Rossi alle 21:59, quando Daniela Santanchè chiamò il suo amico dirigente di Mps.

Il colonnello, all’epoca dei fatti comandante provinciale dei carabinieri di Siena, per i pm fiorentini già andato via e quindi non avrebbe potuto ascoltare la presunta risposta all’iPhone di Rossi da parte di Antonio Nastasi.

Magistrati che intendono negare anche l’altra ‘accusa’ arrivata da Aglieco in sede di commissione parlamentare, ovvero di aver rovesciato sul tavolo di Rossi il cestino con i fazzoletti sporchi di sangue, per poi rimetterlo al suo posto. Sarebbe stato uno dei carabinieri a indicare i foglietti stracciati con quelle frasi che sarebbero state scritte da Rossi, ’Ciao Toni, mi dispiace, l’ultima cazzata che ho fatto è troppo grossa…’, e sarebbero rivolte alla moglie Antonella. Poi qualcuno li avrebbe stesi sulla scrivania, ma nessuno dei tre pm presenti sulla scena.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per "la Verità" il 21 dicembre 2021. Per l'inchiesta sulla morte di David Rossi, avvenuta il 6 marzo 2013, oggi è un giorno cruciale. Infatti su incarico della commissione parlamentare d'inchiesta i carabinieri del Ris realizzeranno, con un manichino, una simulazione della caduta dell'ex manager del Monte dei Paschi di Siena per scoprire con le tecnologie più avanzate (migliorate rispetto a quelle di 8 anni fa) se sia possibile che David sia morto gettandosi all'indietro dalla finestra dopo aver penzolato appeso a una sbarra ed essersi ferito il viso raschiandolo contro la parete del palazzo della banca, rovinandosi vestiti e scarpe. «Devo essere sincero: non mi convince la ricostruzione che hanno fatto i pm» avverte Pierantonio Zanettin, presidente della commissione e parlamentare di Forza Italia. Ora i Ris dovranno dire se i dubbi del deputato siano giustificati. Proveranno a capire se quello che sembra il lancio dell'orologio di Rossi dalla finestra, dopo che il corpo era già agonizzante al suolo, non sia stato piuttosto un gioco di luci, come ha ipotizzato qualcuno. L'analisi delle chiamate arrivate e partite dai telefoni di David è stata affidata ai carabinieri del Ros, specialisti nel settore. La parte di verifica delle copie forensi dei supporti informatici è stata delegata al Racis dell'Arma di Roma. L'ufficio di presidenza della commissione ha anche ordinato una nuova perizia medico legale collegiale, affidata a luminari di Roma, Palermo e Torino. «È un momento dirimente. Decisive non saranno le vecchie carte o i chiacchiericci senesi, ma le perizie che abbiamo chiesto» gongola Zanettin. Nuove indaginiL'inchiesta sul presunto suicidio, dopo tre indagini di due diverse Procure, Siena e Genova, la prima decisamente lacunosa, le altre due molto più approfondite, riparte quasi da zero. Il presidente Zanettin sta dirigendo il traffico con prudenza e attende i risultati degli specialisti dei carabinieri entro 3-6 mesi. «Se la legislatura dura ci prenderemo tutto il tempo necessario. Dovessero sciogliere le Camere, qualche ipotesi dovremo metterla in cantiere» spiega il presidente alla Verità. Anche perché l'inchiesta sta facendo rumore e dopo che l'ex comandante provinciale dei carabinieri Pasquale Aglieco, in commissione, ha accusato i pm Aldo Natalini, Antonino Nastasi e Nicola Marini di aver compromesso la presunta scena del crimine sono già trapelate indiscrezioni sull'apertura di un nuovo fascicolo a Genova sui presunti pasticci commessi dagli inquirenti durante il primo sopralluogo nell'ufficio di Rossi. A quell'intervento parteciparono oltre al magistrato di turno (Marini), anche due dei tre titolari del fascicolo sul crac di Mps (Natalini e Nastasi). Secondo le agenzie sarebbe stato aperto un procedimento modello 45, senza ipotesi di reato e indagati, ma i giornali hanno anche ipotizzato indagini per falso, favoreggiamento e omissione d'atti d'ufficio. «Correte troppo», dicono dalla Procura. 

LE ACCUSE

Nel frattempo il caso, a livello mediatico, è diventato un circo dove vale tutto. In commissione sono state citate anche le dichiarazioni del legale Nicola Mini, per otto anni presidente dell'Ordine degli avvocati di Siena, per sei vice, per altri sei tesoriere. Nel 2013 ha assistito il pm Natalini, all'epoca titolare, con il collega Marini, del fascicolo sulla morte di Rossi, quando venne interrogato dai magistrati di Viterbo per rivelazione di segreto (nell'ambito di un altro procedimento). Natalini, a Genova, è stato collocato da un sedicente escort, Matteo Bonaccorsi, sulla scena di presunti festini a base di sesso e droga. L'interrogatorio a cui partecipò Mini, dicono le carte, avvenne il 28 giugno 2013. Fu molto tribolato: vennero affrontati argomenti scabrosi, come ci ha riferito Mini: «Non ho letto le intercettazioni integrali, ma ho visto la trascrizione in mano al dottor Natalini. Riguardo ai rapporti omosessuali che ho citato nel verbale (a Genova, ndr) ho tratto questo ricordo dal poco che ho letto e da quello che diceva Siddi (Massimiliano, il pm viterbese che aveva indagato Natalini, ndr) che diceva: "Ti rendi conto? Anche questo, ti rendi conto? Natalini si è messo a piangere sulla mia spalla in conseguenza dell'intera situazione». Ma poi Mini ha aggiunto: «Un altro argomento interessante, qui lo dico e qui lo nego, è: quando è stato sentito Natalini? Io so bene quando è avvenuto l'interrogatorio e non è avvenuto quando risulta dagli atti. Sembrerebbe sentito il 28 giugno, sembrerebbe io quel giorno ero in contrada in cucina con il mio gruppo perché il 29 è la "festa titolare" della Chiocciola, la mia contrada e il mio gruppo sta in cucina il giorno prima e quindi non potevo essere lì (in Procura, ndr)». Lei non ha segnato da qualche parte quando è si è recato negli uffici giudiziari? «Non si rende conto. In quei giorni non lasciavo traccia di nulla». Non ha un cellulare da cui risulti qualcosa? «Nulla, risalire a 8 anni fa è impossibile». E perché sarebbero state modificate le date? «Perché mi risulta che nel frattempo succeda qualcosa l'interrogatorio è avvenuto ai primi di giugno». E che cosa è successo tra l'interrogatorio e il 28 giugno? «Guardi gli atti cerchi ancora». Che cosa? «L'archiviazione (del fascicolo aperto per il suicidio, ndr)...». Richiesta da Natalini? «Eh certo». Sarebbe stato meglio richiederla da non indagato? «Ma va'?». In realtà l'istanza di archiviazione, rivelano gli atti, risale al 2 agosto 2013 e non al giugno e il decreto che ha ordinato la controversa e contestata distruzione dei fazzoletti intrisi di sangue trovati nel cestino dell'ufficio di Rossi è del 14 agosto. Mini si riferiva a qualche altro atto? Non lo sappiamo. Dalla Procura di Viterbo respingono con forza la ricostruzione dell'avvocato. Il procuratore Paolo Auriemma parla anche di possibili querele e assicura che i fogli di servizio dei poliziotti che si sono recati con il pm Siddi a Siena il 28 giugno 2013 hanno tutti la data giusta. È l'ennesima notizia che crea confusione in quadro già compromesso?

FESTINI GAY

Sulla vicenda dei festini gay, da cui è partita la nuova inchiesta, non è ancora stata fatta chiarezza. La prima a occuparsene è stata la Procura di Genova, per indagare sull'accusa, lanciata in un'intervista alle Iene dall'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini, di una vicenda «abbuiata» dai magistrati senesi a causa del loro coinvolgimento in presunti festini gay, che si sarebbero tenuti in una villa tra Siena e Arezzo. Ipotesi rilanciata da un ulteriore servizio della trasmissione, nella quale Bonaccorsi ha raccontato di aver partecipato a dei festini in un relais, situato vicino a Siena. E ha citato come partecipanti, tra gli altri, oltre a Natalini, anche Marini e il colonnello Aglieco. Il procuratore aggiunto di Genova, Vittorio Ranieri Miniati, titolare del fascicolo (archiviato) sui festini, ha, però, detto alla commissione d'inchiesta che Bonaccorsi «sostanzialmente non ha potuto o non ha voluto fornirci alcun riscontro», aggiungendo che «in realtà le dichiarazioni di Bonaccorsi non trovano riscontri esterni». Di tutt' altro avviso la Gip Franca Borzone che ha archiviato il caso, la quale ha parlato di «un primo vaglio positivo di attendibilità su tali dichiarazioni, sebbene esse possano valere [] solo a fini di responsabilità disciplinare». E il fascicolo è stato spedito al Csm, dove non si sa che fine abbia fatto.Probabilmente il quadro è più complesso e intorno a questi party girano storie inquietanti. Si parla di ricatti e anche di morti ammazzati. Una gola profonda che conferma i festini è William Villanova Correa, un ex gigolò condannato per l'omicidio di una prostituta avvenuto proprio a Siena. Per l'uomo Rossi sarebbe stato ucciso «da un uomo albanese che vive a Milano insieme a due complici». Miniati ricorda, però, che occorre «anche tenere presente che Marini è il pm che fa l'indagine sull'omicidio e che lo cattura. Detto questo, sugli apparati elettronici in uso a Vilanova Correa non vi è alcuna traccia di materiale che possa far risalire ai festini. Il riscontro c'è, ma è negativo e contrario». Conclude Zanettin: «I festini? Ma ci saranno un po' dappertutto. Siamo fermi lì, anche se non trascuriamo questa pista Magari Bonaccorsi vi avrà partecipato, probabilmente è così, ma che possano avere condizionato l'inchiesta questa è un'altra questione».

LE FOTO MANCANTI

Torniamo ai presunti errori nelle indagini. La principale accusa mossa ai magistrati senesi dai sostenitori dell'ipotesi dell'omicidio è quella dell'alterazione della presunta scena del crimine. Per esempio tirando fuori dal cestino della spazzatura i tre biglietti con cui Rossi avrebbe detto addio alla moglie, Antonella Tognazzi. Nella relazione tecnica della Polizia scientifica di Siena, redatta il 21 marzo 2013 dall'assistente Federica Romano, la questione dei bigliettini è formalizzata e finisce quindi agli atti: «Durante il sopralluogo i pm intervenuti hanno mostrato, per documentarle, tre lettere lasciate probabilmente dal signor Rossi e rinvenute nel cestino della spazzatura dell'ufficio da loro stessi quando hanno effettuata una prima ispezione». Sono stati quei biglietti a dare il via alla superficialità degli accertamenti, generando la convinzione di essere certamente davanti a un suicidio? La domanda è ancora senza risposta, ma quello che sappiamo è che la notizia del loro ritrovamento ha iniziato a circolare sulle testate online già intorno alle 22 del 6 marzo, mentre nella stanza c'erano i tre magistrati e forse anche alcuni carabinieri. Chi si è affrettato a passare l'informazione ai media lo ha fatto per sciatteria o per rendere inoppugnabile la versione del suicidio? Nella relazione scritta dalla Romano non c'è traccia di rilevamento di impronte digitali. Una scelta che, se confermata, annullerebbe l'effetto degli errori dei pm che, tra le altre cose, avrebbero anche chiuso, probabilmente senza guanti, la finestra da cui si sarebbe buttato Rossi. Quando in commissione hanno chiesto alla Romano se sia normale non fare rilievi dattiloscopici, la seduta è stata segretata. Nella relazione agli atti la poliziotta spiega che per «documentare lo stato dei luoghi e dei fatti sono stati eseguiti [] 60 rilievi fotografici corredati dalle rispettive didascalie». In commissione la Romano ha parlato anche di due video, non citati nella relazione, che dopo l'audizione sono stati trasmessi dalla Polizia scientifica della città del Palio a Palazzo San Macuto. I filmati sarebbero stati trasmessi con altre 61 fotografie che, secondo indiscrezioni, sarebbero inedite. A ridimensionare la portata di questa scoperta è lo stesso Zanettin: «Si tratta di foto ulteriori, ma non alternative alle altre. La Scientifica aveva fatto un servizio più ampio e ne aveva messe dentro una parte. Io non faccio parte dei complottisti. I poliziotti hanno fatto tante foto e hanno mandato in Procura quelle che ritenevano più significative». Nell'unico atto ufficiale redatto la sera della morte di Rossi, l'annotazione di servizio del sovrintendente Livio Marini, una sintesi di sole due pagine, l'arrivo dei magistrati viene raccontato così: «Poco dopo giungevano sul posto i sostituti Marini, Natalini e Nastasi. Dopo un primo sopralluogo finalizzato a rinvenire tracce utili per la spiegazione del gesto suicida l'ufficio del Rossi su delega verbale del dottor Marini veniva sottoposto a sequestro. chiuso a chiave e sigillato». Il poliziotto ha realizzato anche un video che permette di notare, se confrontato con le foto della Scientifica scattate tre ore dopo, le manomissioni che sarebbero state operate dai pm. Oltre a quello dei magistrati, il sovrintendente non indica nessun'altra presenza (nemmeno durante la parte pubblica della sua audizione a San Macuto), anche se un collega intervenuto sul posto insieme con lui, Federico Gigli, alla commissione ha fornito una versione più articolata: «Da lì a poco si sono presentati tre sostituti [] insieme a diversi ufficiali dei carabinieri. Alla nostra vista, il dottor Marini ci ha detto di aprire la porta».

LA TELEFONATA CONTESTATA

Presunto testimone delle manomissioni della stanza di Rossi si è autoproclamato, durante la sua audizione presso la commissione, proprio il colonnello Aglieco, nel 2013 comandante provinciale dei carabinieri di Siena. Per Zanettin, una fonte credibile: «È un'autorità ed è un personaggio super qualificato. È voluto venire a parlare: è normale che venga sentito e apprezzato, non si può insinuare che sia un mitomane». Ai parlamentari che indagano sulla morte di Rossi l'ufficiale ha spiegato di essere entrato nella stanza del capo della comunicazione di Mps insieme a Natalini, Nastasi e Marini. Ha raccontato che i pm avrebbero rovesciato «con cautela» il cestino («è una cosa che si fa regolarmente» ha dichiarato candido) dove c'erano dei fazzolettini intrisi di sangue e tre lettere d'addio di David. Ma l'accusa più pesante fatta da Aglieco ai magistrati è quella di aver risposto a una chiamata di Daniela Santanchè arrivata sul cellulare di Rossi. Una versione confermata dalla senatrice. Ma nel tabulato di uno degli operatori, dove vengono indicati i 38 secondi della telefonata della Santanchè delle 21 e 59, c'è l'indicazione, come evidenziato ieri dal Corriere della sera, «libero-non risponde». I pm citati da Aglieco hanno fatto filtrare sulle pagine di alcuni giornali locali una smentita alle parole dell'ufficiale, escludendo la sua presenza nella stanza quando il cellulare di Rossi ha squillato. Ma Nastasi ha risposto o no al telefono? Zanettin taglia corto: «I Ros sono il top per questo genere di investigazioni e così abbiamo chiesto a loro di rispondere. Il dato che è emerso dalle dichiarazioni di Aglieco, ma anche da altre fonti, è che questo sopralluogo è stato fatto male. Tra il video dell'ispettore Marini e quello della scientifica, realizzato tre ore dopo ci sono differenze vistose. È un dato oggettivo».

François de Tonquédec Paolo Gianlorenzo per "la Verità" il 23 dicembre 2021. Come anticipato ieri dalla Verità, serviranno almeno tre mesi per avere una risposta definitiva agli accertamenti svolti ieri dal Ris per verificare se David Rossi si è davvero suicidato o se, invece, qualcuno lo ha buttato giù, forse spaventato dalla sua volontà di parlare con i magistrati, espressa tre giorni prima in una mail all'Ad di Monte dei Paschi Fabrizio Viola: «Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!!». I rilievi degli uomini dell'Arma molto articolati si sono conclusi in tarda serata. All'inizio dei lavori gli investigatori incaricati dalla commissione d'inchiesta sulla vicenda hanno acquisito elementi sui luoghi, per poi effettuare l'esame più importante, ossia la simulazione della caduta dell'ex capo della Comunicazione di Mps con un manichino antropomorfo virtuale.

Le verifiche sono state svolte non solo dalla stanza di Rossi, ma anche dal piano superiore, il quarto, da dove la famiglia e i legali sospettano possa essere stato spinto il manager. Previste anche prove di trazione della sbarra di protezione della finestra dell'ufficio di Rossi e dei di fili anti piccioni, che furono trovati rotti. Dopo le 17 invece si sono svolte, le sperimentazioni necessarie a ricreare le condizioni di luce e atmosferiche della sera in cui Rossi è stato trovato a terra in vicolo del Monte Pio, tra cui un test con pioggia artificiale per verificare gli effetti dell'acqua sulla telecamera di sorveglianza della strada e uno per studiare il fenomeno di proiezione delle luci di automobili. 

Una prova per verificare se le telecamere di sorveglianza ripresero davvero un orologio volare giù dal palazzo alcuni minuti dopo Rossi o se si trattasse di un'illusione ottica.Ieri incontrando la stampa, il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Rossi, Pierantonio Zanettin ha commentato: «Oggi non potremo trarre nessuna indicazione specifica, per i risultati della perizia odierna a opera dei Ris dovremmo aspettare 3 mesi, ma è tutto work in progress».

Per Zanettin, gli accertamenti che saranno realizzati grazie alla ricostruzione in 3d, tramite laser scanner, del vicolo di Monte Pio oltre che quelli all'interno dell'ufficio del capo della comunicazione della banca deceduto il 6 marzo 2013 dopo un volo dalla finestra del suo ufficio saranno dirimenti: «La soluzione dei Ris è quella che sposerò, non andrò a cercare verità diverse».

Una dichiarazione importante, visto che sarà Zanettin a dover presentare, al termine dei lavori della commissione, una relazione da sottoporre al voto dei parlamentari che ne fanno parte. Per la famiglia di Rossi hanno invece parlato gli avvocati. Carmelo Miceli, legale della vedova di Rossi Antonella Tognazzi e della figlia della donna Carolina Orlandi nutre grandi aspettative e spera che «con l'ausilio di questi nuovi supporti scientifici, risulti evidente che alcune posizioni David non poteva assumerle, dunque che la possibilità del suicidio venga definitivamente confutata» e che «finalmente una Procura decida di riaprire l'indagine sulle reali cause della morte.

Le indagini sono state archiviate sulla base di atti che, all'evidenza, sono falsati». Ancora più duro l'altro legale della famiglia, Paolo Pirani che ha parlato di «un accertamento che andava fatto anni fa». Sono sempre più lontani quindi i tempi in cui, i primi giorni, le persone più vicine a Rossi raccontavano ai pubblici ministeri quanto la perquisizione subita - da non indagato - nell'ambito dell'inchiesta sulla banca lo avesse prostrato.

A cominciare proprio dalla figlia della Tognazzi, Carolina, che il 18 aprile 2013 aveva descritto gli strani comportamenti di Rossi nei giorni precedenti alla sua morte. Per esempio comunicava con la ragazza scrivendo su dei foglietti, che poi chiedeva di distruggere, temendo che ci fossero delle microspie in casa. E con imbarazzo aveva anche ammesso di essersi ferito da solo ai polsi, atti di autolesionismo che aveva fatto inizialmente ritenere plausibile anche ai famigliari l'ipotesi del suicidio.

Alla Verità la vedova di Rossi ha spiegato dettagliatamente il percorso che ha portato lei e la figlia a rivedere «in base agli elementi che emergevano» le loro posizioni che rispetto ai primi momenti: «Se un magistrato mi chiama e mi dà una versione, io non ho motivo o elementi per metterla in discussione, anche se la cosa mi era sembrata assolutamente strana fin dall'inizio sulla base di un termine presente proprio nei bigliettini. Feci presente che non mi chiamava mai "Toni"».

Cioè il nomignolo con cui la ha appellata Rossi su due dei bigliettini di addio scritti prima di morire: «Ciao Toni, mi dispiace, ma l'ultima cazzata che ho fatto è troppo grossa. Nelle ultime settimane ho perso». Nel secondo, trovato completamente strappato, invece, si leggeva: «Ciao Toni, amore, l'ultima che ho fatto è troppo grande per poterla sopportare. Hai ragione, sono fuori di testa da settimane». La svolta per la Tognazzi avviene «quando ci hanno restituito gli apparecchi informatici, mia cognata che è ingegnere informatico iniziò a controllare i dati e la cosa non mi tornava».

In particolare per la mail scritta dal marito all'Ad di Mps Fabrizio Viola: «Ammesso e non concesso che quella mail fosse valida, era stata mandata in 3 e l'evento è successo il 6. Io tornai in Procura a chiedere: "Scusate, ma in tre giorni nessuno ha fatto niente?"». Concludendo con una riflessione: «Come fa uno a sospettare da subito senza nessun altro elemento?». 

Quando le abbiamo ricordato quanto il marito fosse sotto pressione per l'inchiesta, la donna ci ha detto «come tutti, come poi ha detto anche la stessa Ciani», riferendosi a Carla Ciani, la mental coach (e non una psicologa) ingaggiata da Mps. Che aveva incontrato Rossi la mattina del 6 marzo, descrivendo così ai pm il suo stato psicologico: «Mi ha manifestato una situazione di ansia derivante dalla perquisizione da lui subita, in un contesto già problematico: disse che questa cosa per lui rappresentava un dramma; disse che era un momento in cui gli stava cadendo addosso il mondo perché c'erano tante cose che gli erano accadute lo stesso momento: la morte il padre; la crisi del Monte; lo stato di salute della moglie; le perquisizioni da lui subite, in ufficio e nell'abitazione. Insomma, lui si sentiva dentro una serie di situazioni negative che non riusciva a gestire».

Parole usate dai magistrati di Siena per motivare l'archiviazione, ma che la Ciani, sentita dalla commissione, ha molto ridimensionato. Ieri sera, le Iene hanno trasmesso un servizio con ulteriori elementi destinati a far discutere. Una chat, risalente a 4 anni fa, tra uno degli autori della trasmissione, Marco Occhipinti, e Anna Ascani, la compagna del colonnello dei carabineri Pasquale Aglieco, che nella sua audizione in commissione si è autoproclamato testimone delle presunte manomissioni nella stanza di Rossi da parte dei pm.

Nello scambio la donna, che ha contattato Occhipinti su Facebook, lancia nuove ipotesi, tutte da verificare, sui festini che sarebbero all'origine della morte di Rossi. Nei quali, secondo la Ascani, che nella chat non fornisce alcun elemento di riscontro, Rossi sarebbe stato coinvolto in prima persona. A Occhipinti la donna ha, infatti, suggerito: «Indagate sul compagno con cui andava in villa». Quando la iena gli fa notare che anche lui viene spesso visto con un collega, la donna risponde: «Per questo ti ho detto di cercare conferme in villa». Come se i festini negati dal suo compagno, il colonnello Aglieco, fossero in realtà esistiti.

G.Sal. Per "la Stampa" il 22 dicembre 2021. «Stamattina mi sono svegliata in apnea. Non è una giornata come le altre, c'è un'apprensione diversa», dice Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi, passeggiando tra i vicoli del centro di Siena, a poche centinaia di metri da quello in cui il marito trovò una morte a cui oggi, quasi nove anni dopo, si cerca una spiegazione. Come vive questa giornata? «Con diversi sentimenti, a volte contrastanti». 

Speranza?

«Anche. Ma la speranza è stata accesa tante volte, in questi anni, e puntualmente rabbuiata. Quindi la mia parte razionale fa tenere sedata la speranza».

 Perché?

«Per paura di cadere in un'illusione di speranza. Questo rende tutto più faticoso».

Che effetto le fa rivedere tanta gente in quel vicolo?

«Io non ci vado. Non ci passo nemmeno, cambio strada. In nove anni sono andata solo una volta e mi sono detta: mai più. Mi assale un dolore che non si placa. Passare di là è rivivere un incubo». 

Come giudica il circo mediatico attorno alla morte di suo marito?

«Necessario. Grazie ai mass media l'opinione pubblica ha preso consapevolezza dei nostri dubbi. Un conto è leggere e ascoltare, un conto è vedere». 

In che senso?

«Le immagini della caduta per me sono tabù. Quando passano in televisione, istintivamente il mio cervello le oscura, come in una nebulosa. Ma mi rendo conto che sono state decisive per riaprire il caso. Nessuno può sapere quanto sacrificio mi sia costato renderle pubbliche, tanto più conoscendo la riservatezza di David. Ma credo che oggi lui capirebbe».

Che idea si è fatto dei magistrati?

«Non ne posso pensare bene. Sono gli stessi che mi hanno processato per un'accusa infamante: violazione della privacy per un'estorsione al Montepaschi. L'unico processo per la morte di David l'ho subito io, pagando un altissimo prezzo economico ed emotivo per anni. Non sono io a fare la guerra alla magistratura, casomai il contrario». 

A che pro?

«I magistrati hanno ritenuto che i dubbi da me sollevati screditassero la loro azione. E allora hanno provato a screditare me».

Anche lei all'inizio era per la tesi del suicidio.

«Così me l'avevano presentato i pm. Mi fidavo. Ma ho cominciato a dubitare quando ho letto i messaggi che mi aveva scritto David». 

Perché?

«Ci sono tre parole precise che noi due regolarmente menzionavamo scherzando. La prima è il mio soprannome Toni: a me piaceva, a lui no. L'altra "amore": non me l'ha mai detta, nemmeno una volta perché non era nei suoi modi e io me ne lamentavo. Infine "scusa": David non chiedeva mai scusa, anche quando faceva capire di aver sbagliato».

Espresse quei dubbi?

«Certo, a voce alta. In quelle tre parole c'era un messaggio in codice che solo io potevo cogliere: qualcosa non torna, e tu ora lo sai». 

Sesso, affari sporchi: che cosa c'è dietro questa storia?

«Probabilmente tutto. Non lo so e non escludo nulla. Ma se la pista è quella, David può essere morto perché custodiva segreti inconfessabili».

Ma lei ai festini ci crede?

«Sì». 

Che cosa pensa di Mussari, ex presidente del Montepaschi e amico di David, che sarà audito in commissione?

«Erano molto amici, anche se nell'ultimo periodo si erano allontanati. Dopo la morte di David mi scrisse una lettera in cui esprimeva dolore e sofferenza che considero sinceri».

Vi siete rivisti?

«Sì, perché sono amica della moglie. Ma non abbiamo mai più parlato di David. Io non gli ho chiesto niente. E lui non mi ha detto niente». 

Sa qualcosa, secondo lei?

«Non so. Conoscendo il rapporto che aveva con David, spero che dica tutto ciò che sa». 

Ha fiducia nella magistratura?

«No. Non più. E come potrei?».

L'audizione in commissione e l'inchiesta per inquinamento delle prove. David Rossi, il giallo del suicidio e le parole discordanti dei carabinieri: “In questo caso non so”, “Si è buttato”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. Ne ha visti tanti di suicidi, “quando giungi sul posto te ne rendi subito conto” ma “in questo caso non so risponderle”. Sono le parole del carabiniere Marcello Cardiello in merito alla morte di David Rossi, l’ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena trovato senza vita il 6 marzo del 2013 dopo esser ‘volato’ dalla finestra al terzo piano di Palazzo Salimbeni.

Nel corso dell’audizione in commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte di Rossi, presieduta da Pierantonio Zanettin, l’allora luogotenente comandante della stazione dei carabinieri di Siena Centro piazza San Francesco, che aveva incontrato Rossi nel pomeriggio della stessa giornata, ha spiegato di essersi recato prima dentro Rocca Salimbeni poi nel vicolo di Monte Pio dopo essere stato allertato dall’allora comandante provinciale dei carabinieri Pasquale Aglieco. Giunto nella sede della banca, Cardiello, insieme al carabiniere Careddu, è salito al terzo piano per recarsi nell’ufficio di Rossi: “Non è stato un sopralluogo e nemmeno un’ispezione siccome ancora non si sapeva chi procedeva tra carabinieri e polizia – ha chiarito -, siamo entrati per vedere se era stato messo a soqquadro l’ufficio, se sulla scrivania c’era qualcosa. Siamo entrati e usciti” senza aver “toccato assolutamente niente“, aggiungendo che “la finestra era aperta”.

Il tenente colonnello Giuseppe Manichino, uno dei quattro carabiniere ascoltati tra martedì e mercoledì (21-22 dicembre) dalla commissione parlamentare, ha spiegato che “per come ho visto io la scena del cadavere ero più propenso per l’ipotesi suicidaria, per come ho visto io la scena”. L’ufficiale, all’epoca comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Siena, ha risposto a una domanda di uno dei commissari che gli ha chiesto, rispetto “alla scena nel suo complesso”, che “idea” si fosse fatto come investigatore, come la inquadrò quella sera.

Manichini ha chiarito che quella sera era in licenza e fu informato della morte di David Rossi dal colonnello Aglieco Manichino: “Non ricordo le parole precise, dovrebbe essere che lui ha detto che Rossi si è buttato“, ha spiegato. Anche la centrale dei carabinieri, con cui poi parlò prima di arrivare a Rocca Salimbeni, parlò di suicidio, ha riferito l’ufficiale.

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Rossi – secondo quanto riferisce l’AdnKronos – ha poi disposto di trasmettere al Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale presso la Cassazione e alla procura della Repubblica presso il tribunale di Genova copia dei resoconti stenografici delle audizioni dei quattro carabinieri ascoltati. Gli altri due militari ascoltati sono Rosario Mortillaro, all’epoca in servizio al comando provinciale dei carabinieri di Siena, ascoltato a Siena, ed Edoardo Cetola, all’epoca tenente al Nucleo operativo e radiomobile di Siena.

L’indagine per inquinamento delle prove

Falso, omissione d’atti d’ufficio e favoreggiamento sono i reati che potrebbero essere ipotizzati dalla procura di Genova quando riceverà gli atti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del capo comunicazione Monte dei Paschi David Rossi. Otto anni dopo la morte del manager Mps la procura è pronta ad aprire la terza inchiesta per cercare di far luce su quanto successe la sera del 6 marzo 2013, quando Rossi volò giù dal terzo piano di Rocca Salimbeni, a Siena, la sede della banca più antica del mondo.

La riapertura del caso ‘grazie’ al colonnello Aglieco

Le indagini fin ora svolte avevano portato a confermare l’ipotesi del suicidio ma l’ultima testimonianza resa del colonnello Pasquale Aglieco, davanti alla commissione parlamentare istituita nel marzo scorso per far luce sulla tragedia, ha aperto scenari sorprendenti. A tal punto che i magistrati di Genova, secondo quanto filtra dai vertici della Procura, stanno per aprire un fascicolo che ipotizza i reati di favoreggiamento, omissione d’atti d’ufficio e falso.

Aglieco, ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, ha riferito in audizione che i pm Nastasi, Marini (entrambi all’epoca stavano indagando sul crac del Monte) e Natalini, sarebbero entrati prima della polizia scientifica nell’ufficio di Rossi e avrebbero toccato il suo pc, rovesciato il contenuto del cestino sulla scrivania, chiuso la finestra e risposto al cellulare di Rossi (secondo Aglieco lo avrebbe fatto il pm Nastasi, oggi in servizio a Firenze e co-titolare dell’indagine sulla fondazione Open che dal 2012 al 2018 finanziava parte delle attività di Matteo Renzi). Tutto senza usare i guanti e inquinando di fatto la scena di un ipotetico crimine, ben prima che arrivasse la polizia scientifica per i rilievi del caso.

Il giallo della telefonata della Santanché

Daniela Santanchè, senatrice FdI, in un’intervista al Corriere aveva detto che quella sera aveva telefonato a Rossi, suo amico, e che qualcuno avesse risposto al suo cellulare, senza però interloquire. Ma, come rivelato dai tabulati e dall’esame del cellulare di Rossi depositati agli atti delle due inchieste archiviate dalla Procura di Siena, non vi sono tracce della presunta ultima telefonata ricevuta da Rossi.

“Gli telefonai e qualcuno rispose. Dopo scoprii che David era già morto”. Tuttavia aveva anche dichiarato, durante una puntata di Agorà, di non aver ricevuto risposte. Dai tabulati telefonici risulta infatti una chiamata di 38 secondi in entrata sul cellulare del capo della comunicazione del Monte. Pierantonio Zanettin (Forza Italia), presidente della commissione parlamentare, aveva annunciato l’invio degli atti alle toghe genovesi, competenti a indagare sui magistrati del distretto toscano, dopo l’audizione del colonnello Aglieco.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Lo strano sopralluogo dei pm. “Il mistero della morte di David Rossi incredibile, Cartabia mandi ispettori a Siena”, la richiesta di Giachetti. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. «Dopo aver ascoltato la deposizione del colonnello dell’Arma Pasquale Aglieco, spero che la ministra della Giustizia attivi quanto prima gli ispettori di via Arenula», afferma Roberto Giachetti, deputato di Italia viva. Continua, dunque, a far discutere a distanza di una settimana l’incredibile testimonianza dell’ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Davide Rossi.

Aglieco, che secondo l’ex escort Matteo Bonaccorsi, scoperto dalla trasmissione Le Iene, avrebbe anche partecipato ad alcuni festini gay insieme ai pm Aldo Natalini e Nicola Marini in una villa nei dintorni della città toscana, aveva raccontato di essere stato fra i primi ad entrare nella stanza di Rossi a Rocca Salimbeni. Il colonnello si trovava in vicolo di Monte Pio, dove venne rinvenuto cadavere l’ex responsabile della comunicazione di banca Monte Paschi, la sera del 6 marzo 2013. Aglieco aveva affermato di essere andato a comprare un pacchetto di sigarette e di aver raggiunto il posto dopo aver visto una pattuglia della polizia. Insieme a Marini, il pm quella sera di turno, prima dell’arrivo della polizia scientifica che doveva effettuare i rilievi, Aglieco era poi salito nell’ufficio di Rossi. Con loro due anche i pm Natalini e Antonino Nastasi che avevano raggiunto il posto. Nastasi, disse Aglieco, una volta entrato nella stanza si era seduto alla scrivania di Rossi ed aveva cercato di accendere il computer, manovrando il mouse con una penna.

Il pm, inoltre, aveva preso il cestino e lo aveva svuotato sulla scrivania. Dentro il cestino erano contenuti dei fazzolettini sporchi di sangue e i bigliettini con dei messaggi scritti da Rossi. Secondo Aglieco, il telefono cellulare di Rossi squillò due volte: la prima telefonata, senza risposta, era del giornalista Tommaso Strambi; la seconda, invece, della parlamentare Daniela Santanchè. A rispondere sempre il pm. «Se tali circostanze risultassero dimostrate, saremmo di fronte a una violazione delle più elementari regole e procedure ma soprattutto di una gravissima compromissione della scena del delitto e probabilmente di un irreparabile inquinamento degli elementi di prova», prosegue Giachetti che ha chiesto alla ministra della Giustizia di fare accertamenti anche sulle presenze di Natalini e Nastasi nell’ufficio di Rossi. L’unico titolato ad entrare era Marini, il pm di turno, «gli altri due non avrebbero potuto partecipare al sopralluogo prima di una formale co-assegnazione da parte del procuratore», ricorda Giachetti. Anche sulla presenza di Aglieco ci sono perplessità. Ma nel suo caso non è chiaro chi possa procedere ad otto anni di distanza. Il colonnello è stato trasferito dal Comando generale dell’Arma alla Scuola ufficiali carabinieri con un incarico non operativo.

Dell’incredibile sopralluogo, comunque, non esiste alcun verbale. Se non fosse stato per Aglieco che ha tenuto la notizia riservata per otto anni nessuno avrebbe mai saputo cosa accadde quella sera. E di ieri è la notizia che la Procura di Genova è pronta ad ipotizzare i reati di favoreggiamento, omissione d’atti d’ufficio e falso, una volta ricevuta la documentazione dall’onorevole Pierantonio Zanettin (FI), presidente della Commissione. Genova aveva già indagato sui magistrati di Siena per l’ipotesi di abuso d’uffficio. Il procedimento era finito con un nulla di fatto. Il gip ligure, comunque, aveva archiviato «a prescindere da potenziali censure disciplinari, ravvisabili ove nei fatti esposti venga rilevato un pregiudizio per il prestigio della magistratura».

Gli inquirenti liguri, dopo aver sottolineato che le indagini erano state “caratterizzate da carenze investigative”, dissero che non presentavano gli elementi costitutivi dell’ipotizzato reato di abuso d’ufficio. Ad esempio il dolo finalizzato ad ostacolare la verità per conseguire un ingiusto vantaggio. L’archiviazione era stata mandata lo scorso gennaio alla Procura generale della Cassazione per valutare le condotte disciplinari dei pm. Da allora non si hanno più notizie. Paolo Comi

David Rossi, il "suicidio"? Ecco la sua stanza prima e dopo il sopralluogo dei pm: foto-choc, si capisce tutto? Libero Quotidiano il 14 dicembre 2021. È improvvisamente tornato in auge il caso di David Rossi, l’ex capo della comunicazione di Mps. Merito delle dichiarazioni rese dal colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco davanti alla commissione d’inchiesta della Camera. All’epoca comandante provinciale a Siena, Aglieco è stato uno dei primi ad arrivare sul posto e ad identificare Rossi, il cui corpo era riverso al suolo in un vicolo sotto la finestra del suo ufficio. A distanza di oltre otto anni da quella sera del 6 marzo 2013, Aglieco ha raccontato di essere entrato nella stanza di Rossi insieme a tre pm: Nicola Marini, Antonino Nastasi e Aldo Natalini. Curioso che fossero tre, dato che in teoria ne basterebbe uno, quello d turno. Ma non è questo il punto, perché Aglieco ha raccontato che Nastasi si è seduto sulla sedia di Rossi e ha acceso il pc muovendo il mouse con una penna. Uno degli altri due pm ha invece preso il cestino per svuotarlo sulla scrivania: c’erano dei bigliettini e soprattutto dei fazzoletti sporchi di sangue. Sarebbe quindi avvenuta una contaminazione a dir poco anomala, che sembrerebbe confermata anche dalle indagini mandate in onda da Quarta Repubblica su Rete4: in un video realizzato dal poliziotto che è arrivato sul posto prima dei pm la stanza e la scrivania sono ordinate, tutto appare al suo posto; le foto successive della scientifica immortalano uno scenario completamente diverso, con la sedia spostata, la scrivania disordinata, gli oggetti spostati e il cestino rovesciato.

Claudio Borghi, "siamo nell'ufficio di David Rossi". E David Parenzo lo insulta: 007 e Mps, si scatena il caos. Libero Quotidiano il 21 dicembre 2021. "Siamo nell'ufficio di David Rossi con il Ris", scrive Claudio Borghi in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. E si scatena lo sfotto sui social. David Parenzo, conduttore de La Zanzara su Radio 24 e di In onda su La7 non resiste e commenta: "Perché siamo? Sei diventato anche un investigatore? 007 dalla Lega con amore...". E Luca Bizzarri, del duo comico Luca e Paolo, ci mette il suo carico da novanta. Con tanto di foto di Sean Connery, scrive: "Borg, Claud Borg". Quindi Parenzo affonda: "Occhio non finisca come l’Ispettore Clouseau". Un botta e risposta che ha scatenato l'inferno sui sociale tra sfotto sfottò e insulti. Ma al di là degli sfotto, Borghi era a Siena perché fa parte della commissione d'inchiesta e questa mattina 21 dicembre i carabinieri del Ris sono andati nella sede di Banca Mps in Rocca Salimbeni, per effettuare dei rilievi al terzo piano in quello che fu l'ufficio di David Rossi, che era capo della comunicazione della banca. Rossi il 6 marzo del 2013 precipitò dalla finestra del suo ufficio schiantandosi in vicolo Monte Pio. Ed è stata la Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso di David Rossi a disporre la perizia del Ris. Una delegazione della commissione era presente a Siena. Nell'ambito della perizia, previsto un test di trazione sulla sbarra di protezione della finestra, sui fili anti-piccione. Inoltre verrà simulato, con un manichino, un suicidio di una persona di caratteristiche fisiche analoghe a quelle di Rossi. Gli uomini del Ris, da quanto si apprende, stanno effettuando rilievi anche al quarto piano per cercare di capire se l'ex responsabile della comunicazione di Banca Mps possa essere precipitato dalla finestra di una stanza posta a quel piano. 

Dopo le rivelazioni di Aglieco. Morte David Rossi, i pm di Genova verso una terza inchiesta: l’indagine per inquinamento delle prove. Riccardo Annibali su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Falso, omissione d’atti d’ufficio e favoreggiamento sono i reati che potrebbero essere ipotizzati dalla procura di Genova quando riceverà gli atti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del capo comunicazione Monte dei Paschi David Rossi, avvenuta nel marzo 2013 a Siena. Pierantonio Zanettin (FI), presidente della commissione, aveva annunciato l’invio degli atti ai magistrati genovesi, competenti a indagare sui magistrati del distretto toscano, dopo l’audizione del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, all’epoca comandante provinciale di Siena. Otto anni dopo la morte del manager Mps la procura è pronta ad aprire la terza inchiesta per cercare di far luce su quanto successe la sera del 6 marzo 2013, quando Rossi volò giù dal terzo piano di Rocca Salimbeni, a Siena, la sede della banca più antica del mondo. Le indagini fin ora svolte avevano portato a confermare l’ipotesi del suicidio ma l’ultima testimonianza resa del colonnello Pasquale Aglieco, davanti alla commissione parlamentare istituita nel marzo scorso per far luce sulla tragedia, ha aperto scenari sorprendenti. A tal punto che i magistrati di Genova, secondo quanto filtra dai vertici della Procura, stanno per aprire un fascicolo che ipotizza i reati di favoreggiamento, omissione d’atti d’ufficio e falso.

Aglieco, ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, ha riferito in audizione che i pm Nastasi, Marini (entrambi all’epoca stavano indagando sul crac del Monte) e Natalini, sarebbero entrati prima della polizia scientifica nell’ufficio di Rossi e avrebbero toccato il suo pc, rovesciato il contenuto del cestino sulla scrivania, chiuso la finestra e risposto al cellulare di Rossi (secondo Aglieco lo avrebbe fatto il pm Nastasi, oggi in servizio a Firenze e co-titolare dell’indagine sulla fondazione Open che dal 2012 al 2018 finanziava parte delle attività di Matteo Renzi). Tutto senza usare i guanti e inquinando di fatto la scena di un ipotetico crimine, ben prima che arrivasse la polizia scientifica per i rilievi del caso.

Daniela Santanchè, senatrice FdI, in un’intervista al Corriere aveva detto che quella sera aveva telefonato a Rossi, suo amico, e che qualcuno avesse risposto al suo cellulare, senza però interloquire: “Gli telefonai e qualcuno rispose. Dopo scoprii che David era già morto”. Tuttavia aveva anche dichiarato, durante una puntata di Agorà, di non aver ricevuto risposte. Dai tabulati telefonici risulta infatti una chiamata di 38 secondi in entrata sul cellulare del capo della comunicazione del Monte. Pierantonio Zanettin (Forza Italia), presidente della commissione parlamentare, aveva annunciato l’invio degli atti alle toghe genovesi, competenti a indagare sui magistrati del distretto toscano, dopo l’audizione del colonnello Aglieco.

“Sembra che i pm abbiano inquinato la scena criminis: non importa aver letto il codice, basta aver visto una serie televisiva per sapere che nessuno può inquinare le prove — attacca Matteo Renzi —. E invece pare che ciò sia stato fatto addirittura da dei magistrati, uno dei quali, peraltro, è tanto per cambiare il pm di Open. Se tutto fosse confermato, sarebbe davvero gravissimo”. Il deputato Roberto Giachetti, in una interrogazione al ministro della Giustizia Marta Cartabia, chiede intanto di “acquisire ulteriori elementi circa l’ingiustificata presenza del colonnello Aglieco e dei pm Natalini e Antonino Nastasi nel corso del sopralluogo all’interno dell’ufficio di Rossi e attivare eventualmente i propri poteri ispettivi per verificare se vi siano state irregolarità o anomalie procedurali”. Riccardo Annibali

 Caso Rossi, tocca ai Ris riscrivere il giallo di Siena. Felice Manti il 22 Dicembre 2021 su Il Giornale. Le simulazioni virtuali della caduta potrebbero chiarire la dinamica e i dubbi sulle indagini. Da quale finestra è caduto David Rossi? Qualcuno l'ha spinto? Domande a cui «entro qualche settimana», commenta Walter Rizzetto di Fdi potremmo avere certamente delle risposte più precise e dettagliate dalla superperizia dei Ris da ieri a Siena con laser scanner 3D di tutti i locali, un manichino antropomorfo virtuale utilizzato in alcune ricostruzioni in laboratorio e gli spazi e test con pioggia artificiale a varie distanze dalla telecamera di sorveglianza per esaminare il video della caduta e dell'orologio. La ricostruzione del traffico telefonico (con tanto di giallo sulla telefonata di Daniela Santanché a Rossi a cui avrebbe risposto un pm) è stata affidata ai Ros, inoltre il Racis ha l'incarico di riesaminare il materiale informatico di David Rossi.

La verità inizia a farsi spazio in questa drammatica vicenda: ogni tassello sembra trovare la sua posizione. Se ci sono state lacune nell'inchiesta sulla strana morte del manager Mps condotta dai pm di Siena, come sostengono i familiari, lo si capirà molto presto. In effetti ci sono vestiti di David mai analizzati, tabulati e celle telefoniche mai acquisite per capire chi fosse dentro la banca e all'ingresso del vicolo, come l'uomo che con il cellulare all'orecchio si affaccia guarda in direzione di David e poi se ne va, fazzolettini sporchi di sangue distrutti per ordine del pm Aldo Natalini, senza essere mai analizzati e prima ancora che il giudice archiviasse, segni che David presenta nella parte anteriore del corpo che non sembrano riconducibili alla caduta, come lamenta la famiglia del manager Mps, su cui verrà disposta un'altra perizia medico legale. E la Procura di Genova, nonostante tutto, ha archiviato ogni ombra sulla Procura senese ma ora deve rivedere le sue posizioni. Certo, la commissione non ha l'ardire di sostituirsi ai pm, come teme il Csm che (finora) non ha autorizzato alcun magistrato a partecipare come consulente «per non sovrapporne le conclusioni alle inchieste» e come ha ribadito ieri il presidente Pierantonio Zanettin di Forza Italia: «La vicenda reca un certo imbarazzo istituzionale, un aiuto dei magistrati sarebbe auspicabile».

Ma l'uomo del giorno è ancora una volta il colonnello Pasquale Aglieco, l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena che con la sua deposizione sul presunto inquinamento della scena del crimine ha inguaiato i magistrati intervenuti, Antonino Nastasi, Nicola Marini e lo stesso Natalini. Lo hanno stanato a Roma le Iene, che con le loro inchieste sui festini gay ai quali l'ufficiale avrebbe preso parte (definite da Aglieco in commissione «truffa mediatica») hanno riacceso i riflettori sulla vicenda, anche con le rivelazioni di un presunto escort, presente alle orge gay innaffiate di droga che invece il gip di Genova considera attendibile. Per Aglieco invece i festini sono inventati, eppure è stata la sua compagna attuale A.A. proprio alle Iene in una chat resa nota ieri sera, a confermarne l'esistenza («L'hai scoperta la villa dei festini? Bisogna cercare chi è l'uomo che ci andava con David») e a rincarare la dose su Facebook nella pagina dell'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini anche dopo la deposizione di Aglieco che ne negava l'esistenza. Alla domanda «Colonnello ma perché la sua compagna parla di Siena città piena di misteri, piena di uomini che amano altri uomini...ma come mai, ma anche lei prende le cantonate?». Aglieco è sbiancato ed è fuggito. Ha qualcosa da nascondere? Avrà detto tutta la verità? Oggi in Commissione ricominciano le audizioni: tocca al tenente colonnello Giuseppe Manichino, al maggiore Edoardo Cetola e al tenente Marcello Cardiello, tutti dell'Arma.

Tutto quello che ancora non torna sulla morte di David Rossi. Orlando Sacchelli il 18 Dicembre 2021 su Il Giornale. Sono tanti, troppi i lati oscuri dietro la morte del responsabile della comunicazione di Mps, morto dopo la caduta dalla finestra del suo studio, a Siena, la sera del 6 marzo 2013. La commissione parlamentare d'inchiesta è impegnata per far emergere la verità. La scena finale di quel volo dalla finestra l'abbiamo vista e rivista tante volte. Eppure fa sempre impressione. David Rossi non morì sul colpo quella sera del 6 marzo 2013. Rimase disteso sul selciato, immobile e agonizzante, per ventidue minuti. Sulla sua morte sono state fatte due inchieste, entrambe archiviate dalla procura di Siena. Ma i misteri e i lati oscuri erano tanti, troppi, al punto che è nata una commissione parlamentare d'inchiesta, con gli stessi poteri degli organi inquirenti. Proprio sulla base delle nuove indagini avviate dalla commissione martedì prossimo sarà effettuato un test molto importante da parte dei carabinieri dei Ris: utilizzando la tecnologia 3D verrà simulata la caduta dalla finestra dell'ufficio, per ricostruire la dinamica e fare luce sulle stranezze di quel tragico volo che costò la vita al capo della comunicazione di Mps.

Mps, il mistero ancora irrisolto La strana morte di David Rossi

Essenziale anche lo studio attento dei tre video e delle 61 fotografie realizzate nello studio di Rossi che non figurano, però, agli atti delle inchieste. Prima di tutto si dovrà capire per quale motivo non fossero agli atti? Chi e perché lo ha deciso? O è stata una svista? Ovviamente si deve prima capire se siano immagini importanti o meno. Nel senso che se, per ipotesi, fossero 61 foto tutte uguali, o quasi, la loro importanza sarebbe relativa. I video furono girati a mezzanotte, dopo l'arrivo della Scientifica nella stanza: differirebbero, in modo sostanziale, dalle immagini girate nell'immediatezza dei fatti dal sovrintendente Livio Marini. Questa differenza aggraverebbe la posizione dei magistrati.

David Rossi, ora spuntano altri video e foto. I pm di Siena sono sempre più nei guai

C'è poi un altro dettaglio importante, la testimonianza del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco. Le sue parole, inutile nasconderlo, fanno venire il sospetto che possa esserci stato qualcuno che ha voluto depistare o comunque inquinare le prove, quando i tecnici della Scientifica ancora non erano arrivati sul posto. Lo stesso Aglieco infatti davanti alla commissione parlamentare ha raccontato che il pm Antonino Nastasi si mise a sedere sulla sedia di Rossi, spostò la giacca dell'uomo che giaceva sul selciato, prese una penna e toccò il mouse, rovesciando poi sulla scrivania il cestino dei rifiuti in cui su trovavano tre bigliettini scritti a mano da Rossi e sette fazzoletti di carta macchiati di sangue. Poi la finestra dell'ufficio venne chiusa (Aglieco non ricorda da chi). Al momento nessuno ha mai confermato questi fatti, né le forze dell'ordine né i magistrati. Il mistero, dunque, resta fitto. In attesa di stabilire se i fatti rivelati dal colonnello abbiano riscontro o meno, c'è da dire che se vi fossero conferme quelli descritti dall'ufficiale dell'Arma sarebbero comportamenti inqualificabili. Sorge però una domanda: perché Aglieco non li ha mai raccontati prima?

Un colonnello inguaia i pm del caso David Rossi

Un altro dettaglio inquietante: le telefonate che arrivarono sul cellulare di Rossi quando lui era già morto. A chiamare furono un giornalista de La Nazione, che conosceva Rossi, e l'onorevole Santanchè. Secondo il racconto di Aglieco il pm Nastasi avrebbe risposto alla chiamata della parlamentare. Santanché conferma dicendo che "qualcuno sollevò l'apparecchio, era in ascolto ma non rispose". Il pm dice che non è vero, non ha risposto. Sono trentotto secondi di comunicazione, come risulta dai tabulati telefonici. Nastasi sostiene che gli squilli andarono a vuoto. I tabulati, però, dovrebbero distinguere se qualcuno abbia risposto o meno alla chiamata in ingresso. Ci sarebbe anche una seconda chiamata misteriosa, ma secondo Tim sarebbe relativa ad una ricarica telefonica per Carolina Orlandi, figlia della moglie di Rossi, che aveva esaurito il suo traffico telefonico.

Tra mille lati oscuri c'è una certezza, ormai assodata. Le indagini iniziali furono fatte male. Non è possibile, infatti, che le immagini delle telecamere presenti in zona non siano state tutte acquisite. Così come non è possibile che i fazzolettini sporchi di sangue siano stati distrutti. Di chi era quel sangue? La seconda inchiesta della procura di Siena, fu attenta ai dettagli, non ha trovato niente di nuovo, affermando che le negligenze della prima, che ci furono, non risultarono tuttavia determinanti.

Interessante rilevare che la mental coach che collaborava con Mps, Carla Ciani, una delle ultime persone che parlò con Rossi, sentita dai pm avrebbe detto che il manager era molto turbato e per certi versi confuso. Ma la sua testimonianza davanti alla commissione parlamentare appare molto diversa: la psicologa, infatti, ha detto che non ebbe la percezione che Rossi volesse suicidarsi. Sono due versioni molto distanti. Può anche essere che il ricordo di alcuni anni fa sia mutato, ma è possibile che sia cambiato così tanto?

Si è parlato tanto dei presunti festini a luci rosse, che sarebbero avvenuti a Siena e dintorni, a cui avrebbero partecipato personalità influenti della città e che, per qualcuno, potrebbero essere legati, in qualche modo, alla morte di Rossi. Il primo a far riferimento a questa cosa fu l'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini. Poi il programma Le Iene (Italia 1), scavò a fondo sulla vicenda, andando a intervistare un escort che avrebbe raccontato di aver preso parte ad alcune di queste feste. Curiosità: l'uomo avrebbe riconosciuto, tra le persone presenti ai festini, il colonnello dei carabinieri Aglieco. Ma poi, di fronte alle verifiche della procura, si è contraddetto, mostrandosi non particolarmente utile alle indagini, senza portare alcun riscontro oggettivo. La procura di Genova ha dovuto prendere atto che, al momento, non vi sono riscontri sulla pista dei festini.

Un elemento oggettivo è quello dei segni sul cadavere del corpo di David Rossi? Sono davvero compatibili con la caduta (all'indietro) dalla finestra? La sua famiglia è convinta di no. E qualcuno sospetta che l'uomo possa essere stato aggredito, quando era nel suo ufficio, sbattuto contro una porta (o altro) e poi, in un secondo momento, gettato dalla finestra. Mancano le prove ma le stranezze (anche per quanto riguarda le ferite riscontrate nell'autopsia) ci sono e non sembrano poche. 

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Caso David Rossi, scomparsi 61 foto e 2 video: i retroscena. Caso David Rossi: le rivelazioni del deputato Rizzetto sul testimone non verbalizzato dai pm di Siena. La vicenda sarà trattata anche dall'Antimafia. Simona Musco Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Sessantuno foto e due video girati dalla polizia spariti dal fascicolo. E poi un testimone, che ha riferito ai pm di aver incontrato David Rossi in via Vallerozzi, qualche ora prima della sua morte, le cui parole non sono mai state verbalizzate. Sono queste le ultime novità sulla morte del capo della comunicazione del Monte dei Paschi, volato giù dal terzo piano del suo ufficio di Rocca Salimbeni, a Siena il 6 marzo 2013. Le foto, di cui ha parlato Massimo Giletti a Non è l’Arena, su La7 mercoledì sera, sono state realizzate da Federica Romano, operatrice della scientifica intervenuta quella notte nella stanza in cui lavorava Rossi. Il materiale, custodito negli archivi della questura di Siena, è stato acquisito dalla Commissione parlamentare istituita a marzo scorso per indagare sulla vicenda.

David Rossi, parla il deputato Rizzetto

Dell’esistenza di un testimone, invece, ne ha parlato ieri il deputato di Fdi e componente della Commissione Walter Rizzetto, nel corso di una conferenza stampa alla Camera. «Abbiamo cercato, trovato e parlato con una persona, la cui testimonianza è ritenuta molto affidabile, che colloca David Rossi in via Vallerozzi, in giorno della morte tra le 15.30 e le 16. Rossi cammina con un cappuccio, piove, è nel vicolo e sovrappensiero si scontra con questa persona. Ma la cosa importante e grave è che questa persona, da buon cittadino, ha rilasciato una dichiarazione spontanea agli inquirenti dove dice che Rossi stava parlando. Gli inquirenti non hanno verbalizzato una deposizione spontanea di un cittadino che aveva fatto dichiarazioni spontanee – ha evidenziato -. Questa persona, che verrà chiamata per una testimonianza in Commissione, mi ha riferito che gli è stato detto di non preoccuparsi, che Rossi in quel giorno era molto provato e probabilmente stava parlando da solo perché non usava gli auricolari».

Il legale della famiglia di David Rossi

Per Carmelo Miceli, legale della famiglia, «era doveroso, in un contesto di istigazione al suicidio, verbalizzare chi spontaneamente aveva avvertito la necessità di recarsi innanzitutto all’autorità giudiziaria per riferire qualcosa». Che queste dichiarazioni spontanee «non siano agli atti è di una gravità inaudita», ha concluso Miceli, che ha chiesto al ministero della Giustizia «di vigilare e garantire il buon andamento dell’amministrazione giudiziaria attraverso la verifica, che può e che deve fare, sul perché alcune indagini vengono iscritte a modello 45 e non per fatti costituenti reati, perché alcune procure continuano a rimpallarsi la competenza, perché all’istanza che abbiamo fatto, reiteratamente al tribunale di Genova, di restituzione degli effetti personali di David, ancora oggi, non abbiamo avuto riscontro». Nel corso della conferenza stampa Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi, moglie di Rossi, ha chiesto verità e giustizia. «Per tanti anni ci hanno dato delle visionarie, delle complottiste e oggi sappiamo che le nostre non erano visioni», ha affermato.

Le dichiarazioni di Pittelli sul caso di David Rossi

Nel frattempo anche il presidente della Commissione antimafia, Nicola Morra, ha annunciato di voler approfondire la vicenda, anche alla luce dell’intercettazione captata nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita Scott”, della Dda di Catanzaro, che vede come protagonista l’ex senatore Giancarlo Pittelli, a processo per concorso esterno: «Se riaprono le indagini sulla morte di David Rossi succederà un casino grosso – disse l’avvocato al proprio interlocutore -. Non si è suicidato, è stato ucciso». Secondo Morra, «si deve ragionare anche sul contesto che può spiegare tante cose» e il contesto «rinvia, ad esempio, alla penetrazione di ’ndrangheta in Toscana, a rapporti storicamente solidissimi tra massoneria toscana e calabrese».

Anche la commissione antimafia si occuperà della morte di David Rossi

La Commissione, martedì, sarà a Siena. L’intento è approfondire quanto emerso a seguito dell’audizione di Pasquale Aglieco, all’epoca dei fatti comandante provinciale dei carabinieri di Siena e uno dei primi ad arrivare sulla scena la sera del 6 marzo 2013. Aglieco ha raccontato del sopralluogo effettuato all’interno dell’ufficio di Rossi insieme ai pubblici ministeri Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi. Quest’ultimo si sarebbe seduto sulla sedia di Rossi accendendo il computer, manovrando il mouse con una penna. Uno dei tre pm, inoltre, avrebbe svuotato sulla scrivania il cestino contenente i fazzolettini sporchi di sangue e i bigliettini indirizzati alla moglie. Inoltre Nastasi avrebbe risposto al telefono di Rossi, che aveva ricevuto una chiamata da Daniela Santanché.

La procura di Genova, intanto, è pronta ad aprire una nuova inchiesta sull’operato dei magistrati. Il tutto mentre la famiglia attende da tempo la restituzione degli effetti personali di Rossi, consegnati dalla stessa «nella speranza che aprisse l’indagine e nel farlo gli abbiamo affidato tutto quello che c’è dentro quegli atti», ha affermato Miceli. Ma ad oggi vengono «trattenuti indebitamente quegli effetti personali e non sappiamo dove, con quali modalità e catene di custodia. Chiediamo allo Stato di fare lo Stato». 

Morte di David Rossi, un testimone mette nei guai gli inquirenti di Siena. Il Dubbio il 16 dicembre 2021. Un testimone avrebbe visto David Rossi prima di morire. Si presentò in procura, ma «i pm di Siena non hanno verbalizzato la sua deposizione» dice Rizzetto. «Abbiamo cercato, trovato e parlato con una persona, la cui testimonianza è ritenuta molto affidabile, che colloca David Rossi in via Vallerozzi, in giorno della morte tra le 15.30 e le 16. Rossi cammina con un cappuccio, piove, è nel vicolo e sovrappensiero si scontra con questa persona. Ma la cosa importante e grave è che questa persona, da buon cittadino, ha rilasciato una dichiarazione spontanea agli inquirenti dove dice che Rossi stava parlando. Gli inquirenti non hanno verbalizzato una deposizione spontanea di un cittadino che aveva fatto dichiarazioni spontanee». A denunciarlo è il deputato di Fdi Walter Rizzetto, componente della Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi, nel corso di una conferenza stampa alla Camera.

«Questa persona, che verrà chiamata per una testimonianza in Commissione, mi ha riferito che gli è stato detto di non preoccuparsi, che Rossi in quel giorno era molto provato e probabilmente stava parlando da solo perché non usava gli auricolari», continua.

«Chiediamo giustizia per David Rossi»

«Chiediamo verità e giustizia, che in un Paese sano sarebbero dovute arrivare da sole. Invece chiediamo che ci venga detto che cosa è successo quella sera». Lo ha detto Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, l’ex capo della comunicazione Mps morto il 6 marzo del 2013, nella conferenza stampa alla Camera organizzata dal deputato Fdi Walter Rizzetto alla quale partecipa insieme alla madre. «Finora siamo andate avanti con il sostengo delle persone, dell’avvocato, dei giornalisti e ora anche di una Commissione di inchiesta che ha il nostro stesso obiettivo della verità», ha continuato. «Per tanti anni ci hanno dato delle visionarie, delle complottiste e oggi sappiamo che le nostre non erano visioni», ha concluso.

Il caso di David Rossi in commissione Antimafia

«Ieri nell’Ufficio di presidenza (della Commissione parlamentare Antimafia ndr) un gruppo parlamentare ha avanzato la richiesta di far partire un’attività istruttoria in Antimafia. Ci sono gli estremi perché questo avvenga». Lo ha detto il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, partecipando alla conferenza stampa promossa dal deputato Fdi Walter Rizzetto sul caso dell’ex capo della Comunicazione di Mps. «La Commissione Antimafia, di concerto con la Commissione sulla morte di David Rossi, farà il suo», ha continuato Morra.

Caso David Rossi, la procura di Genova verso una nuova inchiesta. Il Dubbio il 14 dicembre 2021. Il deputato di Italia viva Roberto Giachetti ha presentato un’interrogazione al Ministro della Giustizia per fare luce sulla morte dell'ex manager Mps: "Gravissimo se i pm hanno inquinato le prove".

Il deputato di Italia viva Roberto Giachetti ha presentato un’interrogazione al Ministro della Giustizia sulla vicenda dell’ex manager del Monte dei Paschi di Siena David Rossi per sapere se il ministro «non ritenga di dover procedere, nell’ambito delle sue prerogative e competenze, ad acquisire ulteriori elementi in riferimento alla vicenda in esame ed eventualmente ad attivare i propri poteri ispettivi al fine di verificare se vi siano state irregolarità o anomalie rispetto alle procedure adottate dai pubblici ministeri». E ora la procura di Genova potrebbe aprire una nuova inchiesta sul caso dopo che avrà ricevuto gli atti della Commissione parlamentare sulle rivelazioni fatte dal colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, ex comandante provinciale di Siena.

Proprio alla luce dei nuovi risvolti, Giachetti si è rivolto «al Ministro della Giustizia per sapere, premesso che: secondo quanto riportato da numerosi organi di stampa, lo scorso giovedì 9 dicembre 2021, durante i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi, si è svolta l’audizione del Comandante del Reparto Comando Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma, col. Pasquale Aglieco, il quale, all’epoca dei fatti, ricopriva l’incarico di comandante provinciale dei carabinieri di Siena; il colonnello Aglieco, mai ascoltato dai pubblici ministeri titolari del fascicolo sulla morte del capo della comunicazione della Monte dei Paschi di Siena, era stato uno dei primi ad arrivare la sera del 6 marzo 2013 sul luogo in cui era stato rinvenuto il corpo di David Rossi; durante la sua audizione il colonnello ha spiegato che, sapendo che non avrebbe svolto direttamente lui le indagini, aveva solo provveduto ad impartire le prime disposizioni, fino all’arrivo dei pm; l’elemento di novità che emerge dal suo racconto riguarda però la sua ingiustificata presenza anche durante il sopralluogo effettuato all’interno dell’ufficio di David Rossi insieme ai pubblici ministeri Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi; infatti tale circostanza fino ad oggi non era nota, dal momento che della presenza di Aglieco non viene fatta alcuna menzione nei verbali. Inoltre si evidenzia che, ad eccezione di Marini, che risulta essere il pm di turno, gli altri due non avrebbero potuto partecipare al sopralluogo prima di una formale co-assegnazione da parte del procuratore».

«Ed ancora: Aglieco ha raccontato di “essere entrato nella stanza di Rossi, insieme ai tre pm”, molte ore prima dell’arrivo della polizia scientifica, intervenuta solo intorno alle 00:40, quindi con un inspiegabile ritardo di circa quattro ore; ha ricordato quindi che il pm Nastasi “si è seduto sulla sedia di Rossi e ha acceso il computer”, manovrando il mouse “con una penna”. Uno dei tre pm, inoltre, “ha preso il cestino e lo ha svuotato sulla scrivani”, dove è evidente ci fossero anche altri oggetti. Dentro il cestino “erano contenuti i fazzolettini sporchi di sangue” e “i bigliettini” contenenti dei messaggi di addio che ricondurrebbero la morte ad un suicidio. Successivamente il contenuto che era stato riversato sulla scrivania è stato reinserito nel cestino; Aglieco ha detto inoltre di ricordare perfettamente che quella sera durante la sua permanenza nell’ufficio il telefono di David Rossi squillò due volte: la prima telefonata sarebbe riconducibile al giornalista Tommaso Strambi e non ricevette risposta; la seconda telefonata invece sarebbe riferibile alla parlamentare Daniela Santanché; rispetto a questa chiamata il colonnello afferma: “Mi sembra di ricordare che a rispondere fu il dottor Nastasi”, precisando però di non aver sentito le parole del magistrato; l’onorevole Santanché infatti aveva dichiarato di non aver ricevuto risposta e dai tabulati risulta una chiamata di 38secondi; nel suo lungo racconto Aglieco infine ha ricordato che “qualcuno” chiuse la finestra da cui David Rossi sarebbe precipitato; a parere dell’interrogante».

«Se tali circostanze risultassero dimostrate, saremmo di fronte a una violazione delle più elementari regole e procedure ma soprattutto di una gravissima compromissione della scena del delitto e probabilmente di un irreparabile inquinamento degli elementi di prova», conclude Giachetti. «Terribili le notizie che arrivano dalla commissione di inchiesta sulla morte del manager del Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, su cui l’ottimo Bobo Giachetti ha presentato una interrogazione quest’oggi», commenta Matteo Renzi nella sua Enews, ribadendo quanto denunciato qualche giorno fa. «Sembra che i Pm abbiano inquinato la scena criminis: non importa aver letto il codice, basta aver visto una serie televisiva per sapere che nessuno può inquinare le prove. E invece pare che ciò sia stato fatto addirittura da dei magistrati, uno dei quali, peraltro, è tanto per cambiare il Pm di Open. Se tutto fosse confermato, sarebbe davvero gravissimo. Che ne pensate?», sottolinea il leader di Italia viva.

Felice Manti per "il Giornale" il 21 dicembre 2021. Mezza Italia indaga sulla strana morte di David Rossi, sui festini gay con alcuni dei magistrati che condussero le indagini sul presunto suicidio del manager Mps e sulle minacce agli escort che hanno avuto il torto di raccontare - prima alle Iene poi alla commissione parlamentare sul giallo di Siena - i retroscena delle orge. Secondo fonti del Giornale ci sarebbero fascicoli aperti con diverse ipotesi di reato attinenti il caso Rossi non solo a Siena e Genova ma anche a Roma, Firenze e Varese. Se anche David Rossi si fosse ucciso, qual è questa «cosa troppo grossa» che ha combinato? Così recita uno dei bigliettini lasciati dal manager, strappati e finiti in un cestino poi «miracolosamente» ricomposti da un pm e gettati in pasto alla stampa e alla Rete a poche ore dalla morte per avvalorare questa ipotesi. Quali misteri ruotano attorno alla vita privata di Rossi e delle persone «che avrebbe potuto mettere nei guai» con i magistrati che indagavano sul crac della banca senese dopo il pasticcio delle obbligazioni che ha affossato conti e ambizioni di una delle banche più vecchie d'Europa, che agli italiani è già costata parecchi miliardi? «Rossi venne sospettato di essere stata la fonte dei giornalisti», ma la vicenda venne chiarita in tribunale, come racconta Davide Vecchi nel suo libro sul suicidio imperfetto», ci dice un cronista che lo conosceva bene. Intanto la commissione presieduta dall'ex Csm Pierantonio Zanettin (Forza Italia) in pochi mesi ha scoperto più cose che due procure in otto anni. Ieri la Procura ligure ha fatto sapere di voler indagare sulle 60 foto (e due video) fatte dalla polizia scientifica nella scena del crimine, magicamente sparite dagli atti a disposizione delle parti e consegnate alla commissione dopo l'audizione choc della funzionaria della Scientifica Federica Romano, come ha scritto per primo Il Giornale. Quali manina li ha tolti dal fascicolo? E perché secretarle? Facile. Dietro quegli scatti all'apparenza innocui ci possono essere dei dettagli sfuggiti finora. Oggi sappiamo con certezza che le prove nell'ufficio di Rossi furono compromesse dall'imperizia di chi, rovesciò il cestino, rovistò sulla scrivania, spostò libri e oggetti. Resta da capire se il racconto fatto alla commissione dall'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, anch' egli avvistato ai festini da un escort (audito in commissione che lo stesso Aglieco ammette di aver pedinato il giorno della sua deposizione fin sotto palazzo San Macuto), sia o meno affidabile. La presenza di Aglieco nell'ufficio di Rossi non è a verbale ma ci sono foto che lo ritraggono sulla scena. E alcuni inquirenti ricordano una sua sfuriata con la Questura sulla competenza a indagare, davanti ai pm spazientiti per il litigio («Qui stiamo lavorando, piantatela...»). «Gli atti di indagini alla base dei due provvedimenti di archiviazione della Procura senese sono incompleti», dice al giornale Carmelo Miceli, deputato Pd e legale della famiglia Rossi che vuole riaprire il caso, «ma ora è necessario che la vicenda non sia più trattata con indagini spezzatino che allontanano la verità». Oggi intanto la commissione sarà a Siena, I Ris dovranno simulare la caduta di Rossi da terzo e quarto piano. Ieri Mps avrebbe preteso una pulizia straordinaria del palazzo, richiamando il responsabile dalle ferie. 

Renzi smonta l'inchiesta Open. Il Pd giustizialista sta coi pm. Felice Manti il 15 Dicembre 2021 su Il Giornale. Accusati da un inquirente di depistaggio, scaricati dai colleghi e dall'Anm, difesi da Pd e Cinque stelle. Per i pm del caso David Rossi sono giorni difficili. Accusati da un inquirente di depistaggio, scaricati dai colleghi e dall'Anm, difesi da Pd e Cinque stelle. Per i pm del caso David Rossi sono giorni difficili. Uno di loro, Antonino Nastasi, è nel mirino di Matteo Renzi perché indaga sulla Fondazione Open assieme al pm Luca Turco. Ieri la giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha respinto la pregiudiziale presentata da Pietro Grasso (Leu) dopo la memoria del leader di Italia Viva che dimostrerebbe come i due pm di Firenze abbiano violato la Costituzione in fase di indagine. Colpa di una chat di Renzi agli atti sebbene fosse già senatore. I parlamentari M5s e Pd si sono astenuti, mostrando ancora una volta di essere sottomessi alle toghe e al peggior giustizialismo, come commenta l'ex premier: «Io non chiedo di evitare il processo. La Giunta riconosce un comportamento illegittimo e incostituzionale che dimostrerò in tutte le sedi. Spiace per un partito riformista e garantista come il Pd che oggi insegue M5s e i suoi adepti nel peggior populismo, quello giudiziario». In Aula M5s per bocca di Giuseppe Conte ha già detto che voterà contro il rinvio alla Corte costituzionale. Insomma, pur di fare un dispetto all'ex segretario il Pd - con un voto che pare abbia irritato Andrea Marcucci - ha deciso di abdicare all'indipendenza di Palazzo Madama.

Un tempismo sbagliato, proprio adesso che la solidità corporativa delle toghe mostra delle crepe che ne mettono in dubbio la storia e la credibilità. Tanto che persino l'Anm ha deciso di scaricare i pm del caso Rossi. «Non sono questioni di cui mi occupo», dice al Giornale il presidente del sindacato delle toghe Giuseppe Santalucia, che fa spallucce di fronte alle gravissime rivelazioni alla commissione sul caso Mps del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, che ha raccontato un gravissimo inquinamento probatorio dell'ufficio dal quale si sarebbe lanciato il 6 marzo 2013 il manager della comunicazione della banca, appena sfiorato dall'inchiesta sulla scalata Antonveneta.

Si tratta pur sempre di un cestino rovesciato su una scrivania, fazzolettini sporchi di sangue spostati, la finestra da cui sarebbe precipitato chiusa, i suoi effetti personali come il telefonino toccati o mossi, presunti bigliettini d'addio che sembrano portati via dalla scena del crimine da uno dei pm, molto prima che la Scientifica potesse cristallizzare la scena del crimine. Tra i magistrati c'è chi legge questa mossa dell'Anm come una sorta di dispetto anche all'ex presidente Eugenio Albamonte, che nel 2017 proprio a Siena aveva convocato il congresso incentrato sulla «visibile perdita di credibilità della magistratura». Parole quanto mai profetiche.

Ma per capire se questa mossa sia o meno una pietra tombale sui magistrati che hanno archiviato i sospetti dei familiari, confermando l'ipotesi del suicidio nonostante i mille più che ragionevoli dubbi sollevati soprattutto dai servizi delle Iene, bisognerà aspettare di capire come si comporterà la Procura di Genova, investita dal presidente della commissione Pierantonio Zanettin delle rivelazioni di Aglieco. A quanto apprende l'Ansa, la Procura ligure sarebbe pronta ad aprire un fascicolo per favoreggiamento, omissione d'atti d'ufficio e falso. Nel mirino lo stesso Nastasi, Aldo Natalini e Nicola Marini. Il problema è che Genova aveva già scandagliato l'ipotesi che i festini gay a cui avrebbero partecipato questi ultimi due e lo stesso Aglieco - come ha confermato ai pm liguri, alle Iene e alla commissione un escort, minacciato da lettere anonime e pedinato fin sotto la commissione dal colonnello, al tempo ex comandante provinciale a Siena - abbiano in qualche modo ostacolato o inquinato le indagini sulla strana morte di Rossi. E dire che anche Aglieco era stato ascoltato dai pm di Genova. Mentre invece non è mai stato interrogato l'ex carabiniere che accusa almeno uno dei tre pm di aver insabbiato le indagini sui festini. La Procura cambierà idea? Non canta vittoria il legale della famiglia Carmelo Miceli, deputato Pd. «Mi auguro che la questione non venga archiviata per prescrizione», dice al Giornale. «Anche se a me interessa solo sapere come è morto David Rossi». D'altronde, persino l'ex deputato di Forza Italia Giancarlo Pittelli, nei guai per 'ndrangheta e legato guarda caso anche all'ex numero uno di Mps Giuseppe Mussari, in un audio reso noto dall'emittente calabrese LaC e rilanciato dalle Iene aveva detto: «Rossi è stato ammazzato, se si sa chi è stato...». Mussari sarà a breve ascoltato dalla commissione, Pittelli chissà...

Intanto i parlamentari saranno presto in missione a Siena assieme ai carabinieri di Ris, Ros e Racis. «Valuteremo bene se la caduta è compatibile con quello che ad oggi è emerso - dice al Giornale Walter Rizzetto di Fdi, uno degli ispiratori della commissione - e le anticipo che grazie a un software simuleremo anche una caduta da un piano diverso dal terzo». La famiglia invoca l'intervento del Guardasigilli affinché il ministro Marta Cartabia mandi presto gli 007 a Siena e a Genova e prepara una conferenza stampa per domani.

Sollecitato dal Giornale, il Csm invece tace sul futuro dei tre magistrati. Altro segnale che il loro destino appare in qualche modo segnato. Felice Manti

Giallo della morte di Davide Rossi, il mistero della pratica disciplinare contro i pm Natalini e Marini. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Ma che fine ha fatto la pratica disciplinare, se è stata poi aperta, nei confronti dei pm Aldo Natalini e Nicola Marini? I nomi dei due magistrati vennero fatti da Matteo Bonaccorsi, l’ex escort di Varese, ora assistente dell’europarlamentare della Lega Alessandro Panza. Bonaccorsi dichiarò di averli visti in alcuni festini omosex che si sarebbero tenuti in una villa nei dintorni di Siena. Natalini e Marini, insieme al collega Antonino Nastasi, quest’ultimo ora alla Procura di Firenze e titolare del fascicolo sulla Fondazione Open di Matteo Renzi, erano stati fra i primi ad entrare nell’ufficio di Davide Rossi, l’ex capo della comunicazione di banca Monte Paschi, deceduto cadendo nel vuoto dalla finestra del suo ufficio la sera del 6 marzo 2013. Lo scorso gennaio il gip di Genova Maria Franca Borzone aveva deciso di trasmettere, tramite il procuratore generale del capoluogo ligure, gli atti dell’indagine al pg della Cassazione Giovanni Salvi. Notare che si tratta dello stesso gip che aveva archiviato il fascicolo “a prescindere da potenziali censure disciplinari, ravvisabili ove nei fatti esposti venga rilevato un pregiudizio per il prestigio della magistratura”. A Genova era stato iscritto un procedimento per abuso d’ufficio nei confronti dei pm che avevano svolto le indagini sulla morte di Rossi. Gli inquirenti liguri avevano sottolineato che tali indagini, pur “caratterizzate da carenze investigative”, non presentavano però gli elementi costitutivi dell’ipotizzato reato di abuso d’ufficio. Ad esempio il dolo finalizzato ad ostacolare la verità per conseguire un ingiusto vantaggio. La confisca e la distruzione dei “fazzoletti di carta imbrattati di presunta sostanza ematica” sequestrati nell’ufficio di Rossi, oggetto di polemiche a non finire, sarebbe invece rientrata nella piena discrezionalità del magistrato. Ma veniamo ai conflitti d’interessi e quindi all’intreccio tra i potenziali sviluppi dell’indagine e la posizione degli stessi magistrati. “Quand’anche i due magistrati avessero partecipato ad alcuni dei festini, per ciò solo non potrebbe parlarsi di conflitto concreto d’interessi”, scrive il giudice. Durante lo svolgimento delle prime indagini, poi, “non vi erano state le rivelazioni di Bonaccorsi”. Natalini era stato poi indagato per il reato di violazione del segreto d’ufficio per avere rivelato circostanze dell’indagine su Mps ad un suo amico avvocato che era intercettato. Il procedimento era stato archiviato e Natalini trasferito in Cassazione. Lo stesso dicasi per lo sfruttamento della prostituzione. Anche in questo caso il gip non ha rinvenuto elementi da cui si possa desumere che i due magistrati siano stati fra gli organizzatori dei festini o i procacciatori degli escort. La deposizione di Bonaccorsi ha comunque avuto un “primo vaglio positivo di attendibilità” ai fini della responsabilità disciplinare. Si tratta di circostanze che hanno una “parvenza di realtà e vanno circoscritte e ulteriormente vagliate”. In attesa di conoscere, allora, le determinazioni di Salvi, dopo la deposizione del colonnello Pasquale Aglieco, l’ex comandante provinciale di Siena e altro partecipante, secondo Bonaccorsi, ai festini, il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi, Pierantonio Zanettin, è intenzionato a trasmettere nuovamente gli atti a Genova per valutare le condotte tenute dai tre pm. “Quando siamo entrati l’ufficio era in ordine”, aveva detto Aglieco, ed il pm Nastasi “si è posizionato sulla sedia di Rossi e ha iniziato a toccare il pc per vedere se era acceso, poi con una penna ha rovistato nel cestino dei rifiuti, prima di rovesciarlo tutto sulla scrivania, dove erano stati sposati gli oggetti presenti, per controllarne il contenuto”. Nel cestino vi erano i fazzoletti macchiati di sangue e alcuni biglietti, aggiunse Aglieco. Il pm Natalini rispose anche ad una telefonata della parlamentare Daniela Santanchè, arrivata sul cellulare dell’allora manager della comunicazione della Banca Monte dei Paschi di Siena. E rispose anche al giornalista Tommaso Strambi. Dai tabulati era emerso che la telefonata con Santanchè durò 38 secondi. I rifiuti finiti sulla scrivania verranno poi rimessi all’interno del cestino. “Sono sconvolto”, il commento di Matteo Renzi al racconto di Aglieco. Paolo Comi

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2021. Che cosa avrà raccontato questa volta Matteo Bonaccorsi, l'escort di Cuvio, paesino di poco più di mille anime in provincia di Varese, divenuto famoso al grande pubblico per aver rivelato al programma Mediaset Le Iene l'esistenza di una villa nei dintorni di Siena dove si sarebbero svolti festini omosex in cui erano coinvolti anche magistrati?

Bonaccorsi, attuale assistente dell'europarlamentare della Lega Alessandro Panza, è stato sentito in gran segreto il mese scorso dalla Commissione parlamentare d'inchiesta che sta indagando sulla morte di David Rossi, allora responsabile della Comunicazione di Banca Monte Paschi, precipitato dalla finestra del suo ufficio di Rocca Salimbeni la sera del 6 marzo 2013. Suicidio o qualcosa d'altro? E dunque, in forma super secretata, Bonaccorsi è stato convocato a Palazzo San Macuto.

A dare notizia della sua deposizione, che sarebbe dovuta rimanere top secret, era stato il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, convocato a sua volta per essere interrogato dai commissari. Aglieco, ex comandante provinciale di Siena e fra i primi ad intervenire in vicolo Monte Pio dove venne trovato il cadavere riverso al suolo di Rossi, venne tirato in ballo proprio da Bonaccorsi, proprio nell'ambito dei festini a sfondo sessuale. L'assistente parlamentare leghista aveva infatti raccontato alle Iene, sempre con il volto travisato, di essersi prostituito durante questi festini a base di cocaina e sesso, sia gay che bisex, in una dimora da egli poi indicata in Borgo San Luigi, nel 2012. A questi incontri conviviali un po' particolari avrebbero partecipato importanti uomini dell'establishment senese e, soprattutto, magistrati ed esponenti delle forze di polizia che indagavano sulla morte di Rossi.

Le dichiarazioni di Bonaccorsi determinarono l'apertura di un'inchiesta da parte della Procura di Genova, competente su reati eventualmente commessi dai colleghi toscani. Nel caso di specie, il reato non era l'aver partecipato al festino gay a base di cocaina, ma quello di abuso d'ufficio circa la modalità di conduzione delle indagini sulla morte di Rossi. Interrogato dal procuratore Ranieri Minati e dalla collega Cristina Camaiori, Bonaccorsi raccontò come ebbe inizio la sua attività di prostituto, dopo aver compiuto 18 anni, «avendo dei dubbi sulla mia identità sessuale».

Essendo all'epoca in difficoltà economiche, Bonaccorsi iniziò a prostituirsi con un professore d'Università Bicocca, sposato e con figli, tale "Mario". Ed era stato Mario a portarlo nella villa di Siena, «lui mi disse che aveva conoscenti che tenevano delle feste in ville o appartamenti cui partecipavano persone danarose. Il primo festino cui ho partecipato si è svolto nell'autunno del 2012».

Nel verbale vengono descritte con dovizia di particolari le modalità dei festini: «Dopo cena ci siamo spostati in un altro bungalow dove ci hanno raggiunto una decina di persone, tra cui ricordo due ragazze con accento dell'est». E ancora: «Si è iniziato a bere alcolici, qualcuno ha fatto uso di cocaina e di spinelli e poi ho notato che le persone iniziavano ad appartarsi, chi con un ragazzo, chi con due, chi con le ragazze. Erano tutte persone dai 40 anni in su, dall'aspetto distinto». Bonaccorsi, precisando che «a Siena avrò partecipato a circa una quindicina di festini», parla anche dei compensi, «che variavano a seconda della durata della festa, da mille euro a un massimo di quattromila, sempre in contanti».

Mai passaggi più delicati sono quelli che riguardano i magistrati della procura di Siena e anche lo stesso Monte Paschi. «I partecipanti variavano tra la decina e la quindicina di persone- spiega Bonaccorsi-, più o meno sempre le stesse. Dai loro discorsi ho capito che qualcuno di loro lavorava a Monte Paschi».

Poi i magistrati genovesi gli mostrano una foto di Aldo Natalini, ai tempi titolare dell'inchiesta sulla morte di David Rossi: «L'ho visto appartarsi con un ragazzo in una stanza. Non è stato mio cliente singolo, ma ricordo un rapporto di gruppo. Ricordo persone che si masturbavano e avevano rapporti orali, ma non ricordo con precisione che cosa stesse facendo lui».

E anche un'altra foto, questa volta di Nicola Marini, altro pm che indagò su Rossi: «Riconosco la persona - dichiara Bonaccorsi - per averlo visto in un festino consumare un rapporto sessuale con un altro ragazzo». Salvo poi precisare che non sono sicuro si tratti della persona che ho visto ai festini». In ogni caso, l'indagine si era chiusa con un nulla di fatto e la testimonianza di Bonaccorsi non era stata ritenuta affidabile dalla Procura genovese, che aveva chiesto l'archiviazione del fascicolo. Peraltro, i pm ed Aglieco hanno poi denunciato Bonaccorsi per calunnia. Una storia quanto mai torbida su cui sarebbe il caso che venisse fatta luce.

Caso David Rossi, scomparsi 61 foto e 2 video: i retroscena. Caso David Rossi: le rivelazioni del deputato Rizzetto sul testimone non verbalizzato dai pm di Siena. La vicenda sarà trattata anche dall'Antimafia. Simona Musco su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Sessantuno foto e due video girati dalla polizia spariti dal fascicolo. E poi un testimone, che ha riferito ai pm di aver incontrato David Rossi in via Vallerozzi, qualche ora prima della sua morte, le cui parole non sono mai state verbalizzate. Sono queste le ultime novità sulla morte del capo della comunicazione del Monte dei Paschi, volato giù dal terzo piano del suo ufficio di Rocca Salimbeni, a Siena il 6 marzo 2013.

Le foto, di cui ha parlato Massimo Giletti a Non è l’Arena, su La7 mercoledì sera, sono state realizzate da Federica Romano, operatrice della scientifica intervenuta quella notte nella stanza in cui lavorava Rossi. Il materiale, custodito negli archivi della questura di Siena, è stato acquisito dalla Commissione parlamentare istituita a marzo scorso per indagare sulla vicenda.

David Rossi, parla il deputato Rizzetto

Dell’esistenza di un testimone, invece, ne ha parlato ieri il deputato di Fdi e componente della Commissione Walter Rizzetto, nel corso di una conferenza stampa alla Camera. «Abbiamo cercato, trovato e parlato con una persona, la cui testimonianza è ritenuta molto affidabile, che colloca David Rossi in via Vallerozzi, in giorno della morte tra le 15.30 e le 16. Rossi cammina con un cappuccio, piove, è nel vicolo e sovrappensiero si scontra con questa persona. Ma la cosa importante e grave è che questa persona, da buon cittadino, ha rilasciato una dichiarazione spontanea agli inquirenti dove dice che Rossi stava parlando. Gli inquirenti non hanno verbalizzato una deposizione spontanea di un cittadino che aveva fatto dichiarazioni spontanee – ha evidenziato -. Questa persona, che verrà chiamata per una testimonianza in Commissione, mi ha riferito che gli è stato detto di non preoccuparsi, che Rossi in quel giorno era molto provato e probabilmente stava parlando da solo perché non usava gli auricolari».

Il legale della famiglia di David Rossi

Per Carmelo Miceli, legale della famiglia, «era doveroso, in un contesto di istigazione al suicidio, verbalizzare chi spontaneamente aveva avvertito la necessità di recarsi innanzitutto all’autorità giudiziaria per riferire qualcosa». Che queste dichiarazioni spontanee «non siano agli atti è di una gravità inaudita», ha concluso Miceli, che ha chiesto al ministero della Giustizia «di vigilare e garantire il buon andamento dell’amministrazione giudiziaria attraverso la verifica, che può e che deve fare, sul perché alcune indagini vengono iscritte a modello 45 e non per fatti costituenti reati, perché alcune procure continuano a rimpallarsi la competenza, perché all’istanza che abbiamo fatto, reiteratamente al tribunale di Genova, di restituzione degli effetti personali di David, ancora oggi, non abbiamo avuto riscontro». Nel corso della conferenza stampa Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi, moglie di Rossi, ha chiesto verità e giustizia. «Per tanti anni ci hanno dato delle visionarie, delle complottiste e oggi sappiamo che le nostre non erano visioni», ha affermato.

Le dichiarazioni di Pittelli sul caso di David Rossi

Nel frattempo anche il presidente della Commissione antimafia, Nicola Morra, ha annunciato di voler approfondire la vicenda, anche alla luce dell’intercettazione captata nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita Scott”, della Dda di Catanzaro, che vede come protagonista l’ex senatore Giancarlo Pittelli, a processo per concorso esterno: «Se riaprono le indagini sulla morte di David Rossi succederà un casino grosso – disse l’avvocato al proprio interlocutore -. Non si è suicidato, è stato ucciso». Secondo Morra, «si deve ragionare anche sul contesto che può spiegare tante cose» e il contesto «rinvia, ad esempio, alla penetrazione di ’ndrangheta in Toscana, a rapporti storicamente solidissimi tra massoneria toscana e calabrese».

Anche la commissione antimafia si occuperà della morte di David Rossi

La Commissione, martedì, sarà a Siena. L’intento è approfondire quanto emerso a seguito dell’audizione di Pasquale Aglieco, all’epoca dei fatti comandante provinciale dei carabinieri di Siena e uno dei primi ad arrivare sulla scena la sera del 6 marzo 2013. Aglieco ha raccontato del sopralluogo effettuato all’interno dell’ufficio di Rossi insieme ai pubblici ministeri Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi. Quest’ultimo si sarebbe seduto sulla sedia di Rossi accendendo il computer, manovrando il mouse con una penna. Uno dei tre pm, inoltre, avrebbe svuotato sulla scrivania il cestino contenente i fazzolettini sporchi di sangue e i bigliettini indirizzati alla moglie. Inoltre Nastasi avrebbe risposto al telefono di Rossi, che aveva ricevuto una chiamata da Daniela Santanché.

La procura di Genova, intanto, è pronta ad aprire una nuova inchiesta sull’operato dei magistrati. Il tutto mentre la famiglia attende da tempo la restituzione degli effetti personali di Rossi, consegnati dalla stessa «nella speranza che aprisse l’indagine e nel farlo gli abbiamo affidato tutto quello che c’è dentro quegli atti», ha affermato Miceli. Ma ad oggi vengono «trattenuti indebitamente quegli effetti personali e non sappiamo dove, con quali modalità e catene di custodia. Chiediamo allo Stato di fare lo Stato».

«Perché ci impediscono di indagare sulla strana morte di David Rossi?» Parla l'onorevole Carmelo Miceli (Pd), difensore della famiglia dell'ex capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 12 dicembre 2021. «Mi aspetto che il Csm disattenda il parere del consigliere Nino Di Matteo. Anzi, mi auguro che scriva un parere nel quale il nulla osta ai due magistrati sia dato in maniera convinta e senza alcuna incertezza». A dichiaralo è l’onorevole Carmelo Miceli (Pd), componete della Commissione giustizia della Camera e della Commissione antimafia, attuale difensore della famiglia dell’ex capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, Davide Rossi, morto la sera del 6 marzo 2013 lanciandosi nel vuoto dal suo ufficio di Rocca Salimbeni.

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Rossi, presieduta dall’onorevole Pierantonio Zanettin ( FI), nelle scorse settimane aveva chiesto al Csm di potersi avvalere della collaborazione di due magistrati, la pm trentina Patrizia Foiera e il giudice di Cassazione Michele Romano. La Commissione sta procedendo a nuovi interrogatori e ad acquisizioni di documenti, ed ha anche dato l’incarico al Reparto investigazioni scientifiche dell’Arma (Ris) di effettuare una super perizia sulla caduta di Rossi dalla finestra dell’ufficio.

Il pm antimafia Di Matteo, a sorpresa, aveva dato parere negativo alla richiesta di Zanettin, affermando che i due magistrati avrebbero svolto un incarico in “piena ed evidente sovrapponibilità” agli accertamenti della magistratura. Un incarico “inopportuno” alla luce di ‘ preservare sotto il profilo dell’immagine i valori dell’indipendenza e dell’imparzialità della funzione giudiziaria”. Un diniego, come detto, inaspettato dal momento che il Csm è solito autorizzare tutto l’autorizzabile per quanto concerne la partecipazione di magistrati a Commissioni parlamentari d’inchiesta, come ricordato dal togato di Palazzo dei Marescialli Antonio D’Amato che ha parlato di autorizzazioni a “fiumi”.

Onorevole Miceli, il Csm non vuole autorizzare la partecipazione di due magistrati (a titolo gratuito e senza collocazione in posizione di fuori ruolo, ndr) alla Commissione d’inchiesta.

Ho mandato al riguardo una lettera urgente al vice presidente del Csm David Ermini. Mi pare semplicemente paradossale quanto sta accadendo. Il modo in cui sono state condotte le indagini è la ragione stessa per la quale è stata istituita la Commissione d’inchiesta. Sembra invece che si stia operando per lasciare per sempre il dubbio su come sia effettivamente morto Rossi.

Lei, ovviamente, non crede alla storia del suicidio con cui è stata archiviata la morte di Rossi?

Noi vorremmo fare delle indagini difensive per richiedere l’apertura del fascicolo ma ci viene impedito.

Soprattutto alla luce dell’audizione dell’ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, il colonnello Pasquale Aglieco….

Certo. Il colonnello ha dichiarato in Commissione l’altra sera che i pm di Siena, ad iniziare da Antonino Nastasi, dopo essere entrati nel luogo dove si è consumato il delitto, avevano rovistato il contenuto del cestino sulla sua scrivania, avevano spostato oggetti, avevano risposto al telefono di Rossi che era appena morto e, addirittura, avevano chiuso la finestra da dove si sarebbe lanciato. E tutto ciò prima dell’arrivo della Scientifica per i rilievi del caso.

Un modo di fare un sopralluogo alquanto originale…

E un oggettivo inquinamento della scena del crimine. Se è volontario deve essere sottoposto a procedimento penale, se non è volontario è ugualmente gravissimo.

Qual è lo stato d’animo della famiglia?

La famiglia è stanca di sentirsi dire che è un suicidio…

E lei cosa si aspetta?

Che la Procura competente svolga accertamenti su come sono state fatte le indagini E vogliamo gli effetti personali di Rossi posti sotto sequestro da allora per fare le indagini difensive.

Fisicamente dove dovrebbero essere?

A Genova.

Per curiosità, che motivazione scrivono i magistrati per non dissequestrare gli effetti personali di Rossi a distanza di otto anni?

Quando il gip di Genova ha archiviato il fascicolo per abuso d’ufficio che era stato aperto per verificare le modalità con cui erano state condotte le indagini dai pm di Siena, ha ordinato al pm della sede la trasmissione degli atti nella città toscana. Il pm ha trasmesso solo gli atti ma non gli effetti personali, come il pc, l’hard disk ed altro. Io, allora, ho chiesto anche questi oggetti. Il pm a quel punto, però, scrive che è “incompetente’. Un provvedimento abnorme.

Ha fiducia che si possa far luce su quanto accaduto?

Guardi, le dico solo che io non mollo. Fino a quando avrò l’onore di indossare la toga non consentirò a nessuno di mortificare il diritto alla verità dei miei assistiti. Spero che la Commissione d’inchiesta possa fare luce su quanto accaduto quella sera.

Il caso sollevato da 'Non è l’Arena'. Morte David Rossi, il giallo di foto e video inediti. La ‘consulente’ di Mps: “Nessuna percezione del suicidio”. Redazione su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. Spuntano nuovi elementi sul mistero che ruota attorno alla morte di David Rossi. Si tratta di 61 foto e due video girati dalla polizia la sera del 6 marzo 2013, giorno del decesso del dirigente di Mps. È materiale inedito, perché otto anni fa non è stato allegato al fascicolo aperto dai pm senesi che indagavano sul caso di Rossi, morto dopo essere volato giù dal terzo piano del suo ufficio di Rocca Salimbeni, a Siena.

Il materiale, mostrato in esclusiva durante la trasmissione di Massimo Giletti ‘Non è l’Arena’ in onda su La7, potrebbe fare luce sul decesso del responsabile comunicazione di Mps. “Mi hanno chiamato dicendo che nel fascicolo la polizia aveva portato altre 61 fotografie e due filmati di cui non c’è più traccia”, ha Massimo Giletti durante la trasmissione televisiva mostrando alcuni frammenti di video dei primi rilievi raccolti nell’ufficio di Rossi. La morte dell’uomo, avvenuta nel 2013 in circostanze mai del tutto chiarite, è stata classificata dalla procura come suicidio.

Nel faldone della procura risultavano già 60 fotografie, realizzate da una operatrice della scientifica, Federica Romano, intervenuta la notte della decesso, scattando e filmando sequenze sullo stato dei luoghi all’interno della stanza in cui lavorava Rossi. È stata la stessa Romano a parlare lo scorso 25 novembre dell’esistenza delle immagini durante un’audizione alla Camera: il materiale è stato acquisito successivamente dalla commissione parlamentare istituita nel marzo scorso per indagare sulla morte di Rossi.

La rivelazione a distanza di otto anni dal decesso di foto e i video non allegati al faldone della procura solleva dubbi su come siano state svolte le indagini. Nei giorni scorsi il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, davanti alla commissione parlamentare istituita per far luce sulla morte di David Rossi, aveva raccontato che il pm senese Nastasi, subito dopo la morte di David Rossi, avesse risposto a una chiamata arrivata sul telefono del dirigente di Mps. E questo, secondo le testimonianze di Aglieco, sarebbe avvenuto mentre il pm era nell’ufficio di Rossi per i primi rilievi. Le affermazioni del colonnello aprono quindi all’ipotesi di inquinamento della scena di un possibile crimine.

Anche la coach Carla Ciani, consulente aziendale di Mps, è stata ascoltata in commissione. La donna vide David Rossi proprio il giorno della sua morte. “Ci siamo salutati dicendoci: ‘Ci vediamo il 13, lui era in piedi e mi disse ‘Grazie di tutto, mi ha fatto bene parlare un po’’ — ha detto Ciani —. Questa è l’ultima immagine che ho di David”, ha riferito. Ciani ha raccontato alla commissione di non aver avuto la percezione di uno stato di ansia vissuto da David Rossi e, tanto meno, che avrebbe potuto “prendere una decisione del genere”. E poi la consulente aziendale ha aggiunto: “Ho lasciato una persona lucida e anche sul pezzo rispetto alle cose che avrebbe dovuto fare”.

L’Ufficio di presidenza della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi ha deliberato la trasmissione al Consiglio superiore della magistratura, al Procuratore generale presso la Cassazione e alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Genova la copia dei resoconti stenografici, anche nella parte segreta, dell’audizione del colonnello dei Carabinieri Pasquale Aglieco, che si è svolta il 9 dicembre scorso, di quella del luogotenente dei carabinieri Roberto Nesticò, avvenuta il 2 dicembre scorso, dell’assistente capo coordinatore della Polizia Federico Gigli, del vice ispettore della Polizia Livio Marini e dell’assistente capo coordinatore della Polizia Federica Romano, che si sono svolte il 25 novembre scorso.

Inoltre, come rende noto il presidente della Commissione, Pierantonio Zanettin, la commissione ha inoltre deciso la trasmissione al Csm, al Procuratore generale presso la Cassazione e alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Genova anche della copia delle 121 fotografie scattate dall’assistente capo coordinatore della Polizia Federica Romano, la sera del 6 marzo 2013, quando effettuò il sopralluogo dopo la morte di David Rossi, nonché le copie dei due video che la stessa Romano girò quella sera nel corso del medesimo intervento. Parte dei citati resoconti, oltre alle fotografie e i video girati nella sera del 6 marzo 2013 dall’assistente Romano restano soggetti – si specifica – al regime della secretazione.

Il giallo sulla morte. Morte David Rossi, la deposizione del colonnello Aglieco getta nuove ombre sul mistero del suicidio del capo della comunicazione di Mps. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Chiamate subito il generale Luciano Garofolo, l’ex mitico comandante del Ris, la “scientifica” dell’Arma, per un corso urgente sul modo in cui deve essere condotto un corretto sopralluogo. Se il generale Garofolo non fosse eventualmente disponibile per impegni già presi, potrebbe essere allora sufficiente anche la visione di un paio di puntate di Csi Miami. Il racconto dell’ex comandante provinciale di Siena, il colonnello Pasquale Aglieco, mette si brividi e merita di essere visto integralmente (è disponibile sul sito della Camera, ndr).

Ma iniziamo dalla fine. Secondo la sua deposizione i pm Antonino Nastasi, Nicola Marini e Aldo Natalini, che entrarono prima della Scientifica nell’ufficio di Davide Rossi – l’ex capo della comunicazione della Banca Monte Paschi di Siena, morto la sera del 6 marzo 2013 – toccarono il pc, rovesciarono il contenuto del cestino sulla scrivania e chiusero la finestra. Così la scientifica trovò la stanza. Dice l’onorevole Carmelo Miceli (Pd), difensore della famiglia Rossi che furono condotte azioni “in sfregio a qualsiasi buona pratica sui sopralluoghi e le ispezioni”.

Dei tre pm soltanto Marini è ancora a Siena: Nastasi è ora pm a Firenze, e sta conducendo le indagini sulla Fondazione Open di Matteo Renzi, Natalini, invece, è in Cassazione. Aglieco ha deposto l’altro giorno davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte Rossi, presieduta da Pierantonio Zanettin (Fi).

Il colonnello, ora alla Scuola ufficiali carabinieri di Roma, era presente nel vicolo di Monte Pio la sera che Rossi si schiantò al suolo. Una presenza che fece discutere. Aglieco era stato fra i primi ad arrivare sul posto affermando di aver raggiunto vicolo di Monte Pio, dove era precipitato Rossi, dopo aver comprato un pacchetto di sigarette in piazza Matteotti e aver seguito una volante della polizia. L’ex comandante provinciale dei carabinieri aveva chiesto di essere ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta per chiarire la propria posizione anche alla luce delle dichiarazioni dell’escort dei vip Matteo Bonaccorsi alla trasmissione Le Iene. Aveva fatto il suo nome come partecipante ai “festini” in una villa sulle colline di Siena. Con l’accesso alla strada chiuso e con il corpo di Rossi riverso senza vita al suolo, esordisce Aglieco, “lo raggiungono i tre pm”. Aglieco, insieme al maresciallo della locale stazione, e ai magistrati, decide “di salire nell’ufficio di Rossi”.

“Quando siamo entrati nell’ufficio tutto era in ordine”, continua Aglieco, ed il pm Nastasi “si è posizionato sulla sedia di Rossi e ha iniziato a toccare il pc per vedere se era acceso, poi con una penna ha rovistato nel cestino dei rifiuti, prima di rovesciarlo tutto sulla scrivania, dove erano stati spostati gli oggetti presenti, per controllarne il contenuto”. Nel cestino vi erano i fazzoletti macchiati di sangue e alcuni biglietti, ricorda Aglieco. Il pm Natalini rispose anche ad una telefonata della parlamentare Daniela Santanchè, arrivata sul cellulare dell’allora manager della comunicazione della Banca Monte dei Paschi di Siena. E rispose anche al giornalista Tommaso Strambi. Dai tabulati era emerso che la telefonata con Santanchè durò 38 secondi. I rifiuti finiti sulla scrivania verranno poi rimessi all’interno del cestino. Uno dei tre pm, secondo il racconto di Aglieco (che non ne dice il nome) avrebbe poi chiuso la finestra da dove era precipitato Rossi. “Tutto senza guanti”, ricorda più volte Aglieco.

Le dichiarazioni del colonnello hanno lasciato senza parole i componenti della Commissione. Non è certo quello il modo di effettuare un sopralluogo. “E se nel cestino dei rifiuti ci fosse stato un bicchiere di caffè? Cosa sarebbe successo?”, ha domandando uno dei componenti della Commissione. “Ma le pare il modo questo di fare un sopralluogo”, ha aggiunto un altro. Aglieco ha, invece, detto che è “rituale”, ricordando che “il pm è padrone delle indagini e risponde solo al gip”. La scientifica, per la cronaca, arriverà ore dopo. Pensando che la finestra fosse stata sempre chiusa e che il cestino dei rifiuti fosse sempre stato in quella posizione. E già: del “sopralluogo” effettuato da Aglieco e dai pm non è mai stato redatto un verbale. Anzi, la presenza del colonnello non compare da nessuna parte. Prima di questa settimana. Paolo Comi

Morte David Rossi e il caso Mps, il pm rispose al telefono del manager. Aldo Tani su Il Corriere della Sera l'11 dicembre 2021. Le rivelazioni dell’ex comandante dei carabinieri, Pasquale Aglieco, davanti alla commissione parlamentare che cerca di fare luce sulla vicenda. Un’audizione destinata a lasciare il segno. Pasquale Aglieco, davanti alla commissione che indaga sulla morte di David Rossi , ha fornito una serie di informazioni mai emerse negli 8 anni trascorsi dal decesso del manager. A partire dal sopralluogo effettuato nell’ufficio del responsabile della comunicazione di Banca Mps. «Il pm Antonino Nastasi si è seduto sulla sedia di Rossi e ha iniziato a guardare la scrivania — ha raccontato l’ex comandante dei carabinieri di Siena —. Poi ha perlustrato il cestino (che conteneva anche i fazzoletti impregnati di sangue, ndr), prima di rovesciarlo sul tavolo». Aglieco ha poi fornito un altro dato inedito. Con Rossi ormai cadavere in vicolo di Monte Pio, sul suo cellulare arrivano due chiamate. La prima è del giornalista della Nazione, Tommaso Strambi, l’altra è della senatrice Daniela Santanchè. Questa telefonata ottiene una risposta, fatto finora sconosciuto, e come ha dichiarato il carabiniere: «Mi sembra che a rispondere fu il procuratore Nastasi». La commissione il 21 dicembre sarà a Siena per un sopralluogo

“Dopo la morte di David Rossi il pm rispose al suo cellulare”. Quella sera a chiamare fu anche Daniela Santanché. Luca Serranò su La Repubblica il 10 Dicembre 2021. La deposizione dell'ex comandante dei carabinieri di Siena davanti ai parlamentari. Il magistrato ad alcuni colleghi: "Nessuna irregolarità, non andò così". Dopo il rinvenimento del cadavere, sul cellulare di David Rossi arrivò una telefonata della parlamentare Daniela Santanché. E il pm che stava dirigendo il primo sopralluogo, Antonino Nastasi, rispose alla telefonata. E' quanto dichiarato giovedì scorso dall'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, Pasquale Aglieco, davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta che indaga sulla tragedia del manager di Mps, precipitato da una finestra di Rocca Salimbeni la sera del 6 marzo 2013 in circostanze mai del tutto chiarite.

Claudio Bozza per corriere.it l'11 dicembre 2021. È la sera del 6 marzo 2013. David Rossi, capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, è stato appena trovato morto sotto la finestra del suo ufficio di Rocca Salimbeni, sede della banca che in quel periodo era nell’occhio del ciclone per l’inchiesta sul crac della banca condotta dai pm Marini, Natalini e Nastasi. Proprio uno di loro, Antonino Nastasi, «mentre eravamo nell’ufficio del manager per un primo sopralluogo rispose al cellulare di Rossi, ad una telefonata di Daniela Santanchè» (allora deputata di Forza Italia), ha raccontato il colonnello Pasquale Aglieco, all’epoca comandante provinciale dei carabinieri di Siena, durante un’audizione fiume di 5 ore davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta (qui il video) istituita per tentare di fare luce sulla morte del manager Mps.

Daniela Santanchè, oggi senatrice di Fratelli d’Italia, lei scoprì da quella telefonata che David Rossi era morto?

«No. Lo scoprii appena pochi minuti dopo, leggendo le agenzie. Rimasi sconvolta, la stessa sensazione davanti a questa nuova testimonianza». 

Quindi lei, quella tragica sera di 8 anni fa non parlò con il pm Antonino Nastasi?

«Ricordo bene quella chiamata. Telefonai a David, qualcuno alzò la cornetta, senza però interloquire. Per 36 secondi, dicono i tabulati. Dicevo “pronto David, mi senti?”... Insomma, una delle tante telefonate in cui il cellulare ha poco campo. Poi la linea fu messa giù dall’altra parte».

Quindi lei ha appreso dalle dichiarazioni del colonnello Aglieco che a rispondere al cellulare di Rossi sarebbe stato il pm Nastasi?

«Sì. E devo dire che mi si è gelato il sangue. David aveva sicuramente il mio numero registrato e quindi chi ha risposto vedeva chiaramente l’identità del chiamante». 

Cosa ha pensato ascoltando la testimonianza del colonnello?

«Non ho la certezza granitica, di certo sono dichiarazioni rese da un alto ufficiale dell’Arma in una sede istituzionale. Di certo c’è invece che quelle indagini sono state fatte male e frettolosamente».

Che rapporto avevate lei e Rossi?

«Ai tempi guidavo una concessionaria che vendeva pubblicità per alcuni giornali. Il rapporto con David era nato per motivi professionali. Poi, nel corso degli anni, ne era nata una sincera amicizia. Rossi era una persona fantastica, seria e dai modi gentili. Adorava Carolina, la sua figlia acquisita».

Lei crede al suicidio?

«Questa commissione parlamentare la volemmo, con forza, noi di Fratelli d’Italia. Troppe cose non tornano. Io, come amica che lo conosceva bene, non posso certo credere che si sia ammazzato. Era sì un momento molto difficile, ma lui era un combattente vero ed era a posto con la coscienza». 

Crede che ci sia una dimensione politica in tutta questa vicenda?

«Non lo so, ma è tutto molto strano». 

L’ex premier Matteo Renzi, sul palco di FdI ad Atreju , si è detto «sconvolto» del fatto che si tratti «dello stesso pm di Open» che a Firenze lo vede indagato per finanziamento illecito ai partiti.

«Se è vero tutto questo, Renzi fa bene a non stare tranquillo. Chi potrebbe esserlo se a indagare su di lui fosse un pm che ha modi così irrituali e non consoni alla sua figura?» 

(ANSA l'11 dicembre 2021) - "La vicenda David Rossi è enorme, non vi sconvolge? Vi rendete conto che un pm, o più di uno, entra nella scena del chiamiamolo delitto o crimine (se è un suicidio non è un delitto)? E' una cosa enorme. Siccome quel pm è lo stesso di Open io non posso attaccare. Ma in un Paese normale direi: vi rendete conto chi è che mi fa l'indagine? Per me la vicenda di un pm che entra nella scena del delitto, se è stato ucciso, i dubbi sono legittimi, e inquina le prove, se è vero è uno scandalo senza fine". Lo ha detto Matteo Renzi a margine della manifestazione di FdI Atreju, a Roma. "Un Pm non può fare quello che ha fatto, secondo il racconto del comandante dei carabinieri, che entra e sposta gli effetti personali del povero Rossi. In un Paese normale è allucinante e noi faremo una interrogazione parlamentare. Sono senza parole, sconvolto".  

"Non ho detto che è stato ucciso". Mussari rompe il silenzio su David Rossi. Francesco Boezi il 19 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'avvocato Mussari smentisce di essere il mister X che avrebbe "suffragato" le tesi di Pittelli sulla morte di David Rossi. L'ex presidente del Monte dei Paschi di Siena non ha mai detto che David Rossi è stato ucciso: questo, almeno, è quanto dichiarato dallo stesso avvocato Giuseppe Mussari a La Nazione. Il caso della morte dell'ex capo comunicazione di Mps è riesploso dopo l'audizione del colonello Aglieco, che ha rivelato soprattutto dettagli sull'attività degli inquirenti. E ora la procura di Genova ha riaperto un'inchiesta. Ma sullo sfondo di questa vicenda, rimane pure quanto intercettato in una telefonata dell'ex senatore Giancarlo Pittelli, che ora si trova in carcere per altre vicissitudini. Grazie ad un'intercettazione ambientale, è possibile ascoltare Pittelli dire quanto segue: "David Rossi non si è suicidato. Rossi è stato ucciso". E ancora: "Se riaprono le indagini sulla morte di Rossi succederà un casino grosso...". Alcuni membri della commissione d'inchiesta parlamentare vorrebbero convocare Pittelli in audizione. Ma l'onorevole Walter Rizzetto ha specificato a IlGiornale.it che bisognerà attendere l'evoluzione del quadro giudiziario dell'avvocato. Ma chi ha "suffragato" - come scrive La Nazione - la versione di Pittelli sul decesso di David Rossi? Ecco, una delle ipotesi sul tavolo è che sia stato Mussari, che invece ha deciso d'irrompere nel dibattito, smentendo di netto: "Ogni volta che penso a David, sto male a lungo. Ho dovuto rompere un lunghissimo silenzio al fine di evitare ricostruzioni errate che avrebbero ulteriormente acuito la mia personale sofferenza e dato adito a illazioni devastanti per il mio sentire". Il discorso verte sul Mister X, ossia sulla persona cui Pittelli avrebbe rivolto le frasi intercettate. Ma Mussari sgombra il campo dai dubbi, presentando una ricostruzione temporale che riguarda le tempistiche della conoscenza tra i due e quelle inerenti l'inoltro dei messaggi. "Dal tenore del primo messaggio - ha dichiarato l'ex presidente di Mps - io do del lei a Pittelli, e solo dopo il suo espresso invito, gli do del tu. A dimostrazione che non lo conoscevo prima di questo scambio. Pittelli - insiste Mussari - è stato intercettato dal 22 gennaio al 6 dicembre 2018 e prima del mio sms del 26 maggio non c'è stato nessun rapporto o conversazione. I contenuti della conversazione con mister X del 30 marzo su David Rossi, sono da ascriversi esclusivamente all'avvocato Pittelli e non riferibili in alcun modo a me". Insomma, non sarebbe stato Mussari a riferire a Pitelli che David Rossi sarebbe stato ucciso. E l'ex vertice del Monte dei Paschi di Siena, dopo parecchio tempo, ha deciso di chiarirlo una volta per tutte. Intanto vanno avanti i lavori della commissione d'inchiesta parlamentare: Rizzetto, che non presiede l'organo ma che è spesso balzato agli onori delle cronache per la sua determinazione nel voler portare avanti la questione, aveva dichiarato di voler ascoltare anche lo stesso Mussari sul caso, attraverso un'audizione.

Caso David Rossi, Orlandi sull'attività degli inquirenti: "Danni irreparabili". Francesco Boezi il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. Carolina Orlandi interviene sui contenuti dell'audizione del colonello Aglieco sul caso David Rossi: "Non accetterò mai scuse". Carolina Orlandi, la figlia di Antonella Tognazzi, che era la moglie di David Rossi, non mollerà: su questo, di dubbi, non ne esistono. La Orlandi, nel corso di questi anni, è divenuta nota al grande pubblico e non ha bisogno di troppe presentazioni. Il tema adesso riguarda soprattutto l'audizione del colonello Aglieco che è diventata oggetto di un'interrogazione parlamentare e che di sicuro farà parlare di sé nel proseguo dei lavori della commissione. Oggi la Orlandi, la Tognazzi, l'onorevole Walter Rizzetto e l'avvocato Carmelo Miceli saranno alla Camera, dove terranno una conferenza stampa in cui verranno svelate le prossime mosse dei familiari di Rossi.

L'audizione del colonello Aglieco ha sconvolto anche Carolina Orlandi, in specie la parte sull'attività degli inquirenti...

"Senza dubbio. Quello che ci ha lasciato sconvolti non riguarda soltanto le dichiarazioni di Aglieco che comunque hanno colmato un grosso gap rispetto a quella sera. Sono otto anni che chiediamo sia in pubblico sia alla procura di Siena che cosa fosse successo in quell'ufficio durante quelle ore, chi avesse toccato gli oggetti sulla scrivania, chi avesse spostato la sedia, chi avesse spostato la giacca e così via. Cose ch abbiamo ripetuto e chiesto pubblicamente tante volte. Solo otto anni dopo siamo a venuti a sapere cosa sarebbe successo in quella stanza da un colonnelo che, ricordo, non si è messo una mano sulla coscienza, rivelando qualcosa che sino a questo momento non aveva voluto rivelare, bensì racconta il tutto con una nonchalance che lascia senza parole. Lo racconta come se fosse una prassi. Addirittura, quando la procedura che i pm hanno adottato in quell'ufficio viene definita piuttosto singolare dalla commissione, Aglieco risponde: "E che problema c'è?". Mi ha sconvolto l'atteggiamento con cui il colonello Aglieco ha fatto le sue rivelazioni. Non se so lo abbia fatto per ingenuità: stiamo cercando di capire il motivo per cui questi elementi vengono fuori solo adesso".

Dall'audizione dell'onorevole Roberto Giachetti, viene fuori che il Pm di turno sarebbe stato Marini. Ma gli accenti posti da Aglieco sembrerebbero riguardare Nastasi...

"Aglieco dice di contattare Marini perché era il pm di turno ma anche di contattare gli altri due perché erano i pm che si stavano occupando della Monte dei Paschi. Questo è il motivo per cui vengono chiamati tutti e tre. La cosa che lascia un po'stupiti e che ci fa porre qualche domanda è questo: Aglieco fa il nome di Nastasi, che è saltato fuori della prima volta, mentre gli altri nomi sono stati più volte ripresi dai testimoni dei famosi festini. Un fatto, rispetto a quello che dice Aglieco, che dobbiamo capire".

Nell'audizione, Aglieco parla di un presunto cestino rovesciato e della ricezione di una telefonata sul telefono di David Rossi, dopo che quest'ultimo era deceduto. Sarebbe stato Nastasi a compiere questi gesti...

"Prima di tutto dice che si siede sulla sedia di David, dunque con la sua giacca sopra, con tutto il materiale biologico che poteva esserci. Senza alcun tipo di accortezza, il Pm Nastasi si siede sulla sedia di David. Sedia che aveva le ruote, quindi la sposta e la gira. Muove con la penna il mouse per vedere se il Pc era acceso. Senza specificare esattamente chi, dice che è stato poi rovesciato questo cestino, che conteneva sia i biglietti che David avrebbe lasciato a mia madre sia i fazzolettini sporchi di sangue che, ricordo, non sono mai stati analizzati perché, per volere esplicito del Pm Natalini, sono stati distrutti prima della prima archiviazione. Rovesciare: è il verbo che mi ha lasciato di stucco, perché da il senso della mancata accuratezza".

La Procura di Genova sembrerebbe disposta all'apertura di una nuova inchiesta...

"Non può che essere una buona notizia. Mi lascia tuttavia un po' perplessa: hanno appena archiviato sulla condotta dei Pm senesi. E rispetto a quello che è venuto fuori dalla commissione d'inchiesta mi chiedo come mai non sia venuto fuori anche dalla Procura di Genova".

L'onorevole Walter Rizzetto, parlando con ilGiornale.it, ha rivelato di aver ricevuto pressioni affinché non venisse istituita la commissione d'inchiesta...

"Non ho idea di chi possa aver fatto pressioni. Posso dirti però che a noi avrebbe fatto piacere che Rizzetto facesse il presidente della commissione. Se non altro perché è lui che si è battuto in questi anni per far sì che la commissione vedesse la luce. Posso anche dire che, nonostante non conoscessi il presidente Zanettin, il lavoro portato avanti sino a questo momento sembri davvero un ottimo lavoro. Non possiamo dire nulla su questo".

Carolina Orlandi si sente delusa dall'attività degli inquirenti, rispetto al quadro disegnato da Aglieco?

"Hanno fatto danni irreparabili. Non accetterò mai scuse su questo. Non posso sentir dire che è vero che le prime indagini sono state fatte in maniera un po'superficiale, ma le seconde, le terze, le quarte... . Si sa che le prime sono le più importanti. Sono quelle che decidono la storia di un caso. Facendo così hanno condizionato tutta la scena. E il fatto che non si siano svolte determinate perizie durante i primi giorni è stato fatale. Questo è stato irrimediabile".  

La mental coach rivela: "Ecco cosa mi disse David Rossi..." Francesco Boezi il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale. La mental coach che ha incontrato David Rossi il giorno della morte è stata sentita in commissione d'inchiesta parlamentare. "Ho lasciato una persona lucida". "Nessuna percezione che volesse suicidarsi". Questo è il succo delle parole rilasciate dalla mental coach che aveva incontrato David Rossi la mattina del giorno in cui il manager di Mps sarebbe poi deceduto.

La vicenda che riguarda l'ex capo comunicazione di Mps - la stessa che è stata oggetto di una doppia archiviazione sotto il profilo giudiziario - continua a condirsi di particolari. Dopo la discussa audizione del colonello Aglieco - quella che ha portato alla luce alcuni dettagli rilevanti sull'attività degli inquirenti durante le fasi appena successive alla morte - , la commissione d'inchiesta parlamentare ha sentito Carla Ciani, mental coach e consulente aziendale che aveva avuto modo di vedere Rossi proprio la mattina del 6 marzo.

La Ciani, nel corso dell'audizione, ha descritto un quadro che sembrerebbe suggerire come Rossi non avesse avuto alcuna intenzione di suicidarsi: "Non ho avuto la percezione e non sono assolutamente in grado di poter immaginare il fatto che potesse prendere una decisione del genere - ha chiosato - ".

E ancora: "Ho lasciato una persona lucida e anche sul pezzo rispetto alle cose che avrebbe dovuto fare". La mental coach ha peraltro raccontato di come Rossi le avesse dato appuntamento per la settimana dopo: "Ci vediamo il 13, lui era in piedi e mi disse 'Grazie di tutto, mi ha fatto bene parlare un po'". Un racconto - un altro - su cui si potrebbe dover tornare in futuro, soprattutto alla luce della riapertura dell'inchiesta da parte della procura di Genova.

Stando a quanto ripercorso dall'Adnkronos, la Ciani ha dunque ripecorso ulteriori contenuti del colloquio con David Rossi: "Ho l'ansia di essere arrestato - le avrebbe detto l'ex capo comunicazione Mps - , di essere licenziato. Ho pensato tantissimo a tutto quello che posso aver fatto ma non ho trovato nulla, ma mi resta questo senso di ansia come se da un momento all'altro la disgrazia dovesse cadermi sulla testà". "Mi diceva - ha aggiunto la Ciani - che aveva paura di essere associato alle persone che non avevano fatto il bene della banca - ha sottolineato la mental coach - Mi ha rappresentato tutte le sue paure".

La giornata odierna è stata quella in cui la famiglia, l'avvocato Miceli e l'onorevole Walter Rizzetto, esponente di Fratelli d'Italia, hanno sostanzialmente rilanciato la loro azione, in specie dopo l'emersione dei contenuti dell'audizione di Aglieco. Rizzetto, in particolare, ha parlato nel corso dell'incontro con i giornalisti - che peraltro è stato convocato alla Camera dei deputati - di una presunta mancata verbalizzazione di un testimone da parte degli inquirenti. 

Caso David Rossi, ora spunta un testimone non verbalizzato. Francesco Boezi il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. Nel corso della conferenza stampa sul caso David Rossi, l'onorevole Rizzetto parla di una testimonianza non verbalizzata. La Orlandi: "Non erano visioni". I familiari di David Rossi, l'onorevole Walter Rizzetto di Fratelli d'Italia e l'avvocato Carmelo Miceli (che è anche un parlamentare del Pd) non mollano: questa mattina, presso la Camera dei deputati, si è tenuta una conferenza stampa che è stata convocato dopo l'audizione del colonnello Aglieco in commissione d'inchiesta. E tra i vari punti toccati ce n'è uno che riguarda una presunta non verbalizzazione legata ad un testimone. L'audizione di Aglieco, come rimarcato da Carolina Orlandi in questa intervista rilasciata ad IlGiornale.it, è destinata a far parlare di sé. Ma oggi è stato l'onorevole Rizzetto a comunicare un'ulteriore novità relativa al caso: "Abbiamo parlato con una persona, la cui testimonianza è ritenuta da noi molto affidabile, che colloca Davide Rossi in un vicolo tra le 15.30-16, il 6 marzo del 2013, giorno della sua morte. Rossi - ha detto Rizzetto, secondo quanto riportato dall'Ansa - camminava con un cappuccio. Questa persona, da buon cittadino, ha rilasciato una dichiarazione agli inquirenti, raccontando che Rossi stava parlando ma gli investigatori non hanno verbalizzato". E per l'onorevole di Fdi, questo sul testimone, è tutto fuorché un dettaglio. La stessa figlia di David Rossi non ha usato troppi giri di parole nel corso dell'iniziativa: "Chiediamo verità e giustizia, che in un Paese sano sarebbero dovute arrivare da sole. Invece chiediamo che ci venga detto che cosa è successo quella sera". Carolina Orlandi ha aggiunto quanto segue: "Per tanti anni ci hanno dato delle visionarie, delle complottiste e oggi sappiamo che le nostre non erano visioni". La mattinata di oggi era attesa anche per capire quali sarebbero state le mosse dei familiari dopo le parole rilasciate da Aglieco. E l'attenzione sembra concentrarsi ora sulla presunta mancata verbalizzazione. Presente alla conferenza stampa anche il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra: "Ieri, nell'Ufficio di presidenza, un gruppo parlamentare ha avanzato la richiesta di far partire un'attività istruttoria in Antimafia. Ci sono gli estremi perché questo avvenga". Morra, come ripercorso dall'Adnkronos, ha assicurato che la commissione che presiede ci metterà del suo. Servirà quello che Morra ha chiamato "concerto" con la commissione d'inchiesta fortemente voluta da Rizzetto. Circola comunque "felicità" per la riapertura delle indagini da parte della Procura di Genova. 

David Rossi, esami e simulazioni: la mossa che può cambiare tutto. Francesco Boezi il 21 Dicembre 2021 su Il Giornale. La commissione parlamentare d'inchiesta sul caso David Rossi si trova a Siena, dove con un manichino si simula la caduta dell'ex capo comunicazione di Mps. La commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi è a Siena, dov'è prevista anche la simulazione della caduta dell'ex capo comunicazione della Monte dei Paschi di Siena. Non solo: quella predisposta dai parlamentari è una vera e propria perlustrazione che vorrebbe trovare alcune risposte a quelli che tuttora restano dei punti interrogativi sulla vicenda.

Sulla scena sono presenti anche i carabinieri del Ris. In città c'è ovvia suspance per il test sulla caduta che verrà messo in atto mediante un manichino ma, più in generale, chi si è recato nei luoghi in cui David Rossi è deceduto - così come ripercorso dall'Adnkronos - è anche alla ricerca di ulteriori fattori che possano fornire certezze. Ci si chiede se quel tipo di caduta, del resto, sia o no compatibile con il suicidio. Vale la pena ricordare come la morte di David Rossi sia stata archiviata per ben due volte in sede giudiziaria come suicidio.

Poi c'è il lato giudiziario. La procura di Genova ha da poco riaperto un'inchiesta sull'attività degli inquirenti. Più in generale, la faccenda sembra allargarsi a macchia d'olio.

Tra le perizie più attese, com'è ovvio che sia, c'è proprio quella sulla caduta. Una decisione che è stata commentata pure dall'avvocato del fratello del Rossi: "...la caduta con manichino virtuale per verificare se la caduta è avvenuta dall'ufficio oppure, dubbio che avevano sollevato noi, dalla stanza superiore" - ha fatto presente Paolo Pirani - viene considerata "importante". Pirani ha poi insistito: "Speriamo che facciano gli accertamenti in maniera corretta e che lavorino sui documenti e sugli atti che abbiamo prodotto già in fase di apertura indagine". E ancora: "Un primo risultato lo abbiamo avuto. Chi diceva che l'indagine era stata fatta in maniera certosina oggi forse si potrà ricredere a meno che non si voglia dire che i parlamentari stanno perdendo tempo".

La vera ratio dell'iniziativa odierna sembra quella di voler mettere qualche punto. Lo si deve anche alla città di Siena, che da anni è immersa in quella luce sinistra figlia del giallo irrisolto: "Si deve arrivare alla verità non solo per la famiglia, ma per tutta Siena per mettere una pietra tombale su tutto questo e non continuare a chiedersi se è suicidio o omicidio", ha continuato l'avvocato. L'audizione del colonnello Pasquale Aglieco ha sollevato ulteriori punti di domanda riguardo all'attività degli inquirenti. La famiglia, però, sostiene da tempo che la scena possa essere stata inquinata.

L'avvocato Carmelo Miceli, legale di Antonella Tognazzi e di Carolina Orlandi, è stato forse ancora più esplicito: "Ci aspettiamo che emergano ulteriori elementi che rafforzino il nostro grido di verità, che lanciamo da anni", ha esordito. La speranza ventilata è che "finalmente una procura decida di riaprire l'indagine sulle reali cause della morte. Le indagini sono state archiviate sulla base di atti che, all'evidenza, sono falsati".

Renzi sul caso David Rossi: "Vicenda enorme. Non vi sconvolge?" Francesco Boezi l'11 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il leader di Italia Viva prende posizione dopo l'audizione del colonnello Aglieco nella commissione parlamentare sul caso David Rossi. Matteo Renzi, ospite alla festa di Atreju di Fratelli d'Italia, dove ha affrontato il tema del presidenzialismo, si è soffermato anche sul caso David Rossi. La vicenda è condita, dopo l'audizione, dalle parole rilasciate dal colonnello Aglieco, che è stato sentito dalla commissione parlamentare d'inchiesta. Aglieco ha svelato alcuni dettagli sulle attività degli inquirenti che molti membri della commissione ritengono rilevanti. "La vicenda David Rossi è enorme - ha detto il leader d'Italia Viva - non vi sconvolge? Vi rendete conto che un pm, o più di uno, entra nella scena del chiamiamolo delitto o crimine (se è un suicidio non è un delitto)? È una cosa enorme. Siccome quel pm è lo stesso di Open io non posso attaccare. Ma in un Paese normale direi: vi rendete conto chi è che mi fa l'indagine". Come spiegato da Felice Manti in questo articolo, il pm Antonino Nastasi, che secondo Aglieco avrebbe risposto al telefono di David Rossi dopo che quest'ultimo era deceduto, è il medesimo pubblico ministero che si sta occupando dell'inchiesta sulla Fondazione Open. Renzi ha insistito su quel punto: "Per me la vicenda di un pm che entra nella scena del delitto, se è stato ucciso, i dubbi sono legittimi, e inquina le prove, se è vero è uno scandalo senza fine". E ancora, sempre dopo aver parlato dal palco di Atreju: "Un pm non può fare quello che ha fatto, secondo il racconto del comandante dei carabiniere, che entra e sposta gli effetti personali del povero Rossi. In un Paese normale è allucinante e noi faremo una interrogazione parlamentare. Sono senza parole, sconvolto". Italia Viva, insomma, non intende fare finta di nulla. Intanto il caso David Rossi, dopo l'audizione, è tornato al centro del dibattito nazionale. La ricostruzione presentata dal colonnello, del resto, non riguarda soltanto la ricezione di una telefonata, ma sembra suggerire, più in generale, la possibilità che alcune delle azioni compiute da parte degli inquirenti nella stanza del Rossi possano aver inquinato le prove. Siamo nel campo delle ipotesi, ma qualche elemento in più, rispetto al pregresso, è emerso grazie alle parole dell'ufficiale dei carabinieri. Vale la pena comunque ricordare come la vicenda di Rossi, sotto il profilo giudiziario, sia stata archiviata due volte. Nel frattempo sulla vicenda si sono espresse diverse persone. "Le dichiarazioni del colonnello Aglieco - ha fatto presente Carmelo Miceli, avvocato della moglie di Rossi e della figlia Carolina Orlandi - sono l'ennesima conferma di quanto non sia possibile per nessuno definire buone indagini quelle eseguite sulla morte di Rossi. Noi lo sosteniamo da tempo".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Caso Mps, la bomba Rossi scoppia sul tavolo del Csm. Dopo le rivelazioni sui pm che avrebbero inquinato la scena, si aprirà un fascicolo. E Genova potrebbe indagare. Felice Manti su Il Giornale il 12 dicembre 2021.La bomba David Rossi arriva al Csm e alla Procura di Genova, e la miccia è corta. Perché in Parlamento il caso è praticamente già esploso. I fatti: l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, colonnello che senza titolo vive le primissime fasi delle indagini sulla strana morte del manager Mps il 6 marzo 2013, davanti alla commissione che indaga sul giallo ha accusato tre pm di aver inquinato le prove nell'ufficio del responsabile comunicazione. Dei rilievi gravissimi il presidente Pierantonio Zanettin investirà il Csm e la procura di Genova, competente per legge sui magistrati di Siena. Al Csm, che già si è occupato del balletto tra Procure sul caso David Rossi lo scorso gennaio nato da un esposto della famiglia, cadono dalle nuvole. D'altronde l'organo di autogoverno della magistratura si è preso del gran tempo per decidere se mandare o meno dei magistrati a fare da consulenti (per il relatore Nino Di Matteo il problema sono «le possibili sovrapposizioni con le conclusioni delle Procure», che hanno archiviato tutto), figurarsi per occuparsi di magistrati dipinti come depistatori sui giornali. Altre volte Anm e Csm sono stati decisamente più solerti: vedi il caso Nicola Gratteri-Otello Lupacchini, finito nel tritacarne 12 ore dopo aver accostato la parola «evanescente» al pm antimafia. Stavolta in mezzo c'è solo il «povero» pm Antonino Nastasi, che secondo Aglieco avrebbe «risposto al cellulare dell'ormai defunto Rossi» mentre chiamava Daniela Santanché e si sarebbe «seduto alla sua scrivania» mentre altri due pm erano sulla scena. Tanto che ieri l'ex premier Matteo Renzi, sotto indagine dallo stesso Nastasi per il caso Open, ha buon gioco a dire: «Vi rendete conto chi è che mi fa l'indagine? Se è vero, è uno scandalo senza fine, sono sconvolto». «Accuse strumentali», dice il numero uno di Md Stefano Musolino. Al Giornale il pm impegnato in delicatissime inchieste antimafia difende l'operato di Nastasi («iscritto ma non militante») e si riserva di valutare il contenuto delle gravissime affermazioni di Aglieco. Il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia, contattato dal Giornale, non risponde. «A fronte della trasmissione degli atti da parte della Commissione, come farà adesso Genova a tornare ad indagare sulla condotta dei pm senesi dopo che già una volta ha archiviato l'ipotesi di abuso d'ufficio?», si chiede Carmelo Miceli, deputato Pd e legale della vedova Rossi. I magistrati genovesi infatti non hanno mai creduto all'ipotesi che dietro l'insabbiamento delle indagini ci siano i festini gay a cui avrebbero preso parte i vip della Siena bene, tra cui lo stesso Aglieco e alcuni importanti magistrati senesi (ma non Nastasi), nata dalle soffiate alle Iene di un escort, recentemente sentito anche in commissione parlamentare, più volte minacciato e di fatto pedinato anche prima della sua deposizione (seppur secretata) a Palazzo San Macuto di cui Aglieco ammette di aver saputo «per intuito». Secondo il gip ligure infatti l'escort è «attendibile e preciso» ma questo non è bastato a convincerli a indagare sui colleghi toscani né una Procura a far luce sulle presunte minacce. Neanche il superteste che dice di sapere chi ha ucciso David Rossi li ha mai convinti. Ma adesso che Aglieco accusa apertamente Nastasi di aver inquinato alcune prove, cosa succederà? Aglieco mente o i pm hanno inquinato le prove, come dicono i familiari di Rossi? La Procura generale di Genova, competente su Firenze, ha già aperto un'indagine su Nastasi? O aspetterà il materiale da Roma? E quando la Suprema corte di Cassazione deciderà che la competenza a indagare è proprio di Genova? «Quando condivideremo l'individuazione della Procura ritenuta competente, chiederemo la riunione di tutti i procedimenti connessi e collegati alle reali cause della morte. Non è ammissibile che una vicenda così articolata sia trattata con indagini spezzettate e in Procure diverse», rilancia Miceli. Nel frattempo l'ombra di una magistratura «pasticciona» si mescola con una credibilità compromessa dalle rivelazioni di Luca Palamara e con la barzelletta dell'azione penale obbligatoria. Anche il Guardasigilli potrebbe voler capire cosa non torna.

(ANSA l'11 dicembre 2021) - "Quanto ha dichiarato il colonnello Pasquale Aglieco appare oggettivamente grave. Proporrò alla Commissione di inviare il resoconto della seduta alla procura della repubblica di Genova, competente ex art 11, e al Csm, per ogni competente valutazione sull'operato dei magistrati citati nella audizione". Lo ha dichiarato Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi, il responsabile della comunicazione di Mps, precipitato dal suo ufficio nel marzo del 2013. Secondo l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena i pm Antonino Nastasi, Nicola Marini e Aldo Nataliani sarebbero entrati prima della Polizia Scientifica nell'ufficio di Rossi e avrebbero toccato il suo pc, rovesciato il contenuto del cestino sulla scrivania, chiuso la finestra e risposto al cellulare di Rossi. Tutto senza usare i guanti.

(ANSA l'11 dicembre 2021) - "Il 21 dicembre prossimo i Ris, incaricati dalla Commissione della maxi perizia, inizieranno a Siena i primi rilevi e simuleranno la caduta di un grave in condizioni il più possibile analoghe a quelle del 6 marzo 2013, data della morte di David Rossi". Lo annuncia il presidente della Commissione parlamentare di inchiesta su quella morte Pierantonio Zanettini (Forza Italia)

Davide Vecchi per il “Corriere di Siena” l'11 dicembre 2021. Fino a due giorni fa sapevamo che gli inquirenti titolari dell’indagine sulla morte di David Rossi, avvenuta la sera del 6 marzo, avevano fatto male il loro mestiere, commettendo errori di ogni genere (e gravità). Ma nessuno si è mai preso le responsabilità delle carenze investigative. Nessuno, tra gli oltre dieci soggetti che hanno inquinato (ormai è certificato) l’ufficio dove il manager di Mps trascorse le ultime ore della sua vita, si è fatto avanti dicendo “ho sbagliato io”. Certo, il pm di turno e titolare del fascicolo era Nicola Marini, ma con lui in quella stanza sono entrati anche altri due magistrati (Antonino Nastasi e Aldo Natalini), oltre a personale della Questura, della polizia giudiziaria e chissà quanti altri. Da giovedì sera, a distanza di otto anni, un nome lo abbiamo: Antonino Nastasi. A farlo è stato il colonnello dei Carabinieri, Pasquale Aglieco, nel corso dell’audizione pubblica in Commissione parlamentare d’inchiesta. Aglieco ha raccontato di aver accompagnato i pm nella stanza e di essere rimasto lì durante il sopralluogo. Ma già questo stride con quanto per otto anni la Procura di Siena ha raccontato: la presenza di Aglieco in Mps non è mai stata registrata e, soprattutto, si è sempre parlato di un generico e rapido sopralluogo con successiva immediata sigillatura dell’ufficio, in attesa dell’arrivo della Polizia Scientifica, che però avviene a mezzanotte: dopo tre ore. Da due giorni sappiamo altro. Aglieco, infatti, racconta che poco dopo le 21 lui, insieme ai pm, entra nell’ufficio e qui Nastasi si siede sulla sedia di Rossi (e sposta così la giacca del manager lì lasciata), che muove oggetti e quanto c’è sulla scrivania, che risponde ad almeno una telefonata dal telefono di Rossi. Il tutto senza indossare guanti né avendo alcuna accortezza (“una pennina”) per non inquinare eventuali prove. Non è tutto. Perché quella sera è freddo. E la finestra dalla quale poco prima è volato David è aperta, ovviamente. Quindi viene chiusa. Sempre senza guanti: altre possibili prove perse. Basta così? Macché. Aglieco aggiunge che il cestino nel quale erano pure i sette fazzoletti di carta sporchi di sangue (mai sequestrati, mai analizzati e distrutti dai pm prima ancora dell’archiviazione della prima indagine) viene svuotato girandolo sulla scrivania. Io immagino i parenti di David, la moglie Antonella Tognazzi, i fratelli, in particolare Ranieri, che negli anni successivi hanno investito tempo e risorse in periti che aiutassero a comprendere l’accaduto; periti che hanno dedicato mesi a studiare anche le foto scattate dalla scientifica a quel cestino per tentare di ricostruire, in base all’altezza in cui erano i fazzoletti, a che ora David li aveva buttati. Ora sappiamo che le foto scattate dalla scientifica a mezzanotte non ritraevano l’immagine fedele del cestino lasciato da David ma quello “riordinato” dai pm dopo averlo svuotato, alla carlona, sulla scrivania. È aberrante. Per una serie di motivi che è impossibile elencare. Uno per tutti: la magistratura che avrebbe dovuto rendere nitido l’accaduto lo ha confuso. Con l’aggravante di aver poi, per otto lunghi anni, negato ogni propria responsabilità, giustificando gli errori con una alzata di spalle, come ha fatto sempre in commissione d’inchiesta, il procuratore Capo di Siena, Salvatore Vitello: “Sono state commesse alcune leggerezze”. Sì, è oggettivamente aberrante. Ma possiamo aggrapparci alla speranza che sia tutto falso: del resto questa è la versione di Aglieco. E potrebbe essere smentita. Ma Aglieco non è una persona qualunque. È un Colonnello dei Carabinieri, un ufficiale con 43 anni di esperienza ed è difficile immaginare che abbia mentito, che si sia inventato tutto e così e proprio ora. Possibile, per carità. Ma se così fosse si aprirebbero altri scenari ancora più inquietanti. Ci si dovrebbe chiedere perché di tutti i magistrati presenti (Natalini, Marini, Nastasi) a distanza di otto anni Aglieco attribuisce gli errori commessi solo e soltanto a Nastasi? Fra l’altro dicendo di averlo visto, perché era presente, nella stanza, in quell’ufficio la sera del 6 marzo 2013 quando un uomo di nome David Rossi è morto e chi doveva scoprire la verità ha mischiato le carte. Le ha mischiate male. E le ha nascoste. Male.

Dagospia il 10 dicembre 2021. Dal profilo Twitter di Davide Vecchi. Oggi, dopo otto anni, sappiamo che il pm di Siena, Antonino Nastasi, la sera del 6 marzo ha risposto al cellulare di David Rossi, appena morto. Lo ammette solo ora il colonnello Cc Aglieco in Commissione inchiesta. Nastasi ora è pm a Firenze. Aglieco è un colonnello dei Carabinieri. La sera del 6 marzo 2013, quando David Rossi venne trovato morto, fu uno dei primi ad arrivare sul posto. La sua audizione ha svelato (e confermato) molti degli errori commessi dai pm e soprattutto da chi. Tra le cose più gravi riferite (la telefonata è quasi niente) il fatto che i pm hanno rovesciato sulla scrivania di Rossi il cestino della carta dove c’erano anche i fazzoletti sporchi di sangue. Il tutto prima che arrivasse la scientifica e senza guanti né alcuna accortezza. È avvenuto poco dopo le 21. La polizia scientifica è arrivata a mezzanotte e ha fotografato il cestino pieno in terra: era stato “riordinato” dai pm. In pratica l’intera scena è stata inquinata dai pm che finora lo hanno tenuto segreto. Sarà difficile per Aglieco ora dimostrare sia tutto vero perché ovviamente lo smentiranno. Ma certo é piuttosto inquietante: dopo otto anni.

Felice Manti per “il Giornale” il 10 dicembre 2021. Due pesi e due misure. Il Csm non vuole che la pm di Trento Patrizia Foiera e il consigliere alla Corte di Cassazione Michele Romano facciano da consulenti della commissione parlamentare sulla morte il 6 marzo 2013 di David Rossi, il manager Mps morto suicida in circostanze stranissime, almeno stando all'inchiesta tv delle Iene. Secondo la verità giudiziaria, infatti, Rossi si è suicidato. Tanto che a Siena e a Genova sono stati archiviati i procedimenti sui presunti festini legati alla sua morte e che avrebbero coinvolto alcuni dirigenti Mps, politici senesi e liguri e persino magistrati, stando alla denuncia di un escort alle telecamere della trasmissione di Italia 1. Ma il Parlamento ha deciso comunque di vederci chiaro. E qui IRE c'è la nota dolente. Siccome il Csm ci ha messo troppo a decidere, è scattato il silenzio-assenso. E così nei giorni scorsi il plenum, su proposta dei relatori Nino Di Matteo e Carmelo Celentano - ha di nuovo chiesto di negare l'autorizzazione. Ma perché il Csm non vuole che due magistrati facciano da consulenti? Il timore di Celentano e Di Matteo è che le conclusioni della commissione divergano da quelle giudiziarie, mettendo in imbarazzo l'intero sistema giustizia. Il fatto che si ipotizzi il coinvolgimento di alcuni magistrati nei presunti festini è un nervo scoperto? «Non lo so - dice il parlamentare azzurro Pierantonio Zanettin (nel tondo), che presiede la commissione e che il Csm lo conosce bene per esserne stato componente - auspico che prevalga il buonsenso e la leale collaborazione tra istituzioni. Per rispetto al Parlamento che ha chiesto le competenze che i due magistrati possono offrire, a titolo gratuito e senza rimborso». Sul balletto di silenzi e dinieghi il Csm si è già spaccato. «Non si può votare una delibera di rigetto», ha fatto notare la togata di Magistratura Indipendente Paola Braggion, che già in Commissione aveva votato contro la proposta dei relatori. La potenziale «sovrapponibilità» tra l'attività della com- r missione e le conclusioni della magi- I stratura «non sta in piedi - ci spiega off the record uno dei componenti della commissione in una pausa dei lavori - Basta ricordare vicende come Moby Dick, Ilaria Alpi e financo l'omicidio di Aldo Moro». Intanto, l'attività della commissione va avanti. Anche ieri, con la lunga audizione del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, che ha ipotizzato l'apertura di un fascicolo sui festini anche alla Procura di Roma, anche se, incalzato dai commissari, si è più volte contraddetto. Non è escluso che se emergessero nuove prove il procedimento potrebbe riaprirsi, come spera l'avvocato di Rossi Carmelo Miceli, parlamentare del Pd in commissione Mps. 

David Rossi, "il pm ha risposto al suo cellulare": otto anni dopo, la scoperta inquietante. Libero Quotidiano il 10 dicembre 2021. Il caso di David Rossi è ancora pieno di punti oscuri. Dopo otto anni, oggi sono emersi nuovi dettagli piuttosto inquietanti, riportati in una serie di tweet da Davide Vecchi, giornalista e saggista che ha anche scritto un libro su questa bruttissima vicenda. “Oggi, dopo otto anni - ha esordito - sappiamo che il pm di Siena, Antonino Nastasi, la sera del 6 marzo ha risposto al cellulare di David Rossi, appena morto. Lo ammette solo ora il colonnello dei carabinieri Aglieco in commissione inchiesta”. Attualmente Nastasi ricopre il ruolo di pm a Firenze, mentre Aglieco fu uno dei primi ad arrivare sul posto la sera del 6 marzo 2013, quella in cui David Rossi venne trovato privo di vita: “La sua audizione - ha scritto Vecchi - ha svelato (e confermato) molti degli errori commessi dai pm e soprattutto da chi. Tra le cose più gravi riferite (la telefonata è quasi niente) il fatto che i pm hanno rovesciato sulla scrivania di Rossi il cestino della carta dove c’erano anche i fazzoletti sporchi di sangue. Il tutto prima che arrivasse la scientifica e senza guanti né alcuna accortezza”. “È avvenuto poco dopo le 21 - ha aggiunto Vecchi - la polizia scientifica è arrivata a mezzanotte e ha fotografato il cestino pieno in terra: era stato ‘riordinato’ dai pm. In pratica l’intera scena è stata inquinata dai pm che finora lo hanno tenuto segreto. Sarà difficile per Aglieco ora dimostrare sia tutto vero perché ovviamente lo smentiranno. Ma certo è piuttosto inquietante”.

Morte David Rossi, pm padroni della scena del crimine: rovesciati fazzoletti insanguinati, l’audizione-bomba. Riccardo Annibali su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Nel giallo sulla morte di David Rossi, dopo il diktat del Csm sula Commissione parlamentare d’inchiesta che non deve essere ‘aiutata’ dai magistrati, irrompe l’audizione del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco che ha rivelato come il pm Antonino Nastasi abbia risposto al cellulare dell’ex capo comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, dopo che quest’ultimo era deceduto.

Davide Vecchi, giornalista e direttore dei Corrieri, ha scritto che prima di ieri non era noto che il pm (ora incaricato a Siena e uno dei magistrati che si occupa del caso della Fondazione Open) avesse risposto ad una telefonata nel mentre si trovava all’interno dell’ufficio di Rossi. Un passaggio dell’audizione che è stato riportato da Vecchi su Twitter: “Oggi, dopo otto anni, sappiamo che il pm di Siena, Antonino Nastasi, la sera del 6 marzo ha risposto al cellulare di David Rossi, appena morto. Lo ammette solo ora il colonnello dei carabinieri Aglieco in Commissione inchiesta. Nastasi ora è pm a Firenze”.

“Il telefono squillava, quando lei ha fatto il sopralluogo, il telefono del Rossi?” chiede l’onorevole Luca Migliorino, esponente M5s, quando si trovano già alla quinta ora di svolgimento. “Il telefono del Rossi – ha risposto Aglieco – ha squillato un paio di volte”. Il colonnello ha poi specificato di avere “ricordi inquinati”.

Dall’altra parte della cornetta ci sarebbero stati, in due momenti diversi, il giornalista Tommaso Strambi e Daniela Santanché che aveva tuttavia dichiarato, durante una puntata di Agorà, di non aver ricevuto risposte. Poi è arrivato un ulteriore quesito di Migliorino che ha insistito sulla seconda delle due telefonate, quella che vedrebbe coinvolta la senatrice, quando Aglieco sarebbe stato sulla scena: “Qualcuno risponde a quel telefono?”. “Mi sembra di ricordare – ha replicato Aglieco – il dottor Nastasi“. “Gli avrà solamente detto ‘sono il pubblico ministero'”, ha annotato il colonnello. Migliorino ha allora chiesto se sia normale rispondere a quel telefono: “Da codice, da legge, il pubblico ministero è il padrone della scena del crimine”. E ancora: “Non è che se il pubblico ministero decide di rispondere all’onorevole Santanché poi deve fare una relazione per giustificare a se stesso quello che ha fatto. Lui ne risponde poi al giudice…”, ha fatto presente il colonnello.

Prima però sono state fatte alcune considerazioni sull’inquinamento della scena. Anche su questo punto Vecchi riporta che “tra le cose più gravi riferite (la telefonata è quasi niente) – c’è – il fatto che i pm hanno rovesciato sulla scrivania di Rossi il cestino della carta dove c’erano anche i fazzoletti sporchi di sangue. Il tutto prima che arrivasse la scientifica e senza guanti né alcuna accortezza. È avvenuto poco dopo le 21. La polizia scientifica è arrivata a mezzanotte e ha fotografato il cestino pieno in terra: era stato ‘riordinato’ dai pm. In pratica l’intera scena è stata inquinata dai pm che finora lo hanno tenuto segreto. Sarà difficile per Aglieco ora dimostrare sia tutto vero perché ovviamente lo smentiranno. Ma certo é piuttosto inquietante: dopo otto anni”.

L’onorevole Walter Rizzetto durante l’audizione denota come le indagini, secondo la visione del parlamentare di Fratelli d’Italia, avrebbero potuto svolgersi in maniera diversa: “Lei dice che il magistrato si siede sulla sedia di David Rossi, sbagliando, con una penna fa qualcosa… . Però lei lo dice con una naturalezza estrema: sedendosi avrà spostato una giacca”, ha detto, “mi permetterà di dire che rovesciare su una scrivania un cestino… . Una persona che getta un cestino su una scrivania va potenzialmente ad inquinare una scena”, ha aggiunto Rizzetto. L’episodio del cestino sia stato rovesciato, peraltro, non sarebbe stato annotato in alcuna relazione prima delle informazioni rilasciate da Aglieco. Seconda omissione dopo la risposta di Nastasi al telefonino di Rossi. Riccardo Annibali

La morte dell'ex capo della comunicazione del Mps. Caso David Rossi, il Csm imbavaglia le toghe: nessun aiuto all’inchiesta sul presunto suicidio. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Nessun magistrato deve “aiutare” la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi. Il diktat arriva direttamente dal Consiglio superiore della magistratura che, ieri, ha cercato in Plenum di stoppare la richiesta di fuori ruolo di due toghe, chiamate nelle scorse settimane a dare una mano alla Commissione che deve far luce sulle reali cause della scomparsa dell’allora cinquantenne capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena. Ufficialmente Rossi si sarebbe suicidato la sera del 6 marzo 2013 lanciandosi nel vuoto dal suo ufficio di Rocca Salimbeni. In quel periodo la banca era finita nel mirino degli inquirenti a seguito della discussa acquisizione di Banca Antonveneta. Le investigazioni, condotte frettolosamente da parte della Procura di Siena, avevano fin da subito escluso altre piste a parte quella del suicidio. Una tesi mai accettata dalla famiglia di Rossi che si era battuta per la riapertura delle indagini. Il caso era successivamente esploso a livello nazionale a seguito di una serie di servizi televisivi sulla trasmissione Le Iene che avevano messo in luce molti lati “oscuri” dell’inchiesta, come i filmati delle telecamere di sorveglianza intorno al palazzo non acquisiti o la distruzione di importanti reperti nell’ufficio di Rossi. I giornalisti Mediaset Marco Occhipinti e Antonino Monteleone avevano anche svelato l’esistenza di “festini” criptogay a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati di Siena e alti esponenti delle forze di polizia della città toscana che a vario titolo si erano occupati della morte di Rossi. Per mettere ordine in questa vicenda, la Commissione parlamentare d’inchiesta aveva allora richiesto al Csm di potersi avvalere della collaborazione di due magistrati, la pm trentina Patrizia Foiera e il giudice di Cassazione Michele Romano. Una collaborazione part time e senza alcun emolumento aggiuntivo. Ci sono state “superficialità” nella conduzione delle indagini, aveva detto al termine dei primi accertamenti Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione. Ieri, però, il Csm ha tentato il colpo di mano, negando a Zanettin i due magistrati. Per l’ex pm antimafia Nino Di Matteo, il relatore della proposta di diniego, si tratta di un incarico in “piena ed evidente sovrapponibilità” agli accertamenti della magistratura. Un incarico “inopportuno” alla luce di “preservare sotto il profilo dell’immagine i valori dell’indipendenza e dell’imparzialità della funzione giudiziaria”. Una motivazione che ha fatto subito storcere la bocca. Si tratta di “una richiesta come tante” dal momento che in passato, per utilizzare le parole del togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato, il Csm ha dato “fiumi di autorizzazioni”, elencando i magistrati in prestito alle Commissioni Ilaria Alpi, Moby Prince, e Il Forteto. Serve “coerenza amministrativa”, ha aggiunto D’Amato. A favore dell’autorizzazione anche la togata Paola Maria Braggion (Mi): «La Commissione non si sostituisce alla magistratura, ma sviluppa ulteriori elementi emersi a seguito di una inchiesta giornalistica». Per l’autorizzazione anche il laico della Lega Stefano Cavanna secondo il quale “è del tutto chiaro che lo scopo e funzione di una Commissione parlamentare è diverso rispetto all’attività giurisdizionale”. Non autorizzare darebbe l’idea «di una magistratura arroccata ed intollerante rispetto a qualsiasi accertamento di fatto che sfugga al proprio controllo». Il problema si è risolto, al momento, con un cavillo procedurale: essendo maturato il silenzio assenso sulla richiesta di essere autorizzati al fuori ruolo, il Plenum ha chiesto il ritorno in Commissione per valutarne il diniego. «Mi aspetto dal Csm collaborazione istituzionale», il commento di Zanettin alla decisione del Csm di valutare la possibilità di negare il via libera alle due toghe. In attesa della decisione di Palazzo dei Marescialli, giovedì prossimo la Commissione sentirà il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, ex comandante provinciale di Siena e ora trasferito in un ufficio della Scuola ufficiali carabinieri di Roma. Aglieco era presente nel vicolo di Monte Pio la sera che Rossi si schiantò al suolo. Una presenza che fece discutere e finì in alcuni strascichi giudiziari. A fare il nome di Aglieco come partecipante ai festini era stato l’escort dei vip Matteo Bonaccorsi. Paolo Comi

Fabrizio Massaro per corriere.it il 26 novembre 2021. Si riapre l’inchiesta sulla morte di David Rossi, il capo della comunicazione del Montepaschi morto precipitando dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni, sede dell’istituto senese, la sera del 6 marzo 2013. A riaprire il caso è la commissione parlamentare d’inchiesta relativa alla morte del top manager di Mps, che ha affidato una maxiperizia ai carabinieri di Ros e Racis per effettuare una serie di accertamenti tecnici. Tra le analisi, quelle sulla dinamica e il modo in cui David Rossi è precipitato dalla finestra del suo ufficio: saranno simulati con un manichino antropomorfo virtuale per cercare di capire se si sia trattato di un suicidio — come hanno affermato due archiviazioni disposte dalla magistratura di Siena — oppure un omicidio, come continua a ritenere la famiglia di Rossi e una parte dell’opinione pubblica. 

«Fare luce sui coni d’ombra»

«C’è la volontà di fare luce sui coni d’ombra rimasti inesplorati in precedenti inchieste. Chiederemo di valutare» sia l’ipotesi «defenestrazione sia il suicidio. E saranno i tecnici a valutare se una soluzione è più verosimile dell’altra». Lo ha detto il presidente della Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi, Pierantonio Zanettin (Forza Italia), presentando, nel corso di una conferenza stampa alla Camera, l’affidamento di perizie con 49 quesiti ai carabinieri. Come Commissione, «abbiamo espresso perplessità su una serie di aspetti» e per questo motivo è stato deciso di richiedere «accertamenti tecnici molto complicati e sofisticati» rivolgendosi «ai corpi speciali dei carabinieri, Racis e Ros, che abbiamo individuato come il top». «Avevamo promesso che non avremmo lasciato nulla di intentato per fare chiarezza su una vicenda ancora piena di ombre e così stiamo facendo. Vogliamo la verità su quanto accadde in quella tragica sera di quasi nove anni fa», hanno dichiarato in una nota congiunta le deputate e i deputati del Movimento 5 Stelle in commissione parlamentare di inchiesta. 

Il manichino virtuale per simulare il corpo che cade

È quanto annunciato dal presidente della commissione, Pierantonio Zanettin, nel corso di una conferenza stampa a cui hanno preso parte il capo del Ros, Pasquale Angelosanto e del Racis, Riccardo Sciuto. Le attività peritale dovrebbero concludersi entro tre-sei mesi. «Siamo in presenza di tanti e articolati quesiti — ha affermato il capo del Racis, Riccardo Sciuto — Sulla precipitazione del corpo utilizzeremo un software che simulerà il corpo che cade. Per fare ciò torneremo sulla scena dei fatti dove verrà impiegato uno scanner 3d che ricostruisce in tre dimensioni la scena del crimine». Della caduta e dell’agonia del manager esiste un video, con la registrazione del volo del corpo e dei venti lunghi minuti rimasto per terra senza assistenza, fino alla fine. Un video che ha dato adito a polemiche enormi sulla ricostruzione effettiva dei fatti e sulla presenza di eventuali altre persone non individuate all’interno del vicolo di Monte Pio, nel retro della banca. Si vedono fra le altre cose una persona che si sporge e un oggetto cadere minuti dopo, che pare essere l’orologio del banker. Il manichino virtuale consentirà di verificare l’ipotesi che Rossi sia stato reso incosciente, anche in modo non violento, prima della caduta, e di simulare che sia stato afferrato da due soggetti in modo da sollevarne il corpo «inanimato» e farlo precipitare dalla finestra. La ricostruzione servirà per verificare se la dinamica sia compatibile con gli elementi accertati dalla scientifica durante i rilievi dopo il ritrovamento del cadavere. Allo stesso modo verrà simulata «la posa di un piede del manichino antropomorfo sul condizionatore come avrebbe potuto fare Rossi — spiega la Commissione nella richiesta di perizia — nell’atto preparatorio alla precipitazione volontaria, riproducendo le condizioni (risma di carta sul lato sinistro del condizionatore) presenti la sera del 6 marzo 2013 e verificando la compatibilità con un gesto anticonservativo». 

Le verifiche sul traffico telefonico

La commissione d’inchiesta ha richiesto anche verifiche sulle utenze telefoniche: l’assenza del tracciamento delle celle telefoniche in uso in quelle ore nella zona di Rocca Salimbeni è stato uno dei punti più criticati della gestione delle indagini da parte della procura di Siena. «I quesiti che ci sono stati sottoposti riguardano i dati del traffico telefonico sviluppato dagli apparecchi in uso a Rossi e dai dispositivi delle persone coinvolte nell’indagine», ha spiegato il capo del Ros, Pasquale Angelosanto. «Noi lavoreremo su materiale già acquisito. Noi cercheremo di fare ciò che facciamo già nelle indagini più complicate e complesse. Analizzeremo non la singola utenza ma verrà messo a confronto ogni singolo traffico con gli altri. Un lavoro particolarmente complesso ma ci auguriamo di fare un buon lavoro e di non lasciare spazi inesplorati».

"Un manichino simulerà la caduta di David Rossi". Orlando Sacchelli il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. La commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Rossi ha deciso di affidare ai carabinieri di Ros e Racis una maxiperizia per ricostruire l'esatta dinamica della caduta del capo comunicazione Mps dalla finestra del suo ufficio di Siena. Nuovo passo verso la ricerca della verità sul caso David Rossi, il capo comunicazione di Mps morto tragicamente la sera del 6 marzo 2013. Dopo due inchieste della procura di Siena e svariate indagini da parte dei media (in primis il programma Le Iene), è nata una commissione parlamentare d'inchiesta che, com'è noto, ha gli stessi poteri dell'autorità giudiziaria. "Chiederemo di valutare" sia l'ipotesi "defenestrazione sia il suicidio. E saranno i tecnici a valutare se una soluzione è più verosimile dell'altra", ha affermato il presidente della Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi, Pierantonio Zanettin, presentando, nel corso di una conferenza stampa alla Camera, l'affidamento di perizie con 49 quesiti ai carabinieri, tra cui la simulazione della caduta con un manichino antropomorfo virtuale. "La ricostruzione su come David Rossi è precipitato non è del tutto convincente - affermato - Fino a oggi non era mai stato svolto un accertamento con manichino antropomorfo. Noi siamo in grado, attraverso tecnologie sofisticate e avvalendoci dei corpi speciali del Racis, di usare un manichino antropomorfo virtuale e questo consente di sviluppare tutte le ipotesi investigative". Dopo aver sentito svariati testimoni la commissione ha deciso di affidare una maxiperizia ai carabinieri di Ros e Racis, chiamati a svolgere una serie di accertamenti tecnici. La decisione, spiegano i deputati membri pentastellati della commissione, "dà seguito al lavoro che fin dall’inizio dell’istituzione della Commissione d’inchiesta, come Movimento 5 Stelle, abbiamo portato avanti. Al contempo sono stati presentati 49 quesiti per fare luce sul caso che sconvolse la tranquilla vita di Siena. Di cosa si tratta? Prima di tutto c'è la "richiesta di procedere con la simulazione della precipitazione di Rossi attraverso l’utilizzo di un manichino antropomorfo: sin da subito abbiamo ritenuto che tale esperimento, inizialmente preso in considerazione da uno dei pm che temporaneamente si occupò del caso ma mai eseguito e che oggi, grazie all’utilizzo delle tecnologie più avanzate e all’avanguardia, verrà svolto con l’ausilio di un software che simulerà il corpo che cade, possa fornire degli elementi interessanti sulla posizione di partenza di Rossi, sulla dinamica della caduta e sull’eventuale intervento di terzi nella dinamica". Grazie al manichino, che in tutto e per tutto simulerà le fattezze di Rossi (peso, altezza e conformazione fisica) si cercherà di fugare ogni dubbio sulla caduta, che presenta molte stranezze nella dinamica sin qui emersa dalle indagini. "Ma non è questo l’unico accertamento che come Movimento 5 Stelle abbiamo sollecitato - spiegano i parlamentari -, riscontrando peraltro la disponibilità da parte della presidenza e di tutti i Commissari. Dopo aver esaminato approfonditamente la documentazione acquisita dalla Commissione e aver appurato alcune incongruenze, è sorta la necessità di espletare nuove verifiche sui tabulati telefonici, sui video e sui dispositivi informatici all’epoca utilizzati da Rossi. Avevamo promesso che non avremmo lasciato nulla di intentato per fare chiarezza su una vicenda ancora piena di ombre e così stiamo facendo. Vogliamo la verità su quanto accadde in quella tragica sera di quasi nove anni fa". È possibile che quei dati siano andati perduti per sempre, perché qualcuno non li ha presi in esame. Andrà stabilito. Ma potrebbe anche esserci qualche sorpresa, magari del tutto inattesa. Come ha chiarito il comandante dei carabinieri del Ros, Pasquale Angelosanto, i risultati sui tabulati saranno disponibili entro tre mesi. E ha poi chiarito di fare "riferimento al materiale già acquisito".

Il racconto del vice ispettore di polizia Marini

"La sera del 6 marzo 2013 la sala operativa intorno alle 20.30 ci inviò in via dei Rossi per una segnalazione di suicidio", racconta Livio Marini, vice ispettore della polizia di Stato, in audizione davanti alla commissione di inchiesta. "Entrando nel vicolo non vedemmo immediatamente la scena, poi vedemmo il corpo di un uomo che giaceva sul selciato, era già presente equipaggio 118 che stava praticando un massaggio cardiaco e aveva già posto gli elettrodi. Ci avviammo poi nel suo ufficio, la porta era chiusa, la chiave era all'interno ma senza mandate. Entrando ho realizzato un filmato con il cellulare, che nelle intenzioni sarebbe dovuto servire a me per aiutare la memoria al momento della redazione degli atti. Nel filmato si vede una panoramica dell'ufficio fino ad arrivare alla perpendicolare sul corpo dalla finestra, quella è l'ultima sequenza. Nell ufficio c'era una giacca sulla sedia, non riscordo se ci fosse il soprabito. Una volta realizzato il video, senza toccare niente, chiudemmo la porta a chiave". Come ricostruito dalle inchieste de Le Iene nell'ufficio furono trovati anche dei fazzolettini di carta macchiati di sangue. Inspiegabilmente non furono mai analizzati. Qualcuno dovrebbe spiegare il motivo di questa strana scelta.

Orlando Sacchelli. Toscano, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, per i toscani e chi ama la Toscana

Mps, nuove ombre sul suicidio di Rossi. Il 5Stelle Migliorino: «Sentenze zeppe di errori». Redazione il 25 novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Le sentenze di archiviazione, la prima e la seconda, sono veramente piene di errori”. Ne è convinto Luca Migliorino, vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi. Il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, trovato morto a Siena il 6 marzo 2013 sul selciato della strada su cui si affacciava il suo ufficio. L’immediata tesi del suicidio, confermata da due sentenze, è però contradetta da varie piste. Tra le quali quella secondo cui l’ex manager sarebbe stato ucciso da un albanese. Insieme a due complici.

Mps David Rossi, Migliorino: sentenze piene di errori

Il lavoro della commissione (proposta da Fratelli d’Italia) punta a “fare molta chiarezza, non vogliamo altri punti interrogativi”, spiega Migliorino. Che riferisce tanti “errori” che lo hanno colpito leggendo le carte. “La caduta di David è avvenuta alle 19.59. Secondo l’orario del videoregistratore che era 16 minuti avanti. Nella prima sentenza invece di togliere 16 minuti, vengono aggiunti. Ponendo la caduta alle ore 20.15. È una delle tante cose che lasciano imbarazzati”.

L’orario della caduta, le ferite, gli indumenti: troppe contraddizioni

Non solo. “Noi in pochi mesi abbiamo scoperto altre due persone che quella sera erano presenti all’interno della banca”. Racconta il vicepresidente della commissione d’inchiesta. “Studiando le indagini, ho visto la foto di David a terra. E uno scooter parcheggiato in quella stradina privata con una targa. Mi chiedo, è stato mai ascoltato il proprietario?”.

E ancora. “L’ultimo che ha visto entrare David in banca racconta che entra in quella banca con una giacca blu. Ma l’unica giacca che stava sulla sedia era grigia”. Insomma tante zone d’ombra su una morte (suicidio?) ancora avvolta nel mistero. Ci furono responsabilità di terzi? . Il procuratore capo di Siena Vitello di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta dice che “non ci sono indizi per sostenere che ci sia stata un’aggressione”. Ma aggiunge anche che alcune lesioni “non furono esaminate in sede di autopsia” sul corpo dell’ex capo ufficio stampa di Mps.

“Vogliamo fare chiarezza su eventuali colpe di terzi”

Tra le tante incongruenze messe in chiaro da Migliorino il capitolo delle ferite. “C’è una ferita sul volto di Rossi. Sono stati trovati dei fazzoletti sporchi di sangue nel cestino. Ma se quella ferita è avvenuta nella caduta come potevano stare nel cestino dei fazzoletti sporchi di sangue? Nessuno dà spiegazione a quelle ferite”. E ancora, si chiede il deputato grillino, perché “quei fazzoletti sporchi di sangue, visti il 6 di marzo, non sono stati sequestrati per settimane? Sono stati lasciati a terra e sequestrati alcune settimane dopo”. “Questa Commissione non solo vuole fare chiarezza, ma anche capire se ci sono colpe di terzi”, conclude il parlamentare.

(ANSA l'11 novembre 2021) - "Il 19 febbraio 2013 fu un uno spartiacque nel suo comportamento, è stato quello il momento in cui ha cambiato il suo atteggiamento". Così Chiara Galgani, collega di David Rossi all'ufficio comunicazione di Mps, in riferimento alla data della perquisizione domiciliare che subì l'ex capo della comunicazione di banca Mps morto poi il 6 marzo dello stesso anno, il 2013, precipitando dalla finestra del suo ufficio in Rocca Salimbeni. Chiara Galgani, durante l'audizione in commissione d'inchiesta sulla morte di Rossi, ha spiegato come dopo la perquisizione il manager "era ancora più chiuso, era più assente al lavoro, tendeva ancora di più ad evitare il confronto". Galgani, che fa parte dell'ufficio stampa e comunicazione di Mps, ha anche ricostruito l'incontro avvenuto tra lei e il suo superiore nel suo ufficio "poco prima delle 18" del 6 marzo 2013: "Rispondeva in modo lucido e puntuale alle mie domande ma l'ho trovato un po' assorto come se avesse anche altre cose su cui stava contemporaneamente ragionando", ha aggiunto Galgani ricordando di essere uscita dalla banca intorno alle 19.20 e di essere passata davanti alla stanza di Rossi "e - ha ricordato - la porta era chiusa".

(ANSA l'11 novembre 2021) - "Indossava una giacca blu, sono sicurissimo". Così l'imprenditore Fulvio Muzzi durante l'audizione in commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi ha risposto a chi gli chiedeva di che colore fosse stata la giacca dell'ex manager di Mps al momento del loro incontro "avvenuto intorno alle 17.35" del 6 marzo 2013. Il membro della commissione d'inchiesta Luca Migliorino (M5s) ritiene il dettaglio "molto interessante" facendo notare che la giacca rinvenuta nell'ufficio di Rossi dopo la sua morte, che avvenne poche ore dopo il loro incontro, "era di colore grigio". Muzzi e Rossi, che si conoscevano da tempo, si erano incontrati per un caffè vicino a Rocca Salimbeni per motivi privati legati alla professione di Muzzi, imprenditore nel campo dell'elettronica. Muzzi sarebbe stata l'ultima persona incontrata da Rossi fuori dalla banca prima del decesso, "mi sembra strano che non sia mai stato ascoltato dagli inquirenti" ha poi aggiunto Migliorino. Alla domanda se avesse notato dei cambiamenti nel comportamento di Rossi dopo la perquisizione domiciliare, Muzzi ha risposto: "Per me non era cambiato". Una parte dell'audizione dell'imprenditore senese è stata poi secretata. 

Commissione parlamentare sente domani le Iene su caso Rossi.  (ANSA il 13 ottobre 2021) - La Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, il manager della Banca Monte dei Paschi precipitato nel 2013 da una finestra del suo ufficio in centro a Siena, ascolterà domani i due giornalisti delle Iene che si stanno occupando da tempo del caso. Lo conferma il Presidente della Commissione Pierantonio Zanettin. Al centro dell'audizione, in particolare, gli audio del servizio andato in onda ieri sera che gettano nuovo ombre sulla vicenda. Sul servizio delle Iene il presidente della Commissione d'inchiesta Zanettin ha avuto uno scambio di battute via Twitter con Guido Crosetto: "Sono colpito dal servizio delle Iene sulla morte di David Rossi - scrive l'esponente di Fdi -. Pazzesca l'omertà che circonda la vicenda. Sconvolgente il comportamento della magistratura". "Posso assicurare - ha replicato subito Zanettin - che la commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, che presiedo, sta facendo tutto il possibile per arrivare alla verità. Siamo in procinto di disporre nuove perizie e nuove audizioni per colmare le lacune delle indagini della magistratura". Giovedì 14 ottobre, alle ore 11, presso l'aula del IV piano di Palazzo San Macuto, la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi svolge l'audizione di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, giornalisti de "Le Iene". L'appuntamento viene trasmesso in diretta webtv.

Silvana Palazzo per ilsussidiario.net l'11 novembre 2021. Le Iene sono tornate ad indagare sul caso di David Rossi, morto nel 2013, raccontando nell’ultimo servizio trasmesso ieri del lavoro e del sopralluogo della Commissione Parlamentare d’inchiesta. Anche quest’ultima si è domandata se la morte del manager MPS sia da attribuire ad un suicidio, come è stato archiviato, o ad un omicidio. Nel corso del servizio è stato trasmesso un audio molto importante. Si tratta di una intercettazione ambientale nella quale un ex parlamentare Giancarlo Pittelli, al suo interlocutore dice di sapere come sarebbe morto David Rossi: “E se riaprono le indagini sulla morte di Rossi succederà un casino grosso”, dice. “Se si sa chi l’ha ammazzato”, aggiunge, precisando, “non si è suicidato, non si è suicidato Rossi non si è suicidato. Rossi è stato ucciso”. David, prima della sua morte, stava indagando su festini a luci rosse che si svolgevano a Siena ai quali avrebbero partecipato importanti magistrati. Un’indagine forse scomoda a qualcuno. Tra depistaggi e dichiarazioni bomba scomparse dai fascicoli, le anomalie attorno al caso sono svariate, come osservato anche alla Camera dall’onorevole Walter Rizzetto, tra i primi a battersi per l’istituzione parlamentare d’inchiesta sulle percosse subite da Rossi prima della morte e sulla mancanza di controlli dei tabulati telefonici, oltre che sui vestiti mai analizzati, istologico mai eseguito, fazzoletti sporchi di sangue andati distrutti e mai analizzati, telecamere mai analizzate e così via. La commissione ha sentito anche Giancarlo Filippone, collaboratore di Rossi, il primo a scoprire la caduta dell’amico affacciandosi alla finestra dopo le 20 ed il primo ad avvicinarsi al corpo di David con un atteggiamento che la vedova ha ritenuto “poco coinvolto, come se guardasse un tombino che straripa”. Al termine del sopralluogo la Commissione non ha esitato a esporre tutti i propri dubbi tanto da voler svolgere una perizia tecnica mai fatta durante le indagini, con l’ausilio di un manichino che simuli la caduta dalla finestra. Tornando all’intercettazione choc, Le Iene hanno aggiunto maggiori dettagli sull’ex parlamentare oggi agli arresti domiciliari. Pittelli è stato rinviato a giudizio in uno dei maggiori processi contro la ‘ndrangheta. Secondo l’accusa sarebbe un massone che svolgerebbe l’anello di congiunzione tra ‘ndrangheta e colletti bianchi e il giorno del suo arresto nel suo studio c’era anche l’avvocato Mussari, ex capo di Rossi. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

Antonino Monteleone torna ad occuparsi della morte di David Rossi, il manager della Banca Monte dei Paschi precipitato nel 2013 da una finestra del suo ufficio in centro. Il servizio de Le Iene si concentrerà sul lavoro svolto in questi mesi dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. In particolare, il programma di Italia 1 ha ripreso il sopralluogo dei commissari e raccolto le dichiarazioni di Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione. Per la prima volta ha espresso tutte le sue perplessità su quanto ricostruito finora dalla Procura e dal Tribunale di Siena che per due volte ha archiviato il caso come suicidio. «Le ricostruzioni che sono state fatte fino ad oggi, come si è verificato quello che secondo la Magistratura è un suicidio, non ci convincono del tutto». Perplessità che si uniscono a quelle della famiglia di David Rossi, che sin dall’inizio non ha mai creduto alla tesi del suicidio. La Commissione ha anche deciso di eseguire una prova tecnica, mai svolta nel corso delle due precedenti indagini, cioè una simulazione con manichino, con le stesse caratteristiche fisiche di David Rossi. Ma nel servizio de Le Iene su David Rossi che andrà in onda stasera verrà approfondito anche la vicenda dell’audio pubblicato nei giorni scorsi dall’emittente calabrese LaCNews24, che getta nuove ombre sulla vicenda. Si tratta di un’intercettazione ambientale dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, imputato del maxi processo Rinascita Scott, arrestato nel novembre 2019 e ora ai domiciliari. Nell’intercettazione parlava con un suo collega dei problemi finanziari di Banca Monte dei Paschi di Siena diceva: «Se riaprono le indagini sulla morte di Rossi succederà un casino grosso». E aggiungeva: «Se si sa chi lo ha ammazzato… Non si è suicidato, Rossi non si è suicidato, Rossi è stato ucciso». Le domande che sorgono, dunque, sono diverse: in primis, cosa sa sulla morte dell’ex responsabile della comunicazione di Mps? Pertanto, ci sono altri elementi che emergono?

“Ecco chi vidi nel vicolo la sera della morte di David Rossi…” Raffaello Binelli su L'Arno su Il Giornale il 3 novembre 2021. Alcuni giorni fa la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi (il capo della Comunicazione Mps caduto dalla finestra del suo ufficio la notte del 6 marzo 2013) ha svolto le audizioni di due giornalisti, Cesare Peruzzi e Tommaso Strambi (guarda il filmato). Quest’ultimo, all’epoca responsabile della redazione di Siena de La Nazione, ha raccontato cosa vide proprio quella sera nel vicolo di Monte Pio, quello in cui fu trovato il corpo senza vita di Rossi. “Avevamo terminato il giornale in netto anticipo rispetto al solito. Ho chiamato David (Rossi, ndr) per chiedergli se la mattina dopo volevamo andare a correre insieme, ma non mi ha risposto. Sono uscito dalla redazione e mentre in strada stavo salutando una collaboratrice che non vedevo da tempo perché aveva perso la mamma, con la coda dell’occhio ho notato un’ambulanza parcheggiata di fronte alla libreria Feltrinelli. Ho visto anche un ufficiale dei carabinieri in borghese, non operativo. Mi sono avvicinato e dallo sguardo ho capito che dovevo seguirlo. Quindi ho girato in via dei Rossi e quando siamo entrati, mentre scendevamo, Valentino Fanti (capo della segreteria di Giuseppe Mussari, ndr) mi è venuto incontro: È Davide”. Dopo un attimo di commozione il giornalista aggiunge: “C’era anche Dalla Riva (Ilaria, responsabile del Personale Mps, ndr). I carabinieri del Norm che stavano già cinturando il territorio”. Quel fatto gravissimo sconvolse la vita dei giornali, le cui pagine vennero tutte “ribaltate”, come si dice in gergo, per coprire nel modo adeguato la notizia della morte di Rossi. Strambi racconta di aver informato il proprio direttore e, subito dopo, che il suo telefono cominciò a squillare di continuo. Tutti lo cercavano: “Visto che ero l’unico dei giornalisti presenti, hanno iniziato a cercarmi i colleghi di tutte le testate. Esplode l’universo”. Perché questi due nomi fatti da Strambi possono essere importanti? Non sappiamo se i due quella sera si trovassero già nella sede della banca, oppure siano stati avvertiti dopo la notizia della tragedia. Uno dei membri della commissione parlamentare ha detto che, a suo avviso, prima non era mai emerso che Fanti e dalla Riva si trovassero nel vicolo.  Strambi ricorda bene ancora oggi quell’episodio, e aggiunge un particolare: “L’immagine di Valentino Fanti mi è rimasta perché è quello che mi venne incontro e che era abbastanza sconvolto”. Fanti era una delle persone che aveva letto l’email scritta da Rossi pochi giorni prima della sua morte, quella in cui chiedeva aiuto. E aveva chiesto a Lorenza Pieraccini, segretaria dell’ad Fabrizio Viola, di cancellarla. Sentita dai pm dopo 4 anni, l’8 novembre 2017, Pieraccini confermò di aver letto il 4 marzo 2013 la prima di alcune decine di  email scambiate tra Rossi e Viola, quella con oggetto “help” e nel cui testo c’era scritto: “Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!!!”. Dopo pochi giorni dalla morte di Rossi Pieraccini rientrò nella posta di Viola per cercare l’email, ma non la trovò. E quando il pm le chiese chi l’avesse cancellata rispose: “Non lo so, sicuramente non io”. Raffaello Binelli

Commissione parlamentare sente domani le Iene su caso Rossi.  (ANSA il 13 ottobre 2021.) - La Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, il manager della Banca Monte dei Paschi precipitato nel 2013 da una finestra del suo ufficio in centro a Siena, ascolterà domani i due giornalisti delle Iene che si stanno occupando da tempo del caso. Lo conferma il Presidente della Commissione Pierantonio Zanettin. Al centro dell'audizione, in particolare, gli audio del servizio andato in onda ieri sera che gettano nuovo ombre sulla vicenda. Sul servizio delle Iene il presidente della Commissione d'inchiesta Zanettin ha avuto uno scambio di battute via Twitter con Guido Crosetto: "Sono colpito dal servizio delle Iene sulla morte di David Rossi - scrive l'esponente di Fdi -. Pazzesca l'omertà che circonda la vicenda. Sconvolgente il comportamento della magistratura". "Posso assicurare - ha replicato subito Zanettin - che la commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, che presiedo, sta facendo tutto il possibile per arrivare alla verità. Siamo in procinto di disporre nuove perizie e nuove audizioni per colmare le lacune delle indagini della magistratura".

Camera: domani audizione giornalisti su caso David Rossi

 (ANSA il 13 ottobre 2021) - Giovedì 14 ottobre, alle ore 11, presso l'aula del IV piano di Palazzo San Macuto, la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi svolge l'audizione di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, giornalisti de "Le Iene". L'appuntamento viene trasmesso in diretta webtv. Silvana Palazzo per ilsussidiario.net il 13 ottobre 2021. Le Iene sono tornate ad indagare sul caso di David Rossi, morto nel 2013, raccontando nell’ultimo servizio trasmesso ieri del lavoro e del sopralluogo della Commissione Parlamentare d’inchiesta. Anche quest’ultima si è domandata se la morte del manager MPS sia da attribuire ad un suicidio, come è stato archiviato, o ad un omicidio. Nel corso del servizio è stato trasmesso un audio molto importante. Si tratta di una intercettazione ambientale nella quale un ex parlamentare Giancarlo Pittelli, al suo interlocutore dice di sapere come sarebbe morto David Rossi: “E se riaprono le indagini sulla morte di Rossi succederà un casino grosso”, dice. “Se si sa chi l’ha ammazzato”, aggiunge, precisando, “non si è suicidato, non si è suicidato Rossi non si è suicidato. Rossi è stato ucciso”. David, prima della sua morte, stava indagando su festini a luci rosse che si svolgevano a Siena ai quali avrebbero partecipato importanti magistrati. Un’indagine forse scomoda a qualcuno. Tra depistaggi e dichiarazioni bomba scomparse dai fascicoli, le anomalie attorno al caso sono svariate, come osservato anche alla Camera dall’onorevole Walter Rizzetto, tra i primi a battersi per l’istituzione parlamentare d’inchiesta sulle percosse subite da Rossi prima della morte e sulla mancanza di controlli dei tabulati telefonici, oltre che sui vestiti mai analizzati, istologico mai eseguito, fazzoletti sporchi di sangue andati distrutti e mai analizzati, telecamere mai analizzate e così via. La commissione ha sentito anche Giancarlo Filippone, collaboratore di Rossi, il primo a scoprire la caduta dell’amico affacciandosi alla finestra dopo le 20 ed il primo ad avvicinarsi al corpo di David con un atteggiamento che la vedova ha ritenuto “poco coinvolto, come se guardasse un tombino che straripa”. Al termine del sopralluogo la Commissione non ha esitato a esporre tutti i propri dubbi tanto da voler svolgere una perizia tecnica mai fatta durante le indagini, con l’ausilio di un manichino che simuli la caduta dalla finestra. Tornando all’intercettazione choc, Le Iene hanno aggiunto maggiori dettagli sull’ex parlamentare oggi agli arresti domiciliari. Pittelli è stato rinviato a giudizio in uno dei maggiori processi contro la ‘ndrangheta. Secondo l’accusa sarebbe un massone che svolgerebbe l’anello di congiunzione tra ‘ndrangheta e colletti bianchi e il giorno del suo arresto nel suo studio c’era anche l’avvocato Mussari, ex capo di Rossi. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

Antonino Monteleone torna ad occuparsi della morte di David Rossi, il manager della Banca Monte dei Paschi precipitato nel 2013 da una finestra del suo ufficio in centro. Il servizio de Le Iene si concentrerà sul lavoro svolto in questi mesi dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. In particolare, il programma di Italia 1 ha ripreso il sopralluogo dei commissari e raccolto le dichiarazioni di Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione. Per la prima volta ha espresso tutte le sue perplessità su quanto ricostruito finora dalla Procura e dal Tribunale di Siena che per due volte ha archiviato il caso come suicidio. «Le ricostruzioni che sono state fatte fino ad oggi, come si è verificato quello che secondo la Magistratura è un suicidio, non ci convincono del tutto». Perplessità che si uniscono a quelle della famiglia di David Rossi, che sin dall’inizio non ha mai creduto alla tesi del suicidio. La Commissione ha anche deciso di eseguire una prova tecnica, mai svolta nel corso delle due precedenti indagini, cioè una simulazione con manichino, con le stesse caratteristiche fisiche di David Rossi. Ma nel servizio de Le Iene su David Rossi che andrà in onda stasera verrà approfondito anche la vicenda dell’audio pubblicato nei giorni scorsi dall’emittente calabrese LaCNews24, che getta nuove ombre sulla vicenda. Si tratta di un’intercettazione ambientale dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, imputato del maxi processo Rinascita Scott, arrestato nel novembre 2019 e ora ai domiciliari. Nell’intercettazione parlava con un suo collega dei problemi finanziari di Banca Monte dei Paschi di Siena diceva: «Se riaprono le indagini sulla morte di Rossi succederà un casino grosso». E aggiungeva: «Se si sa chi lo ha ammazzato… Non si è suicidato, Rossi non si è suicidato, Rossi è stato ucciso». Le domande che sorgono, dunque, sono diverse: in primis, cosa sa sulla morte dell’ex responsabile della comunicazione di Mps? Pertanto, ci sono altri elementi che emergono?

DAVID ROSSI. VERRA’ DI NUOVO SIMULATA LA CADUTA DEL CORPO. Paolo Spiga su La Voce delle Voci il 18 Settembre 2021. David Rossi, il mistero continua. Nonostante i continui flop della magistratura senese e genovese, che hanno in pratica gettato la spugna sul ‘suicidio’ del responsabile delle comunicazioni del Monte dei Paschi di Siena, avvenuto oltre 8 anni fa, il 6 marzo 2013, la Commissione parlamentare d’inchiesta cerca ancora di far luce su alcuni dei lati più oscuri. Tra pochi giorni, infatti, verrà effettuata una perizia tecnica, circa la dinamica della caduta del corpo dal quarto piano di Palazzo Salimbeni. Tutti i magistrati che hanno fino ad oggi indagato senza successo, hanno sostenuto che il tipo di caduta è perfettamente compatibile con la pista del suicidio, data per certa. Le perizie di parte, invece, sono di parere diametralmente opposto. Per questo motivo tra pochi giorni verrà simulata – attraverso l’uso di un manichino dello stesso peso, della stessa altezza e della stessa corporatura – la caduta, secondo quanto deciso dai componenti della Commissione parlamentare. Così afferma il presidente della Commissione, Pierantonio Zanettin. “La dinamica della caduta era stata già valutata cinque anni fa, nel 2016, nel corso della seconda indagine sul caso, quando venne fatto calare un vigile del fuoco. L’ipotesi che Rossi si lasci cadere di spalle restando appeso alla sbarra ci lascia perplessi e giustifica il ripetersi di tale accertamento tecnico”. Lascia davvero sbigottiti, infatti, che un aspirante suicida non si butti dalla finestra in avanti, ma di spalle, quasi come un tuffatore dal trampolino per un carpiato con avvitamento. Tende a puntualizzare Zanettin: “Non si tratta di alcun attacco alla magistratura, che fa il suo mestiere e noi ne svolgiamo un altro. Dico solo che le ricostruzioni fatte fino ad oggi lasciano molti dubbi. Non ci sostituiamo agli inquirenti, conosco il perimetro del lavoro della procura e quello della politica. Parla di “lacune gravi nella prima inchiesta”, Zanettin. Che fa un altro esempio: “Mi ha molto colpito la distruzione dei fazzolettini (a quanto pare insanguinati, ndr) per di più in tempi così rapidi. La seconda indagine ha scontato la distanza di anni. Un vero e proprio cold case, il nostro”. Ma c’è un’altra perizia da svolgere. Si tratta di una verifica tecnica sui tabulati telefonici, perché – spiega Zanettin – “c’è una discrasia sugli orari delle riprese delle telecamere di videosorveglianza e sulle ultime telefonate di Rossi”. Altri forti dubbi sulle indagini vengono sollevati dal vice presidente della Commissione, Luca Migliorino: “Durante il sopralluogo nell’area di via Salimbeni, ho visto sei porte di ingresso e di uscita (dal palazzo del Monte Paschi, ndr), non tre. Inoltre il vicolo è molto stretto, mentre nel video appare più grande”. Parla poi, Migliorino, di “una sorpresa che ci ha lasciato senza parole” nel corso del sopralluogo. “Siamo arrivati al grottesco”, aggiunge in modo sibillino. A cosa mai si riferisce il vice presidente? In questi ultimi giorni la Commissione ha già ascoltato alcuni testi. A cominciare da Lorenza Bondi, dello staff comunicazione di Mps. Ecco le alcune sue parole: “Sono passata davanti alla porta (di Rossi, ndr), trovandola un po’ aperta, la luce era accesa, e io stavo uscendo dal lavoro. La condizione psicologica di David in quei giorni? La sensazione che provava in quel momento la città era quella della caduta degli dei e della fine di un impero. Qualcuno ha fatto un parallelismo con tangentopoli”. Molto lunga l’audizione di un collega e amico di David, Giancarlo Filippone, il quale, però, non fa trapela nulla circa quanto raccontato ai commissari. E’ stato poi ascoltato Raffaele Ascheri, giornalista e autore di un libro sul caso. Osserva un altro componente della Commissione, Susanna Cenni: “C’è la volontà di fare il miglior lavoro possibile, senza nessuna ipotesi già preconfezionata”. Sottolinea Zanettin: “Non so ancora a quali conclusioni arriveremo, ma destano perplessità le modalità utilizzate per togliersi la vita. Noi vogliamo solo la verità”. La Commissione, comunque, effettuerà nelle prossime settimane un nuovo sopralluogo. Visto che i punti da chiarire sono tanti. E nessuno è stato chiarito, fino ad oggi, dagli inquirenti.

David Rossi, il presidente della commissione d'inchiesta: “Alcuni elementi della tesi del suicidio non ci convincono”. Le Iene News il 9 settembre 2021. Il presidente della commissione parlamentare sulla morte di David Rossi, Pierantonio Zanettin, interviene al termine della missione a Siena della commissione che indaga da marzo sulla morte del capo della comunicazione Mps volato giù nel 2013 dalla finestra del suo ufficio. Lo fa parlando anche di “lacune gravi” e “superficialità” nella prima inchiesta e lanciando un appello. Su questo caso noi de Le Iene siamo in prima linea da 4 anni con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, chiedendoci proprio se si è trattato davvero di un suicidio, come il caso è stato archiviato dai giudici, o di un omicidio. “Ci sono elementi che hanno portato alla tesi del suicidio che ci lasciano perplessi, non ci convincono del tutto, chiederemo una nuova perizia tecnica e anche un accertamento sui tabulati telefonici. Sicuramente ci sono delle lacune gravi nella prima inchiesta, la seconda ha scontato il fatto che è stata svolta a distanza di anni. Nella prima inchiesta ci sono aspetti di superficialità che lasciano perplessi”. La dichiarazione, molto importante, del presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, Pierantonio Zanettin, arriva in conferenza stampa al termine della missione di due giorni a Siena di una delegazione della commissione stessa per effettuare un sopralluogo e ascoltare le testimonianze di alcuni personaggi fondamentali. L'obiettivo della commissione è cercare di chiarire tutti i dubbi sulla morte del capo della comunicazione Mps, volato giù il 6 marzo 2013 dalla finestra del suo ufficio nel mezzo di una bufera giudiziaria, mediatica e finanziaria. “Vogliamo arrivare al termine del nostro lavoro con la produzione di una documentazione tecnica e per questo abbiamo deciso di effettuare delle perizie e tra queste la simulazione della caduta dalla finestra attraverso un manichino di uguale peso e misura di Rossi”, aggiunge Zanettin, che lancia anche un appello a parlare a chi può avere informazioni: "Ora è l'ultima occasione per trovare la verità, possono rivolgersi a noi". Noi de Le Iene siamo da quattro anni in prima linea nel cercare di chiarire i molti dubbi e misteri che sembrano ancora aperti in questo caso con 16 servizi e uno Speciale di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Lo facciamo partendo sempre da un primo fondamentale interrogativo, lo stesso di cui si parla anche oggi: si è trattato davvero di un suicidio, come il caso è stato archiviato dai giudici, o di un omicidio. Sopra trovate l’ultimo servizio andato in onda il 23 marzo scorso dopo il via libera ufficiale alla commissione parlamentare e qui un video a commento di Carolina Orlandi, figlia della moglie di David Rossi (è prevista prossimamente anche una sua audizione) e tutti i principali interrogativi irrisolti. Stamani è stata ascoltata dalla commissione Lorenza Bondi, collaboratrice dello staff della comunicazione Mps di David Rossi. “Come era David Rossi in quei giorni? In quei giorni a Siena si viveva una situazione da caduta degli dei, da fine di un impero. Perquisizioni, indagini, come per Tangentopoli, e in una città piccola come Siena non era certo facile", ha dichiarato al termine della sua audizione in prefettura. La delegazione della commissione presieduta da Pierantonio Zanettin (Forza Italia) ha effettuato ieri, mercoledì 8 settembre, anche un sopralluogo all'interno di Palazzo Salimbeni, sede storica di banca Mps, nell’ufficio da cui è precipitato David Rossi, e nel vicolo sottostante. “Qualche indicazione nuova è arrivata”, sostiene il deputato Walter Rizzetto (FdI), primo firmatario della proposta che ha portato all’istituzione della commissione. “Qualche idea nuova ce la siamo fatta”, dice Luca Migliorino (M5S). Sono seguite le prime audizioni in prefettura di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, e del fratello Ranieri Rossi. "È stato un incontro lungo e interessante. Mi hanno chiesto del prima, del durante e del dopo, dei rapporti con la banca, di alcuni passaggi che per loro erano da capire meglio. Ci siamo soffermati sul carattere di David sul fatto delle mail, gli ho parlato del mio processo, di tutto quello che finora è via via uscito”, ha detto Antonella Tognazzi al termine della sua audizione. “Io sono in cerca di capire cosa è successo e perché. Mi auguro che alla fine venga aperto un fascicolo per omicidio perché questa è la parola giusta”.

La perizia dimenticata: ecco l'altra verità su David Rossi. Raffaele Ascheri il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo alcuni estratti del libro "Cronaca di un suicidio (annunciato). Il Caso David Rossi" di Raffaele Ascheri. Per gentile concessione dell'editore Cantagalli pubblichiamo un estratto del libro di Raffaele Ascheri dal titolo "Cronaca di un suicidio (annunciato). Il Caso David Rossi".

"C’è una consulenza, voluta dalla moglie Antonella Tognazzi e dagli altri componenti della famiglia, che non può non imbarazzare, in quanto dimostra nero su bianco (anche se non ce n’era in effetti alcun bisogno) come e quanto la famiglia fosse arciconvinta del suicidio di David Rossi, a dispetto di ciò che in seguito ha iniziato a dire. Che sia imbarazzante, lo denota il fatto che, nella narrazione mediatica, di questa consulenza non vi è assolutamente traccia: come nelle foto del periodo staliniano, Trotskj era espunto (restava solo Lenin, che tanto era morto), così nella trattazione mediatica sul Caso Rossi tutto ciò che non è funzionale viene espunto. Ecco che, quindi, a livello di divulgazione pubblica, quello che i lettori stanno per leggere è un autentico inedito: che i contronarratori si sono ben guardati dal fare conoscere al pubblico. Questo l’incipit del tutto, scritto dalla professoressa Liliana Lorettu, direttore della Clinica psichiatrica dell’Università degli Studi di Sassari: “In data 8 maggio 2013, l’avvocato Luca Goracci (allora, unico legale della famiglia, Ndr) ha dato incarico alla sottoscritta, su delega della famiglia Tognazzi-Rossi, di procedere all’esame degli atti a disposizione al fine di capire se la morte di David Rossi possa essere riconducibile ad una morte stress-lavoro correlata”. In sintesi: tutta la famiglia (di sangue e matrimoniale: Tognazzi e Rossi), verosimilmente su suggerimento dell’avvocato Goracci – che è un avvocato del lavoro –, chiama in causa una psichiatra, affinché la stessa – in base alla Legge 231 – stabilisca se il Monte dei Paschi è in qualche modo responsabile di non avere vigilato sullo stressatissimo (secondo la corretta versione di allora della famiglia) David Rossi. Ergo, non solo il suicidio è accettato come fatto del tutto acclarato, in alcun modo messo in dubbio; ma anche, proprio in virtù dell’evento suicidario, si cerca di inchiodare MPS alle sue presunte responsabilità di mancata vigilanza sullo stato psichico del suo defunto dipendente. Questo è, per l’appunto, il senso della legislazione italiana in merito (la prima citata 231). Il fatto che il Rossi si sia gettato dall’ufficio – tanto per iniziare l’analisi dell’esplosivo documento –, è un elemento di forza, rispetto alla tesi sostenuta dalla consulente della famiglia, professoressa Lorettu: “Inoltre, il suicidio di Rossi è avvenuto sul luogo di lavoro. Questo elemento è pressoché patognomonico dei suicidi stress-lavoro correlati, come ampiamente riportato in letteratura”. “Come ampiamente riportato in letteratura”, quindi, chi si uccide per stress da lavoro, tende ad ammazzarsi sul luogo stesso in cui esercita la sua professione (tra l’altro, così facendo, si è sicuri che i primi a rendersi conto della tragedia siano i colleghi, non i familiari, ai quali si vuole evidentemente risparmiare quantomeno questo primo strazio: come infatti accadrà, con tre montepaschini di vario grado – Mingrone, Filippone, Riccucci – a vedere per primi, dalla finestra, il corpo senza più vita del loro collega). La psichiatra sarda, ovviamente, cerca di dare un quadro del contesto psicologico del Rossi in quel dato momento; certo, ben diverso da quello fornito in seguito dalla moglie – secondo la quale il marito non aveva alcun motivo di suicidarsi, come dirà in molteplici occasioni pubbliche –, o lo stesso Davide Vecchi, il quale nel suo più volte citato libro scrive di “Un cinquantenne felice e stimato” (Il Caso David Rossi..., op. cit., p. 37), “[…] se la vita privata appariva felice, quella lavorativa, nonostante le pressioni dovute alle inchieste su MPS, non era da meno” (op. cit., p. 38), fino alla domanda – sempre nella medesima pagina – “Dunque perché David avrebbe dovuto uccidersi?”. Ce lo dice (5 anni prima del libro del giornalista, si badi bene) una professionista, tra l’altro consulente di parte scelta e voluta dalla famiglia stessa: più di così, è davvero arduo trovare… Dopo avere esposto una sintesi del contesto e del profilo psicologico del Rossi – ovviamente seguendo ciò che le dice la moglie –, la psichiatra arriva alla parte conclusiva, e dal suo punto di vista decisiva, del documento: “la discussione psichiatrico forense”, la quale “verte su due punti: a) esame del legame fra stress lavorativo subìto da Rossi e suicidio; b) ruolo della società MPS”. Vediamo di analizzare entrambe le parti; vista l’importanza – ci sia consentito, clamorosa – del documento, citiamo verbum de verbo la professoressa Liliana Lorettu (lo ribadiamo ancora: consulente di parte delle famiglie Rossi-Tognazzi, in quel maggio 2013).

a) L’esame dello stress lavorativo subìto da Rossi

“Quando si affronta la problematica del suicidio, si ricorre spesso al paradigma della malattia mentale. Tuttavia, i dati clinici ed epidemiologici ci confermano che non tutti i suicidi trovano una eziologia ed una spiegazione nella malattia mentale. Spesso alla base del suicidio vi è una multifattorialità di elementi che tuttavia non deve portare ad una deriva di incomprensibilità ed imprevedibilità dell’evento suicidario. Lo studio dell’anatomia del suicidio ci fa capire che tanti elementi erano presenti, visibili e paradossalmente comprensibili prima dell’evento. Nel caso specifico, vari elementi fanno ipotizzare un legame fra lo stress lavorativo al quale Rossi è stato sottoposto ed il suicidio. Due possono essere identificati come determinanti.

Uno è la cronologia dello stress di Rossi, che è stato strettamente legato alle vicende di MPS ed al ruolo che il Rossi svolgeva. L’altra è il contenuto dello stress di Rossi, cioè gli elementi che hanno costituito il pesante fardello emotivo, anche questo connotato e derivato dalle vicende del MPS e dal ruolo lavorativo di Rossi. Inoltre, il suicidio di Rossi è avvenuto sul luogo di lavoro: questo elemento è pressoché patognomonico dei suicidi stress-lavoro correlati, come ampiamente riportato in letteratura” (e come già scritto in precedenza).

b) Ruolo della società MPS

“Nell’analizzare il ruolo del MPS si fa riferimento ad una legittima domanda che un qualunque cittadino potrebbe porsi (poi, la domanda negli anni sarebbe cambiata, da parte di un ‘qualunque cittadino’, Ndr): ‘è stato fatto tutto quello che si doveva fare per evitare il suicidio di David Rossi?’”. Lo stress al quale è stato sottoposto David Rossi è stato sotto gli occhi di tutti. Alcuni, in ambito lavorativo, hanno avuto modo di ascoltare la sua preoccupazione per specifici elementi (la perquisizione, la fuga di notizie). Alcuni in modo specifico hanno ricevuto una mail con esplicita richiesta di aiuto e dichiarazione della intenzionalità suicidaria, due giorni prima del suicidio. A questi elementi conoscitivi non vi è stata una risposta.

In data 30 gennaio 2013 e 6 marzo 2013 vi è stato con la Ciani un intervento di coaching che ha avuto come obiettivo “l’integrazione comportamentale fra i nuovi manager (interfunzionalità manageriale), ma che ha completamente scotomizzato il disagio del Rossi. La richiesta di aiuto, attraverso la mail, ha palesato un grossolano malessere del Rossi ed ha reso prevedibile l’evento suicidario, che infatti si è verificato dopo due giorni; è difficile ipotizzare che a tali richieste possa essere attribuita una etichetta di ‘dimostratività-teatralità’, in ragione della assodata riservatezza e razionalità che tutti riconoscevano al Rossi; è legittimo chiedersi se un intervento a contenuto empatico, testimonianza di umanità e comprensione, avrebbe potuto evitare l’evento. Tuttavia tale intervento, auspicabile in un ambiente di lavoro, non si è verificato. Non si sono verificati neanche altri interventi specifici, testimonianza di un esigibile comportamento prudenziale, dettato dalla diligenza, che prevede, una volta constatato il malessere di un dipendente, la segnalazione al medico competente, l’adozione di provvedimenti tesi a mettere in sicurezza il dipendente. L’assenza di tale comportamento prudenziale costituisce una negligenza specifica”. Più chiaro ed apodittico di così, davvero non è possibile; la psichiatra arriva infine – a nome e per conto della famiglia – a scrivere che “è possibile ricostruire un nesso causale tra lo stress lavorativo cui è stato sottoposto il Rossi e l’evento suicidario”, aggiungendo in seconda battuta che “è possibile riconoscere un comportamento caratterizzato da negligenza che non ha valutato con adeguata attenzione le richieste di aiuto ed i propositi suicidari”. Il tutto, viene firmato e controfirmato, dalla professoressa Lorettu, il 14 ottobre 2013, a più di sette mesi dalla morte del Rossi". Raffaele Ascheri 

C. Con. per "la Verità" il 20 luglio 2021. Ha ragione Guido Piovene quando scrive che Siena è una città misteriosa perché è fatta a chiocciola - e piazza del Campo a forma di conchiglia - con le vie attorcigliate. Infilando una strada si ha l'impressione di costeggiarne un'altra senza vederla. Ogni via ha un doppio fondo, un segreto, e quasi un retroscena che l'accompagna. Così è sempre stato anche nella banca di Siena, il Monte dei Paschi. E questo diventa un problema se del Monte o della Fondazione devi scrivere da cronista finanziario. Avere una fonte senese significa doversi intrufolare nelle chiocciole, nei ghirigori locali, imparare una nuova lingua dove bianco a volte può voler dire nero. Capire che a volte conta più il non detto, il sottinteso da decifrare. Devi essere pronto a tutto, anche a perderti. Sarà che a Siena ovunque ti giri c'è sempre un muro e a volte temi di non uscirne più. Quando la cronaca da finanziaria diventa nera e giudiziaria, però, quei muri rischiano di diventare specchi. Che possono riflettere la realtà o la narrazione che le viene costruita attorno. Il libro di Raffaele Ascheri - Cronaca di un suicidio (annunciato) edito da Cantagalli - parte appunto dalla «cronaca» del suicidio di David Rossi, il responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena precipitato dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni. Smontando, pezzo per pezzo con documenti alla mano, la narrazione degli ultimi anni. La domanda chiave del libro di Ascheri è: il 6 marzo del 2013 Davide Rossi è stato ucciso o si è suicidato? La magistratura con ben tre giudici terzi si è pronunciata in modo chiaro: si tratta di un suicidio avvenuto nel momento in cui l'autorità giudiziaria accese un faro su chi aveva gestito Mps insieme all'ex presidente Giuseppe Mussari e l'ex dg Antonio Vigni coinvolti nell'inchiesta Antonveneta. Nel frattempo, però, il caso è diventato un «giallo» che ha tenuto banco per anni sui media nazionali e nel marzo scorso è stata addirittura istituita una commissione parlamentare d'inchiesta. Legittimamente, sia chiaro. Ma raccontando sempre i contorni più noir e misteriosi della vicenda, e più intriganti dal punto di vista dell'audience. Ascheri però vuol dimostrare, con documenti inediti, non solo che David Rossi ha deciso di togliersi la vita in uno dei momenti più difficili della sua esistenza. Ma anche che l'ipotesi omicidiaria è stata spettacolarizzata spargendo anche fango (con la tesi dei fantomatici «festini») sulla magistratura senese nonché su tante altre persone che, con il suicidio del povero Rossi, niente ci entravano. Secondo Ascheri il caso Rossi - per volontà della famiglia e di alcuni giornalisti - è divenuto un evento di portata nazionale, financo con riverberi internazionali. Il problema è che la narrazione portata avanti in questi anni ha oscurato molte parti della documentazione, come lo stato psicologico che aveva Rossi in quei giorni dopo le perquisizioni subite (non in veste di indagato) in casa e in ufficio. Ascheri fa parlare le carte, rispolvera verbali di testimonianze curiosamente sottovalutate o messe da parte da altri. Nel libro viene riportato, ad esempio, il colloquio di circa due ore (avvenuto il giorno stesso del suicidio) tra Rossi e la coach manageriale del Monte che poi testimonierà ai magistrati il suo stato d'animo e che nella narrazione mediatica non è mai stata sentita. Raffaele Ascheri ha già scritto tre libri - La casta di Siena; Le mani sulla città; Mussari Giuseppe: una biografia non autorizzata - e da anni ha un suo blog chiamato l'Eretico. Materiale preziosissimo per capire come girava il mondo nelle contrade (anzi il «groviglio armonioso») quando ancora la Fondazione Mps e la banca da essa al tempo controllata erano chiamati la Mucchina e la Muccona perché dalle loro mammelle per decenni hanno mangiato in tanti. E utili ancora oggi come lente per leggere le vicende politiche senesi. L'Eretico Ascheri, insieme ad altri blogger locali, sono stati gli unici a denunciare le relazioni pericolose che stavano soffocando la città, dall'università alle squadre di calcio e di basket passando ovviamente per il Monte e la sua Fondazione. A caro prezzo, e non solo in termini di querele ricevute (e altre, forse, arriveranno). Lo racconta lo sesso Ascheri ricordando anche i rapporti di reciproca antipatia che correvano tra lui e il Rossi ma anche guardandone la figura con sincero senso di pietas. Alla fine del libro l'autore verga un lungo post scriptum, un contributo alla critica di sé stesso. Ma che si conclude così: «I mulini a vento - ci permettiamo di dire - forse lo stesso David Rossi sarebbe il primo a non volere che venissero rincorsi».

Morte David Rossi, "un gesto annunciato": nero su bianco, l'ultimo clamoroso ribaltone. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. Questa settimana sono iniziate, alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, le audizioni dei giornalisti che si sono occupati del caso. Rossi, manager del Monte dei Paschi di Siena, è precipitato dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo del 2013, a qualche giorno di distanza dall'inizio dello tsunami giudiziario che ha coinvolto il "Babbo Monte", per usare un'espressione che, in Toscana, non lascia adito a dubbi: si riferisce alla banca senese. Lui non era nemmeno indagato, ma la Guardia di Finanza aveva appena finito di perquisire il suo ufficio, la sua casa e persino la sua auto.

DIBATTITO - Quel tragico evento di ormai nove anni fa non è mai stato del tutto chiarito. Ci sono state delle inchieste della procura, almeno due indagini ufficiali e ben tre giudici che l'han messo nero su bianco: si tratta di suicidio. E però è pure iniziato un dibattito infinito, ed è venuta a galla una serie di dettagli considerati contraddittori rispetto alla versione ufficiale. Tanto che, come detto, in Parlamento si è creata una Commissione apposita, nata anche dal desiderio della famiglia di capire cosa sia davvero successo. Tra i giornalisti che han seguito, fin dall'inizio, la vicenda c'è Raffaele Ascheri: uno che a Siena non si risparmia, che parla pane al pane e lo fa di lavoro, quello di sviscerare le storie nelle quale incappa. Ascheri ha pubblicato in questi giorni un libro ("Cronaca di un suicidio (annunciato): il caso David Rossi", edizioni Cantagalli, 256 pagine, 20 euro) che dà ragione alla ricostruzione della magistratura: nessun omicidio, sostiene, in uno dei momenti più difficili della sua esistenza, Rossi, purtroppo, ha deciso di togliersi la vita, schiacciato dall'affaire Mps che stava per cambiare (e per sempre) la sua città e la sua stessa vita. Nelle pagine di Ascheri ci si imbatte, per esempio, nella testimonianza di Carla Lucia Ciani, "coach" aziendale per l'istituto bancario senese, che ha incontrato il manager proprio la mattina della sua morte, qualche ora prima di quel volo fatale su Banchi di Sopra. «Aveva continuamente l'occhio al telefono - dice la donna, ripresa poi parola per parola nel testo scritto, - mi disse che era preoccupato per la moglie che aveva problemi di salute. (...) Ha manifestato una situazione di ansia derivante dalla perquisizione da lui subita in un contesto già problematico: disse che questa cosa per lui rappresentava un dramma; disse che era un momento in cui gli stava cadendo addosso il mondo perché c'erano tante cose che gli erano accadute lo stesso momento: la morte del padre; la crisi del Monte; lo stato di salute della moglie; le perquisizioni subite. Sentiva dentro una serie di situazioni negative che non riusciva a gestire». Dichiarazione che secondo Ascheri rappresenta «testimonianza insuperabile», ma «letteralmente eradicata dalla narrazione mediatica dominante».

MISTERO COSTRUITO - Ancora: la consulenza affidata dalla famiglia Rossi alla professoressa Liliana Loreddu, direttrice della Clinica psichiatrica di Sassari, sottolinea come «il suicidio avvenuto sul luogo di lavoro» sia un «elemento pressoché patognomonico dei suicidi stress-lavoro», come a dire l'ambiente non è casuale. Poi c'è il mistero dell'orologio di Rossi che secondo alcuni sarebbe ruzzolato giù dalla finestra venti minuti dopo la morte del manager. «Nessuno potrebbe ragionevolmente capirne il perché» scrive Ascheri, tanto più che nei video ripresi dalle autorità non si nota «alcun orologio in caduta, ma unicamente luccichii in corrispondenza del selciato del vicolo reso brillante dalla pioggia». In Parlamento le audizioni continueranno almeno sino al 29 luglio, prima di sospendere i lavori per riprendere a settembre. 

(ANSA l'1 luglio 2021) - "Si possono fare tante ipotesi, ma il dato che emerge per quello che rileva sul piano probatorio è il seguente: dai sopralluoghi vi è la totale assenza di indizi violenti che si sarebbero trovati se Rossi avesse dovuto difendersi da una aggressione, se avesse ingaggiato una lotta, se fosse scappato da qualcosa, trascinato con forza, non vi è nessun dato che lo rileva". Lo ha detto il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitello, questa mattina nel corso dell'audizione davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del dirigente di Mps responsabile della comunicazione, David Rossi.

(ANSA l'1 luglio 2021) - Su alcune ferite trovate sul cadavere del dirigente di Mps David Rossi, quelle alle braccia e a un ginocchio, "non abbiamo accertamenti scientifici che in qualche modo ci diano certezze, perché non sono stati fatti quando dovevano essere fatti". Lo ha dichiarato il procuratore di Siena Salvatore Vitello, audito dalla commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Rossi. Le lesioni alle braccia e alle ginocchia, ha spiegato Vitello, non furono esaminate in sede di autopsia e pertanto, dopo la riapertura delle indagini, la seconda perizia ha "cercato di spiegarle con le evidenze che erano emerse nel corso dei sopralluoghi". In base alle nuove indagini, anche queste poi archiviate dal gip, il procuratore Salvatore Vitello di Siena ha spiegato in buona sostanza che le ferite, che non è stato possibile datare a causa di esami non effettuati in sede di autopsia, siano però compatibili con escoriazioni che Rossi si sarebbe provocato sfregando mentre si posizionava sul davanzale esterno della finestra da cui poi sarebbe precipitato.

(ANSA l'1 luglio 2021) - Dopo l'accoglimento dell'istanza di riapertura delle indagini sulla morte di David Rossi, accoglimento avvenuto nel novembre 2015, fu dato seguito "a tutte le sollecitazioni investigative suggerite dalla famiglia". Lo ha sottolineato il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitello, audito stamani dalla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del dirigente di Mps responsabile della comunicazione, David Rossi.

(ANSA l'1 luglio 2021) - "Da accertamenti non risultano evidenze di presenze terze nella stanza di David Rossi", nel suo ufficio a Rocca Salimbeni, sede di Mps. Lo ha detto il procuratore di Siena Salvatore Vitello audito dalla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del dirigente di Mps. "David Rossi - ha aggiunto - è caduto dal suo ufficio con la parte anteriore del corpo rivolta verso il muro, e questa caduta è collegata al fatto che lui con le braccia si è posizionato sulla finestra dove c'è la sbarra di ferro e si è lasciato andare, è caduto in verticale, in modo speculare alla parete".

David Rossi e Mps, "niente segni di lotta". Le ferite e i fazzoletti insanguinati, il pm in Parlamento va in confusione. Libero Quotidiano l'01 luglio 2021. Aleggia ancora il mistero sulla morte di David Rossi, il dirigente di Monte dei Paschi di Siena. L'uomo era stato trovato a terra sotto la finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013, ma qualcosa ancora non torna. Così la commissione parlamentare di inchiesta sul suo decesso ha chiesto di ascoltare il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitello. "Si possono fare tante ipotesi, ma il dato che emerge per quello che rileva sul piano probatorio è il seguente: dai sopralluoghi vi è la totale assenza di indizi violenti che si sarebbero trovati se Rossi avesse dovuto difendersi da una aggressione, se avesse ingaggiato una lotta, se fosse scappato da qualcosa, trascinato con forza, non vi è nessun dato che lo rileva". Insomma, per il procuratore non c'è stata colluttazione. Eppure le foto del corpo mostrano alcuni segni, in particolare su braccia e a un ginocchio, che sollevano qualche sospetto. "Non abbiamo accertamenti scientifici che in qualche modo ci diano certezze - ha così spiegato Vitello -, perché non sono stati fatti quando dovevano essere fatti". Il procuratore mostra dunque di non sapere a cosa siano dovute quelle ferite, che in sede di autopsia non furono esaminate. Si tratterebbe di lesioni "compatibili" con lo sfregamento del corpo sul davanzale, le stesse che hanno portato alla riapertura del caso. "Vi erano quelle incongruenze - ha proseguito il procuratore - rilevate nella perizia medico-legale che non davano risposte principalmente alle lesioni che riguardavano la parte anteriore del corpo. Non c'era una spiegazione e non c'era un approfondimento". Contrariato Ranieri Rossi, il fratello di David, anche lui intervenuto in commissione: "Mi pare evidente che se ne freghi della perizia che lui stesso ha ordinato, perizia effettuata da parte del Colonnello del Ris Davide Zavattaro che invece afferma il contrario. Infatti afferma che molto probabile c'è stata una colluttazione prima della caduta e questo lo ribadisce anche pubblicamente". Dello stesso parere il deputato di Fratelli d'Italia, Walter Rizzetto che chiede lumi al procuratore soprattutto fazzoletti insanguinati trovati in ufficio. 

Morte di David Rossi. "Niente segni di lotta sul corpo". Ma restano diversi dubbi. Orlando Sacchelli l'1 Luglio 2021 su Il Giornale. Ascoltato dalla commissione parlamentare di inchiesta che indaga il procuratore capo di Siena afferma che "vi è la totale assenza di indizi violenti che si sarebbero trovati se Rossi avesse dovuto difendersi da un'aggressione, se avesse ingaggiato una lotta, se fosse scappato da qualcosa, trascinato con forza". Il procuratore capo di Siena, Salvatore Vitello, stamani è stato ascoltato dalla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, il dirigente di Mps che perse la vita, tragicamente, il 6 marzo 2013. "Si possono fare tante ipotesi - ha detto il magistrato - ma il dato che emerge per quello che rileva sul piano probatorio è il seguente: dai sopralluoghi vi è la totale assenza di indizi violenti che si sarebbero trovati se Rossi avesse dovuto difendersi da una aggressione, se avesse ingaggiato una lotta, se fosse scappato da qualcosa, trascinato con forza, non vi è nessun dato che lo rileva". Nessuna lotta, dunque, nessuno scontro e nessuna violenza, afferma con assoluta certezza il capo della procura che ha indagato sulla morte di Rossi. Dalle foto al cadavere, tuttavia, si notano alcuni strani segni sul corpo della vittima, tali da destare più di un sospetto. In particolare alle braccia e a un ginocchio. Vitello li spiega in questo modo: "Non abbiamo accertamenti scientifici che in qualche modo ci diano certezze, perché non sono stati fatti quando dovevano essere fatti". In altre parole non si sa a cosa siano dovuti quei segni. Una lacuna sorprendente, a pensarci bene. In sede di autopsia non furono esaminate, prosegue il procuratore. E quando le indagini furono riaperte ormai era troppo tardi per risalire a una data precisa, anche se le ferite sarebbero "compatibili" con lo sfregamento del corpo sul davanzale, prima del volo dalla finestra della sede Mps di Siena. Ma perché le indagini furono riaperte una volta che il caso era già stato archiviato? "Perché vi erano quelle incongruenze - spiega il procuratore - rilevate nella perizia medico-legale che non davano risposte principalmente alle lesioni che riguardavano la parte anteriore del corpo. Non c'era una spiegazione e non c'era un approfondimento". E il video? Qualcuno aveva ipotizzato che le immagini della caduta potessero essere state modificate. Vitello lo esclude: "Sono state fatte indagini riguardo a un'alterazione del video originale, e non è risultato alterato". Nell'audizione davanti ai membri della commissione parlamentare Vitello si è soffermato anche su un altro aspetto chiave della vicenda: la possibile presenza nell'ufficio di Rossi di alcune persone, prima della caduta del dirigente. "Da accertamenti non risultano evidenze di presenze terze nella stanza di David Rossi... è caduto dal suo ufficio con la parte anteriore del corpo rivolta verso il muro, e questa caduta è collegata al fatto che lui con le braccia si è posizionato sulla finestra dove c'è la sbarra di ferro e si è lasciato andare, è caduto in verticale, in modo speculare alla parete". Tra gli errori più importanti nell'inchiesta, come sottolinea Vitello, ci sono quelli della perizia medico-legale, che hanno avuto un peso. "Tipo il fatto che sarebbe morto immediatamente, e che le lesioni anteriori sul corpo sarebbero dovute all'impatto con il suolo. Queste cose si sono dimostrate non esatte, e abbiamo cercato di dare delle risposte in termini di ipotesi e probabilità". Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi, commenta così, all'Agi, le dichiarazioni rese dal procuratore capo di Siena: "Una recita imparata a memoria". A riprendere il tragico volo di Rossi dalla finestra fu una videocamera di sorveglianza. Nel filmato si vede anche un camion e un uomo che non è stato mai identificato. Rossi, dopo lo schianto, rimane in vita per 20 minuti. Al suo corpo si avvicinano due persone, colleghi di Rossi (uno di loro chiamerà i soccorsi). Il caso fu archiviato come suicidio.

Orlando Sacchelli. Laureato in Scienze Politiche, ho scritto per La Nazione e altri quotidiani. Dal dicembre 2006 lavoro al sito internet de il Giornale. Ho fondato L'Arno.it, un sito per i toscani e per chi ama la Toscana. 

Morte David Rossi, la denuncia di FdI: "Ai margini della Commissione d'inchiesta, pronti a lasciare". Cosa vogliono nascondere? Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. "Si sono insediate oggi le commissioni di inchiesta e la maggioranza ha occupato tutti i ruoli-guida, spartendoseli senza alcun rispetto della delicatezza dei temi". La bomba è quella di Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d'Italia, che denuncia in particolare un tentativo di tenere ai margini FdI nella commissione d'inchiesta sulla morte di David Rossi, l'allora capo della comunicazione di Mps. "Oltretutto - riprende Lollobrigida.- sembra ragionevole pensare che il tentativo di marginalizzare l'opposizione, tenendola fuori dagli uffici di presidenza delle commissioni di inchiesta, sia un tentativo di rallentare, se non inficiare, la necessità di portare alla luce la verità e rendere giustizia alle vittime", è l'accusa dell'esponente del centrodestra. "Mai è accaduto prima d'ora, in nessuna precedente legislatura, che nè le presidenze ne' vicepresidenze siano state affidate all'opposizione. Ricordiamo che la commissione di inchiesta sulla scomparsa di David Rossi è stata proposta e ottenuta grazie a Fratelli d'Italia, e in particolare all'infaticabile impegno del collega onorevole Walter Rizzetto. Proprio per questo, la stessa famiglia della vittima lo aveva indicato come il 'garante ideale' per arrivare a far luce su una vicenda dai lati oscuri che coinvolgerebbe politica, magistratura e criminalità, suggerendo alle forze politiche di sceglierlo quale presidente", prosegue Lollobrigida. "Entro le prossime ore valuteremo la mia permanenza nella stessa Commissione. E' evidente e insostenibile che far rientrare le commissioni di inchiesta in trattative di maggioranza, utilizzando la forza dei numeri per escludere l'opposizione, è un fatto gravissimo che abbiamo provato a denunciare al Presidente Fico senza alcun esito. Non rinunceremo al nostro ruolo all'interno delle commissioni di inchiesta, sempre più convinti che a Fratelli d'Italia spetti il compito di arginare il consolidamento di un sistema che penalizza gli interessi dei cittadini. Dispiace che su Bibbiano, sulla commissione Rossi e sulla tragedia della Moby Prince, Forza Italia e la Lega abbiano preferito accordarsi con il Pd, Leu e Renzi piuttosto che con gli alleati del centrodestra, che insieme a loro avevano condotto da sempre battaglie di trasparenza", conclude Lollobrigida che allarga la sua denuncia alle altre commissioni di chiesta istituite dal Parlamento.

Da iene.mediaset.it il 24 marzo 2021. Da tre anni con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci occupiamo di David Rossi, il manager del Monte dei Paschi di Siena volato giù dal suo ufficio nel 2013, chiedendoci se sia stato un suicidio o un omicidio. Ora una commissione parlamentare di inchiesta sul caso è legge. Non solo, il testimone che abbiamo sentito sui festini hot è stato giudicato attendibile dal gip di Genova. Ecco tutti i misteri da chiarire. C'è anche una dichiarazione clamorosa: "So chi l'ha ucciso".

 (ANSA il 18 marzo 2021) - Nuovo capitolo nella battaglia giudiziaria tra l'avvocato Michele Briamonte e l'inviato de “Le Iene” Antonino Monteleone. L'ex consigliere d'amministrazione di Banca Mps e managing director dello Studio Grande Stevens ha presentato alla procura di Roma una denuncia nei confronti del giornalista, già rinviato a giudizio a Torino per diffamazione aggravata per un servizio che prospettava l'esistenza di legami oscuri tra David Rossi e la banca vaticana Ior. Al centro della querela una pubblicazione a fumetti, a cura dello stesso Monteleone, il cui «leitmotiv - secondo Briamonte che è assistito dall'avvocato Nicola Menardo - è costituito dall'accostamento strategico e premeditato di fatti storicamente avvenuti a informazioni prive di qualunque riscontro e a circostanze deliberatamente distorte, allo scopo di fornire al lettore una ricostruzione suggestiva e verosimile - attenzione, non vera - delle vicende della Banca del Monte dei Paschi di Siena e del suo manager David Rossi». Briamonte contesta «il suggestivo riferimento a fantomatici festini a sfondo sessuale» e, in particolare, la «ricostruzione secondo cui un sistema di poteri occulti ha ostacolato le indagini sulla morte di David Rossi». E accusa Monteleone e lo staff de Le Iene della «distorsione preordinata e organizzata delle informazioni raccolte», nonché della «deliberata omissione di qualunque verifica sull'attendibilità delle fonti». Nella denuncia querela l'avvocato Briamonte riconduce le «nuove e distinte condotte diffamatorie» a suo danno «alla `regia´ del signor Monteleone». E fa riferimento alla denuncia querela alla procura di Genova del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco nei confronti di Matteo Bonaccorsi, che in una puntata de Le Iene cita l'alto ufficiale dell'Arma come «frequentatore abituale» dei «famigerati festini» senesi. Per Briamonte Bonaccorsi è «l'esempio emblematico di `supertestimone´ apparso dal nulla e provvidenzialmente messosi in contatto con la redazione de Le Iene e Antonino Monteleone». «Un falso testimone costruito a tavolino, asservito a finalità del tutto eccentriche rispetto alla vicenda della verità storica», come secondo il legale emerge dalla querela del colonnello Aglieco. Alla luce di tutti questi elementi, per Briamonte quella del «libercolo» di Monteleone è una «ricostruzione priva di qualunque attendibilità storico-fattuale, falsa e diffamatoria, proposta ai lettori nonostante la piena consapevolezza del fatto che le informazioni utilizzate ai fini della redazione dello scritto erano anonime o inattendibili o che l'attendibilità della relativa fonte non era stata verificata». In attesa delle decisioni della procura di Briamonte sulla querela, il processo davanti al Tribunale di Torino, Quarta Sezione Penale, che vede Monteleone imputato di diffamazione aggravata, inizierà il 9 novembre.

Da iene.mediaset.it il 9 marzo 2021. Arriva in aula alla Camera la proposta di istituire una commissione parlamentare d'inchiesta su David Rossi: il voto entro 24 ore. Ecco l'appello della figlia della moglie del manager del Monte dei paschi di Siena morto il 6 marzo 2013. Sui misteri di questo caso noi de Le Iene indaghiamo da tempo con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, chiedendoci in primo luogo: è stato un suicidio, come ricostruito dall'archiviazione, o un omicidio come sostenuto dalla famiglia?

Da iene.mediaset.it l'11 marzo 2021. Via libera ufficiale alla commissione parlamentare di inchiesta su David Rossi. La Camera l’ha appena approvata. Otto anni dopo la morte del capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, volato giù dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013 nel mezzo di una bufera mediatica, finanziaria e giudiziaria. "È una notizia enorme, noi siamo emozionatissime”, commenta Carolina Orlandi, figlia della moglie di David Rossi, nel video che potete vedere qui sopra. “Non solo perché di fatto verranno svolte delle nuove indagini che potrebbero aprire nuovi scenari. Ma soprattutto perché anche il Parlamento evidentemente ha ritenuto necessario intervenire laddove ci sono dei punti ancora poco chiari. Non ci resta che augurare buon lavoro alla commissione d’inchiesta”. Sui molti misteri di questo caso noi de Le Iene siamo da anni in prima linea, con molti servizi e uno speciale di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti (qui trovate l’ultimo servizio del novembre scorso e qui anche le clamorose dichiarazioni di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, la banca del Vaticano). Ci siamo chiesti più volte in primo luogo se si sia davvero trattato di un suicidio, come il caso è stato archiviato dai giudici, o di un omicidio. La proposta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta era stata sottoscritta da esponenti di tutti i partiti ed era stata approvata all’unanimità dalle commissioni riunite Giustizia e Finanze, oggi è stata approvata anche dall’aula della Camera. “Pur precisando che ovviamente non sono un medico legale o un avvocato, credo che David Rossi non si sia suicidato”, ci aveva detto Walter Rizzetto (Fdi), primo firmatario della proposta, che cita tutti i punti principali dei nostri servizi. “E credo che, soprattutto grazie ai servizi de Le Iene come è scritto anche nella Proposta di inchiesta parlamentare, ormai sia chiaro che ci sono troppe cose che non tornano. A questo punto è importante che anche il Parlamento conosca le carte e renda fruibile a tutti più verità possibile su questa storia”. Ecco qui riassunti i dubbi principali della famiglia sulla morte di David Rossi e sui successivi accertamenti.

Chi avrebbe malmenato David Rossi nel suo ufficio, prima della caduta mortale, in uno degli edifici più sorvegliati di Siena e d'Italia dentro alla banca Monte dei Paschi? Da chi si sarebbe sentito minacciato il capo della comunicazione Mps quel giorno in cui è precipitato dalla finestra? Perché la sua caduta sembra così strana, di spalle e con un'anomala assenza di rotazione?

Cos'è quello che sembra un oggetto che sembra cade dalla finestra di David Rossi, dopo che il manager è già volato giù? Potrebbe essere il suo orologio come ipotizzato dai familiari del manager? Se sì, chi l’ha lanciato mezz’ora dopo la sua caduta?

Perché nessuno avrebbe chiamato i soccorsi per più di un'ora prima che la figlia Carolina arrivasse in banca per capire che fine aveva fatto David? Chi avrebbe spostato gli oggetti nel suo ufficio dopo la caduta e prima che arrivasse la polizia scientifica?

Chi è l'uomo che entra nel vicolo con un cellulare all'orecchio, quando David Rossi è già riverso a terra, guarda nella sua direzione e poi se ne va senza chiamare i soccorsi?

Perché i pm non avrebbero richiesto i tabulati delle celle telefoniche in funzione in quelle ore nella banca e nelle zone limitrofe, per capire chi era transitato in quell’area, quanto si era fermato e quando è andato via e se in quei momenti era al telefono e con chi?

Perché i pm non avrebbero mai richiesto le registrazioni di tutte le telecamere di videosorveglianza in funzione quel giorno dentro e fuori la banca?

Perché non avrebbero analizzato i vestiti che David Rossi indossava quella sera, i fazzoletti sporchi di sangue ritrovati nel cestino del suo ufficio e perché non avrebbero ricercato tracce di dna estraneo a David sul suo corpo?

Perché il pm Aldo Natalini avrebbe ordinato la distruzione di quei fazzoletti sporchi di sangue senza che ancora fosse stata decretata l’archiviazione richiesta dai pubblici ministeri e quindi formalmente ancora ad indagini in corso? Che fine ha fatto uno dei cellulari di David che tutt'oggi sembra mancare all'appello?

È un caso che David Rossi sia volato dalla finestra proprio due giorni aver comunicato all'amministratore delegato della banca Fabrizio Viola che sarebbe voluto andare a parlare con i magistrati? Cosa voleva dire ai pm?

I festini a luci rosse di cui ha ipotizzato l'esistenza l'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini hanno a che fare con la scomparsa di David Rossi e con le indagini relative alla sua morte?

La speranza è che ora la commissione parlamentare possa trovare delle risposte.

Da affaritaliani.it il 10 febbraio 2021. Morte David Rossi, nuovo testimone. "Ucciso da un uomo albanese e due complici". "David Rossi non si suicidò". Questo è quanto emerge da un nuova testimonianza sul caso dell'ex manager di Mps, trovato senza vita al suolo, dopo un volo dalla finestra. Con questa nuova confessione, potrebbe aprirsi una terza inchiesta. I dettagli forniti dal testimone sono chiari e tengono viva - si legge sul Fatto Quotidiano - l'ipotesi che si possa trattare di omicidio. “Lo ha ucciso un uomo albanese che vive a Milano insieme a due complici". Il movente potrebbe essere la partecipazione a dei festini gay, che dovevano restare segreti. Un gigolò nei giorni scorsi aveva dichiarato di aver riconosciuto ad uno di questi party hard un carabiniere e due magistrati. Intanto, una delle testimoni del caso David Rossi è stata condannata per diffamazione aggravata. Lo rivela la Gazzetta di Siena, secondo cui lo ha deciso il tribunale di Siena con sentenza depositata il 5 febbraio scorso che stabilisce un risarcimento danni quantificato in 11mila euro.

 (ANSA il 20 gennaio 2021) - "Sono delusa, non ho più fiducia nel sistema giudiziario, me l'hanno fatta perdere". Così Antonella Tognazzi, vedova dell'ex capo comunicazione di Mps David Rossi commenta l'archiviazione dell'indagine dei pm di Genova sui presunti festini hard a cui avrebbero partecipato dei magistrati senesi. Sarebbero stati gli stessi che poi avrebbero insabbiato le indagini sulla morte di Rossi, deceduto il 6 marzo 2013 dopo esser precipitato da un piano di Rocca Salimbeni. "Hanno fatto come Ponzio Pilato", dice la vedova. "Abbiamo riscontrato molta superficialità nella conduzione delle indagini - aggiunge Antonella Tognazzi - Invece di andare a fondo sugli approfondimenti di indagine e sulle nuove testimonianze che avevamo segnalato insieme ai legali, i magistrati hanno scelto di non convocare neppure questi testimoni". "La delusione è tanta", dice anche la vedova di David Rossi spiega come "è rilevante che negli atti di Genova è stata tuttavia considerata attendibilissima la testimonianza dell'escort" secondo il quale i festini a luci rosse in dimore della campagna toscana furono fatti.

Anticipazione da “Oggi” il 30 dicembre 2020. Dopo che la Procura di Genova, chiamata a valutare l’operato dei colleghi di Siena, che per due volte avevano archiviato come suicidio la morte del responsabile comunicazione della Mps David Rossi, ha parlato di lacune investigative, parla a OGGI la figlia adottiva Carolina Orlandi: «A Genova è stato fatto un passo avanti, ma di passi se ne sarebbero potuti fare due. Non basta riconoscere le lacune e le omissioni degli inquirenti senesi. Quelle ormai le conosciamo a memoria. Non hanno voluto vedere i segni di colluttazione presenti sul corpo di David. Hanno distrutto i fazzoletti sporchi di sangue trovati nel suo ufficio senza esaminarli. Non hanno controllato celle e tabulati telefonici per ricostruire le chiamate e per sapere chi era in banca a quell’ora. Potrei andare avanti all’infinito. Ma a un certo punto devo fermarmi e chiedermi: com’è possibile che sia successo tutto questo?...Noi siamo convinti che ci siano magistrati tenuti sotto ricatto, con la minaccia di rivelare la loro partecipazione a festini gay».

(ANSA il 19 gennaio 2021) - Il gup di Torino, Irene Gallesio, ha accolto la richiesta formulata dal pm Livia Locci e disposto il rinvio a giudizio di Antonino Monteleone per il reato di diffamazione aggravata in danno dell'avvocato Michele Briamonte, ex consigliere d'amministrazione di Banca Mps e managing director dello Studio Grande Stevens. Il processo inizierà il 9 novembre prossimo davanti al Tribunale di Torino, Quarta Sezione Penale. I fatti contestati si riferiscono al servizio realizzato da Monteleone e mandato in onda durante la trasmissione Le Iene, in cui si prospettava l'esistenza di legami oscuri tra David Rossi e la banca vaticana Ior. Briamonte, difeso dall'avvocato Nicola Menardo, si è costituito parte civile. Monteleone era già stato rinviato a giudizio nel maggio scorso, ma il decreto era stato annullato dal tribunale di Torino, secondo cui l'inviato non aveva avuto la possibilità di difendersi. Dal canto loro Le Iene e Antonino Monteleone hanno sempre difeso il loro lavoro.

(ANSA il 19 gennaio 2021) - Il giudice per le indagini preliminari Franca Borzone ha archiviato l'indagine della procura di Genova sui presunti festini a luci rosse a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati senesi che poi avrebbero insabbiato le indagini sulla morte di David Rossi. L'ex responsabile della comunicazione di Banca Mps venne trovato morto il 6 marzo 2013 dopo una caduta da una finestra di Rocca Salimbeni, sede dell'istituto di credito. I legali della famiglia Rossi, gli avvocati Carmelo Miceli e Paolo Pirani, si erano opposti alla richiesta di archiviazione dei pm genovesi ma il gip non ha accolto la richiesta nonostante gli approfondimenti di indagine portati in udienza dai familiari. La procura di Genova aveva aperto un fascicolo per abuso d'ufficio e favoreggiamento della prostituzione, anche minorile, a carico di ignoti, dopo una trasmissione de Le Iene. In quella puntata l'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini aveva spiegato in un fuori onda che le indagini erano state "rabbuiate" a causa di quei festini. I pm genovesi avevano raccolto numerose testimonianze ma avevano chiesto l'archiviazione. Secondo la procura, vero è che nella prima indagine ci sarebbero state alcune lacune e che alcuni pm avrebbero tenuto forse dei comportamenti inopportuni, ma non ci sarebbero prove che tali comportamenti avrebbero compromesso l'inchiesta sulla morte di Rossi. Il fascicolo era stato trasmesso al Csm per valutare eventuali profili disciplinari.

Mps, Monteleone rinviato a giudizio. La Iena: “Affrontare vicenda delicata davanti al giudice”. Le Iene News il 19 gennaio 2021. Rinviato a giudizio Antonino Monteleone con l'ipotesi di reato di diffamazione aggravata dell’avvocato Michele Briamonte, ex consigliere d'amministrazione di Banca Mps. La Iena: “Sarà un processo che, al netto delle valutazioni di merito che spetteranno al Tribunale, avrà un impatto non indifferente sul diritto dei giornalisti investigativi a svolgere il proprio lavoro in autonomia”. Il gup di Torino Irene Gallesio ha accolto la richiesta formulata dal pm Livia Locci e disposto il rinvio a giudizio del nostro Antonino Monteleone con l'ipotesi di reato di diffamazione aggravata ai danni dell'avvocato Michele Briamonte, ex consigliere d'amministrazione di Banca Mps e managing director dello Studio Grande Stevens. Il processo inizierà il 9 novembre davanti al Tribunale di Torino. I fatti contestati si riferiscono al servizio realizzato dalla Iena sui possibili legami tra il caso David Rossi e la banca vaticana Ior. "Penso che la delicatezza della questione che abbiamo affrontato in questo servizio, uno dei tanti sulla vicenda della morte di David Rossi, merita di essere affrontata con serenità davanti al giudice terzo e nel contraddittorio tra le parti". Antonino Monteleone commenta così la notizia. "Sarà un processo che, al netto delle valutazioni di merito che spetteranno al Tribunale, avrà un impatto non indifferente sul diritto dei giornalisti investigativi a svolgere il proprio lavoro in autonomia, lontano dal limitarsi a riportare il contenuto di atti prodotti dalla sola autorità giudiziaria, attraverso la ricerca sul campo delle notizie di interesse per il pubblico". Monteleone era già stato rinviato a giudizio nel maggio scorso, ma il decreto era stato annullato dal tribunale di Torino, secondo cui l'inviato non aveva avuto la possibilità di difendersi.

David Rossi, il gip archivia l'indagine sui pm di Siena ma colpo di scena: per il giudice le dichiarazioni dell'ex escort sono precise e attendibili. Le Iene News il 19 gennaio 2021. Il gip di Genova archivia l'inchiesta sui presunti abusi d'ufficio che sarebbero stati commessi durante le prime indagini sulle cause della morte di David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena volato giù dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013. Tutto era partito dai servizi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti che da anni seguono il caso chiedendosi se sia stato davvero un suicidio oppure se possa trattarsi di un omicidio, come creduto dalla famiglia del manager. Per il giudice delle indagini preliminari ci sono state carenze nelle indagini sul caso ma nessun dolo. Non dimostrate interferenze tra le indagini e l'esistenza di festini hard ai quali avrebbero partecipato alcuni pm. Ma al contrario delle varie anticipazioni stampa degli scorsi mesi il giudice ritiene attendibile l’ex escort, sentito anche a Genova dopo i suoi clamorosi racconti a Le Iene. Anche questa ordinanza trasmessa al Csm. Indagine archiviata dal gip: le carenze riscontrate nell’inchiesta sulla morte di David Rossi non presentano profili di dolo, mentre risulta "attendibile" l’escort sentito da Le Iene. Questa la decisione presa oggi dal giudice per le indagini preliminari di Genova Franca Borzone che ha archiviato l'indagine sui presunti abusi d'ufficio ipoteticamente commessi dai magistrati di Siena. L'ipotesi nasceva dalla clamorose rivelazioni dell'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, che ipotizzava possibili condizionamenti nelle indagini sulla morte di David Rossi, evocando l'esistenza di festini a luci rosse a cui, secondo quanto raccontato al nostro Antonino Monteleone, avrebbero partecipato alcuni notabili di Siena, tra cui anche alcuni magistrati. Dichiarazioni in seguito riscontrate, ad Antonino Monteleone, da un giovane ex escort che ha raccontato di un giro di festini al quale avrebbe preso parte. Con i molti servizi di Monteleone e Marco Occhipinti (qui l'ultimo), noi de Le Iene siamo da anni in prima linea nell’occuparci della morte di David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena volato giù dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013 nel mezzo di una bufera mediatica, finanziaria e giudiziaria. Ci chiediamo se si sia davvero trattato di un suicidio, come il caso è stato archiviato dai giudici, o di un omicidio. I legali della famiglia di David Rossi, gli avvocati Carmelo Miceli e Paolo Pirani, si erano opposti alla richiesta di archiviazione dei pm genovesi, ma il gip non ha accolto la richiesta nonostante gli approfondimenti di indagine portati in udienza dai familiari. La procura di Genova aveva aperto il fascicolo, per abuso d'ufficio e favoreggiamento della prostituzione, anche minorile, a carico di ignoti, proprio dopo la messa in onda di una parte della nostra inchiesta.

IL CASO FESTINI HARD. Tutto era iniziato con le clamorose dichiarazioni rubate all'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini: “Conoscendo la razionalità di David, non è possibile che sia suicidio. La città è convinta che sia stato ucciso… Un avvocato romano mi ha detto... era un'amica mia che il marito era nei servizi… "devi indagare tra alcune ville tra l’aretino e il mare e i festini che facevano lì perché la magistratura potrebbe aver abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale"". Avevamo raccolto poi la segnalazione di un uomo che ci aveva raccontato: “Ho partecipato a… come escort ad alcune feste private, che si sono svolte nei dintorni di Siena, Monteriggioni, e a volte anche in altre città d’Italia”. Feste, sosteneva l'uomo, che avrebbero avuto lo scopo “di intrattenere degli ospiti di alto… alto profilo, che avevano una certa importanza… per le persone che organizzavano queste feste…". “La maggior parte delle volte c'erano delle cene, poi diciamo che avveniva una sorta di selezione poi dopo noi sapevamo che dovevamo andare con una determinata persona…”. Entrambi i racconti ci sembravano incredibili e abbiamo fatto ogni verifica possibile. Antonino Monteleone aveva mostrato all’escort delle foto per capire se riconosceva alcune persone come partecipanti a quei festini in cui si sarebbe anche consumati rapporti omosessuali. L’ex gigolò avrebbe identificato un importante ex manager della banca Monte dei Paschi, un importante imprenditore di Siena, un sacerdote, un ex ministro, un politico che ha rivestito un ruolo importante in città, un noto giornalista e un magistrato. Politici, dirigenti, magistrati, forze dell’ordine, nella vita privata sono liberi di fare ciò che vogliono, ma quando hai un ruolo pubblico e conduci una doppia vita, o partecipi a incontri compromettenti, potresti esporti a un possibile condizionamento, se non addirittura a un eventuale ricatto, di chi conosce i tuoi segreti. Ci siamo chiesti, con tutte le verifiche del caso, se questi presunti festini omosessuali avrebbero potuto condizionare anche le indagini sulla morte di David Rossi. Su questo si indagava a Genova.

L'ORDINANZA DEL GIP. L’ex escort è stato sentito anche nell’indagine genovese. Recita l’ordinanza del gip: “Ha reso dichiarazioni sufficientemente precise e ha proceduto nel corso del suo esame a identificazioni fotografiche dall’esito positivo, sebbene successivamente a quelle somministrate da alcuni giornalisti”. “Tali circostanze, unitamente alle minacce ricevute nei giorni antecedenti l'udienza camerale, consentono di formulare un primo vaglio positivo dell’attendibilità di tali dichiarazioni, sebbene, esse possano valere solo a fini di responsabilità disciplinari”. Il Gip si riferisce alle possibili sanzioni che potrebbe disporre il Consiglio Superiore della Magistratura, in quanto eventuali reati risulterebbero invece prescritti nell’agosto 2019, e quindi non perseguibili. “Il pm, pur ritenendo le indagini caratterizzate da alcune carenze”, prosegue l’ordinanza, “ha evidenziato come, perciò solo, non sia affatto possibile trarre gli elementi costitutivi di reato, né tantomeno, il dolo intenzionale richiesto dall’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio, ndr) finalizzato ad ostacolare la verità per conseguire un ingiusto vantaggio, oppure arrecare a altri un ingiusto danno”. Anche l’ordinanza del Gip, come già il fascicolo dell’indagine di Genova, è stata trasmessa al Csm per valutare eventuali profili disciplinari.

·                        Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Un appello (e gli aiuti): Usa decisivi. Fausto Biloslavo il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Lettera di 56 deputati Usa. E ora si complica l'affaire Regeni. La lista Usa dei prigionieri da rilasciare, centinaia di milioni di dollari di aiuti militari in ballo e lo stop in punta di diritto al processo Regeni hanno dato il via libera alla liberazione di Patrick Zaki. «È un'operazione americana spinta dal Congresso e negoziata dalla Casa Bianca per ottenere delle concessioni nel campo dei diritti umani - rivela una fonte del Giornale - A livello politico siamo ai ferri corti con l'Egitto dopo la decisione del governo di costituirsi parte civile nel processo sul caso Regeni».

Otto mesi dopo l'arresto al Cairo dello studente egiziano dell'università di Bologna, 56 membri democratici del Congresso di Washington hanno inviato al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi una lettera di una pagina e mezza. Nella missiva su carta intestata del Congresso i parlamentari chiedono la liberazione di sedici attivisti compreso «Patrick George Zaki». I rappresentanti americani vanno dritti al punto: «La esortiamo a rilasciare immediatamente e incondizionatamente i prigionieri che abbiamo citato (...). Queste sono persone che non avrebbero mai dovuto essere incarcerate», si legge nella lettera.

Una volta insediato alla Casa Bianca il presidente americano Joe Biden ha usato il bastone e la carota con l'Egitto per ottenere un'apertura sui diritti umani. «Gli Stati Uniti garantiscono 1,3 miliardi di dollari all'anno di aiuti militari al Cairo - fa notare la fonte del Giornale che conosce il tema - Gli egiziani devono anche ammodernare i loro F-16 e Biden ha congelato qualche fondo sbloccando altri. Ottenendo alla fine un gesto distensivo soprattutto nei confronti della richiesta del Congresso».

Il 15 settembre la Casa Bianca ha concesso il via libera a 170 milioni di dollari di aiuti militari e ne ha congelati altri 130. La cifra fa parte del pacchetto di 300 milioni che il Congresso lega al rispetto dei diritti umani. Non è un caso che all'udienza che ha concesso la libertà vigilata a Zaki era presente pure un inviato Usa assieme ai diplomatici della nostra ambasciata al Cairo e rappresentanti di Canada e Spagna.

La mossa americana sarebbe stata caldeggiata dall'ambasciatore italiano in Egitto Cairo Giampaolo Cantini, Al Cairo fino ad agosto, e poi seguita dalla nuova feluca Michele Quaroni. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio solo da settembre a oggi ha discusso di Zaki con il suo pari grado egiziano alla media di una volta al mese.

Gli Stati Uniti hanno blandito il presidente al Sisi anche in campi non militari, come l'assegnazione al Cairo della Cop 27 del prossimo anno sui cambiamenti climatici. Ad annunciarlo ci ha pensato il 3 ottobre l'inviato Usa sul clima, John Kerry, proprio alla pre-Cop di Milano. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, «esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano». Nelle stesse ore del vittorioso comunicato di Palazzo Chigi, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani metteva il dito sulla piaga della Cop 27 in Egitto e l'impunito omicidio di Giulio Regeni. «Andiamo lì - dice il ministro - e che facciamo? Facciamo finta di nulla. Per me questo è un grosso problema».

Oltre alle mosse americane gli egiziani hanno liberato Zaki dopo lo stop al processo ai funzionari dei servizi segreti del Cairo per il brutale omicidio deciso dalla Corte d'Assise a causa di cavilli legati alla notifica degli atti.

Il rischio adesso è che la liberazione di Zaki allontani sempre più qualsiasi spiraglio sul caso Regeni con al Sisi che pensa di avere fatto abbastanza. Non solo: lo studente egiziano è libero, ma con una spada di Damocle sulla testa. Il primo febbraio dovrà tornare in tribunale per la sentenza sulle accuse che lo hanno già tenuto in galera 688 giorni. All'Italia conviene mantenere, almeno per ora, un profilo basso sul suo caso e su Regeni.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace. 

Zaki, la libertà pagata a caro prezzo. In cambio silenzio e lo stop su Regeni. Fausto Biloslavo il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Chi tiene alle sorti dello studente sa che non ha senso esultare. E il caso dell'italiano ucciso potrebbe impantanarsi per sempre. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane.

Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni.

Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria.

Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari.

Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.

Francesco Grignetti per "La Stampa" il 3 dicembre 2021. Sul caso Regeni, molte cose sono ancora da raccontare. Ad esempio che c'è stato un tentativo occulto da parte del governo italiano, esattamente un anno fa, per sbloccare l'impasse giudiziaria con al-Sisi. L'allora premier, Giuseppe Conte, chiamò Marco Minniti e lo pregò di fare un tentativo con il Cairo. L'ex ministro, politicamente parlando era una figura assai indigesta per i grillini. E quindi Conte dovette ingoiare un bel rospo, ma siccome la cooperazione giudiziaria con gli egiziani era a un punto morto, e invece era urgente che gli indagati nominassero un avvocato di fiducia in Italia, ecco che Conte fece il passo. In tutta segretezza, Minniti fu nominato «inviato speciale del presidente del Consiglio» e in questa veste volò per almeno due volte al Cairo. Di questa missione segreta c'è traccia nella Relazione finale della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, presieduta da Erasmo Palazzotto. «Gli sforzi diplomatici profusi dal Governo - si legge nella Relazione, che sarà discussa dalla Camera a gennaio - per l'acquisizione dell'elezione di domicilio degli imputati si sono rivelati infruttuosi, nonostante le missioni ad hoc svolte al Cairo nel novembre dello scorso anno dall'ex ministro Minniti, in qualità di inviato speciale del Presidente del Consiglio, per superare la condizione di stallo grazie alla sua esperienza pregressa». C'è da sapere che queste tre righe sono state il frutto di una lunga riflessione a palazzo Chigi, che solo alla vigilia della conferenza stampa di mercoledì hanno dato il via libera per pubblicare la notizia. In effetti Minniti poteva vantare una certa «esperienza pregressa». Era stato grazie a lui se nel 2017 una prima rottura di rapporti, quando il nostro ambasciatore era stato ritirato, fu ricucita e se i magistrati della Procura di Roma dopo un lungo periodo di gelo tornarono ad incontrarsi con i colleghi del Cairo. Il 14 dicembre di quell'anno, l'allora ministro Minniti incontrava il presidente al-Sisi e lo stesso giorno «c'è stato un ulteriore passo in avanti - si legge nella Relazione - dal forte valore simbolico: la consegna degli atti processuali alla famiglia Regeni». Al-Sisi garantì, direttamente al e poi pubblicamente, che la cooperazione giudiziaria sarebbe andata avanti. Nei giorni seguenti, i pm romani avrebbero avuto il settimo incontro con i colleghi egiziani. Nell'autunno 2020, insomma, Giuseppe Conte volle provare nuovamente la carta Minniti. I rapporti con l'Egitto erano sempre sul filo. Nell'estate, però, il governo aveva deciso di vendere due fregate Fremm ad al-Sisi. Furono necessari due passaggi in consiglio dei ministri, il 10 giugno e il 7 agosto, per perfezionare la vendita e soprattutto per avere la massima condivisione di responsabilità tra le forze politiche su questa scelta. Nessuno potrà mai dire se la vendita fosse un semplice business da 1 miliardo di euro o dovesse servire a ingraziarsi il regime. Di certo, Conte ha riconosciuto che a quel punto «una mancata vendita sarebbe stata considerata dal Cairo un atto ostile». Quello stesso Conte che ieri commentava: «Il lavoro della Commissione rende ancora più urgente e ineludibile il processo nei confronti degli ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani, in modo da rischiarare con definitiva luce giudiziale una pagina oscura della nostra storia più recente». Minniti si precipitò in Egitto. E un risultato è agli atti: il 5 novembre, ci fu un primo contatto dopo quasi un anno di silenzio; il 30 novembre, le due procure si parlarono nuovamente in videoconferenza. Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco illustrarono lo stato delle investigazioni e chiesero un aiuto ai magistrati del Cairo, sia pure indiretto, per convincere gli indagati a formalizzare il domicilio e cioè, in sostanza, a sottoporsi al processo in Italia. Al termine, fu emesso un comunicato congiunto che parve da subito contraddittorio. Le due parti presentavano idee antitetiche: gli italiani annunciavano il processo per gli agenti; gli egiziani insistevano per la pista dei rapinatori comuni. Ma poi si concludeva: «Il procuratore generale del Cairo prende atto e rispetta le autonome decisioni della magistratura italiana». Chi sapeva della missione occulta di Minniti pensò che quella frase anodina fosse il preludio a uno sbocco positivo. A palazzo Chigi ci si congratulò per aver scelto la persona giusta. Ma le cose andarono diversamente. A metà dicembre, come annunciato, la procura depositò l'avviso di fine indagini con la ricostruzione dei fatti e le imputazioni. Il 30 dicembre, con un documento unilaterale durissimo e quasi offensivo, la procura generale del Cairo attaccava frontalmente il lavoro di Roma, lo demoliva, ipotizzava dietro l'omicidio di Giulio Regeni fantasiosi complotti ad opera di potenze terze per incrinare gli ottimi rapporti italo-egiziani. Ogni possibile collaborazione tra le due sponde del Mediterraneo finiva lì. Il processo imboccava un binario morto da dove solo un miracolo potrà farlo ripartire. E la missione Minniti non emerse dal cono d'ombra.

Giulio Regeni poteva essere salvato, ma gli egiziani mentirono fino alla fine. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2021. Omicidio Regeni, dalle carte della commissione parlamentare di inchiesta emerge come le bugie e le resistenze delle autorità del Cairo costarono la vita al ragazzo italiano. Giulio Regeni era scomparso da meno di ventiquattr’ore quando, alle 15.47 del 26 gennaio 2016, il consulente per la sicurezza dell’American University al Cairo – il generale Mohamed Ebeid – chiese sue notizie alla National security agency del Cairo. «Forse è stato arrestato da qualche parte, vi terrò aggiornati», scrisse in una e-mail ai docenti che lo stavano cercando. Il ricercatore italiano era entrato in contatto con l’istituto americano tramite la sua professoressa di Cambridge, Maha Adbelrahman, e fu affiancato dalla tutor Rabab El-Mahdi; preoccupata per la sorte di Giulio, ma anche per la possibile cattiva pubblicità che poteva averne l’ateneo. Meglio «mantenere la cosa tranquilla», consigliava. La sera del 26 gennaio, il generale Ebeid riferì: «Il ministero asserisce che Regeni non è stato arrestato e non è tenuto in alcuna stazione di polizia». E la sera del 27 aggiunse: «Sono nell’ufficio della National security per seguire il caso con loro. Ora il caso di Regeni è sulla scrivania del ministro degli Interni; secondo la Nsa ha ordinato di trovarlo il più presto possibile». Sono le prime bugie e i primi depistaggi egiziani messi in luce dalla relazione della commissione d’inchiesta, che ripercorre quasi ora per ora i nove giorni che vanno dalla sparizione di Giulio al ritrovamento del cadavere lungo un’autostrada; un arco di tempo in cui, scrive il presidente Palazzotto, si poteva «intervenire per salvare la vita a Giulio Regeni, e la responsabilità di questa inerzia grava tutta sulla leadership egiziana». Il generale Ebeid è una delle persone che la Procura di Roma ha chiesto inutilmente agli egiziani di poter interrogare; manca quindi la sua versione sulle informazioni rassicuranti che giungevano dalla Nsa, mentre proprio quattro militari della stessa struttura sono imputati in Italia (ma al momento improcessabili) per il sequestro e l’omicidio di Giulio. Le pressioni da parte italiana arrivarono subito e ai massimi livelli, e l’indifferenza (sommata a menzogne e inquinamenti) delle autorità del Cairo resta un mistero. Le risposte possono essere diverse, a partire dalla «latente conflittualità» tra gli apparati di sicurezza locali, ma rimangono ipotesi. Una certezza, invece, è che gli egiziani non hanno mai detto la verità sulla sorte di Giulio, viste le testimonianze raccolte dagli inquirenti romani sulla sua presenza negli uffici della polizia cairota poche ore dopo la scomparsa e – nei giorni seguenti – in una caserma della National security. Anche l’atteggiamento del ministro degli Interni Magdi Abdel Ghaffar è un enigma, come apparve all’epoca all’ambasciatore italiano Maurizio Massari: «Ciò che maggiormente colpiva e preoccupava con il passare delle ore e dei giorni, era la mancanza di risposte concrete da parte delle autorità egiziane — ha spiegato nella sua audizione —, malgrado le mie insistenze e l’eccellenza dei rapporti bilaterali... Non potevo non notare il contrasto tra questo stato eccellente dei rapporti e l’elusività delle risposte rispetto al caso Regeni». I servizi segreti italiani al Cairo avevano segnalato «l’ipotesi dell’apprensione» di Giulio «da parte delle forze di sicurezza», nonché le attenzioni che aveva ricevuto in precedenza per le sue ricerche sui sindacati autonomi. Ma gli egiziani continuavano a negare. E quando finalmente, dopo una settimana d’attesa, Massari ottenne l’incontro con Ghaffar, il 2 febbraio, non poté non notare «l’atteggiamento evasivo del ministro; malgrado la mia insistenza disse ripetutamente di non sapere e di non disporre di informazioni». L’indomani, l’incontro tra l’allora ministra Federica Guidi (in missione al Cairo per lo sviluppo dei rapporti economici tra i due Paesi) e il presidente egiziano Al Sisi andò, se possibile, ancora peggio. Perché il presidente, nel racconto della ministra, non fu affatto evasivo: «Ricordo questa frase: “Io personalmente farò tutto quello che è in mio potere per cercare di trovare”, non so se mi disse “una soluzione”, ma comunque disse che avrebbe dato una risposta su quello che era successo al nostro concittadino». Era l’ora di pranzo del 3 febbraio 2016. Il «corpo esanime e seviziato» di Giulio era ricomparso tre ore prima, ma gli egiziani non avevano ancora comunicato la notizia. Fu diffusa solo la sera, quando la ministra e l’intera delegazione interruppe la visita e pretese di rientrare immediatamente in Italia. Ma l’autorizzazione al decollo per l’aereo di Stato si fece attendere parecchio. «Non ho dubbi — ha riferito il consigliere diplomatico di Guidi, Mario Cospito — che la nostra decisione di interrompere la missione non era stata affatto gradita dalle autorità locali e anche quella snervante attesa sulla pista dell’aeroporto ne fu forse un segnale».

Giulio Regeni, le carte segrete della Francia: "Ucciso per una rivalità tra i servizi segreti egiziani". Redazione Tgcom24 il 26 Novembre 2021. Giulio Regeni è rimasto vittima "della rivalità" tra gli apparati dell'intelligence del Cairo. L'indiscrezione che rilancia l'ipotesi del coinvolgimento dei servizi segreti dietro le torture e l'uccisione del ricercatore friulano in Egitto spunta dagli Egypt Papers, una serie di documenti riservati pubblicati in un'inchiesta dal sito investigativo francese Disclose. "L'affaire Regeni è stato un abuso, interpretato da alcuni come il risultato di una rivalità tra il Mid, il dipartimento di Intelligence militare, e la National security", ha anticipato la Repubblica citando un "cablo" dell'ambasciata di Francia al Cairo parte dell'inchiesta. La nuova possibile conferma sul ruolo dei servizi segreti egiziani nella morte del giovane italiano arriva nel giorno in cui è stata fissata una nuova udienza del processo in Italia per far luce sul caso: il prossimo 10 gennaio il gup di Roma, Roberto Ranazzi, le misure da intraprendere per fare in modo che i quattro 007 indagati siano messi a conoscenza delle accuse. Per eseguire la notifica a loro carico, finora resasi impossibile bloccando il procedimento.

La tesi dei servizi deviati era già stata evocata in passato da alcuni politici italiani che si erano interessati al caso, oltre che dall'ex capo del Ros Mario Mori e dallo scrittore dissidente egiziano Ala al Aswani. Una tesi mai approfondita che vedrebbe lo stesso Sisi vittima della sua intelligence, alla quale si contrappone la lettura predominante che invece accredita il delirio di onnipotenza del presidente egiziano nell'aver lasciato i suoi 007 agire contro Regeni, certo che l'Italia non avrebbe reagito con ostinazione nella ricerca della verità. D'altronde, ha fatto notare più di qualcuno al Cairo, l'Egitto non aveva interesse a rompere con Roma. La Procura egiziana il 30 dicembre scorso ha comunque dichiarato di non ritenere che i quattro agenti individuati come addetti al controllo dell'attività di Regeni siano stati anche i rapitori e torturatori del giovane. Per questo Il Cairo ha negato ai magistrati italiani i domicili per la notifica degli atti agli imputati, a suo dire meri raccoglitori di informazioni, ritenendo il processo immotivato. Questa mancata notifica, che sembra un cavillo, ha però  azzerato il processo in Italia: il 14 ottobre scorso la terza Corte d'Assise di Roma ha dichiarato nullo il decreto di rinvio a giudizio. Ora la palla passa all'udienza del 10 gennaio prossimo.

Hassan, il Regeni egiziano ucciso nelle nostre prigioni. Luca Fazzo il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. È morto suicida a 20 anni dopo giorni di vessazioni e botte in carcere. Ma i giudici ora vogliono archiviare. Si avvicina alle sbarre, protende le braccia verso le guardie. Si taglia, ripetutamente, tra l'indifferenza delle guardie. Pochi minuti dopo, un agente di custodia entra in cella e lo colpisce al volto, con violenza. Le telecamere immortalano tutto. Sono le ultime immagini di Hassan Sharaf, 20 anni, vivo. La telecamera del carcere di Viterbo segna le 14,02 del 23 luglio 2018: 40 minuti dopo, gli agenti di custodia tornano davanti alla cella del giovane egiziano. Le immagini li ritraggono mentre guardano in alto, verso l'inferriata della finestra: lì c'è appeso il ragazzo che agonizza. Nessuno interviene, nessuno si lancia per salvarlo. Ora quelle immagini sono al centro di un caso drammatico e spinoso, che inevitabilmente ne evoca un altro: quello di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano assassinato in Egitto da uomini dello Stato cinque anni fa. Qua le parti si invertono: a morire è un giovane egiziano, in un carcere italiano dove non doveva trovarsi. E lo Stato italiano, che giustamente pretende (invano, per ora) che il governo egiziano faccia la sua parte per assicurare alla giustizia gli assassini di Regeni, non fa nulla per allontanare le ombre che gravano sulla morte di Hassan. Il segno più chiaro dell'ostruzionismo è il provvedimento del giudice di Viterbo che rinvia alle calende greche l'udienza che dovrebbe riaprire l'inchiesta frettolosamente chiusa dalla Procura locale. Davanti all'opposizione di una associazione egiziana per i diritti umani, il provvedimento del magistrato ha spostato l'udienza dal 2019 al marzo 2024. Un rinvio di cinque anni. Possibile? Eppure di cose da capire, nella morte di Hassan Sharaf ce ne sarebbero tante. É la storia di un ragazzo arrivato in Italia con i barconi, e finito come tanti altri nel giro della piccola delinquenza. Una condanna per furto, un altra per dieci euro di hashish. Quando lo arrestano per eseguire la pena, Hassan dovrebbe andare - lo dice l'ordine della Procura - in un carcere per minorenni. Invece lo portano prima a Regina Coeli poi, «per opportunità penitenziaria», in uno dei carceri più malfamati d'Italia, il «Mammagialla» di Viterbo, già teatro di pestaggi e di morti, ed investito di recente, tanto per dare una idea, da una indagine su un giro di spaccio di droga all'interno per cui vengono incriminati sia detenuti che agenti della polizia penitenziaria. Hassan arriva al «Mammagialla» il 21 luglio 2017, accompagnato da una cartella clinica che attesta il suo stato di «deficit cognitivo» e di dipendenza, certificato da numerose visite dei medici del carcere romano. Ma a Viterbo viene sostanzialmente abbandonato a se stesso, vede il primo psichiatra dopo dieci mesi dal suo ingresso, a gennaio. In compenso finisce nel mirino degli agenti di custodia. Dopo una soffiata, gli perquisiscono la cella: viene, dice il verbale «afferrato per le braccia» e «reso innocuo». Il giorno dopo Saraf invece racconta ai medici di essere stato picchiato ripetutamente. Risposta del consiglio di disciplina, decisa il 9 aprile: quindici giorni di isolamento. E qui la cosa si fa quasi incredibile. Per cinque mesi la sanzione non viene eseguita. Nel frattempo al «Mammagialla» entra il Garante dei detenuti, raccoglie racconti di altri prigionieri che parlano di pestaggi sistematici. Il 23 luglio, non si sa perchè e nemmeno chi, qualcuno decide di eseguire la sanzione e portare il ragazzo in isolamento. Il medico di turno, Elena Ninashvili, attesta che il detenuto è in grado di affrontare l'isolamento. Dirà poi di non averlo nemmeno visitato, e che il certificato le è stato portato già compilato dalle guardie. «Era tranquillo e collaborativo», scrivono gli agenti. Invece i filmati mostrano un ragazzo agitato e disperato. Eppure la Procura di Viterbo chiede di archiviare tutto, liquidando come «abuso di mezzi di correzione» il ceffone al ragazzo. E neanche i magistrati che dovevano farlo togliere dall'inferno di Viterbo non rispondono di nulla.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Grazia Longo per "La Stampa" il 14 ottobre 2021. Stamattina si svolgerà la prima udienza, nell'aula bunker di Rebibbia, per l'omicidio di Giulio Regeni, durante la quale il governo si dichiarerà parte civile accanto ai familiari del giovane. E se, come c'è da aspettarsi, la terza Corte d'assise di Roma deciderà di processare, nonostante la loro assenza, i quattro 007 egiziani che hanno sequestrato, torturato e ucciso il ventottenne ricercatore friulano, in questa stessa aula assisteremo a tre interrogatori «protetti», stile pentiti di mafia. Un paravento nasconderà l'identità di tre dei sei testimoni chiave dell'inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, in collaborazione con i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco. Ammesso che oggi i quattro imputati (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) vengano ritenuti «finti inconsapevoli» e quindi processabili seppur non presenti, nelle prossime udienze il processo entrerà nel vivo con il contraddittorio dei testimoni chiave. Tre di loro non arriveranno mai a Roma perché vivono in Egitto e saranno quindi verosimilmente «indotti» a non ripetere in un'aula giudiziaria italiana quanto hanno dichiarato a verbale nel loro Paese contro gli agenti della National Security di Al Sisi. Ma fortunatamente altri tre importanti e decisivi testi abitano fuori dai confini egiziani, in località che la procura di Roma mantiene segrete proprio per scongiurare tentativi di pressioni e ricatti nei loro confronti. Della loro rilevanza, Colaiocco ha già parlato durante l'audizione del 10 dicembre scorso, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta. Sia in quella occasione, sia nelle carte del fascicolo, i tre uomini non vengono chiamati con i loro veri nomi ma in codice: si tratta dei testi Delta, Epsilon e Gamma. Il primo ha visto Regeni arrestato la sera del 25 gennaio 2016. Il secondo lo ha visto mentre lo torturavano. E il terzo ha sentito il racconto di chi lo ha picchiato. Il testimone Delta racconta: «La sera del 25 gennaio, potevano essere le 20 o al massimo le 21 ero alla stazione di Dokki, ho visto arrivare il ragazzo che solo successivamente ho riconosciuto come Giulio Regeni che, mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. Ma è stato fatto salire su un'auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sherif un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome». Il testimone Epsilon per 15 anni ha lavorato nella sede della National Security dove Regeni è stato ucciso, nella villa Lazoughly alla periferia del Cairo in uso ai servizi segreti. Ha raccontato: «Ho visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace. Al primo piano della struttura c'è la stanza 13 dove vengono portati gli stranieri sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale. Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti». E infine il teste Gamma ha riferito di aver sentito Magdi Ibrahim Sharif mentre raccontava di avere picchiato il ricercatore italiano, sospettando che volesse «fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione». Intanto il presidente della Camera Roberto Fico invita a «restare tutti uniti, istituzioni e comunità per la ricerca della verità». Ieri Fico ha ricevuto le delegazioni di Amnesty International, Human Rights Watch e Dignity che gli hanno sottoposto i rispettivi rapporti sulla violazione dei diritti umani in Egitto e la richiesta all'Italia di sospendere la fornitura di armi al Cairo, oltre alla promozione di un'indagine internazionale a livello Onu.

Caso Regeni, salta il processo agli 007 egiziani. «Premiata la prepotenza del Cairo». Giovanni Bianconi e redazione Online su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Il processo è stato bloccato e le carte devono tornare al gup: non c’è la prova che gli imputati siano a conoscenza del giudizio a loro carico. Il processo ai quattro agenti della security egiziana accusati della morte del ricercatore friulano Giulio Regeni è stato bloccato. La corte d’assise ha deciso di restituire gli atti al giudice che aveva ordinato il rinvio a giudizio. La decisione è legata all’assenza in aula degli imputati, nodo affrontato nella prima udienza. In pratica non c’è la prova che gli imputati siano a conoscenza del processo a loro carico. Il processo ai quattro 007 egiziani, accusati del sequestro e della morte di Giulio Regeni, è venuto meno perché a parere della corte d’assise di Roma «il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati comunque non presenti all’udienza preliminare mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento» si legge nel provvedimento. La nuova udienza sarà finalizzata a una ulteriore ricerca dei quattro agenti egiziani (che la procura avrebbe voluto far processare in contumacia) coinvolti nell’inchiesta o. Per la corte d’assise non si può essere certi «dell’effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, né della loro volontaria sottrazione al procedimento». «Prendiamo atto con amarezza della decisione della corte d’assise che premia la prepotenza egiziana - è il commento a caldo di Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni - . È una battuta di arresto, ma non ci arrendiamo. Pretendiamo dalla nostra giustizia che chi ha torturato e ucciso Giulio non resti impunito. Chiedo a tutti voi di rendere noti i nomi dei 4 imputati e ribaditelo, così che non possano dire che non sapevano».

Regeni, processo farsa Mancano i 4 imputati, la Corte: tutto da rifare. Nino Materi il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il pg: l'Egitto ha nascosto la verità. Gli 007 non si presentano e incassano l'annullamento. Il processo agli imputati del delitto Regeni è iniziato ed è subito finito (almeno per il momento). Lo ha deciso, dopo una lunga camera di consiglio, la terza corte d'assise di Roma che ha annullato il decreto che disponeva il giudizio e trasmesso gli atti al gup. Si ricomincia da capo. Hanno avuto la meglio le ragioni procedurali avanzate dai difensori (d'ufficio) degli imputati. In precedenza la presidenza del Consiglio dei ministri aveva deciso di costituirsi parte civile nel procedimento sull'omicidio del 28enne ricercatore triestino, rapito e ammazzato al Cairo dai servizi segreti egiziani. Il 25 gennaio 2016 Giulio fu arrestato con la falsa accusa di essere una «spia al servizio dell'Occidente», venne ammazzato il 3 febbraio; Regeni era un dottorando dell'Università di Cambridge e si trovava al Cairo per motivi di studio, sparì proprio nel giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir. Quando il cadavere fu ritrovato, il corpo presentava profondi segni di tortura e la madre, all'atto del riconoscimento, disse di aver visto nel volto martoriato del figlio «tutto il male del mondo». In particolare nella pelle di Regeni erano state incise alcune lettere: una modalità di sevizia tipica degli aguzzini agli ordini del presidente Abdel Fattah al Sisi. Ieri, nell'aula bunker di Rebibbia, il procuratore generale nel corso della prima udienza in Corte d'assise ha usato parole dure contro i quattro imputati contumaci (tutti agenti segreti del National Security egiziani) e i vertici di Stato fedeli ad Al Sisi: «Dal governo egiziano abbiamo ricevuto elementi incompleti o manipolati, altri importanti documenti sono stati negati». Prima di entrare nello specifico delle accuse, il pm aveva fatto una premessa di tipo procedurale: «I quattro imputati sono dei finti inconsapevoli. Non sono qui in aula per evitare che il processo vada avanti». Per la prima volta un Paese occidentale metteva alla sbarra non solo i 4, presunti, carnefici di Regeni, ma - indirettamente - anche il concetto di democrazia negata e violazione dei diritti civili per il quale l'Egitto di Al Sisi è tristemente noto nel mondo. Dal punto di vista dell'immagine il governo del Cairo ne è uscito a pezzi, considerato il suo comportamento di totale ostruzionismo rispetto all'iter giudiziario italiano, tanto da essersi rifiutato di comunicare gli indirizzi dei quattro poliziotti ai quali, di conseguenza, non è stato possibile notificare l'atto di convocazione: «Lo hanno fatto per sottrarsi - ha rimarcato il procuratore -. È un caso di abuso del diritto, con una volontà chiara di sottrazione dal processo». Poi è la volta del capitolo «depistaggi»: «Oltre 40 le richieste fatte e mai evase; prove alterate; manipolazione dei tabulati telefonici; finti testimoni. Tutto con l'obiettivo di scagionare la National security: addirittura cinque innocenti sono stati ammazzati in un conflitto a fuoco, facendo poi ritrovare a casa di uno di loro i documenti di Giulio». Ma era solo l'ennesima - cinica - messa in scena. E ancora: «Cancellate le immagini del sistema di videosorveglianza della metropolitana di Dokki dove Regeni fu catturato». I legali d'ufficio dei 4 ufficiali egiziani (il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e il maggiore Magdi Ibrahim Sharif) hanno protestato: «Questo non è il processo contro gli imputati, ma contro l'Egitto». Nino Materi 

Processo-Regeni azzerato. Ecco le ragioni del flop. Dietro la decisione di rinviare gli atti al gip l'ennesimo conflitto tra politica e magistratura. Nino Materi il 16 ottobre 2021 su Il Giornale. Il mondo della politica, più o meno trasversalmente, si ribella all'azzeramento del processo-Regeni per un «cavillo burocratico» (che però, come vedremo, tale non è), ma dimentica - per ignoranza o malafede - che quanto deciso ieri dalla terza sezione della Corte d'Assise di Roma è la conseguenza di una riforma normativa decisa nel 2014 fa dal legislatore, vale a dire da quella stessa classe politica che ora se ne lamenta. D'obbligo fare un passo indietro, cercando di spiegare in punta di diritto quanto accaduto 48 fa ore nell'aula bunker di Rebibbia. Dopo cinque travagliatissimi anni di indagini, la Procura di Roma individua i quattro 007 egiziani che, secondo l'accusa, sono i responsabili del sequestro, delle torture e dell'omicidio del 28enne ricercatore italiano. Si tratta di quattro ufficiali dei servizi segreti agli ordini del regime del dittatore Al Sisi, il quale li ha sempre vergognosamente tutelati fino al punto di negare i «dati identificativi» degli imputati agli inquirenti italiani. I nomi sono noti, ma i giudici capitolini non ottengono dalle autorità del Cairo l'indirizzo dei domicili degli agenti della National Security egiziana cui recapitare gli atti del processo. Formalmente i quattro sono «irreperibili». Strategica anche la scelta di non nominare dei legali di fiducia. Per la Procura di Roma gli unici «interlocutori» restano dunque gli avvocati d'ufficio ai quali viene consegnato «il decreto di giudizio»: ciò in base al «presupposto che gli imputati si siano sottratti volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento»; un «presupposto» che però la terza Corte di Assise ha ritenuto infondato, bloccando il processo sul nascere e restituendo gli atti al gip. Insomma, si dovrà ricominciare tutto da capo. Bruciante sconfitta per l'accusa, clamorosa vittoria per la difesa che ha sostenuto con successo la tesi della «inconsapevolezza degli imputati». Ma come è stato possibile che quattro avvocati d'ufficio siano riusciti a smontare, con pochi minuti di arringa, i cinque anni di faticosa indagine portati avanti dal pubblico ministero? A spiegarlo è Il Fatto Quotidiano, interpellando il giudice Oscar Magi, che nel 2009 era presidente della corte nel processo-Abu Omar: storia dalle molte analogie col caso Regeni. La domanda-chiave è: perché allora fu possibile arrivare fino in Cassazione nel giudicare gli agenti della Cia, mentre il processo Regeni si è disintegrato alla prima udienza? «La risposta - sottolineano i giuristi - è nella modifica dell'articolo 420 bis del codice di procedura penale avvenuta nell'ambito della legge delega al governo del 28 aprile 2014. Prima di quella riforma il testo prevedeva che il giudice disponesse anche di ufficio la rinnovazione dell'avviso dell'udienza preliminare quando è provato o appare probabile che l'imputato non ne abbia avuto effettiva conoscenza...»; circostanza, quest'ultima «liberamente valutata dal giudice, e tale valutazione non può formare oggetto di valutazione successiva né motivo di impugnazione». Con l'entrata in vigore nel 2014 della modifica dell'articolo 420 bis, questa facoltà del giudice (la cosiddetta «dichiarazione di contumacia») è stata cancellata. Ecco spiegata l'impossibilità tecnica da parte della Corte d'Assise di Roma di far svolgere il processo-Regeni. Ennesimo caso di giustizia negata. Consumato davanti alle telecamere di tutto il mondo.

"Non c'è prova di notifica": cancellato il processo per l'omicidio Regeni. Francesca Galici il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. La corte d'Assise di Roma non ha prove "dell'effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati": si riparte dall'udienza preliminare.  Nessun processo per la morte di Giulio Regeni. Lo ha stabilito, dopo una lunga camera di consiglio, la terza corte d'assise di Roma che ha annullato il decreto che disponeva il giudizio per i quattro 007 egiziani accusati del sequestro, delle torture e della morte di Giulio Regeni, il 28enne ricercatore friulano rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 e trovato morto il 3 febbraio successivo. Gli atti sono stati rimandati al gup. Secondo la corte d'Assise di Roma "il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati comunque non presenti all'udienza preliminare mediante consegna di copia dell'atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento". Ora sarà necessario ripartire dall'udienza preliminare. L'obiettivo è quello di avviare una ulteriore ricerca dei quattro 007 egiziani, che la procura avrebbe voluto far processare in contumacia. Ma la corte d'Assise di Roma ha ritenuto che non ci siano agli atti certezze "dell'effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, né della loro volontaria sottrazione al procedimento". Questo perché i quattro 007 egiziani coinvolti "non sono stati stati raggiunti da alcun atto ufficiale". Comprensibile la delusione della famiglia Regeni, che questa mattina si trovava a Roma. "Riteniamo importante che il governo italiano abbia deciso di costituirsi parte civile. Prendiamo atto con amarezza della decisione della corte d'Assise che premia la prepotenza egiziana. È una battuta di arresto, ma non ci arrendiamo", ha dichiarato l'avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, lasciando l'aula bunker di Rebibbia al termine dell'udienza. Il legale ha aggiunto, non senza una punta di polemica, rivolgendosi ai giornalisti: "Chiedo a tutti voi di rendere noti i nomi dei 4 imputati e ribaditelo, così che non possano dire che non sapevano". Un commento che si rifà a quanto detto in aula, dove è stato fatto notare che se è vero che sul caso Regeni c'è stata "una indubbia rilevanza mediatica", è anche vero, secondo la corte, "che i mass media egiziani in lingua araba hanno riportato la notizia dell'iscrizione di 5 appartenenti alle forze di sicurezza locali senza pubblicarne il nome". L'identità delle persone coinvolte è stata rivelata solo nei media internazionali in lingua inglese.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Regeni, processo farsa: la resa dei conti fra Stati finita in mano ai pm. Processo Regeni, giuristi e magistrati d’accordo: non poteva che andare così. Spangher: «Vicini alla famiglia, ma la giustizia ha le sue regole». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 16 ottobre 2021. La battuta d’arresto, subito dopo l’avvio del processo a carico dei quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani accusati della morte di Giulio Regeni, fa clamore se il provvedimento della Corte d’Assise di Roma viene letto con superficialità e sull’onda emotiva. Ma nella sostanza tutela tanto l’interesse dello Stato quanto quello dei familiari del ricercatore universitario ucciso in Egitto. L’ordinanza della Corte d’Assise ha annullato il rinvio a giudizio disposto dal Gup nello scorso mese di maggio e rinviato gli atti con l’intento di rendere effettiva la conoscenza del processo agli imputati (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) e far reggere da subito il processo su solide basi. Tutto, dunque, dovrà ripartire dall’udienza preliminare. I giudici hanno rilevato che «il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati, comunque non presenti all’udienza preliminare, mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento». Di qui l’annullamento del rinvio a giudizio disposto dal Gup cinque mesi fa. La Corte d’Assise ha affermato che le attività svolte (invito a fornire indicazioni sulle compiute generalità anagrafiche e conoscenza della attuale residenza o domicilio), mediante rogatoria all’autorità giudiziaria egiziana per acquisire la formale elezione di domicilio dei quattro imputati, non hanno sortito alcun effetto. In mancanza di indirizzo determinato non è stato possibile notificare alcun atto ufficiale del procedimento agli agenti dei servizi segreti, a partire dall’avviso di conclusione delle indagini.

Processo Regeni, parla il professor Spangher

In tutto questo ha giocato un ruolo l’inerzia, voluta, dell’Egitto, che ha sempre ignorato le richieste italiane fatte tramite il ministero della Giustizia e i canali diplomatici. Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale dell’Università di Roma “La Sapienza” ritiene che la Corte d’Assise ha seguito la logica della costruzione di un processo solido, che potrà arrivare fino in fondo e garantire i diritti di tutte le parti. «Comprendo molto bene – dice il professor Spangher -, da friulano e giuliano, il dolore della famiglia Regeni e sono loro vicino. Il processo nei confronti degli assassini di Giulio Regeni deve però essere regolare. I giudici si sono mossi correttamente. Hanno fatto bene a prendere quella decisione, perché è inutile costruire un processo sulla sabbia. L’eccezione che loro hanno verosimilmente recepito e trasferito nella loro decisione fa sì che il processo regredisca. Ma nel momento in cui regredirà incomincerà a fare le cose giuste. Se invece questo processo fosse andato avanti, ci saremmo potuti trovare con delle sorprese. Se c’è una invalidità processuale è meglio accertarla subito, restituire gli atti dove si è verificata, sanarla e andare avanti, piuttosto che trascinare inutilmente un processo che rischia di avere dentro il tarlo dell’invalidità».

Il ruolo della Corte d’Assise di Roma

Quanto deciso dalla Corte d’Assise di Roma non deve far perdere la speranza ai genitori e alla sorella di Regeni. «Ragioniamo – aggiunge Spangher – con una logica di tipo diverso. È meglio costruire subito un processo solido piuttosto che dire “siamo andati avanti e ottenuto delle condanne” e poi fare i conti con un annullamento. La Corte d’Assise si è messa una mano sulla coscienza. Non è che abbia chiuso il processo. Ha restituito gli atti ad un altro giudice. Il problema potrebbe essere un altro. Come mai non sono stati fatti degli accertamenti? Come mai non sono state fatte delle verifiche in un determinato momento? Non basta la nomina di un difensore. Bisogna che per l’imputato ci sia stata la certezza della conoscenza del processo. E quando non c’è che ci sia la conseguenza che non vuole andare a processo. Il tema della partecipazione all’esercizio del diritto di difesa degli imputati è molto delicato. Le nullità dell’udienza preliminare sono nullità assolute. Mi viene in mente, anche se per una vicenda completamente diversa, quanto accaduto al giornalista Giuliano Ferrara in materia di irregolare convocazione per l’udienza preliminare. Tale problema si trascinò addirittura fino in Cassazione. Si devono quindi evitare irregolarità tali da portare a conseguenze imprevedibili nel processo. Le situazioni di invalidità sono delle vere e proprie mine vaganti».

Il parere del giudice de Gioia

Anche il giudice del Tribunale di Roma, Valerio de Gioia, analizza in profondità quanto deciso in Corte d’Assise. Il magistrato sottolinea l’importanza di non far prevalere gli aspetti emotivi in una vicenda processuale che si conferma complessa. «Capisco – spiega al Dubbio – il disappunto di una parte della opinione pubblica in relazione al provvedimento adottato dalla Corte di Assise, che, nei fatti, ha comportato una regressione di un procedimento che, già estremamente complicato nella fase delle indagini, per via anche di una serie di depistaggi, stenta a partire. Tuttavia, in punto di diritto, si tratta di un provvedimento ineccepibile, considerato che si può procedere in assenza dell’imputato, istituto che, dal 2014, ha sostituito la contumacia, solo se si ha la certezza che la sua mancata partecipazione al processo è volontaria». De Gioia richiama una importante sentenza della Corte di Cassazione. «In questo caso – evidenzia -, da quello che ho letto, non è stata ritenuta sufficiente la notifica eseguita ai difensori di ufficio degli imputati e in ciò in ossequio alle più recenti indicazioni giurisprudenziali, nazionali e sovranazionali. Come peraltro chiarito dalle stesse Sezioni Unite, con la sentenza numero 23948/ 2019, neanche l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio è sufficiente per la dichiarazione della assenza, dovendo il giudice verificare che vi sia stata una effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato. Che la tematica del processo in absentia sia delicata è confermato anche dall’attenzione della legge delega di riforma del processo penale cosiddetta Cartabia, che, facendo tesoro delle indicazioni della Commissione Lattanzi, ha delegato il Governo ad intervenire per uniformarla al diritto dell’Unione europea. In particolare alla direttiva Ue 2016/ 343 che tratta, oltre che della presunzione di innocenza, anche del diritto di presenziare al processo. Le regole processuali devono valere per tutti i processi e per tutti gli imputati». Il diritto ad un giusto processo, dunque, non può essere negato neppure a chi viene accusato della morte del ricercatore friulano. «Sul fatto – conclude de Gioia – che gli indagati, nella sostanza, abbiano conoscenza che in Italia si sta per celebrare un processo che li riguarda, non credo si possano avere dubbi, stante il clamore, addirittura internazionale, dello stesso. Ma ciò non è sufficiente, sotto un profilo formale, per poter procedere nei loro confronti. Il provvedimento, se ci pensiamo bene, tutela soprattutto l’interesse dello Stato e dei familiari della vittima ad evitare la celebrazione di un processo che si preannuncia defatigante e doloroso e che un domani potrebbe essere dichiarato nullo, allontanandoci, così, dall’accertamento della verità». 

Il processo agli 007 del Cairo? Uno spettacolo penoso e prevedibile. Rinvio a giudizio annullato: l'azione temeraria della procura è naufragata come era prevedibile. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 15 ottobre 2021. Il processo ai quattro agenti dei servizi segreti egiziani sospettati di aver partecipato all’omicidio di Giulio Regeni e ai successivi depistaggi è stato un triste spettacolo. Una messa in scena che si è conclusa come altrimenti non poteva: il rinvio a giudizio disposto dal gup lo scorso maggio è stato infatti annullato perché nessuno degli imputati ha ricevuto gli atti che li chiamano in causa, nessuna residenza, nessun domicilio, tutti irreperibili. E il nostro ordinamento (come quello di qualsiasi Stato di diritto) impedisce di giudicare qualcuno che non sia a conoscenza delle sue accuse. Non è un cavillo, un espediente causidico, è la legge che tutela l’imputato e il diritto alla difesa. Questo vale per tutti i cittadini, anche per gli scagnozzi dell’intelligence del Cairo. Ma davvero la procura era convinta che «la copertura mediatica capillare e straordinaria» del caso Regeni equivalga a una notifica giudiziaria come ha affermato il giudice per l’udienza preliminare, Pierluigi Balestrieri? Si fatica a credere che dei magistrati esperti e competenti possano inciampare in un simile errore e lanciarsi in un’azione così temeraria. Forse gli aspetti simbolici ed emotivi della vicenda hanno prevalso su quelli giuridici annebbiando la mente di chi invece doveva agire con criteri razionali. Si può anche comprendere: la brutalità dell’omicidio, l’arroganza del Cairo, gli insabbiamenti, tutti elementi che gridano suscitano rabbia e dolore. Ma purtroppo -o per fortuna- un processo penale non è la lotta del bene contro il male. Ora è tutto da rifare, il giudice dovrà fissare una nuova udienza e mettere in campo nuovi elementi ma l’esito sarà lo stesso: i quattro non verranno mai rintracciati, per definizione.

Sono degli agenti segreti, abituati ad agire fuori dalla legge, nella più totale impunità, all’interno della zona grigia da cui il regime di al Sisi alimenta il dispositivo della repressione. Rimane la domanda più angosciante: verrà mai fatta luce sull’omicido del ricercatore italiano, gli sarà mai resa giustizia? I nostri esponenti politici possono anche lanciare anatemi e tuonare saette nei confronti del Cairo, e il nostro governo costituirsi parte civile in un processo farlocco, ma la sostanza è che l’Italia non consumerà  mai uno strappo con l’Egitto (di cui siamo il secondo partner commerciale), dall’Eni a Finmeccanica gli interessi contano più delle belle parole.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 16 ottobre 2021. C'è un problema di diversa interpretazione delle norme tra magistrati. Di più: un conflitto all'interno del tribunale di Roma, dove un giudice ha ritenuto che il processo per il sequestro e l'omicidio di Giulio Regeni si potesse fare anche in assenza degli imputati e altri hanno replicato che no, il dibattimento non può cominciare perché manca la prova che quegli stessi imputati siano stai informati del giudizio a loro carico. Di fronte agli stessi commi e alle stesse carte bollate c'è un contrasto di vedute che ha portato a due verdetti opposti: decreto di rinvio a giudizio e successivo annullamento di quel provvedimento. Questo è lo scoglio su cui s' è arenato, per adesso, il processo contro i quattro militari della National security egiziani accusati del rapimento e (uno di loro, l'ultimo) delle torture e dell'uccisione di Giulio: il generale Tarek Ali Saber, i colonnelli Aser Kamal Mohamed Ibrahim, e Hosam Helmy, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Finora c'era una Procura che era riuscita nel mezzo miracolo di portare alla sbarra quattro cittadini stranieri per un reato commesso nel loro Paese ai danni di un cittadino italiano, nonostante gli ostacoli frapposti dall'Egitto che da quattro anni (quando l'indagine ha imboccato la strada che portava a quei quattro nomi) ha interrotto ogni collaborazione. Anzi, a gennaio scorso ha sferrato un duro attacco alla Procura di Roma, accusandola di «conclusioni illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici penali internazionali». Adesso lo scenario è cambiato e l'ostacolo è stato sollevato dalla III corte d'assise che non se l'è sentita di aprire il processo in assenza degli imputati. Pur riconoscendo che questa situazione di improcedibilità deriva dalla «acclarata inerzia dello Stato egiziano a fronte alle richieste del ministero della Giustizia italiano, seguite da reiterati solleciti per via giudiziaria e diplomatica, nonché da appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano». Ma di fronte a tanta ostinata sordità non si può andare avanti sulla «presunzione» (trasformata dal giudice dell'udienza preliminare Pierluigi Balestrieri in «assoluta certezza») che gli imputati sappiano e si vogliano sottrarre al dibattimento in corso. Ci vuole la «prova certa», da valutare con «particolare rigore», ha scritto la giudice Antonella Capri nell'ordinanza della corte da lei presieduta. Che succederà ora? Nel giro di qualche settimana gli atti del procedimento torneranno allo stesso gup il quale - presumibilmente entro gennaio - fisserà una nuova udienza preliminare dove il pubblico ministero, la parte civile e i difensori torneranno a discutere il tema della reperibilità degli imputati e delle notifiche. È verosimile che il giudice avvierà una nuova rogatoria per chiedere all'Egitto l'elezione di domicilio dei quattro militari, ma è altrettanto verosimile che l'Egitto risponderà con il silenzio fatto scendere dal dicembre 2017 in avanti. A quel punto il processo piomberà in una sorta di limbo, sospeso sine die , in attesa che l'Egitto decida diversamente di fronte alle nuove richieste da reiterare ogni anno. Naturalmente il governo italiano può cercare altre strade per ottenere risposte diverse dal Cairo. Ma la decisione di palazzo Chigi di costituirsi parte civile contro i quattro imputati, al fianco dell'accusa e della famiglia Regeni, non è stata gradita in Egitto; così come l'inserimento nella lista dei testimoni da convocare (su richiesta dei genitori e della sorella di Giulio) del presidente Al Sisi e altri esponenti del governo. Tuttavia, secondo il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta Erasmo Palazzotto, la costituzione di parte civile «pone in capo al governo italiano ancora maggiori responsabilità nel dovere esercitare, con ogni strumento a sua disposizione, una pressione diplomatica e politica affinché l'Egitto collabori con la giustizia italiana». Ma non sarà facile.

Francesca Paci per “la Stampa” il 16 ottobre 2021. C'è un non detto che pesa come un macigno sul processo Regeni, perché in realtà, come sanno bene tutti i protagonisti di questa storia, la collaborazione tra le procure di Roma e del Cairo non è mai esistita se non nelle migliori intenzioni degli italiani. Mai, neppure nel ferragosto della speranza di quattro anni fa, quando l'allora ministro degli esteri italiano Angelino Alfano inviava in Egitto l'ambasciatore Giampaolo Cantini per colmare il vuoto di sedici mesi seguito al richiamo del predecessore, Maurizio Massari, quello che aveva riconosciuto all'obitorio il corpo di Giulio Regeni e dopo aver bussato come un pazzo invano alle porte dei principali ministeri egiziani aveva appeso una gigantografia del ragazzo all'ingresso del nostro ufficio consolare, accanto al Presidente della Repubblica, un impegno e un monito. L'inchiesta della Procura di Roma aveva diversi punti deboli e non certo sul fronte delle responsabilità dell'omicidio: anche questo era chiaro. Ma l'Italia doveva cercare la verità giudiziaria perché quella politica era troppo gravosa. Troppo ingombrante l'Egitto, riaffermatosi nel frattempo nella regione come un partner indispensabile per la crisi libica, per la partita energetica, per la gestione dei flussi migratori. Troppo difficile puntare l'indice contro un regime che, come tre giorni fa a Budapest, non perde occasione per ribadire la propria indisponibilità a prendere lezioni di diritto da quell'occidente sempre più sostituibile dalla Russia, dalla Cina e all'occorrenza perfino dalla un tempo nemica Turchia. Gli inquirenti hanno caricato a testa bassa per mesi, per anni, smontando i depistaggi degli egiziani, sfidandone la reticenza, incrociando testimonianze e chiedendo decine di volte gli indirizzi dei quattro ufficiali della National Security indagati, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, nomi ormai stranoti agli uomini del presidente Abdel Fattah al Sisi. Che la magistratura da sola potesse sfondare il muro di gomma era ed è wishful thinking. E' mancata la politica, un premier dopo l'altro, è mancata l'Europa, è mancata la forza di cercare un fronte comune per negoziare un cambio di passo con un paese per niente intimidito dal j' accuse dei giuristi internazionali che ha riservato a Regeni il trattamento riservato ai propri figli e, a priori, riservabile ad altri. Sono passati così quasi sei anni dalla notte in cui scoprimmo con sgomento che un ricercatore italiano poteva essere massacrato al Cairo con noncuranza, quasi. Chi era lì in quei giorni può confermare lo stupore e il fastidio del governo egiziano per la "insistenza" (dicevano proprio così i media ufficiali) con cui, capitanati dall'ambasciatore Massari, chiedevamo di sapere. Ci furono giorni in cui, per minimizzare l'abisso Regeni, la propaganda prese a citare in tv i tanti egiziani morti in Italia in situazioni poco chiare, tipo un pover' uomo finito sotto il treno. Quello egiziano è un popolo mite, caldo, leggero sebbene gravato dal peso di una storia che insegue ancora la catarsi. A partire dal 2013, ma forse anche da prima, il regime, a testa bassa per recuperare terreno agli audaci quanto impreparati ragazzi di Tahrir, ha cominciato a diffondere la storia della cospirazione occidentale, il complotto per screditare gli eredi dei Faraoni, le spie travestite da giornalisti per avvelenare la coesione nazionale. L'ha raccontata per spiegare la sorte della meglio gioventù in cella senza prove come l'attivista Alaa Abd-el Fattah, la cui infinita detenzione è tutta nel coraggioso libro curato da Paola Caridi, "Non siete stati ancora sconfitti" (hopefulmonster editore). L'ha raccontata per gettare ombre su Giulio Regeni, lo straniero. La racconta in questi mesi per screditare Patrick George Zaki, lo studente dell'università di Bologna accusato di pseudo-terrorismo che i giudici rinviano sine die. Ad eccezione dell'indomito sito Mada Masr non ci sono più media indipendenti in Egitto. Mentre il complottismo si è radicato nel paese legandosi alla fame, all'incertezza, alla paura. Non c'è traccia del processo Regeni nei giornali egiziani, sulle tv, non se ne parla nei caffè. E' impossibile che la Procura del Cairo non abbia ricevuto le carte dei colleghi di Roma, la notifica del processo, i nomi degli imputati. La magistratura italiana è arrivata con tenacia fin dove poteva arrivare da sola. Perché, checché ci dicessimo, l'Egitto non ha collaborato mai. E siamo all'anno zero.

Il caso del ricercatore triestino. Sentenza sugli 007 egiziani ineccepibile, nessuno schiaffo a Giulio Regeni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Ottobre 2021. Che cosa sarebbe successo, se in un qualunque Paese africano fosse stato processato un cittadino italiano a sua insaputa? Se quel cittadino italiano non fosse stato, per caso o per una sua volontaria sottrazione, mai raggiunto dall’autorità giudiziaria di quel Paese con la notifica delle indagini a suo carico e della decisione della magistratura di rinviarlo a giudizio? “Saremmo scesi in piazza tutti quanti contro questa barbarie”. Facciamo nostre le parole dell’avvocato Davide Steccanella, che in quanto difensore di Cesare Battisti ha una certa esperienza di processi con imputati “assenti”, e che definisce “ineccepibile e ovvia” la sentenza con cui la corte d’assise di Roma ha azzerato il rinvio a giudizio dei quattro 007 egiziani accusati del rapimento, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni. Ma un conto è per l’imputato, aver avuto la possibilità di scegliere, dopo esser stato informato, se presenziare o meno al processo. Era il caso appunto di Cesare Battisti, a lungo latitante e lontano dall’Italia. Altra è la situazione dei colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, che non hanno mai saputo in via ufficiale di essere stati indagati e poi rinviati a giudizio per reati gravissimi, il sequestro di persona, le lesioni personali aggravate e il concorso in omicidio. Quello di cui è stato vittima Giulio Regeni è una tragedia che non si può dimenticare, una ferita che ti si attacca alla pelle come un male incurabile. E va a merito dei genitori e della sorella del giovane ricercatore il fatto di aver tenuto alto il ricordo con passione e dignità. Anche se il processo per ora però non si può celebrare. Per una sentenza “ineccepibile e ovvia”, che non viene però accettata dalla stampa italiana. Come se fosse normale il fatto che i quattro investigatori egiziani che, per quel che ne sa, appaiono colpevolissimi dei reati di cui sono accusati, non abbiano potuto (o voluto) avere notizia del processo ed esercitare il legittimo e imprescindibile diritto di difesa. Non è possibile che questo concetto-base delle regole del diritto che chiunque di noi rivendicherebbe per sé non sia capito dal nostro sistema di informazione. Pure, ecco un po’ di titoli di ieri. “Regeni processo azzerato”, il Corriere. “Regeni l’ultima offesa” la Stampa. “Processo farsa”, il Giornale. “Altro schiaffo, 007 egiziani accontentati”, il Fatto. “Regeni, decisione choc” la Repubblica, che accompagna la cronaca con un commento di Carlo Bonini, “Quando la democrazia garantisce i diritti di chi li calpesta”. Titolo assai veritiero. Perché risponde a verità il fatto che l’ex premier Giuseppe Conte, che lo ha testimoniato nei giorni scorsi, per ben quattro volte ha tentato invano di sensibilizzare il presidente egiziano Al Sisi. Così come è vero che non hanno avuto molto successo le 64 rogatorie. Tutto vero. Ma occorre ricordare ancora che il diritto è soprattutto forma, e guai se non fosse così? Se è vero, come leggiamo, che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe “trovato un varco interpretativo” per poter rinviare a giudizio persone non informate (in via formale, certo, ma è quel che conta) delle indagini a proprio carico, cascano veramente le braccia. E non si può proprio sentire il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco mentre dice “…sono convinto che oggi i quattro imputati sappiano che qui si sta celebrando la prima udienza”, pur conoscendo benissimo, tra l’altro, un’informativa dei carabinieri del Ros del 7 aprile 2020 che evidenziava come nei media egiziani i nomi dei quattro investigatori non fosse mai comparso. Magistrati coraggiosi? No, imprudenti, sia il pm che il gip. Volutamente ignoranti della norma e della giurisprudenza italiana e anche della Corte europea dei diritti umani. È lo stesso coraggio che si chiedeva alla corte d’assise, scrive Bonini su Repubblica. E no, caro collega. Il vero coraggio è quello di applicare il diritto. Quello formale, sì. Che è l’unico titolato a rendere giustizia a tutti, agli imputati come alle vittime.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Caso Regeni, ex procuratore di Roma Pignatone: “Morto per torture durate una settimana”. Ilaria Minucci il 21/09/2021 su Notizie.it. L’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, si è espresso sul caso Regeni, spiegato che il giovane ricercatore è morto per torture durate una settimana. L’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha riferito che la morte di Giulio Regeni è avvenuta in seguito alle torture subite dal giovane che si sono protratte per circa una settimana. In occasione dell’audizione che si è svolta in presenza della commissione incaricata di occuparsi della morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore brutalmente assassinato in Egitto, l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha riferito che la morte del ragazzo è insorta per le torture che gli sono state inflitte nell’arco di una settimana di prigionia. A questo proposito, infatti, l’ex procuratore Pignatone ha dichiarato: “Il primo blocco di dati oggettivi che hanno aiutato ad esempio a smontare e smentire la cosiddetta ipotesi del pulmino si è avuta con l’autopsia perché, come la commissione sa, quella fatta dalle autorità egiziane era di conclusioni abbastanza generiche. L’autopsia, nonostante fossero state asportate alcune parti del cadavere, fatta da uno specialista vero incaricato dalla procura di Roma con le risorse della tecnologia, ha descritto un quadro della morte di Giulio Regeni frutto di torture prolungate per una settimana, che erano incompatibili con la tesi della banda dei rapinatori o truffatori. Quello è il primo elemento oggettivo”. Giuseppe Pignatone, poi, ha aggiunto quanto segue: “Un’altra cosa importante è stato il ruolo della famiglia a del mondo delle organizzazioni e associazioni che hanno sostenuto e sono state accanto alla famiglia perché non c’è dubbio che ha esercitato sia sul governo italiano, ma per l’Italia che è un paese democratico cioè rientra nelle regole costituzionali, sia a livello di opinione pubblica mondiale, una pressione significativa che in certi momenti è stata decisiva per alcuni passaggi. Almeno questa è stata la nostra sensazione da Roma”. L’ex procuratore di Roma ha anche commentato i rapporti tra le autorità egiziane e quelle italiane in relazione al caso Regeni, asserendo: “La collaborazione tra l’autorità egiziana e quella italiana a livello giudiziario ha avuto, secondo me, un andamento altalenante. Io credo che sia giusto riconoscere che una collaborazione fattiva c’è stata, non nel senso che è stato dato tutto quello che si poteva dare o che è stato chiesto. Risulta agli atti che le rogatorie sono state evase solo in parte o con grandissimo ritardo. Ad esempio, prima di avere i tabulati telefonici e il traffico delle celle in alcune zone ci sono state decine di mail, telefonate”. Infine, Giuseppe Pignatone ha osservato: “Mai saremmo potuti arrivare al punto in cui si è arrivati se l’Egitto non avesse trasmesso alcune carte. Alcune di queste erano state chieste da noi, altre date di iniziativa perché noi non potevamo sapere che c’era ad esempio il video della conversazione tra il capo del sindacato e Giulio Regeni”.

Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 26 maggio 2021. Ci sarà un processo per il sequestro e l' omicidio di Giulio Regeni, scomparso al Cairo la sera del 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere il successivo 3 febbraio, con i segni delle torture addosso. Un processo contro quattro militari della National security e della polizia cairota, che non compariranno davanti alla Corte d' assise convocata per il prossimo 14 ottobre ma saranno comunque giudicati. Un risultato per nulla scontato, che la Procura di Roma ha raggiunto al termine di un' indagine durata cinque anni in cui «l' impossibile è divenuto possibile», come ha detto il pubblico ministero Sergio Colaiocco davanti al giudice dell' udienza preliminare. Ad ascoltarlo c' erano i genitori di Regeni, e la loro soddisfazione è affidata alle parole dell' avvocata Alessandra Ballerini, sempre al loro fianco nella lunga battaglia: «Paola e Claudio dicono spesso che su Giulio sono stati violati tutti i diritti umani. Da oggi abbiamo la fondata speranza che almeno il diritto alla verità non verrà violato. Ci abbiamo messo 64 mesi, ma quello di oggi è un buon traguardo e un buon punto di partenza». Nel primo verdetto di questa complessa e inedita vicenda giudiziaria, il giudice Pier Luigi Balestrieri definisce «consistente e strutturato» l' insieme di indizi messi insieme dalla Procura con i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco, da cui emerge «un oggettivo "collegamento" tra la morte del ricercatore italiano e gli apparati di sicurezza egiziani, nonché gli odierni imputati»: generale Tariq Sabir, colonnello Athar Kamel, colonnello Usham Helmi, maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Nei loro confronti è stato costruito un «compendio investigativo» fatto di testimonianze, documenti e altre evidenze che devono essere verificate in un dibattimento. Dove continuerà la corsa a ostacoli. Il fatto stesso che davanti al gup comparissero quattro nomi anziché quattro persone, è stato argomento per sollevare questioni di nullità e improcedibilità da parte dei difensori d' ufficio degli imputati-fantasma egiziani; quattro avvocati italiani chiamati a rappresentare e garantire i diritti degli accusati. Tuttavia il giudice ha respinto ogni eccezione. Che i quattro militari siano identificati con certezza l' hanno stabilito gli stessi egiziani, che ne hanno comunicato le generalità insieme agli interrogatori; che la competenza sia della magistratura italiana (e di quella di Roma) è scritto nei codici e nelle convenzioni sottoscritte sia dall' Italia che dall' Egitto; che gli imputati siano a conoscenza del procedimento, al quale si sono «volontariamente sottratti», è una «assoluta certezza» derivante dalla «capillare e straordinaria copertura mediatica» degli eventi. Per questi motivi il rinvio a giudizio è legittimo sul piano formale, ma anche su quello sostanziale. Nelle undici pagine del decreto che ordina il processo si sostiene che il sequestro di cui sono accusati i quattro militari era finalizzato proprio alla torture a cui Regeni è stato sottoposto fino alla morte. Di lesioni e omicidio risponde il solo maggiore Sharif, ma il disegno è unico: «Intimidire e esercitare pressioni sulla vittima», per ottenere le informazioni che gli egiziani le volevano estorcere. Su Giulio s' erano addensati sospetti (dimostratisi del tutto infondati) dopo la denuncia del sindacalista Mohamed Abdallah. In seguito Regeni «venne attenzionato dagli apparati di sicurezza egiziani quanto meno dal dicembre 2015», accusa il gup, che poi dà conto delle dichiarazioni degli «informatori» indicati con i nomi in codice Delta, Epsilon, Eta e Teta, i quali l' hanno visto in una stazione di polizia e nella sede della National security «ammanettato, con gli occhi bendati e sfinito dalla tortura». La «nuova sfida», evocata dallo stesso pm Colaiocco, sarà trasformare quegli «informatori» in testimoni, facendoli venire in aula per deporre ed essere interrogati anche dai difensori degli imputati. Obiettivo arduo, visto che da tempo con l' Egitto è ormai saltata ogni forma di collaborazione giudiziaria su questa vicenda. Sono arrivati, piuttosto, «diversi tentativi di depistaggio» che per il gup rappresentano un ulteriore indizio a carico degli imputati. Proprio in vista delle ulteriori difficoltà che si dovranno affrontare al processo, il presidente della commissione parlamentare d' inchiesta sul caso Regeni, Erasmo Palazzotto, chiede al governo italiano «un impegno concreto per ottenere dall' Egitto rispetto, verità e giustizia», mentre per il presidente della Camera Roberto Fico «ora inizia una nuova fase, un processo da cui potranno scaturire altri tasselli di verità».

Giulio Regeni, a processo il generale Tariq e gli altri 007 egiziani. Andrea Ossino su La Repubblica il 25 maggio 2021. Secondo il Gip, gli imputati avrebbero "osservato e controllato, direttamente e indirettamente, dall'autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016" lo studente italiano. E lo avrebbero torturato e ucciso "per motivi abietti e futili e abusando dei loro poteri, con crudeltà". Un altro passo verso la verità sulla morte di Giulio Regeni. Anni di depistaggi, fantasiose ricostruzioni e intoppi dovuti a impedimenti legittimi non hanno ostacolato la ricostruzione dei fatti che il sostituto procuratore di Roma Sergio Colaiocco ha presentato oggi al giudice per le udienze preliminari Pierluigi Balestrieri. E il magistrato ne ha sposato l’impianto accusatorio rinviando a giudizio il generale egiziano Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e  Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. I quattro, appartenenti ai servizi segreti egiziani, sono accusati del sequestro, delle sevizie e dell'omicidio del ricercatore italiano, il cui corpo martoriato è stato ritrovato il 3 febbraio del 2016 ai bordi della Alexandria desert road, al Cairo. La carente collaborazione degli inquirenti del Cairo non è bastata a fermare il procedimento nato anche grazie alla denuncia del sindacalista Mohamed Abdallah. Secondo le accuse i quattro indagati, insieme ad altre persone mai identificate, hanno “osservato e controllato, direttamente e indirettamente, dall’autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016, Giulio Regeni”, si legge negli atti. Il ricercatore italiano è stato bloccato “all’interno della metropolitana de Il Cairo”, è stato “condotto contro la sua volontà e al di fuori da ogni attività istituzionale, dapprima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Logaugly”, hanno ricostruito gli inquirenti italiani. Così Magdi Ibrahim Abdelal Sharif “per motivi abietti e futili e abusando dei loro poteri, con crudeltà, cagionava a Giulio Regeni lesioni che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni nonchè comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanzia più giorni”. Una violenza che adesso è costata l’accusa di lesioni, visto che il reato di tortura è stato emanato solo successivamente. Sharif è accusato anche di omicidio: “Mediante una violenta azione contusiva, esercitata su vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava lesioni imponenti di natura traumatica a Giulio Regeni da cui conseguiva un’insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava alla morte”. Poi le mistificazioni, i depistaggi per cercare di camuffare un delitto atroce, le ricostruzioni “sospette”. E adesso il rinvio a giudizio. I quattro 007 accusati della morte di Giulio Regeni verranno processati.  “Paola e Claudio dicono spesso che su Giulio sono stati violati tutti i diritti umani. Da oggi abbiamo la fondata speranza che almeno il diritto alla verità non verrà violato. Ci abbiamo messo 64 mesi ma oggi è un buon traguardo e un buon punto di partenza”, commenta l’avvocato di parte civile, Alessandra Ballerini.

Il processo al via il 29 aprile. Caso Regeni, i nuovi testimoni sulle torture e i depistaggi: “Così agirono i 007 egiziani”. Antonio Lamorte su Il Riformista il  14 Aprile 2021. Ci sono tre nuovi testimoni e nuovi elementi nel caso di Giulio Regeni, il ricercatore friulano scomparso, rapito, torturato e ucciso in Egitto nel gennaio del 2016. I tre accusano i quattro agenti imputati e protagonisti dell’udienza presso il gup di Roma del 29 aprile prossimo. Quattro agenti della National Security de Il Cairo che avrebbero pianificato i depistaggi delle indagini sulla scomparsa del ricercatore di 28 anni. È quanto emerge dai verbali degli interrogatori depositati alla Procura di Roma. Il giudice dovrà decidere se rinviare a giudizio i quattro agenti. I quattro sono accusati, a seconda delle posizioni, di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Secondo uno di questi testimoni, anonimo per motivi di sicurezza, vicino al sindacalista Mohamed Abdallah che denunciò Regeni alle forze di sicurezza locali i depistaggi furono pianificati nell’immediatezza dell’omicidio. La madre del ricercatore ha raccontato di aver riconosciuto il figlio dal naso. Il cadavere, straziato dalle torture, fu trovato lungo la strada che dal Cairo porta ad Alessandria d’Egitto il 3 febbraio del 2016. Il testimone vicino al sindacalista – Regeni stava studiando il sistema dei sindacati di venditori ambulanti per la sua tesi di dottorato per l’Università di Cambridge – ha riferito che la National Security avrebbe quindi fin dal giorno della morte cercato la maniera di addossare la responsabilità dell’omicidio a una banda di rapinatori specializzati in sequestri. Si fece in modo di far trovare nella disponibilità di questi, ritrovati morti dopo un conflitto a fuoco, i documenti del ricercatore. La pista, da Roma, non ha mai convinto ed è stata subito sbugiardata. Non il primo né l’ultimo depistaggio. La nuova voce conferma quella messinscena. “Il 2 febbraio – ha raccontato il teste – ero con Abdallah e ho notato che era spaventato. Mi ha spiegato che Regeni era morto e che quella mattina era nell’ufficio in compagnia di un ufficiale di polizia che lui chiamava Ushame questi in sua presenza aveva ricevuto una telefonata da un collega del commissariato di Dokki“. Nel corso della telefonata i due avrebbero parlato di come indirizzare le indagini verso il gruppo di rapinatori. Cinque rapinatori. Il teste avrebbe deciso di parlare perché soltanto recentemente ha saputo del procedimento contro i presunti responsabili del delitto e “per solidarietà a sua madre e per seguire la mia coscienza, a difesa di tanti innocenti incarcerati illegalmente in Egitto”. Nelle ultime settimane dieci persone si sono fatte avanti affermando di avere notizie sul caso Regeni. Tre sole sono state ritenute attendibili. Fonti informate a livello giudiziario hanno riferito all’Ansa di dati probatori che “apportano nuovi elementi conoscitivi su fatti già acquisiti”. Gli imputati sono il generale Tariq Ali Sabir, i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Secondo i testi il torturatore fu il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, per il quale il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco ipotizzano il concorso in lesioni personali aggravate e in omicidio aggravato. Il rinvio a giudizio è stato possibile lo scorso gennaio grazie alle prove raccolte dagli uomini del Ros e dello Sco. Regeni sarebbe stato osservato e monitorato costantemente a partire dall’autunno del 2015, dalla segnalazione di Abdallah in poi. È stato bloccato all’interno della metropolitana de Il Cairo. Prima è stato condotto presso il commissariato di Dokki e poi in un edificio a Logaugly.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 15 aprile 2021. Il sindacalista Mohamed Abdallah, l'uomo che denunciò Giulio Regeni ai funzionari della Sicurezza nazionale egiziana, seppe già il 25 gennaio 2016, giorno del suo rapimento, che il ricercatore italiano «si trovava in un ufficio della State security». E alla vigilia del ritrovamento del cadavere, il 2 febbraio, seppe della morte di Regeni: «Io ero con lui, e ho notato che era palesemente spaventato. So che durante la giornata del 2 febbraio 2016 Abdallah era nell'ufficio della State security a Nasr City, in compagnia di un ufficiale di polizia e questi, in sua presenza, ha ricevuto una telefonata da un suo collega del commissariato di Dokki, dove era detenuto Regeni che, a seguito di tortura, è deceduto». Sono le parole di un nuovo testimone d'accusa ascoltato dalla Procura di Roma il 7 aprile scorso, il quale ha aggiunto un particolare che tocca da vicino il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi: «Anche il figlio di Al Sisi, Mahmoud Al Sisi, un ufficiale dei servizi segreti, seguiva personalmente il caso di Regeni. Dopo tali eventi, per evitare connessioni con la morte del giovane, è stato trasferito in Russia come addetto militare all'ambasciata egiziana a Mosca». E a specifica domanda ha risposto: «È una notizia che ho appreso da Al Jazeera», la rete televisiva araba che trasmette dal Qatar. Il verbale con le nuove dichiarazioni è stato depositato dal pubblico ministero di Roma Sergio Colaiocco al giudice dell'udienza preliminare che il prossimo 29 aprile dovrà decidere se rinviare a giudizio i quattro imputati accusati del sequestro di Giulio (uno pure dell' omicidio); tre di loro appartengono alla National security, uno alla polizia giudiziaria. Agli atti ci sono anche le dichiarazioni registrate di altri due testimoni. Il cittadino egiziano ascoltato dai carabinieri del Ros e dal pm Colaiocco s'è presentato spontaneamente presso una sede diplomatica italiana, spiegando così il ritardo nel racconto dei fatti: «Inizialmente era per me difficile sapendo della sorveglianza degli apparati egiziani, ma siccome adesso so che ci sarà un procedimento penale in Italia contro gli autori dell'uccisione del giovane italiano, per solidarietà alla madre e per seguire la mia coscienza a difesa di tanti innocenti incarcerati illegalmente in Egitto li sto riferendo ora». Del processo italiano dice di avere saputo dai mass media egiziani e internazionali diffusi nel suo Paese; da lì ha deciso di svelare i suoi rapporti con Mohamed Abdallah, che definisce «un infiltrato della sicurezza egiziana nel sindacato dei venditori ambulanti. Gli apparati chiudevano un occhio su alcune situazioni illegali commesse da tali ambulanti (consumo di stupefacenti) per poi approfittare di loro nelle manifestazioni, aizzandoli contro manifestanti contrari al governo». Abdallah gli raccontò in tempo reale i suoi contatti con Regeni: da quando si conobbero, nell'autunno 2015, «perché inviato a lui da una professoressa di Scienze economiche e politiche dell'università del Cairo, di cui mi riservo di fornire il nome che al momento non ho al seguito», al giorno del sequestro, fino alle notizie ricevute il 2 febbraio 2016: «L'ufficiale a cui faceva riferimento Abdallah e che ha sentito parlare al telefono di Regeni con un altro collega è tale Hisham Helmy, ed è lo stesso che dava istruzioni su come evitare il loro coinvolgimento. Il contenuto della telefonata riguardava le modalità di depistaggio sulla morte di Regeni: l'ufficiale in questione diceva che bisognava deformare il corpo fornendo il sospetto che fosse stato rapinato, e quindi accusare qualche pregiudicato del delitto, facendo ritrovare alcuni effetti personali del giovane italiano in loro possesso». È esattamente ciò che è avvenuto a marzo 2016: i documenti di Giulio spuntati durante una perquisizione a casa del capo di una banda di rapinatori uccisi in un presunto conflitto a fuoco con la polizia, accusati della morte di Giulio. Una pista smontata quasi subito dalla Procura di Roma, a cui le autorità egiziane continuano a dare credito nelle loro dichiarazioni ufficiali. «So che le persone inizialmente accusate del delitto erano già detenute nelle carceri egiziane - ha aggiunto il testimone -. Tale circostanza mi è stata riferita la sera del 2 febbraio sempre dall'Abdallah, e faceva parte della fase di occultamento delle prove prospettato dall' ufficiale nel colloquio telefonico con il suo collega di Dokki». Il colonnello Hisham Helmy, 52 anni, già in forza alla National security e ora in servizio preso la Direzione passaporti e immigrazione, è uno dei quattro imputati del sequestro Regeni davanti alla giustizia italiana. «Il nome - ha dichiarato il testimone - non me l'ha mai fornito Abdallah in quanto durante le telefonare a cui ho assistito questi lo chiamava Hisham. Guardando alcuni media stranieri ho poi scoperto che uno degli ufficiali convolti nel caso si chiama Hisham Helmy, e ho intuito che si trattasse della stessa persona».

"Così gli 007 egiziani uccisero Giulio. E decisero di depistare le indagini". Giuliano Foschini su La Repubblica il 14 aprile 2021. Un nuovo testimone accusa la National Security, il servizio segreto egiziano. La testimonianza è stata depositata dalla procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel febbraio 2016. Il processo al via il 29 aprile. “Il 2 febbraio 2016 Abdallah mi ha spiegato che Giulio Regeni era morto. E che sarebbe stata inscenato un depistaggio” per allontanare i sospetti sulla National security. Quando mancano 15 giorni all’udienza preliminare, emergono nuove prove a carico dei quattro 007 indagati dalla procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel febbraio 2016. Agli atti c'è infatti la dichiarazione di un nuovo testimone, amico di Mohammed Abdallah, l'ambulante che tradì Giulio Regeni, che aggiunge nuovi elementi alle accuse raccolta delle procura di Roma a carico dei quattro ufficiali egiziani sotto accusa. "Il 25 gennaio- racconta l'uomo - ho saputo da Abdallah della scomparsa del giovane Regeni. Mi disse che era a conoscenza del fatto che l'italiano si trovasse in un uffico della National Security". "Il 2 febbraio - aggiunge - ero con Abdallah e ho notato che era spaventato. Mi ha spiegato che Regeni era mortoe che quella mattina era nell'ufficio in compagnia di un ufficiale di polizia che lui chiamava Ushame questi in sua presenza aveva ricevuto una telefonata da un collega del commisariato di Dokki". "Nel corso della telefonata i due ufficiali - si legge ancora - avevano parlato di come indirizzare la responsabilità della morte del ragazzo verso una rapina. L'ufficiale avanti a lui diceva che bisognava deformare il corpo fornendo il sospetto che fosse stato rapinato e quindi accusare qualche pregiudicato del delitto, facendovi trovare alcuni effetti personali del giovane italiano". Esattamente quello che accadde qualche giorno dopo quando cinque innocenti furono accusati ingiustamente dell'omicidio. Per i fatti accaduti al Cairo, il prossimo 29 aprile rischieranno di finire a processo il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di sequestro di persona pluriaggravato, mentre solo nei confronti di Sharif il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco ipotizzano anche il concorso in lesioni personali aggravate e in omicidio aggravato. Le prove raccolte dagli uomini del Ros e dello Sco hanno permesso alla procura di richiedere il rinvio a giudizio lo scorso gennaio. E dopo la diffusione della notizia, una decina di persone hanno deciso di collaborare con gli inquirenti. Tra queste solo tre testimonianze sono ritenute attendibili perché avrebbero fornito nuovi elementi compatibili con fatti già noti. Una delle più rilevanti è quella di un amico di Said Mohamed Mohamed Abdallah, il capo del sindacato autonomo degli ambulanti del Cairo, i commercianti al centro della tesi di dottorato che Regeni stava elaborando per l’università di Cambridge. È stato lui a denunciare lo studente italiano. Il suo rapporto con la National Security sarebbe stato costante. Secondo le accuse i quattro indagati, insieme ad altre persone mai identificate, dopo la denuncia di Mohamed Abdallah avrebbero “osservato e controllato, direttamente e indirettamente, dall’autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016, Giulio Regeni”, si legge negli atti. E ancora: “lo bloccavano all’interno della metropolitana de Il Cairo e, dopo averlo condotto contro la sua volontà e al di fuori da ogni attività istituzionale, dapprima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Logaugly”. Magdi Ibrahim Abdelal Sharif “per motivi abietti e futili e abusando dei loro poteri, con crudeltà, cagionava a Giulio Regeni lesioni che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni nonchè comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanzia più giorni”. Da qui l’accusa di lesioni, visto che il reato di tortura è stato emanato solo successivamente. Sharif è accusato anche di omicidio: “mediante una violenta azione contusiva, esercitata su vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava lesioni imponenti di natura traumatica a Giulio Regeni da cui conseguiva un’insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava alla morte”, al decesso che invano gli indagati avrebbero cercato di camuffare.

Da ilmessaggero.it il 14 aprile 2021. Si aggiungono tre nuove testimonianze nell'inchiesta sull'omicidio Regeni. Tre persone accusano quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani di essere gli autori del sequestro, delle torture dell'omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano trovato privo di vita in Egitto nel febbraio del 2016. È quanto emerge dai nuovi atti depositati dalla Procura di Roma in vista dell'udienza preliminare, fissata per il 29 aprile, a carico del generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif in cui si dovrà vagliare la richiesta di processo. Gli 007 egiziani sapevano della morte di Regeni già il 2 febbraio del 2016, il giorno prima del ritrovamento «ufficiale» del corpo, e per deviare l'attenzione da loro «inscenarono una rapina finita male». È quanto emerge da una testimonianza, ritenuta attendibile dai magistrati italiani, e depositata in vista dell'udienza gup di Roma del 29 aprile prossimo e che vede imputati quattro agenti della National Securety del Cairo. In tutto sono diventati otto i testimoni che accusano in modo chiaro e credibile i quattro appartenenti ai servizi segreti del Cairo di essere gli autori del sequestro, delle sevizie e della morte del ricercatore italiano. Dai tre nuovi testimoni però arriva un dato importante: i servizi segreti cairoti avevano pianificato i depistaggi già nelle ore successive alla morte di Giulio, di cui erano a conoscenza già il 2 febbraio del 2016, 24 ore prima del ritrovamento «ufficiale» del corpo, stabilendo di inscenare una rapina finita nel sangue. I verbali delle nuove testimonianze sono state depositate oggi dalla Procura di Roma in vista dell'udienza preliminare, fissata per il 29 aprile, del procedimento a carico di del generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif in cui si dovrà vagliare la richiesta di processo. Nei confronti degli 007, il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, contestano reati, a seconda delle posizioni, di sequestro di persona pluriaggravato al concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Dopo la chiusura delle indagini, nel dicembre scorso, almeno dieci persone si sono fatte avanti con gli inquirenti affermando di avere notizie sul caso Regeni, di queste solo tre sono state ritenute attendibili. I «dati probatori apportano nuovi elementi conoscitivi su fatti già acquisiti», spiegano fonti giudiziarie. Uno dei nuovi testimoni ha raccontato a Ros e Sco che gli 007 sapevano della morte di Giulio già il 2 febbraio del 2016 e per deviare l'attenzione da loro erano pronti ad «inscenare una rapina finita male». Il testimone ha raccontato agli inquirenti italiani di essere diventato amico di Mohammed Abdallah, il capo del sindacato indipendente degli ambulanti del Cairo, che ha denunciato il ricercatore italiano ai servizi egiziani. L'uomo ha spiegato che il 2 febbraio di cinque anni fa era con Abdallah: «ho notato che era palesemente spaventato - ha raccontato agli investigatori italiani -. Lui mi ha spiegato che Giulio Regeni era morto e che quella mattina era nell'ufficio del commissariato di Dokki in compagnia di un ufficiale di polizia che lui chiamava Uhsam (uno dei quattro 007 imputato ndr) quando quest'ultimo aveva ricevuto la notizia della morte e che la soluzione per deviare l'attenzione da loro era quella di inscenare una rapina finita male». Le testimonianze raccolte potrebbero, quindi, risultare determinanti per la tenuta dell'impianto accusatorio. Già nell'atto di chiusura delle indagini venivano citati cinque testimoni che avevano fornito tasselli di «verità » su quanto avvenuto al Cairo. Secondo i testi il torturatore di Giulio fu il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Fu lui, insieme a soggetti rimasti ignoti, a portare avanti per almeno nove giorni le sevizie avvenute in una villetta in uso ai servizi segreti nella periferia della capitale egiziana. Torture «durate giorni che causarono a Regeni «acute sofferenze fisiche» messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni. Torture avvenute nella stanza 13 al primo piano di una villa utilizzata dai servizi segreti come scannatoio per i «sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale». «L'ho visto li dentro - ha raccontato il testimone - con ufficiali e agenti. C'erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava, era molto magro. Era sdraiato a terra con il viso riverso, ammanettato».

Morte Regeni, Mattarella: «Crimine non resti impunito, ora l’Egitto risponda». Il Dubbio il 25 gennaio 2021. L’intervento del Capo di Stato nel giorno del quinto anniversario del rapimento di Giulio Regeni. Fico: «I pm del Cairo offendono la nostra intelligenza». «Ci attendiamo piena e adeguata risposta da parte delle autorità egiziane, sollecitate a questo fine, senza sosta, dalla nostra diplomazia». Lo afferma il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel quinto anniversario del rapimento di Giulio Regeni. «L’azione della Procura della Repubblica di Roma, tra molte difficoltà, ha portato a conclusione indagini che hanno individuato un quadro di gravi responsabilità, che, presto, saranno sottoposte al vaglio di un processo, per le conseguenti sanzioni ai colpevoli», ricorda il Capo dello Stato che rinnova l’auspicio «di un impegno comune e convergente per giungere alla verità e assicurare alla giustizia chi si è macchiato di un crimine che ha giustamente sollecitato attenzione e solidarietà da parte dell’Unione Europea». «Si tratta – conclude – di un impegno responsabile, unanimemente atteso dai familiari, dalle istituzioni della Repubblica, dalla intera opinione pubblica europea». «Sono trascorsi cinque anni dal rapimento a Il Cairo di Giulio Regeni, poi torturato e barbaramente ucciso dai suoi spietati aguzzini. Un giovane italiano, impegnato nel completare il percorso di studi, ha visto crudelmente strappati i propri progetti di vita con una tale ferocia da infliggere una ferita assai profonda nell’animo di tutti gli italiani», aggiunge il Presidente della Repubblica in una nota. «In questo giorno di memoria desidero anzitutto rinnovare sentimenti di vicinanza e solidarietà ai genitori di Giulio Regeni, che nel dolore più straziante sono stati capaci in questi anni di riversare ogni energia per ottenere la verità, per chiedere che vengano ricostruite le responsabilità e affermare così quel principio di giustizia che costituisce principio fondamentale di ogni convivenza umana e diritto inalienabile di ogni persona», conclude il Capo dello Stato. «Le risposte più recenti della Procura generale del Cairo rasentano la provocazione e offendono la nostra intelligenza», afferma in un’intervista a Repubblica il presidente della Camera, Roberto Fico. «Non possiamo più permetterci ambiguità nei rapporti con l’Egitto», sottolinea Fico. Commentando il fatto che la magistratura italiana giudicherà le responsabilità di quattro ufficiali dei servizi segreti del Cairo sulla morte di Regeni, il presidente della Camera evidenzia: «È una tappa importante, merito del lavoro serio e incessante dei nostri magistrati» che «in questi anni non si sono arresi mai e anche di fronte alla mancanza di collaborazione degli inquirenti egiziani hanno continuato a lavorare, a mettere insieme i pezzi. Di certo non finisce qui. Vogliamo verità e giustizia. Fino in fondo». «La rottura dei rapporti diplomatici fra la Camera dei deputati e il Parlamento egiziano è stato un gesto forte, condiviso da tutti i gruppi parlamentari. Non esistono le condizioni affinché i rapporti fra i nostri Parlamenti tornino alla normalità», spiega Fico sottolineando che modificare i rapporti di forza Italia-Egitto sul caso Regeni «è una strada necessaria. Nei mesi scorsi – prosegue – ho lavorato molto per coinvolgere altri Parlamenti. Nei colloqui con i miei omologhi ho spesso affrontato la questione, perchè sono convinto che debba essere considerata a livello europeo». L’Europa, osserva, «deve iniziare a ragionare e agire come una vera comunità, solidale anche su vicende come questa». La vendita da parte dell’Italia di armi all’Egitto, osserva Fico, «è stata un’immagine che non avremmo voluto vedere. Rispetto alla violazione della legge che definisce i criteri per la vendita di armamenti sarà la magistratura a valutare. Personalmente comunque sarei per una revisione della legge, inserendo paletti più rigidi». Oggi il Consiglio Affari Esteri dell’Unione Europea avrà oggi una discussione sull’omicidio del ricercatore italiano. Lo ha annunciato n entrata ai lavori l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell. Il primo tema dell’agenda è la Russia e «i preoccupanti eventi» perché «questa ondata di detenzioni è qualcosa che ci preoccupa molto così come la detenzione dell’oppositore russo Aleksej Navalnyj», ha detto. «Secondo, le relazioni con la Turchia» e la «cooperazione con la nuova amministrazione Usa». Terzo argomento sarà la diffusione del Covid nei Paesi terzi, soprattutto in Africa e nei Balcani, e «parleremo anche di Giulio Regeni, lo studente italiano ucciso al Cairo». Nella riunione si parlerà anche della situazione della pandemia in Asia e delle relazioni con il Regno Unito, «Paese terzo».

Nessuno isola o punisce il rais, la cruda verità sul caso Regeni. Ragion di Stato: Italia e Europa continuano ancora a vendere le armi all’Egitto. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 26 gennaio 2021. La verità su Giulio Regeni è nuda e cruda: è stato assassinato dalla polizia egiziana e l’Italia come il resto d’Europa continua a vendere miliardi di armi al dittatore Al Sisi. Nessuno isola o punisce il raìs, anzi. È inutile giraci intorno. Dieci anni fa da Tunisi, dopo la caduta di Ben Alì, andavo al Cairo per le manifestazioni anti-Mubarak, poi, crollato il raìs egiziano, in auto mi diressi a Bengasi e infine volai in Siria. Le chiamavano primavere arabe. Passato un decennio sono tornate le dittature e l’attuale raìs egiziano rifiuta di perseguire gli assassini di Regeni, nonostante le documentate indagini della procura di Roma e l’appello del presidente Mattarella. Come ha dimostrato la procura il sequestro di Regeni il 25 gennaio 2016 da parte della polizia e dei servizi egiziani è stato un inferno che è andato mostruosamente oltre il rapimento, la tortura e la barbara uccisione di Giulio, perché prolungato da omissioni, depistaggi e colpevoli menzogne. Le autorità del Cairo non solo hanno rifiutato di collaborare ma hanno creato ad arte false prove tentando di prendere in giro la diplomazia e la magistratura italiana. Lo stesso presidente della repubblica Sergio Mattarella ieri ha detto: “L’azione della procura della repubblica di Roma, tra molte difficoltà, ha portato a conclusione indagini che hanno individuato un quadro di gravi responsabilità, che, presto, saranno sottoposte al vaglio di un processo, per le conseguenti sanzioni ai colpevoli. Ci attendiamo piena e adeguata risposta da parte delle autorità egiziane, sollecitate a questo fine, senza sosta, dalla nostra diplomazia”. Peccato che il processo si svolgerà senza gli imputati e nessuno verrà davvero punito. Anche le autorità europee sono finalmente sono consapevoli di quanto è accaduto a Regeni. L’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell al consiglio dei ministri degli Esteri, ha ringraziato Luigi Di Maio per aver chiesto di discutere del caso di Giulio Regeni alla Ue, “poiché è una questione grave non solo per l’Italia ma per tutta l’Unione”. Parlando del “brutale” assassinio, Borrell ha evidenziato come da allora si sia chiesto all’Egitto di far luce sul caso e di cooperare. “Siamo solidali con l’Italia e la famiglia Regeni nella richiesta di far piena luce”, ha detto Borrell. Ebbene dopo avere scritto nei comunicati con la maiuscola le parole Verità e Giustizia ci si aspetterebbe un comportamento conseguente sia da parte delle autorità italiane e europee. E invece no. Ecco come stanno le cose. Italia, Francia e Germania continuano a vendere armi sofisticate al Cairo e a sostenere di fatto la dittatura di Al Sisi. L’Italia non mai ha messo fine alle relazioni con Al Sisi. Non lo ha fatto dopo il suo primo massacro (nell’agosto 2013 mille sostenitori dei Fratelli musulmani uccisi dalla polizia a piazza Rabaa del regime), né dopo il ritrovamento del corpo torturato di Regeni, il 3 febbraio 2016. Il business civile si è mantenuto stabile, quello militare è cresciuto vertiginosamente. Dai 7,1 milioni di dollari in armi italiane nel 2016 agli 871,7 del 2019. I dati per il 2020 non sono ancora disponibili ma si preannuncia un nuovo record con la vendita di due fregate Fremm di Fincantieri da 1,2 miliardi: la prima è arrivata al Cairo il 31 dicembre, la seconda dovrebbe attraccare entro l’anno, e un pacchetto tra i 9 e gli 11 miliardi totali per 20 pattugliatori Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon, 20 aerei addestratori M346 Leonardo e satelliti da osservazione. Con Al Sisi abbiamo in corso affari in campo militare per una oltre una dozzina di miliardi. Non male per un Paese che con l’Egitto sembrava sull’orlo della rottura insanabile delle relazioni diplomatiche. Ma veniamo alla Francia, un Paese che ama impartire lezioni agli altri. Il presidente Macron ha appuntato la Legione d’Onore sul petto del generale Al Sisi e ha dichiarato che “la vendita di armi non può essere condizionata dai diritti umani”. Così l’11 gennaio si è svolta in pompa magna la cerimonia di consegna della prima corvetta prodotta in Egitto in collaborazione con la francese Naval Group. A questa ne seguiranno altre tre per un valore di un miliardo di euro. A bordo le navi sono equipaggiate con missili e sistemi di difesa aerea, ma si pagano a parte: 400 milioni di euro di missili della Mbda (joint venture di Eads, Finmeccanica e Bae Systems) e altri 100-200 milioni in siluri per Naval Group. Un bel giro d’affari dove gli italiani hanno pure qui una fetta di torta. La Germania della cancelliera Merkel, sempre citata come il pilastro dell’Unione, non è da meno. Nel 2020 la Germania ha autorizzato la vendita di armi al Cairo per un valore di 725 milioni di euro. Spiccano quattro sottomarini militari già consegnati. Ma c’è di più. Molto di più. L’Egitto ha firmato con la tedesca Siemens un accordo per una rete ferroviaria ad alta velocità. Il primo treno è previsto in consegna ad agosto, poi ne arriveranno altri 22. Il costo è stellare per un Paese povero come l’Egitto: 23 miliardi di dollari destinati a servire un’élite mentre 60 milioni di egiziani vivono sotto o di poco sopra la soglia di povertà e i malati di Covid muoiono uno dietro l’altro per mancanza di ossigeno. La democrazia italiana e europea è asservita a una sistema perverso e ipocrita che rende inutili tutti i sacrifici e svilisce i suoi presunti valori. Non avremo mai nessuna primavera, né araba né europea. Ma continueremo a scrivere le parole verità e giustizia con la maiuscola. Europei e italiani hanno delle colpe: anche in mezzo alla pandemia e alla nostra crisi di governo continuano a vendere miliardi di armi e tecnologie a un dittatore. Oggi ne discute il consiglio esteri Ue che comunque non deciderà nulla. La democrazia qui è asservita a una sistema di interessi perverso e ipocrita che rende inutili tutti i sacrifici e svilisce i suoi presunti valori. Non avremo mai nessuna primavera.

Oggi l'udienza preliminare per 4 agenti del Cairo. Ancora fango sulla memoria di Regeni: documentario egiziano online prova a screditarlo. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Giulio Regeni “è sparito nell’ottobre del 2015 in Turchia”, ed è “entrato e uscito dall’Italia senza che le autorità lo sapessero”. Sono alcune delle accuse e dei depistaggi che un documentario caricato la notte scorsa su Youtube lancia nei confronti del ricercatore italiano torturato e ucciso al Cairo, in Egitto, nel febbraio del 2016. Il video si intitola “The story of Giulio Regeni” ed è formato da tre parti, per la durata complessiva di 50 minuti. Si presenta come “il primo documentario che ricostruisce i movimenti di Giulio Regeni al Cairo”, è in lingua araba con sottotitoli in italiano ma gli autori sono ignoti, così come ignota è l’origine di una pagina Facebook omonima spuntata nella notte. Anche il tempismo con cui è stato rilasciato il documentario è sospetto: a breve si terrà l’udienza preliminare del procedimento, davanti al gup di Roma, che vede imputati quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani: Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Regeni. Nell’atto di chiusura delle indagini i pm parlano di sevizie durate giorni messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni. Il tutto avveniva nella stanza 13 di una villetta al Cairo nella disponibilità degli 007 nordafricani.

La ricostruzione del video riporta diversi errori, il nome stesso di Giulio viene storpiato più volte. Il filmato è intervallato da una serie di interviste, rilasciate anche da Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta e l’ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico. I fatti, molti dei quali già noti, vengono distorti e orientati per gettare discredito sul ricercatore italiano. Gli intervistati hanno preso le distanze dal documentario, affermando che le loro parole sono state interpretate e manipolate. Passaggio chiave è quello in cui un avvocato egiziano parla di una presunta “lettera che l’Interpol italiano inviò a quello egiziano il primo febbraio 2016“, ossia due giorni prima del ritrovamento al Cairo del corpo martoriato del ricercatore friulano, per dire che “Regeni era scomparso nell’ottobre 2015 in Turchia”. “Ciò significa – si dice nel video – che Regeni è entrato in Italia ed è uscito senza che le autorità italiane lo sapessero”, sostiene il legale Wesam Ismail parlando di “una realtà molto strana” che la Procura di Roma avrebbe “trascurato”. Raggiunta da Open, Elisabetta Trenta ha dichiarato di essere stata ingannata “in quanto contattata da un presunto giornalista dell’emittente saudita Al Arabiya intenzionato a coinvolgerla in un documentario sulle relazioni tra Italia ed Egitto”. “Se avessi saputo – ha aggiunto l’ex ministra – che la mia intervista sarebbe finita in un documentario che considero vergognoso e inaccettabile, naturalmente non avrei mai dato il mio consenso”. Nel filmato Gasparri afferma che “non ci sono solo i misteri del Cairo e i misteri di Cambridge, ci sono anche i misteri della Procura di Roma, su cui si dovrebbe fare luce”.

Il senatore azzurro si è difeso: “Ho rilasciato un’intervista a un giornalista egiziano, di cui ho il filmato, in cui ho detto che bisogna indagare sull’Università di Cambridge dove ci sono docenti probabilmente vicini ai Fratelli musulmani. Anche i giudici della Procura di Roma com’è noto si sono recati in Inghilterra senza aver ottenuto alcuna risposta. Ma nessuna parola di discredito su Regeni”. Sulla stessa linea anche il generale Tricarico: “Non ho giustificato chi ha ucciso Giulio Regeni, ho detto che bisognava indagare di più su Cambridge per capire meglio quello che è avvenuto. Le mie parole, che sottoscrivo punto per punto, sono state rese funzionali alle tesi del filmato che io non condivido”.

Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. La telecamera segue un ragazzo con la barba e il trolley che esce dall'aeroporto del Cairo per infilarsi in un taxi. L'incipit è convenzionale, lo svolgimento meno: il preteso documentario «The story of Regeni» del giornalista Fulvio Grimaldi (nel suo curriculum anche articoli negazionisti del Covid 19) approda in Rete alla vigilia della decisione del giudice per le udienze preliminari di Roma sul rinvio a giudizio dei quattro militari dei Servizi segreti egiziani accusati del rapimento e delle torture di Giulio Regeni. E tenta di accreditare - utilizzando perfino testimonianze «eccellenti» fra le quali gli ex ministri Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta - l'ipotesi di un Regeni pedina dei Fratelli musulmani, agente straniero atterrato in Egitto con scopi eversivi. Né più né meno che la versione offerta dalle stesse autorità egiziane in questi lunghi cinque anni di indagini. Gli argomenti, qui e là, coincidono con quelli prospettati dal governo del Cairo, primo fra tutti quello secondo il quale il ricercatore friulano avrebbe percepito sovvenzioni opache per effettuare il suo lavoro in Egitto. Un argomento già affrontato e risolto da Ros e Sco coordinati dal pubblico ministero della Procura di Roma Sergio Colaiocco. Nulla di opaco. Dopo una analisi sui movimenti bancari di Regeni, gli investigatori hanno trovato che il ragazzo percepiva solo i finanziamenti delle borse di studio universitarie ottenute per la sua attività di ricercatore. E ancora, altro elemento mutuato dalle autorità egiziane, il fatto che gli investigatori del Cairo non abbiano avuto accesso - così si sostiene nel filmato di Grimaldi - al pc di Regeni, mentre dal 2016 gli investigatori italiani hanno messo a disposizione copia forense del pc in questione. Restano le domande, una fra tutte: come mai questo video proprio alla vigilia del processo a Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Usham Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, i funzionari dell'intelligence egiziana sotto accusa per la morte di Giulio Regeni? Vorrebbe una risposta il parlamentare Pd Filippo Sensi che, nell'immaginare «l'ennesima pena di Paola e Claudio Regeni alla vista di questo documentario, comparso dal nulla a screditare l'immagine di Giulio», si augura che sia fatta luce «sulla genesi del filmato attraverso un'inchiesta ad hoc». E di «depistaggi sistematici» parla la Procura di Roma negli atti depositati in vista dell'udienza preliminare prevista per stamani alle dieci: «Fin dall'inizio sono stati posti in essere da molteplici attori plurimi tentativi di sviamento dell'indagine finalizzati a distogliere l'attenzione degli investigatori dagli appartenenti agli apparati pubblici egiziani» è scritto. Perfino l'autopsia è stata rielaborata ad uso e consumo di una versione di comodo, scrivono i pm romani. La relazione del medico legale del Cairo tentò di accreditare l'idea di una morte per incidente stradale di Giulio, scaturita da ferite alla testa tipiche del caso. Fino alla messinscena attraverso la quale si è tentato di riversare la responsabilità della fine del ragazzo su una banda di criminali comuni, a casa dei quali sono stati fatti rinvenire documenti e oggetti del ricercatore. Ora, grazie alle indagini svolte con il supporto dell'avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, sappiamo che la verità è altrove.

Il mistero del video egiziano che scredita Giulio Regeni. Giuliano Foschini su La Repubblica il 29 aprile 2021. Il documentario, The Story of Regeni, ricostruisce il sequestro, la tortura e l’omicidio del giovane ricercatore italiano. Raccontando però una storia smentita dagli atti di cinque anni di indagini della procura di Roma dove oggi inizia il processo a carico degli agenti egiziani. C’è uno strano, e infamante, video che gira da qualche ora sulla rete. Un documentario – The Story of Regeni - che dura poco meno di un’ora, confezionato come un prodotto di buona qualità (immagini, ricostruzione con attori, luci), che ricostruisce il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Raccontando però una storia falsa, smentita dagli atti di cinque anni di indagini della magistratura italiana: allontana ogni responsabilità sui militari egiziani;  lancia ombre sull’attività del ricercatore italiano al Cairo, ombre ampiamente già categoricamente smentite dall’inchiesta italiana, con Regeni che viene raccontato come sostanzialmente un fiancheggiatore dei Fratelli Musulmani; accusa la procura di Roma; lancia un messaggio chiaro a tutto il Paese: il processo a carico dei cinque agenti della National security, che sta per cominciare in queste ora a Roma, potrebbe compromettere definitivamente i rapporti commerciali tra i due Paesi. In sostanza, il documentario è uno spot al governo di Al Sisi. Uno strumento, l’ennesimo, di depistaggio e di contronarrazione per cercare di depistare e alterare il flusso delle indagini. Il video non si sa da chi è stato realizzato e prodotto. E’ stato caricato da una mano anonima su un canale youtube e fatto circolare in una data non casuale: siamo alla vigilia, infatti, del processo di Roma, una data storica. Per la prima volta in un’aula di giustizia di un paese europeo si discuterà dei metodi dell’Egitto di Sisi. Di come sia possibile che un cittadino straniero venga torturato e ammazzato. Al documentario, in arabo sottotitolato in italiano, partecipano anche alcuni italiani. Un giornalista, Fulvio Grimaldi. L’ex consigliere militare del governo D’Alema, il generale Dino Tricarico. E due ex ministri, Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta. “Si fa fatica a pensare che siano delle coincidenze. Questo farebbe pensare a tutt’altro rispetto al rapimento di un ragazzo, alla sua tortura, soltanto perché stesse facendo un lavoro per l’università di Cambridge” dice Tricarico. “La procura di Roma non è un luogo molto apprezzato – dice il senatore Gasparri, invece - La procura di Roma è un luogo per il quale chiediamo un’indagine parlamentare. Perché la magistratura italiana, purtroppo, ha molte cose da chiarire: non ci sono solo i misteri del Cairo o di Cambridge, ci sono anche i misteri della procura di Roma”. Chi abbia prodotto il documentario è un mistero: non ci sono credits, niente titoli di coda. Nessuno sa, nemmeno, chi lo abbia caricato su Youtube. L’ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, è arrabbiatissima: “Sono stata vittima di un raggiro: mi ha contatto un giornalista che si è presentato come di Al Arabiya in Italia ed è venuto, con due operatori, in un’università. Si sono presentati con una mail”. “Egregia professoressa – si legge – la nostra troupe è a Roma per svolgere un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto. Dopo aver effettuato molte interviste a riguardo credo che la Sua sarebbe fondamentale nella finalizzazione del progetto”. “Chiesi espressamente – dice la Trenta oggi a Repubblica –  che non si parlasse di Regeni. Me lo assicurarono. Ed effettivamente nulla mi fu chiesto. Poi

Chi c'è dietro il “documentario” egiziano che denigra Giulio Regeni? Davide Ludovisi per wired.it il 30 aprile 2021. A Wired i sospetti sul documentario di propaganda e depistaggio su Giulio Regeni sono sorti già dal trailer, quando era apparso il 26 aprile su un account YouTube creato solo quattro giorni prima. Nella mattina del 30 aprile il canale e il video sono spariti (pur resistendo sui profili di diversi militanti politici egiziani).  Nonostante i vari elementi stridenti già citati (gli errori grammaticali, la mancanza di riferimenti a case di produzione, eccetera) una certa cura nelle scelte registiche suggeriva che The story of Regeni non fosse un prodotto amatoriale. Tuttavia, com’è logico, chiunque volesse raccontare davvero in un documentario una vicenda delicata e complessa come l’uccisione del ricercatore friulano non potrebbe farlo senza sentire i legali della sua famiglia. Contattata immediatamente da noi, l’avvocata Alessandra Ballerini è caduta dalle nuvole: non sapeva nulla del sedicente documentario. Le tempistiche di pubblicazione del video, peraltro, erano come minimo peculiari: il 29 aprile era prevista l’udienza preliminare per i quattro agenti segreti egiziani imputati nella tortura e omicidio del ricercatore italiano (rinviata poi al 25 maggio). Il sospetto che potesse trattarsi di un prodotto propagandistico volto a ridimensionare le reali responsabilità egiziane viene trasformato in certezza mercoledì 28 aprile, il giorno della pubblicazione dell’intero prodotto. 

Inizia la ricerca. Dalla pagina Facebook del documentario (anch’essa disattivata), contattata per chiedere spiegazioni, non è arrivata nessuna risposta alle nostre domande. Ma nel frattempo siamo riusciti a metterci in contatto telefonico con la persona che ha realizzato le interviste agli italiani coinvolti, tra i quali c’è il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Inizialmente tranquillo e cordiale, l’autore delle interviste ha iniziato ben presto ad assumere un comportamento più agitato, chiedendo di mantenere l’anonimato. “Mi hanno mandato le domande e io le ho fatte. Ho fatto il lavoro e rimandato il materiale”, si è affrettato a precisare a Wired in un buon italiano con accento arabo. Non è stato però lui a prendere contatto con gli intervistati italiani, bensì un certo Mahmoud Abd Amid, che si è presentato come “rappresentante di Al-Arabiya in Italia”. Eppure non c’è alcun riscontro di una sua collaborazione con l’emittente saudita. Abd Amid ha contattato l’ex ministra Elisabetta Trenta, per esempio – anch’ella comparsa nel video – usando un indirizzo Gmail ora non più attivo. 

Trenta e Tricarico erano inconsapevoli. L’ex ministra della Difesa Trenta, quando il nostro giornale l’ha contattata lo stesso 28 aprile, non sapeva affatto dell’esistenza del video. Non solo: non sapeva neppure di aver fatto un’intervista per un supposto documentario sulla vicenda Regeni. “Mi avevano detto che l’intervista era per un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto”, ha confessato sconfortata a Wired, chiedendo il link del prodotto per poterlo visionare. “Io all’inizio non volevo parlare né di Regeni né di Zaki e quando l’ho detto al giornalista egiziano lui si è sentito sollevato. Perché aveva paura”, ha chiarito Trenta. “Io non l’ho visto questo video, non so come aiutarla”, ci ha detto ugualmente spaesato l’ex generale Leonardo Tricarico, contattato anch’egli lo stesso giorno della pubblicazione del filmato. Anche a lui la persona che ha condotto l’intervista si è presentata come un giornalista egiziano di Al Jazeera. Tricarico si meraviglia che nel filmato non compaia Fabrizio Cicchitto, altro esponente di vertice di Forza Italia. “Il giornalista mi aveva chiesto un suo contatto perché lo voleva intervistare”, aggiunge. 

Tahrir Egyptian Network? Prima di diventare telefonicamente irraggiungibile, il giovane intervistatore ci ha detto di collaborare come freelance con Al Jazeera, Al Arabiya e Ten. Non ci ha voluto dire chi gli ha commissionato la produzione, ma è stato molto fermo su un punto: Al Jazeera e Al Arabiya non c’entrano nulla. Su Ten invece ha glissa. Che cos’è Ten? Se Al-Jazeera è un colosso mediatico internazionale e Al-Arabiya un network saudita, Ten Tv invece è una televisione egiziana smaccatamente filogovernativa. Sui suoi canali si alternano notizie a prodotti di fiction. Proprio lo stile di questi ultimi richiama in modo molto preciso quello di The story of Regeni, soprattutto per un lavoro di post-produzione davvero simile. In realtà, secondo diverse fonti Ten Tv è qualcosa di più di una tv filo-governativa. Sta infatti per Tahrir Egyptian Network, e sarebbe – lo scrive ad esempio Il Manifesto in questo articolo – proprio una diretta espressione degli apparati di sicurezza del governo di Al-Sisi. D’altronde la sua linea editoriale è molto chiara, anche a partire dalla recente campagna denigratoria nei confronti di Patrick Zaki, nonché dai diversi pretesti per attaccare i Fratelli musulmani, accusati di ordire trame per destabilizzare l’Egitto. Ricorda qualcosa? Wired ha contattato il network televisivo, non ricevendo alcuna risposta.

La ricostruzione. Cosa è successo a Giulio Regeni, le tappe di un mistero ancora irrisolto. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 25 Gennaio 2021. Era il 25 gennaio 2016, esattamente 5 anni fa, e da Piazza Tahir al Cairo Giulio Regeni inviava il suo ultimo sms prima di sparire nel nulla. Alle 19.30 era uscito da casa sua, nel quartiere Dokki, diretto alla fermata Naguib, dove l’aspettava l’amico Gennaro che però non l’ha mai visto arrivare. A mezzanotte i suoi amici, insieme con i funzionari dell’Ambasciata, denunciarono la sua scomparsa, ma l’allarme venne lanciato dalla Farnesina il primo febbraio. Due giorni dopo, il 3 febbraio,  il cadavere di Giulio vienne ritrovato sulla strada che collega il Cairo ad Alessandria. Sul corpo segni di tortura, lividi, fratture, ferite, bruciature, che smentiscono subito le prime ricostruzioni del capo della polizia di Giza, Khaled Shalaby, che parlava di incidente stradale. La notizia scuote il governo e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mentre la procura di Roma apre un fascicolo. Un team di investigatori viene inviato al Cairo per collaborare con le indagini aperte dagli egiziani. Il 7 febbraio la salma viene portata in Italia, e una nuova autopsia certifica le torture. Il Cairo intanto cambia continuamente versione: si va dall’omicidio a sfondo omosessuale all’uccisione per mano di spie dei Fratelli Musulmani compiuto per creare imbarazzo al governo di Al Sisi. Qualsiasi cosa pur di non menzionare “moventi politici”, esclusi categoricamente dagli inquirenti egiziani. I genitori di Giulio iniziano una battaglia e la vicenda diventa un caso diplomatico, che presto si allarga alla stampa internazionale. “Sono stati i servizi segreti egiziani a rapire Regeni” è il titolo di un editoriale apparso sulla prima pagina del New York Times il 13 febbraio. Sei giorni dopo il movimento assume lo slogan e i colori che ancora oggi lo caratterizzano: Amnesty International e Repubblica lanciano la campagna “Verità per Giulio”. Striscioni gialli cominciano a spuntare sui palazzi istituzionali, nelle univerisità e nelle biblioteche di tutta Italia. L’allora premier Matteo Renzi chiede la “verità ai colleghi egiziani”. Il 24 marzo la prima svolta: il ministero dell’Interno egiziano fa sapere di aver sgominato una banda specializzata in rapine a stranieri e che nel covo sono stati trovati alcuni documenti di Regeni. Muoiono tutti nel conflitto a fuoco, e gli inquirenti locali sono convinti di aver chiuso il caso. Le incongruenze non convincono però i magistrati italiani, che il 14 aprile inviano una rogatoria ai colleghi egiziani e chiedono i acquisire i tabulati telefonici di 13 persone, insieme ai video delle zone frequentate dal giovane e una serie di testimonianze. L’ambasciatore italiano al Cairo viene ritirato e la frattura col Paese di Al-Sisi sembra insanabile. In estate un altro tassello importante per la vicenda: emerge che Mohamed Abdallah, capo del sindacato ambulanti su cui Regeni stava facendo una ricerca, aveva segnalato ai servizi egiziani l’attività di Giulio. Il coinvolgimento degli 007 egiziani diventa oggetto di indagine, al punto che il 4 dicembre 2018 vengono iscritti nel registro degli indagati cinque uomini, membri dei servizi segreti civili e della polizia investigativa, per concorso in sequestro di persona. Sono il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mhamoud Najem. L’ipotesi è che si siano adoperati per mettere sotto controllo Regeni dopo la denuncia di Abdallah. Un anno più tardi, dalle audizioni in commissione parlamentare d’inchiesta del procuratore di Roma, Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, arriva la conferma che “sono almeno quattro i depistaggi messi in atto dagli apparati egiziani”. È il preludio della rottura definitiva del rapporto di collaborazione tra i magistrati italiani e quelli egiziani, arrivata lo scorso 30 novembre. I pm hanno annunciato la chiusura delle indagini, ma per gli inquirenti del Cairo “le prove sono insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio”. Rischiano di finire sotto processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. L’accusa per tutti è quella di sequestro di persona pluriaggravato, ma Sharif è anche accusato di lesioni personali aggravate. Sarebbe stato lui a infliggere i colpi mortali a Giulio. Cinque anni di trame tortuose, depistaggi, provocazioni, collaborazioni di facciata e tensioni tra Italia ed Egitto. Che oggi sono più vicine a vedere la luce, quando in Italia verrà celebrato il processo e si tenterà, una volta e per tutte, di riaffermare la verità su quanto successo a Giulio Regeni.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2021. La trappola mortale in cui è caduto Giulio Regeni è svelata - almeno in parte - dalle dichiarazioni degli stessi uomini accusati di averla organizzata. Negli interrogatori resi da uno dei quattro militari egiziani ora imputati del sequestro e dell' omicidio del ricercatore friulano, ad esempio, sono contenute affermazioni reticenti, non credibili e a volte contraddittorie che la Procura di Roma considera indizi di una sua diretta responsabilità. Contribuendo alla richiesta, firmata ieri dal procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, di processare il generale Tariq Ali Sabir, già ai vertici della National security agency e da poco trasferito a incarichi amministrativi; il colonnello Athar Kamel Mohamed Ibrahim, già capo del Servizio investigazioni giudiziarie del Cairo; il colonnello Uhsam Helmy, anche lui funzionario della National security come il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Proprio Sharif - accusato anche delle torture e della morte di Giulio, gli altri solo del rapimento - è stato interrogato cinque volte dalla Procura generale egiziana, tra il 2016 e il 2018. La sua versione dei fatti sembra cucita per sminuire il proprio ruolo, e sostenere che la National security ha svolto solo regolari e normali indagini a carico di uno studente italiano che si comportava in maniera strana, poi prosciolto da ogni sospetto; stessa tesi della magistratura del Cairo, che s' è pubblicamente dissociata dalle conclusioni dei pubblici ministeri di Roma. Ma proprio quei verbali, trasmessi all' Italia e allegati agli atti del procedimento, mostrano seri dubbi sulla ricostruzione fornita dall' Egitto. Sharif dice che fu il sindacalista Mohamed Abdallah a denunciare «uno straniero che stava svolgendo un' indagine sui venditori ambulanti, e temeva che lo sfruttasse per ottenere informazioni dannose nei confronti dello Stato. Questa persona è Giulio Regeni». Il generale Sadiq decise di approfondire il caso e Sharif racconta: «Io ho collaborato con Abdallah per arrivare alla verità dei fatti». Però fu il sindacalista, «di sua propria iniziativa», a carpire informazioni sul bando per il finanziamento di 10.000 sterline da parte della società britannica Antipode, anche «fingendo che le sue condizioni finanziarie fossero difficili e che avesse bisogno di soldi per curare la moglie e la figlia». Sharif dice che la video-registrazione del colloquio tra Abdallah e Regeni del 7 gennaio 2016, quando il ricercatore italiano ribatte bruscamente alle richieste di denaro, fu un' iniziativa del sindacalista: «Propose di registrare gli incontri attraverso il suo telefono cellulare e portarmi le registrazioni per assicurarmi la sua sincerità». Abdallah afferma il contrario, e la conferma arriva dalla sua telefonata alla sede della National security in cui - terminato il colloquio con Giulio - chiede agli agenti di andare a toglierli di dosso la microtelecamera e il microfono che avevano installati sui suoi vestiti. «Io non so nulla di questo affare e lui non mi ha incontrato quel giorno», insiste Sharif. E di fronte alle pur timide contestazioni sulle telefonate di Abdallah alla sede della Sicurezza nazionale ribatte: «Non ricordo di avere telefonato ad Abdallah e non ricordo con chi ho avuto contatti telefonici quel giorno». Ai magistrati il sindacalista ha riferito che, dopo la morte di Regeni, Sharif gli aveva raccomandato di non parlare agli inquirenti dei loro rapporti, ma il maggiore replica: «Non è vero. Abdallah mi aveva informato di essere stato invitato per essere interrogato, e io ho risposto invitandolo a recarvisi; mai abbiamo discusso dei particolari dell' interrogatorio che poteva subire». Molti non ricordo arrivano quando a Sharif viene chiesto delle sue telefonate con l' agente di viaggi Rami Imad, che lo chiamava dopo ogni colloquio con Noura, un' amica di Giulio; una volta alle 3,31 di notte del 20 gennaio, cinque giorni prima del sequestro Regeni: «Non ricordo l' argomento, potrebbe essere stato per il mio viaggio turistico in Grecia, o semplicemente una conversazione normale a causa del rapporto di amicizia». Il militare ribadisce che, verificata l' infondatezza dei sospetti di Abdallah sul ricercatore italiano, la sua struttura se n' è disinteressata, venendo a sapere della sua scomparsa solo dopo il ritrovamento del cadavere, il 3 febbraio. Abdallah invece ha riferito che Sharif aveva intenzione di controllare le mosse di Giulio proprio il 25 gennaio, anniversario della rivolta anti-regime di piazza Tahir, quando si temevano manifestazioni. Nelle sue dichiarazioni Sharif non ha mancato di seminare qualche velenosa traccia di presunti moventi sessuali nell' omicidio di Giulio: «Abdallah mi ha detto che Regeni ammirava una delle ragazze che fa la venditrice ambulante, e ha parlato con lui sulla difficoltà nell' avere un rapporto sessuale in Egitto». I depistaggi smascherati dalla Procura di Roma trovano dunque appigli persino negli interrogatori condotti dai magistrati egiziani. Che hanno bollato come «errate, illogiche e non conformi alle norme penali internazionali » le conclusioni raggiunte dai colleghi italiani. La risposta diplomatico-giudiziaria è arrivata ieri, con la richiesta di rinvio a giudizio dei quattro imputati che i pm vogliono processare anche in loro assenza; dimostrando, come prevede il codice, che «hanno avuto conoscenza del procedimento o se ne sono volontariamente sottratti». Su questo punto, prima ancora che sugli indizi a loro carico, dovrà pronunciarsi ora un giudice dell' udienza preliminare. Prevedibilmente entro l' estate.

L'Egitto sotto accusa. Omicidio Regeni, la Procura chiede il processo per quattro agenti segreti egiziani. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Dopo cinque anni di dubbi, depistaggi, accuse, risposte formali e silenzi assordanti, la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro agenti dei servizi segreti egiziani nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, avvenuto a gennaio del 2016. Per il governo di Al Sisi gli autori del delitto sono ancora ignoti, ma secondo il procuratore Michele Prestipino e il pm Sergio Colaiocco ci sarebbero già nomi e cognomi dei responsabili: sono il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Tutti appartenenti alla National Security egiziana, e accusati di sequestro di persona pluriaggravato. All’ultimo della lista, Sharif, vengono anche contestati i reati di lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. L’insufficienza respiratoria acuta che secondo gli inquirenti ha causato la morte di Giulio sarebbe arrivata proprio a causa delle imponenti lesioni di natura traumatica provocate dalle sue percosse. Dopo decine di incontri tra inquirenti e investigatori italiani e egiziani si è arrivati dunque alla formulazione di un quadro accusatorio. La svolta decisiva si ebbe il 4 dicembre del 2018, quando la Procura di Roma iscrisse nel registro degli indagati cinque 007 egiziani, alti ufficiali dei servizi segreti civili e della polizia investigativa d’Egitto, accusati di sequestro di persona. La richiesta di rinvio a giudizio ha indispettito il procuratore generale Hamada al Sawi, che ha espresso riserve sulla “solidità” del quadro probatorio. “Ho visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace”, ha riferito un testimone che per 15 anni ha lavorato nella sede della National Security dove Giulio è stato portato per essere torturato e poi ucciso. Al primo piano della struttura c’è la tristemente nota “stanza 13”, dove vengono solitamente condotti gli stranieri sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale. “Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti”, ha raccontato il testimone davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del ricercatore italiano. L’uomo ha anche aggiunto di aver notato Giulio “mezzo nudo, con segni di tortura sul torace” e di averlo riconosciuto perché parlava italiano. L’udienza preliminare dovrebbe essere fissata a maggio, e davanti al gup verrà affrontata anche la questione della mancanza di elezione di domicilio degli imputati, che le autorità del Cairo non hanno mai voluto indicare. Non è escluso che si proceda lo stesso con l’udienza nonostante manchi la certezza dell’avviso di notifica per gli interessati, vista la rilevanza mediatica che il caso ha raggiunto anche in Egitto.

«Regeni ucciso per un complotto»: la nuova teoria dei pm egiziani. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 31/12/2020. I magistrati del Cairo accusano Giulio di comportamenti sospetti, respingono le prove contro i quattro 007 e ribadiscono di non voler collaborare. Palazzotto: vergognoso depistaggio. Movimenti sospetti, complotti e nessun intenzione di collaborare per cercare di stabilire la verità sulla morte di Giulio. La Procura egiziana si schiera di nuovo in difesa dei quattro membri della National Security accusati dai pm di Roma di essere i responsabili del rapimento, delle torture e dell’uccisione di Regeni, chiudendo ancora una volta la porta in faccia all’Italia. Ma non solo. Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe «immotivato», la procura generale egiziana accredita la tesi secondo la quale imprecisate «parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare» il caso «per nuocere alle relazioni» tra i due Paesi. Ciò, aggiunge la Procura, sarebbe provato dal luogo del ritrovamento del corpo e dalla scelta del giorno del sequestro e di quello del ritrovamento del cadavere, avvenuto durante una missione economica italiana al Cairo. Tutte posizioni che la Farnesina definisce inaccettabili mentre ribadisce la fiducia nell’operato della magistratura italiana e annuncia di voler proseguire in tutti le sedi - compresa l’Unione europea - con ogni sforzo «affinché la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni possa finalmente emergere». E’ il procuratore generale Hamada Al Sawi a parlare in un comunicato. Prima ribadisce, come già fatto a fine novembre, che «per il momento non c’è alcuna ragione per intraprendere procedimenti penali circa l’uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto». Ma non solo. La nota diffusa da Il Cairo torna a sottolineare che il procuratore «ha incaricato le parti cui è affidata l’inchiesta di proseguire le ricerche per identificare» i responsabili. Questo perché si «esclude ciò che è stato attribuito a quattro ufficiali della Sicurezza nazionale a proposito di questo caso», dei quali non è stata ancora fornita ai colleghi italiani, nonostante la rogatoria del 2019, l’elezione di domicilio degli indagati. Dunque niente collaborazione con le autorità italiane da parte di quelle egiziane. Ma la Procura egiziana si spinge ancora più in là definendo il comportamento tenuto da Giulio Regeni nel corso della sua permanenza in Egitto, mentre stava svolgendo ricerche per la sua tesi, «non consono al suo ruolo di ricercatore» e per questo posto «sotto osservazione» da parte della sicurezza egiziana «senza però violare la sua libertà o la sua vita privata». «Tuttavia – aggiungono – il suo comportamento non è stato valutato dannoso per la sicurezza generale e, quindi, il controllo è stato interrotto». Altro punto è il tentativo di rispolverare la tesi dei rapinatori, ossia che a sequestrare e ammazzare Giulio Regeni sia stata una banda di cinque malviventi uccisi in circostanze sospette nel marzo 2016. Intervento, quello delle forze di sicurezza egiziane, cui seguì il ritrovamento dei documenti e di presunti effetti personali appartenenti al ricercatore nella casa di una delle persone uccise. Una messa in scena architettata, si presume, dall’intelligence egiziana per depistare le indagini che invece puntano l’attenzione ai vertici dei servizi del Cairo. Ma «vista la morte degli accusati – scrive infatti la Procura egiziana – non c’é alcuna ragione di intraprendere procedure penali circa il furto dei beni della vittima, il quale ha lasciato segni di ferite sul suo corpo». Una teoria per altro smontata dalla procura di Roma già dal 2016. I pm egiziani si contraddicono un’altra volta, quando parlano di complotto. Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe immotivato, la Procura accredita infatti la tesi che imprecisate «parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare» il caso di Giulio Regeni «per nuocere alle relazioni» tra i due Paesi. A prova di questa «tesi», la procura generale del Cairo indica la tempistica del ritrovamento del corpo nella capitale egiziana all’inizio del 2016, e la scelta sia del giorno del sequestro, il 25 gennaio, sia di quello del ritrovamento del cadavere, il 3 febbraio, proprio durante una missione economica italiana al Cairo. Ma se a compiere l’omicidio fosse stata una semplice banda di rapinatori, non si spiega perché questi avrebbero dovuto organizzare una messinscena «per nuocere alle relazioni» tra Italia e Egitto. Inevitabili le reazioni in Italia, oltre quella della Farnesina. Erasmo Palazzotto, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni sottolinea come la nota della procura rappresenti «una mezza ammissione e insieme un altro vergognoso tentativo di depistaggio» e chiede che il governo Italiano pretenda chiarimenti». E anche per l’europarlmentare Pierfrancesco Majorino «le dichiarazioni della procura egiziana sul caso Regeni, rese pubbliche oggi, sono un atto ostile e inaccettabile nei confronti dell’Italia e della procura di Roma nonché un insulto al Parlamento europeo. Ci vuole una reazione durissima da parte di tutti». Mentre Luigi Manconi, presidente dell’associazione «A Buon Diritto» definisce la nuova nota della procura «una totale incondizionata indisponibilità alla pur minima cooperazione giudiziaria con la procura italiana». E chiede che l’Italia e l’Europa «esercitino forme di pressione» contro il «regime dispotico» del presidente dell’Egitto Al Sisi. «Non c’é bisogno di dichiarare guerra all’Egitto», o rompere i rapporti diplomatici, ma l’alternativa «non è l’inerzia», sottolinea l’ex senatore del Pd, che è stato presidente della commissione Diritti umani del Senato e ha seguito da vicino il caso Regeni. Anche Amnesty International ha immediatamente reagito, definendo «inaccettabile» la dichiarazione della procura egiziana. «Dovrebbe ritenerla inaccettabile anche il governo italiano dal quale auspichiamo una presa di posizione», ha spiegato il portavoce in Italia, Riccardo Noury. «C’è di nuovo un palese tentativo delle autorità del Cairo di smarcarsi da ogni responsabilità, attribuendo quanto accaduto a misteriosi soggetti che avrebbero agito per contro proprio», sottolinea Noury, «si torna sull’idea del depistaggio con un’assoluzione da ogni responsabilità». «Dopo cinque anni», fa notare il portavoce di Amnesty, «salta fuori in questa nota che Regeni era stato attenzionato, ma poi disattenzionato, nonostante il suo comportamento fosse ritenuto sospetto»...Giulio Regeni è stato rapito torturato e ucciso al Cairo tra il gennaio e il febbraio del 2016. In Italia per il suo omicidio sono accusati quattro agenti di sicurezza egiziani. Secondo la ricostruzione della procura di Roma, Regeni sarebbe stato sottoposto a sevizie durate giorni che causarono al giovane «acute sofferenze fisiche» messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni.

Regeni, l'Egitto: "Processo immotivato. Caso usato per nuocere ai rapporti con l'Italia". La Repubblica il 30 dicembre 2020. (ansa). "Il governo italiano dovrebbe ritenere inaccettabile questa dichiarazione della procura egiziana", ha commentato Amnesty International. "Il Procuratore generale ha annunciato che per il momento non c'è alcuna ragione per intraprendere procedure penali circa l'uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto": lo ribadisce in un comunicato la Procura generale egiziana. La magistratura italiana il 10 dicembre scorso aveva chiuso le indagini contro 4 appartenenti ai servizi egiziani, passo che precede l'apertura di un processo. Ma la nota diffusa da Il Cairo torna a sottolineare che il Procuratore "ha incaricato le parti cui è affidata l'inchiesta di proseguire le ricerche per identificare" i responsabili. "Il procuratore" generale egiziano Hamada Al Sawi "esclude ciò che è stato attribuito a quattro ufficiali della Sicurezza nazionale a proposito di questo caso", si afferma inoltre nel testo pubblicato sulla pagina Facebook dell'istituzione cairota la quale ha evitato di fornire l'elezione di domicilio degli indagati come richiesto invece dalla Procura di Roma. "Vista la morte degli accusati, non c'é alcuna ragione di intraprendere procedure penali circa il furto dei beni della vittima, il quale ha lasciato segni di ferite sul suo corpo", aggiunge il comunicato. Il riferimento è ai cinque componenti della "banda criminale" specializzata in rapine a "stranieri", "tra i quali un altro italiano oltre alla vittima", ricorda la nota. Il gruppo fu sgominato in uno scontro a fuoco con forze di sicurezza al Cairo il 24 marzo 2016. Le autorità egiziane sostennero che nel loro covo furono trovati documenti di Regeni, tra cui il passaporto, ma la versione non convinse gli inquirenti italiani. Già nel comunicato congiunto del 30 novembre con la Procura di Roma, quella generale egiziana aveva avanzato "riserve sul quadro probatorio" che, a suo dire, è costituito "da prove insufficienti per sostenere l'accusa in giudizio". Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe immotivato, la Procura generale egiziana nel suo comunicato accredita la tesi che imprecisate "parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare" il caso di Giulio Regeni "per nuocere alle relazioni" tra i due paesi. Ciò sarebbe provato dal luogo del ritrovamento del corpo e dalla scelta sia del giorno del sequestro sia di quello del ritrovamento del cadavere, avvenuto proprio durante una missione economica italiana al Cairo, si sostiene nel testo. "Consideriamo inaccettabile la dichiarazione della procura egiziana con cui respinge ufficialmente le conclusioni delle indagini della procura di Roma", ha detto all'Agi il portavoce di Amnesty International in Italia, Riccardo Noury "E dovrebbe ritenerla inaccettabile anche il governo italiano dal quale auspichiamo una presa di posizione". E inaccettabile la definisce anche la Farmesina. Lo scrive il ministero degli Esteri in una nota: "La Farnesina, nel ribadire di avere piena fiducia nell'operato della magistratura italiana, continuerà ad agire in tutte le sedi, inclusa l'Unione europea, affinchè la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni possa finalmente emergere". Il dicastero conclude auspicando che "la Procura Generale egiziana condivida questa esigenza di verità e fornisca la necessaria collaborazione alla Procura della Repubblica di Roma". "Ancora una volta l'Egitto dimostra di non voler collaborare per fare luce sulla morte di Giulio Regeni. L'ennesima provocazione, inaccettabile, arriva oggi - scrive su Facebook il presidente della Camera Roberto Fico - Le motivazioni per cui la Procura egiziana non è intenzionata ad aprire un processo sul sequestro, la tortura e l'uccisione del nostro ricercatore sono vergognose. Mentire sapendo di mentire. Per questo la Camera ha sospeso le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano. A tutto c'è un limite".

Sofia Fraschini per "il Giornale" il 21 gennaio 2021. La notizia arriva dal Cairo e rimbalza in Italia grazie a un report di Banca Akros: l' Egitto, in affari con Leonardo, sta «silenziosamente» costruendo la sua flotta con gli elicotteri AW149 del gruppo italiano, avendo ricevuto 5 velivoli dei 24 super-medium-twins relativi a un ordine del 2019 per 871 milioni di euro. Come racconta egyptdefenceexpo.com, citando documenti del ministero degli Esteri, l' affare è stato registrato nel rapporto 2019 sulle esportazioni di armi stilato dalla Farnesina per il Senato. Una notizia positiva per Leonardo «dal momento che il gruppo italiano - spiega Akros - ha avuto problemi nella consegna dei suoi prodotti finiti a causa delle restrizioni legate alla pandemia». Ma che imbarazza il governo. I rapporti geopolitici nel Mediterraneo orientale si stanno muovendo velocemente, anche a causa delle mire espansionistiche della Turchia, e questo ha fatto riavvicinare Roma e Il Cairo. Tutta questa vicenda si intreccia però, inevitabilmente, con le indagini sull' omicidio di Giulio Regeni e con il caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano iscritto all' Università di Bologna, detenuto da quasi un anno al Cairo. Un quadro che sta generando malumori e imbarazzo: è evidente, infatti, che al di là dei rapporti formali tra le istituzioni dei due Paesi, il business tra Italia e Egitto va avanti. D' altra parte, Leonardo è una società al 30,2% in mano al ministero del Tesoro, che indica i vertici e la maggioranza del cda. Le relazioni politico economiche sono buone anche se, ovviamente, si evita di pubblicizzarle. Si tratta, infatti, della seconda consegna «in sordina» di forniture militari all' Egitto da parte di industrie italiane. Il 23 dicembre Fincantieri ha consegnato alla Marina Militare dell' Egitto la fregata multiruolo Fremm Spartaco Schergat, ora ribattezzata «Al-Galala». Tornando a Leonardo, le consegne più recenti sono avvenute alla fine del 2020, quando una coppia di elicotteri utility da 8,6 tonnellate è arrivata in Egitto tramite cargo dall' aeroporto di Milano Malpensa ad Alessandria Borg El Arab. Quei due velivoli numeri di serie 49066 e 49067 sono stati avvistati mentre effettuavano voli di prova pre-consegna in livrea dell' aeronautica egiziana dall' aerodromo di Venegono nel Nord Italia a novembre. Come si legge sul sito di Leonardo, l' AW149 è progettato per svolgere varie missioni tra le quali trasporto truppe, rifornimento, trasporto carichi, operazioni delle forze speciali, supporto aereo/scorta armata, comando e controllo, sorveglianza e ricognizione. A inizio giugno 2020 il settimanale panarabo The Arab Weekly aveva scritto che l' Italia potrebbe vendere all' Egitto ben 6 fregate Fremm (4 nuove oltre le 2 citate all' inizio) e 20 pattugliatori d' altura di Fincantieri, oltre a 24 caccia Eurofighter Typhoon e numerosi velivoli da addestramento M-346 di Leonardo, più un satellite da osservazione, per 10,7 miliardi di dollari.

Fregate all’Egitto, i genitori di Giulio Regeni: “Denunciamo l’Italia per vendita di armi a Paesi che violano i diritti umani”. La consegna della prima delle due fregate Fremm vendute da Fincantieri al Cairo e il comunicato della procura egiziana, che accusa quella italiana di voler processare gli agenti segreti di Al-Sisi praticamente senza prove, hanno spinto la famiglia del ricercatore italiano a denunciare il governo per "violazione della legge sulla vendita di armi a Paesi "autori di gravi violazioni dei diritti umani". Il Fatto Quotidiano l'1 gennaio 2021. Una denuncia contro il governo italiano per violazione della legge sulla vendita di armi a Paesi “autori di gravi violazioni dei diritti umani”. E’ quanto hanno predisposto Claudio e Paola Regeni, i genitori di Giulio, il ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016. Dopo anni di complicatissime indagini, a causa anche della mancata collaborazione del Cairo, per quell’omicidio la procura di Roma ha chiuso le indagini su quattro agenti National security egiziana, ricostruendo i nove giorni di tortura del ricercatore italiano. Tredici giorni dopo la chiusura di quelle indagini, però, e cioè il 23 dicembre, è stata consegnata all’Egitto prima delle due fregate Fremm vendute da Fincantieri al Cairo nei mesi scorsi. “Senza alcun comunicato ufficiale”, ha sottolineato Rete Italiana Pace e Disarmo. E i Regeni hanno deciso di denunciare il governo, come annunciato nel corso della trasmissione Propaganda Live. Il provvedimento è stato redatto dall’avvocato Alessandra Bellerini, legale dei familiari del ricercatore ucciso nel 2016. “Assieme alla nostra legale abbiamo predisposto un esposto-denuncia contro il governo italiano per violazione della legge 185/90, che vieta le esportazioni di armi verso Paesi, i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani accertati dai competenti organi dell’Ue, dell’Onu e del Consiglio d’Europa e il governo egiziano rientra certamente tra quelli che si sono macchiati di queste violazioni”. hanno detto Paola e Claudio Regeni. I genitori di Giulio hanno ribadito nel corso della trasmissione, all’indomani delle dichiarazioni della procura egiziana, la richiesta di richiamare l’ambasciatore in Egitto. “Chiediamo questo come atto forte. E’ importante che l’Italia dia l’esempio – hanno detto – Chiediamo anche che la Procura non venga insultata, chiediamo fermezza. Bisogna reagire, sennò i nostri figli che vanno in giro per il mondo non saranno più sicuri”. Pochi giorni fa, infatti, la procura generale del Cairo è tornata a difendere pubblicamente i quattro membri della National Security accusati dai pm di Roma di essere i responsabili del rapimento, della tortura e dell’uccisione di Regeni. “Per il momento non c’è alcuna ragione per intraprendere procedimenti penali circa l’uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto“, sostiene il procuratore generale, Hamada Al Sawi. Il documento diffuso dal Cairo attacca i pm italiani, li accusa di non aver fatto bene il proprio lavoro e ipotizza l’esistenza di una sorta di complotto sul caso Regeni per “nuocere alle relazioni” tra Italia ed Egitto. I magistrati si spingono fino a giudicare il comportamento tenuto da Giulio nel corso della sua permanenza in Egitto, mentre stava svolgendo ricerche per la sua tesi, definendolo ”non consono al suo ruolo di ricercatore” e per questo posto “sotto osservazione” da parte della sicurezza egiziana “senza però violare la sua libertà o la sua vita privata”.

·        Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.

Red Ronnie celebra Vincenzo Muccioli: “E’ stato un eroe, ha salvato anche il figlio di Bobby Solo”. Luca Maurelli martedì 14 Dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Una vita spesa a lanciare talenti e a investire sulle loro capacità. Red Ronnie, alle soglie dei 70 anni, che compirà domani, non ha mai smesso di fiutare possibili numeri uno. E anche ora continua nel suo lavoro di ricerca. Senza dimenticare l’impegno ‘sociale’ intervendo in prima persona nelle emergenze assumendo magari posizioni scomode. Come quando ha difeso a spada tratta Vincenzo Muccioli. “Per me Vincenzo Muccioli – racconta – è stato un amico e una persona che ho difeso fino alla fine perché sapevo quanto di buono aveva fatto. Lui è stato l’unico che ha dato una risposta al problema della droga, che allora era gravissimo, togliendo centinaia di miliardi alla malavita”. Un problema di cui, ricorda Ronnie, si occupavano da un lato la “Chiesa Cattolica, dicendo che i tossicodipendenti dovevano smettere di drogarsi per credere in Dio, e dall’altro il partito Comunista che portava avanti il Sert, quindi il metadone, con cui guadagnava“. Un’attività, quella di Vincenzo Muccioli, che è stata coronata da numerosi successi. A titolo d’esempio, Ronnie sottolinea che “il figlio di Bobby Solo, dato per spacciato, oggi sta benissimo e ha una famiglia. Il padre mi chiese un aiuto e oggi il figlio è salvo. A me basta questo”. Il mio rapporto con Vincenzo Muccioli- continua Ronnie – iniziò diffidando di lui, perché leggevo quello che dicevano i giornali i quali parlavano di un santone che era stato in galera perché aveva incarcerato dei drogati. Poi un giorno un mio amico giornalista, Marco Guidi, mi disse: ‘Vieni con me ti porto a san Patrignano perché i carabinieri portano un tossicodipendente che è stato arrestato mentre rubava una macchina nella quale i genitori avevano lasciato una bambina’. Quando sono arrivato ho trovato il figlio di Enrico Maria Salerno. Nel 1977, in un’intervista il padre mi aveva detto che non c’era niente da fare perché era in preda all’eroina. Vedere il figlio vivo e salvato voleva dire per me che Vincenzo Muccioli aveva già vinto“. Red Ronnie aggiunge: “Ho visto quanta gente ha salvato, continuo a incontrare tantissime persone che sono state salvate da Vincenzo Muccioli prima e da Andrea Muccioli dopo. Ronnie si sofferma poi sulla serie Netflix ‘SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano’ sulla quale ha mostrato delle riserve. “Premetto – dice – che questa serie è stata fatta da uno che lavorava nella rivista ‘Cuore’ il cui direttore Sabelli è stato condannato per diffamazione nei confronti di Vincenzo Muccioli e di san Patrignano. Quando ho capito che era tutta tesa a screditare la figura di Vincenzo Muccioli mi sono consultato con Andrea e abbiamo deciso di partecipare per attutire il colpo. Ponendo però delle condizioni: abbiamo dato il materiale video a patto che intervistassero qualcuno favorevole alla Comunità. Hanno fatto un po’ di interviste a coloro che gli abbiamo indicato. Peccato che non le abbiano montate. Basti pensare al fatto che la persona che ha poi ricattato Muccioli, il suo ex autista, ha tre volte lo spazio di Andrea Muccioli”.

Fabio Cantelli Anibaldi per corriere.it  l'1 dicembre 2021. Da adolescente sognavo di «vivere ad altezza di morte», come esortava Georges Bataille. Vivere con una morte clemente e, di fatto, inoperante è ciò che il destino mi ha finora riservato. Sono stato molto fortunato, ma la fortuna si accompagna da sempre a un senso d’ingiustizia, d’immeritato privilegio: «perché non io?» mi capita ancora di chiedermi. Sono positivo al virus Hiv almeno dal 1985, quando venni sottoposto a un esame insieme a tutti gli ospiti di San Patrignano. Allarmato dalle notizie che venivano dall’America, Vincenzo Muccioli aveva voluto capire come stessero le cose in comunità. Risultò positivo al virus circa un terzo degli ospiti, centocinquanta persone, ma Vincenzo decise di non rivelare l’esito di un esame spacciato come un normale controllo dello stato di salute, nonostante dopo il prelievo del sangue fossimo stati sottoposti a un’indagine per tutti inedita e un po’ imbarazzante: un tampone anale. Vincenzo aveva deciso di nasconderci il risultato dell’esame perché all’epoca dire a una persona che era sieropositiva era come dirle di prepararsi a una morte rapida e dolorosa. Avrebbe dunque deciso lui i modi e i tempi per comunicarlo a ciascuno di noi, a seconda della nostra capacità di reggere l’urto, nella speranza che il soggiorno in comunità ci avrebbe reso più forti e che, nel frattempo, la medicina trovasse un rimedio al terribile male. Me lo disse quattro anni dopo, una domenica della primavera del 1989. A chi reputa inammissibile questo ritardo rispondo che fu causato da un eccesso di amorevole tutela, come quella di certe madri. Dal 1985 continuavo infatti a essere asintomatico e tutte le volte che capitava d’incontrarci quando tornavo i fine settimana da Bologna – dove vivevo nella casa affittata per gli studenti universitari – Vincenzo mi vedeva stare bene nel corpo e nell’anima: prendevo trenta e lode agli esami di filosofia e avevo persino ricominciato a giocare a basket. «Glielo dirò la prossima volta» avrà pensato vedendomi sereno, salvo che, di volta in volta, passarono i mesi e gli anni, e quando quella domenica dell’89 mi prese da parte per dirmi di aver deciso di esonerare gli ospiti sieropositivi dall’assistenza ai malati di Aids – sicché avrei potuto da quel giorno dedicarmi solo ai miei studi – mi parlò come se sapessi già di essere sieropositivo, e sospetto che in qualche modo si fosse convinto che davvero lo sapessi, in modo che non fosse più necessario dirmelo o, nel caso lo fosse, mascherarlo come in quel caso da tutela nei miei riguardi. L’autoinganno, nella mente umana, può arrivare a tali acrobatici, virtuosismi…Quel giorno il mondo mi crollò addosso, ma più che per me stesso l’angoscia fu per una ragazza incontrata un anno prima durante una “licenza premio” a Milano, con la quale avevo avuto rapporti sessuali non protetti. L’ipotesi di essere stato, sia pur inconsapevolmente, un veicolo di contagio era per me molto più angosciante dell’essere ormai a un tempo supplementare di vita, e questo scivolare per forza di cose in secondo piano fu, credo, decisivo nell’impostare un giusto rapporto con la malattia. Saputo infatti di non aver contagiato la mia ragazza decisi di andare via da Sanpa per vivere con lei la vita residua e poi di non fare come i tanti ragazzi della comunità che avevo visto morire durante i quasi tre anni di assistenza al reparto “infettivi” dell’ospedale Maggiore di Bologna, assistenza che noi studenti avevamo deciso di garantire giorno e notte per farli sentire meno soli. Quei ragazzi arrivavano infatti in «Aids conclamato» ma le loro condizioni generali non facevano pensare a una malattia mortale: si nutrivano e camminavano da soli, sia pure con sforzo, giocavano con noi a carte o discutevano di calcio, di basket, delle top model ritratte sulle riviste patinate. E soprattutto volevano la tv sempre accesa su «Videomusic», il primo canale in Italia a trasmettere solo videoclip. Tale “routine” poteva andare avanti per settimane e a volte mesi, finché non si manifestava una di quelle che i bravi ma impotenti medici del Maggiore chiamavano «infezioni opportunistiche». Mali che ricordavano bruscamente ai pazienti il motivo per cui erano lì e mutavano la loro relativa serenità in una serrata, angosciata resistenza, a cui il virus rispondeva passando dal fioretto al bazooka e portando a termini in pochi giorni l’opera. L’ho ancora ben impressa quella spaventosa prova di efficienza: ai malati s’imbiancavano le ciglia e la pelle diventava trasparente. Nel contempo smettevano di parlare e, lo sguardo perso nel vuoto, ci facevano cenno di spegnere il televisore e abbassare un po’ le tapparelle. Luce e musica: segni troppo evidenti della vita che li stava lasciando. Sicché quando, nel luglio dell’89, decisi di andare via da Sanpa e vivere come desideravo la vita che mi restava, pensai: «Quando arriverà non fare l’errore di resisterle: la malattia è parte di te. Non volevi una vita ad altezza di morte? Eccoti accontentato: la malattia devi accettarla, ospitarla, viverla. Solo così avrai speranza non solo di vivere più a lungo ma di vivere bene anche in mezzo al male». È stato un momento per me decisivo perché, da allora, ho cercato di rapportarmi così alla vita nel suo insieme, cercando in ogni evento difficile o avverso un’occasione di conoscenza e di consapevolezza, dunque di vita. «Il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire» cantava Battiato in «Prospettiva Nevskij»: il mio maestro è stata la malattia, io ho avuto solo il merito di ascoltare la sua lezione. Beninteso, è stato un cammino lungo e ancora lungi dall’essere concluso. Un cammino compiuto attraversando regioni gelide e deserte. Nei primi anni Novanta – mentre nella lista di milioni di morti comparivano nomi amati come quelli di Rudolf Nureyev, Bruce Chatwin, Freddy Mercury, Keith Haring, Robert Mapplethorpe – si officiavano a Sanpa anche due funerali alla settimana. E a ogni amico perduto la stessa domanda: «quando arriverà il mio turno?». Poi, il 9 aprile ’95, la perdita straziante di Cristina, la prima fidanzata, la fidanzata dell’adolescenza, età iniziatica in cui si manifesta la fame d’infinito che sta alla base dell’incontro con la droga. Ed ecco quel giorno l’altra domanda – «perché lei e non io?» – erompere lacerante. E infine Vincenzo Muccioli, il 19 settembre: anche lui morto di Aids, credo, nonostante il reticente silenzio che avvolse la sua morte. Morte che, lungi dall’essere ignominiosa, mi parve il nobile epilogo di una vita in trincea, la vita di un uomo che aveva vissuto per noi e con noi. La svolta per tutti, e anche per me, fu la messa in commercio degli antiretrovirali, alla fine degli anni 90. Farmaci che potevano rallentare il virus, in certi casi arrestarlo. Quando cominciai a prenderli già vivevo a Torino da qualche anno, seguito dagli infettivologi dell’Amedeo di Savoia. Ne ho cambiati sei in venticinque anni: tutte donne. Ne voglio citare tre, straordinarie per competenza, umanità e grazia: Caterina Bramato, Letizia Marinaro e l’attuale, Laura Trentini. La sensibilità di un medico è parte integrante della cura. Concludo. Si direbbe che io e il virus siamo arrivati a una sorta di simbiotica convivenza. Da anni lui dorme in me: «carica virale» zero. Evidentemente si è trovato bene e ha cominciato a familiarizzare col mio organismo mentre io cercavo di familiarizzare con una vita appesa a un filo. Chissà se quello del Covid, arrivando nei paraggi, abbia trovato un cartello: «occupato, si prega di cercare altrove». Tecnicamente sono uno di quelli che gli americani chiamano: «long term survivors». Concretamente uno che ha capito che, malati o meno, se si riesce a «vivere ad altezza di morte» è possibile morire compiuti, dicendo le parole che pare abbia pronunciato un uomo tormentato come Wittgenstein prima di spirare: «Dite a tutti che ho avuto una vita meravigliosa».

San Patrignano, Andrea Muccioli riaccende la polemica sulla serie tv: "La verità su mio padre". Carmen Guadalaxara su Il Tempo il 11 novembre 2021. Andrea Muccioli, figlio del fondatore della comunità di San Patrignano Vincenzo Muccioli, è stato ospite questa mattina su RTL 102.5 in “Non Stop News” e parlando della serie tv di Netflix su suo padre e  delle accuse che gli sono state rivolte ha rimarcato tutto il suo sdegno: Ho cercato di dare un contributo concreto a quella serie, una mia visione corretta, una testimonianza onesta che non è servita purtroppo a nulla per evitare che venisse confezionata un’immagine pregiudiziale, deformata, grottesca, secondo me totalmente in malafede da parte degli autori. Dovevano portare la descrizione di un mostro più che di una persona straordinaria che ha salvato 7000 vite senza chiedere nulla a nessuno. Io e mio fratello abbiamo denunciato Netflix, adesso aspettiamo di discutere queste questioni in tribunale. Mi sono sentito in obbligo, a quel punto, di raccontare la storia così come l’ho vissuta e vista fin da quando avevo 11 anni, a quando mio padre è morto nel 1995. È un racconto: non è un memoriale, né un saggio, né una risposta o lezione a nessuno. È il racconto di ciò che è successo in forma di romanzo, raccontato da un adolescente che dagli 11 anni arriva ai 30 vivendo dentro questa straordinaria esperienza”. Mio padre – ah aggiunto - non è una persona come quella descritta, come quella che ha fatto, visto e detto ciò che mio padre ha vissuto nella sua vita non può essere certamente misogino, non può essere certamente omosessuale e non lo è mai stato. È morto a cause mediche, psicologiche e sanitarie che sono state dichiarate dalla comunità quando è morto. Un racconto non può rispondere al nulla, al falso. Il racconto è il vero, e questa storia racconta la verità. La smentita di quelle oscenità raccontate dal documentario è nella storia”. Per Andrea Muccioli c’è stata una volontà di denigrare l’opera di suo padre.  “C’è stata una volontà precisa di convogliare quell’idea deformata, grottesca, mostruosa non solo di mio padre e dell’opera che ha svolto, ma della stessa comunità nel suo insieme. Alcuni degli autori di questo prodotto, erano gli stessi giornalisti che nel 1995 quando mio padre stava morendo, scrivevano che all’inferno aspettavano con ansia il suo arrivo. Sono stati denunciati e condannati dalla giustizia in quel momento e mi auguro che lo saranno ancora in questa occasione.  Ho continuato l’opera di mio padre per circa 20 anni: mi sono trovato in quella posizione, ho dovuto decidere della vita, della morte, dei bisogni, delle necessità, dei drammi dei ragazzi – oltre 14 mila – che ho accolto in questo periodo. Quando mi son trovato nelle stesse posizioni, ho ripensato a cosa diceva mio padre quando lo criticavo. Ho sempre avuto la personalità per confrontarmi con lui in maniera aperta: una cosa, nonostante gli errori commessi, aveva in maniera talmente forte che nessuno potrà mai contestare, ovvero la capacità di perdonare sempre tutti”. ​ 

(ANSA il 7 aprile 2021) - Andrea e Giacomo Muccioli, figli di Vincenzo il fondatore della Comunità di San Patrignano, querelano per diffamazione aggravata Netflix, che ha realizzato il documentario sulla comunità e sulla figura del padre. Lo riporta il Corriere Romagna. "SanPa. Luci e tenebre a San Patrignano", la docuserie di Netflix che riporta anche lunghi stralci di intervista ad Andrea Muccioli, avrebbe offeso la memoria del padre Vincenzo. Secondo i figli di Muccioli, assistiti dall'avvocato Alessandro Catrani, la serie fa una ricostruzione distorta della storia della comunità e del fondatore. Sempre secondo la querela vi sarebbero delle allusioni e bugie come la presunta morte per Aids di Vincenzo Muccioli da ricondurre a una altrettanto presunta omosessualità. La querela è stata presentata nei giorni scorsi ai carabinieri. "SanPa" è la prima docu-serie originale italiana di Netflix, di Produzione 42, approdata il 30 dicembre 2020 sulla piattaforma streaming per una platea di 190 Paesi. Scritta da Carlo Gabardini, Gianluca Neri, Paolo Bernardelli e diretta da Cosima Spender, è stata realizzata con 25 testimonianze, 180 ore di interviste e immagini tratte da 51 differenti archivi. Dalla docuserie, a pochi giorni dalla disponibilità sulla piattaforma, la Comunità di San Patrignano si era già formalmente e "completamente" dissociata, definendo il racconto fatto "unilaterale", "sommario e parziale", con una narrazione focalizzata "in prevalenza" su "testimonianze di detrattori".

Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" l'8 aprile 2021. Il miracolo non è quando spunta un fiore ma quando spunta da una pianta morta. La missione di Vincenzo Muccioli tutta è in questa frase che pronuncia nel primo episodio di «SanPa - Luci e tenebre a San Patrignano», docu-serie Netlix che ripercorre la sua figura e il suo operato nella realizzazione di una comunità che, ancora oggi, rappresenta un caso unico al mondo. Da subito - il titolo è disponibile sulla piattaforma dallo scorso 30 dicembre - ne sono nate molte polemiche. Ora è arrivata anche la querela. Pesantissima. Andrea e Giacomo Muccioli, figli di Vincenzo, hanno fatto causa a Netflix per diffamazione aggravata. La serie del colosso americano danneggerebbe «l' immagine e la memoria di una persona scomparsa, un grande padre e un uomo che ha dedicato la sua esistenza al Bene, violando altresì i più elementari principi di privacy». Secondo i figli di Muccioli, assistiti dagli avvocati Alessandro Catrani e Francesca Lotti, il documentario farebbe una ricostruzione distorta della storia di San Patrignano e anche di loro padre. Un fatto non senza conseguenze. «Dalla messa in onda della fiction - hanno fatto sapere i legali - la loro vita privata e quella dei loro familiari è stata travolta da continue domande, richieste da parte di amici, conoscenti, persone comuni, sulla veridicità di quanto affermato e rappresentato nella docu-serie. Si sono trovati colpiti e feriti in quanto c' è di più prezioso: memoria, reputazione e onorabilità di un padre scomparso». Da qui, la scelta di querelare il gigante della tv online. La nota dei legali prosegue spiegando come i figli del fondatore della comunità abbiano accusato il fatto che «all' interno della docu-serie, Muccioli venga indicato come misogino e omosessuale... La causa della sua morte, inoltre, viene attribuita all' Aids. Ovvero a un' infezione da Hiv contratta a causa del suo stile di vita e dei suoi comportamenti privati. I familiari rilevano che nessuna di tali affermazioni, indiscrezioni, pettegolezzi, presentati a milioni di persone, è vera. Quindi ne lamentano l' assoluta falsità». E ancora, gli stessi familiari «lamentano come si diffami, al di là di ogni legittima opinione sulla vita e l' operato di Muccioli, l'immagine e la memoria di una persona scomparsa». Vincenzo Muccioli è morto il 19 settembre del 1995. La sua è stata una delle figure più influenti e anche a tratti controverse dell' Italia degli anni Ottanta. «Metteva paura a molti, ma da altri era considerato un santo», si ripete spesso nella serie. Luci e tenebre, tratteggiate da chi ha vissuto in prima persona la più grande comunità per il recupero di persone tossicodipendenti. E da Muccioli stesso. Motivo per cui, fino ad ora, gli autori della serie diretta da Cosima Spender, avevano commentato le accuse sostanzialmente facendo notare come tutto il materiale su cui hanno lavorato fosse, di fatto, non fictional. La comunità aveva invece definito la serie «tendenziosa e parziale, oltre che ricca di spettacolarizzazioni» già subito dopo la messa in onda. Ora sarà la magistratura a valutare quantomeno se sono state violate delle leggi.

Da video.corriere.it l'8 aprile 2021. La scuola con profitto, poi improvvisamente la droga, e infine l’ingresso in comunità terapeutica, a San Patrignano. Fabio Cantelli Anibaldi racconta «Sanpa» — dove ha vissuto 10 anni, prima come ospite e poi come portavoce e responsabile dell’ufficio stampa — in un video incontro con Micol Sarfatti, di 7. «Fu galeotto l’incontro con una ragazza di cui ero perdutamente innamorato», da lì cominciò l’immersione nel mondo dell’eroina. Entrò a San Patrignano nel 1983, ma già prima aveva fatto dentro e fuori da altre comunità. Arrivò da Muccioli con l’aiuto di Gian Marco Moratti. «Uno come Muccioli non lo avevo mai incontrato in vita mia...», dice Fabio. E ne ricorda lo sguardo «che sembrava capace di scrutarti dentro»; era «una persona fortemente empatica, capace a volte di prevedere le nostre azioni». «La prima volta che mi vide disse: “Io ti prendo anche oggi ma capisco che non sei ancora pronto”». A San Patrignano non si facevano discussioni serali in cui si analizzava la giornata. Si stava insieme si lavorava. «Vincenzo sapeva vedere l’uomo che potevamo diventare... e ci insegnava a relazionarci con gli altri, per capire che ogni nostra azione non è mai fine a se stessa ma ha una ricaduta, un’influenza sul mondo circostante. E che ognuno risponde delle proprie azioni, che non possono essere un beneficio solo per te stesso».

Marco Missiroli per Sette – Corriere della Sera l'8 aprile 2021. Noi di Rimini lo evochiamo ancora a voce timida: San Patrignano. Un sibilo che tiene insieme il rispetto, e il tumulto passato, verso la comunità di tossicodipendenti più importante del mondo. Verso il suo fondatore, Vincenzo Muccioli. Verso la cattedrale che era, e che è, lassù nella collina in faccia all’Adriatico. San Patrignano, Sanpa: sulle bocche dei nonni, delle madri e dei padri, di noi tutti, e per tutti questi decenni. E anche adesso, dopo il clamore del documentario distribuito da Netflix, l’anima di quell’epoca è tornata con un testimone cardine: Fabio Cantelli Anibaldi. Cantelli Anibaldi, che nella comunità si ripulì dal 1983 al 1995, è un ponte necessario tra il passato e l’oggi: per la sua storia di sommerso e salvato, per il nitore del suo pensiero nei confronti di quella lotta di vita. Il figlio accolto e ripudiato da San Patrignano, e ancora, e ancora, che fece sua la frase di Friedrich Hölderlin, «noi ci separiamo solo per essere più intimamente uniti. Moriamo per vivere». Morte e rinascita riversate già allora in un libro straordinario, La quiete sotto la pelle, uscito in libreria nel 1996 e ora ripubblicato da Giunti con una prefazione inedita e un titolo nuovo: Sanpa madre, amorosa e crudele. La madre che «fa e disfa, se vuoi essere altro da lei».

Altro cosa, Cantelli Anibaldi?

«Altro: io, come mi rivelò il Je est un autre di Rimbaud, letto a 17 anni. Quando finii il libro vivevo da più di dieci anni a Sanpa e non accettavo che una persona fosse stata ammazzata, che ci fossero stati due suicidi, che ci fossero altri fronti su cui fare luce. Sembrava che tutto questo stesse per essere derubricato a incidente di percorso. In più stava morendo Vincenzo Muccioli e l’intenzione dei Moratti era quella di affidare la comunità al figlio. Così mi sono detto: non è più un posto per me. E siccome ero l’unico del gruppo dirigente a pensarla così, ho capito che questa diversità andava coltivata. È chiaro che mettere in discussione San Patrignano voleva dire togliersi la terra da sotto i piedi. Ma io avevo fame di verità. Anche la mia formazione di filosofo mi ha aiutato: per me la ricerca della verità non era e non è un hobby, era ed è un’etica».

Ricerca di verità che l’aveva già costretto da tempo a dire Muccioli.

«Riguardo a Muccioli va detta una cosa: dopo ogni mia fuga dalla comunità mi ha sempre riaccolto. Anzi, io sono stato uno dei pochi a non aver aspettato un’ora davanti al cancello. Non so cosa lui avesse trovato in me. Ho visto gente aspettare al cancello anche un mese e non essere degnato di uno sguardo. Lui li metteva davanti alla prova, no?».

Il grande padre.

«Che poi è stato il suo limite: aver fatto di Sanpa una sua creatura in tutto e per tutto».

Una figura a ridosso del mito. Controversa, spaventosa, miracolosa, salvifica e cosa?

«La perdita della coscienza dei limiti. Ho conosciuto due Vincenzo Muccioli e mi piace identificarli con due personaggi letterari dello stesso autore, cioè Melville. All’inizio ho conosciuto il Muccioli-capitano-Achab che aveva la sua ossessione, la sua balena bianca e noi eravamo la sua ciurma. Siamo stati coinvolti in questa caccia alla balena ed è stato un viaggio entusiasmante. Ci ha portato dentro questa avventura con i suoi modi spicci e bruschi e affettuosi. Poi ha compiuto un errore: ha creduto di aver catturato davvero la balena bianca. E li è finito tutto, è finita l’utopia e lui si è trasformato in quest’altro meraviglioso personaggio di Melville che è Benito Cereno, il capitano che è ostaggio della sua ciurma ma che di fronte all’avvistamento di una nave nemica deve fingere di essere ancora un comandante a pieno regime». «Questa è la parabola di Vincenzo Muccioli. Lui si è fatto imprigionare dalla sua opera, dalle sue manie di grandezza e dal consenso che non ha saputo gestire, di cui si è inebriato. Anch’io al posto suo, vedendo questa sfilata di potenti, ministri, giornalisti che lo guardavano come fosse una bestia rara, un taumaturgo, un benefattore, un uomo coraggioso, avrei probabilmente fatto lo stesso errore. E non dimentichiamoci che, in ogni caso, lui fece quello che lo Stato non aveva fatto».

Chi era dunque Vincenzo Muccioli?

«Un grande educatore. Uso un’immagine che mi piacque molto perché quando la trovai dissi: questo è Vincenzo. È l’immagine descritta da un maestro Zen, Taisen Deshimaru, contenuta in un libro che lessi negli ultimi anni a San Patrignano. In un passo scrive che educare è come far volare un aquilone. Se lo lasci andare troppo, rischi di perderne il controllo. Se lo tieni troppo sotto controllo, l’aquilone cade». «Ecco, lui sapeva alternare queste due forze per farci apprendere l’equilibrio e l’autonomia, doti che al tossico mancano. Una parola che oggi si usa abbastanza a sproposito ma che gli appartiene è “empatia”: capacità di entrare dentro di noi, di decifrare i nostri stati d’animo. Sapeva qual era il punto fin dove poteva spingersi per suscitare una determinata reazione».

Empatia o manipolazione?

«Il Vincenzo che ho amato, il primo, era empatico».

Achab.

«Achab. Mentre Benito Cereno era inevitabilmente manipolatorio, perché quando gestisci una massa non puoi non esserlo. Diventi un seduttore, un demagogo, uno spacciatore di promesse e illusioni».

E cosa accadeva quando ti accorgevi di una presunta manipolazione?

«Tentavo un ammutinamento interiore. Accadde soprattutto quando cominciai a lavorare con lui e lo conobbi veramente da vicino, nell’ultimo periodo in cui ero a Sanpa. Ero la persona che occupava una delle tre scrivanie nel suo ufficio. Aveva capito che dovevo essergli vicino per tentare di non espormi ad altre fughe, ad altri tentativi di ritorno alla droga. Sapeva che avevo bisogno di un’intimità dal primo giorno che mi vide».

Glielo presentò direttamente Gian Marco Moratti, che conobbe grazie a Indro Montanelli.

«Con Moratti fu un incontro meraviglioso. Me lo procurò davvero Montanelli, perché mio padre adottivo era il critico cinematografico del Giornale. Andai da Moratti con mia madre che vedeva in San Patrignano l’ultima spiaggia. Ero stato in carcere, avevo già fatto una comunità, gliene avevo fatte passare di cotte e di crude. Insomma, entriamo in questo ufficio in Galleria De Cristoforis dove ha sede la Saras, l’azienda di famiglia petrolifera dei Moratti. Era uno spazio immenso e io non avevo mai visto un miliardario in carne ed ossa. A un certo punto arrivò Gian Marco, mi disse: “Vieni, diamoci del tu”. Ci sedemmo e notai che alle pareti c’erano quadri pazzeschi, ma non del ricco che volesse ostentare: Andy Warhol, Jackson Pollock, e qui pensai quanto amasse l’arte per questa sua originale. Poi Moratti iniziò a parlare: “Non ti racconto di Sanpa perché lo farà Vincenzo Muccioli quando vi incontrerete. Invece dimmi un po’ di te. Cosa fai?”. Risposi: “Bè, sai Gian Marco, io mi faccio”. “Ma i soldi per la roba come te li procuri?”. E già il fatto che lui avesse pronunciato la parola “roba” e non droga o eroina mi fece pensare che in qualche modo mi capisse. Vuotai il sacco: “Gian Marco, io rubo”. “E cosa rubi?”. “Rubo vestiti di boutique”. Poi gli spiegai che proprio in Galleria De Cristoforis c’era un negozio che visitavo spesso. E lui: “Ma scusami, la roba costa, devi portarne via tanti di vestiti. E come fai?” Così glielo mostrai: mi alzai e andai a prendere la mia giacchetta leggera che avevo lasciato a mia madre in fondo all’ufficio». «La presi mentre mamma sgranava gli occhi, rimanendo con quello sguardo allibito per tutto il tempo che illustrai a Moratti la pantomima del ladro: “Allora Gian Marco, il braccio destro lo tengo arcuato sotto la giacchetta ma non troppo, deve essere un incavo. La mano sinistra sfila i vestiti dalle grucce e li piega al volo di modo che si incastrino sotto il braccio coperto dalla giacchetta”. E mia madre con due occhi così. E Gian Marco anche, mi fissa esterrefatto e con un filo di voce dice: “Vedrai che Vincenzo ti aiuterà”».

Perché finanziò Vincenzo? Perché i Moratti diedero, si dice, circa trecento milioni di euro a San Patrignano?

«Perché Gian Marco era un miliardario atipico. E secondo me aveva un enorme senso di colpa per il fatto di essere troppo ricco. Aveva bisogno di liberarsi del suo denaro in modo giusto. E so che questa è una “tara” di famiglia perché anche suo fratello Massimo e il padre Angelo la pensavano così. Poi c’è anche il piano della fascinazione che Gian Marco e Letizia hanno provato di fronte a Vincenzo: credo dipendesse dal fatto che seppur potessero possedere tutto, non riuscissero comunque a colmare il gap che ricchi e potenti sentono nei riguardi della vita immediata. Il denaro è il mezzo per eccellenza: ti dà l’illusione di avere e potere tutto ma ti allontana dalla vita sorgiva, la vita come esplosione dionisiaca. E Muccioli era impetuosa espressione del dionisiaco».

Così a vent’anni, entrando a Sanpa, cominciava la sua seconda o terza vita. Prima ne aveva avuta una da bravo studente al Manzoni, e subito dopo una da tossico di eroina.

«Il primo atto di questa metamorfosi, nascosto anche a me stesso, avvenne quando avevo tredici anni. Successe guardando la copertina di un vinile di mia sorella, raffigurante questa figura di maschio ambigua, coloratissima, truccata: era il David Bowie dell’album Aladdin Sane. Fu un’esperienza sconvolgente perché non riuscivo a capire se fosse un uomo o una donna. Dopodiché ho detto: che me ne frega, io voglio diventare così».

Così come?

«Anomalo».

La droga attecchisce qui, nel desiderio di anomalia?

«Sì, anche perché io nel libro lo racconto. Non avevo nessuna attrazione verso quei rituali con le canne dei miei amici coetanei, non mi sembrava così interessante quel versante lì. Mi dicevo: se devo prendere una droga, scelgo tra quelle pesanti. Questo mi avrebbe reso diverso, anomalo, come mi sentivo».

E da questo pensiero ai fatti?

«Sono stato l’unico tossico, tra le migliaia che ho conosciuto, a cominciare direttamente con l’eroina in vena».

Che anno era?

«Il 2 aprile 1980».

Ricorda il giorno come certi amori.

«Non a caso tutto comincia con una ragazza, Alida, che veniva a prendere il suo fidanzato al Manzoni. Quando la notai mi sembrò di vedere Lauren Bacall, la moglie di Humphrey Bogart. Ti lasciava folgorato. Dopo qualche tempo successe qualcosa di straordinario: mi dissero che era interessata a me. E sa perché si interessò? Era venuta a sapere che avevo dieci in filosofia».

Straordinario.

«Eccome. Ci siamo visti poco dopo per un appuntamento al Bar Magenta dove lei si fece raccontare un po’ di me. Le svelai che facevo parte di questo movimento Neo-Dada fondato con il mio amico Omar, movimento fondato da noi due soltanto. Fu allora che dal niente mi informò che con il suo fidanzato sarebbero andati nella villa dei genitori sul lago di Lugano, per Pasqua, e che se avessi voluto sarei potuto andare con loro per qualche giorno di relax. E quindi accade che io e Omar ci andammo, a Lugano. Era appunto il 2 aprile».

E come si passa da qualche giorno di relax sul lago a farsi di eroina?

«Andammo in questa villa, e nel tardo pomeriggio dissi a tutti che sarei andato a preparare un tè. Cominciai ad armeggiare con le tazze, allestii il vassoio e tutto, rientrai nel salotto per servire gli altri. E qui vidi Alida che stava chiacchierando con il mio amico Omar, e poco distante il fidanzato indaffarato con della plastica traslucida. Di primo acchito non capii bene cosa fosse quella plastica. Poi avanzai e notai che erano siringhe da insulina, le cosiddette spade. A quel punto il fidanzato alzò la testa e disse: “Ti fai anche tu?”. Io dissi di sì. Il dire di sì di Nietzsche, l’amor fati. Poi Alida e questo fidanzato si giocarono chi di loro avrebbe avuto il privilegio di farmi il primo buco. Perché la verità è che io avevo anche un po’ paura degli aghi e volevo qualcuno che mi aiutasse. Vinse Alida, o forse il suo fidanzato le permise di vincere perché capiva che ci teneva molto. Così mi fece la prima iniezione di eroina».

Un buco d’amore.

«Che ebbe un seguito pazzesco, a cui il mio amico Omar non partecipò perché gli venne da vomitare e dormì per conto suo. Invece noi tre finimmo in questo lettone: tutti e tre insieme, perché Alida e il fidanzato erano una coppia bisessuale. E questo aumentava in me il loro fascino: Bowie e droga vera».

L’anomalo.

«La cosa fondamentale fu l’effetto di quella prima dose di eroina: decidevo cosa sognare, chiudevo gli occhi e appena mi addormentavo quella stessa materia onirica si manifestava. E ancora. Non mi è mai più successo in modo così nitido. Vivevo i sogni che volevo sognare. Accanto a me c’era Alida, ma era come se non me ne importasse più, anche quando sentii le sue mani addosso che mi accarezzavano, che mi frugavano. Avevo già trovato il massimo della vita, e di lei, per la quale veramente avevo spasimato per mesi, non mi interessava nulla. Quella volta capi la potenza dell’eroina».

E tornando da quella giornata decise di riprovare?

«Sì, volevo riprovare. Mi misi al seguito di un amico con cui andai a prendere la droga al parco Sempione e scoprii che non scendeva dal cielo come un nettare degli Dei allo steso modo di Lugano. C’erano gli spacciatori, bisognava avvicinarli, trattare».

«Fu buco molto avventuroso perché arrivò la polizia e tutti gli spacciatori si dileguarono lasciandoci a secco. Rimasi a bocca asciutta per un po’, finché mi offrirono tre Roipnol per ingannare l’attesa. Li presi, poi gli spacciatori tornarono e acquistai la mia dose. Mi bucai. E dopo apparve Papa Giovanni».

Pure il Papa.

«Dopo esserci drogati passammo da Parco Sempione a una sala prove in viale Washington dove volevamo fare musica rock, New Wave, con il nostro gruppo che si chiamava Nietzsche Dada Group. Mi misi ad accordare la chitarra, una Fender Stratocaster, ma mi addormentai sullo sgabello e mentre dormivo sognai Papa Giovanni in una posa da benedizione. Era un’effige che avevo visto in casa di mia nonna, mi sembra sul calendario di Frate Indovino. Insomma, l’effigie si incarnò nel sogno e quando aprii gli occhi rimase nella sala prove che andava avanti e indietro a benedire, con le movenze meccaniche degli orsetti dei tirassegni del Luna park. Così sono scattato in piedi e ho detto: fermi tutti, voi non sapete chi c’è qua!».

David Bowie, una ragazza chiamata Alida, il Vaticano. Che battesimo.

«Il vero rito di passaggio fu però quell’estate. Convinsi i miei ad andarsene al mare e rimasi da solo a Milano a prendermi cura della nostra gatta. Comprai la mia prima dose in autonomia e mi bucai da solo. Ebbi spavento della mia felicità. Non è mai facile essere felici, soprattutto quando lo diventi per un buco in vena»

Eppure adesso dà l’impressione di esserlo: un uomo felice. O quantomeno pacificato.

«Sì, perché non ho più un io».

E senza un io cos’è, Cantelli Anibaldi?

«Sono un canale. Attraverso cui la vita è passata e continua a passare senza incontrare troppe resistenze. Il mio filtro ha avuto maglie molto larghe e il rapporto ravvicinato con l’esistenza mi ha reso un ibrido tra Zelig e Gregor Samsa, tra la farsa e la tragedia. Vivo tra questi due poli. E adesso sento di avere una capacità di accogliere, maturata anche attraverso le batoste. Accolgo, accetto. Non interferisco. E come mi ha consigliato Kafka: “Nella lotta tra te e la vita, vedi di assecondare la vita”».

Quanto Muccioli e San Patrignano hanno concorso a questa consapevolezza?

«Molto. Nel mezzo ci sono state tante vite, è vero. Tra cui quella del malato inguaribile, con la scoperta della sieropositività. E in tutto questo ho intuito, sempre cammin facendo, quello che vorrei trasmettere anche ai ragazzi: c’è un altro tipo di felicità esistente, ed è la ricerca della felicità».

Lo disse Borges.

«Borges, esatto. L’etnografo di Elogio dell’ombra lo spiega benissimo. La felicità non è l’approdo, è il cammino. Il nucleo non è la fiammata, come credevo da ragazzo, ma custodire la fiammella. La felicità è la custodia quotidiana della fiammella. Nonostante un tempo passato e uno futuro».

Nel libro scrive che il tempo della sua memoria rispetto a San Patrignano sfugge al normale concetto di durata. È verticale, incomberà sempre. Con le sue salvezze, certo, ma anche con i suoi demoni.

«Quei demoni li gestisco non avendo paura delle emozioni che provo quando ripenso a Sanpa. Emozioni vive, intense come allora. Non ne ho paura, le vivo e dico: è un’esperienza che mi ha dato qualcosa di più, come negli amori che non scadono in routine».

Ancora quella parola: amore.

(Cantelli Anibaldi rimane in silenzio). «È al di là delle mie capacità. Io sono uno troppo assediato dai miei fantasmi per amare come l’altro spesso si merita di essere amato. Ho avuto, ciononostante, la fortuna di essere molto amato. Anche a Sanpa».

È mai tornato a trovarli?

«Vorrei. Dopo che lasciai la comunità nel 1995, l’unica volta che tornai in visita fu quando il mio amico Antonio — Pietro, nel libro — insistette a tal punto con la moglie di Muccioli che la signora Antonietta me lo concesse. Ci andai un fine settimana di primavera, mi pare fosse il 2000 o il 2001, e trovai una realtà completamente cambiata, non solo esteriormente. E nonostante questa diversità, mentre ero lì, ricordo un sentimento di gratitudine. Quasi».

Gratitudine rivolta verso qualcuno in particolare?

«Muccioli mi ha salvato, certo, nel senso che mi ha permesso di sopravvivere. Dopodiché la sopravvivenza non è ancora vita. All’esperienza di San Patrignano devo comunque l’avere imparato a “vivere ad altezza di morte”, come esortava Georges Bataille, autore amatissimo in gioventù. Il tossico rischia la morte ma non vive alla sua altezza, perché la morte è l’ultimo dei suoi pensieri. Mi faceva ridere chi parlava di “lento suicidio del tossicodipendente”. Parole presuntuose e ignoranti. Per il tossico la droga è la vita».

Come pensa a Vincenzo Muccioli, adesso?

«Uno dei grandi incontri della mia vita assieme a quello con don Luigi Ciotti e con il filosofo Carlo Sini, per limitarmi a quelli avvenuti quand’ero un ragazzo o un uomo ancora giovane. Nel bene e nel male è sempre dentro di me. Io so ciò che gli devo, lui lo sa che io lo so, e tra di noi è rimasto una cosa molto intima che è soltanto di noi due».

«Ho ancora le sette pagine che mi scrisse dopo che scappai da San Patrignano con una ragazza di cui ero innamoratissimo. Eravamo all’hotel Cardellini a Rimini dove mi fece recapitare questa lettera. Ancora la conservo perché in quelle parole c’è tutto l’amore che aveva per me. Ogni tanto la rileggo».

 E quando la rilegge è la balena bianca che torna o è l’uscita dal mare in tempesta?

«La balena bianca che torna. Io non sono mai uscito dal mare in tempesta, il mare in tempesta è la mia condizione, forse la mia vocazione».

Il mistero di Muccioli salvatore o padre-padrone Il mistero di Muccioli salvatore o padre-padrone. Luciano Nigro l'1/1/2021 su La Repubblica. Nel 1980 trovarono dei giovani incatenati e lo arrestarono. Rimase in carcere un mese ma molti erano con lui. Ha costruito la più grande comunità per tossicodipendenti, d’Europa. Una città con più di duemila ragazze e ragazzi che si ricostruiscono una vita lavorando la terra, producendo vino, formaggi e pellicce, stampando riviste e allevando polli e cavalli di razza. Una città visitata da capi di governo e ministri in pellegrinaggio alla ricerca di una politica sulla droga. (È su quella collina a due passi da Rimini che nacque la legge che aprì il carcere ai tossicodipendenti). Personaggio straordinario, carismatico, grande comunicatore, Vincenzo Muccioli è stato una delle figure più controverse degli anni Ottanta e Novanta. Un santo, per le famiglie che vedevano in lui e nella sua San Patrignano l’unica speranza per strappare i figli da un vicolo cieco fatto di carcere, prostituzione e morte. Un truffatore, per altri, un megalomane che ha costruito un impero sulla violenza. Chi era davvero Vincenzo Muccioli e qual è la verità su San Patrignano? Domande che hanno spaccato in due l’Italia per vent’anni, rese terribilmente attuali in questi giorni dalla docuserie “Sanpa” di Netflix. Una produzione avvincente e di alta qualità che esce in un momento in cui l’eroina e i cocktail di droghe tornano a dilagare e a uccidere. C’è un limite ai metodi di cura o per salvare un tossicodipendente è ammessa qualunque cosa, non solo la privazione della libertà, ma anche la violenza? E se lo si ammette, chi controlla che il terapeuta non abusi del proprio potere? Non c’è il rischio che metodi del genere sfuggano di mano? In quella serie sono finito anch’io quando gli autori e la regista Cosima Spender hanno scoperto che San Patrignano era un pezzo della mia vita perché ero stato tra i primi a scriverne. Avevo 22 anni e lavoravo per radio e giornali locali. Attorno a me vedevo gente che aveva fatto politica, ragazzi della mia età distrutti dall’eroina, quando seppi di una comunità di drogati, così li chiamavano tutti allora. Li curano con il lavoro, diceva qualcuno. Un posto strano gestito da un santone con 12 apostoli che si fa dare denaro dai Vip, secondo altri. Curioso, ci andai. Trovai i figliodi Enrico Maria Salerno, di Paolo Villaggio... Ma c’erano anche decine di ragazzi, in quella casa colonia tra i campi con l’aggiunta di qualche roulotte, che guardavano Muccioli con ogni sognanti. E al centro Vincenzone, un po’ padre padrone e un po’ mamma. Che voleva bene a quei ragazzi e spiegava che la scimmia si cura anche con la forza. Io non li lascio perché vadano ad ammazzarsi, diceva. In tanti scappavano, correvano le voci più disparate. Santo o santone? Me lo chiedevo, volevo capire. Un giorno di ottobre, era il 1980, la notizia: hanno arrestato Muccioli. La polizia aveva trovato dei giovani incatenati nel canile e nella piccionaia, tra lo sterco, al freddo. E quel mattino tirava un gelido vento di tramontana. Rimase in carcere un mese, Muccioli. E in quel mese andai spesso a San Patrignano: mi colpiva la forza di quei quaranta ragazzi. Che si arrabbiavano perché avevo scritto un articolo dal titolo “Faceva vedere persino le stimmate il santone di San Patrignano”. Divenni amico di alcuni di loro. E quando Muccioli uscì di galera, ero lassù e discussi con lui animatamente per ore. «Io li salvo, lo Stato non fa niente». «Sì, ma tu non puoi incatenarli e dire lo Stato qui non entra». «Lo Stato sa solo distribuire metadone». Mi sfidò a un duello televisivo su una tv locale. Lui, col suo vocione, stravinse. Ma gli spettatori chiamarono fino alle 3 di notte, si toccava con mano quanto fosse sentito quel dramma. Un giudice, Vincenzo Andreucci, disse che avevano sbagliato, ma non li mandò a processo. Ordinò però il rispetto di alcune regole, prima tra tutte il controllo dello Stato. Altre fughe. Altre denunce di violenze. Lo stesso giudice, due anni dopo, chiese il processo. Il famoso processo delle catene. Finì nell’85. Muccioli fu condannato, ma l’opinione pubblica era con lui. E due anni dopo fu assolto. Ormai era una star. La sua comunità era diventata una città. E c’era la fila fuori. Delle mamme, ma anche di ragazzi disposti a farsi rinchiudere e persino picchiare pur di liberarsi della droga. Io lasciai Rimini e per molto tempo non mi occupai più di Sanpa. Finché nel 1993 salta fuori il caso Maranzano: un ragazzo pestato a morte, nella macelleria, torturato con le scariche elettriche per i maiali. Il suo cadavere era stato gettato in una discarica vicino a Napoli. Dissero che era scappato. E invece era stato massacrato di botte nella macelleria. Lo sapeva Vincenzo? Quella morte era figlia del metodo Muccioli? Cosa era accaduto? Troppo grande la Comunità? La violenza di piazza ritornava nella gestione dei capetti? Un incidente di percorso, rispondeva Sanpa, migliaia di giovani qui si salvano. Era vero. Come erano vere le morti e le violenze, forse sfuggite di mano. E di nuovo la domanda: qual è il limite di una terapia? E chi controlla, se non lo Stato? Domande che sono tornate ad affiorare nel documentario di Netflix. E che anche oggi fanno discutere. Muccioli fu condannato a 8 mesi per favoreggiamento, ma la vicenda lo colpì nel profondo. Pochi mesi dopo morì. C’è chi giura che fosse Aids, ma la comunità smentisce. E anche la sua morte rimane un mistero.

Da ansa.it il 2 gennaio 2021. "La comunità San Patrignano si dissocia completamente dalla docu-serie messa in onda da Netflix". Così la comunità commenta SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano docu-serie originale italiana Netflix da pochi giorni disponibile, definita versione "unilaterale". "Il racconto che emerge - spiega una nota - è sommario e parziale, con una narrazione che si focalizza in prevalenza sulle testimonianze di detrattori, per di più, qualcuno con trascorsi di tipo giudiziario in cause civili e penali conclusesi con sentenze favorevoli alla Comunità stessa, senza che venga evidenziata allo spettatore in modo chiaro la natura di codeste fonti".

Viva Sanpa, quel gran film che spiazza reazionari e libertari. Davide Varì su Il Dubbio il 3 gennaio 2021. La docuserie Netflix sulla comunità di San Patrignano di Vincenzo Muccioli è una coltellata alla cattiva coscienza di questo paese, un ceffone alla sua memoria rimossa. Forse la verità sta nelle parole che un ragazzo pronuncia più meno a metà film: «Non ho mai sopportato quelli per cui San Patrignano era o tutto bene o tutto male». Lo ha notato giustamente Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa. Di certo la serie Sanpa, sull’esperienza della comunità di recupero di San Patrignano è una coltellata alla cattiva coscienza di questo paese, un ceffone alla sua memoria rimossa. In quegli anni Vincenzo Muccioli è stato beatificato e, qualche tempo dopo, trattato come il nemico pubblico numero uno. Quel che dobbiamo chiederci di quella esperienza, soprattutto per un giornale come il nostro, e se sia possibile conciliare diritto alla cura e diritto alla dignità della persona. Le istituzione totali – le carceri, i manicomi – sono il prodotto di un cultura punitiva e coercitiva che ha radici profondissime e non c’è dubbio che la San Patrignano di Muccioli abbia seguito quella scia, quel modello. Certo, è vero, quei ragazzi non erano costretti a stare lì e da un momento all’altro avrebbero potuto aprire i cancelli di San Patrignano e andare via. Ma su di loro pesava la condizione di “tossico”, una sorta di camicia di forza sociale che, di fatto, ne limitava libertà e diritti. Ed è proprio in questa fragilità che si è insinuato il “metodo Muccioli”, in questo pertugio tra senso di colpa e anelito di libertà: libertà a voler uscire dal dominio dell’eroina. Sono passati tanti anni da quella esperienza. La droga, anzi, le droghe, sono diventate un modo molto più complesso e articolato e il metodo repressivo e punitivo sta tramontando ovunque. Ma quel che ci interessa come Dubbio è questa continua tensione tra diritti della persona e autoritarismo paternalista. Forse quei ragazzi avrebbero potuto uscire dall’eroina senza l’uso delle catene e senza frustate. Oppure, chissà, se invece non avessero incontrato Muccioli e i suoi metodi molti di loro non sarebbero qui a raccontare la loro esperienza. Perché forse la verità non esiste, esiste invece la complessità delle cose, esistono i chiaroscuri e riaffermarlo ci salva dal dominio violento e arrogante dell’inconsistente, mettendoci al riparo da chi, a distanza di venti anni, invece di ragionare su quella esperienza preferisce dividersi in modo ideologico in pro-Muccioli e anti-Muccioli. Insomma, quell’ex ragazzo di San Patrignano ha perfettamente ragione e anche noi non sopportiamo “quelli per cui le cose sono tutto bene o tutto male”.

Marco Giusti per Dagospia il 3 gennaio 2021. Fidatevi. “Sanpa”, lungo documentario prodotto da Gianluca Neri e diretto da Cosima Spender per Netflix non solo è meglio di “Bridgerton”, ma anche di qualsiasi commedia e film italiano visto ultimamente, da “Favolacce” a “Hammamet”, perché racconta chiaramente una storia italianissima alquanto oscura che coinvolge nel bene e nel male davvero tante persone, e molte finite proprio male, con la quale non abbiamo mai fatto davvero i conti. Storia che non conveniva e non conviene neanche adesso proprio a nessuno raccontare, né allo Stato, che del problema dei tossici si è sempre lavato le mani, vai col metadone, né ai tanti genitori che vedevano i figli morire, né a chi ci metteva i capitali, come i Moratti, né a politici e a televisivi che appoggiavano incondizionatamente Muccioli. E tanti sono ancora lì. Ricordate quel che cantava per tutti Paolo Rossi ai bei tempi, “Era meglio morire da piccoli, soffocati da un bacio di Muccioli…”? Ecco, il bacio di Muccioli, con tutta la sua violenza patriarcale, lo troviamo disteso per cinque ore in questa ricostruzione equilibrata e ricchissima di materiali, dichiarazioni, storie nelle storie del centro di recupero-lager di San Patrignano dai primi anni ’80 alla morte del fondatore. Sfila sotto i nostri occhi tutto quello che abbiamo visto e sentito in tv in quegli anni, nuove dichiarazioni a parte, ma forse non volevamo davvero vedere e sentire fino in fondo le voci provenienti da un inferno che pensavamo riguardasse quel che Muccioli chiamava “la feccia della società”, le centinaia e centinaia di ospiti-prigionieri, arrivarono a 1500, che riempirono le camerate del centro. Con le tante morti che dovette affrontare poi con l’arrivo dell’Aids. Si rimane impressionati a vedere le immagini di così tanti tossici dietro al guru, omone di 1, 90 per 130-170 chili, ma anche a rivedere quelle della tv del tempo, quasi tutta socialista, da Minoli a Vigorelli ai tiggì2 con la Gruber, che dava spazio a Muccioli e ai suoi deliri da padre-padrone. Per non parlare delle incredibili dirette, queste sì mai viste, almeno da me, di Red Ronnie, sorta di groupie di Muccioli, pazzamente innamorato del santone, che segue durante il primo processo e poi ovunque. Un Red Ronnie che oggi dice le stesse cose di allora. Ma sentite anche le dichiarazioni di allora di Indro Montanelli che difende Muccioli riconoscendolo come uomo della provvidenza, “Io avevo Mussolini. Ho portato la camicia nera con entusiasmo fino ai 25 anni”. E non mi ricordavo la durezza di Enrico Maria Salerno che abbandona suo figlio Nicola alle braccia di Muccioli augurandogli una buona morte. Ora, non si tratta di stabilire se Muccioli fosse un santo o un mostro, credo che il suo faccione luciferino dica molto di più da solo, un buon padre violento o solo un violento, quanto di capire da una parte perché lo Stato, che in fondo è sempre stato mollo come un Conte2 o Conte-ter, glielo abbia fatto fare, da un’altra perché l’Italia, che usciva dagli anni di piombo del terrorismo e entrava in quelli dell’eroina al ritmo dei primi show di Canale 5, non si sia seriamente preoccupato del problema. C’è ancora chi si domanda perché non vennero mostrate, nemmeno dai giornali di sinistra, le fotografie dei ragazzi incatenati ripresi nelle piccionaie di Muccioli che fecero partire il primo processo nel 1983. Insomma. Dove eravamo? Chi eravamo? E chi siamo? Abbiamo avuto tutti amici o conoscenti o parenti tossici. Ci siamo voltati dall’altra parte. E ancora lo facciamo, presumo. E’ allora che arrivano i Muccioli che ti soffocano con un bacio. Spinti dalla politica e dalla tv legata alla politica. Letizia Moratti arrivò alla presidenza della Rai piazzando a Rai Due Gabriele La Porta, che fece un incredibile Capodanno da San Patrignano che ancora ricordo. Oggi, a tanti anni di distanza, ripeto, le cose non sono così cambiate. Red Ronnie dice ancora le stesse cose, San Patrignano sta ancora lì, lo Stato è ancora imbelle. A chi importa dei tossici? Anche i sopravvissuti, intervistati nel documentario, a parte Walter Delogu, padre di Andrea, nata proprio lì, braccio destro e body guard di Muccioli, sembrano davvero reduci di un lager. E’ stata una tragedia e tanti ne portano ancora i segni. Ma per me, il problema principale del documentario, è che non sia prodotto dalla Rai Perché quasi tutto il materiale è Rai. E questo è servizio è pubblico. 

Da ilfattoquotidiano.it il 15 gennaio 2021. “Parli senza conoscere l’argomento”, “Cretino, tu di me non sai niente”. Botta e risposta al vetriolo tra Luca Bizzarri e Red Ronnie su Twitter, con un crescendo che ha scaldato sempre più gli animi, sfociando in una vera e propria lite a distanza. Al centro della discussione c’è la discussa serie di Netflix “Sanpa” su San Patrignano, che nelle scorse settimane è stata al centro di grosse polemiche. Tutto è incominciato da un tweet di Bizzarri, che rilanciava un altro post di Matteo Salvini in difesa della comunità. “Se uno pensa che Sanpa ‘infanghi’ San Patrignano ci sono due possibilità. O non l’ha vista, o l’ha vista e non ci ha capito una fava. Chissà cosa è meglio augurarsi per il leader dell’opposizione”, ha scritto l’attore. “Luca mi dispiace che tu parli di qualcosa senza conoscere l’argomento, senza mai esserci stato e magari senza aver mai visto un ragazzo a rota (in astinenza) o genitori disperati. Non credo tu difenda la serie per ingraziarti Netflix ma solo perché parli senza sapere“, è intervenuto Red Ronnie a gamba tesa, contestando il tweet. Al che Luca Bizzarri gli ha risposto piccato: “Tu di me non sai nulla, e non sai che so perfettamente di cosa sto parlando. Tu pensi che ‘Sanpa‘ sia un attacco a San Patrignano ma è un’analisi di ciò che è stato e ne fa uno splendido riassunto Cantelli: sono vivo grazie e nonostante. Chi deve ingraziarsi qualcuno non sono io“. “Luca, leggi queste storie che ogni giorno pubblica OptiMagazine. Ne hai vista qualcuna raccontata dalla serie su Netflix? No, nessuna. Solo negatività. Eppure sono migliaia”, ha rilanciato quindi Red Ronnie. “Non solo negatività, e ti ripeto: attento a giudicare chi non conosci. Perché faresti un’altra figura poco intelligente”, la stoccata Bizzarri. A questo punto i toni si sono accesi: “Strano Luca non ti ho mai visto a San Patrignano. Nè a parlare con i ragazzi o Vincenzo prima e Andre poi o con genitori di tossici. Però sai che Sanpa ha fatto un’analisi giusta. Per quanto riguarda Cantelli è VIVO solo GRAZIE a San Patrignano altrimenti sarebbe morto da anni”, ha incalzato il giornalista e conduttore radiofonico. “Se tu sapessi di cosa stai parlando e cosa ho passato io, caro il mio imbecille, ti vergogneresti come un cane. Tu e il cretino che ha messo il like”, è quindi esploso Bizzarri. “Ok se offendi e mi dai dell’imbecille passo e chiudo. Buona vita“, tenta di chiudere Red Ronnie. Ma l’attore incalza: “Del cretino, e se ti incontro te lo dico in faccia, che di me e di cosa ho passato non sai una sega e ridi alle battutine dei tuoi fan. Idiota. Non so se sono stato chiaro”, chiosa.

Da vigilanzatv.it il 4 gennaio 2021. SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano, prima docuserie prodotta da Netflix Italia, è promossa a ogni piè sospinto su tutti i giornali, e anche in Tv. Per giunta, attraverso patinatissimi spot in onda sulla stessa Rai, divenuta principale vetrina di sponsorizzazione per i prodotti delle piattaforme streaming concorrenti di RaiPlay pagata con il canone. A tal proposito, fin dalle prime scene della docuserie che ricostruisce la storia della comunità per tossicodipendenti fondata alla fine degli anni Settanta da Vincenzo Muccioli, è evidente che senza le teche Rai e senza la mole di materiale fornito dal servizio pubblico radiotelevisivo, SanPa non si sarebbe potuta realizzare.

Il commento di Michele Anzaldi. Considerato tutto ciò, e prendendo anche spunto da una interessante disamina del Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi sull'Huffington Post, che sottolinea fra le altre cose come la serie su Vincenzo Muccioli abbia visto la luce "grazie a Netflix, una Tv commerciale a pagamento", ci domandiamo per l'appunto come mai non sia stata prodotta dalla Rai.

A che serve Rai Documentari? La stessa Rai che ha allestito una struttura ad hoc, Rai Documentari, il cui responsabile qualche giorno fa si vantava del successo di pubblico di un docufilm acquistato all'estero (Pompei, l'ultima scoperta) e spacciato come prodotto realizzato da Viale Mazzini. A che serve, a questo punto, la costosissima Rai Documentari se le docuserie con materiale Rai proprietà del servizio pubblico le producono le piattaforme di streaming private?

Oltre il danno, la beffa. SanPa si regge almeno per il 90% su materiale Rai; su filmati e documenti realizzati dalla Rai; su frammenti di trasmissioni andate in onda sulla Rai e condotte da giornalisti Rai. Eppure per realizzare SanPa c'è voluta Netflix, una Tv commerciale a pagamento, tanto per ribadire le parole dell'On. Anzaldi. E, paradossalmente, la stessa Rai fa pubblicità alla docuserie che è l'emblema del suo fallimento come servizio pubblico, visto che, per vedere preziosissime immagini di repertorio Rai che paghiamo con il canone siamo obbligati a pagare anche l'abbonamento a Netflix. Oltre il danno, la beffa insomma. 

CHE FINE FECE LA FICTION RAI SU SAN PATRIGNANO, PER LA QUALE FURONO PAGATE LE SPESE ALLA LUX VIDE? DAGONOTA il 5 gennaio 2021. Che fine fece la fiction Rai su San Patrignano “in preparazione” nel 2006, per la quale furono pagate le spese alla Lux Vide? Ennio Fantastichini era già pronto a interpretare Muccioli, ma la Comunità non approvò la sceneggiatura neanche dopo numerose revisioni. Trasformato in un primo momento in un'ipotesi documentario, il progetto fu poi definitivamente abbandonato, gli sceneggiatori liquidati e non se ne parlò più.

Da film.it - 04 MAGGIO 2006. È in preparazione una miniserie televisiva su Vincenzo Muccioli e la comunità di San Patrignano, prodotta dalla Lux Vide per la Rai. Il titolo è Vincenzo Muccioli. Una passione per la vita. Il primo ciak è previsto tra luglio e agosto. Si tratta di una fiction biografica che vuole raccontare la vita del fondatore della comunità di San Patrignano (per il recupero dei tossicodipendenti) nel periodo che va dal 1978 al 1995. 

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 4 gennaio 2021. La docu-serie «SanPa: luci e tenebre di San Patrignano» è una grandiosa occasione per riflettere su una storia che ha segnato un'epoca del nostro Paese (Netflix). Nata da un'idea di Gianluca Neri, scritta insieme a Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, l'inchiesta in 5 puntate racconta la controversa storia della comunità di recupero di San Patrignano fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978, a Coriano, in provincia di Rimini. Non c'è una voce fuori campo (una presa di posizione), ma solo un susseguirsi di testimonianze e di immagini di repertorio che creano un grandioso polittico senza mai ventilare giudizi moralistici, senza mai separare il bene dal male. Anche se alla fine, lo spettatore riesce a farsi un'idea sulla complessa, contraddittoria figura di Muccioli e sui suoi metodi di recupero. La piaga dell'eroina che, in quegli anni, aveva spezzato un'intera generazione e la volontà di Muccioli di salvare la vita di moltissimi giovani, nella totale assenza dello Stato, sono alla base di un progetto che per anni ha vissuto in una sorta di culto mediatico. I genitori incapaci di salvare i figli drogati vedevano in Muccioli, il salvatore, il santone, la guida spirituale. Ci sono testimonianze davvero notevoli, come quelle di Fabio Cantelli, ex ufficio stampa della comunità («Sampa è entrato in crisi quando ha pensato che la sua immagine pubblica fosse più importante della sua verità interiore»), del magistrato Vincenzo Andreucci, di Walter Delogu, l'autista e guardia del corpo armata di Muccioli. C'è il ruolo fondamentale giocato da Gianmarco e Letizia Moratti, affascinati dal carisma del fondatore. C'è il discorso dei e sui media (Costanzo, Mike, Minoli, Zucconi, la Rai ai tempi della presidenza Moratti) che prima hanno costruito il mito pop di Muccioli e poi non hanno esitato ad affondarlo. È una narrazione di confine, a ricordarci che spesso la realtà dei guru è una creazione dei loro eccessi.

Franco Giubilei per "la Stampa" il 4 gennaio 2021. Quando la storia di decine di migliaia di persone segnate da dipendenze pesantissime è tenuta insieme da una figura come Vincenzo Muccioli, col suo carisma patriarcale, si capisce come il racconto di Netflix risvegli i fantasmi di vecchie, ma roventissime polemiche. Quanto sia rimasto oggi dell'impronta del fondatore, che governò San Patrignano come una repubblica autonoma con generosità pari alla determinazione con cui incatenava i tossici in astinenza, è una questione attuale cui risponde il presidente della comunità, Alex Rodino. Anche lui, come tutti coloro che ci lavorano, è entrato qui dentro da tossicodipendente, nell'84, dunque le vicende della docuserie le conosce bene, anche se la notizia dell'uccisione di Roberto Maranzano da parte di altri ospiti di San Patrignano la seppe solo più tardi: «Ne lessi sui giornali (era marzo del 1993, ndr), ed è stato pesante portare avanti i ragazzi con quell'attenzione dei media addosso, ragazzi che magari prendevano a pretesto quelle vicende per lasciare il percorso di recupero», ricorda Rodino. Il reparto punitivo dov'era maturato il pestaggio mortale, avvenuto nella porcilaia, era la macelleria. L'omicidio fu tenuto segreto per quattro anni e il cadavere fatto sparire. Oggi però SanPa è un altro mondo e della filosofia del fondatore sono rimasti i principi-base a guidare la vita dei circa mille ospiti attuali: «L'impronta di Muccioli sta nei principi fondanti di rispetto reciproco e di accoglienza che chi viene dalla piazza, i tossicodipendenti, non pratica. Nei primi anni della comunità quell' impronta era fortemente accentuata». Partita senza alcuna esperienza né competenza specifica - a fine Anni 70 in Italia nessuno sapeva niente di aiuto agli eroinomani, i servizi pubblici erano assenti, tossici e famiglie erano abbandonati al loro inferno quotidiano -, col tempo San Patrignano ha mutato i propri interventi: «I metodi si sono affinati e oggi c'è un vero gioco di squadra rispetto ad allora, quando la guida era una - aggiunge il presidente -. All' inizio da qui si scappava, oggi quasi più nessuno lo fa, e se qualcuno lascia la comunità è libero di farlo». Niente di paragonabile al modo in cui Fabio Anibaldi, capo della comunicazione di SanPa ai tempi di Muccioli, fra i protagonisti del documentario Netflix, venne riacciuffato dopo una delle tante fughe: una squadra di SanPa lo andò a prelevare a Milano e lo riportò a San Patrignano, dove smaltì l'astinenza chiuso a chiave in uno stanzino per più di due settimane, come racconta lui stesso. «Difficile oggi spiegare nella maniera giusta - osserva Rodino -. Abbiamo cercato di fare tesoro degli errori, anche per aumentare l'efficacia del recupero». L'impronta autoritaria «è sfumata», resta invece il principio per cui «non si deve giudicare nessuno, bisogna rispettare il vissuto di chiunque. Per fare del bene ci vogliono persone per bene, ed è quel che ha prevalso». In questo quadro complesso, la docuserie di Netflix ha riaperto una ferita: «La riapri comunque, qui però il problema è che la storia viene raccontata solo in parte, una parte che esiste e non va rinnegata ma che lascia fuori tante cose importanti». Nel 2020, nonostante il Covid, sono stati reinseriti in società 250 ragazzi: «Da dieci anni facciamo prevenzione nelle scuole. Un tempo si parlava solo di recupero, oggi, molto di più, di reinserimento».

Massimo Calandri per “la Repubblica” il 4 gennaio 2021. «Ho visto le prime 3 puntate su Netflix: per ora, mi è sembrato abbastanza veritiero. Ma di quel posto hanno scelto di raccontare soprattutto la cupezza. Forse perché il pubblico è morboso: preferisce la violenza, alle storie belle. Però San Patrignano era pure sorrisi, giornate di sole. Fiori». Piero Villaggio - figlio di Paolo, l'attore genovese - aveva 22 anni: si faceva di eroina da sette, quando i genitori, dopo diversi tentativi falliti in cliniche italiane e svizzere, lo affidarono disperati alla comunità di Vincenzo Muccioli.

«Era l'84. Io, un tossico. Mi hanno messo davanti a quel gigante col vocione e per stanchezza gli ho detto: facciamo come dici tu. In realtà pensavo che sarei scappato, per andare a drogarmi. È finita che sono rimasto fino all'87».

"SanPa: luci e tenebre". Alla Comunità dicono che la docu-serie racconti solo le ombre.

«È difficile spiegare San Patrignano, se non l'hai vissuto. La ragione non sta solo da una parte: può essere bianca, nera o grigia, dipende dalla prospettiva. Glielo avevo detto, a quelli di Netflix. Mi avevano contattato, perché raccontassi tutto: va bene, ma prima spiegatemi esattamente cosa ne volete fare. Non li ho più sentiti».

E allora di che colore è la ragione, a San Patrignano?

«Volete sapere se ci sono state violenze, ingiustizie, bugie, dolore? Sì, molte. Ma non solo. Un tossico, se ha la roba, è tranquillo: però quando gli manca, non c'è più niente di normale. E tu, dalla tua prospettiva, non puoi raccontare, giudicare, spiegare. Non puoi, se non l'hai vissuto. San Patrignano era un mondo a parte: con gente piena di problemi, grossi problemi. E un uomo che quella gente voleva solo salvarla. A qualunque costo».

Vincenzo Muccioli.

«Un bestione di un metro e 90 per un quintale, un leone: faceva paura. Tirava certi schiaffoni. Ma aveva anche un carisma, una sensibilità, un'empatia incredibili: gli passavi accanto, e lui aveva già capito cosa ti girava nella testa. Quando sono entrato c'erano 180 ospiti, 3 anni dopo eravamo 600: gestiva tutto da solo. Ha commesso tanti errori, spesso ha esagerato: ma aveva ragione, credetemi».

Le violenze, ha detto.

«Una volta ho portato da mangiare a un ragazzo: era stato rinchiuso in una stanza, nudo. Sono tornato da Vincenzo, davanti ad altre persone gli ho urlato: "Sei pazzo, non puoi trattare la gente così". Che ceffone, ho preso. Qualche ora dopo, da soli, mi ha spiegato: "Devo farlo, con voi non ho alterative". Era giusto così».

Ha mai visto delle persone incatenate? (Pausa)

«Se le avessi viste, non ve lo direi. Ma posso dirvi che molti di quelli che sono scappati, poi sono morti. Vincenzo voleva solo evitare che si uccidessero».

Qualcuno lo ha denunciato, Muccioli è finito in carcere.

«Lo avevano accusato delle persone che volevano andarsene da San Patrignano, e non essere più riprese. Spesso qualcuno cercava dei pretesti per destabilizzare la situazione, e trovare così un motivo valido per fuggire. E tornare a drogarsi. Ci sono invece state cose orribili, imperdonabili: come la morte di Maranzano, pestato a morte nella macelleria chissà da chi. Qualcuno avrebbe dovuto avere il coraggio di ammettere che succedevano anche cose brutte».

Lo ha mai odiato?

«Tante volte. Ma il punto è sempre quello: la prospettiva. E spesso la mia era quella di un tossico. L'ho odiato e gli ho voluto bene, anche se quel giorno dell'87 sono andato da lui e gli ho detto che non mi piacevano troppe situazioni. San Patrignano era un microcosmo: con le sue invidie, gelosie, miserie.

"Se dopo 3 anni non hai capito e te ne vuoi andare, vattene": così mi ha detto. Il giorno dopo ho preso la valigia, lui ha rifiutato di salutarmi. Però quando sono entrato lì ero all'inferno, e Vincenzo mi ha reso un uomo libero».

A 59 anni, Piero Villaggio oggi vive in un casale in provincia di Perugia, insieme alla moglie. E gestisce un'enoteca. Non ha figli. Ma se ne avesse avuto uno disperato com' era lei allora, lo avrebbe mandato da Muccioli?

«Mi spiace dirlo però sì, non ho dubbi: lo avrei portato in quella comunità. Perché lui avrebbe fatto di tutto, per salvarlo».

Le mancano ancora un po' di puntate, alla fine del docu-film.

 «Lasciatemi vedere SanPa sino in fondo, prima di esprimere un giudizio. Spero che prima o poi mostrino anche il sole, i fiori, i sorrisi perché è stato un posto fantastico. Sorrisi che ci sono ancora oggi, ne sono sicuro. Anche se quel posto non lo potrai mai spiegare, se non l'hai vissuto sino in fondo».

Francesco Borgonovo per "la Verità" il 5 gennaio 2021. Nel documentario di Netflix su San Patrignano - una delle serie più dibattute degli ultimi anni - c'è un passaggio che spiega, almeno in parte, la virulenza delle polemiche e le divisioni ideologiche ancora oggi suscitate dalla figura di Vincenzo Muccioli, il fondatore morto nel 1995. È uno spezzone di un' intervista televisiva concessa da Paolo Villaggio, che parla senza indossare le abituali maschere e racconta della dipendenza di suo figlio Piero. Muccioli, dice Villaggio, «ha fatto quello che noi padri progressisti non abbiamo avuto il coraggio di fare». Piero Villaggio è entrato a San Patrignano a 22 anni, dopo 7 di dipendenza. Era il 1984: uscì nel 1987 e oggi ha una famiglia, un lavoro. Di Muccioli ora dice: «Ha commesso tanti errori, spesso ha esagerato: ma aveva ragione, credetemi». Eppure gli schiaffoni li ha presi anche Piero, l'odio per il fondatore si è fatto strada pure dentro di lui. Ma ecco le sue parole, una vita dopo: «Aveva ragione, credetemi». A tanti succede di pronunciare frasi simili, magari a seguito di litigi feroci, magari a decenni di distanza, persino con un filo di rabbia che ancora affiora nei confronti di un genitore difficile da digerire. «Aveva ragione lui»: è quel che dice il figlio, adulto, ripensando al padre. Ecco, forse il punto è proprio questo. Ciò che tuttora infastidisce molti, che tuttora inquieta, è la ingombrante paternità che il Fondatore esalava, e che tracima da ogni fotogramma del docufilm di Netflix. Muccioli aveva il ruolo del patriarca stampato nella carne. Un metro e 90, oltre 100 chili, mani come pagaie da mulinare alla bisogna, i baffi e i capelli curati del signore di una volta. Il Padre italiano, un archetipo vivente. E come un padre, da subito, si è comportato. Non a caso la metafora paterna ricorre più e più volte sulle labbra di chi lo ricorda in video. «Seguiva tutti i ragazzi, uno per uno», spiega a un certo punto Fabio Anibaldi, poi diventato uno dei più duri critici di SanPa. Muccioli stesso usava riferirsi ai tossicodipendenti della comunità come ai suoi figli. Se riuscivano a scappare, li andava a riprendere a casa dei genitori naturali. Quando li accoglieva, metteva subito in chiaro le regole: «Se volete andare via, io non vi lascio andare via». Questo, del resto, è il compito del Padre: egli è colui che fissa le regole, che disegna il perimetro entro il quale il figlio ha la libertà di muoversi. Era un padre antico, l' enorme Vincenzo. E sulla paternità aveva costruito tutto il suo sistema: una rigida organizzazione verticale basata sulla disciplina, sul lavoro e sull' ordine. Sui confini e sui limiti, che sono indispensabili per chiunque voglia sottrarsi a una vita di caos. Muccioli ha edificato il suo modello alla fine degli anni Settanta, in piena contestazione, cioè nel tempo in cui il modello «patriarcale», nell' ora del tramonto, veniva calpestato da orde di giovani e intellettuali che preferivano una società orizzontale, meno regolamentata e apparentemente più libera. Di che libertà si trattasse lo abbiamo scoperto nei decenni successivi. La droga ha continuato a diffondersi, i rapporti tra genitori e figli non sono certo migliorati, e l' approccio «materno», oggi così diffuso, sembra aver prodotto soltanto più fragilità. Certo, guardando il documentario s' intuisce che la fragilità, talvolta, a San Patrignano non aveva vita facile. Questo è il rischio di un modello verticale: può accadere che qualcuno si spezzi. È accaduto, nella comunità romagnola, ed è stato tragico. Ma quanti ne sono usciti in piedi? Quanti sono morti e poi risorti dopo un passaggio all' inferno? Qualcuno, anche adesso, ricorda le catene, le botte, le umiliazioni. Un ex cronista dell' Unità, fra le voci più presenti nel docufilm, sostiene che l' opinione pubblica negli anni Ottanta stesse dalla parte di Muccioli perché lui i drogati li incarcerava, li faceva sparire dalla circolazione, li levava da sotto gli occhi alla «brava gente». Può anche darsi che i buoni borghesi quei figli reietti e schiavi della droga non li volessero intorno, come no. Ma San Patrignano non li ha nascosti: li ha accolti. E talvolta ha fatto il lavoro sporco che altri non si sentivano di fare e non fanno ancora oggi, visto che lo Stato si impegna assai poco nella lotta agli stupefacenti. Anzi, ci sono aree politiche che tutto fanno per sdoganarli. Si tratta delle stesse aree che infieriscono su SanPa ma evitano accuratamente di riservare lo stesso bollente sdegno ai centri per migranti malgestiti, alle case di accoglienza per minori di cui ci ha raccontato il caso Bibbiano, alle comunità di recupero che lasciano uscire e andare verso la morte ragazze come Pamela Mastropietro, alle mille coop che lucrano sulla solidarietà, a luoghi di orrore come il Forteto su cui sarebbe interessante prima o poi vedere una bella docuserie. A Muccioli hanno rimproverato (e ancora rimproverano) di non usare il metadone, cioè di non servirsi di un approccio più morbido, più materno, appunto. Lui preferiva la durezza delle regole, fondamenta che possono aiutare chi vacilla a reggersi in piedi. Tale durezza prevedeva (anche) la punizione per i trasgressori. Nel Fondatore, tuttavia, Antico e Nuovo Testamento convivevano. C' erano sanzioni di biblica spietatezza, ma pure gli amorevoli abbracci che Ettore, il padre guerriero, riserva al figlio sulle mura di Troia prima di farsi inghiottire dalla battaglia. C' era la severità, ma c' erano pure la libertà e il dono: Muccioli, a quei figli acquisiti, ha regalato ogni libbra della sua tanta carne. Qui sta il grande scandalo, ancora rovente: nella paternità. Ribadita a San Patrignano con fin troppa forza mentre tutto il mondo intorno il padre pensava solo a ucciderlo, a svirilizzarlo, a combatterlo con ogni mezzo. Ovvio: il padre sbaglia. E spesso quando la fa è un vero disastro. Se i troppi impegni lo tengono lontano, se le pressioni lo rendono nervoso, se il lavoro e i desideri personali lo rapiscono, allora i figli si sentono abbandonati, si ribellano. E il padre - sbagliando ancora - reagisce con eccessiva violenza, non soltanto fisica. Succede in tante famiglie, dall' inizio dei tempi. Dentro le mura di casa ci si sbrana, a volte, ci si ferisce. In qualche occasione ci si separa per lunghi anni o per sempre. Ma alla fine resta un solo metro di giudizio, per il Padre. C' è solo un indicatore valido - tra mille dubbi e tante ombre - per capire se egli abbia agito bene o male. È il numero di figli che, dopo tanto tempo, pronunciano le difficili parole: «Nonostante tutto, aveva ragione lui».

Franco Giubilei per “La Stampa” il 4 gennaio 2021. Su San Patrignano e su Vincenzo Muccioli, fra gli Anni 80 e 90 l'opinione pubblica italiana si spaccò in due fra amici e nemici di SanPa. Oggi che un documentario tenta di ricostruire quel periodo cruciale, le polemiche divampano di nuovo, come se certe ferite sanguinassero ancora. La comunità si sente sotto attacco e condanna l'opera, ma chi, allora, proprio grazie a Muccioli uscì da una dipendenza pesantissima da eroina e cocaina per poi diventare capo della comunicazione di San Patrignano, per questa difesa d'ufficio della struttura di Coriano ha parole ancora più dure: «Speravo, mi auguravo che in venticinque anni ci fosse stata una maturazione culturale - dice Fabio Anibaldi, entrato in comunità nell'83, prima di scappare più volte, venire riacciuffato per essere rinchiuso due settimane in uno stanzino fino a riemergere ed entrare nella cerchia dei collaboratori più stretti di Vincenzo -. Invece, adesso come allora, la comunità non accetta ritratti che non siano elogiativi o agiografici, di propaganda. Quando vendi l'anima all'immagine pubblica, ti perdi e perdi il contatto con te stesso». Nell'analisi di Anibaldi, fra i protagonisti della docuserie Netflix coi suoi ricordi, «a San Patrignano non hanno fatto tesoro di quella stagione tremenda degli Anni 90». Una data, fra quelle che lo hanno marcato di più, è l'8 marzo del 1993, quando nel villaggio costruito sulle colline riminesi per aiutare i tossicomani si materializzano dieci macchine della polizia. È stato ritrovato il cadavere di Roberto Maranzano, il 36enne massacrato nel reparto macelleria della comunità, e comincia l'inchiesta: «Vincenzo subito disse di non sapere, ma in seguito ammise di esserne venuto a conoscenza tre-quattro mesi dopo l'omicidio - racconta l'ex ospite di SanPa, che oggi lavora al Gruppo Abele a Torino -. Io entrai in crisi, anche per il ruolo che avevo. Avessero almeno ammesso l'errore, il fatto che San Patrignano si era espansa in modo selvaggio per cui Muccioli ha dovuto delegare ciò che prima faceva di persona a soggetti sbagliati». Il contesto in cui tutto questo è avvenuto ha visto una crescita enorme della comunità, che a inizio Anni 80 ospitava 280 persone di cui si occupava personalmente Vincenzo Muccioli, per arrivare a oltre 2mila nell'anno della sua scomparsa, il 1995. Anibaldi lascia per sempre la comunità due giorni prima della morte di Vincenzo, ma anche un episodio così drammatico è circondato dal mistero, visto che lui e tutti gli altri seppero della malattia del fondatore solo da un articolo di Biagi sul Corriere, dopo due mesi di sua assenza dalla comunità. Fra le questioni delicate, anche il fatto che Muccioli gli tenne nascosta per anni la sieropositività, nonostante frequentasse una ragazza a Milano. Ma a colpirlo di più, oggi, è la reazione della comunità al documentario Netflix: «Loro non accettano critiche - spiega Anibaldi -, è la logica dell'o con noi o contro di noi, non c'è dissenso all'interno e tanto meno è concepibile quello al di fuori. Accettano solo l'ammirazione incondizionata per la loro opera, che è la logica tipica di certi regimi totalitari». Un atteggiamento autolesionistico, aggiunge, perché «occorre fare i conti col proprio passato, così come io so di essere stato un tossico e di essermi prostituito. Mi fa tristezza vedere questa identità fittizia. È comodo chiudere gli scheletri negli armadi a doppia mandata, ma fa solo male a te stesso». Un'impostazione che si rifletterebbe anche nell'efficacia dell'intervento terapeutico su persone che «hanno messo la loro vita nelle tue mani, e infatti tutto funzionava finché stavi lì dentro, ma come uscivi crollavi». Negli ultimi mesi della sua permanenza a SanPa, Anibaldi scrisse anche un libro sulla sua esperienza che oggi ha fornito più di un elemento per la docuserie Netflix.

Da professionereporter.eu il 9 gennaio 2021. L’articolo esce giovedì 7 gennaio e occupa l’intera pagina 21. Titolo: “Quella madre che affidò a Muccioli il figlio perduto”. Parla della comunità di San Patrignano, tornata d’attualità in questi giorni in seguito a un’inchiesta di Netflix. Aspesi ricorda un’intervista che pubblicò su Repubblica il 10 dicembre 1980, intitolata “Ritratto di famiglia con drogato”: una madre dell’alta società raccontava la sua disperazione, i suoi dolori e le sue speranze per il figlio tossicodipendente, affidato alle cure di Vincenzo Muccioli, fondatore e animatore di San Patrignano. Nel pezzo del 7 gennaio, solo nell’ultimo capoverso Aspesi rivela l’identità dell’intervistata: Romilda Bollati di Saint-Pierre, proprietaria della casa editrice Bollati-Boringhieri, responsabile della Carpano alla morte del primo marito, poi moglie del notabile dc Toni Bisaglia, amata diciottenne da Cesare Pavese, amica di Italo Calvino, Carlo Levi, Natalia Ginzburg. Morta a 80 anni, nel 2014. Il giorno dopo, 8 gennaio, nella pagina dei commenti, sette righe in corsivo senza neanche un titolo: “Nell’articolo pubblicato ieri con il titolo “Quella madre che affidò a Muccioli il figlio perduto” veniva citata per errore Romilda Bollati. Ce ne scusiamo con la famiglia e con i lettori”. Citata per errore? E’ proprio così. L’intervista del dicembre 1980 non era a Romilda Bollati, ma a Piera Piatti, cognata di Romilda, in quanto moglie del fratello Giulio Bollati, come è scritto chiaramente in una pagina di Repubblica del 29 ottobre 1981, proprio su Piera Piatti, firmata da Giampaolo Pansa. Meglio in ogni caso sempre essere chiari fino in fondo, per rispetto dei lettori.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 7 gennaio 2021. «Nessuno tranne chi ci è passato, può capire cosa si instaura tra i genitori e il figlio che si droga. Orrore, amore, paura, odio: lo odi perché tuo figlio sei tu, non puoi abbandonarlo e senti che lui ti porta a picco con sé. Lo odi perché lui ti odia ferocemente ogni volta che tu ti frapponi tra lui e la droga. Lo odi perché non ti dà tregua, perché il tuo forsennato amore, il tuo bisogno di aiutarlo pesano come una condanna senza scampo». Chiedo scusa se cito una mia intervista fatta a Torino, pubblicata su Repubblica il 10 dicembre del 1980, titolo "Ritratto di famiglia con drogato". Vecchia di 40 anni. L'avevo dimenticata e perduta, me ne sono ricordata con "SanPa, luci e ombre di San Patrignano", il documentario di Netflix, da me affrontato con la diffidenza di chi quegli anni li ha vissuti, e in cui invece mi ci sono ritrovata con sempre maggior partecipazione: un racconto appassionato e distaccato, con le immagini ormai storiche dei ragazzi di allora, i maschi ricciolini, le femmine corrucciate, i tossici disordinati, silenziosi, piegati, gli sguardi cupi e bugiardi di chi sognava solo la fuga e il buco, eppure lì su quella collina alle spalle di Rimini, a cercare calore nelle braccia di quell' omone che pareva un' invenzione di Fellini, con quei baffetti, con quei capelli, con quelle guance rosse. La lunghissima intervista, sei pagine di testo, avvenne due anni dopo la fondazione della comunità di San Patrignano e tre anni prima del primo processo a Vincenzo Muccioli, e smontava ogni mio pregiudizio su quel luogo considerato un lager dei più brutali. Negli anni '70 quando in Italia succedeva di tutto, noi cronisti buonisti quindi scemi, fra tanto fragore rivoluzionario, stragi fasciste, brigate rosse assassine, morte della famiglia, stavamo dalla parte dei giovani asceti silenziosi e apparentemente pacifici, che come si diceva allora si facevano: poverini, vessati dalla società, dai genitori, talmente di sinistra (o di destra, ma meno) da rifiutare il vivere borghese compreso lo studio, il lavoro, la doccia, non parliamo il pettine; sognando di fare come i Beatles e dedicarsi alla contemplazione nullafacente in qualche ashram se non in India, almeno nel Monferrato. Però morivano, o si fracassavano il cervello, e già da poco prima del processo di Rimini, si cominciava a diffondere una strana orribile malattia che ti copriva di piaghe e ti uccideva (poi la chiamarono Aids, e il contagio avveniva tramite il sesso ma soprattutto lo scambio delle siringhe dell' eroina e altra porcheria). Alla fine di quell' incontro durato ore, così sincero, così spietato, così sfrenato, senza un attimo di sosta, di ripensamento, persino di commozione, ero talmente provata che mi venne un mal di testa lancinante, insopportabile, mai sentito neppure davanti agli orrori di piazza della Loggia a Brescia o della stazione di Bologna. Quella madre dalla forza indistruttibile era una delle più belle, importanti e agiate signore di Torino, con tutte le conoscenze giuste, laureata in psicopatologia, colta, di sinistra, impegnata contro le violenze manicomiali dell' epoca. Da nove anni combatteva una guerra feroce contro la volontà altrettanto feroce di suo figlio di vivere con la droga. Già si deprecavano luoghi come San Patrignano, dove si usavano metodi coercitivi, illegali, per tenere lontani i tossici dalla droga ma la signora lo difendeva perché «per tentare di salvare il tossicomane non c' è altra strada che obbligarlo. Certo sono stati commessi degli errori e non c' è un controllo ufficiale, ma rappresenta in Italia l' unico tentativo di affrontare la tossicodipendenza in modo diverso da quello istituzionalizzato o delle comunità aperte a un viavai di sbrindelloni e improvvisatori». Anche Vincenzo Muccioli, e il documentario lo racconta, era un improvvisatore circondato da sbrindelloni, ma nella sua ignoranza e presunzione e megalomania aveva capito ciò che gli esperti avevano rinunciato a capire rifugiandosi nella loro scienza troppo estranea a quello sradicamento giovanile e quindi impotente, inutile: in tempi di massimo disordine, allora e probabilmente solo allora, dicevano altri pensosi, bisognava ritrovare il Padre, il genitore e l' organizzazione sociale rifiutati ma anche perduti: il Padre, o la Madre, amano e puniscono, dettano le regole e impongono un ordine, schiaffeggiano, chiudono in casa, ma anche amano. E "SanPa" mostra questa folla stralunata e giovane bisognosa di abbracci, di corpi in cui rifugiarsi, che si stringe attorno al guru improvvisato, disordinato, avventato, e quelle catene talmente enormi da avere persino una funzione simbolica. Anche le cliniche private costosissime in Svizzera, dove la madre trascinava il figlio, non erano diverse da un luogo punitivo: per i drogati stanzette a due letti senza bagno, reparto chiuso, porte chiuse a chiave, finestre senza maniglie. «Mi sentii gelare, e il medico durissimo mi disse, se vuole essere curato suo figlio dovrà stare qui fino a quando noi lo riterremo opportuno, se no se lo riporti via». Del resto in Svezia «dove la libertà dell' individuo è sacra, dopo una permissività nefasta, lo Stato costringe al ricovero coatto per tre anni in comunità molto isolate nel nord del paese ». L'ultima puntata del documentario è forse un po' sfilacciata nell' ansia di pareggiare il bene e il male di una comunità che rispecchia l' angoscia e la violenza e la follia del suo tempo. C' è anche la voglia di confermare l' omosessualità di Muccioli e la morte per Aids, che nulla tolgono o aggiungono alla sua figura. Io ho un ricordo che poi non divenne un articolo perché sentivo pena per quell' uomo che mi aveva ricevuto fuori di sé dalla disperazione, nella stanzetta dove era morto di Aids il suo protetto più caro (c' è una sua veloce immagine nel film), un bel ragazzo dall' aria angelica: da giorni Muccioli conservava il letto sfatto della sua ultima notte, apriva i cassetti e baciava la sua biancheria. Forse ci si può spegnere anche di dolore. San Patrignano adesso è una istituzione, come le tante altre comunità che silenziosamente si occupano dei tossicodipendenti la cui morte raramente fa notizia. Si parla di droga quando fa parte del bel vivere, come i vassoi di cocaina nelle case dei ricconi tipo lo stupratore sadico Alberto Genovese, dagli inviti molto attesi. Nel 2019 in Italia i morti per droga sono stati 339, il giro di affari ha raggiunto i 16 miliardi, soprattutto per cocaina, eroina e un mercato di 39 nuove sostanze psicotrope sintetiche sconosciute. 

''E' SOLO UN PLAGIATORE IL SANTONE DEI DROGATI''. Natalia Aspesi per “Repubblica”: articolo 13 novembre 1984. Comincia il processo contro Vincenzo Muccioli, il fondatore della celebre comunità di San Patrignano, e tredici suoi collaboratori, e subito si capisce che l' evento sarà molto lungo, molto amaro, molto inquietante. Il collegio di difesa, composto da sette avvocati, è prestigioso, il pubblico fitto, applaude e manda fiori al principale imputato, subito sgridato dal presidente della Corte Gino Righi: alza più volte la voce il pubblico ministero Roberto Sapio, interviene fremente soprattutto l' avvocato Vittorio Virga; tuona le sue risposte con imperturbabile calma il Muccioli, durante il suo interrogatorio, che è durato tutta la mattinata di ieri e che proseguirà oggi. Sembra di capire fin dalla prima, dura giornata, che l' accusa cercherà non solo di screditare fino all' umiliazione Vincenzo Muccioli, che deve rispondere di sequestro di persona, maltrattamenti, abuso della professione medica e della credulità popolare, ma anche di offuscare ciò che fino ad oggi è stato invece riconosciuto quasi da tutti: che San Patrignano è un luogo dove i tossici più disperati vengono accolti, strappati alla droga, restituiti a se stessi, alla possibilità di una vita accettabile, dentro e fuori quella specie di ormai enorme e ricco villaggio perfettamente organizzato che è oggi la comunità. L' accusa ha a sua disposizione cinquanta testimoni, tra cui ha chiamato anche l' industriale e petroliere Gian Marco Moratti, uno dei più appassionati sostenitori di San Patrignano, ieri presente tra il pubblico: la difesa ne aveva chiesti mille, ne ha ottenuti centottanta. E lungo un dibattimento che durerà, si prevede, oltre tre mesi, ci saranno scontri accesi non solo tra coloro che vedono in Muccioli il loro salvatore e quelli che hanno raccontato di sequestri e incatenamenti, ma anche tra quelli che, nel disastro del contagio della droga in Italia, vedono, e sono la maggior parte, nella comunità un luogo di recupero e di salvezza e chi, invece, la considera un posto dalle incontrollabili terapie e dai risultati insicuri. Come sempre, gli inizi del processo sono tortuosi e anche disordinati. La difesa riesce solo in parte ad attenuare, con una eccezione, due capi d' accusa che appaiono comunque singolari. Secondo essi il Muccioli, nel 1978, usava presentarsi come medium di una "non meglio definita entità" e che a nome di questa entità chiedeva "di beneficiare persone bisognose", di stabilire la fede del gruppo sulla "collina benedetta" (la tenuta di San Patrignano era di proprietà di Muccioli prima che venisse donata alla comunità). Sempre secondo queste accuse anteriori alla formazione della cooperativa, Vincenzo si sarebbe procurato delle stigmate con un trincetto e avrebbe "lanciato anatemi contro chi abbandonava la comunità" e avrebbe "abusato della credulità popolare con turbamento dell' ordine pubblico" perchè per seguirlo nel suo progetto, un uomo abbandonò moglie e figli e una donna abbandonò il marito. Il fondatore di San Patrignano avrà fatto anche il medium, di sicuro ha una serena capacità di convinzione, una pacata certezza delle sue scelte: racconta alla Corte di come è nata la sua volontà di dedicarsi ai tossicodipendenti rinunciando completamente sia alla sua vita privata che a tutto ciò che possedeva. Spiega come è nata la cooperativa e come essa si autofinanzi con le sue trentasei attività, pareggiando il lieve deficit di ogni iniziativa (dall' allevamento dei cavalli ai laboratori di pellicceria, dalle vigne alle stalle per mucche e suini) con un "fondo di liberalità" che, come nota il presidente della Corte, nell' 83 era di tre miliardi. E qui non si capisce se si voglia sapere da Muccioli se i finanziamenti per gli investimenti vengano dati alla comunità da privati cittadini come Moratti, o in qualche modo siano i parenti dei ragazzi a contribuire: tanto che si favoleggia di una cassa di mele che una madre avrebbe cercato, invano, di donare. Si insinua anche che l' uomo si sia impossessato di un cavallo, prestito di una contessa che teneva molto a un giovane drogato e che sarebbe stato poi usato come fecondatore: "Ma se non aveva neanche le palle?" dice con chiarezza Muccioli, assicurando poi che quel giovane, che lo accusa di averlo tenuto legato, lui non lo accolse mai nella comunità, se non per una notte, "perchè era uno che aveva l' abitudine di mangiare forchette e cucchiai e di tagliarsi tutto il corpo". E' molto triste che episodi di desolazione umana terribile si prestino a questa non edificante guerra giuridica; come diventa angoscioso il momento in cui il presidente chiede a Muccioli, che non vorrebbe, di raccontare di quel Leonardo Bargiotti, che trovato legato durante l' irruzione dei carabinieri dell' ottobre dell' 80, fu liberato dalla polizia e poco dopo si buttò o cadde dal treno. Sì, il Leonardo era omosessuale, sì, si travestiva, sì, come altri tossici si masturbava ossessivamente, no, non sapevo che sua madre era stata diciott' anni in manicomio, eppure anche lui aveva i suoi momenti belli, poi ricadeva nella sua disperazione, sì, diceva di essere una merda, si ricopriva di merda. Il nodo drammatico attorno a cui ruota tutta la prima sgradevole mattinata del processo, è quello, ovviamente, del sequestro di persona: quando, almeno nei confusi inizi della comunità, i ragazzi che tentavano di scappare venivano ripresi e talvolta incatenati dentro luoghi che l' imputazione definisce "malsani" e sottoposti a una "sorveglianza disumana e umiliante con mortificazione della personalità". "Noi a San Patrignano non sequestriamo nessuno", spiega Muccioli. Arriva allora il corpo del reato, con colpo di scena da film gotico: rumorose e certo deprimenti catene, e una serie di foto di antri miserandi, dove i carabinieri trovano rinchiusi cinque o sei ospiti della comunità. "Era un momento particolare, non un metodo nè una terapia. Quando i ragazzi arrivavano, allora agli inizi, e non avevamo locali ed eravamo in pochi, io gli spiegavo che sarebbe venuto un momento in cui, dopo la disintossicazione, sarebbero stati peggio, avrebbero voluto andarsene. Per restare dovevano subito accettare il fatto che io gli avrei impedito di andarsene se no era tutto inutile, già tante volte avevano provato a smettere e ci erano sempre ricaduti fino all' annientamento". E quando i ragazzi le revocavano il consenso e volevano andarsene?, chiede il presidente. "Io non li ascoltavo perchè per la loro salvezza li ritenevo in stato di necessità". E lei non sa che esiste l' articolo 32 della Costituzione che impedisce di violare la personalità umana, e persino la legge manicomiale del 1904 limita i mezzi di coercizione? "Io sono ignorante e queste cose non le so: ho sempre agito nell' assoluta certezza e con il consenso preventivo dei ragazzi, chè solo così potevo aiutarli nel momento di vera difficoltà". Vincenzo Muccioli e i suoi assistenti sono subito tornati a San Patrignano "dove devono nascere i puledri e dove io devo stare attento a tutto e dove tutti hanno bisogno di me. Invece questo processo mi tiene lontano dai miei 540 ragazzi, soprattutto dagli ultimi arrivati, casi difficili con cui dovrei passare intere giornate a parlare. Ormai siamo arrivati all' assurdo che i tribunali di varie città mi mandano qui dei ragazzi ammanettati e scortati dai carabinieri senza neanche avvertirmi: e me li scaricano lì, in affidamento, agli arresti domiciliari. Ne sono arrivati quattro negli ultimi tre giorni. Ma come faccio ad occuparmi di loro?". La tragedia profonda della droga si misura in tutta la sua ossessiva distruttività proprio in questo processo: in cui sentir parlare di ragazzi incatenati e reclusi non riesce più a sembrare un sopruso inaccettabile, ma forse una strada, una necessità, addirittura una speranza, oltre ogni giusta convinzione umanitaria, per riavere delle giovani vite che riescano a spezzare le catene della droga.

San Patrignano, Letizia Moratti: «Il film “SanPa” un’occasione persa». Elisabetta Soglio su Il Corriere della Sera il 5/1/2021. L’impegno di Letizia e Gian Marco Moratti a San Patrignano è sempre stato accompagnato da una grande discrezione. E la scelta, questa volta, di fare un’intervista è un’altra prova d’amore nei confronti dei «ragazzi». Perché la serie di Netflix che ha riacceso i riflettori sulla controversa figura di Vincenzo Muccioli e sul passato di San Patrignano, un passato lontanissimo in realtà per contesto storico, sociale e culturale, ha colpito soprattutto loro: i «ragazzi», che torneranno di continuo in questa chiacchierata con Letizia Moratti.

Che cosa ha significato Vincenzo Muccioli per lei e per suo marito?

«La mia è una famiglia fortunata e con Gian Marco avevamo sentito il dovere di dare un contributo alla società e alle persone che avevano bisogno. Quelli erano anni difficilissimi per il tema delle tossicodipendenze che stava esplodendo e abbiamo da subito creduto al progetto pionieristico di Vincenzo. Siamo arrivati a San Patrignano nel settembre del 1979, c’erano una quindicina di ragazzi ospitati e quella è diventata la nostra seconda casa: vivevamo in una roulotte con Gian Marco e i miei figli e per 40 anni tutti i nostri weekend, ogni Natale, Pasqua e ogni vacanza estiva noi siamo stati lì, con i ragazzi».

Un progetto che avete condiviso?

«Un progetto che prendeva forma poco alla volta, in base ai bisogni. In quegli anni migliaia di famiglie erano travolte dalla tragedia della droga, lo Stato era impreparato, in ospedale non venivano accettati i ragazzi che dovevano disintossicarsi, tranne a Niguarda a Milano dove lavorava una assistente sociale illuminata. Poi è arrivata l’Aids ed è stato un altro colpo per tutti: la comunità li accoglieva, rispondeva alla disperazione dei genitori, cecava di ricostruirli come persone».

«Anche le regole si facevano insieme. All’inizio nel fine settimana si poteva uscire, poi erano stati alcuni di loro a dirci che se il sabato sera andavano in discoteca non riuscivano a non bucarsi di nuovo. E si è deciso di chiudere. Oppure ricordo una ragazza alcolista, la prima seguita con questo problema: a tavola c’erano le bottiglie di vino e lei beveva. Allora i ragazzi decisero che ciascuno potesse avere un solo bicchiere di vino perché così avremmo aiutato anche lei».

Il vostro rapporto con Vincenzo Muccioli come era?

«Muccioli è stato l’uomo che ha avviato il progetto: per noi l’esperienza non era Muccioli, ma San Patrignano, e limitare tutto il racconto della comunità alla storia di un uomo non rende merito all’impegno di tutti i ragazzi per far crescere San Patrignano in ciò che è oggi per il nostro Paese».

E gli anni del processo a Muccioli, del carcere, delle violenze? Come li avete vissuti?

«Abbiamo cercato di essere il più possibile a fianco dei ragazzi e loro non si sono mai fermati di fronte alle difficoltà. Quando Vincenzo è stato in prigione sarebbe potuto finire tutto, invece i ragazzi hanno scelto di restare e di continuare quel grande lavoro: l’hanno vissuta come una sfida ed è stato anche lì che si sono poste le basi per una nuova gestione, quella attuale».

Sono stati commessi errori?

«Probabilmente sì. Ci sono stati episodi drammatici inseriti in un contesto storico già drammatico di suo. Ma si impara anche dagli errori e questa è stata la forza di quella esperienza che ha continuato ad evolversi per stare al passo con i bisogni».

È esistito un «Metodo San Patrignano»?

«Se si intende un metodo di violenza, assolutamente no. Come dicevo, il metodo si è costruito assieme ai ragazzi ed è evoluto con il tempo perché intanto succedevano tante cose: sono nate altre comunità con cui confrontarci e discutere, anche lo Stato ha affrontato il problema, il livello di consapevolezza e anche lo studio del fenomeno si è approfondito. Al modello San Patrignano si è ispirata una decina di comunità in tutto il mondo».

La principale differenza fra ieri e oggi?

«I ragazzi che accoglievamo allora erano più violenti ed emarginati: molti venivano da esperienze politiche forti, avevamo picchiatori fascisti ed esponenti della sinistra più estrema che si rifugiavano nella droga come gesto di rifiuto e disprezzo della società. Oggi l’eta media si è abbassata, usano la droga per emulazione o per noia: ma l’emergenza rimane».

La comunità ha preso le distanze dal docu-film di Netflix uscito da pochi giorni. Lei cosa ne pensa?

«Forse sono troppo coinvolta per un giudizio. Di sicuro mi ha colpito rivivere la disperazione di tante mamme che allora vedevano Sanpa come unica speranza. E mi ha colpito che nonostante alla regista fossero state completamente aperte le porte, a me e a tantissime delle persone che ci hanno contattato e ci stanno contattando in questi giorni è parso di vedere solo le ombre. Penso sia stata un’occasione persa, perché la droga rappresenta ancora oggi una emergenza e molti giovani affrontano il tema con la fragilità e le insicurezze tipiche della loro età. Non aver raccontato nessuna delle storie di fragilità che poi sono diventate forza e vita piena è stata un’occasione persa».

Gli autori sostengono che lei si sia sottratta all’intervista.

«Avevo dato alla regista la mia disponibilità e lei mi aveva proposto due date molto ravvicinate in un momento in cui avevo impegni istituzionali molto totalizzanti (erano le settimane decisive dell’Ops lanciata da Banca Intesa su Ubi di cui Moratti era presidente ndr). Avevo detto che avrei fatto del mio meglio per trovare il tempo, ma non ho avuto alternative».

Cos’è oggi San Patrignano?

«Una realtà guidata dai giovani che hanno conosciuto la comunità di allora e da quelli che si sono salvati grazie a chi era passato per quella stessa esperienza. Laura responsabile della cucina, Natasha del ristorante “Vite”, Fabio degli allevamenti e Massimo del centro medico non hanno conosciuto Muccioli. Ma la forza e l’energia di quei tempi continuano a trasmettersi. San Patrignano si è evoluta come impresa sociale: ha tantissimi sostenitori e “maestri”, grandi personalità e bravissimi artigiani; ha una rete di ambasciatrici che fanno passare il messaggio e aiutano nel fundraising. Sanpa è una realtà che organizza 50 mila incontri all’anno nelle scuole per fare prevenzione, che accoglie ragazze e ragazzi minorenni segnalati dal Tribunale e che ha stretto rapporti con le istituzioni, a partire dal Comune di Rimini e dalla Regione Emilia-Romagna. Ed è anche un modello riconosciuto dalle Nazioni Unite, dove siamo individuati come Ong dal 1997, con stato consultivo in materia di droga. Sanpa dal 1978 ad oggi ha salvato 26 mila persone, ragazze e ragazzi che parevano senza prospettive, offrendo loro gratuitamente assistenza sanitaria e legale, garantendo una formazione, costruendo per loro un percorso lavorativo e aiutandoli a reinserirsi nella società. Sanpa è un bene del nostro Paese: ecco, non dimentichiamolo».

Da adnkronos.com il 5 gennaio 2021. ''"L'operazione che sta facendo Netflix" con la docu-serie "SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano" "è uno scandalo". Chi ha fatto questa serie che ha intitolato "Luci e Tenebre di San Patrignano" doveva chiamarla "Ombre su San Patrignano" perché demonizza una persona che ha salvato migliaia di vite''. Così all'Adnkronos Red Ronnie sul dibattito riapertosi intorno alla comunità terapeutica per tossicodipendenti di San Patrignano con l'uscita della docuserie di Netflix, incentrata sul suo fondatore, Vincenzo Muccioli. "Sanpa: Luci e tenebre di San Patrignano" ripercorre tutta la storia della comunità, compresi i processi che videro imputati Muccioli e alcuni suoi collaboratori. ''Il protagonista di questa serie è diventato questo Delogu, una persona che è stata condannata per aver ricattato Muccioli - sottolinea Ronnie - quindi condannato per aver estorto a Muccioli 150 milioni. La storia si basa su una serie di catene, un suicidio e un omicidio ed è tutta tesa alla negatività. Netflix sta facendo un sacco di soldi con questa serie perché ha un sacco di visualizzazioni -incalza Red Ronnie- però quello che sta facendo è un'operazione sbagliata''. ''Quando fai un film basato una storia vera -prosegue Red Ronnie- le persone che non la conoscono si fanno una visione distorta di Muccioli e questo mette a repentaglio tutto quello che è stato fatto dalle comunità di recupero. Questa serie critica un metodo senza tener conto che in quel periodo San Patrignano era l'unica realtà che salvava dalla tossicodipendenza. Sul mio profilo facebook ho fatto una diretta di tre ore su Muccioli seguita da 400mila persone e condivisa da oltre 3mila persone durante la quale sono stato invaso da testimonianze di persone che scrivevano: 'ha salvato i miei genitori', 'ha salvato i miei figli', 'mi ha salvato' ma nessuna delle persone salvate a San Patrignano è stata intervistata. Io e Andrea Muccioli abbiamo deciso di partecipare a questa serie -precisa- per fornire un po' di materiale e video e soprattutto rilasciando le nostre interviste perché ci siamo resi conto che avremmo dovuto attutire il danno'', conclude il critico musicale.

Dagospia il 6 gennaio 2021. Riceviamo e pubblichiamo da Red Ronnie: Roberto, vedo che stai dedicando molti articoli alla serie di Netflix su San Patrignano. In tutti si evidenziano prettamente aspetti negativi  Non ne ho letto nessuno dove si scriva che ha salvato migliaia di persone. Ragazzi che oggi sarebbero tutti morti, perché lui non faceva “accoglienza” come le altre comunità ma prendeva tutti quelli che arrivavano, quelli che riusciva. Poi c’erano i giudici che affidavano a lui ragazzi con reati anche pesanti con l’opzione: o la galera o San Patrignano. Questo nessuno lo scrive e nelle cinque puntate non c’è traccia alcuna di quelli che hanno avuto salva la vita a San Patrignano. La serie all’estero si chiama “Sins of the Saviour”, peccati del salvatore. Nella locandina c’è in primo piano l’addetto stampa e dietro Muccioli, a significare di destabilizzare la figura del vero protagonista. Delogu è stato condannato per aver ricattato Muccioli. E a lui hanno dato più spazio che ad Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo che ha portato avanti la comunità per altri 17 anni. Hanno estrapolato un racconto di Vincenzo dove mostra come se ti muovi non puoi infilare un anello decontestualizzandolo e unendolo in montaggio alla notizia ventilata di possibili violente sessuali in comunità, in modo di far affermare a Vincenzo che se una donna si muove e si ribella non può essere violentata. Queste alcune delle cose che hanno caratterizzato la serie dove le puntate sono tutte appannaggio di: era un santone, le stigmate (falso), le catene (che fine hanno fatto quelli “liberati” dalle catene? La serie non racconta come uno sia morto subito di overdose e gli altri all’epoca erano zombie), un suicidio e un omicidio. Per finire con l’accusa di omosessualità a Muccioli (falso, ma se anche fosse stato vero, che male ci sarebbe?) e l’affermazione che è morto di AIDS (anche questo falso). Ma perché Vincenzo Muccioli è diventato così amato e famoso? Perché ha salvato vite e ha dato l’unica efficace risposta al problema della droga in uno Stato assente. Durante la mia diretta sabato scorso ho ricevuto, anche inaspettatamente, centinaia di messaggi come: “Ha salvato la vita ai miei genitori”, "Mi ha salvato la vita”, “Ha salvato la vita ai miei figli”, “Io sono l’unico vivo di 4 fratelli perché sono andato a San Patrignano. Gli altri tre sono morti” etc etc. Il sito OptiMagazine ha lanciato un appello a chi è vivo grazie a San Patrignano e da lunedì pubblicherà le storie #sonovivograzieaVincenzo. Credo sia importante anche comunicare queste cose, non solo la negatività. Anche perché ti posso dire che negli anni ’80 e ‘90 ero sommerso da richieste di genitori disperati che mi pregavano di fare entrare il loro figlio a San Patrignano. Per quanto riguarda la serie, io avevo fornito anche le immagini di Jovanotti quando ha incontrato Vincenzo Muccioli al Roxy Bar. Ma non le hanno usate. Avevo anche chiesto di intervistare Marco Guidi, ilo giornalista del Resto del Carlino che per primo e più di tutti si è occupato di Muccioli e San Patrignano, ma hanno preferito non farlo. Io e Andrea Muccioli abbiamo segnalato qualche nome di chi si era salvato a San Patrignano. Sono anche andati a intervistarli, come Monica Sandri, per darci l’illusione che la serie fosse equilibrata e noi due partecipassimo. Poi quelle interviste non le hanno messe. La serie di Netlix parte da un presupposto: mostrare il marcio di un progetto splendido. D’altra parte il produttore ha lavorato a Cuore, che ha fatto quella copertina oscena dopo la morte di Vincenzo Muccioli e il cui direttore è stato condannato per diffamazione. Penso seriamente che anche questa serie Sanpa, soprattutto la 5a puntata, possa essere denunciata per grave diffamazione. Continuerò per sempre a dare voce a chi ha avuta salva la vita grazie a San Patrignano. 

Francesco Borgonovo per "La Verità" il 10 gennaio 2021. Ieri, nel corso della trasmissione Piccola patria - I subalterni su Rpl (radiorpl.it) ho avuto occasione di ospitare Red Ronnie. Abbiamo parlato a lungo della serie Sanpa, attualmente visibile su Netflix, molto critica verso Vincenzo Muccioli e San Patrignano. Quello che segue è un riassunto e un adattamento dell'intervista radiofonica. Sei uno dei protagonisti di Sanpa, e dici cose che mi sembrano di grande buon senso. Una delle accuse che il documentario muove alla comunità è la seguente: a San Patrignano ci sono state violenze e morti. Ma tu, ad un certo punto, dici: «È un miracolo che ce ne siano state così poche» (il riferimento è all' omicidio di un ospite, Roberto Maranzano).

«In realtà a San Patrignano c' è stato soltanto un omicidio, commesso in un settore, la macelleria, che è quello dove andavano i soggetti più critici, diciamo. La frase che ho detto nell'intervista l'ho detta meglio, ma poi mi hanno tagliato e sembra che giustifichi un omicidio. Io non giustifico un omicidio. Ma io dico che in un paese di 3.000 abitanti - dove son tutti delinquenti, perché tutti quelli che arrivavano a San Patrignano erano tutti delinquenti - c'è stato solo quel caso di omicidio».

Perché parli di delinquenti?

«Perché era la feccia della tossicodipendenza. Nelle altre comunità si faceva l'accoglienza, cioè tu dovevi andare con i tuoi genitori a parlare con i responsabili, e dopo decidevano se prenderti o no. Andavi a parlare anche due o tre volte. A San Patrignano, invece, arrivavano quelli disperati, quelli che le altre comunità non prendevano. Arrivavano quelli che uscivano dalle galere perché il giudice diceva "o la galera o vai San Patrignano". C'era chi aveva l'articolo 1, delinquenza abituale. Quindi parliamo di una comunità dove il minimo che avevano fatto le ragazze era prostituirsi, e il minimo che avevano fatto i ragazzi era spacciare. Poi c'erano casi di rapina, rapina a mano armata. C'erano persone che avevano ucciso, che avevano fatto furti, che avevano picchiato i genitori perché volevano i soldi per drogarsi».

Tutta gente di cui lo Stato non si curava volentieri.

«La tossicodipendenza in quel periodo era ignorata dallo Stato, perché più zombie c'erano in giro per la strada, meno problemi davano. È in questa situazione che ho descritto che c'è stato un omicidio. Questa intervista però comincia male».

Perché?

«Perché parliamo di San Patrignano e tu di che cosa mi chiedi? Di un omicidio. Cioè noi abbiamo migliaia di vite salvate e tu mi parli di un omicidio. È una partenza sbagliata».

Hai ragione. Dovevamo partire dalle cose buone.

«Nessuno parla delle migliaia di vite salvate. Tanto è vero che su Optimagazine è partita una campagna - "#Sonovivograzieavincenzo" - e stanno arrivando tantissime testimonianze. Bisogna iniziare a vedere il bello nelle cose, a cercare il bello. Smettere di guardare dal buco della serratura per vedere se qualcuno si comporta male. Bisogna citare esempi positivi, non negativi. Le cinque puntate della serie sono solo eventi negativi».

In realtà c'è un esempio positivo, di cui tu sei protagonista. Mi riferisco a un filmato che hai girato tu. Si vede Vincenzo Muccioli che va a prendere una ragazza tossicodipendente in grande difficoltà. La abbraccia, come un padre. Ecco, io ti chiedo: quanto è stato importante secondo te questo aspetto paterno?

«Molto. Ti dico questo. Il mio approccio con San Patrignano è avvenuto dopo che avevo intervistato Enrico Maria Salerno. Mi aveva raccontato che suo figlio si drogava e che non c'era nulla da fare. Salerno mi disse che augurava a suo figlio una "serena e dolce morte". Ecco, guardare un padre che augura una cosa simile al figlio è sconvolgente. Mi disse che aveva portato suo figlio ovunque, ma senza alcun risultato. Era una disperazione totale. Di qui il suo "quindi gli auguro una serena e dolce morte"».

E da qui come si arriva a San Patrignano?

«Quando arrivai a San Patrignano la prima volta, ero scettico, perché condizionato come tutti dai mezzi di comunicazione. Ma vidi che era tutto falso quello che dicevano. Vi trovai Nicola Salerno, il figlio di Enrico Maria, vivo grazie a Vincenzo Muccioli. Vuol dire che Muccioli ha salvato persone che gli stessi genitori davano per spacciate. Costoro se li era presi come figli, tanto è vero che Andrea Muccioli, mio amico, diceva che per lui i ragazzi non erano ex tossicodipendenti, drogati o gente che faceva un percorso. Per me, diceva, erano tutti fratelli. Ma non c'è stato solo il padre».

Cioè?

«Maria Antonietta Muccioli non era presente nella serie, ma lei era la mamma di tutti questi ragazzi. Lei si occupava degli approvvigionamenti. A San Patrignano si era arrivati al punto che sedevano a tavola contemporaneamente 2.200 persone. Puoi immaginare che cosa significhi dare un pasto caldo in contemporanea a 2.200 persone. Ecco, lei si occupava di questo».

In pratica la famiglia Muccioli ha dedicato tutta la sua vita a San Patrignano.

«Non solo. Visto che tutti sono sensibili al tema dei soldi, parliamone. Loro hanno regalato alla comunità i loro terreni, le loro case e tutto quello che hanno costruito. A loro non è rimasto niente. Andrea Muccioli non possiede nulla. Chi ha visto la serie, se io parlo di cavalli, a che cosa pensa?».

Ai tanti soldi spesi, in contanti, per acquistarne uno...

«Ai 300 milioni in contanti usati per comprare un cavallo. Ma così non si vedono i tantissimi tossicodipendenti recuperati grazie ai cavalli. Né si capisce che quei cavalli hanno vinto medaglie importanti in un mondiale. Allo stesso modo, non si vede che i vini di San Patrignano hanno vinto i Tre Bicchieri del Gambero Rosso. Né si vede che la carta da parati prodotta nella comunità è, che so, negli uffici di New York di Armani. Di queste eccellenze non si è affatto parlato».

La sensazione è che l' esperienza di Vincenzo Muccioli sia stata un unicum.

«Ma dopo i 17 anni di Vincenzo Muccioli ci sono stati i 17 anni di Andrea Muccioli, che è un caso strano perché solitamente i figli non riescono a ripetere quello che ha fatto il padre, se il padre è stato un'eccellenza. Però Andrea ci è riuscito, ha portato a termine i sogni del padre. Durante l'ultimo viaggio che ho fatto a San Patrignano, Muccioli mi indicò un'area dove voleva fare un ospedale. Gli ospedali, diceva, non vogliono prendere i drogati malati di Aids. A Sanpa il 65% delle persone aveva l'Aids, gli ospedali non li volevano perché erano come la peste. Bene, Andrea Muccioli ha creato l'ospedale, che oggi è una eccellenza. Ha creato un asilo dove, addirittura, le persone dei dintorni portano i loro bambini. E pensare che ai tempi di Vincenzo le persone dei dintorni guardavano quel luogo come un posto pieno di brutta gente».

Hai detto che San Patrignano era osteggiata da due chiese. Che significa.

«Muccioli dava fastidio perché, come disse Indro Montanelli, era un laico che faceva qualcosa in Italia e non è di sinistra. Vincenzo era apartitico. San Patrignano è stata osteggiata da due chiese: quella cattolica - che voleva appoggiare don Benzi e simili, e quella comunista che, invece, sosteneva che bisognava dare ai tossicodipendenti il metadone e aveva creato il Sert».

La «chiesa comunista», come la chiami tu, tramite alcuni dei suoi giornali ha attaccato selvaggiamente Muccioli. Penso a certi titoli di Cuore, ad esempio.

«La serie non li fa vedere perché chi ha prodotto la serie collaborava con Cuore. Quando è morto Vincenzo Muccioli, Cuore ha fatto un titolo che diceva "Tutto pronto all'inferno per l'arrivo di Muccioli". Diceva che ci sarebbe stato un grande party per accoglierlo con Jimi Hendrix e altri. Purtroppo, diceva quel titolo, non ci sarà Red Ronnie a presentare».

Ci sono andati leggeri...

«La sinistra ha sempre attaccato Muccioli».

Ancora oggi l'astio è forte.

«Perché Muccioli è una figura che va demolita, non puoi permettere che esista una figura così. Ma non sono ancora riusciti a cancellare ciò che Muccioli ha fatto, e che è ancora lì. C'è questa ideologia della droga che va liberalizzata... Ma è già libera, la droga. È sempre stata volutamente lasciata libera. Uno strumento per sedare le masse».

Marco Giusti per Dagospia il 6 gennaio 2021. Torno su “SanPa”, la miniserie Netflix ideata da Gianluca Neri che da qualche giorno ci sta facendo riflettere su tutto quello che era sotto i nostri occhi negli anni ’80 e ’90 e che forse abbiamo visto e vissuto un bel po’ passivamente.Spesso trattandolo in un misto di snobismo e cinismo che significava poi un gran lavarsene le mani. Però non capisco perché nella serie non si parli di Jovanotti, amico di Red Ronnie, il megafono di Muccioli, e della sua canzone-manifesto un po’ faziesca “Penso positivo perché son vivo, perché son vivo”, che seguita con “Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa, che passa da Che Guevara e arriva a Madre Teresa, passando da Malcom X attraversa Gandhi e San Patrignano…”. Come non si parla della differenza di trattamento che doveva esserci a San Patrignano, se ne parla anche nelle cronache del tempo, tra tossici figli di ricchi milanesi e “tossici di sinistra e di merda”. Non viene neanche spiegato perché la potente famiglia Moratti abbia dato tutti questi soldi, si parla di 286 milioni di lire, a Muccioli. E dei rapporti tra i socialisti craxiani e Muccioli, al punto che Rai Due funzionò spesso da canale di propaganda per San Patrignano, sparsa tra i “Fatti vostri” di Guardì con l’allora conduttore Alberto Castagna, i programmi di Piero Vigorelli ribattezzato Vampirelli, e il Mixer di Minoli. In un articolo del Corriere del 1994 si parla anche di possibili soldi al PSI a San Patrignano. Muccioli nega, come nega i 4 miliardi dello Stato al suo centro di recupero. Magari sono solo 2, ma gliene servono 8 all’anno. Dice anche che Craxi andò solo due volte a San Patrignano, eppure leggo, in margine a un articolo sulla morte sospetta della povera Natalia Berla, sempre sul Corriere ma nel 1985, di una telefonata di Muccioli a Craxi per farsi togliere “dai piedi quel magistrato”, cioè Roberto Sapio, che indagava sull’accaduto. Su l’infamissimo “Cuore” del tempo, che dedicò una sorta di cattivissimo speciale su Muccioli e San Patrignano, mentre Sabino Aquaviva sul “Corriere” anche di fronte all’omicidio di Maranzano seguitava a difendere il guru, Maria Grazia Zanni, una paziente, dichiarò di essere stata addirittura istruita da Muccioli per sedurre lo stesso magistrato. Leggo anche di un’altra morte sospetta a SanPa, quella di Fioralba Petrucci. Una storia analoga a quella di Natalia Berla. Ma ce ne sono anche altre. Solo scorrendo le pagine dei giornali del tempo. “Cuore” affronta anche un tema importante per capire Muccioli e il legame coi suoi ragazzi, quello della sua possibile omosessualità, un tema che, assieme alla possibile morte per Aids, mai riconosciuta dalla famiglia, “SanPa” affronta solo nella quinta puntata. Anche per offrire un finale a effetto. Vera o falsa che sia, l’omosessualità di Muccioli mi pare una sorta di prolungamento dell’idea di padre-patriarca onnivoro, che tutti abbraccia e bacia in bocca, che aveva di sé Muccioli fin dall’inizio. Una sorta di Kronos, che riempie gli spazi lasciati aperti dai cattivi genitori di sinistra rei di non dare schiaffi e pugni salvifici ai propri figli, come diceva Paolo Villaggio. Spazi vuoti riempiti dai buchi dell’eroina.  Ma ci sarebbe da dire, e questo magari è un altro film…, che questi padri di sinistra (e non) non erano carenti solo di schiaffi, ma anche di presenza e di esempio. I due padri famosi in questione, Enrico Maria Salerno e Paolo Villaggio, appunto, non mi sembrano proprio due campioni di padri da seguire come esempi. Certo è che Muccioli padre-padrone con le sue catene e le sue prigioni offriva a questi figli abbandonati dai padri l’immagine giusta del maschio che compensa tutto queste mancanze, anche l’amore, e che ti punisce per salvarti. La morte, insomma, è un danno collaterale. Come sostiene Red Ronnie. Capisco Indro Montanelli che ancora da vecchio sentiva il fascino del Duce, e al quale, leggo, Muccioli aveva regalato un cavallo da corsa battezzato IndroMo, ma non capisco come ci sia cascato un cattolico illuminato come Enzo Biagi, che, assieme al suo amico fraterno Monsignor Ersilio Tonini, difese sempre Muccioli. Anche nei momenti più bui. Scrisse anche la prefazione a un libro autobiografico, “Io Muccioli”, a cura di Chiara Beria di Argentine, giornalista anche coraggiosa (ricordate la guerra contro Berlusconi su “L’Espresso”?), che finirà a dirigere addirittura il settimanale “San Patrignano”. E doveva presentare (ma poi non andò), con Sergio Zavoli, Indro Montanelli e Chiara Beria anche il libro di Davide Giacalone su Muccioli nel 1993. Possibile che non avesse dei dubbi? Perfino Aldo Grasso, in quegli anni, sul Corriere percula il Mucciolismo-Jovanottismo di Red Ronnie col suo “Roxy Bar”, dicendo quello che un po’ tutti si pensava. Anche se il Pci/Pds non entrò mai davvero in polemica con Muccioli. Tra le poche voci discordanti, a parte il numero cattivissimo di “Cuore” che andrebbe recuperato, ricordiamo però quella di Gad Lerner, che in una coraggiosa puntata di “Milano, Italia” su Rai Tre durante l’ultimo processo, proprio da San Patrignano ospitò un durissimo intervento di Don Oreste Benzi, che fermamente disse “Non so quanti siano i desparecidos. So soltanto che c’è chi scappa e non torna più. Poi magari un giorno sotto terra si trovano i cadaveri”. Oltre a quello di Don Benzi ci fu inatteso l’intervento di una ragazza, Laura Carpinelli, che parlò di essere stata oggetto e testimone di violenze. Subito però linciata sui giornali del tempo come tossica e poco attendibile. Tutto quello che ho ricordato dovrebbe un po’ dare una risposta alla domanda, niente affatto banale, sul perché questo documentario non l’abbia fatto la Rai? Mi sembra chiaro che in Rai, San Patrignano e Muccioli, siano ancora un tabù. Magari anche un buco profondo di non detti e di ricordi imbarazzi dove è meglio non entrare. E qui cito il mio amico Carlo Freccero, che vent’anni fa, da direttore di Rai Due propose una speciale su San Patrignano, credo condotto da Michele Santoro, che ovviamente non si fece. Come non si fece la fiction della Lux, che certo non sarebbe stata così critica. All’epoca, più o meno nel 1996, appena usciti dalla presidenza ultramuccioliana di Letizia Moratti, che solo un anno prima aveva prodotto su Rai Due sei ore di concerto maratona da San Patrignano in onore di Muccioli presentate da Red Ronnie (ancora…) e Vincenzo Mollica, “Tutti colori del cielo”, con tanto di Zero-Dalla-Alice-Vecchioni-Baudo e su Rai Uno uno specialone di Enzo Biagi, con l’avvento del primo governo Prodi le cose erano cambiate. Non fecero il secondo concerto, e trasmisero in sordina il terzo, su Rai Tre, ideato da Renato Zero, che lo aveva proposto anche su Canale 5. Ma Prodi tolse il patrocinio anche al convegno sulle droghe di San Patrignano nel 1996. Vennero Letizia Moratti, Red Ronnie (ovvio…), Julio Velasco e Monsignor Tonini, ma scapparono Carlo Rossella, Mino Fuccillo e Vittorio Feltri. Segno che anche da destra iniziava un certo distacco. Allora il Pd e quindi Prodi avevano il problema delle droghe leggere, che giustamente Livia Turco tendeva a staccare dalle droghe pesanti, mentre i seguaci di Muccioli vedevano pericolose come l’eroina. Detto questo, non ricordo in questi 25 anni che ci separano dalla morte di Muccioli un qualche interesse sull’argomento San Patrignano da parte della Rai. Meglio fare una bella fiction su Chiara Lubich, insomma. Se la Rai Due morattiana e socialista fu allora la voce ufficiale di San Patrignano e le sue apparizioni in tv, sia sui canali Rai che su quelli Mediaset, stavo scordando Costanzo, furono davvero momenti di propaganda, la Rai di questi ultimi anni e di ora da una parte tende a dimenticare un passato in effetti poco glorioso, da un’altra a non affrontare un tema che potrebbe rivelare ancora una vicinanza al mondo della Rai muccioliana. Per me, che al tempo facevo Blob, era tutto chiaro. Muccioli non era tanto dissimile dai tanti mostri che affollavano i canali nei talk show di Funari, di Magalli, di Costanzo. Il problema è che quel mondo, in Rai come a Mediaset, non è affatto finito. Certo, al posto di Biagi abbiamo Vespa. Che non è la stessa cosa. Rimane Red Ronnie. Sembra che Freccero gli avesse rifiutato di portare un programma alla “Roxy Bar” su San Patrignano su Rai Due. Può dire quello che vuole, ma queste cinque puntate di “SanPa” nascono in gran parte dai suoi materiali pazzeschi girati al tempo con Muccioli, comprese le dirette dai processi. Come nascono dalle teche dei telegiornali di TMC oggi La7, che avevano una visione più laica, meno politicizzata rispetto ai telegiornali della Rai. Ci sono perfino materiali di Tela Capodistria. E direi che proprio dal gran lavoro fatto sui materiali esterni, non Rai, fra Tmc e Red Ronnie files, viene fuori la parte più nuova e entusiasmante del documentario. Qualcosa che non si poteva fare solo coi materiali della Rai, che pure nascondono delle perle assolute. E che forse non si poteva fare neppure con la Rai, che non aveva l’indifferenza di Netflix riguardo al passato politico dell’azienda e del paese. Ma una telefonata a Jovanotti gliel'avranno fatta?

Fabio Cutri per il “Corriere della Sera” il 7 gennaio 2021. «Ho visto un ragazzo puntare un coltellaccio in pancia a mio babbo, avevo 16 anni. E sì, in quel periodo lui di schiaffoni ne ha dati non pochi. Sapevo anche dei ragazzi incatenati perché non fuggissero. Certo che la violenza c'era a San Patrignano, stiamo parlando di una guerra. Una guerra che però è stata vinta con la forza dell' amore». Andrea Muccioli, figlio e per 18 anni successore di Vincenzo, è uno dei protagonisti di SanPa , il documentario di Netflix che racconta le origini della celebre comunità di recupero riminese. «Beh, non lo definirei proprio un documentario. È pura e semplice fiction. Cerca l' effetto "pulp" creando più ombre possibili intorno alla figura del protagonista. Ci riesce benissimo, ma ne falsifica la storia, il pensiero e il modello».

Racconta dei fatti, ripercorre i processi, ci sono le testimonianze.

«Racconta alcuni fatti. In questi giorni sono subissato di telefonate di ex ospiti e dei loro genitori che mi dicono che quella non è la realtà che hanno vissuto. Mio padre in 17 anni ha accolto 8 mila persone. La Procura di Rimini raccolse le testimonianze di 200 persone: sono il 2,5%. La storia di San Patrignano non può essere guardata solo da questa prospettiva».

Quindi lei pensa che i metodi coercitivi usati in quegli anni siano incidenti di percorso?

«Non lo penso. Credo anzi che siano stati errori gravissimi. Ma quando parliamo di San Patrignano non parliamo della Caritas, con tutto il rispetto. Parliamo di un percorso drammatico di accoglienza di giovani, i tossicodipendenti degli anni '80, che distruggevano le loro famiglie ed erano abbandonati dallo Stato. Venivano da contesti violenti e sarebbe stato inimmaginabile gestirli con la violenza. Perché la violenza la conoscevano e la esercitavano meglio di te. Come si fa a pensare di poter tenere insieme non dico mille persone, ma anche solo dieci con la forza? Scherziamo? Ecco, a proposito di fatti: la riprova di quello che dico sono le centinaia di bambini che i tribunali di tutta Italia ci diedero in affidamento».

I critici di Vincenzo Muccioli descrivono un padre padrone che ha costruito un metodo terapeutico incentrato sul suo carisma.

«Lui per primo si definiva un padre, e a volte questa cosa gli è sfuggita di mano. È vero. Lo ripeto, gli ho visto mollare ceffoni. Ma attenzione: non ha mai autorizzato nessun altro a farlo. "Un fratello non alza mai le mani su un suo fratello" diceva. Lui voleva essere una figura forte di riferimento perché i ragazzi riacquistassero la fiducia e il rispetto in se stessi».

Qual è stato il suo errore?

«Voler salvare tutti. L'accoglienza incondizionata ha un prezzo alto da pagare. Lui questo non lo accettava e così facendo a volte ha dato ai ragazzi una responsabilità più grande di quella che erano in grado di gestire. "Metto un letto a castello in più e ci arrangiamo" diceva di fronte alle centinaia di persone accampate fuori dal cancello. Ha aperto troppo rispetto alle nostre capacità organizzative. Il risultato è che ha delegato anche persone impreparate a gestire ragazzi in difficoltà».

Nel '93 si scoprì che un ospite, trovato cadavere in una discarica napoletana, era stato ucciso di botte dentro San Patrignano e poi trasportato in Campania. Suo padre prima affermò di non averne mai saputo nulla, poi cambiò versione. A lei cosa disse in quei giorni?

«Alla notizia che Roberto Maranzano era morto in comunità reagì dicendo che una cosa del genere non era possibile, e io gli credetti. Quando venne fuori che sei mesi dopo il delitto, nell' 89, lui era stato informato, fu come se mi fosse scoppiata una bomba in faccia».

Perché suo padre non denunciò subito?

«Era in corso il processo per le catene, dal quale fu poi assolto. Credo temesse che su San Patrignano si abbattesse un colpo letale».

Come furono quei mesi?

«Estenuanti. Arrivai a scontrarmi duramente con lui, perché ritenevo sbagliato aprire San Patrignano alla stampa. Eravamo sotto attacco e dentro la comunità c'erano giornalisti ovunque, sempre. La pressione era troppa, ma mio padre era convinto di poter gestire tutto a suo favore grazie al potere mediatico che aveva. Alla fine si ammalò, e la depressione lo ha strangolato. "Devo morire io perché San Patrignano continui a vivere" mi confessò».

Walter Delogu, suo autista e guardia del corpo, il grande accusatore, quello che lo registrò di nascosto mentre Muccioli parlava di eliminare persone scomode, racconta che lo stesso Muccioli gli aveva promesso centinaia di milioni in regalo ma non mantenne l'impegno. Perché dare cifre simili a un autista?

«Delogu non aveva altre capacità che guidare la macchina. L'errore più grosso fu quello di dargli una pistola, la stessa che aveva addosso quando venne a chiedere soldi a mia madre. È stato condannato per estorsione. Il denaro? Mio padre di promesse ne ha fatte tante, lo avrebbe aiutato a farsi una vita fuori, ma forse la sua idea era di farlo gradualmente. La registrazione? Chiacchiere da bar, il babbo era fatto così, eccedeva spesso nel linguaggio».

Si racconta che a molti ospiti non fu comunicato che fossero sieropositivi. Una cosa taciuta dai vertici anche per anni.

«Improvvisamente scoprimmo che in una comunità di 2 mila persone, 3 su 4 erano sieropositivi. Se lo avessimo detto a tutti nello stesso momento sarebbe stato il caos. Abbiamo scelto di comunicarlo uno ad uno, prendendo tempo. A distanza di anni? Ovviamente no. Io, per inciso, giocavo tutti i giorni a basket con ragazzi che sapevo essere sieropositivi».

Dopo la morte di suo padre, nel '95 lei prese in mano le redini della comunità.

«Non lo avrei voluto. Furono la comunità e i suoi finanziatori a scegliermi. Ribadii le regole stabilite da Vincenzo Muccioli: uno, mai ricevere soldi né dalle famiglie né dallo Stato; due, nessun finanziatore esterno deve intervenire nella gestione della comunità e dei ragazzi».

Moratti compresi?

«Certo. La prima cosa che feci fu andare da Gian Marco e Letizia e restituire il miliardo di lire che loro avevano dato a mio padre per assicurare ai suoi figli un futuro dopo San Patrignano, dal momento che si era spogliato di tutti i suoi beni e noi non possedevamo nulla».

Un gesto generoso da parte loro.

«Mio padre li chiamava i Dallas, erano molto amici. Dall' 82 in poi hanno fatto tanto per San Patrignano, e lo hanno frequentato assiduamente: come ospiti però, mai come volontari con i ragazzi né come fondatori».

Nel 2011 cosa è successo?

«È venuta meno la fiducia reciproca. Io non ero d' accordo con le loro scelte politiche e finanziarie, i Moratti volevano prendere il controllo della comunità. Così mi hanno destituito. Il messaggio alla comunità fu: se resta lui, chiudiamo i rubinetti. Mi sono ritrovato a dover ripartire da zero con una famiglia sulle spalle. Oggi faccio il consulente per il terzo settore e l' enogastronomia. Non ho rimpianti».

L' amarezza più grande legata a Sanpa?

«Il giorno in cui mia mamma e io andammo a prendere le spoglie di mio padre per portarle via da lì. Un' amarezza? Un dolore enorme».

Chi era Vincenzo Muccioli?

«Una montagna di uomo, con due mani grandi e degli abbracci che ti inghiottivano. Considerava tutti i ragazzi che soffrivano parte della sua famiglia, li chiamava i miei figli. Io ero uno di loro. Oggi (ieri, ndr ) avrebbe compiuto 87 anni».

Anticipazione stampa da OGGI il 13 gennaio 2021. In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, Andrea Muccioli, figlio del fondatore di San Patrignano e suo erede al vertice della comunità di recupero per tossicodipendenti per 16 anni, torna sulle polemiche legate al docufilm di Netflix «SanPa» e fa luce sulla sua clamorosa estromissione nel 2011. Dopo aver difeso la figura del padre («Lui era come un gigante che apre la strada a colpi di machete in una foresta inesplorata, dove nessuno voleva entrare... Questo è stato mio padre: certo che facendolo ha commesso anche degli errori… ha dovuto delegare a persone che non erano assolutamente preparate a farlo. Questo è stato l’errore più grave, che ho cercato in parte di non rifare»), Andrea Muccioli racconta la sua estromissione per volontà della famiglia Moratti. «È stato creato un buco finanziario e hanno dato la colpa a me, ecco il complotto…perché, se sono stato un ladro o un mostro, nessuno mi ha mai portato in tribunale? Strano, vero? In compenso, a chiunque è stato proibito di avere rapporti con me o con la mia famiglia: perché mai? Sono stato male. Ma non perché abbia dovuto reinventarmi la vita, con i 78 mila euro che mi hanno dato come “liquidazione” per vent’anni di volontariato. Ma perché la mia identità è stata distrutta. Io, mia moglie e anche i miei figli per anni siamo stati depressi… Eravamo stati ridotti a dei paria. Da chi? Dai finanziatori, dalla famiglia Moratti». Il motivo della rottura? Risponde Andrea Muccioli: «In parte i figli hanno spinto i genitori. Ma probabilmente ci ho messo del mio, facendo trasparire che non condividevo molte delle loro scelte, di tipo strategico o politico».

Il presidente di San Patrignano: “La nostra è una storia fatta da migliaia di storie, vanno tutte rispettate”. Notizie.it il 05/01/2021. In un'intervista a Notizie.it, il presidente della comunità spiega perchè San Patrignano è molto più degli episodi di violenza mostrati dalla docu-serie SanPa: "Quando racconti una storia devi raccontarla tutta". “Sono quello che sono grazie a San Patrignano e a Vincenzo Muccioli, ma anche nonostante San Patrignano e Vincenzo Muccioli”. Si chiude così, con le parole di Fabio Cantelli (ex ospite e responsabile dell’ufficio stampa della comunità), la discussa docu-serie Netflix SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, ideata da Gianluca Neri e scritta con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli. Perché è proprio lì, tra luce e ombra, che resta sospesa la storia della comunità e del suo fondatore. È difficile ridurre a un giudizio univoco un’esperienza complessa come quella di San Patrignano, e forse non bisognerebbe neppure provarci. Su quella collina alle porte di Coriano riecheggia ancora il rumore delle catene ma anche le voci delle migliaia di ragazzi strappati all’inferno della tossicodipendenza. Qui convivono le storie di Roberto Maranzano e di Antonio Boschini, si ascoltano testimonianze di violenza e di redenzione. “Quando racconti una storia devi raccontarla tutta“, per dirla con le parole di Alessandro Rodino Dal Pozzo, ex ospite e oggi presidente di San Patrignano. In un’intervista a Notizie.it racconta la sua esperienza in comunità dall’85 a oggi, spiega in cosa consiste davvero il “metodo SanPa” e svela il lato intimo e nascosto di Vincenzo Muccioli. Intervista ad Alessandro Rodino Dal Pozzo. Come comunità di San Patrignano, avete già rilasciato alcune dichiarazioni molto critiche sulla docu-serie.

Cos’ha provato quando ha visto per la prima volta “SanPa”?

«Abbiamo diffuso un comunicato stampa in cui spieghiamo ampiamente la nostra posizione. Quello che vorrei sottolineare è che dissociarsi significa non riconoscersi in una produzione sbilanciata in cui si vuole far passare la violenza come metodo di San Patrignano. Quegli avvenimenti non qualificano la realtà prevalente di allora».

Lei è entrato a far parte della comunità come ospite negli anni Ottanta, dunque ha vissuto parte di quello che viene mostrato nella serie.

«Esatto, sono arrivato a giugno del 1985. Ecco perché posso dire che quei casi di violenza non rappresentano la realtà che io e molti altri abbiamo vissuto. Certo, ci sono stati degli episodi terribili in alcune delle aree adibite al contenimento e alla gestione dei casi più difficili, ma molti di noi non erano neanche a conoscenza di determinate situazioni, se non per sentito dire. Pensi che ho scoperto quello che è successo a Fabio Cantelli (nella docu-serie racconta i suoi tentativi di fuga, la “chiusura” e come Muccioli per anni gli ha nascosto l’esito del suo test per l’Hiv, ndr) solo guardando la serie. Conoscevo Fabio ma vivevamo e lavoravamo in settori molto distanti, non avevamo una conoscenza ravvicinata».

Dunque non ha fatto esperienza delle catene e delle cosiddette “chiusure”?

«No, la violenza non ha mai fatto parte del mio percorso, così come tanti altri. Non ho neppure mai provato a scappare. La complessità della realtà di allora è un tema ampio e delicato, ma posso dire che noi abbiamo prevalso, abbiamo trovato il bene attraverso persone che ce lo hanno fatto conoscere. San Patrignano è una storia fatta da migliaia di storie e vanno tutte rispettate».

Ha detto che l’errore della serie è far passare la violenza come metodo di San Patrignano. Qual era, allora, il vero metodo della comunità?

«Un metodo basato sui principi di rispetto, di dedizione, e soprattutto sull’esempio. Questa era l’arma vincente. C’erano persone che cercavano di starti vicino, nella maniera giusta, e ti mostravano come trasmettere il bene agli altri. Questo non è cambiato, si è solo evoluto: l’accoglienza e l’altruismo sono il filo rosso che unisce ieri e oggi. Non era l’isola felice, certo. Erano tempi duri, c’erano persone molto difficili, anche il contesto sociale era diverso. Non si sapeva bene cosa si nascondesse dietro ai problemi di droga. Da questo derivava anche una complessità di gestione. Io ero un ragazzino…»

Quanti anni aveva quando è entrato in comunità?

«Avevo vent’anni».

Parlava dell’importanza dell’esempio. Il punto di riferimento principale era, naturalmente, Vincenzo Muccioli.

«Non solo lui, ma anche le persone che erano qua insieme a lui per dedicarsi a noi. Chiaramente poi doveva entrare in gioco la capacità di raccogliere e utilizzare quell’esempio positivo nel modo migliore. Fare o non fare un percorso dipende sempre da te. Ma c’erano delle persone perbene, questo non può essere messo in discussione. Per fare del bene ci vogliono persone buone».

C’è qualcuno che si è allontanato dopo che sono venuti alla luce gli episodi di violenza?

«Sicuramente. Per tanti di noi è stato difficile riconciliarsi con episodi terribili che sono avvenuti nella stessa casa dove noi stavamo facendo un percorso completamente diverso. Vivevamo la quotidianità in luoghi e modi ben lontani, non avevamo una visione d’insieme di quello che succedeva in comunità. Se su dieci cose fatte, otto sono state fatte bene e due male, non è giusto che queste due danneggiano le altre otto. Siamo stati descritti come se tutti agissimo in quel modo, è stato pesantissimo».

Nella docu-serie vengono mostrati diversi filmati e raccontati diversi episodi che fanno discutere. Uno dei più controversi, al di là di quelli che fanno ormai parte della cronaca giudiziaria, è quello delle lettere (la posta in entrata e in uscita veniva controllata da Muccioli e dai suoi aiutanti, ndr).

«Certo che venivano aperte, però non per controllare cosa c’era scritto ma perché con la posta arrivavano buste di eroina, soldi, cartine per gli acidi. Stiamo parlando di una situazione in cui spesso i ragazzi avevano partner o familiari spacciatori. C’erano casi di padri che mandavano l’eroina ai figli per tenerli buoni mentre stavano in comunità. Ricordo un papà che la nascondeva in un orsacchiotto. È questo lo sbilanciamento di cui parlavo prima: quando racconti una storia devi raccontarla tutta, devi stare molto attento perché altrimenti rischi di dare solo una versione».

Un altro episodio controverso è quello dell’anello (una ragazza della comunità racconta a Muccioli di essere vittima di violenza sessuale e lui le risponde che è difficile infilare un anello in un dito se questo non sta fermo, ndr).

«Non è un bel filmato, non fa passare un bel messaggio. Sinceramente l’ho anche trovato un po’ imbarazzante. Forse lo capisce solo chi conosceva personalmente Muccioli. Io avrei espresso quel concetto in modo molto diverso, ma lui aveva un modo tutto suo di dire le cose, anche con uscite che ti lasciavano un po’ perplesso».

Proprio la figura di Muccioli è il vero perno della docu-serie e della stessa San Patrignano. Com’era e cos’ha significato per lei che lo ha conosciuto?

«Vincenzo è riuscito a instaurare con chiunque un rapporto forte e personale, intimo, anche se a volte difficile. Tutti coloro che l’hanno vissuto possono capire quello che sto dicendo. Io ho avuto un rapporto leale con Muccioli, così come l’hanno avuto tanti altri ragazzi. Abbiamo preso le cose che diceva, le abbiamo fatte nostre e abbiamo cercato di usarle per la nostra crescita».

Qual è il ricordo più significativo che ha di Muccioli?

«Vincenzo si ricorda per gli abbracci. Il suo abbraccio smorzava la tensione e assorbiva la sofferenza che in quel momento provavi (e ne potevi provare tanta in questo percorso). L’abbraccio è rimasto ancora oggi il filo conduttore di San Patrignano dal momento dell’ingresso, è lo stesso abbraccio che ritrovi nel percorso nei momenti di dolore e che poi si trasforma nel saluto finale quando il ragazzo si reinserisce. Quando Giorgio Gandola ha scelto il titolo Tutto in un abbraccio per il libro che ha scritto mi ha dato un’emozione grandissima».

In comunità ha avuto modo di incontrare anche i Moratti?

«Certo, li ho visti subito, a pochi giorni dal mio ingresso. È stata una scoperta vedere lì personaggi della Milano di un certo tipo, persone che potevano essere ovunque e che invece passavano il weekend in mezzo ai ragazzi per aiutarli. Letizia Moratti in cucina pelava le patate, contenta, come se fosse una ragazza qualsiasi. Sono sempre stati molto discreti e rispettosi. Anche questo rappresenta la realtà di allora».

Com’è oggi San Patrignano?

«La comunità oggi è più formata, più strutturata. Non possiamo rinnegare la nostra storia, non vogliamo nemmeno, anche se racchiude episodi davvero pesanti. Non vogliamo dire che questi ragazzi sono tutti felici e contenti, ma oggi non abbiamo situazioni di contenimento né di violenza, al massimo qualche litigio. Negli ultimi dieci anni abbiamo avviato anche un programma di prevenzione e diamo particolarmente importanza all’attività di reinserimento, di formazione scolastica e professionale. L’anno scorso abbiamo avuto 105 ragazzi iscritti alla scuola e decine che hanno fatto corsi di formazione. Abbiamo laboratori di artigianato e nel settore agroalimentare. Oggi la comunità è un posto dove puoi trovare delle risposte, mettere a posto la tua vita e tornare nella società».

Che conseguenze ha avuto la pandemia sulla comunità? C’è stato un incremento di richieste per entrare a San Patrignano?

«Sì, abbiamo avuto tantissime richieste che non siamo riusciti a soddisfare a causa delle restrizioni. Durante il lockdown molte famiglie hanno scoperto le problematiche dei figli, così come molti adulti hanno cominciato a bere e fumare o a usare sostanze dopo aver perso il lavoro per una depressione. Non stiamo parlando solo di ragazzini. C’è poi il tema della cannabis. Tra gli ingressi abbiamo registrato un aumento dei casi di dipendenza da cannabis. Negli anni ’80/’90 questo problema non era rilevato perché tutto era oscurato dalla questione delle droghe pesanti, prima fra tutte l’eroina».

Da ilfattoquotidiano.it il 9 gennaio 2021. (…) In comunità venne Giorgio Almirante, poi mandò una lettera a Muccioli che iniziava così: "Ingegnere!". Muccioli non era neppure laureato. Almirante tornò, continuava a chiamarlo ingegnere. Muccioli spiegò di non esserlo e Almirante rispose: "Lei è ingegnere: costruisce uomini!". Ridemmo molto. Era mai in soggezione? No. Anche con Craxi aveva un rapporto paritario. Stimava molto Pannella. Su quale terreno si incontravano? Forse sul narcisismo.

Giorgia Meloni per leggo.it l'8 gennaio 2021. Sono stata tante volte a San Patrignano e nelle occasioni in cui ho visitato la comunità, ho parlato con i suoi responsabili e conosciuto alcuni dei ragazzi ospiti, ho imparato molto. Ho ritrovato amici “persi” da anni e scoperto, tra le persone migliori che avevo al mio fianco, uomini “salvati” da Vincenzo Muccioli. E lasciandomi quelle colline alle spalle mi sentivo sempre più forte nella lotta alle droghe e nell’impegno per vere politiche di recupero delle persone con problemi di dipendenza, perché avevo visto con i miei occhi la possibilità di vincere la battaglia. In questi giorni si è tornato a parlare tanto di questa realtà e del suo fondatore per un documentario su Netflix che ha scatenato un aspro dibattito e riacceso polemiche ideologiche che pensavamo fossero dimenticate. Una serie, inserita tra decine di altre, che raccontano di droghe, produzione, consumo sfrenato e che spesso fanno apparire l’uso di sostanze come una “normale consuetudine”. Una narrazione parziale e mistificatrice si è abbattuta contro San Patrignano e ha colpito la memoria di un uomo straordinario, che ha salvato tantissime vite nell’indifferenza dello Stato. Mi fa rabbia vedere come questo dibattito sia alimentato solo per distruggere qualcuno o magari per regolare conti del passato e che non sia l’occasione per occuparsi dell’emergenza droga in Italia. Perché mentre i soliti commentatori condannano senza appello Muccioli, nessuno spende una parola su una realtà allarmante: un morto al giorno per overdose, Italia prima in Europa per uso di cannabis tra gli studenti e quarta per frequenza di uso di cocaina nella popolazione generale, polidipendenza diffusa tra i giovanissimi, bimbi ricoverati in ospedale per assunzione accidentale di droga lasciata incustodita dai genitori, neonati già in crisi d’astinenza e che hanno bisogno di metadone. Senza dimenticare la cronaca giudiziaria e i legami tra spaccio e criminalità organizzata, in particolare nigeriana. Questo non interessa a chi governa, così come negli anni ‘70 passava nell’indifferenza che la droga dilagasse e che qualcuno su quelle colline vicino Rimini avesse deciso di dire basta. L’assenza di politiche sulle dipendenze è sotto gli occhi di tutti e, senza timori di smentite, Fratelli d’Italia è l’unico partito che ha avuto il coraggio di denunciarlo. Da quasi 10 anni non viene rifinanziato il Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga, l’ultima Conferenza nazionale sulle politiche antidroga si è celebrata nel 2009, la delega governativa sulle politiche antidroga non è mai stata assegnata, non c’è traccia di un piano nazionale per contrastare e prevenire le dipendenze patologiche, e gli operatori del settore pubblico e del privato sociale sono abbandonati. Quadro drammatico che la pandemia da covid ha peggiorato. È su questo che la politica, le Istituzioni e i grandi mezzi di comunicazione sono chiamati a confrontarsi, chiudendo nel cassetto interessi di parte (e di partito). A noi interessa dare risposte agli italiani e vogliamo farlo, rimettendo al centro del Parlamento questa sfida. A partire dalla proposta di legge di Fratelli d’Italia presentata nel dicembre 2019 sulla riforma del sistema dei servizi sulle dipendenze, che mette comunità, servizio pubblico e associazioni nelle condizioni di affrontare efficacemente un fenomeno in continua evoluzione. Mettiamo questo testo a disposizione di tutti e chiediamo alle forze politiche di confrontarsi nel merito, senza pregiudizi e totem ideologici.

San Patrignano, Cappato: “Muccioli e Pannella sulle droghe agli antipodi ma d'accordo su: mai più un tossicodipendente in carcere”. Le Iene News l'08 gennaio 2021. La docuserie Sanpa ha acceso il dibattito sul fondatore e i primi anni della comunità di recupero per tossicodipendenti San Patrignano. Marco Cappato ci parla del congresso del ’95 che vide proibizionisti e antiproibizionisti confrontarsi proprio all’interno della comunità. “Sono stato a San Patrignano nel gennaio del 1995 in occasione del congresso del CoRa, coordinamento radicale antiproibizionista”. Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, in un lungo post su Facebook racconta del dibattito tra Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità di recupero di vittime della tossicodipendenza San Patrignano, e Marco Pannella, leader dei Radicali. Cappato era tra i congressisti e ricorda con precisione quell’evento, quel dibattito tra visioni contrastanti. Gli anni della fondazione della comunità e la figura di Vincenzo Muccioli sono tornati al centro del dibattito dopo l’uscita della docuserie “SanPa”. Abbiamo intervistato Marco Cappato per ripercorrere con lui il congresso del ’95 e il dibattito di quegli anni sulla droga in Italia.

Hai assistito al dibattito tra Muccioli e Marco Pannella, due uomini con visioni sulla droga agli antipodi.

“Pannella era il leader dell’antiprobizionismo e della legalizzazione delle droghe come strategia per ridurre, da un punto di vista sanitario, il danno sui consumatori di droghe e, da un punto di vista sociale, ridurre il danno del rafforzamento del potere mafioso e criminale che il proibizionismo induce. Per quanto riguarda Muccioli, forse all’inizio la sua non era una linea politica, ma una impresa e strategia imprenditoriale di assistenza, salvataggio e recupero di persone tossicodipendenti. Poi negli anni la necessità di rafforzare il proibizionismo e la durezza delle leggi in materia di droga è diventata la sua linea politica”.

Perché la scelta di organizzare il congresso antiproibizionista proprio a San Patrignano?

“Fu un’idea di Pannella di chiedere a Muccioli di tenere lì il nostro congresso. Pannella e Muccioli si erano scontrati per anni sulla questione delle droghe. Muccioli fu contento di ospitarci per tre giorni di congresso. Era un segno di disponibilità al dialogo che poi nel corso del congresso è diventato anche un punto d’intesa comune, che non eliminava lo scontro tra proibizionismo e antiproibizionismo. E il punto d’intesa e obiettivo comune era: mai più un tossicodipendente in carcere. Pannella e Muccioli a questa idea ci arrivavano da percorsi diversi, ma era comunque un punto in comune significativo e lo è ancora oggi se pensiamo che un terzo delle persone detenute sono direttamente o indirettamente legate a questioni di droghe. Non è un punto d’intesa marginale”.

Che impressione ti fece San Patrignano nel ’95?

“Mi colpì l’enormità, la dimensione del posto. Non avevo mai visto una sala mensa così grande. Mi ricordo che ci si alzava tutti in piedi prima del pranzo, c’erano una sorta di riti, non voglio dire militareschi perché sarebbe eccessivo, ma comunque procedure che coinvolgevano all’unisono un numero impressionante di persone. Dava l’impressione di qualcosa di organizzato fino nei minimi dettagli, sembrava che non ci fosse nulla lasciato al caso. Muccioli con tutte le luci, le ombre e i crimini, ha creato qualcosa di enorme. E si è posto negli anni un’esigenza e un obiettivo molto pratico: salvare la vita delle persone. Che questa fosse una volontà e un impegno umano totalizzante da parte sua, questo si respirava fisicamente nell’entrare a San Patrignano”. “Io credo che anche gli errori più gravi e crimini nella comunità siano stati il risultato di avere considerato quella strategia, la sua strategia di una comunità chiusa e quindi totalizzante, come l’unica strategia buona. In realtà già dagli anni ‘80 nel mondo si affermavano strategie e modalità alternative, ad esempio penso alla figura di don Gallo e l’utilizzo di terapie sostitutive. In Svizzera all’inizio degli anni ‘90 iniziò ad affermarsi la questione delle terapie a base di eroina. Si tratta di far entrare il tossicodipendente in un percorso di somministrazione di eroina legale sotto il controllo medico, cercando di ridurre via via le dosi e portarlo a uscirne”.

Com’era il dibattito sulla droga in Italia negli anni in cui si tenne il congresso?

Negli anni Ottanta venne lanciata la “war on drugs”, un’offensiva proibizionista forte, dura, militarizzata a cui l'Italia si accodò perfettamente. Fu messa in piedi la grande macchina della guerra alle droghe. Non c’è voluto molto tempo per constatare che il rafforzamento della guerra rafforzava solo l’entità dei problemi. Anche perché non puoi pensare di risolvere problemi che riguardano centinaia di migliaia di persone, e se ci mettiamo anche la cannabis arriviamo a milioni, dentro quattro mura. Evidentemente quel sistema non poteva reggere e quindi il dibattito si era rivelato necessario. Oggi la soluzione che si sta seguendo è quella paradossale di non far rispettare la legge. Oggi i consumatori di cannabis sono, secondo i dati della Procura Antimafia, 4 milioni di persone. Di fronte a una popolazione così grande l’unica possibilità di tenere un minimo di convivenza sociale è che la legge non sia applicata. Siccome nessuno oggi osa più riproporre il modello della “war on drugs”, di fatto si risolve all’italiana: la legge non si applica se non per i poveracci, i tossicodipendenti abituali che ogni tanto vengono arrestati per tenere alti i risultati e per dire che si sta facendo qualcosa contro le droghe. Ma non è più qualcosa in cui la politica crede. Ogni tanto c’è il tweet di Salvini, ma nessuno ha provato davvero a fare qualcosa. La soluzione è fare finta di nulla ed evitare al massimo il dibattito, anche a sinistra. Ai tempi di Muccioli c’era uno scontro politico forte, chiaro, da cui potevano nascere compromessi o intese parziali, che nascevano proprio dallo scontro. Oggi non c’è nulla. Non c’è scontro, non c’è dibattitto. L’unica speranza viene dall’estero: come il fatto che diversi stati Usa abbiano scelto, attraverso il referendum, la via della legalizzazione della cannabis, e in alcuni stati addirittura degli psichedelici, oppure che l’Onu abbia declassificato la cannabis dalla tabella delle sostanze riconoscendone le proprietà terapeutiche”.

Nella serie “SanPa” di Netflix viene riportata la frase di Pannella a Muccioli: “Io mi occupo della guerra, tu dei feriti”.

"Parafraserei così questa frase: un conto è se tu Muccioli porti i risultati delle vite che riesci a salvare a San Patrignano, un conto è se trasformi quello che fai nella tua comunità come una proposta politica per tutto il paese. Come se quella fosse la soluzione politica sulle droghe. Questo sarebbe impossibile, vorrebbe dire rinchiudere in comunità un numero insostenibile di persone".

Hai visto la docuserie? Cosa ne pensi?

"L’ho vista, mi è sembrata molto utile. Non vedo neanche grossi margini di polemica. Fa vedere una realtà, poteva enfatizzare di più gli aspetti negativi o farli vedere di meno. Penso in particolare che il documentario sia molto efficace nel mostrare qualcosa che riguarda tutte le realtà umane: come la crescita della dimensione abbia provocato dei meccanismi di gestione dell’ordine e della disciplina che sono gli stessi se si studiano i comportamenti all’interno dell’esercito e delle comunità chiuse. Finché un rapporto è di tipo personale, che riusciva a gestire Muccioli direttamente, allora è chiaro che la passione che lui metteva in questa missione poteva esercitare un effetto su ciascuna delle persone con le quali aveva a che fare. Ma quando diventano migliaia di persone si afferma la logica della gerarchia, dei capi e dei capetti. Il documentario è efficace nel mostrare come questa situazione non potesse che scappare di mano".

Del cosiddetto “metodo San Patrignano”, costringere anche con la forza i ragazzi a non bucarsi, arrivando se necessario a usare le catene, cosa pensi?

"Sono passati più di 30 anni e nel frattempo sono stati fatti passi avanti enormi nell’applicare e studiare altri metodi che non implicano lo stesso grado di coercizione e meno che mai di violenza. Io penso che il fine non giustifica i mezzi. Oggi le alternative sono molto più solide sul piano medico-scientifico. Negli anni Ottanta la situazione era diversa. Questo non significa per me giustificare quello che è accaduto bensì cercare di comprendere cosa è accaduto e uno degli errori di Muccioli: non voler nemmeno prendere in considerazione alternative a quel metodo".

Secondo te qual è il miglior metodo per uscire dalla tossicodipendenza?

"Non c’è un unico metodo perché le persone sono diverse. Oggi è sempre più centrale l’importanza che la persona possa ricostruirsi una propria vita".

Nel 2018, con la Iena Cizco, siamo entrati a San Patrignano, una delle comunità di recupero più grandi del mondo, dove convivono più di 1300 persone. Abbiamo parlato e conosciuto i ragazzi, come potete vedere nel servizio qui sotto, tra chi inizia il suo percorso e chi può tornare a casa.

Angela Gennaro per open.online l'11 gennaio 2021. Fabio Cantelli oggi ha 58 anni. Chi ha visto SanPa, la docu-serie di Netflix che tanto sta facendo discutere, ha ben presente il suo viso scavato e il filo dei ricordi, inevitabilmente dolci e amari, che attraversano lo sguardo mentre racconta. A San Patrignano, lui, ci è rimasto in totale per dieci anni. La prima volta che si è fatto – lo racconta nel documentario – è collegata a una donna. Lui voleva andarci a letto. Alla fine è successo, ma prima di farlo lei gli ha iniettato dell’eroina. E del sesso poi, racconta Fabio, in verità non gliene fregava più niente. Della comunità fondata da Vincenzo Muccioli e al centro delle cronache per anni, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, Fabio Cantelli è stato il portavoce. E se n’è andato, tagliando i ponti, quando si è trovato in «conflitto etico interiore». I processi, i ragazzi trovati incatenati, le morti. «Ero ormai troppo distante da quello che SanPa era diventata e da come sarebbe andata avanti». Oggi vive a Torino ed è vice presidente del gruppo Abele, onlus fondata nel 1965 da don Luigi Ciotti che si occupa di tossicodipendenza, emarginazione, Aids, progetti di aiuto alle vittime di tratta e ai migranti. Della comunità fondata da Vincenzo Muccioli, Fabio ha già raccontato nel 1996 nel libro La quiete sotto la pelle. «Quella di Rimini non è l’unica comunità dove sono stato», racconta.

Torniamo indietro nel tempo, all’inizio degli anni ’80. San Patrignano nasce per dare una risposta, a detta di Vincenzo Muccioli, al dramma delle droghe che stava sempre più montando e a cui lo Stato mancava totalmente di dare risposte. Qual era il contesto? San Patrignano era l’unica comunità che si occupava di tossicodipendenze?

 «Non ce ne erano molte, ma posso parlare solo di quello che conosco. Avevo fatto un’esperienza a Le Patriarche (oggi Dianova International, ndr), una comunità internazionale con sede in Francia a Tolosa e con diverse filiali in Europa. Ero finito in carcere nel 1982, e il magistrato disse: “Ti scarcero se vai in una comunità, oppure continui a stare a San Vittore. Decidi”. Quella di Le Patriarche era una comunità disponibile ad accogliermi subito, previo il pagamento di una retta molto elevata che la mia famiglia era in grado di sostenere. Sono stato lì per sette mesi, ero stato spostato in Spagna. Poi sono tornato in Italia scappando. Avevano un approccio terapeutico basato sul lavoro e poi facevano queste riunioni serali in cui ci si incontrava, si tiravano fuori i problemi della giornata e si facevano grandi discussioni. Le crisi di astinenza – questo mi è rimasto impresso – venivano curate con metodi naturali, con grandi quantitativi di tisana al tiglio. Tuttora, quando sento l’odore del tiglio penso a quei momenti: in crisi di astinenza, il tiglio faceva vomitare».

Poi?

«Ho avuto un approccio anche con il CeIS di don Mario Picchi, ma lì mi sono fermato all’anticamera: a differenza di San Patrignano infatti aveva un filtro. Secondo la loro impostazione, il problema della tossicodipendenza era di contesto famigliare: quindi si entrava in comunità dopo un percorso di preparazione in cui era coinvolta anche la famiglia, con una serie di colloqui con psicologi. Bisognava insomma essere molto motivati e questo filtro serviva loro per garantirsi dal fatto che non entrassero in comunità delle persone fuori di testa ma gestibili. A San Patrignano non c’era nessun filtro e per questo era una comunità molto apprezzata: ti prendeva così com’eri».

«Medici qui non ce ne sono: ci siamo rivolti ad alcuni di loro ma ci hanno chiuso la porta in faccia», racconta Muccioli nel documentario. Qual è la differenza tra un posto con medici e percorsi e un approccio alla SanPa, dal punto di vista di chi sta fuoriuscendo dalla tossicodipendenza?

«Ho fatto solo San Patrignano, dove la terapia, fondamentalmente, era Vincenzo Muccioli (sorride), la sua forza magnetica e carismatica di seguire ciascuno di noi fino a che fu possibile. Finché la comunità rientrò in certe dimensioni, fino alle 3-400 persone lui, con uno sforzo sovraumano, dedicava anima e corpo e ci seguiva personalmente. Poi, quando ci fu l’esplosione “demografica” degli ospiti a metà degli anni ’80, la situazione gli sfuggì di controllo. Sopperì alla logica della relazione con quella del controllo, ed è lì che iniziano i guai. Comunque non posso dirti quale fosse la differenza, perché non conosco l’altra realtà. Posso dire che se in comunità mi fossi trovato a tu per tu con degli psicologi, avrei detto “ciao e grazie”. Avevo già avuto in precedenza esperienze con psicologi, e avevo capito che è gente che vive in un altro mondo rispetto a quello della tossicodipendenza: un conto è conoscerla attraverso i libri o magari anche i tossici, ma sempre dietro a una scrivania, un conto è viverci notte e giorno. E un conto è essere stati tossici. Un momento fondamentale di San Patrignano era quando Muccioli ti chiamava, dopo qualche tempo che eri lì e avevi dato prova di responsabilità, e ti diceva: “Guarda, è arrivato tal dei tali e tu sarai la sua guida qui dentro”. Diventavi tu il custode, come eri stato custodito e accudito».

Funzionava?

«Quella persona sapeva di averne accanto un’altra che poteva decifrarne i moti dell’animo, le paure e le parole rassicuranti che magari nascondono altro. Tra noi tossici ci si intendeva al volo, insomma. I novizi venivano affidati a persone giudicate immuni da pericoli di fuga e da ispirazioni di comunella. E funzionava: non ho mai assistito a fughe a due».

Quindi, nella sua prima fase, San Patrignano offriva percorsi validi e più efficaci rispetto a medicalizzazione e psicoanalisi?

«Sì. Tra l’altro all’epoca non credo che le comunità in generale facessero ancora ricorso a figure professionali: era una dimensione pionieristica in cui si andava alla scoperta dei metodi. Tutte, in qualche modo, erano realtà in cui si lavorava, in campagna. E a SanPa la formazione professionale era veramente ad alto livello: Muccioli pensava che fosse fondamentale appassionarsi a qualcos’altro attraverso un lavoro confacente alle attitudini, imparato con maestri che lo insegnassero ai massimi livelli. I lavoratori poi erano produttivi e lavoravano con l’esterno, e c’erano delle ditte che potevano verificare la capacità di un ragazzo quando era ancora dentro e proporgli contratti di lavoro nel momento della sua uscita dalla comunità».

Nella prima puntata della docu-serie parli del “ciocco” e di quella volta in cui Muccioli prese i tuoi scritti di diciottenne, che gli avevi affidato, e li lesse pubblicamente in comunità. Con scherno. Erano i primordi, episodi controversi non ce ne erano stati. Eppure come gesto, visto dall’esterno, è molto pesante.

«Nudo, inerme e fragile: solo allora potevi essere riaccolto come il figliol prodigo. Smascherato, ‘sputtanato’ davanti a tutti. A quel punto abbassi la testa, perché senti di essere il corpo estraneo, e vuoi salvarti la pelle. Non è un calcolo, chi si è trovato in quelle situazioni può capirlo. Ho visto tante persone che dopo un “ciocco” si sono messe in discussione. Al di là della drammaturgia, il metodo, impressionante ed efficace, a volte nasceva anche in reazione a fatti gravi avvenuti. Vincenzo valutava – ed era lui l’unico metro di giudizio su questo – che il ciocco (gesto estremo, non quotidiano), era il mezzo per ripristinare una situazione che cercava di sfuggire di mano. Secondo lui io avevo una personalità posticcia, ed era il suo modo per far crollare questa presunta maschera».

Ci è riuscito?

«No (ride). Il grande limite di SanPa – e in questo senso forse un professionista di psicoanalisi e psicologia avrebbe forse aiutato – è che Vincenzo non considerò la nostra tossicomania come qualcosa che avesse una radice profonda. Per lui la personalità del tossicomane era presa in prestito, non era quella vera. E il suo scopo era demolire questa presunta personalità posticcia per far emergere quella autentica sotto. Guarda caso però quella autentica era per lui quella che ti prestava la comunità: dovevi diventare un bravo ragazzo. Il problema è che le cause profonde della tossicomania rimanevano intatte, non venivano affrontate. Quindi il meccanismo funzionava fino a che restavi dentro alla comunità e facevi il bravo ragazzo. Poi uscivi all’esterno, la maschera crollava e iniziavano i guai. Molti uscivano, ricadevano, venivano riaccolti e ricominciavano daccapo».

E poi è la volta della fase di quello che viene chiamato il “gigantismo” di San Patrignano (che arriva, tra l’altro, ad avere fino a 2mila ospiti). Senza spoiler, come finisce la tua esperienza lì?

«Finisce quando mi trovo in conflitto etico rispetto al mio ruolo di capo ufficio stampa della comunità, con il tormento interiore per i fatti accaduti. Fatti – tra cui un omicidio – che, per quanto le sentenze giudiziarie potessero essere pesanti ma non troppo, erano troppo gravi per non comportare una messa in discussione di quello che eravamo diventati. Non si poteva fingere che non fosse accaduto niente, che si trattasse di “incidenti di percorso”, credendo a una teoria della scheggia impazzita. Per me non era così, e quando mi sono reso conto che la comunità non era intenzionata a questa radicale messa in discussione mi sono detto che non potevo più dire pubblicamente cose che non pensavo».

Con la morte di Muccioli, SanPa scompare dai radar della cronaca.

«Perché la comunità si normalizza. Muccioli è insostituibile: il leader carismatico viene una sola volta. E poi è cambiata la tossicodipendenza: i tossici, l’età media, le modalità di assunzione».

In che modo?

«Le droghe sono oggi “integrate” e incluse nella società, non hanno più il significato di rottura del patto sociale che avevano ai miei tempi. Allora ti facevi di eroina ed eri fuori dalla società. Ora invece no. E poi c’è l’aspetto economico: sono rimasto allibito quando ho scoperto, nell’ambito di alcune ricerche che stavo facendo sulla droga, che adesso per farsi di eroina un ragazzo deve recuperare cinque, addirittura tre euro. Ti bastano dieci minuti di richieste in strada. Per noi non era così. Era il 1981 ed ero appena tornato a Milano da una vacanza in Grecia. Erano 40 giorni che non mi facevo, e sono andato dal pusher con le 25mila lire che avevo tenuto da parte dalla vacanza. “Non posso darti quella quantità”, mi disse il pusher. E perché? “Perché adesso abbiamo l’ordine di vendere solo buste da mezzo grammo, a 50mila lire”. Io mi facevo un grammo, un grammo e mezzo al giorno: voleva dire tirare su 150mila lire al giorno. All’epoca, uno stipendio buono era pari a un milione di lire: e io dovevo tirare su un milione alla settimana, ogni mese quattro volte lo stipendio buono di un italiano. E allora che fai? Devi imparare a rubare, scippare, rapinare, prostituirti: i soldi li devi trovare. La tua biografia di tossico cambia rispetto a chi si droga oggi. I tossici scippavano le vecchiette, rapinavano, puntavano la siringa dicendo che lì c’era sangue con l’Hiv. Disturbavano. Ora sono invisibili perché non danno noia a nessuno. Si muore meno di overdose e si muore in casa. Negli anni ’80 succedeva in mezzo alla strada».

Ti aspettavi che questa serie sarebbe diventata un caso? Quarant’anni dopo e con un target di utenti under 30 che di San Patrignano non aveva mai sentito parlare?

«No. La storia di San Patrignano è molto complessa, bisogna indagarla senza preconcetti, e la serie lo fa. Non ci sono buoni e cattivi: è un concentrato simbolico pazzesco, perché c’è dentro tutto. Il potere, la vita, la morte, la sofferenza, la malattia: significati simbolici universali ed eterni che attraversano le epoche».

Da il napolista.it l'11 gennaio 2021. 

«Tra l’83 e l’84 scappai sei volte. Mia madre mi tese una trappola d’accordo con Muccioli. Mi chiese di andare a casa a Milano, io arrivai e mi trovai due marcantoni che di notte mi portarono a San Patrignano».

Un sequestro.

«Sì. Mi misero in una casetta di cemento di tre metri per tre, e mi chiusero dentro».

Quanto sei rimasto?

«Diciotto giorni con la doppia crisi di astinenza: eroina e cocaina. Tentai il suicidio. Non c’erano oggetti quindi sbattevo la testa contro la porta di ferro. Mi resi conto che il mio corpo facevo resistenza, non volevo morire soffrendo, avevo sofferto già troppo nell’anima. Se ci fosse stata una finestra mi sarei buttato».

Ti sei arreso?

«Il quindicesimo giorno l’angoscia fu tale che mi abbandonai disteso sul pagliericcio, e nella disperazione mi pervase un senso di pace. Mi guardai dal di fuori per la prima volta e scorsi un esserino di 50 chili in mutande. Provai pena per me stesso».

Un momento felice.

«Il Natale del 1984. Ero ancora inquieto. Arrivai in ritardo in mensa per la cena natalizia, c’erano le ragazze vestite da angeli, un regalo per ognuno di noi della comunità, quando entrai mi sentii investito da un’onda di affetto: era un assembramento di naufraghi che si abbracciavano, felici di aver trovato la terraferma. Cominciai a piangere in maniera incontrollata. Avevo capito cosa fosse una comunità».

Sanpa, l’eroe e l’eroina. Gran lavoro il documentario sulla comunità di Muccioli. E sul giudizio decide lo spettatore.  Beatrice Dondi su L'Espresso l'11 gennaio 2021. Dal momento esatto in cui “Sanpa” è sbarcata su Netflix è iniziata la guerra da stadio, due curve assatanate, esaltati e detrattori, penne furiose e cori sguaiati. Per dimostrare come Vincenzo Muccioli sia stato un santo patrono della famiglia italiana tutta e al tempo stesso un uomo con le sue debolezze incapace di trattenere nelle mani la potenza esorbitante di quanto aveva costruito. Un dibattito che può avere un indubbio interesse storico ma che dimostra soprattutto come la serie in cinque puntate su luci e tenebre della comunità di recupero possa a buon diritto essere considerata come una delle cose migliori che si siano viste sui nostri schermi da tempi immemori. Un lavoro gargantuesco (ideato e scritto da Gianluca Neri con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli e diretto da Cosima Spender)  durato quasi tre anni che prende lo spettatore per mano e lo lascia solo. Davanti a quelle ore che scorrono in maniera durissima eppure semplice, che raccontano anni bollenti della storia del Paese attraverso le gesta di quell’omone alto un metro e novanta circondato da madri dolenti che gli affidano i resti dei loro figli straziati, si resta immobili, concentrati, decisi ad arrivare alla fine. Mano a mano che scorrono le immagini, che avanzano gli anni, che si ingigantisce il ruolo del padre padrone in maniera direttamente proporzionale allo scomparsa totale dello Stato, incapace come spesso è accaduto nella nostra triste storia di affrontare le emergenze e il disagio per affidarsi alla casualità del singolo divo, le contraddizioni spuntano come le talpe dal buco, le luci si accendono per l’esaltazione collettiva, il bene si rifugia nell’angolo delle altre verità che come fantasmi aleggiano nell’aria. Un montaggio maniacale (di Valerio Bonelli), una ricerca spasmodica di voci che cerca di includere in un tutto difficile da ridurre in un tempo e che sfocia nella triste lista di nomi sui titoli di coda che non hanno voluto rispondere, allargano la mente, creando un prima dopo il quale sarà difficile affrontare la storia senza tenerne conto. Violenze inaudite, vite riacciuffate, stimmate e televisioni, sfilate dei politici, processi e macellerie, astinenze e catene, sommersi e salvati. Tutto in una stessa visione di un angolo del nostro tempo perduto che mostra come la verità interiore e l’immagine pubblica spesso vadano poco d’accordo. Così scandito dai tempi della tragedia, Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta, “Sanpa” sbatte sulla bilancia un pezzo della nostra inciviltà, travolta dall’eroina e incapace di fare altro che cercare il suo eroe. Dove far pendere il piatto poi sta solo a noi.

Vincenzo Muccioli, il profeta del populismo. Il padre-padrone di San Patrignano, al centro della serie SanPa, incarnava l'uomo forte, carismatico e oltre la legge. Un decennio dopo il berlusconismo avrebbe conquistato il Paese. Gigi Riva su L'Espresso l'11 gennaio 2021. Oggi, a posteriori, ripensando a quella storia grazie al docu-film su Netflix, una cosa appare chiara: Vincenzo Muccioli e la sua epopea sono stati l’annuncio di una nuova era di successo del populismo in salsa italica. Il padre-padrone di San Patrignano ha riproposto, aggiornato ai tempi, il prototipo dell’uomo forte precedendo l’onda berlusconiana. E ancora prima ispirando l’oltranzismo di Bettino Craxi nella crociata contro la droga che mise in imbarazzo la vasta area libertaria del suo stesso partito socialista, i De Michelis, i Martelli, costretti a predicare in pubblico all’unisono la linea del leader, salvo non perseguirla nei comportamenti privati. Dell’uomo forte Vincenzo possedeva la declinazione di tutte le caratteristiche: istrionico, carismatico, predicatore, assertivo. In un Paese che, nel tramonto della Prima Repubblica, vedeva andare in frantumi gran parte delle sue certezze, offriva un pensiero robusto almeno su un tema di emergenza nazionale per le migliaia di ragazzi trasformati dall’eroina in zombie vaganti per le città, panorama fisso delle piazze e delle stazioni. Per osmosi i suoi metodi estremi venivano invocati in ambiti diversi dal tema primario degli stupefacenti e diventavano modello politico. Non per caso molti partiti lo tiravano per la giacca chiedendogli, senza successo, di schierarsi. Muccioli non aveva bisogno di un partito, possedendo già un regno. Era come se la giurisdizione italiana finisse davanti alla sbarra di San Patrignano. Oltre vigeva il “Codice Vincenziano”. Approvato soprattutto dai genitori dei tossicodipendenti in un dualismo vecchio come Sofocle che anteponeva la legge del sangue alla legge dello Stato. Facesse, Muccioli, ciò che riteneva più giusto, perché il risultato era il loro figlio vivo e non un cadavere con un ago nella vena: da questo punto di vista, un indiscutibile successo. E al diavolo i codici del diritto. Il prezzo era una comunità con un’organizzazione militare che prevedeva il controllo assoluto delle vite degli altri. Ciascuna ragazza, ciascun ragazzo era l’altro per l’altro. I nuovi arrivati avevano un “angelo custode” (davvero chiamato così) che ne doveva controllare ogni mossa e seguirli fino al bagno. Per li rami scendevano le direttive dal capo all’ultimo ospite, precise fino all’aggettivo. E, per esempio, se Vincenzo parlando con i cronisti bollava come “infame” un atto giudiziario nei suoi confronti, nella passeggiata successiva che permetteva ai giornalisti dentro San Patrignano (sempre accompagnati anche loro da un angelo custode beninteso), quella parola, “infame”, riecheggiava di bocca in bocca come fosse un ordine del giorno. A noi sembravano, tutti, aprioristicamente e acriticamente allineati. E forse non era così, a giudicare dal sofferto racconto regalato a Netflix da Fabio Cantelli, all’epoca capo dell’ufficio stampa di San Patrignano e in apparenza un pretoriano fedele. Ma i dubbi non avevano cittadinanza nella comunità, andavano smessi ai cancelli. Solo il tempo li ha fatti riemergere dal profondo di un pensiero liberato dalla costrizione. E Vincenzo Muccioli, restituito dalla cronaca alla storia, assume la sua dimensione poliedrica, sfaccettata, anche contraddittoria. Con Berlusconi condivideva, ex ante, l’ansia spasmodica di piacere a tutti e, soprattutto, ai suoi detrattori, per raggiungere un’unanimità di consenso peraltro impossibile. Credeva ciecamente nella sua assoluta capacità di sedurre, nell’irresistibilità della sua voce profonda e penetrante, nel magnetismo del suo sguardo. Sia permessa una confessione personale: chi scrive, non certo un suo fautore, alla notizia della sua morte pianse.

San Patrignano, il responsabile terapeutico: “SanPa mi ha fatto mettere in dubbio la mia stessa storia”. Notizie.it l'11/01/2021. Intervista ad Antonio Boschini, ex ospite e oggi responsabile terapeutico di San Patrignano, uno dei volti della docu-serie Netflix "SanPa". C’è una storia che spicca tra quelle che si intrecciano in SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, la docu-serie Netflix sulla comunità di recupero per tossicodipendenti fondata da Vincenzo Muccioli. È quella del dottor Antonio Boschini, ex ospite della comunità di cui oggi è responsabile terapeutico. A differenza di tanti altri, che come lui hanno vissuto in prima persona la stagione degli scandali, non ha mai abbandonato San Patrignano a cui, anzi, ha scelto di dedicare tutta la sua vita. Una lealtà (“non tanto a Muccioli, troppo lontano dalla mia persona, ma a un ideale”) che non gli ha impedito di provare un forte senso di smarrimento nel vedere SanPa: “È stato un pugno nello stomaco. Mi ha fatto mettere in dubbio la mia stessa storia“. In un’intervista a Notizie.it, il dottor Boschini ripercorre il momento in cui ha visto la serie insieme ai propri figli (“si sono arrabbiati, abbiamo litigato“), critica chi “non ha saputo o, temo, voluto” realizzare un prodotto onesto su una realtà tanto complessa e spiega e perché, nonostante le innegabili colpe che macchiano il passato di San Patrignano, “quello che stiamo facendo è giusto e dobbiamo continuare a farlo“.

Intervista al dottor Antonio Boschini:

Oggi è il responsabile terapeutico della comunità, ma da giovane, negli anni Ottanta, è stato uno dei suoi primi ospiti. Come è arrivato a San Patrignano?

«La mia famiglia è di Faenza, ma quando avevo 16 anni ci siamo trasferiti a Verona. Lì non avevo amici e ho iniziato a fare uso di droghe. Fino ai 18 anni sono riuscito a condurre una sorta di doppia vita, ma una volta finito il liceo il problema è esploso: ho cominciato a far uso di sostanze tutti i giorni, ho sviluppato una forte dipendenza fino ad andare in overdose. Ho visto i miei genitori allo stremo e ho deciso di smettere. Avevo già fatto vari tentativi con psichiatri e psicologi, mi ero fatto ricoverare sette-otto volte per tentare di disintossicarmi ma non appena venivo dimesso ricominciavo subito. Allora chiesi di poter andare in una comunità. Rimasi colpito da San Patrignano perché era l’unica gestita da un laico. Telefonai e Muccioli mi diede appuntamento uno o due giorni dopo. Era il 4 aprile del 1980, avevo 22 anni. Vincenzo mi accettò e mi disse: “O ti fermi subito o non farti più vedere“. E così sono rimasto. Ricordo che quella notte, pur stando male fisicamente per l’astinenza, ho provato una certa tranquillità. Sentivo di essere arrivato in un posto in cui sarei rimasto».

Ed è stato così?

«In realtà durante i primi sette mesi sono scappato più volte. Però non mi sono mai venuti a prendere, tornavo sempre con le mie gambe dopo aver fatto uso di sostanze. Sapevo di non poter andare a casa, avevo ben chiaro che ero in comunità per non far star male i miei genitori. Li avevo visti davvero in crisi».

Che impressione le ha fatto Muccioli al vostro primo incontro?

«Una buona impressione, mi sembrava molto aperto. Avevo già avuto a che fare con tanti psicologi e psichiatri che mi avevano sempre fatto sentire come un semplice oggetto del loro studio. Volevano capire cosa c’era che non andava nella mia testa, c’era un rapporto troppo distaccato».

Con Muccioli, invece, è stato diverso?

«Sì, ma il nostro rapporto non è sempre stato così semplice: già nei primi giorni dopo il mio arrivo è diventato molto conflittuale. Ho studiato a lungo quest’uomo, anche in maniera molto critica. Cercavo di capire se c’era del marcio dietro, quali potevano essere i suoi secondi fini. Ricordo che io e altri ragazzi ci sentivamo in una sorta di Grande Fratello: pensavamo che nella comunità ci fossero delle telecamere per spiarci, ci sentivamo in una setta in cui tutti conoscevano i nostri pensieri. Questo lo dico per sottolineare che il tossicodipendente non è uno sciocco che si fa abbindolare dal primo che passa, anzi è tendenzialmente molto diffidente perchè è abituato a vivere in mezzo a persone che cercano di fregarlo».

Ha citato la parola “setta”: c’entrano qualcosa le cosiddette messe nere?

«A me Vincenzo non ha mai parlato delle messe nere, delle stimmate, delle sedute spiritiche. Girava voce che lui e alcuni suoi collaboratori vi partecipassero, ma quando aprì la comunità decise di smettere. In ogni caso io non ero assolutamente interessato a questo genere di cose quindi lui non me ne parlò mai».

Com’era la vita in comunità?

«Sono stati anni durissimi dal punto di vista psicologico. La droga copre sempre dei problemi non risolti che hai accumulato nell’infanzia e che non hai mai affrontato, anzi, ti sei drogato apposta per non doverli affrontare. Problemi che riguardano il rapporto con te stesso e il rapporto con gli altri, insicurezze, ansie, drepressioni. Con la droga passa tutto. Quando smetti, al di là dell’astinenza fisica, devi affrontare tutti questi mostri che tornano a galla. Alcuni giorni questi mostri sono insopportabili e vuoi scappare. Ma per giustificare la fuga a te stesso senza sentirti in colpa hai bisogno di demolire il luogo e le persone che ti hanno accolto, così cerchi di trovare qualcosa che non va».

Come la aiutava Muccioli in questi momenti?

«Quando stavo male andavo a parlare con lui, riusciva a farmi cambiare il mio modo di vedere me stesso e di conseguenza il mondo. Dopo mezz’ora insieme mi sentivo meglio, positivo e motivato ad andare avanti. Non erano miracoli, non era uno psicologo, ma aveva questa grande capacità».

Cos’ha provato nel vedere la docu-serie SanPa?

«L’ho guardata insieme ai miei due figli, uno di 21 anni e l’altro di 18. È stato un momento strano e difficile. Il minore si è molto arrabbiato con me perché non gli avevo mai parlato del mio passato. Non ho mai avuto problemi a condividere la mia storia ma mi vergogno profondamente a parlarne con i miei figli. Sapevano che ho fatto uso di droghe e che sono stato in comunità, ma non conoscevano i dettagli».

La comunità, anche attraverso il suo presidente Alessandro Rodino Dal Pozzo, ha condannato la serie perché non rappresenta in modo oggettivo la San Patrignano degli anni Ottanta-Novanta. È d’accordo?

«Le prime due puntate mi sembrano equilibrate, ma le altre sono state un pugno nello stomaco. Mi hanno fatto mettere in dubbio la mia stessa storia. Sono rimasto a San Patrignano perché mi sono ispirato a Vincenzo Muccioli. Anzi, non a Vincenzo Muccioli, perché mi sembrava troppo lontano dalla mia persona. Mi sono ispirato più ai suoi collaboratori, all’idea di dedicarsi completamente a una causa, a un ideale, cioè quello di dare agli altri lo stesso privilegio che ho avuto io: recuperare la completa indipendenza e avviare un percorso professionale. Dopo aver visto queste puntate ho cominciato a domandarmi: ma dove ho vissuto? Chi era quest’uomo? Mi sono ispirato a una persona violenta, narcisista? Poi, però, quando vado in giro per la comunità e vedo persone che fino a due mesi prima erano in crisi e ora sono sorridenti, che vivono e che ogni giorno cercano di migliorare e di imparare, allora mi dico: quello che stiamo facendo è giusto e dobbiamo continuare a farlo. Il problema di SanPa è che hanno creato un concentrato del negativo. Non è “luci e ombre”, come vuol far credere il titolo: io di luce non ne ho vista neanche una. Sono convinto che il documentario non sia stato fatto con lo scopo di arrivare alla verità. Chi l’ha realizzato aveva già in mente una sua verità e ha costruito la serie a conferma di quello che era già nella sua testa».

Qual è il dettaglio della serie che l’ha fatta più soffrire?

«Mi ha fatto stare male sentir parlare il figlio di Maranzano (Roberto Maranzano, morto in comunità in seguito a maltrattamenti, ndr) e il gemello di Natalia (Natalia Berla, morta suicida in comunità, ndr). Non ha senso dire “sono morti due o tre per salvarne mille”: a quelle famiglie non interessa niente di quei mille. Hanno mandato a San Patrignano dei familiari per ritrovare la vita e invece lì sono morti. In quegli anni, però, abbiamo dovuto difenderci da chi ci attaccava perché altrimenti ci avrebbero costretto a chiudere».

Lei era a conoscenza degli episodi di violenza di quel periodo?

«Negli anni Novanta, gli anni di Maranzano, la comunità non era gestita con la violenza. Avevamo appartamenti universitari a Urbino e a Bologna – dove viveva lo stesso Fabio Cantelli (uno degli ex ospiti che compaiono nella docu-serie, ndr) – e centinaia di persone andavano ogni giorno a Rimini per studiare. Io stesso andavo e venivo da Verona, quindi non c’era alcun tipo di chiusura. Chi non conosce San Patrignano e vede quella serie non capisce com’era allora. È vero però che c’erano due aree, la macelleria e la manutenzione, gestite da persone violente. Questa è una colpa di San Patrignano e di Vincenzo che ha delegato a persone che non ne avevano le capacità».

La sua è una testimonianza significativa nella serie: è uno dei pochi che, dopo gli scandali e le vicende giudiziarie, non ha preso le distanze dalla comunità.

«Sì, ma ho l’impressione che certe mie risposte siano state tagliate e montate a modo loro. Per esempio, quando mi hanno chiesto della morte di Muccioli io ho risposto “non potete farmi queste domande“: come medico, non posso né dire che è morto di Aids né escluderlo, perché farei qualcosa di non deontologicamente corretto. Ho dato una risposta completa, invece loro hanno mostrato solo una frase e poi un mio sorriso quasi inquietante, allusivo. Non è una riproduzione fedele. Tutto mi fa pensare che non c’è stata onestà. A distanza di trent’anni l’idea di realizzare un prodotto su San Patrignano, anche in chiave critica, era interessante, ma bisognava mostrare davvero il buono e il cattivo, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato. Questa cosa o non sono riusciti a farla o, temo, non hanno voluto farla».

Gianluca Neri (ideatore e autore di Sanpa) per leggo.it l'11 gennaio 2021. In questi giorni mi viene continuamente chiesto se ci aspettassimo o no tanto successo per il nostro documentario SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano, come se davvero uno possa prevedere che una propria opera, una volta uscita, sia in grado praticamente di monopolizzare per un'intera settimana il dibattito dell'opinione pubblica. La risposta è, ovviamente, no. Sapevamo, sì, di avere in mano una bella storia da raccontare, raccontata negli anni poco e male. E, sì, sapevamo che l'uscita del documentario avrebbe aperto un dibattito, ma non prevedevamo certo che l'oggetto della storia diventasse un argomento di cui tutti avrebbero parlato. Il dibattito è positivo, te lo auguri: è costruttivo; contribuisce a migliorarci come persone e come società; serve non solo a segnalare gli errori commessi, ma soprattutto a cercare nuove soluzioni. L'intensità e la passione del dibattito che si è creata conferma che è stato giusto parlare di questi temi, persino dopo tanto tempo. Se di verità ce ne fosse stata una sola, oggi non vi sarebbe discussione. Quando abbiamo pensato a tradurre la storia della comunità di San Patrignano con il linguaggio del documentario ci siamo imposti di non volere una voce narrante. Volevamo raccontare quella storia utilizzando unicamente le voci di alcuni dei protagonisti, gli articoli dei giornali, i servizi televisivi dell'epoca e gli atti dei procedimenti giudiziari. Non volevamo, in sostanza, essere noi che lo stavamo realizzando a guidare per mano lo spettatore a pensarla in un modo simile al nostro. Abbiamo invece preferito permettere che lo spettatore potesse salire sulle nostre montagne russe, dove si è liberi di cambiare idea e di passare da un'opinione all'esatto opposto nel giro di due scene e, alla fine, fare la somma delle cose che si sono viste e sentite, metterle a confronto con la propria coscienza e arrivare a un risultato che è lecito sia diverso da persona a persona. Eravamo perfettamente consci che le differenti esperienze vissute dagli intervistati ci avrebbero fatto raccogliere testimonianze di diverso tipo e verità spesso direttamente in contrasto tra loro. Non abbiamo ascoltato i protagonisti del racconto con la presunzione di decidere da che parte stesse la verità ma, anzi, ci siamo chiesti se la verità non potesse essere composta dalla somma di tutti quei punti di vista, a volte agli antipodi, perché ciascuno interpreta la vita e le cose della vita utilizzando gli strumenti che ha a disposizione, il proprio ruolo, la propria cultura, le proprie radici, il caso di trovarsi in un determinato posto nel momento sbagliato o in quello giusto. Io vedo quella madre che urla al microfono: A me andava bene anche se lo inchiodava, mio figlio? Dove sarebbe stato meglio? A casa, o a Regina Coeli, dov'è adesso?, e non posso non provare empatia nei suoi confronti; non posso non immedesimarmi in lei e non capire la sua tragedia. Allo stesso modo non posso non abbracciare virtualmente il figlio di Roberto Maranzano o il fratello di Natalia Berla mentre si danno la colpa delle cose non dette e del tempo che non hanno potuto trascorrere con i propri cari prima che gli fossero strappati via. Un documentario dovrebbe descrivere la vita utilizzando i colori che si usano nella vita: non solo il bianco o solo il nero; non solo i colori primari, ma tutta la scala Pantone delle emozioni.

Francesca Angeleri per torino.corriere.it l'11 gennaio 2021. Magrissimo, Fabio Cantelli Anibaldi attraversa la spiaggia di Rimini e va verso il mare. Sono gli ultimi passi di Sanpa —Luci e tenebre di San Patrignano, la docu-serie realizzata da Netflix, prodotta da Gianluca Neri con la regia di Cosima Spender. Con il suo volto scavato alla William Burroughs, è forse il personaggio che più ha colpito i tanti spettatori di questo fenomeno televisivo che racconta la comunità di recupero fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli, dagli esordi alla sua morte. Cantelli vi entrò nel 1983 ventenne e ci rimase 10 anni. Fu un «tossico da vetrina», come egli stesso si è definito: uno all’ultimo stadio che poi frequentò l’università, colto, carino, intelligente. Visse a stretto contatto con Muccioli di cui era il ghost writer e gestì le relazioni esterne della struttura. Se ne andò una prima volta (ricadendo nella dipendenza) quando Muccioli gli disse che era affetto da Aids molto tempo dopo averlo saputo lui tramite uno screening collettivo della comunità. «Due giorni prima che morisse me ne andai per sempre. Ero molto in crisi per le accuse di omicidio e non riuscivo più a sostenere quel ruolo pubblico». È stato convocato all’ultimo sul set quando un autore lesse il suo libro La quiete sotto la pelle, scritto l’ultimo anno a Sanpa e che verrà presto ripubblicato. Si trasferì a Torino per amore e fece il primo colloquio con don Ciotti che lo accolse subito a lavorare. Da qualche mese è vicepresidente del Gruppo Abele.

Dove sta andando alla fine del film?

«Vado verso l’altro e vado verso l’oltre. È un concetto che ama molto don Ciotti».

Da Muccioli a don Ciotti. Come si è evoluta la sua vita dopo San Patrignano?

«Vincenzo stava morendo e non c’era una San Patrignano, per me, senza di lui. Ero senza un soldo: avevo lavorato gratis, anche perché maturava in me una crisi senza ritorno e sapevo che avrei voluto scriverne senza essere tacciato di sputare nel piatto in cui avevo mangiato. Volevo essere libero. Quando arrivai a Torino, due erano le cose che maneggiavo bene: la droga e la scrittura. Andai al Gruppo Abele, in via Giolitti. In un attimo Luigi polverizzò ogni mia idea sui preti. Sono entrambi outsider: Luigi è un prete anomalo e Vincenzo era indefinibile, era un animale che aveva conservato quella capacità percettiva dei bambini, faceva in modo che tra noi disperati si stabilisse una comunicazione profonda e non verbale. Era magnetico. Quando ci siamo rivisti con gli altri a Rimini per le interviste, dopo 25 anni, ci siamo subito abbracciati ed è divampata una sintonia come se ci fossimo visti due giorni prima. Siamo come reduci di guerra. È stata un’esperienza indimenticabile nel bene e nel male, una situazione in cui tutti ci siamo sentiti vivi come mai prima».

Qual è oggi il suo pensiero su Muccioli?

«Era straordinario, con virtù e difetti altrettanto straordinari. Qualcuno che ti salva è importante. Ma il senso della vita lo cerchi per sempre, se lo trovi e ti fermi sei sulla cattiva strada. La felicità è la ricerca della felicità».

C’entra l’amore con la sua figura?

«Ci abbracciava tutti come io mai ero stato abbracciato prima. Ci trasmetteva la sua forza. Erano trasfusioni di sé. Erano un’esperienza indimenticabile. Erano un dono di sé e quindi in qualche modo avevano a che fare con l’amore. Ma “L’amore non basta” come dice l’ultimo libro di Luigi. Bisogna ripensare la parola amore, quello che non porta auto trascendenza è solo possesso velato».

Lei ha raccontato un’esperienza atroce, il momento in cui cercò di suicidarsi e da cui venne fuori salvo dall’eroina. Qual era il metodo?

«Il metodo era Vincenzo. Finché siamo stati 300 o 400 ci ha seguiti uno per uno. Lessi Moby Dick, una volta fuori, con la splendida traduzione di Pavese. Vincenzo era Achab e noi eravamo la ciurma che lo seguiva nella sua ossessionante ricerca della balena bianca. È stato entusiasmante, ma era un’utopia. Da quella stanza in fondo non sono mai uscito. Con le dovute differenze, penso a Primo Levi, anche lui credo non sia mai andato via dal lager».

Giulia Mengolini per deabyday.tv il 13 gennaio 2021. Una testimone, ospite per molti anni, ci ha raccontato i metodi misogini di Vincenzo Muccioli. Dall’inizio del nuovo anno, pandemia e campagna vaccinale a parte, sui giornali non si parta d’altro. La serie di Netflix SanPa, opera prima della Produzione 42 di Gianluca Neri ha avuto un enorme successo e oltre a raccontare grazie all’intervento di numerosi testimoni, luci e ombre (più che altro ombre) della comunità di recupero per tossicodipendenti più grande d’Europa, spinge costantemente lo spettatore a interrogarsi su questioni gigantesche e complesse, dai fragilissimi confini. Quanto si può giustificare il male nel nome del bene? Dove finisce la libertà individuale in nome del bene? Se la causa è nobile tutto è permesso? La docu serie SanPa racconta i metodi che Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità diventato a un certo punto degli Anni ‘80 l’uomo più famoso d’Italia, usava e faceva usare a delegati per evitare che ragazzi e ragazze ricadessero nella tossicodipendenza: c’erano punizioni corporali durissime, umiliazioni pubbliche davanti ai 3000 ospiti, le chiusure per settimane in stanzini angusti in catene o in gabbie, le docce gelide. Punizioni che non avvenivano solo se si tentava di scappare. Le regole all’interno della comunità erano ferree e i metodi muccioliniani si manifestavano ad ogni “sgarro”, come si dice in Romagna. Guardando la serie mi sono chiesta: ma le donne, così poco raccontate dal documentario, cosa avranno dovuto subire in questo clima? Se gli uomini venivano umiliati e maltrattati, che ne era delle ragazze? Come poteva non esserci misoginia? Sono riuscita a chiederlo a una di loro, la signora Mara, che preferisce non indicare il suo cognome perché “non sono una a cui piace apparire” ma che dopo una permanenza a San Patrignano lunga ben 25 anni di aneddoti da raccontare ne ha tanti. Anche qualche ferita, non fisica però. Entrò a SanPa nel 1982, aveva 22 anni e una bimba di due anni e mezzo. Suo marito era entrato un mese prima di lei, così chiese a Muccioli di poterlo raggiungere. “Ero sola con una bimba, mi facevo, pesavo 45 chili. Avevo bisogno di quel posto. La bimba era con noi, Muccioli ci prese tutti e tre”."

La colpa era sempre delle donne. "Le donne avevano pochissima libertà a SanPa, spiega Mara: “Mio marito per esempio dopo un anno e mezzo aveva in mano le chiavi della macchina. Noi assolutamente no. Le donne erano sempre quelle che creavano problemi”. Per esempio quando nasceva un flirt o una storia all’interno della comunità “la colpa era sempre delle donne”. Le cotte tra ventenni rappresentavano anche il bisogno di colmare dei vuoti, quelli lasciati dall’astinenza da droga. “Nelle relazioni era sempre colpa nostra. Eravamo noi a innescare, a provocare. Io non ho mai accettato questa concezione maschilista. Gli ormoni li abbiamo sia noi che loro, e le relazioni si costruiscono in due”. Quando Muccioli scopriva una tresca la punizione femminile era molto più pesante di quella maschile: “L’uomo veniva redarguito da Vincenzo, ma in maniera blanda. La donna veniva insultata, umiliata, messa alla gogna. Dovevi rispondere davanti a tutti riuniti in salone di quello che avevi fatto, e lì partiva il famoso “ciocco” dove te ne diceva di tutti i colori”. Mara ricorda il “ciocco” di una ragazza che conosceva molto bene: “Vincenzo venne in salone con una grattugia in mano, dicendo che serviva quella per spegnerle i bollenti spiriti”. “Sono cose pesanti”, dice.

Quando Muccioli minacciò di toglierle la bambina. Le chiedo se in un ambiente così misogino non la tutelasse il fatto di essere entrata insieme al marito. “Assolutamente no”, assicura, “al contrario”. “Proprio perché ero sposata non potevo permettermi nulla, sono stata insultata pubblicamente un paio di volte”. Racconta che una volta uscita dalla tossicodipendenza, essendo molto giovane, mise in discussione il rapporto di coppia: “Io e mio marito ci siamo divisi un paio di volte, abbiamo avuto dei problemi, ed è capitato che fossi attratta da altre persone, può succedere”. Per Muccioli invece non poteva e non doveva succedere. “Sei giudicata doppiamente colpevole. Ricordo che andai fuori di testa quando Vincenzo mi disse che mi avrebbe tolto mia figlia, che non l’avrei più vista”. La bimba fu affidata al marito, sempre all’interno della comunità, e succedeva che anche altre mamme venissero punite in quel modo. Per Mara “quelli furono momenti davvero difficili. La parità di genere a San Patrignano non esisteva, racconta Mara. “La donna era considerata un niente, doveva solo stare al proprio posto. Le discriminazioni erano pesantissime, le punizioni diverse a seconda del sesso”. Gli uomini venivano “cioccati” per motivi lavorativi, perché andavano a ubriacarsi, o perché scappavano. “Ma quando era una donna a fuggire la punizione era molto più dura. Venivano rinchiuse, spesso completamente nude. Una ragazza che stava con me, sui 30 anni, fu chiusa in una gabbia completamente nuda, se non sbaglio per una settimana”. Poi, racconta Mara, dopo un po’ di tempo arrivava “il sostegno di Vincenzo, un suo abbraccio. Ma venivi sempre umiliata”.

"La ribellione? Era quasi impossibile". Mara è rimasta a San Patrignano tantissimi anni, dal 1982 al 2007. Viene spontaneo chiedersi: perché le donne non si ribellavano? Avevano paura? “Una volta che ti ribellavi, cosa potevi fare?”, dice Mara. “Ho conosciuto ragazze che lo hanno fatto, che hanno duramente contestato i metodi di Vincenzo. Ma chi voleva lasciare la comunità nella maggior parte dei casi non aveva un posto dove andare, ricordiamoci che molti venivano dalla strada, e Vincenzo spesso ci aveva messo contro i nostri genitori”. Certo, “potevi provare a scappare, con il rischio che tornassero a prenderti con le punizioni annesse. E il rischio molto alto di ricominciare a farti. Se ti ribellavi non avevi alternative”. Nel caso di Mara, la paura era per la sua bambina. “Muccioli aveva le armi in mano, mia figlia per esempio. Avrebbe potuto ricattarmi se avessi alzato la testa”.

Sopportare per non ricadere nella dipendenza. Nel ’94 un’ex ospite Antonia Baslini, raccontò ai giornali quello che aveva subito dentro la comunità, e disse che SanPa “era come un lager”. “Conoscevo benissimo Antonia”, racconta Mara. “Si ribellò nei confronti di Vincenzo per le sigarette, infatti la sua punizione fu terribile”. A quel clima non ci si abitua mai, ammette. “Io ho sempre avuto grandi difficoltà ad accettare quello che vedevo, per questo sono sempre rimasta molto distaccata. Egoisticamente avevo bisogno di stare lì quindi sopportavo, pur non trovandomi mai d’accordo”.

Muccioli alzava le mani su di voi?.

“Lui personalmente mai, aveva chi lo faceva per lui. Vincenzo sapeva tutto quello che succedeva lì dentro, muoveva i fili, ordinava le punizioni. Nessuno potrà negare che la violenza era la prassi. E nel tempo le cose sono anche peggiorate. Vincenzo ha iniziato a delegare a persone completamente squilibrate, totalmente prive di capacità che il loro ruolo chiedeva, e che sfogavano le loro frustrazioni sulle altre persone”.

Gli abusi nel reparto manutenzione. Gli anni in cui Mara ebbe più paura furono “quelli della manutenzione”, negli Anni ’90, quando Muccioli sempre meno presente in comunità aveva delegato a persone con “grossi problemi”, “che raccontavano quello che volevano a Vincenzo”. Una sorta di potere acquisito per cui “avevi sempre paura di fare un passo falso”. Il responsabile del reparto manutenzione aveva messo gli occhi addosso a Mara, le diceva che prima o poi sarebbe finita lì dentro: “Io ero terrorizzata, sapevo cosa succedeva. Conoscevo donne che avevano vissuto in quel reparto, erano botte, violenze continue. Non avrei mai accettato di finire lì”. Con “violenze” Mara intende anche sessuali, stupri. Lei in prima persona non è mai stata abusata né picchiata, “credo non lo avrei mai accettato, e mio marito neanche. Menare una donna per lui era la peggior violenza in assoluto”.

"Confidarsi con altre ragazze? Troppo pericoloso". Chiedo a Mara se a SanPa esistesse una forma di sorellanza. Se qualcuna veniva violentata, lo raccontava ad altre ragazze, cercava sostegno in loro? “Assolutamente no, tutti sapevano che gli stupri avvenivano, ma non se ne parlava mai, non ci si poteva permettere di raccontarlo a qualcuno, era troppo rischioso. Si comunicava con gli occhi”. Mara racconta anche di una sorta di diffidenza: “Io ero legata a molte donne ma quel clima non permetteva di creare un’amicizia. In 25 anni non mi è successo, non mi sono mai aperta completamente con nessuna, rimaneva tutto in superficie”.

Tornare alla vita normale: difficile, ma liberatorio. Mara e la sua famiglia restano a SanPa per 25 lunghi anni. “Nel ’95 dopo la morte di Vincenzo volevamo andarcene, poi per una serie di motivi, tra cui la nascita di nostro figlio nel ’90, siamo rimasti, Ma ovviamente uscivamo spesso, avevamo la macchina, non eravamo chiusi lì”. La figlia maggiore se ne è andata nel 2000, loro tre nel 2007, durante la gestione del figlio Andrea. Tornare alla vita reale è stato per Mara “da una parte scioccante: dovevo fare i conti con i problemi quotidiani, l’affitto, le bollette” ma “era talmente tanta la voglia di vivere la nostra vita che quel peso non l’ho sentito troppo”. Era forte il desiderio di mettersi in gioco e sentirsi “finalmente libera”.

"Vincenzo? Un uomo carismatico da cui ho sempre tenuto le distanze". Quando le chiedo cosa pensa oggi di Vincenzo Muccioli sento un sospiro lunghissimo dall’altra parte del telefono. “È molto difficile rispondere a questa domanda. A differenza di altri non l’ho mai vissuto come un padre. Per me è un uomo che ha creato una grande comunità, un posto di cui avevo bisogno, con i suoi lati oscuri ma anche momenti felici”. Per Mara “Vincenzo era un uomo carismatico, che sapeva ascoltare, ma nient’altro. Non mi è mai piaciuto troppo, non sono mai entrata in empatia con lui”. Quello che si porta dietro dopo tanti anni lì dentro, dice Mara, è “una gran forza”, quella che le ha permesso di ribaltare la propria vita diverse volte e lottare sempre. Le chiedo se per Vincenzo sentisse riconoscenza: “Vivere a San Patrignano produceva in molti di noi sensi di colpa. Avevi avuto bisogno di questo posto, sei entrato come un pezzente, sei in debito. Io questo l’ho sentito molto, anche più tardi, negli anni. Il senso di colpa mi è rimasto addosso. Sento più questo della riconoscenza”.

 “Grazie, Muccioli”. Il padre di un tossico scrive a Travaglio: “A San Patrignano mio figlio è risorto “. Luca Maurelli martedì 12 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. Nella polemica sul documentario di Netflix, “Sanpa”, che descrive in modo sommario e inverosimile l’esperienza di Vincenzo Muccioli con migliaia di tossicodipendenti italiani, entra anche il “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio, che sceglie di pubblicare in tutta evidenza la lettera di un padre di un drogato. Una missiva che spiega meglio di tutto perché un processo “postumo” a Muccioli e ai suoi metodi, oltre che inopportuno, è anche ingiusto e poco attendibile. Il contesto, come aveva sottolineato anche Enrico Mentana in un suo intervento sui social, è fondamentale per capire cosa fosse davvero San Patrignano per chi, negli anni Ottanta, era rimasto intrappolato nel tunnel della droga.

La lettera di un padre: “A San Patrignano la salvezza”. “A Sanpa è andato mio figlio quando aveva 16 anni. Avevamo visto altre comunità, sentito i pareri contrari di alcuni terapeuti, visitato altre colline, superato altre soglie. Però San Patrignano ci sembrava la più adatta. Nessuna vendetta per quel ragazzo magro e ladro di oggetti, di affetti e di se stesso, ma la consapevolezza che soltanto passando dal lavoro duro su se stessi, non per questo forzato, che avrebbe potuto salvarsi. Perché quando avevo a che fare con lui, avevo a che fare con un tossico: era la sua dipendenza ad agirlo e non volevo nessuna complicità con essa. Quando è entrato faceva tenerezza. Era un coglioncello perso. Lo abbiamo rivisto dopo un anno circa. Quel giorno mio figlio si presentò tutto contento. Avevo lasciato un ragazzino perso e avevo davanti mio figlio, luce, sorriso, bocca, occhi, parole, pensieri riconoscibili. Piansi molto ma sorrisi molto anche… “.

La fabbrica della vita e del silenzio di “Sanpa”. Nella lettera, inviata al “Fatto”, il signor Francesco Faina ricostruisce tutte le fasi della vicenda, che condusse alla guarigione del figlio. “Muccioli ci portò a vedere la comunità, i settori, a farci conoscere le persone. A ogni settore che visitavamo, il o la responsabile ci accoglieva e ci spiegava cosa facevano: falegnameria, tessile, formaggi, pane. Mio figlio ci portò alle chimiche, il settore dove lavorava. Andammo a mangiare nel grande salone comune. Provate voi a stare con altre 1.300 persone, in silenzio, prima di sedersi a tavola. Un respiro comune, una energia incredibile. È il respiro di 1.300 persone che lottano tutte per uscire dalla droga, per recuperare se stessi. Quando la sera uscimmo, abbracciai al cancello mio figlio. Avevamo occhi pieni di lacrime e di gratitudine. Mio figlio è uscito da Sanpa dopo 4 anni. Quando è tornato a casa aveva la forza del mare e voglia di fare, non di farsi. Aveva imparato un mestiere, a Sanpa, ma aveva anche imparato a stare in piedi, a camminare facendo il suo percorso. Da allora non l’ho più perso. Sono pieno di meraviglia e ammirazione per lui. Quindi Sanpa, la serie Sanpa, e la comunità, che si dissocia. L’ho vista la serie. È davvero ben fatta, costruita benissimo, sicuramente onesta negli intenti. Io non ho conosciuto Muccioli. Posso quindi credere che la figura che ne esce, dalla serie, corrisponda al vero. Posso capire la lettura che ne fa Selvaggia Lucarelli, posso capire il fastidio, il mio stesso fastidio nel sentire e vedere un super-padre, questo bisogno ossessivo di difendere la comunità e quindi se stesso da ogni sbavatura, sento la forzatura di certi suoi discorsi, vedo e intuisco le crepe e gli strappi e non giustifico i morti, le botte, la violenza e forse la complicità”.

“Grazie Muccioli, hai la mia infinita gratitudine”. Vedo però anche il contesto; conosco quanto possa essere disperante avere un figlio tossico, la paura continua, la violenza, l’ansia e l’angoscia e quindi il bisogno lacerante di una soluzione a tutto quel dolore. Quello che ha permesso la nascita della Comunità che ha salvato mio figlio esce dal racconto di quell’uomo così chiaroscurale, che si credeva un santone, che si comportava da padreterno, che forse è complice di un crimine Quest’ uomo così sapientemente dipinto per essere il centro di una serie che non porta il suo nome, come dovrebbe, ma il nome di ciò che ha creato e che tuttora vive. Se si decide di puntare la luce su un fatto si deve essere consapevoli delle ombre. Ecco, la serie Sanpa ha forse questo limite: una lettura bidimensionale che fa finta di non avere priorità. Chi oggi conosce Sanpa, la vive e la giudica per quello che è riuscita negli anni a fare ed essere, anche e soprattutto grazie a Muccioli, e la gratitudine infinita che ognuno di noi ha provato e prova per la Comunità resta intatta”.

Giuseppe Cruciani per “Libero quotidiano” il 17 gennaio 2021. «Muccioli? Non mi ha mai incatenato, ma se lo avessero fatto lo avrei accettato senza problemi. I benpensanti non si rendono conto che un tossico, e soprattutto un tossico in astinenza è pronto ad ammazzare anche la madre. Basta guardare la cronaca. Quelli di Vincenzo erano metodi giusti che hanno portato risultati concreti: salvare vite umane». Nick Fibonacci è un bolognese di cinquantasette anni, non si chiama Nick Fibonacci e ha scritto un libro da divorare, Io Ero, dove ero sta per eroina, uscito qualche settimana fa per Mondadori. Dentro, c' è tutta la sua vita fino a quarto di secolo fa: consumatore di ogni tipo di droga, eroinomane, cocainomane, piccolo spacciatore, trafficante di roba che si infilava a pallini nel culo trasportandola così da mezzo mondo, Olanda, Thailandia, Sudamerica. Oggi fa il consulente per una grande azienda, ha una famiglia, figli, e vuole rimanere anonimo.

Quanto sei arrivato a farti?

«Boh, nei momenti top anche quattro, cinque grammi di ero al giorno».

Come hai fatto a non crepare?

«Mai usato un ago, mai una siringa. Tutta sniffata. È stata la mia salvezza. Ho evitato malattie, Aids e overdose».

Quando sei entrato a Sanpa?

«Era fine gennaio del 1993, e sono uscito il 3 novembre del 1995».

Come ci sei arrivato?

«Dal carcere. Era la seconda volta che finivo in galera. Ma avevo deciso che volevo chiudere con la droga. Una decisione lucida, dopo anni di bagordi. Perché a me la fattanza, così la chiamavamo, piaceva».

E allora?

«Guarda, io mi sono drogato e ho spacciato per fare quello che non avrei mai potuto fare, la bella vita, per far saltare il banco. C'erano due possibilità: o eri ricco sfondato, e ho visto gente che si è mangiata tutto per la roba, oppure trafficavi per avere la polvere. Io ho preso questa strada, dall' inizio degli anni ottanta al '92».

Sei diventato ricco?

«Macchè. Li ho spesi tutti, me li sono sniffati, e poi pagavo pranzi e cene per chiunque».

Torniamo al carcere. Ti drogavi pure lì?

«Ero a Bologna, poi a San Vittore. L' ho fatto solo una volta, un amico mi ha mandato una riga di ero. Ma girava di tutto, pure le siringhe».

E poi?

«Dovevo farmi dentro altri quattro anni e un mio compagno di cella mi parla di San Patrignano e del metodo per entrare. Per un anno ho scritto ogni giorno una lettera a Muccioli. Mi firmavo Cavallo Pazzo e facevo finta di essere disperato. Alla fine Vincenzo mi prese. Ma il tempo dell' eroina era già finito».

Perché?

«La droga per me è stata un viaggio pazzesco, un amore viscerale per dieci anni.

Era come andare in paradiso e non puoi descrivere un orgasmo. Ma se ogni giorno ti metti a scopare cinque fighe poi arriva il momento che dici basta. Ti stufi. A me è successo questo. Ma sono stato fortunato. Non mi bucavo e arrivai a Sanpa che ero già disintossicato».

Come avevi fatto?

«In carcere. Ho fatto il down in cella. Farsi delle righe non è la stessa cosa che farsi in vena, hai una percentuale altissima che sprechi. Stavo male per quattro, cinque giorni, mi davano delle pasticche per dormire, e i miei down non erano così tremendi come quelli degli altri. Dopo due settimane in galera stavo già bene e si erano rimesse in moto le endorfine».

Hai visto la serie tv su Netflix?

«Sì, certo. Non conosco gli autori, ma non è stata una cosa equilibrata. È evidente che volevano creare una polemica, hanno dato spazio soprattutto a quelli che hanno parlato male di Vincenzo. Gli unici a favore erano Andrea Muccioli e Red Ronnie che tossici non sono mai stati».

Volevano creare il mostro?

«Ma sì. Altrimenti non avrebbe avuto successo, non avrebbe funzionato la serie».

Hai mai visto picchiare qualcuno?

«No, mai, nemmeno uno schiaffo. Ma è successo, sicuramente».

E le catene, gli schiaffi, la violenza raccontati nelle testimonianze e nella serie come li consideri? Inevitabili o inaccettabili?

«Ci stava. Quando tu sei un tossico in astinenza fai qualsiasi cosa, non capisci più un cazzo. Faresti fuori chiunque per rubare dei soldi. Quando sento parlare chi non ha mai avuto in famiglia un tossicodipendente, chi non è mai stato lì dentro, dico solo: vivetelo sulla vostra pelle, poi venitemelo a raccontare».

Le catene erano necessarie?

«Per quello che era San Patrignano in quegli anni lì era una cosa necessaria per salvare la vita a questi ragazzi. Il fine giustifica i mezzi. Andate a parlare coi genitori che hanno vissuto con un figlio tossico in casa».

Ti hanno mai punito?

«Una volta. Ma io ero un tossico anomalo, non ero quello che si bucava ai giardinetti, avevo fatto il trafficante, avevo viaggiato, donne, bella vita. In comunità una volta ho raccontato la mia esperienza, e qualcuno ne rimase affascinato. Un ragazzo andò a dire in giro che voleva fare la mia vita, e mi misero in punizione».

Che punizione?

«Non ho potuto parlare con nessuno per sei mesi, a parte Vincenzo e uno che mi seguiva continuamente. Una situazione un po' comica, ma era così. Una regola da rispettare, "no parola", si chiamava così».

In che settore eri?

«Ai chimici, quello dove comandava il Mandingo, un tipaccio che se sgarravi erano cazzi. Ma faceva bene. La cosa fondamentale era seguire le regole, imparare che c' è un altro tipo di vita che si può fare oltre a quella che facevi fuori, da tossico».

Eri a San Patrignano nel periodo della morte di Maranzano...

«Guarda, è chiaro che non doveva succedere ed è una cosa gravissima. Ma se uno pensa ai delinquenti che c' erano in quel posto, era molto facile che scoppiassero dei casini».

Il silenzio di Muccioli lo giustifichi?

«Sì. Vincenzo era come un padre, un confessore. Sapeva i segreti di un sacco di gente, roba nascosta fuori, cose orribili fatte da persone prima di entrare in comunità, tante cose. Se avesse tradito uno, avrebbe tradito tutti e sarebbe venuta giù la baracca. Lo ha fatto per proteggere San Patrignano. E ha fatto bene».

Cosa ti ha dato Sanpa?

«Finchè campo ringrazierò Vincenzo Muccioli, che era un uomo con tanti difetti, un megalomane, ma era un uomo che ha raccattato gente per strada con la siringa attaccata al braccio e li ha fatti rinascere. Io dopo un anno di comunità potevo anche uscire, ma dissi al mio avvocato che volevo rimanere perché ne avevo bisogno».

Di cosa avevi bisogno?

«Ho imparato a rispettare le regole, a vivere in un certo modo, a lavorare. All' inizio pensavo che fossero delle assurdità. Ti faccio un esempio. Quando mi capitava il turno per apparecchiare i tavoli dovevi mettere la tovaglia in modo che ai lati cadessero giù solo dodici quadratini. Se lo facevi male, arrivava il responsabile che te lo faceva rifare. Sembra una stupidaggine, ma ti cambia il cervello».

E il tuo ha mai più pensato all' ero?

«L' eroina non l' ho mai più toccata. Era come avere cento orgasmi solo in una volta, si può vivere pure in un altro modo».

San Patrignano visto senza lenti tossiche. Il linguaggio visivo del documentario lascia a chi guarda il compito di attribuire il giudizio, mette in campo diverse ipotesi, insinua dubbi, non prende posizioni. Luca Beatrice, Domenica 10/01/2021 su Il Giornale. Il linguaggio visivo del documentario lascia a chi guarda il compito di attribuire il giudizio, mette in campo diverse ipotesi, insinua dubbi, non prende posizioni. Altrimenti saremmo nel campo del giornalismo televisivo d'inchiesta che sai già dove andrà a parare. Molto più della fiction, questo stile ha il compito di scardinare pregiudizi dove ci sono, evitando se possibile monumenti trionfali e moralistiche demolizioni del mito. Ecco perché il documentario piace e ottiene consenso nei festival e nelle nuove produzioni. Poi per far scattare un prodotto dalla media ci vogliono altre qualità, come quelle di Cosima Spender, autrice e regista di SanPa: luci e tenebre di San Patrignano, la mini serie in cinque episodi su Netflix che ha innescato un prevedibile polverone di discussioni e aspre divisioni. A chi sa di arte il nome Spender non è nuovo. Nata a Siena, figlia dello scultore Matthew Spender e di Maro Gorky, a sua volta figlia del celeberrimo pittore dell'Espressionismo astratto americano, Cosima è un'autorità nella docu-fiction. Alla ricostruzione filologica dei fatti, la raccolta delle testimonianze, lo spulciare negli archivi, sovrappone il ritmo incalzante, un montaggio in crescendo ottenuto in buona parte nel lavoro di post-produzione, una sceneggiatura scritta benissimo e una narrazione romanzesca. Il successo e la curiosità rispetto al suo SanPa parte proprio dall'eccellente dosaggio di tutti questi elementi. Aprire una porta e subito dopo richiuderla, accostare versioni contraddittorie attraverso le interviste originali, conoscere la storia e leggere la psicologia dei personaggi, non solo del principale protagonista. Avvincente, persino commovente. Certo, accostarsi a Vincenzo Muccioli continua a essere molto pericoloso. SanPa ci arriva partendo dall'Italia degli anni '70, aspramente divisa dalle ideologie e dagli scontri politici, un Paese nel contempo attraversato da legioni di zombie distrutti dall'eroina. Migliaia di persone cui né lo Stato né la sanità e neppure la Chiesa riusciva a dare conforto. L'invenzione di San Patrignano origina dagli anni di piombo, si espande a dismisura nella stagione del riflusso, cade alla fine della Prima Repubblica e sopravvive alla morte di chi l'aveva creata, rielaborando il modello in altri termini. Raccontando Muccioli, in tutte le sue contraddizioni, Spender racconta una nazione che si porta dietro sempre gli stessi vizi di fondo: votata alla distruzione programmatica di chi sale troppo in alto, incapace di considerare che lo spirito della grande impresa non sempre può stare dentro le regole, soprattutto quando nessuno queste stesse regole le fa rispettare. Il mio giudizio sul film è ottimo. La mia opinione sulla vicenda si può riassumere in una sola frase: mai conosciuto nessuno più bugiardo dei tossici.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 21 gennaio 2021. «Se mio papà oggi incontrasse Walter Delogu, nonostante tutto quello che ha detto e fatto, lo abbraccerebbe». Così inizia la mia intervista con Giacomo Muccioli, secondogenito di Vincenzo, fondatore nel 1978 della comunità di San Patrignano, commentando la serie televisiva "SanPa; luci e tenebre di San Patrignano". Giacomo è un medico veterinario, ha vissuto e prestato anche lui servizio alla comunità per tantissimi anni. Non ama parlare né apparire ma grazie alla nostra amicizia apre il suo libro dei ricordi riferiti a suo papà, un uomo dalla personalità importante e imponente che, anche dopo un quarto di secolo dalla sua morte, fa discutere.

«Estrapolare dei fatti senza raccontare il periodo storico, ma soprattutto senza conoscere l' animo di mio padre, è un esercizio di stile che trasforma le velleità di un documentario in una fiction».

Giacomo, perché mi dici questo?

«Perché nessuno ha raccontato mio padre nella sua anima, nella sua profonda essenza, buona e generosa, nessuno degli autori, benché sollecitati da mio fratello Andrea, è andato a raccogliere quelle informazioni che avrebbero tracciato un profilo veritiero».

Però i fatti storici sono giusti, incontrovertibili.

«Si è fatto l' approfondimento su Vincenzo e mai si è detto chi era il narratore. Walter Delogu è l' unica persona che è stata condannata in via definitiva per estorsione e che a vita dovrebbe risarcire economicamente ogni mese la comunità. Di questo non ho sentito parola. Delogu è colui che ha puntato una pistola alla testa di mia madre chiedendole 150 milioni di lire. Naturalmente tutto questo è scritto nero su bianco dal tribunale di Rimini».

Con questo cosa vuoi dire?

«Che se un documento è storico, deve descrivere anche chi sono le voci narranti, per permettere allo spettatore di dimensionare la portata di quella testimonianza. Nella fiction invece hanno solo raccontato due episodi dei tantissimi accaduti, senza spiegare nemmeno la personalità del mio papà».

Giacomo, allora raccontami tu chi era tuo papà.

«Mia nonna, la mamma di Vincenzo, raccontava sempre dell' abitudine che papà aveva nel portare a casa i senza tetto e gli indigenti, gli ultimi della società. Aveva quindici anni e se nel tragitto tra scuola e casa trovava uno che, a parer suo, aveva bisogno d' aiuto, lo portava a casa dai suoi genitori per aiutarlo. Questo è importante per capire come il progetto di San Patrignano non sia nato dal nulla, ma aveva la sua genesi profonda nell' anima buona di mio papà. Non esiste un Vincenzo Muccioli prima della fondazione di Sanpa e uno dopo. Mio padre ha sempre avuto un approccio generoso nei confronti del prossimo».

Sempre nella serie televisiva di Netflix si parlava della personalità quasi megalomane di tuo padre.

«Scegliere le parole è decisivo. Mio padre era un uomo che pensava in grande, era un visionario e non altro. Era cattolico e credente, ma voleva un luogo laico dove accogliere i tossicodipendenti, intuiva e immaginava con una velocità davvero unica».

Per esempio, che intuizione c' era nella costruzione delle scuderie?

«Vedi, l' intuizione era generale. I tossicodipendenti sono persone che non hanno fiducia in loro stessi, che pensano di non meritare nulla e la cui autostima è ai minimi. Mio padre costruiva luoghi d' eccellenza, come appunto le scuderie, per dire ai giovani ospiti: occupatevi di questo luogo importante, perché ne siete capaci. Ed è stato così che l' autostima di quei ragazzi ha iniziato a riformarsi. Capisci come sia profondamente ingeneroso aver detto alcune cose su mio padre?».

In famiglia com' era Vincenzo?

«Era un uomo a cui piaceva la vita, sempre allegro e di buon umore, con cui condividevo tanto del mio modo di essere. Amavamo entrambi gli animali e avevamo sempre un filo conduttore che ci legava dal punto di vista umano».

Quando decise di andare a fondare nel 1978 la comunità, tu come l' hai presa?

«Avevamo condiviso tutto prima. Mia madre era una sua alleata, quindi anche noi avevamo accettato quella scelta. Da quel momento è iniziato un nuovo modo di vivere, per me».

Mi puoi spiegare?

«Ho imparato a vivere su una scala diversa. La mia famiglia si era allargata a tutti i ragazzi di SanPa che, a volte, raccontavano storie incredibili e affascinanti. Ogni fine settimana io da ragazzino salivo su con mia mamma e con Andrea, e condividevamo tutto come se fossimo parte di una medesima famiglia».

Ti è mai mancato il tuo papà?

«No. Quando ti dicevo che aveva una sensibilità ineguagliabile, era anche per questo. Mio papà c' era sempre quando serviva, era capace di captare i miei segnali per essere quindi al mio fianco».

Hai mai provato gelosia per il fatto che condivideva il suo amore con migliaia di ragazzi?

«Anche qui no. La gelosia è un sentimento che nasce se esiste una non presenza, e come ti ho detto mio padre era sempre presente ogniqualvolta ne avevo bisogno».

La serie di Netflix si incentra anche sui processi affrontati da tuo papà. Che ricordo hai di quel periodo?

«Ricordi diversi, perché nel mentre sono diventato da ragazzino a uomo. Nel primo conobbi l' arresto immediatamente, perché quel giorno arrivarono i giornalisti fuori da scuola. Mi ricordo che rimasi colpito, ma ho sempre avuto una fiducia sconfinata in mio papà. Lui era determinato e coraggioso, andò avanti senza timore».

Come mai secondo te una aggressione così forte dal punto di vista mediatico?

«Credo che l' esperienza di Sanpatrignano sia unica al mondo e, purtroppo, in questo Paese si deve sempre trovare un elemento che spieghi la generosità e l' altruismo. La comunità era gratuita per tutti gli ospiti e non aveva nessun contributo da parte dello Stato: quanta gente si sarà chiesta il perché di tutto questo? Ma qui rientriamo in ciò che mio papà è sempre stato sin da bambino, ossia una persona buona che sapeva andare oltre. Voglio raccontarti una cosa...».

Dimmi Giacomo.

«Sai chi erano le persone che mio padre voleva al suo fianco?».

I più bravi?

«Esattamente il contrario. Mio padre voleva che stessero vicino a lui, che fossero i suoi assistenti quelli che stavano peggio, che non riuscivano a reagire e non avevano autostima».

Dalla serie di Netflix appariva che Delogu fosse il braccio destro, in quanto era quello che godeva della fiducia di tuo papà.

«Ricordo Walter, era la persona più in difficoltà e che più di tutti necessitava del suo aiuto...».

E il secondo processo, che riguardava l' uccisione dentro la comunità di un ospite?

«Su quella vicenda mio papà morì. Ho il ricordo di un giorno in cui disse "ormai servo più da morto che da vivo". Da lì ad un anno si lasciò morire. I canali empatici di mio padre erano talmente sempre aperti che comprese che il suo progetto, la sua visione, per andare avanti doveva non avere più lui, perché più faceva e più veniva ostacolato».

Li arrivò tuo fratello Andrea a dirigere la comunità.

«Andrea ha fatto un lavoro straordinario e si è dedicato in moto totale a Sanpa, così come hanno fatto sempre Giammarco e Letizia Moratti, il cui sostegno è stato decisivo».

Nella serie televisiva si conclude con l' allusione a una morte per Aids di Vincenzo Muccioli, legata a una sua presunta omosessualità.

«Non voglio nemmeno commentare queste cose. Però una cosa la voglio dire...».

Che cosa?

«Oggi papà avrebbe abbracciato anche gli autori della fiction, perché lui andava sempre oltre ed era incapace di vedere il male. Si proiettava solo sul bene. Se non si parte da questo, ogni racconto su Vincenzo Muccioli non può essere veritiero».

«Io sommerso e salvato» Serie tv, mito, ombre: Sanpa nel racconto di Fabio Cantelli Anibaldi su Il Corriere della Sera il 5 marzo 2021. Testo di Marco Missiroli. Noi di Rimini lo evochiamo ancora a voce timida: San Patrignano, la comunità di tossicodipendenti più importante del mondo. «Ho conosciuto due Muccioli, il capitano Achab, ossessionato dalla balena bianca, e Benito Cereno, ostaggio della sua ciurma». Noi di Rimini lo evochiamo ancora a voce timida: San Patrignano. Un sibilo che tiene insieme il rispetto, e il tumulto passato, verso la comunità di tossicodipendenti più importante del mondo. Verso il suo fondatore, Vincenzo Muccioli. Verso la cattedrale che era, e che è, lassù nella collina in faccia all’Adriatico. San Patrignano, Sanpa: sulle bocche dei nonni, delle madri e dei padri, di noi tutti, e per tutti questi decenni. E anche adesso, dopo il clamore del documentario distribuito da Netflix, l’anima di quell’epoca è tornata con un testimone cardine: Fabio Cantelli Anibaldi. (nella foto a sinistra: Cantelli è stato ospite della comunità e, tra il 1992 e il 1995, capo ufficio stampa di San Patrignano )«Non accettavo che una persona fosse stata ammazzata, che ci fossero stati due suicidi. Mi sono detto: non è più il posto per me».

Un «ponte» tra il passato e l’oggi. Cantelli Anibaldi, che nella comunità si ripulì dal 1983 al 1995, è un ponte necessario tra il passato e l’oggi: per la sua storia di sommerso e salvato, per il nitore del suo pensiero nei confronti di quella lotta di vita. Il figlio accolto e ripudiato da San Patrignano, e ancora, e ancora, che fece sua la frase di Friedrich Hölderlin, «noi ci separiamo solo per essere più intimamente uniti. Moriamo per vivere». Morte e rinascita riversate già allora in un libro straordinario, La quiete sotto la pelle, uscito in libreria nel 1996 e ora ripubblicato da Giunti con una prefazione inedita e un titolo nuovo: Sanpa madre, amorosa e crudele. La madre che «fa e disfa, se vuoi essere altro da lei».

Altro cosa, Cantelli Anibaldi?

«Altro: io, come mi rivelò il Je est un autre di Rimbaud, letto a 17 anni. Quando finii il libro vivevo da più di dieci anni a Sanpa e non accettavo che una persona fosse stata ammazzata, che ci fossero stati due suicidi, che ci fossero altri fronti su cui fare luce. Sembrava che tutto questo stesse per essere derubricato a incidente di percorso. In più stava morendo Vincenzo Muccioli e l’intenzione dei Moratti era quella di affidare la comunità al figlio. Così mi sono detto: non è più un posto per me. E siccome ero l’unico del gruppo dirigente a pensarla così, ho capito che questa diversità andava coltivata. È chiaro che mettere in discussione San Patrignano voleva dire togliersi la terra da sotto i piedi. Ma io avevo fame di verità. Anche la mia formazione di filosofo mi ha aiutato: per me la ricerca della verità non era e non è un hobby, era ed è un’etica». (continua a leggere dopo il video)Fabio Cantelli Anibaldi in una foto scattata a Sanpa nell’aprile 1985: «Sono col mio più caro amico là dentro, Antonio Schiavon, detto Bubi».

Ricerca di verità che l’aveva già costretto da tempo a dire Muccioli.

«Riguardo a Muccioli va detta una cosa: dopo ogni mia fuga dalla comunità mi ha sempre riaccolto. Anzi, io sono stato uno dei pochi a non aver aspettato un’ora davanti al cancello. Non so cosa lui avesse trovato in me. Ho visto gente aspettare al cancello anche un mese e non essere degnato di uno sguardo. Lui li metteva davanti alla prova, no?». (nella foto, Vincenzo Muccioli)«Il Vincenzo che ho amato era empatico, sapeva entrare dentro di noi, decifrare gli stati d’animo. Sapeva fin dove poteva spingersi».

Il grande padre.

«Che poi è stato il suo limite: aver fatto di Sanpa una sua creatura in tutto e per tutto».

Una figura a ridosso del mito. Controversa, spaventosa, miracolosa, salvifica e cosa?

«La perdita della coscienza dei limiti. Ho conosciuto due Vincenzo Muccioli e mi piace identificarli con due personaggi letterari dello stesso autore, cioè Melville. All’inizio ho conosciuto il Muccioli-capitano-Achab che aveva la sua ossessione, la sua balena bianca e noi eravamo la sua ciurma. Siamo stati coinvolti in questa caccia alla balena ed è stato un viaggio entusiasmante. Ci ha portato dentro questa avventura con i suoi modi spicci e bruschi e affettuosi. Poi ha compiuto un errore: ha creduto di aver catturato davvero la balena bianca. E li è finito tutto, è finita l’utopia e lui si è trasformato in quest’altro meraviglioso personaggio di Melville che è Benito Cereno, il capitano che è ostaggio della sua ciurma ma che di fronte all’avvistamento di una nave nemica deve fingere di essere ancora un comandante a pieno regime».

«Questa è la parabola di Vincenzo Muccioli. Lui si è fatto imprigionare dalla sua opera, dalle sue manie di grandezza e dal consenso che non ha saputo gestire, di cui si è inebriato. Anch’io al posto suo, vedendo questa sfilata di potenti, ministri, giornalisti che lo guardavano come fosse una bestia rara, un taumaturgo, un benefattore, un uomo coraggioso, avrei probabilmente fatto lo stesso errore. E non dimentichiamoci che, in ogni caso, lui fece quello che lo Stato non aveva fatto».«Era un grande educatore... ma educare è come far volare un aquilone. Se lo lasci andare troppo, rischi di perderne il controllo. Se lo tieni troppo sotto controllo, l’aquilone cade».

Chi era dunque Vincenzo Muccioli?

«Un grande educatore. Uso un’immagine che mi piacque molto perché quando la trovai dissi: questo è Vincenzo. È l’immagine descritta da un maestro Zen, Taisen Deshimaru, contenuta in un libro che lessi negli ultimi anni a San Patrignano. In un passo scrive che educare è come far volare un aquilone. Se lo lasci andare troppo, rischi di perderne il controllo. Se lo tieni troppo sotto controllo, l’aquilone cade».

«Ecco, lui sapeva alternare queste due forze per farci apprendere l’equilibrio e l’autonomia, doti che al tossico mancano. Una parola che oggi si usa abbastanza a sproposito ma che gli appartiene è “empatia”: capacità di entrare dentro di noi, di decifrare i nostri stati d’animo. Sapeva qual era il punto fin dove poteva spingersi per suscitare una determinata reazione». (nella foto Getty, Muccioli a tavola con alcuni ospiti di Sanpa)«Quando gestisci una massa diventi un seduttore, un demagogo, uno spacciatore di promesse e illusioni».

Empatia o manipolazione?

«Il Vincenzo che ho amato, il primo, era empatico».

Achab.

«Achab. Mentre Benito Cereno era inevitabilmente manipolatorio, perché quando gestisci una massa non puoi non esserlo. Diventi un seduttore, un demagogo, uno spacciatore di promesse e illusioni».

E cosa accadeva quando ti accorgevi di una presunta manipolazione?

«Tentavo un ammutinamento interiore. Accadde soprattutto quando cominciai a lavorare con lui e lo conobbi veramente da vicino, nell’ultimo periodo in cui ero a Sanpa. Ero la persona che occupava una delle tre scrivanie nel suo ufficio. Aveva capito che dovevo essergli vicino per tentare di non espormi ad altre fughe, ad altri tentativi di ritorno alla droga. Sapeva che avevo bisogno di un’intimità dal primo giorno che mi vide».

Glielo presentò direttamente Gian Marco Moratti, che conobbe grazie a Indro Montanelli.

«Con Moratti fu un incontro meraviglioso. Me lo procurò davvero Montanelli, perché mio padre adottivo era il critico cinematografico del Giornale. Andai da Moratti con mia madre che vedeva in San Patrignano l’ultima spiaggia. Ero stato in carcere, avevo già fatto una comunità, gliene avevo fatte passare di cotte e di crude. Insomma, entriamo in questo ufficio in Galleria De Cristoforis dove ha sede la Saras, l’azienda di famiglia petrolifera dei Moratti. Era uno spazio immenso e io non avevo mai visto un miliardario in carne ed ossa. A un certo punto arrivò Gian Marco, mi disse: “Vieni, diamoci del tu”. Ci sedemmo e notai che alle pareti c’erano quadri pazzeschi, ma non del ricco che volesse ostentare: Andy Warhol, Jackson Pollock, e qui pensai quanto amasse l’arte per questa sua originale ricerca artistica».La copertina di 7 dedicata a San Patrignano e alla controversa figura di Vincenzo Muccioli nelle memorie dei protagonisti della storia della Comunità, come Fabio Cantelli Anibaldi.

«Poi Moratti iniziò a parlare: “Non ti racconto di Sanpa perché lo farà Vincenzo Muccioli quando vi incontrerete. Invece dimmi un po’ di te. Cosa fai?”. Risposi: “Bè, sai Gian Marco, io mi faccio”. “Ma i soldi per la roba come te li procuri?”. E già il fatto che lui avesse pronunciato la parola “roba” e non droga o eroina mi fece pensare che in qualche modo mi capisse. Vuotai il sacco: “Gian Marco, io rubo”. “E cosa rubi?”. “Rubo vestiti di boutique”. Poi gli spiegai che proprio in Galleria De Cristoforis c’era un negozio che visitavo spesso. E lui: “Ma scusami, la roba costa, devi portarne via tanti di vestiti. E come fai?” Così glielo mostrai: mi alzai e andai a prendere la mia giacchetta leggera che avevo lasciato a mia madre in fondo all’ufficio».

Così è nata la serie «Sanpa»: 25 testimonianze, 180 ore di interviste.

« La presi mentre mamma sgranava gli occhi, rimanendo con quello sguardo allibito per tutto il tempo che illustrai a Moratti la pantomima del ladro: “Allora Gian Marco, il braccio destro lo tengo arcuato sotto la giacchetta ma non troppo, deve essere un incavo. La mano sinistra sfila i vestiti dalle grucce e li piega al volo di modo che si incastrino sotto il braccio coperto dalla giacchetta”. E mia madre con due occhi così. E Gian Marco anche, mi fissa esterrefatto e con un filo di voce dice: “Vedrai che Vincenzo ti aiuterà”». (nella foto a sinistra, Gian Marco Moratti durante una cena con i ragazzi di San Patrignano)«Gian Marco Moratti mi ascoltò, era un miliardario atipico. Secondo me aveva un enorme senso di colpa per il fatto di essere troppo ricco».

Perché finanziò Vincenzo? Perché i Moratti diedero, si dice, circa trecento milioni di euro a San Patrignano?

«Perché Gian Marco era un miliardario atipico. E secondo me aveva un enorme senso di colpa per il fatto di essere troppo ricco. Aveva bisogno di liberarsi del suo denaro in modo giusto. E so che questa è una “tara” di famiglia perché anche suo fratello Massimo e il padre Angelo la pensavano così. Poi c’è anche il piano della fascinazione che Gian Marco e Letizia hanno provato di fronte a Vincenzo: credo dipendesse dal fatto che seppur potessero possedere tutto, non riuscissero comunque a colmare il gap che ricchi e potenti sentono nei riguardi della vita immediata. Il denaro è il mezzo per eccellenza: ti dà l’illusione di avere e potere tutto ma ti allontana dalla vita sorgiva, la vita come esplosione dionisiaca. E Muccioli era impetuosa espressione del dionisiaco».

Così a vent’anni, entrando a Sanpa, cominciava la sua seconda o terza vita. Prima ne aveva avuta una da bravo studente al Manzoni, e subito dopo una da tossico di eroina.

«Il primo atto di questa metamorfosi, nascosto anche a me stesso, avvenne quando avevo tredici anni. Successe guardando la copertina di un vinile di mia sorella, raffigurante questa figura di maschio ambigua, coloratissima, truccata: era il David Bowie dell’album Aladdin Sane. Fu un’esperienza sconvolgente perché non riuscivo a capire se fosse un uomo o una donna. Dopodiché ho detto: che me ne frega, io voglio diventare così». (nella foto a sinistra, Cantelli Anibaldi nel marzo 1985, a 23 anni)«Non avevo nessuna attrazione verso quei rituali con le canne dei miei amici coetanei, non mi sembrava così interessante quel versante lì. Mi dicevo: se devo prendere una droga, scelgo tra quelle pesanti».

Così come?

«Anomalo».

La droga attecchisce qui, nel desiderio di anomalia?

«Sì, anche perché io nel libro lo racconto. Non avevo nessuna attrazione verso quei rituali con le canne dei miei amici coetanei, non mi sembrava così interessante quel versante lì. Mi dicevo: se devo prendere una droga, scelgo tra quelle pesanti. Questo mi avrebbe reso diverso, anomalo, come mi sentivo».

E da questo pensiero ai fatti?

«Sono stato l’unico tossico, tra le migliaia che ho conosciuto, a cominciare direttamente con l’eroina in vena». (nella foto a sinistra, Cantelli Anibaldi a Sanpa nel 1988)«Dopo il weekend a Lugano con Alida, comprai la prima dose in autonomia e mi bucai da solo. Ebbi spavento della mia felicità».

Che anno era?

«Il 2 aprile 1980».

Ricorda il giorno come certi amori.

«Non a caso tutto comincia con una ragazza, Alida, che veniva a prendere il suo fidanzato al Manzoni. Quando la notai mi sembrò di vedere Lauren Bacall, la moglie di Humphrey Bogart. Ti lasciava folgorato. Dopo qualche tempo successe qualcosa di straordinario: mi dissero che era interessata a me. E sa perché si interessò? Era venuta a sapere che avevo dieci in filosofia».

Straordinario.

«Eccome. Ci siamo visti poco dopo per un appuntamento al Bar Magenta dove lei si fece raccontare un po’ di me. Le svelai che facevo parte di questo movimento Neo-Dada fondato con il mio amico Omar, movimento fondato da noi due soltanto. Fu allora che dal niente mi informò che con il suo fidanzato sarebbero andati nella villa dei genitori sul lago di Lugano, per Pasqua, e che se avessi voluto sarei potuto andare con loro per qualche giorno di relax. E quindi accade che io e Omar ci andammo, a Lugano. Era appunto il 2 aprile».

E come si passa da qualche giorno di relax sul lago a farsi di eroina?

«Andammo in questa villa, e nel tardo pomeriggio dissi a tutti che sarei andato a preparare un tè. Cominciai ad armeggiare con le tazze, allestii il vassoio e tutto, rientrai nel salotto per servire gli altri. E qui vidi Alida che stava chiacchierando con il mio amico Omar, e poco distante il fidanzato indaffarato con della plastica traslucida. Di primo acchito non capii bene cosa fosse quella plastica. Poi avanzai e notai che erano siringhe da insulina, le cosiddette spade. A quel punto il fidanzato alzò la testa e disse: “Ti fai anche tu?”. Io dissi di sì. Il dire di sì di Nietzsche, l’amor fati. Poi Alida e questo fidanzato si giocarono chi di loro avrebbe avuto il privilegio di farmi il primo buco. Perché la verità è che io avevo anche un po’ paura degli aghi e volevo qualcuno che mi aiutasse. Vinse Alida, o forse il suo fidanzato le permise di vincere perché capiva che ci teneva molto. Così mi fece la prima iniezione di eroina».«La verità è che io avevo anche un po’ paura degli aghi e volevo qualcuno che mi aiutasse. Vinse Alida... Così mi fece la prima iniezione di eroina».

Un buco d’amore.

«Che ebbe un seguito pazzesco, a cui il mio amico Omar non partecipò perché gli venne da vomitare e dormì per conto suo. Invece noi tre finimmo in questo lettone: tutti e tre insieme, perché Alida e il fidanzato erano una coppia bisessuale. E questo aumentava in me il loro fascino: Bowie e droga vera».

L’anomalo.

«La cosa fondamentale fu l’effetto di quella prima dose di eroina: decidevo cosa sognare, chiudevo gli occhi e appena mi addormentavo quella stessa materia onirica si manifestava. E ancora. Non mi è mai più successo in modo così nitido. Vivevo i sogni che volevo sognare. Accanto a me c’era Alida, ma era come se non me ne importasse più, anche quando sentii le sue mani addosso che mi accarezzavano, che mi frugavano. Avevo già trovato il massimo della vita, e di lei, per la quale veramente avevo spasimato per mesi, non mi interessava nulla. Quella volta capi la potenza dell’eroina». (nella foto, Fabio Cantelli Anibaldi nel suo studio, nella primavera del 1994)«Avevo già trovato il massimo della vita, e di lei, per la quale veramente avevo spasimato per mesi, non mi interessava nulla. Quella volta capi la potenza dell’eroina».

E tornando da quella giornata decise di riprovare?

«Sì, volevo riprovare. Mi misi al seguito di un amico con cui andai a prendere la droga al parco Sempione e scoprii che non scendeva dal cielo come un nettare degli Dei allo steso modo di Lugano. C’erano gli spacciatori, bisognava avvicinarli, trattare».

«Fu buco molto avventuroso perché arrivò la polizia e tutti gli spacciatori si dileguarono lasciandoci a secco. Rimasi a bocca asciutta per un po’, finché mi offrirono tre Roipnol per ingannare l’attesa. Li presi, poi gli spacciatori tornarono e acquistai la mia dose. Mi bucai. E dopo apparve Papa Giovanni». (nella foto, Cantelli Anibaldi oggi, con i suoi cani Lola e Sunny)«...gli spacciatori tornarono e acquistai la mia dose. Mi bucai. E dopo apparve Papa Giovanni».

Pure il Papa.

«Dopo esserci drogati passammo da Parco Sempione a una sala prove in viale Washington dove volevamo fare musica rock, New Wave, con il nostro gruppo che si chiamava Nietzsche Dada Group. Mi misi ad accordare la chitarra, una Fender Stratocaster, ma mi addormentai sullo sgabello e mentre dormivo sognai Papa Giovanni in una posa da benedizione. Era un’effige che avevo visto in casa di mia nonna, mi sembra sul calendario di Frate Indovino. Insomma, l’effigie si incarnò nel sogno e quando aprii gli occhi rimase nella sala prove che andava avanti e indietro a benedire, con le movenze meccaniche degli orsetti dei tirassegni del Luna park. Così sono scattato in piedi e ho detto: fermi tutti, voi non sapete chi c’è qua!».

David Bowie, una ragazza chiamata Alida, il Vaticano. Che battesimo.

«Il vero rito di passaggio fu però quell’estate. Convinsi i miei ad andarsene al mare e rimasi da solo a Milano a prendermi cura della nostra gatta. Comprai la mia prima dose in autonomia e mi bucai da solo. Ebbi spavento della mia felicità. Non è mai facile essere felici, soprattutto quando lo diventi per un buco in vena». (nella foto Fabio Cantelli Anibaldi fotografato nell’agosto 2020)«Sento di avere una capacità di accogliere, maturata anche attraverso le batoste. Accolgo, accetto. Non interferisco. E come mi ha consigliato Kafka: “Nella lotta tra te e la vita, vedi di assecondare la vita”»

Eppure adesso dà l’impressione di esserlo: un uomo felice. O quantomeno pacificato.

«Sì, perché non ho più un io».

E senza un io cos’è, Cantelli Anibaldi?

«Sono un canale. Attraverso cui la vita è passata e continua a passare senza incontrare troppe resistenze. Il mio filtro ha avuto maglie molto larghe e il rapporto ravvicinato con l’esistenza mi ha reso un ibrido tra Zelig e Gregor Samsa, tra la farsa e la tragedia. Vivo tra questi due poli. E adesso sento di avere una capacità di accogliere, maturata anche attraverso le batoste. Accolgo, accetto. Non interferisco. E come mi ha consigliato Kafka: “Nella lotta tra te e la vita, vedi di assecondare la vita”».

Quanto Muccioli e San Patrignano hanno concorso a questa consapevolezza?

«Molto. Nel mezzo ci sono state tante vite, è vero. Tra cui quella del malato inguaribile, con la scoperta della sieropositività. E in tutto questo ho intuito, sempre cammin facendo, quello che vorrei trasmettere anche ai ragazzi: c’è un altro tipo di felicità esistente, ed è la ricerca della felicità». (nella foto, Vincenzo Muccioli durante una conferenza stampa all’inizio degli Anni 90)«La felicità non è l’approdo, è il cammino. il nucleo non è la fiammata, come credevo da ragazzo, ma custodire la fiammella».

Lo disse Borges.

«Borges, esatto. L’etnografo di Elogio dell’ombra lo spiega benissimo. La felicità non è l’approdo, è il cammino. Il nucleo non è la fiammata, come credevo da ragazzo, ma custodire la fiammella. La felicità è la custodia quotidiana della fiammella. Nonostante un tempo passato e uno futuro».

Nel libro scrive che il tempo della sua memoria rispetto a San Patrignano sfugge al normale concetto di durata. È verticale, incomberà sempre. Con le sue salvezze, certo, ma anche con i suoi demoni.

«Quei demoni li gestisco non avendo paura delle emozioni che provo quando ripenso a Sanpa. Emozioni vive, intense come allora. Non ne ho paura, le vivo e dico: è un’esperienza che mi ha dato qualcosa di più, come negli amori che non scadono in routine».Sanpa. «Madre amorosa e crudele» è il titolo del libro di Cantelli Anibaldi, ripubblicato ora da Giunti con nuovo titolo e nuova prefazione. Il volume, con il titolo «La quiete sotto la pelle», era uscito per la prima volta nel 1996.

Ancora quella parola: amore.

(Cantelli Anibaldi rimane in silenzio). «È al di là delle mie capacità. Io sono uno troppo assediato dai miei fantasmi per amare come l’altro spesso si merita di essere amato. Ho avuto, ciononostante, la fortuna di essere molto amato. Anche a Sanpa».

È mai tornato a trovarli?

«Vorrei. Dopo che lasciai la comunità nel 1995, l’unica volta che tornai in visita fu quando il mio amico Antonio — Pietro, nel libro — insistette a tal punto con la moglie di Muccioli che la signora Antonietta me lo concesse. Ci andai un fine settimana di primavera, mi pare fosse il 2000 o il 2001, e trovai una realtà completamente cambiata, non solo esteriormente. E nonostante questa diversità, mentre ero lì, ricordo un sentimento di gratitudine. Quasi».

Gratitudine rivolta verso qualcuno in particolare?

«Muccioli mi ha salvato, certo, nel senso che mi ha permesso di sopravvivere. Dopodiché la sopravvivenza non è ancora vita. All’esperienza di San Patrignano devo comunque l’avere imparato a “vivere ad altezza di morte”, come esortava Georges Bataille, autore amatissimo in gioventù. Il tossico rischia la morte ma non vive alla sua altezza, perché la morte è l’ultimo dei suoi pensieri. Mi faceva ridere chi parlava di “lento suicidio del tossicodipendente”. Parole presuntuose e ignoranti. Per il tossico la droga è la vita».«Muccioli è stato uno dei grandi incontri della mia vita... Nel bene e nel male è sempre dentro di me. Io so ciò che gli devo, lui lo sa che io lo so...».

Come pensa a Vincenzo Muccioli, adesso?

«Uno dei grandi incontri della mia vita assieme a quello con don Luigi Ciotti e con il filosofo Carlo Sini, per limitarmi a quelli avvenuti quand’ero un ragazzo o un uomo ancora giovane. Nel bene e nel male è sempre dentro di me. Io so ciò che gli devo, lui lo sa che io lo so, e tra di noi è rimasto una cosa molto intima che è soltanto di noi due».

«Ho ancora le sette pagine che mi scrisse dopo che scappai da San Patrignano con una ragazza di cui ero innamoratissimo. Eravamo all’hotel Cardellini a Rimini dove mi fece recapitare questa lettera. Ancora la conservo perché in quelle parole c’è tutto l’amore che aveva per me. Ogni tanto la rileggo».

E quando la rilegge è la balena bianca che torna o è l’uscita dal mare in tempesta?

«La balena bianca che torna. Io non sono mai uscito dal mare in tempesta, il mare in tempesta è la mia condizione, forse la mia vocazione». 

San Patrignano: diario del tempo verticale. Fabio Cantelli Anibaldi su Vanityfair.it 11/3/2021. Venticinque anni dopo un ospite della comunità torna per la prima volta nei luoghi dove ha sofferto e si è salvato. Ecco il suo racconto.

"È difficile resistere alla tentazione di tornare sui luoghi delle passioni brucianti. Luoghi dove ci si è sentiti fatalmente vivi, dove una certa emozione ci ha risvegliato, denudato, fatto vacillare. E si torna perché quell’emozione è rimasta nel profondo, pronta a riaffiorare per dirci: non ti mollerò mai perché io sono te, e tu sei me. Proust le chiamò acutamente memorie involontarie, memorie che appartengono al tempo verticale, tempo impermeabile al passaggio del tempo stesso, ai meccanismi di rimozione, tempo che sempre ci verrà a cercare e sempre ci troverà quando meno ce lo aspettiamo. Il mio ritorno a Rimini e dintorni di Sanpa è una volontaria immersione nel tempo verticale perché quell’esperienza tutta le appartiene. Nulla di spericolato, beninteso: il tempo verticale è la mia guida e il mio esaminatore. Da lui capisco se sono stato all’altezza del mio passato, se c’è stata coerenza tra visioni e aspirazioni della gioventù e il seguito. Sì, perché la gioventù è stata per me una faccenda terribilmente seria, non solo un’età intemperante e trasognata. Alcuni amici si stupiscono di come le sia rimasto legato, date anche le catastrofi che l’hanno costellata. Ma non capiscono perché guardano la loro con sguardo maturo, compiacente e, se necessario, indulgente, mentre io faccio l’esatto contrario: guardo il mio presente con gli occhi che avevo da giovane, gli stessi di adesso. A Rimini incontro Stefano, il fotografo, persona sensibile. Il giorno prima gli ho inviato un itinerario emotivo-sentimentale perché sappia dove voglio andare e perché, ma alcuni luoghi si rivelano irriconoscibili, come la casupola di cemento a lato della stazione dietro la quale mi nascosi con Silvia durante la nostra fuga d’amore, la sera del 29 dicembre 1985. Fuga dopo il «ciocco», pubblica gogna che mi venne somministrata a pranzo davanti a tutta la comunità perché colpevole di aver insidiato una ragazza promessa a un altro che però non aveva esitato a fuggire con me. «Ciocco» in cui Vincenzo Muccioli aveva prima deriso la mia passione per David Bowie – e io a tavola, raggomitolato, con addosso una T-shirt del Serious Moonlight Tour –, completando poi l’opera con la lettura di testi molto intimi, scritti tra i diciotto e i ventitré anni, che gli avevo affidato perché capisse che le mie non erano elucubrazioni per fare colpo sulle ragazze, ma tracce di una ricerca vera e tormentata. Scartata la casupola, ripiego sul bar davanti alla stazione, anch’esso irriconoscibile. Fuori però ci sono delle sedie dove mi accomodo e tiro fuori uno dei talismani, così li ho chiamati, che ho portato con me. In quel caso il talismano è la lettera che Vincenzo mi fece recapitare saputo che, dopo la fuga, ero tornato a Rimini indeciso sul da farsi. Quattro fogli manoscritti che si aprono con un «Caro Fabietto», come sempre mi chiamò, dai 21 ai 31 anni. Mi sembra di sentire ancora la sua voce: «Mi dispiace tanto che per fine anno non fossi con noi, mi dispiace perché il nostro discorso è così rimasto alla mia necessità di demolire, come già accaduto, le maschere dietro le quali nascondi le tue insicurezze. Ma quando finirai, Fabio, di costruire e distruggere, quando la pianterai di costruirti realtà romanzesche? Guarda che le ore passano e si fa presto sera!». Scorro le pagine ed ecco la zampata finale: «Ti abbraccio con tanto affetto e immutata stima e ti aspetto per riprendere il nostro discorso interrotto: la tua solida e definitiva costruzione di uomo. Nella tua personalità, non nella mia: a me solo il compito di sorreggerti nei momenti difficili. Ciao Fabietto, Vincenzo». «Andiamo al cimitero!»: lo dico ad alta voce. Qualche anno fa ho letto che i resti di Vincenzo sono stati trasferiti da San Patrignano a Rimini per volontà del figlio, in polemica con gli storici finanziatori della comunità, amici intimi del padre. Mi trovo davanti alla lapide e penso che Vincenzo dorme, è incosciente come l’ultima volta che lo vidi vivo, agonizzante sul letto, sul comodino una macchina che rilevava il battito cardiaco. Ma almeno stavolta siamo soli, io e lui. Sento che mi sorride: «Fabietto, che bello vederti. Come stai? Sei molto magro ma ti vedo sereno». Mi scende una lacrima. «Sai, Vincenzo, adesso vado su a fare un giro». «Sanpa è casa tua», risponde. Ignora cos’è successo dopo la mia uscita: la vicenda del libro boicottato, la mia espulsione dalla storia della comunità. E ora il libro che viene ripubblicato, venticinque anni dopo, libro di cui avremmo discusso ma di cui sarebbe stato in fondo fiero, perché nessuno avrebbe mai più scritto di lui con tanta verità, dunque con tanto amore. Il viaggio verso Sanpa è un crescendo di emozioni. Quando siamo ai piedi della salita che da Ospedaletto, il paese limitrofo, conduce alla collina e alla comunità, le memorie verticali si fanno grandine. Vedo il campo attraverso cui scappai una volta per nascondermi in mezzo al fitto grano di giugno. Ebbi l’ardire di aprire la portiera della Renault 5 di mia madre e mentre l’auto rallentava in curva lanciarmi sull’asfalto come 007 in certi film. Mia madre, poveretta, si mise a urlare attirando l’attenzione di un gruppo di ragazzi che partirono all’inseguimento del fuggiasco. Invano: all’epoca ero una bestiolina famelica e imprendibile, posseduta dal demone della coca in vena. Fu quel giorno che mia madre ordì con Vincenzo il piano che mi avrebbe riportato a forza nello stanzino del fatale isolamento raccontato nel libro e nel documentario di Netflix. Se coca in vena significa troppa gioia in un lasso troppo breve di tempo, quei diciotto giorni d’isolamento racchiusero l’angoscia normalmente diluita in un’intera vita. Spiego a Stefano che dovrebbe esserci una strada che permette di arrivare al cimitero contiguo a Sanpa senza passare dalla comunità, e riusciamo a trovarla. Il cimitero non lo ricordavo così piccolo, fazzoletto di terra tra alti cipressi per fortuna deserto, come quello di Rimini. Mi guardo da fuori come accadde tanti anni fa in quello stanzino fatale: un viandante filiforme che passa in rassegna le tombe a una a una, tra zone d’ombra e di luce, col vento che gli scompiglia i capelli. Ci saranno almeno venti persone che ho conosciuto, là dentro, tutte morte negli anni Novanta per Aids. E, tra queste, due – Lauretta e Toni – con cui a Milano, prima di arrivare a Sanpa, ho condiviso tratti di vita tossica. Bacio le fotografie sulle loro lapidi che li ritraggono sereni. Ma c’è un’altra persona che cerco sapendo che è sepolta lì. Ed eccola in uno dei tanti loculi, lui che avrebbe potuto farsi costruire un mausoleo privato, come certi ricchi volgari. Ma Gian Marco Moratti, a Sanpa, non ha dato solo miliardi a palate ma la sua anima, la sua vita. Un ricco anomalo a cui ho voluto molto bene. Mi rivolgo a lui, sorridente nella piccola effige: «Volevo solo dirti grazie, Gian Marco, per quello che hai fatto per me e per tutti noi. Avrei voluto farlo insieme a Letizia, ma non è stato possibile. Ciao, Gian Marco, ti voglio e vorrò sempre bene». Il viaggio sentimentale è finito. Giusto il tempo di sostare in un bar nei dintorni di Rimini in cui mi fermavo con Antonio, detto Bubi, il mio più grande amico là dentro, per sorbire una Bière du Démon, birra ad alta gradazione alcolica che leniva l’angoscia delle sedute in tribunale durante il processo per l’omicidio Maranzano, nell’autunno del ’94. Stefano mi chiede se ho voglia di fare un ultimo scatto con addosso la maglietta del tour di Bowie che ancora conservo, con il numero 321 della lavanderia di Sanpa, altro talismano che ho portato con me. Lo accontento: mi sembra un giusto modo, teatrale e tragico insieme, di chiudere un cerchio che in realtà non si chiuderà mai, per me, perché la memoria di Sanpa m’inseguirà per tutta la vita ed è bene, oltre che giusto, che sia così. Più tardi, sul treno che mi riporta a Torino, ascolto la playlist composta per questo viaggio, colonna sonora di quegli anni. E quando l’iPod mi propone in sequenza Emotional Rescue e Before They Make Me Run degli Stones (la seconda prediletta da Bubi per il verso «Gonna find my way to heaven, ’cause I did my time in hell») l’emozione mi pone di fronte a un’evidenza: la droga e San Patrignano sono state per me due epopee contrapposte ma, come tutte le cose agli antipodi, segretamente complementari. E poi mi viene in mente la mia decadente ambizione adolescenziale di fare della vita un’opera d’arte e mi dico che no, non è stata certo un’opera d’arte, la mia vita, se non nel senso di Pollock, Warhol, Bacon e altri che dell’arte hanno brutalizzato i canoni. Ma epopea sì, tutta la mia vita è stata un’epopea: letteratura allo stato grezzo che è bastato scrivere. È stata lei, la vita, l’imprevedibile, estrosa, a volte geniale autrice; io il semplice esecutore. Arrivederci, memorie di Sanpa".

San Patrignano oggi: viaggio nella comunità per tossicodipendenti più grande d’Europa. Notizie.it il 25/01/2021. Un'intera giornata a San Patrignano: come funziona oggi la comunità fondata da Vincenzo Muccioli? Lo raccontano a Notizie.it ospiti e operatori. Circa 300 ettari sulle colline alle porte di Coriano, oltre mille ospiti e una storia lunga quasi mezzo secolo ne fanno la più grande comunità di recupero per tossicodipendenti di tutta Europa. Ma anche una delle più discusse e delle più controverse, a causa di un passato ingombrante che allunga la sua ombra sulla San Patrignano di oggi. In fondo, però, “se siamo ancora qui dopo 43 anni è perché abbiamo aiutato e ancora aiutiamo tantissime persone a uscire da un problema enorme” commenta orgoglioso il presidente della comunità, Alessandro Rodino Dal Pozzo. È lui che ci accoglie al nostro arrivo a San Patrignano e che, seduto in mezzo a centinaia di ragazzi riuniti per il pranzo, ci regala un primo assaggio di quello che significa vivere qui. Tante cose sono cambiate da quel giugno del 1985 quando “sono arrivato qui, spinto dal desiderio di uscire da un mondo terribile in cui ero caduto ma che non era il mio” spiega Dal Pozzo. All’epoca “non sapevo né cosa fosse una comunità né cosa fosse San Patrignano né chi fosse Vincenzo Muccioli. Sapevo solo che qualsiasi cosa sarebbe stato meglio di quello che avevo vissuto. Avevo bisogno di amore e ho trovato amore“. Come lui, dalla fine degli anni Settanta a oggi hanno cercato rifugio nella comunità fondata da Vincenzo Muccioli migliaia di ragazzi provenienti da tutta Italia (ma non solo), con percorsi diversi alle spalle ma tutti con un minimo comune denominatore: quel vuoto dentro che li ha spinti nel tunnel della tossicodipendenza. “Ormai la droga è talmente democratica che arriva ovunque, in tutte le classi sociali, in tutte le case, indistintamente – spiega – Cadono nel tunnel della dipendenza adolescenti ma anche professionisti e manager“. Per tutti loro la disintossicazione rappresenta solo una percentuale minima, quasi trascurabile, del lungo e difficile percorso che intraprende chi varca questo cancello. “Risolvere la crisi d’astinenza è un gioco da ragazzi rispetto a quello che viene dopo” spiega il dottor Antonio Boschini, ex ospite e oggi responsabile terapeutico della comunità. Un tempo entravano in comunità anche persone in piena astinenza. Oggi non è più così: “Chiediamo di compiere un percorso di disintossicazione prima di essere accolti. Ma bisogna essere elastici, perché a volte ti trovi di fronte a casi così gravi che non si può aspettare. Ora, per esempio, abbiamo qui una ragazzina di 16 anni che sta seguendo una terapia a base di metadone“. I farmaci, dunque, non sono un tabù (“il 15-20% dei nostri ospiti, a un certo punto del percorso, ha bisogno di un trattamento farmacologico con antidepressivi o stabilizzatori dell’umore“) ma vanno utilizzati nel modo giusto. L’obiettivo finale è liberarsi da ogni forma di dipendenza (anche farmacologica), riprendere in mano la propria vita e reinserirsi nella società attraverso il lavoro. Non si sta con le mani in mano a San Patrignano: c’è chi riprende gli studi, chi si iscrive all’università e chi – la maggioranza – impara un mestiere in uno dei quaranta settori formativi, dal lavoro agricolo alla tessitura, dalla falegnameria alla ristorazione. La sveglia suona presto, a seconda della mansione di ognuno. La giornata è scandita dagli appuntamenti frutto di un equilibrato intreccio tra lavoro, terapia e momenti di svago. Una quotidianità che si ripete per un minimo di 3-4 anni: tanto dura il percorso a SanPa. “Un periodo lungo ma necessario perché la persona impari ad assaporare forme di gratificazione che sostituiscano l’appagamento dato dalla droga” spiega il dottor Boschini. “Nei primi due anni i ragazzi sono portati ad acquisire capacità introspettive, ricostruiscono il proprio passato e comprendono perché sono caduti nella trappola delle droghe“. Non è facile né indolore scavare nel proprio passato e seguire a ritroso il filo che porta alla sorgente di quel malessere. Chi ci riesce, però, riceve in cambio l’incomparabile dono di una seconda possibilità. È stato così per Lapo, che a 19 anni sta per diplomarsi all’istituto alberghiero per poi iscriversi all’università. Il “caos che avevo in testa” lo ha spinto verso le droghe da giovanissimo, a soli 11 anni. Alle spalle una storia familiare difficile: un padre con un passato di tossicodipendenza, anch’esso “risolto” a San Patrignano (“è tutt’ora responsabile di settore qui a SanPa, anche per questo ha capito che c’era qualcosa che non andava“), una madre che si è trovata a crescere da sola tre figli e due sorelle con problemi di dipendenza ma che non hanno mai accettato di fare un percorso simile al suo. “In prima media ho cominciato con le birre e le canne, da lì ben presto mi sono trovato a fare uso di oppio, eroina, cocaina e crack. Non avevo carattere, seguivo la massa per farmi accettare dal gruppo e mi andava bene così” racconta Lapo. “A un certo punto però non riuscivo più a controllarmi, avevo cominciato anche a rubare per procurarmi la droga. Ho capito che avevo bisogno di una mano“. Qualche volta, però, l’origine del male è più subdola, si nasconde dietro la facciata di una vita a cui non manca nulla. “Sono nato in un quartiere periferico di Terni che non è proprio stupendo, ma all’interno di quella realtà mi sono sempre ritenuto fortunato” racconta Luca, 23 anni. “Vengo da una famiglia perbene, mia madre non mi ha mai fatto mancare niente, sono cresciuto circondato da affetto e anche gli studi sono sempre andati bene. Col senno di poi, credo di essermi avvicinato alla droga proprio per allontanarmi da una vita costruita troppo bene, piena di progetti ben fatti e conquiste facili“. SanPa lo ha salvato dal carcere (“sono stato denunciato per spaccio, furto, ricettazione ed estorsione“) e dalla dipendenza, ma soprattutto “mi ha fatto capire perché mi drogavo. Mi ha aiutato a piacermi come persona. Certo, è tutta teoria, la pratica si vede solo una volta fuori da qua…” Luca è realista. Sa che, per quanto ricca di difficoltà e incidenti di percorso, c’è un’enorme differenza tra la vita a San Patrignano e quella appena oltre i confini della comunità. In questa sorta di piccola città-stato vigono leggi proprie che regolano ogni aspetto della vita quotidiana, anche i più banali, come il divieto di fumare. “Quando sono arrivato io, negli anni Ottanta, si fumava e anche tanto” racconta il dottor Boschini. “Presto è diventata una cosa insostenibile e si è imposto un limite, fino a quando nel 2007 abbiamo deciso di smettere del tutto“. Qualche anno dopo è stato abolito anche il bicchiere di vino che da sempre veniva servito a pranzo e cena “perché abbiamo molti ospiti dipendenti da alcol e per queste persone anche solo un bicchiere era diventato un’ossessione. Oggi siamo una comunità completamente anti-dipendenza“. Non sono esenti da limitazioni neppure i rapporti con l’esterno. “Per i primi dieci mesi non c’è alcun contatto diretto con le famiglie, nessuna visita, nessuna telefonata. I ragazzi possono comunicare solo per via epistolare… siamo gli unici che danno ancora lavoro alle Poste” scherza il responsabile terapeutico. “I ragazzi non hanno il cellulare né un accesso a Internet. Dopo il primo anno, però, cominciano le visite dei genitori, ogni 2-3 mesi. Nella seconda metà del percorso ci sono i periodi di ‘verifica’, in cui i ragazzi possono andare a casa per una settimana“. Limitare i contatti anche con i parenti stretti è un male necessario, spiega Boschini, perché non è raro che proprio nel nucleo familiare si annidi la causa del malessere. “Non voglio parlare di colpa, ma di responsabilità sì – continua – Quasi sempre il rapporto tra genitori e figli è patologico“. “La difficoltà più grande che incontrano i ragazzi non è il distacco dalla famiglia, anche perché molti di loro non ce l’hanno o, se ce l’hanno, è messa parecchio male” gli fa eco Marco Stefanini, ex ospite e oggi responsabile dell’accoglienza. Lui, che più di altri è a stretto contatto con i ragazzi, sottolinea che “chi è qui non ha problemi a rispettare le regole della comunità. Nessuno fuma, quindi non ti pesa non fumare. Nessuno beve, quindi non ti pesa non bere“. Quello che è davvero difficile è “credere in se stessi. E, a livello pratico, rispettare le regole che riguardano la cura del proprio corpo: pettinarsi, lavarsi, fare il letto, pulire la stanza. Tutte quelle cose che fuori delegavi ad altri o che non facevi proprio“. Riappropriarsi dei gesti quotidiani di una vita normale è già una piccola rivoluzione. Marco ne ha visti di ragazzi che sono passati di qui nella sua pluridecennale esperienza a SanPa, ma “i problemi e i limiti di chi entra oggi sono gli stessi che avevo io quando sono arrivato a 18 anni, nel 1981. Rivedo in loro lo stesso vuoto enorme“. Da quel vuoto lo ha salvato l’intuizione di Muccioli di “curare le dipendenze attraverso l’attenzione, l’amore, la responsabilizzazione. Dava ai ragazzi una seconda chance in un’epoca in cui la tossicodipendenza era vista come una malattia e veniva trattata con metadone, morfina e psicofarmaci“. A Muccioli Marco deve la libertà dalla droga, ma non solo. “Ho trovato quella che è oggi mia moglie grazie a Vincenzo” racconta. “Era il 1993, ero qui da più di dieci anni ed ero ancora single. Vincenzo mi ha detto: "Tu non puoi restare senza una donna, te la trovo io". Mi presentò sua nipote che faceva volontariato qui d’estate…fece tutto lui“. Oggi tra maschi e femmine c’è una convivenza a distanza, fatta di sguardi e di fantasie ma povera di contatti e parole; rapidi e timidi cenni da una parte all’altra degli spazi comuni che non possono concretizzarsi finché il percorso non è finito. “Solo allora ti accorgi che non hai niente in comune con quella persona che hai guardato in silenzio per anni” ride Giulia, entrata in comunità quando aveva 27 anni dopo oltre un decennio di tossicodipendenza e svariati tentativi – falliti – di disintossicazione. “I ragazzi non entrano nell’area delle casette delle ragazze – continua – e noi non andiamo nelle loro camerate. Anche i reparti produttivi sono divisi tra maschi e femmine e in quelli misti abbiamo comunque mansioni diverse“. E se qualcuno infrange le regole? “Eh, ti buscano” scherza, poi torna subito seria: “Non le infrangi perché quel divieto è per il tuo bene. All’inizio non è facile, ma poi capisci che sei qui per riprendere in mano la tua vita. Se ti innamori di una persona e passi tutto il tempo a pensare a lui, come puoi concentrarti su te stessa?“. San Patrignano “era la mia ultima chance, avevo già fatto troppi danni. Avrei perso la mia famiglia se non fossi venuta qua” riprende Giulia. Il pensiero torna ai primi giorni in comunità, quando ancora non credeva alle promesse degli educatori: che ogni tassello si sarebbe rimesso al suo posto, che insieme all’indipendenza dalle sostanze avrebbe recuperato anche le amicizie e la dignità. A quasi due anni da quel giorno “posso dire che avevano ragione. Ho riallacciato i rapporti con la mia famiglia, anche con mia sorella con cui non parlavo più. Proprio oggi mi ha detto che aspetta un bambino. Non vedo l’ora di poterla andare a trovare a maggio, sarà il mio primo ritorno in famiglia da quando sono arrivata qui“. A San Patrignano Giulia ha ritrovato una sorella perduta, ma ne ha anche conquistate altre, tante quante sono le ragazze con cui divide la casa e il lavoro in comunità. “Tante volte ho pensato di andarmene – spiega – non vedevo un senso in quello che stavo facendo. A trattenermi sono state loro, il pensiero che le avrei perse. Qui dentro si creano dei legami incredibili“. Salvare migliaia di ragazzi da se stessi e permettere loro di scrivere un nuovo finale per la propria storia (il tutto in una struttura immensa e tutt’altro che fatiscente) ha un costo non indifferente, non solo umano ma anche economico. Le cifre si aggirano intorno ai 7-8 milioni di euro all’anno solo per l’amministrazione ordinaria. “SanPa è nata totalmente sostenuta” spiega il presidente Dal Pozzo, basti pensare alla generosa mano dei Moratti che affiancarono Muccioli fin dalla fondazione. “Ancora oggi lo è – continua – ma cerchiamo di andare sempre più verso l’autogestione e la sostenibilità. I nostri settori produttivi coprono circa il 55% del nostro fabbisogno, a cui si aggiunge un 20% proveniente dai servizi che forniamo“. Ma una grossa fetta delle entrate arriva ancora dalle donazioni da parte di fondazioni, aziende e privati cittadini. Ai ragazzi, invece, non è richiesta alcuna quota. Solo da pochi mesi anche le loro famiglie hanno la possibilità di fare donazioni, se lo desiderano. “Ma – sottolinea Dal Pozzo – chi non può permetterselo deve sapere che per noi non cambia nulla. Siamo pronti ad accogliere e aiutare tutti, perché, in fondo, si drogano tutti”.

LE SAN PATRIGNANO D'ITALIA. COMUNITA CASA DEL GIOVANE A PAVIA. Antonio Crispino per il "Corriere della Sera" il 12 gennaio 2021. La comunità avrebbe solo sei posti, ma gli ospiti sono dodici. Quasi tutti minorenni. Oggi seduto davanti alla scrivania di Simone Feder c'è un ragazzo di 17 anni. Lo psicologo l'ha convinto da poco a entrare nella sua struttura per il recupero dei tossicodipendenti, «La Casa del giovane» a Pavia. Faceva lo spacciatore nel bosco di Rogoredo. Ora è sotto protezione perché quello che ha iniziato a raccontare è più di uno spaccato sul mondo della droga a Milano e provincia. Parla del suo orario di lavoro ininterrotto dalle 8.30 del mattino fino alle 21. Solo di eroina ne vendeva 70 grammi al giorno: acquistata dal fornitore albanese a 6 euro e rivenduta a 20 euro. La comprava a etti. La «scura», la «nera», la «brutta» sono i nomignoli della droga che si pensava dimenticata negli anni Ottanta e invece registra un prepotente ritorno. Parla, il 17enne, e riassume la trasformazione di adolescenti diventati pusher come lui ma prima ancora rapinatori, scippatori, aggressori, qualcuno omicida come i due ragazzini di 14 e 15 anni che a Monza hanno massacrato con 20 coltellate un uomo per una dose. Simone Feder li chiama «figli di papà cresciuti a iPhone e patatine» e sono ampiamente rappresentati nella sua comunità di recupero. Comprese le donne, poco più che bambine, come Alice, che nei loro 15 anni di vita hanno già messo in fila crack, erba, cocaina, eroina, prostituzione. Figli di medici, avvocati, imprenditori, impiegati, quadri aziendali. Genitori che sapevano che i figli a 12 anni si sfinivano di coca e non sono riusciti a tirare il freno. Hanno lasciato tutto e sono venuti in questo viottolo a Pavia a piangere fuori dalla porta di Simone pregandolo perché si prendesse cura dei loro ragazzi. Quei figli li rivedono una volta alla settimana. Hanno le mani sporche di fatica, perché qui dalla carpenteria alla falegnameria si lavora sodo e c'è il piacere di farlo. Lo spiega un quindicenne con i capelli tagliati ancora alla moda, il giubbino nero con il cappuccio. Qualche mese fa lo alzava sulla testa, volto coperto, per andare a rapinare la gente in strada con un cacciavite. Doveva soddisfare il bisogno di 3-4 grammi di coca al giorno. Un mostro. Così doveva apparire alle vittime quando in strada le picchiava senza un motivo, solo per divertimento. Il giudice minorile lo messo alla prova e ora l'unico contatto con il mondo di prima è la visita dei genitori. È così che la famiglia ricompare gradualmente nelle vite di questi giovanissimi. Che si ritrovano a guardare negli occhi la sorellina di 11 anni a cui rubavano i risparmi per comprare la droga e piangono. Ogni tanto qualcuno scappa, poi torna, più sconfitto di prima e con danni cerebrali ancora più importanti. Il più piccolo a varcare questi cancelli è stato un ragazzino di 13 anni con un cut off (l'esame che determina il livello di droga nel sangue) che segnava più di tremila. Si è positivi superati i trecento. «Il primo contatto di un ragazzino con la droga avviene nei bagni delle scuole medie. Il pusher non aspetta più all'uscita ma è già dentro. Alcuni frequentano le lezioni solo per poter spacciare. Anche nella mia comunità non erano mai arrivati ragazzi di 12 anni con poli-dipendenze certificate». Mario, 16 anni, il nome vero non si può scrivere, ha iniziato perché bullizzato. Sedeva nei banchi della seconda media con qualche chilo di troppo, motivo sufficiente per mortificarlo. «Mi son detto: se è così che funziona allora anche io voglio diventare come loro e la cocaina mi ha dato la forza». Da vittima si è trasformato in carnefice, era l'incubo dei compagni. Non riesce a smettere di parlare, non fa pause. Così ha annegato la timidezza che riemerge per fargli confessare la paura più grande: «Non voglio restare solo». E non ti sentivi solo quando ti drogavi? «Ora posso dire di sì ma prima mi dava l'illusione di avere tanti amici. I ragazzi stavano con me e guardavano ammirati perché in un giorno riuscivo a procurarmi cento euro di cocaina». Gabriele, altro nome di fantasia, ha iniziato a fare i rave party in giro per l'Italia a 15 anni. Dopo un anno i genitori lo hanno cacciato di casa. Acquistava «erba» a credito che faceva circolare durante le ore di ricreazione a scuola. Strafatto di tutto quello che si poteva provare, oggi ha ricordi labili. Sente il bisogno di scusarsi: «Ti dico la verità, non mi ricordo molto di quegli anni». Che in totale sono sei. Anni buttati, cancellati. La droga ha devastato la memoria, fatto terra bruciata. Da qualche mese inizia lentamente ad assorbire nozioni di carpenteria nel laboratorio della comunità. Ha una buona manualità. Dalle sue mani spunta un fiore giallo di metallo. È bellissimo, è l'unica cosa colorata in mezzo a tanta ferraglia.

Don Gino Rigoldi: Milano e l’emarginazione. Veronica Grimaldi il 6 febbraio 2021 su Il Giornale. Una vita dedicata ai ragazzi quella di Don Gino Rigoldi, entrato in seminario a diciotto anni ma a tredici già operaio  in una piccola azienda di apparecchiature elettriche. Cappellano dell’Istituto penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano dal 1972, inizia immediatamente ad ospitare ed aiutare giovani sbandati, tossicodipendenti, figli di immigrati persi nella metropoli, o semplicemente abbandonati a se stessi.  Coinvolgendo  i servizi sociali  e un gruppo di volontari nacquero a Milano le prime comunità-alloggio  e nel 1973 Comunità Nuova, oggi una onlus  di cui Don Gino è presidente. 

Don Gino, sono trascorsi più di quarant’anni da quando è iniziato il suo impegno. Cosa la spinse all’inizio e cosa è diventato oggi?

«La spinta è stata molto semplice: ho incrociato un ragazzo che usciva dal carcere senza avere una casa dove andare. Mi è sembrato naturale, avendo io una casa proprio al Beccaria, con due stanze, dirgli di venire da me. E così feci nei giorni successivi:  da lì a poco gli ospiti diventarono numerosi. Così capii che avrei dovuto coinvolgere altre persone e in breve i volontari diventarono sette. Dopo un po’ ci trasferimmo in una casa più grande. L’idea era di fare gruppo, perché un leader non va da nessuna parte senza un gruppo. Poi ci chiedemmo da dove venissero i ragazzi che finivano al Beccaria, così guardando alle periferie ci siamo resi conto che mancavano i luoghi di aggregazione. Aprimmo a Baggio “La Locanda”, una sorta di centro sociale, diventato presto il maggior distributore di Albana, un ottimo  vino bianco. Certe sere arrivavano fino a 300 ragazzi. Dopo un po’, purtroppo, cominciammo a vedere ragazzi mezzi addormentati o iper eccitati: stava arrivando l’eroina, l’anfetamina e gli allucinogeni. Siamo così andati da chi aveva già cominciato ad affrontare il problema: don Ciotti a Torino. Così aprimmo la prima comunità per la cura delle tossicodipendenze. Oggi sono ancora il cappellano del carcere Beccaria. Con le associazioni Comunità Nuova e BIR e con la Fondazione Don Gino Rigoldi continuiamo a occuparci di minori, delle loro famiglie, dei bisogni delle giovani generazioni. Oggi la mia preoccupazione principale è rispondere alla necessità di formazione, lavoro e casa, così urgente per i giovani delle periferie».

Come sono cambiate le dinamiche all’interno della comunità dopo l’arrivo della pandemia un anno fa?

«Le comunità sono diverse: a casa mia, con il gruppo di ragazzi, la gestione è stata come quella di tutte le famiglie. Nella comunità di bimbi in affido e nella comunità per tossicodipendenti abbiamo dovuto moltiplicare gli sforzi, in quanto le visite con i familiari hanno dovuto trasferirsi sui computer. Al Beccaria, a suo modo una comunità, l’isolamento si è intensificato e i ragazzi hanno molto sofferto la sospensione dei colloqui».

Come definirebbe i ragazzi di cui vi occupate: devianti, diversi o semplicemente gli ultimi e i più sfortunati?

«Mediamente sono gli ultimi, i più sfortunati. In carcere troviamo ragazzi con una provenienza sociale di grande povertà. Raramente entrano minori provenienti da una famiglia strutturata e benestante. In generale i ragazzi e le ragazze di cui ci occupiamo partono da condizioni svantaggiate rispetto a chi ha una condizione sociale ed economica favorevole».

Come è cambiata l’emarginazione minorile da quando ha iniziato a occuparsene ad oggi?

«Fino agli anni novanta erano figli di migranti del sud Italia, arrivati con la famiglia a cercare lavoro con i sogni del consumismo: la macchina, gli oggetti status symbol del successo, con poche preoccupazioni del futuro. In quanto il futuro era lì, pronto per essere afferrato. Oggi, ci sono molti più stranieri, senza famiglia o con una famiglia disgregata, senza fiducia nel futuro. Con loro dobbiamo rilanciare l’autostima, la convinzione che anche loro valgono, che anche loro possono costruire una buona vita. Dobbiamo rassicurarli».

Qual è l’idea di recupero che la orienta?

«Alla radice c’è la convinzione che l’educazione è un addestramento a stare con gli altri e l’opinione che gli altri possano essere alleati. L’educazione è sostanzialmente relazione, che è anche il centro della vita umana».

Lei ha fatto parte di numerose commissioni regionali e comunali su minori e tossicodipendenze. Come operano le istituzioni locali in materia?

«A proposito di commissioni ho persino rappresentato la Santa Sede a Bruxelles. Sono stato presidente della commissione regionale, voluta dall’Assessorato alla Sanità, per costruire i servizi per le tossicodipendenze. Inventammo i NOT (Nuclei Operativi per le Tossicodipendenze). Posso dire che le istituzioni hanno il valore di chi le dirige e di chi vi opera all’interno. Lasciano il tempo che trovano, di solito, le commissioni esplorative dove si raccolgono buoni propositi ma nessuna azione concreta. Quando un operatore viene invitato in una commissione, invece di esserne semplicemente onorato a parteciparvi, deve chiedere concretezza e tempi di realizzazione definiti e realistici».

Quale è la prima causa della tossicodipendenza?

«Non credo si possa parlare di una causa iniziale valida per tutti. Gli adolescenti hanno bisogno di saggiare tutto l’esistente, sono curiosi e sfidanti dei pericoli e dei divieti. Funziona anche l’imitazione di personaggi famosi, o meno, ma di riferimento. Bisogna capire che le droghe forniscono gli effetti ricercati, che sono il rilassamento o l’eccitazione. Questo vale per le droghe ma anche per l’alcol e per gli psicofarmaci, quando usati senza indicazione medica. La ricerca di questi effetti esprime un vuoto che forse è la prima causa, ma assume significati diversi a seconda della persona. Tutto questo avviene a causa della debolezza degli adulti: se la lotta allo spaccio deve essere fatta dalla polizia e dai tribunali, il consumo si affronta con l’impegno educativo, a partire dalla scuola e dalla famiglia».

Le zone più a rischio sono le periferie?

«Forse questo si poteva credere una volta. Oggi non possiamo ragionare per localizzazione geografica: ci sono droghe per lo sballo e ci sono droghe per aumentare le prestazioni, la performance… Centro e periferie sono coinvolte nello stesso modo. Ma se pensiamo al degrado generato dal consumo di sostanze, allora sembra più evidente nelle fasce più fragili, che di solito abitano in periferia».

Cosa potrebbe fare Milano per i suoi giovani?

«Occuparsi dei giovani dove vivono: la scuola, prima di tutto, dove la prima competenza degli insegnanti deve essere la grande competenza relazionale, capaci di costruire il gruppo- classe come luogo di relazione. Il nodo critico sono gli insegnanti, non i ragazzi. Poi ci sono gli oratori, le società sportive, le piazze e i luoghi di divertimento, dove facilmente le figure di spicco non devono essere gli spacciatori ma gli sportivi, gli educatori, i musicisti, gli artisti. Se esiste una povertà educativa nelle famiglie, una città deve riuscire a promuovere tutte le figure che rivestono un ruolo educativo».

Lettera di Roberto, Ospite della Comunità Exodus di Don Mazzi, pubblicata da “La Stampa”il 24 febbraio 2021. Mi chiamo Roby, o anche "lo Straviziato", "Il Brillante", "Il Bullo", il "Ripetente" e "il figlio difficile, il ribelle". Sono da pochi mesi in Exodus per uso e abuso di sostanze e per alcuni problemi con la giustizia per atti di bullismo, vandalismo, truffe e spaccio. Ho fumato la mia prima sigaretta a 11 anni, in prima media, e arrivare alla canna e all'uso di sostanze più pesanti è stato un attimo. Per questo, per procurarmi le mie dosi e per togliermi tutti i miei sfizi (sneakers, vestiti alla moda) già dalle medie (a 12 anni) ho cominciato a vendere/spacciare svapo, fumo, cocaina. Sono bravo in questo. Amicizie sbagliate a scuola e fuori, voglia di ribellarmi, non accettazione dell'autorità. Non sopporto le regole e i no. Così, per essere libero e fare quello che mi va, ho lasciato la scuola, faccio casini in giro accumulando denunce, continuo a scappare, ho scelto amici "sbagliati". Oggi ho 16 anni e sono qui, non per scelta, ma mi dicono «che è l'ultima spiaggia». La voglia di scappare è sempre forte. Fuori da qui non so cosa potrei fare, io so fare solo casini e mi piacciono i soldi facili. Non saprei cosa inventarmi per guadagnarne tanti in poco tempo facendo quello che fanno gli altri. Un passo alla volta, mi dicono.

Andrea Galli per corriere.it il 18 maggio 2021. «Spesso commettiamo l’errore di parlare per primi, come se il tempo impiegato nell’ascoltare sia in qualche modo tempo perso o comunque da abbreviare il più possibile». E con questa premessa, peraltro ospitata nelle prime pagine del libro, altrimenti non poteva essere che l’intervistato, don Antonio Mazzi, s’incontrasse con un intervistatore particolare, ovvero Arnoldo Mosca Mondadori, anima sensibile e colta, capace di rispettare i silenzi e i tempi del suo «interlocutore». Il libro, «La speranza è una bambina ostinata», è molto più di un’autobiografia oppure un testamento spirituale; semmai, nel volume edito da Piemme, prende corpo e slancio un’intensa camminata, come se i due autori avessero passeggiato per il parco Lambro. Ecco, il parco, storica sede e ancor prima incipit della missione del veronese don Antonio. «Mi sono trasferito a Milano nel 1979. Non volevo assolutamente venirci, ma prima di me era venuto qui don Luigi Maria Verzè per creare diverse scuole e centri educativi per l’avviamento professionale… Quando lui cominciò ad essere completamente assorbito dalla costruzione e organizzazione dell’ospedale San Raffaele, dovetti andare a Milano a sostituirlo alla direzione di uno dei centri per giovani da lui creato: una realtà che allora aiutava oltre mille ragazzi… A Milano erano gli anni di piombo e c’era l’esplosione del consumo di droga da parte di giovani e giovanissimi. Era una realtà che non conoscevo e nella quale temevo di non inserirmi bene…». Come fu l’inizio? «Una gran fatica… Morirono due ragazzi nell’intervallo della scuola che era all’interno del parco… Una sera, all’uscita Cimiano della metropolitana, mi ritrovai con un coltello alla gola, così, come minaccia, senza parole… In quel periodo mi era stato affidato anche un ex terrorista, Marco Donat Cattin… Avevo ricevuto, simbolicamente, una parte delle armi dei terroristi...». Tanto, forse troppo? «Pensavo sinceramente di andarmene, di chiudere tutto». Don Antonio è icona di un sacerdozio e di una chiesa poco — anzi per niente — dogmatici ma aderenti alla realtà, dentro le cose, i temi, le esistenze, un sacerdozio e una chiesa «inclini» alla contestualizzazione di individui e situazioni, e del resto «a me le persone normali non sono mai piaciute. Ora posso dire perché: perché io per primo sono stato un ragazzo caratteriale. L’assenza di mio padre ha avuto in questo un peso determinante: sono sempre stato inquieto e indisciplinato, vivevo male le regole ed ero un ribelle…». Perché è diventato sacerdote? «La fede è anche questo: non è solo coltivare una grande e crescente speranza per il futuro, ma anche vivere nell’attesa che Dio arrivi già qui… Io sono ancora prete non perché da prete ho realizzato un mio progetto, ma perché ho vissuto questa attesa e ho risposto, meglio che potevo, al bussare di Dio alla mia porta». Dunque, di nuovo, gli inizi al parco Lambro. «Come dicevo, a Milano venni contro la mia volontà… Ma a poco a poco ebbi l’idea giusta. Conoscevo lo scoutismo, conoscevo il mondo giovanile… Mi misi in moto: feci il giro dell’Europa, vidi come contrastavano il fenomeno della droga… E più conoscevo e mi confrontavo, più mi convincevo che non volevo fare una comunità, ma avviare un cammino di liberazione. Perciò mi venne in mente la carovana e la chiamai Exodus, che significa “liberazione”. Andai a piangere, più che a chiedere, a chi poteva aiutarci dal punto di vista economico. Riuscimmo a farci regalare quattro camper e il 25 marzo 1985 siamo partiti... Abbiamo vissuto insieme, abbiamo dormito dove trovavamo da dormire e sofferto tutti la fame quando c’era poco cibo… Fummo ospitati da don Tonino Bello, tutti, in episcopio. Mi disse soltanto: “Venite, questa è casa vostra”».

Da "Oggi" il 21 ottobre 2021. In un’intervista esclusiva a OGGI, Andrea Muccioli spiega perché ha deciso di scrivere 544 pagine («Fango e Risate», Piemme) con la sua verità sulla storia del padre Vincenzo e sulla più grande comunità di recupero per tossicodipendenti del nostro Paese. E si toglie qualche sassolino dalle scarpe. Innanzitutto sulla docuserie «SanPa» di Netflix: «Conoscevo la provenienza culturale e il background degli autori e ne ero preoccupato, perché chi guidava il progetto aveva contribuito, nel 1995, a costruire la micidiale macchina del fango di “Cuore”… Sono stato contattato in maniera tardiva: la volontà di garantirsi la mia presenza per metterci una patacca era evidente, ma cosa potevo fare?… Nel mio piccolo ho cercato di dare una versione meno grottesca e fasulla di quella propinata». Ma ne ha anche per i Moratti, grandi finanziatori dell’opera: «Io ho scritto fino al 1995. Se scriverò la mia storia da quella data fino al 2013, quando accompagnai mia madre al cimitero a togliere la salma di mio padre da San Patrignano, lo farò con la stessa onestà. Quel gesto di mia madre fu l’esito finale, la reazione inevitabile a una violenza subita, un orrido stupro allo spirito che i miei genitori avevano infuso in quel luogo, e a tutta la mia famiglia. Ma con la stessa correttezza è necessario riconoscere i meriti delle persone, se e quando li hanno avuti. Si cambia, nella vita: si può cambiare in meglio o in peggio. Diciamo che queste persone hanno partecipato a quello straordinario progetto con un atteggiamento e un proposito per tanti anni, poi lo hanno radicalmente cambiato. Non perché venisse meno la serietà di chi vi operava, ma perché erano cambiati loro. Erano cambiati al punto di tradire in maniera vergognosa il patto stesso». Dunque ci sarà un secondo volume? «Immagino di sì. In effetti è una saga familiare». 

·        Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Caso Raciti, Spaziale e Micale condannati al risarcimento di 15 milioni. A stabilirlo è il Tribunale civile di Catania: i due condannati per la morte dell'ispettore Filippo Raciti dovranno risarcire lo Stato con una somma a sei zeri. Il legale al Dubbio: «È una sentenza priva di senso, incomprensibile». Valentina Stella su Il Dubbio il 18 maggio 2021. La terza sezione civile del Tribunale di Catania ha condannato la scorsa settimana Antonino Speziale e Daniele Natale Micale al pagamento in solido, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero degli Interni, di ben 15.063.339,66 Euro. Avete capito bene: 15 milioni di euro, 30 miliardi delle vecchie lire! Ma facciamo un passo indietro e ricordiamo chi sono Speziale e Micale. Era il 2 febbraio 2007: fuori dallo stadio “Massimino” di Catania, nel giorno del derby contro il Palermo, si scatenò l’inferno. Lo scontro tra ultras e forze dell’ordine provocò una vittima: l’ispettore Filippo Raciti. A ucciderlo con un colpo di un sotto-lavello, secondo tre sentenze della magistratura, è l’allora diciassettenne Speziale che verrà condannato da un Tribunale minorile a 8 anni e 8 mesi per omicidio preterintenzionale. Con lui verrà condannato anche Micale, ma a 11 anni. Invece secondo la difesa dell’ex ultras catanese Speziale, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Lipera, Raciti sarebbe rimasto schiacciato dal Discovery della polizia in fase di retromarcia per sfuggire alle pietre e alle bombe carta dei tifosi. Una tesi, quella del fuoco amico, mai presa in considerazione dalla magistratura nonostante la presenza di “lacune indiziarie”, come scritto dalla Cassazione, che annullò l’ordinanza di custodia cautelare. Speziale ora è un giovane uomo libero e la sua difesa sta lavorando alla revisione del processo. Ma torniamo alla sentenza del Tribunale civile dello scorso 13 maggio: essa va ben oltre la richiesta di risarcimento danni avanzata dall’Avvocatura dello Stato per conto della Presidenza del consiglio e del ministero dell’Interno che era stata molto inferiore per ciascuno dei due condannati: 305 mila euro per quelli patrimoniali, per «le erogazioni» finanziarie agli eredi, e 50 mila per quelli non patrimoniali legati «all’immagine negativa». Nell’esposto l’Avvocatura dello Stato sottolineava come il ministero dell’Interno avesse «patito un evidente pregiudizio di natura patrimoniale consistito nelle indennità e nelle erogazioni corrisposte alla vedova e agli orfani del dipendente deceduto». Si tratta nello specifico: di una speciale elargizione per un importo di Euro 220.704,34, tre assegni vitalizi di Euro 500,00 mensili, l’assegno vitalizio mensile non reversibile di Euro 1.033,00 in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi, un contributo una tantum per le spese funerarie di Euro 1.560,00, l’equo indennizzo di Euro 39.552,00, l’indennità di buona uscita, il trattamento pensionistico di reversibilità. Inoltre, «la presidenza del Consiglio dei ministri e il Viminale hanno altresì subito danni di natura non patrimoniali consistiti nella grandissima eco internazionale che ha avuto la vicenda». Circostanza confermata dal giudice civile laddove scrive: «Nel caso in oggetto, in sede penale, sono stati prodotti articoli di giornale sulla vicenda, cui anche in questa sede si fa riferimento, dai quali emerge il rilievo internazionale degli eventi occorsi». A ciò aggiunge anche si è trattato di  «fatti che sicuramente hanno leso l’immagine dello Stato come apparato atto a reprimere e prevenire scontri e tafferugli». Per l’avvocato Lipera, sentito dal Dubbio, «è una sentenza priva di senso, incomprensibile. Sono sconvolto. Io non ho mai sentito parlare di una cifra così esorbitante: per un morto per incidente stradale, o nei casi di uomini dello Stato uccisi dai terroristi, non ho mai sentito di simili risarcimenti. E poi questo “danno all’immagine” dello Stato: sono considerazioni che a parer mio non stanno né in cielo né in terra». Sul fatto che il risarcimento sia molto maggiore di quello richiesto dall’Avvocatura dello Stato risponde: «È un grosso errore, faremo appello per una questione anche di principio».

Caso Raciti: la Polizia indaga i testimoni che hanno raccontato una versione diversa da quella emersa. Le Iene News l'11 febbraio 2021. La procura di Catania sta indagando per diffamazione i due testimoni che nei nostri servizi sul caso Raciti hanno riferito una versione secondo la quale sarebbe possibile che l’ispettore non sia stato colpito da Antonino Speziale ma avrebbe potuto ricevere il colpo mortale da una Jeep della Polizia in manovra. Il capo della Polizia ha querelato i due testimoni sentiti nei nostri servizi sul caso della morte di Filippo Raciti, che si sono visti così recapitare la notifica di avviso di chiusura delle indagini da parte della procura di Catania per diffamazione. Per la morte dell'ispettore Raciti, ucciso durante gli scontri avvenuti durante la partita Catania-Palermo nel 2007, era stato condannato il tifoso Antonino Speziale a otto anni carcere, che ha finito di scontare a dicembre. Ma nonostante i tre gradi di giudizio siano arrivati alla stessa conclusione i dubbi su questa vicenda sembrano rimanere.

MANCA IL MOMENTO DELL’IMPATTO. Intanto il momento in cui Speziale colpirebbe Raciti non si vede mai: dalle immagini riprese quella sera dalle camere di sicurezza dello stadio si osserva un sottolavello (presunta arma del delitto) lanciato dai tifosi che scompare, per ricomparire pochi secondi dopo una decina di metri più in là. L'impatto è stato quindi "dedotto" ma non osservato da nessuno, neanche dagli altri poliziotti che erano lì in quel momento. Peraltro risulta abbastanza difficile capire come quel pezzo di lamiera avrebbe potuto colpire qualcuno con violenza e contemporaneamente volare molti metri in avanti.

DISCREPANZE TRA L’ORARIO DELL’IMPATTO E LA MORTE DI RACITI. Le telecamere dello stadio immortalano quella scena alle 19:08, ma Filippo Raciti si sente male verso le 20:30 e muore poco dopo le 22. Come poteva l’ispettore, con lesione al fegato e costole rotte, continuare gli scontri con gli ultrà per tutto quel tempo?  “Una lesione del fegato provoca un’emorragia tale che un fisico più reggere 20, 30 minuti al massimo" ha sottolineato il giornalista d’inchiesta Piero Messina, "provoca una morte abbastanza rapida. Come ha fatto quest’uomo a continuare gli scontri con una lesione così grave per un’ora e mezza?”

IL VIDEO INTERROTTO. L’avvocato Giovanni Adami, che assiste da anni diversi ragazzi imputati, ci ha detto di non aver mai avuto accesso a tutti i filmati originali che avrebbero forse potuto dare una prospettiva diversa alla vicenda. Uno in particolare che mostrava un’angolazione perfetta per capire l’accaduto si interrompe proprio nel momento del presunto impatto tra il sottolavello tirato dai tifosi e la Polizia. “Tutto può essere”, ha commentato l’avvocato Adami, “La telecamera si è bloccata in quel momento? Si è fermata la batteria? Solo vedendo gli originali si poteva capire…”. Ma come detto gli originali non sono stati trovati.

LA PERIZIA SUL SOTTOLAVELLO. Una perizia del Ris di Parma, richiesta proprio dal tribunale di Catania, ha stabilito che quell’oggetto (il sottolavello in lamiera) non era idoneo a dare il colpo mortale. Ma i giudici scrissero di non condividere le conclusioni dei Ris, perché non era stato usato il dovuto rigore scientifico.

LA CONFESSIONE. Intercettato in una delle stanze del Tribunale Antonino Speziale, parlando con un altro ragazzo, alla domanda “l’hai ammazzato?” sembra rispondere con un cenno della testa come a dire “sì”. Gli inquirenti la reputano una confessione ma poco dopo Speziale dice “No, questo non è morto”, sembrando chiarire con l’amico che la persona con cui si sarebbe scontrato non è morto.

IL CAMBIO DI VERSIONE DEL  POLIZIOTTO ALLA GUIDA DELLA JEEP. L’agente che era alla guida della jeep su cui viaggiava anche Raciti, sentito nell’immediatezza dei fatti, racconta di una retromarcia fatta in mezzo al caos, di aver sentito una forte botta contro l’auto e di aver poi visto l’Ispettore, che era lì dietro, sentirsi male. Lo stesso Agente invece ai processi cambia radicalmente versione raccontando di aver sentito solo i botti dei petardi lanciati dai tifosi ed escludendo con certezza di aver sfiorato chiunque col mezzo.

L’IPOTESI ALTERNATIVA. E proprio questa invece sarebbe l’ipotesi alternativa per spiegare la morte dell’ispettore Raciti: sarebbe stato investito involontariamente da una jeep delle forze dell’ordine che stava compiendo una manovra durante quei momenti concitati.

LE TESTIMONIANZE. Proprio a questa ipotesi si riferivano le testimonianze di due persone che ci hanno contattato spontaneamente dopo la messa in onda dei nostri primi servizi sulla vicenda. Senza che avessero assolutamente nulla da guadagnare i testimoni hanno raccontato di aver sentito - direttamente o indirettamente - membri stessi della Polizia parlare di quello sfortunato incidente. La prima, una donna, sostiene di esser stata al funerale di Filippo Raciti e di aver udito questa frase rivolta al padre dell’ispettore da un altro poliziotto: “Signor Raciti le dobbiamo porgere le scuse in quanto Polizia, perché è stata una manovra errata di un collega'”. Questa Circostanza è poi stata smentita dalla famiglia dell’ispettore capo ma poco dopo si è fatto avanti un altro testimone che ci ha detto: “Mio padre era una collega del padre di Filippo Raciti. Si incontrarono al mercato storico, in pescheria, e nella discussione il papà di Raciti disse che era venuto a conoscenza che effettivamente il figlio non era stato ammazzato da Antonino Speziale ma dal "fuoco amico", da quella famosa, purtroppo, retromarcia del Discovery”. Questi due testimoni non avevano e non hanno a tutt’oggi nulla da guadagnare nel riferire queste cose, ma hanno scelto di riferirle. E la Procura, che auspichiamo abbia verificato quelle parole ha scelto di indagarli entrambi per diffamazione aggravata a mezzo stampa. Per la procura i due avrebbero riferito "fatti non veri, offendendo la reputazione della Polizia di Stato", affermando "in modo implicito" che nelle indagini sulla morte dell'ispettore capo Filippo Raciti "sarebbero state coperte volontariamente le responsabilità dei veri" autori "indirizzandole dolosamente a carico di Antonino Speziale”. Risulta inoltre che alcune persone siano state convocate in Questura per aver postato su Facebook commenti sulla famiglia Raciti: da sempre contrari ad ogni manifestazione di violenza od offesa anche verbale, vogliamo però sperare che non si impedisca di esprimere le proprie opinioni qualora ciò avvenga correttamente.

·        Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Susanna Tamaro per il "Corriere della Sera" il 7 dicembre 2021. Essendo una grande appassionata di sport i mesi di agosto olimpici sono sempre stati per me un periodo di grande fibrillazione; fibrillazione che quest'anno, per il numero delle medaglie vinte, ha rischiato più volte di trasformarsi in infarto. Oltre ad assistere a tutte le gare possibili, amo molto anche leggere le biografie degli sportivi, a partire dal mitico Open di Andre Agassi, passando per lo splendido Ricordati di dimenticare la paura di Niccolò Campriani, il grande campione di tiro con la pistola. Adesso ho appena terminato Dopo il traguardo, di Alex Schwazer, (Feltrinelli) un libro che si legge con grande passione ma anche con infinito struggimento perché racconta la storia di un uomo retto che sbaglia una volta, ammette di aver sbagliato, ma viene comunque condannato per sempre. In settembre, sbollita l'ebbrezza olimpica, avevo letto I signori del doping di Sandro Donati (Rizzoli), una lettura più avvincente di molti romanzi. In America ne avrebbero già comprato i diritti per fare un film perché, oltre ad essere un perfetto thriller legale, è un tuffo nei meandri più profondi dell'essere umano. Impegnato da anni nella lotta contro il doping nello sport, Sandro Donati, infatti, è stato il primo ad aver intuito che Schwazer si era fatto sedurre dalle lusinghe del doping, diventando il suo primo accusatore per poi trasformarsi, nel corso della storia, nel suo principale alleato. Ai tempi di Rio 2016, quando Alex era stato brutalmente e maldestramente estromesso dalle Olimpiadi, avevo già scritto su questo giornale un appassionato articolo in sua difesa. Già allora era più che evidente che tanto la prima colpevolezza era provata - e ammessa dalle lacrime disperate di Alex davanti alle telecamere - altrettanto non lo era stata la seconda. Quante volte, nel corso degli anni, abbiamo visto campioni indagati per doping comparire dopo una breve squalifica alle Olimpiadi seguenti con un sorriso trionfante sulle labbra? Nessuno di loro ha subito la feroce squalifica inflitta a Schwazer. Perché mi appassionano tanto le storie degli atleti? Perché un atleta è una persona posseduta in qualche modo da un demone, un po' come un artista: intuisce di avere un dono speciale e lavora alacremente su sé stesso per essere degno di questo dono. Alex Schwazer è nato e cresciuto in una frazione di poche case in una valle dell'Alto Adige, ha iniziato a correre perché amava correre e poi marciare, non pensava al successo, agli sponsor, pensava soprattutto a battere i suoi stessi limiti. E ci è riuscito. Nel 2008, a soli 23 anni, era sul podio olimpico di Pechino. Molti sono saliti sul suo carro in quell'occasione, salvo poi, dopo le foto di rito, scendere e abbandonarlo al peso di dover restare per sempre all'altezza di quel podio. L'allenatore che l'ha accompagnato fino all'appuntamento olimpico, Sandro Damilano, lo abbandona, accettando un ingaggio dalla squadra cinese. Alex entra così in una spirale di fragilità, di paura e di insicurezze, sa che gran parte dei suoi colleghi usa con astuzia e disinvoltura sostanze dopanti e si sente inerme. Così, per timore di non essere all'altezza delle aspettative del mondo, lo fa anche lui, ma lo fa da incauto pasticcione, cerca i prodotti sulla rete, vola da solo in Turchia come un turista, si compra l'Epo e, senza nessun controllo, inizia a usarlo, senza peraltro che questo migliori le sue prestazioni. Anzi. A questo punto Alex Schwazer non è più il grande campione capace di macinare centinaia di chilometri ma una persona divorata dall'ansia e dalla depressione. Fa parte del gruppo dei Carabinieri, ma nell'Arma nessuno sembra accorgersi di questo suo grave smarrimento. Alex vuole solo correre e vincere, non regge il peso della notorietà, degli sponsor, di una fidanzata altrettanto famosa e si perde. Quando viene scoperto, è evidente che per lui sia una liberazione perché barare, imbrogliare, far finta di niente non appartiene alla sua natura di uomo profondamente onesto. Così perde tutto: i soldi degli sponsor, la fidanzata, il lavoro - gli viene chiesto infatti di congedarsi dall'Arma dei Carabinieri - in più deve anche affrontare importanti spese legali per il processo. E qui comincia la storia che i media ci hanno tenuta nascosta ma che Alex ci racconta con generosità e senza filtri nel bellissimo suo libro. Liberatosi dal demone che l'aveva posseduto, ha una sola idea in mente: recuperare l'onore, dimostrando di essere davvero un campione. Ed è questo che rende importante il libro, perché Alex, invece di accampare scuse, di lamentarsi di questo e di quello, decide di iniziare una lunga e silenziosa battaglia per tornare ad essere quello che sapeva di essere sempre stato e, per farlo, non sceglie scorciatoie, vie di comodo, non fa le cose a metà. Contatta proprio quel Sandro Donati che era stato il suo primo accusatore. Accusato e accusatore si mettono così a lavorare insieme, vincendo diffidenze e timori reciproci. Che magnifico film per Clint Eastwood! Schwazer si trasferisce a Roma e inizia a sottoporsi ai massacranti allenamenti di Donati che lo segue implacabile in bicicletta per le strade della capitale con il cronometro in mano. Con umiltà, testardaggine, giorno dopo giorno Alex recupera la sua forma fisica e la fiducia in sé stesso. I risultati sono straordinari, i tempi in breve tornano a livello mondiale. Nel maggio del 2016 vince infatti la 50 km a squadre di Roma, qualificandosi dunque per le Olimpiadi di Rio, l'obiettivo finale del suo riscatto. Ma l'happy end non si realizzerà perché a un controllo delle urine fatto nel gennaio del 2016 - e reso noto misteriosamente soltanto il 21 di giugno - Schwazer viene trovato di nuovo positivo al doping e quindi squalificato. È il crollo totale. O meglio, lo sarebbe per chiunque ma non per Donati e Schwazer, legati ormai da una reciproca stima e amicizia. È solo l'inizio di un'altra diversa battaglia, quella per dimostrare la macchinazione intentata ad arte contro di loro. E ci riescono. Nel febbraio del 2021 il Tribunale di Bolzano infatti riconosce la totale estraneità ai fatti del maratoneta, ma il mondo dell'atletica internazionale non accetta l'ordinanza del tribunale italiano e la squalifica viene confermata fino al 2024 anno in cui Alex avrà quarant'anni. Addio Tokyo dunque. La carriera di Schwazer è troncata per sempre. A questo punto della vicenda viene normale domandarsi, perché tanto accanimento? Forse perché a questa società che riconosce un prezzo per ogni cosa e un valore a nessuna, una storia così provoca un'irritazione profonda. Il mondo dell'atletica non è più quello relativamente semplice degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso - in cui il doping, quando c'era, era di Stato - è ormai un mondo dove girano molti soldi e dove girano molti soldi, fisiologicamente, si insinua la corruzione. Questa realtà fatta di relazioni ambigue, coperta spesso dalla nube dell'omertà, non può permettersi che due persone osino ribellarsi e dire: «Il re è nudo». Nel chiudere il libro sono stata colta da un senso di gratitudine malgrado l'amarezza della vicenda perché, in questo tempo in cui l'asticella dell'umano è stata abbassata a livelli di mediocrità etica inimmaginabili, la storia di Schwazer e Donati e quella dei giudici di Bolzano che hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo ci ricordano che esiste la libertà interiore, e proprio da questa libertà nasce la grandezza d'animo che permette di affrontare le più terribili prove del destino uscendone sempre e comunque umanamente vincitori. 

Anticipazione da Oggi  l'1 dicembre 2021. «Nel momento più difficile della mia vita, dopo la seconda, ingiusta squalifica per doping, è arrivata mia figlia. L’amore della mia famiglia mi ha salvato. Ho capito che un’altra vita oltre allo sport era possibile. Con loro ho smesso di essere un ragazzo e sono diventato uomo. Nella nostra casa non c’è una coppa, o una medaglia, una foto mentre corro. È la casa della mia famiglia, non il museo Alex Schwazer: io lì sono solo un papà. Una serenità che mi dà forza: finalmente ho sentito di avere al mio fianco qualcuno pronto a darmi manforte in qualsiasi battaglia». Alex Schwazer parla in esclusiva a OGGI che nel numero in edicola domani mostra anche una bellissima foto di famiglia. Dice il marciatore: «Perché la federazione internazionale ha voluto silurarmi? Per distruggere la reputazione del mio allenatore Sandro Donati, che da sempre lotta contro il doping. Se avessero voluto colpire solo me bastava squalificarmi in gara per qualche irregolarità tecnica». Alla domanda se qualcuno l’abbia chiamato, visto che anche altri atleti potrebbero essere vittima della contaminazione delle provette antidoping, come sarebbe capitato a lui, dice: «Mai. Hanno tutti paura. Ci vorrebbe una protesta di massa degli atleti. I dirigenti pensano di essere la cosa più importante dello sport, ma senza gli atleti lo sport non esisterebbe, e dovrebbero alzare tutti la voce per avere la garanzia che i controlli antidoping non possano subire manomissioni». Poi ricorda i suoi errori, «una lunga discesa verso l’inferno. Dopo aver vinto l’oro olimpico nel 2008 a soli 23 anni, mi imponevo allenamenti pesantissimi e i risultati peggioravano invece di migliorare. Avrei dovuto fare una pausa, riposare, e invece con testardaggine ho insistito, finendo nella depressione più nera. La squalifica per doping del 2012 è stata una fortuna. Sono stato costretto a riflettere, a chiedere aiuto».

Da sportfair.it il 23 novembre 2021. Alex Schwazer ha alzato bandiera bianca. Dopo aver vinto il ricorso “nella giustizia ordinaria, ma in quella sportiva no”, l’ex marciatore altoatesino adesso è un allenatore ed ha deciso di raccontare tutta la sua vicenda e di mettersi a nudo in un libro, uscito in questi giorni, “Dopo il traguardo”. In occasione dell’uscita del suo libro, Schwazer è stato protagonista di una curiosa, simpatica e interessante intervista a Le Iene, andata in onda ieri sera, nella quale si è lasciato andare a confidenze davvero… intime. Schwazer ha raccontato come fanno i marciatori a soddisfare i propri bisogni fisiologici durante una gara: “si ferma e fa la cacca. C’è anche chi ha fatto la cacca in gara. Io ho fatto anche la cacca, mentre correvo, a Roma, nel 2016, sono stato molto bravo. Al traguardo non ce l’avevo più nelle mutande, con l’acqua si sistema, poi io avevo anche tempo per sistemarmi perchè avevo parecchio vantaggio”, ha raccontato. “Se ho rubato? Una merendina. Si so scopare, e non ho avuto molte donne. Sono un marciatore anche nel sesso, di solito sono abbastanza resistente, ma si cerca anche di essere velocisti. Mia moglie finora non si è lamentata”, ha aggiunto prima di raccontare la sua routine quotidiana: “mi sveglio la mattina, sveglio mia figlia, la porto all’asilo, e vado a lavorare, poi ceniamo alle 18.30 circa e andiamo a dormire alle 20.30“.

Schwazer racconta in un libro la marcia all’inferno: “Ero un tossico. Per il doping ho perso tutto”. Alex Schwazer ha narrato la sua storia “Dopo il traguardo” in un’autobiografia. È l’uomo che si mette nudo, senza più il timore di doversi nascondere né mentire. A cura di Maurizio De Santis su Fanpage il 16 novembre 2021. Un tossico che si faceva del male, mentiva a se stesso e alle persone vicine. Il doping è stata l'ossessione di Alex Schwazer, la droga che ha spazzato via la sua carriera lasciando del campione olimpico di Pechino (oro nella 50 km di marcia) l'immagine peggiore, quella piombata nel lato oscuro della forza. L'atleta, oggi 37enne, ha fatto i conti con il suo passato e li ha pagati – li sta pagando – con gli interessi: fino al 2024 è squalificato e nonostante il suo caso sia stato archiviato dalla giustizia penale italiana nel 2021, la Wada (l'agenzia internazionale antidoping) non ha accettato quel verdetto. "Dopo il traguardo" (è il titolo della sua autobiografia di Schwazer) tutto è cambiato. "Non è la confessione di un diavolo e neppure l’apologia di un angelo", spiega nell'introduzione al volume. È l'uomo che si mette nudo, senza più il timore di doversi nascondere. A quasi un anno dall’archiviazione del procedimento penale per doping (scorie dell'accusa piovutagli addosso prima dei Giochi di Rio 2016), e a sei mesi dal no del Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che gli ha chiuso le porte di Tokyo 2020, Schwazer è un libro aperto. Puoi sfogliarlo e leggergli dentro tutto d'un fiato. È la narrazione scritta con sofferenza e redenzione da chi è sceso all'inferno e ne è uscito, fino a trovare forse quella pace interiore che lo ha spinto oltre ogni limite. "Ero un tossico, andavo in Turchia per doparmi – si legge nell'intervista al Corriere del Veneto -. A Carolina Kostner (la ex compagna) e ai miei genitori dissi che sarei andato a Roma, alla Fidal. Ho tenuto il cellulare acceso anche di notte, per evitare che partisse il messaggio della compagnia telefonica turca. Ragionavo già da tossico. O meglio, sragionavo. Ed ero pronto a mentire, perché doparsi vuol dire anche mentire”. Il castello di menzogne sul quale ha poggiato una parte della sua vita gli è crollato addosso travolgendo ogni cosa. A cominciare dagli affetti più cari. "Quando la fiducia si rompe è difficile ricucire un rapporto", disse Kostner raccontando come e perché il suo rapporto come il suo rapporto con Schwazer s'è sfilacciato poco alla volta fino allo strappo irreparabile. E quando l'azzurro lo ha capito era troppo tardi. "Ero in un labirinto immenso e apparentemente senza via d’uscita. Avevo perso tutto. La persona che ero, la mia fidanzata, la credibilità, la dignità. Solo ora ne sono uscito". Il rifiuto del Tas è stato un brutto colpo ma ha rappresentato il punto di non ritorno di tutta una vita. Da lì in poi è stato come ripartire. "Mi è scattato qualcosa dentro – ha aggiunto al Corriere – e ho deciso di chiudere i conti con il passato. Mi sentivo pronto. Ho dato il libro a Sandro (Donati), il mio allenatore, a Gerhard (Brandstätter), il mio avvocato, chiarendo subito che non era un libro d’inchiesta perché parlavo solo della mia vita". E nessuno ha il diritto di giudicarla, soprattutto se la vita ha già presentato un conto molto salato. E lo stai ancora pagando come Schwazer.

Alex Schwazer, l’autobiografia: «In Turchia per doparmi. A Carolina Kostner mentii, ero un tossico». È stato pubblicato il libro dell’ex marciatore: «La prima volta che uscii con Carolina le versai addosso un drink. La mia solitudine simile alla sua. Mia moglie? Non mi filava». Silvia M. C. Senette su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. Alex Schwazer, 36 anni, è stato campione olimpico nella 50 km di marcia a Pechino 2008. A nove mesi dall’archiviazione del procedimento penale per doping, scaturito dall’accusa giunta alla vigilia delle Olimpiadi di Rio 2016, e a sei mesi dal no del Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che gli ha precluso i Giochi di Tokyo, Alex Schwazer pubblica per Feltrinelli la sua autobiografia. Dalla copertina — che lo vede immortalato trionfante, a braccia alzate, all’ennesima vittoria del marciatore altoatesino — si presenta al lettore come «una storia di cadute e di redenzioni, di rinunce e di rinascite», «un resoconto sincero, schietto e fedele di ciò che mi è capitato». Non un libro di inchiesta o di denuncia né un’occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, premette l’atleta, ma la storia di un uomo che oggi, a 36 anni, sente di aver chiuso un ciclo importante della sua vita. In «Dopo il traguardo» non mancano rivelazioni rispetto al suo «scivolone» nel vortice del doping. «Innsbruck-Vienna, Vienna-Antalya. A Carolina e ai miei genitori ho detto che sarei andato a Roma, alla Fidal — scrive Schwazer — Ho tenuto il cellulare acceso anche di notte, per evitare che partisse il messaggio della compagnia telefonica turca. Ragionavo già da tossico. O meglio, sragionavo. Ed ero pronto a mentire, perché doparsi vuol dire anche mentire». Nelle 240 pagine l’atleta fa accenno anche al suo incontro con la sua ex storica, la pattinatrice Carolina Kostner: «Mi ha mandato un messaggio per invitarmi a una festa a Ortisei, per l’argento di Göteborg: il suo primo, vero, grande successo. Ancora non ci conoscevamo. Le ho risposto che dovevo allenarmi e, per non fare brutta figura, mi sono offerto di andare a trovarla a Torino. (...) Dopo una pizza e due bottiglie bevute quasi da solo, le ho rovesciato il drink addosso. (...) Abbiamo fatto le cinque del mattino. Eravamo in sintonia. La mia solitudine era molto simile alla sua». Altre pagine, altre ragazze: Judith («La ragazza che ho conosciuto in maggio e che da allora è sempre nei miei pensieri») e Sabrina («La rottura non è stata facile ma nella mia vita non c’era più spazio per lei. La marcia si era divorata tutto»). Quindi l’incontro con Kathrin, poi diventata sua moglie: «La conosco da una vita, Kathi. Ho sempre pensato che fosse la ragazza più bella di Vipiteno. Più di una volta avevo fatto il primo passo, senza fortuna. Mi parlava per pochi minuti, poi spariva e non si faceva più vedere per il resto della serata». Avventure e disavventure umane e sportive che, oggi, Alex Schwazer si sente pronto a raccontare senza vergogna, rimpianti o rimorsi. Ma il percorso di autoanalisi della scrittura, ammette, non è stato semplice.

Hanno inciso i due recenti verdetti che hanno chiuso un capitolo in modo abbastanza definitivo?

«Può essere, in effetti. Forse l’estate scorsa, con l’assoluzione giuridica e il no alle Olimpiadi, mi è scattato qualcosa dentro e ho deciso di chiudere i conti con il passato. Mi sentivo pronto. Adesso si è aperto un nuovo ciclo ma negli ultimi 15 anni ci sono stati cambiamenti incredibili nella mia storia personale: se i colpi di scena continuassero a quel ritmo potrei scrivere una biografia ogni tre anni. Chissà quante altre novità mi aspettano!».

A quale delle sue imprese sportive paragonerebbe la fatica di scrivere questo libro?

«A una 50 km di marcia perché anche delineando il percorso di un’autobiografia devi fare delle scelte. Quanto spazio dare a un certo tema? Come in gara: quante energie vuoi spendere dal chilometro “x” al chilometro “y”, pensando che ci sono altri chilometri da fare? Scrivendo ho dovuto chiarire a me stesso quanto soffermarmi sugli ultimi sei anni, su cui era già stato detto e scritto tanto. Scrivendo di getto tutto quello che mi veniva in mente senza un ordine avrei finito per dedicare due pagine ad alcuni periodi e ottanta ad altri».

Come si sente al termine di questa «maratona» letteraria? 

«Non saprei dare un giudizio obiettivo, non so se il risultato sia interessante. Ma mi ha riempito di orgoglio darlo a mia moglie Kathrin e vedere che non smetteva più di leggerlo. Di tante cose non avevamo mai parlato, altre sapevo che non sarebbero state così piacevoli per lei: ho scritto pagine molto personali, anche su fidanzate precedenti, non solo su Carolina (Kostner, ndr), e per una donna non credo sia facile leggere gli aneddoti del passato. Invece lo ha definito “stupendo”. E lì devo ammettere che mi sono sentito più leggero perché tengo molto alla sua opinione e so che, anche se sono suo marito, sarebbe capacissima di dirmi che il libro è brutto».

Da chi altro aspettava un riscontro importante? 

«Ho dato il libro a Sandro (Donati, ndr), il mio allenatore, a Gerhard (Brandstätter, ndr), il mio avvocato, chiarendo subito: non aspettatevi un libro d’inchiesta perché parlo solo della mia vita. Non sarei riuscito a trovare la motivazione per scrivere cinquanta pagine su come ho vinto a Pechino, sul doping o su quello che è successo a Rio nel 2016. Chi vuole saperne di più, online trova una rassegna stampa infinita. Non volevo trattare aspetti già dati in pasto all’opinione pubblica: volevo scrivere un libro personale, presentandomi come uomo, non come sportivo. Mi sono concentrato su cose che ancora nessuno sa ma che mi hanno formato tantissimo e che possono essere di aiuto a chi si trova in difficoltà e magari di sport non sa niente. Per questo il primo parere positivo dell’editore sull’impostazione che avevo dato è stato decisivo».

Com’è nato il progetto editoriale?

«Dopo la conferenza stampa del 2012 in cui ho ammesso di essermi dopato e ho chiesto scusa a tutti, la mia manager Giulia Mancini ha ricevuto migliaia di messaggi di solidarietà e di sostegno da parte di genitori, preti, insegnanti, persone comuni che non conoscevano i miei successi e non praticavano sport. Così Giulia mi ha proposto di scrivere la mia storia e, tra tante proposte, a inizio 2013 abbiamo deciso di procedere con Feltrinelli perché mi dava carta bianca. C’è stato un editore che non credeva a quello che era successo nel 2012 e si aspettava un libro di denuncia in cui avrei dovuto “confessare” quello che “veramente”, secondo lui, avevo fatto. L’ho mandato a quel paese. La mia casa editrice, invece, mi ha lasciato molto libero e al mio racconto ha riservato una revisione molto rispettosa».

Nell’introduzione scrive: «Non è la confessione di un diavolo e neppure l’apologia di un angelo. Chi vuole leggere la biografia di un uomo senza peccati ne deve scegliere un’altra, non la mia». Un approccio molto schietto.

«Nella mia vita ho fatto anche scelte completamente sbagliate che ho pagato a caro prezzo e altre persone ne hanno sofferto. Quando scrivi un’autobiografia sincera devi avvertire il lettore che non si troverà di fronte a un romanzo. Oggi non c’è nulla di cui mi debba vergognare: è tutta formazione, è la vita, a volte fai cose meravigliose e altre volte fai cose che fanno schifo anche a te. Cominciare a scrivere dal nulla è stato molto difficile: ho pensato che chiarire subito queste cose, per preparare il lettore alle successive 240 pagine, non fosse così male».

Non dev’essere stato semplice mettersi a nudo.

«In realtà è stato molto facile, perché in questi ultimi anni sono stato spogliato talmente tanto dalla stampa che ormai non ho più problemi a parlare di qualsiasi cosa».

Cosa si augura per questo libro?

«Vorrei che lo leggessero i giovani, anche ragazzi lontani dal mondo dello sport. Il libro verrà tradotto in più lingue e mi farebbe molto piacere se ci fosse anche la versione in tedesco, perché nella mia terra bilingue forse qualcuno vorrebbe leggere quello che ho da dire. Però in Alto Adige siamo solo 500mila e magari non è così conveniente pubblicare una versione solo per i miei conterranei».

Oltre a entrare in molte case, prima o poi questo libro arriverà sulla scrivania di qualcuno che l’ha ferita prendendo decisioni che hanno inciso pesantemente sulla sua vita. Si aspetta che oggi capiscano e che magari si scusino?

«Mi auguro proprio di no, spero che chi è lontano resti dov’è. Chi voleva scusarsi poteva farlo privatamente tanto tempo fa. Su molti punti cruciali della mia storia sono stato volutamente soft: non volevo che la mia autobiografia ospitasse pensieri di odio e rancore. Non ho concesso spazio alle persone che mi hanno ferito o a chi è salito sul carro del vincitore per poi scendere appena le cose sono andate male».

E i suoi figli, vorrebbe che un giorno lo leggessero?

«Secondo mia moglie questo libro sarà importante per Ida e Noah quando saranno grandi. Io preferirei raccontare loro le cose dal vivo, a quattr’occhi; non vorrei che scoprissero il mio passato leggendo un libro. Ed è lo stesso motivo per cui non ho scritto una prefazione né ringraziamenti: tutte le persone che meritavano un mio grazie per quello che hanno fatto per me, hanno avuto la mia gratitudine quando era il momento di ringraziarli. Non c’è bisogno di un libro per farlo, sarebbe troppo comodo, perfino ipocrita. Certe cose vanno fatte di persona al momento giusto».

Schwazer: tempo da oro alle Olimpiadi di Tokyo, ma non potrà marciare. Le Iene News il 20 luglio 2021. L’allenatore Sandro Donati racconta i ritmi e i tempi pazzeschi del marciatore italiano Alex Schwazer in allenamento, fino all’ultimo no della giustizia sportiva alla sua partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo. Nonostante la giustizia ordinaria italiana l’abbia scagionato dalle accuse di doping e parli di un complotto. Noi con Antonino Monteleone abbiamo seguito tutta la sua battaglia. Alex Schwazer si stava allenando a ritmi e su tempi pazzeschi, da medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo. Poi è arrivata quella sentenza che a maggio ha posto fine a tutte le sue speranze di poter partecipare. A raccontare a Repubblica i livelli raggiunti in allenamento dal 36enne marciatore italiano è il suo allenatore Sandro Donati. Noi de Le Iene quest’anno abbiamo seguito, con molti servizi di Antonino Monteleone (sopra potete vedere l’ultimo di aprile), tutta la sua battaglia per poter partecipare alle Olimpiadi dopo una lunga e travagliata storia. Abbiamo lanciato anche una petizione online per portarlo ai Giochi.

LA BATTAGLIA GIUDIZIARIA. Alex Schwazer, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, era stato trovato positivo nel 2012 all’Epo prima delle Olimpiadi di Londra e squalificato per tre anni e 6 mesi. A quel punto confessa, farebbe anche i nomi: per questo sarebbe stato poi punito. Sandro Donati, che ha dedicato la vita alla lotta per uno sport pulito e che ha determinato il controllo decisivo su Alex nel 2012, vuole dargli una seconda chance e diventa il suo allenatore con controlli molto scrupolosi e continui (42 volte in un anno e tre mesi). Nel 2016, prima delle Olimpiadi di Rio, Schwazer viene trovato di nuovo positivo e squalificato, in quanto recidivo, per otto anni. Per la giustizia ordinaria italiana però in questo caso le sue urine sono state manipolate per farle risultare positive: le accuse di doping contro di lui sono state archiviate il 18 febbraio scorso dal gip di Bolzano Walter Pelino. Le accuse sarebbero state il frutto di un complotto per vendicarsi di quelle che avrebbe rivolto a importanti dirigenti della federazione in un'aula di Tribunale due settimane prima del controllo del primo gennaio 2016. Anche il suo allenatore Sandro Donati sarebbe stato un obiettivo di queste trame. La squalifica sportiva internazionale a 8 anni però era rimasta portando Schwazer e i suoi avvocati a fare ricorso per sospenderla e riaprire il processo sportivo al Tas, che ha detto no, come hanno fatto anche la federazione mondiale d'atletica World Athletics e l’agenzia mondiale antidoping Wada. L’ultimo tentativo era la Corte federale svizzera che però, in maggio, ha stroncato definitivamente il sogno del marciatore.  

I TEMPI DA RECORD. “Ha fatto i 30 km con un impegno valutabile 6,5 su 10”, racconta oggi l'allenatore Donati parlando degli allenamenti di aprile. “E ha coperto gli ultimi 25 km con un passo che equivale, sulla 50 km, al tempo finale di 3 ore e 35 minuti. È molto probabile che a Tokyo avrebbe potuto vincere la medaglia d’oro”. E si parla solo di allenamenti e non di gare, quando il record mondiale sulla 50 km di marcia maschile è di 3h 32’ 33’’. Dopo l’ultimo no dei giudici? “Alex ha smesso di allenarsi quel pomeriggio stesso: la mattina aveva svolto 2 ore in bici e qualche ora dopo aveva ripetuto tre volte 10.000 metri in circa 43 minuti, con una pausa di appena tre minuti, svolta di marcia più lenta. Per moltissimi marciatori l’allenamento di una vita, per lui normale amministrazione. Poi abbiamo spento definitivamente i motori”.

Fabio Tonacci per repubblica.it il 20 luglio 2021. Dal pezzo di strada dove si è interrotta la marcia di Alex Schwazer si avvistavano medaglie. La forma era proprio quella, il colore era da definire, ma il cronometro parlava chiaro. Ancora questa primavera il campione altoatesino dalle due vite (e forse più di due) macinava, in allenamento, tempi record. Sia sulla distanza dei 50 km, quella a lui più congeniale e che lo ha portato all'oro di Pechino, sia sui 20 km. Mentre a Losanna la giustizia sportiva internazionale si avvitava su se stessa, incapace di riformare il verdetto del 2016 (squalifica per otto anni per doping poco prima dei Giochi di Rio) pur di fronte a prove chiare e scagionanti raccolte dal Tribunale di Bolzano, Alex correva lungo l'Isarco gonfio di pioggia. Correva e pedalava, mattina e sera. Dopo ogni sessione mandava un messaggio su whatsapp al suo allenatore, il maestro dello Sport Sandro Donati: misure, minuti e secondi, frequenza cardiaca, pause, alimentazione, livelli di fatica. E dopo ogni sessione, Donati si convinceva sempre di più che, se lo avessero lasciato andare a Tokyo, il ragazzo l'avrebbe rivisto sul podio. Non è andata così. Le favole hanno il lieto fine assicurato, la vita no. Le speranze di Schwazer si sono spente il 14 maggio quando il Tribunale federale svizzero ha respinto il ricorso del marciatore con una sentenza scritta nella lingua dell'Azzeccagarbugli: "Di regola e per costante prassi nelle controversie come quelle in esame, l'effetto sospensivo o altre misure cautelari entrano in considerazione soltanto se, sulla base di un esame sommario dell'incarto, il rimedio di diritto pare molto verosimilmente fondato. Nel caso concreto tale presupposto non è adempiuto". Fine. Macigno tombale sulla carriera del 36enne di Vipiteno. Nonostante gli appelli di Giovanni Malagò, capo del Coni. Nonostante gli applausi a Sanremo. Nonostante i tempi. E che tempi. Abbiamo letto la tabella dell'allenamento di Schwazer nella settimana a cavallo tra marzo e aprile, con gli appunti di Donati. Mostruosa anche agli occhi dei profani. Lunedì 29 marzo: mattina 1 ora e 20 minuti di bici sul rullo, frequenza cardiaca 127; pomeriggio 16 km di marcia iniziando alla velocità di 4 minuti e 35 sa km e regredendo fino a 4 minuti e 20, battiti finali 137. Mercoledì 31 marzo: 40 km di marcia in 3 ore e 6 minuti (frequenza cardiaca media 135). "Equivalente a circa 3 ore e 52 minuti sui 50 km, enorme margine: in gara vale intorno a 3 ore e 40 minuti sui 50 km", annota il suo allenatore. Da tenere presente che il record del mondo stabilito il 15 agosto 2014 da Yohann Diniz è di 3 ore e 32. E ancora, domenica 4 aprile: 40 km di marcia in 3 ore e 5 minuti (frequenza cardiaca media 135 battiti al minuto), livello di fatica 5 su scala di 10. "Equivalente a circa 3 ore e 51 minuti sui 50 km". A impressionare non è solo la facilità con cui raggiunge livelli alti di prestazione con impegno tutto sommato moderato, ma anche la capacità di recupero. "Due sedute di allenamento da 40 km in cinque giorni e a quella velocità sono sostenibili da pochissimi atleti al mondo - dice a Repubblica Donati - Sette giorni dopo ha fatto i 30 km con un impegno valutabile in 6,5 su scala di 10 e ha coperto gli ultimi 25 km con un passo che equivale, sulla 50 km, al tempo finale di 3 ore e 35 minuti. È molto probabile che a Tokyo avrebbe potuto vincere la medaglia d'oro". Nell'ultima gara disputata, a La Coruna nella primavera del 2016 poco prima dell'inutile viaggio a Rio, Schwazer arrivò secondo con quattro mele sullo stomaco, che ha vomitato dopo il traguardo. Prima di lui, e senza mele, è arrivato Wang Zhen, il marciatore cinese che poi a Rio ha vinto l'oro. Sulla parabola di Schwazer - la prima squalifica (giusta) per doping a Londra nel 2012, il ritorno alle gare, la decisione di affidarsi proprio all'uomo che aveva contribuito alla sua squalifica aiutando gli investigatori di Bolzano, gli allenamenti durissimi, la speranza e poi di nuovo la caduta, lo scandaloso balletto delle provette di urina manomesse a Colonia, la spy story, l'ingiustizia di non ricevere giustizia - Sandro Donati ha pubblicato un libro, "I signori del doping: il sistema sportivo corrotto contro Alex Schwazer" (Rizzoli, 18 euro, prefazione di Attilio Bolzoni) da oggi in libreria. Di quel 14 maggio, Donati scrive: "Ho sempre ritenuto impossibile o paradossale che potesse giungere giustizia ad Alex proprio da Losanna, Tuttavia non è stato facile buttar giù il rospo e digerire questo ennesimo affronto. Alex ha smesso di allenarsi quel pomeriggio stesso: al mattino aveva svolto 2 ore in bici e qualche ora dopo aveva ripetuto tre volte 10.000 m in circa 43 minuti, con una pausa di appena tre minuti, svolta di marcia più lenta. Per moltissimi marciatori l'allenamento della vita, per lui normale amministrazione. Poi abbiamo spento definitivamente i motori".

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 26 luglio 2021. Appare in controluce sullo schermo del computer, dietro di lui la finestra, cielo terso, montagne, un tetto di legno. Ha una canottiera, e gli chiedi se sia tornato da un allenamento ma no, «fa caldo, anche qui, in Alto Adige». Stanno per tornare a casa i due figli con la moglie, andrà ad aprire. È gentile, si concede a lungo. Alex Schwazer è il più giovane vincitore della storia dell'Olimpiade, a 23 anni, quando stacca gli avversari nei 50 chilometri di marcia nel 2008. Nel 2012 è positivo a un controllo antidoping, confessa e chiede scusa. Cerca di tornare all'Olimpiade del 2016, ma dicono sia ancora positivo. Da lì la sua battaglia, che si è chiusa per la giustizia ordinaria, a Bolzano, pochi mesi fa: chiesta l'archiviazione dell'indagine penale per non aver commesso il fatto, secondo il gip i campioni di urina furono alterati. Per la giustizia sportiva, però, Schwazer è ancora colpevole, squalificato fino al 2024. Alle Olimpiadi non è potuto andare. Se ci dessimo del tu?

«Grazie, sì, per me è più facile». 

Innanzitutto: come stai? Qual è la tua quotidianità?

«Sono tornato a vivere nel mio Comune d'origine, anche se in una frazione più a valle, Stanghe di Racines, con Kathrin e i nostri figli. Da cinque anni alleno podisti amatori, sia qui in regione sia online, sportivi da tutta Italia: li seguo personalmente e quotidianamente. Sto bene». 

Chi o cosa ti ha salvato in questi quattro anni e mezzo spesi a dimostrare la tua innocenza?

«Tre sono i miei punti di equilibrio. Il primo è la famiglia: quando sono tornato da Rio de Janeiro accusato di doping ho pensato a come essere responsabile per loro, questo ha tolto il pensiero fisso "sono una vittima"». 

Avevi appena scoperto di aspettare la prima figlia, Ida.

«Sì, nata nel 2017. Con loro, ho sempre avuto al fianco il mio avvocato Gerhard Brandstätter, il mio allenatore, e quelli che hanno sposato la mia causa, lottando al mio fianco, come la mia manager Giulia Mancini. Da solo, con una controparte molto potente come la mia, non avrei potuto farcela». 

Te ne chiederò tra poco. Dimmi però qual è il terzo punto di equilibrio.

«Sono testardo, molto. Avrei potuto vivere accettando quel che mi avevano fatto, ho scelto di non farlo, sapevo che sarebbe stata ben più lunga di una 50 chilometri». 

Perché non sei a Tokyo si sa.

«Avevamo chiesto una sospensione della squalifica pur sapendo che sarebbe stata difficile visti i tempi stretti. Ma dovevo qualificarmi, avevo una sola possibilità». 

Dicono che eri pronto, con tempi da podio.

«I miei 36 anni non sono pochi per le gare. Quando siamo partiti per questa "avventura olimpica", chiamiamola così, non sapevo se sarei stato in grado di tornare ai livelli di cinque anni fa. Ma avevo deciso solo di dare il massimo. Ad aprile ho raggiunto una buona forma, e con una preparazione senza intoppi credo sarei arrivato a una condizione molto simile a quella con cui sbarcai a Rio». 

Eri andato per vincere e non gareggiasti. So che presto la tua storia sarà un docufilm, e poi che stai scrivendo un libro.

«Sarà in libreria entro l'anno, con Feltrinelli. Ho sempre rimandato ma ci sono tante cose da raccontare sulla prima parte della mia vita, poi sulla seconda chissà».

Anticipazioni?

«Non sarà un libro di inchiesta, ma su di me».

Perché?

«Nella mente delle persone restano in testa solo le ultime cose. Io però non mi vedo solo come vittima, o come dopato, o come campione olimpico. Sono un ragazzo che ha avuto dei sogni». 

Quando iniziasti?

«A 5 anni giocavo a hockey su ghiaccio in squadra, a 14 decisi di fare sport anche d'estate. Seguii un vicino di casa, che correva, mi appassionai non tanto all'atletica, quanto al concetto di endurance, resistenza. Mi piaceva l'andare lontano». Da lì non ti sei mai fermato? «No, anzi. A 18 anni ero cresciuto in altezza, mi ero convinto che questo sport non fosse il mio destino. Questione di peso, che incide. E poi qui la marcia è uno sport atipico, mi mancavano le basi. Ho detto al mio allenatore, un ex pugile: basta. Lui però mi costrinse a un altro sport di durata. Per accontentarlo sono arrivato al ciclismo».

Veloce pure sulla bici?

«Ero troppo forte per la squadra del posto. Mi hanno fatto test in laboratorio sull'ergometro e inserito in un team bresciano di professionisti. Un mese e mezzo dopo mi sono trovato in una squadra bresciana della categoria dilettanti, io che non avevo mai fatto una gara in bici. Un anno in mezzo a loro che correvano da 10 anni, a collezionare cadute». 

Solo quattro anni dopo avevi in tasca l'oro olimpico.

«Sì, le cose sono andate veloci, poi: da quella vittoria al campionato italiano di marcia junior, a Reggio Calabria, la ruota ha iniziato a girare, vedi come sono le coincidenze della vita». 

Dopo il 2012 il tuo allenatore è stato Sandro Donati. È appena uscito il suo libro edito da Rizzoli, I signori del doping. Il sistema sportivo corrotto contro Alex Schwazer. Chi è Donati per te?

«Nel 2014 ho maturato l'idea che la mia carriera non sarebbe potuta finire così, ma non volevo tornare alle gare senza dare garanzie, e desideravo anche nuovi stimoli in allenamento. Lui è un grande allenatore, e si è dedicato alla lotta al doping. Volevo fare una cosa stupenda, l'ho chiamato».

Hai dovuto convincerlo?

«Gli inizi sono stati difficili. Per lui bastava un errore ed eri un dopato seriale. Pian piano, tra allenamenti e controlli continui, ci sono riuscito, a convincerlo. Finché a un certo punto ero io a dover frenare l'aspettativa che aveva su di me». 

La cosa più difficile del vostro rapporto?

«Fargli capire che ero stato in un tunnel e che nel doping avevo intravisto forse una possibilità di via d'uscita, ma che non mi apparteneva. Con lui pensai anche di mollare, un paio di volte. Ero lontano da casa, e aveva dubbi giornalieri su di me». 

Poi siete diventati anche amici.

«Molto, sì. Sandro Donati ha una qualità più che rara nello sport: quando vede un'ingiustizia, la denuncia. E non gliene frega se non è poi ben visto dalla federazione o dal Coni. Sai com' è invece in Italia: finché sei amico, bene, ma se pesti i piedi a certe persone rischi che te la facciano pagare».

E voi dite che è andata proprio così. Donati definisce un'infame imboscata quella a vostro danno. Sottoscrivi?

«Sì. Tieni conto che questo per lui non è stato il primo caso di sabotaggio: qualcosa di molto simile gli accadde nel '96, con l'ostacolista Anna Maria Di Terlizzi: fu trovata positiva, ma era un errore. Volevano screditarlo. Tante volte ne parlammo prima del 2016: credevamo non avrebbero potuto rifare una roba del genere. Sarebbe bastato squalificarmi in gara, ora è chiaro che volevano far fuori anche lui». 

In parole povere, cosa c'è dietro?

«Un sistema, che si vuole difendere. Perché se avesse accettato che io sono una vittima, sarebbe stato chiaro che c'è un problema sui controlli. Che non sono sicuri, ancora oggi». 

Perché nessuno alza la voce insieme a te?

«Perché gli atleti sperano non succederà mai a loro, preferiscono stare zitti prima di mettersi contro qualcuno. Se si arrivasse fino a non gareggiare prima di aver ottenuto regole serie, qualcosa potrebbe cambiare». 

 Accadrà?

«Non lo so, ma non credo». 

Quanto ti è costato cercare la tua verità, in termini economici?

«Per fortuna il mio avvocato è come una specie di padre, per me, oggi, e lotta contro un'ingiustizia che lui stesso non può tollerare. Però per i ricorsi a livello sportivo saremo sui 150-200.000 euro». 

Tanti.

«Sì, ma è così. Se vuoi fare appello devi pagare 21.000 franchi e altrettanti per la controparte, in totale fanno 42.000. E quindi gli atleti non vanno avanti. Non è giustizia, questa. Ti mette ko a livello finanziario, impedisce il diritto alla verità».

A Parigi, nel 2020, la condanna a Lamine Diack, l'ex presidente della federazione di atletica leggera (Iaaf, oggi World athletics) per corruzione: avrebbe dato e ricevuto tangenti per nascondere casi di doping di atleti russi.

«Avevo già i miei forti dubbi, nel libro lo scriverò. Tante cose non avevano più una logica. Parigi è stata una soddisfazione, anche se tante persone che erano in federazione sono ancora lì. Giuseppe Fischetto, benché indagato (condanna in primo grado, poi assolto, ndr), ha continuato a essere supervisore dell'antidoping. Sebastian Coe era il vice di Diack, non si è accorto di nulla, beato lui».

Oggi guida l'atletica internazionale. Un mese fa a «Lord Coe» Dario Nardella ed Eugenio Giani hanno dato le chiavi di Firenze.

«Non mi sorprendo più: ora ci sono le Olimpiadi e bisogna andare d'accordo. Gli sconfitti sono coloro che fanno onore a chi ha detto all'Italia che non le conveniva mettersi dalla parte sbagliata della storia sul mio caso. Non certo io».

Cosa vedi nel tuo futuro?

«(Ci pensa su) Quando perdi la seconda Olimpiade per un'ingiustizia paradossalmente non fa una grossa differenza. Tolta la parentesi sportiva, ti ribadisco: sto bene, ho un lavoro che mi piace e con tante richieste, una famiglia stupenda. Mi reputo una persona felice e fortunata. Non ho un desiderio particolare, forse che le cose proseguano così come vanno, che i miei figli crescano bene, questo mi basta». 

Basta con i tribunali?

«Ho pensato di ritirare il ricorso al Tribunale federale svizzero, ma non lo abbiamo fatto: se decidessimo di andare davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo, ci mancherebbe l'istanza di merito. Un nuovo processo sportivo non lo farò, per pura questione economica».

SANDRO DONATI / GIALLO SCHWAZER – I SIGNORI DEL DOPING. Andrea Cinquegrani il 20 Luglio 2021 su la Voce delle Voci. Un potentissimo j’accuse contro i poteri forti che regnano incontrastati nello sport a livello internazionale. Quei poteri, quelle autorità e quegli organismi che sulla carta dovrebbero assicurare integrità e legalità, ad esempio combattendo l’uso del doping, e invece fanno letteralmente il contrario, calpestando i principi statutari per i quali sono stati creati. In prima fila la "Federazione internazionale dell’atletica" (IAAF) e l' "Agenzia mondiale antidoping" (WADA) che agiscono in modo del tutto autoreferenziale, facendo il bello e cattivo tempo in un campo così delicato e, soprattutto, popolato da giganteschi interessi economici. E’ il fil rouge che lega le 450 appassionanti pagine de “I Signori del Doping”, edito da Rizzoli e firmato da Sandro Donati, il preparatore atletico che ha dedicato tutta la sua vita e profuso ogni sua energia per la trasparenza e la legalità nel mondo sportivo e, in particolare, per combattere la piaga del doping, smascherando – come fa in modo esemplare e superdocumentato nel fresco di stampa – tutte le trame, le connection, le collusioni e le corruzioni che la fanno da padrone, senza che né le autorità politiche né la giustizia ordinaria siano mai riuscite, fino ad oggi, ad intervenire in modo efficace per mettere fine ad una tanto selvaggia, incontrollata ed illegale deregulation. 

IL GIALLO DI ALEX SCHWAZER

Tutto il volume ruota intorno alla drammatica vicenda, all’autentico calvario al quale è stato sottoposto per oltre cinque anni il campione altoatesino di marcia Alex Schwazer, finalmente assolto dalla giustizia penale solo pochi mesi fa, ma ‘eternamente’ condannato da quella sportiva che, incredibilmente, gli ha impedito di partecipare alla Olimpiadi di Tokyo che si aprono fra tre giorni, il 24 luglio. Così come gli avevano impedito di prender parte a quelle di Rio de Janeiro.

Una story, quella di Alex, che la Voce ha avuto modo di raccontare in decine di articoli e inchieste, realizzati e pubblicati soprattutto nel corso del 2017, quando la gran parte dei media di regime attaccavano all’arma bianca il campione, seguendo la grancassa delle accuse orchestrate in modo fraudolento da WADA e IAAF, come ha dimostrato in modo palese l’ordinanza emessa dal GIP del tribunale di Bolzano, Walter Pelino, il quale ha descritto per filo e per segno tutto l’intrigo e ora chiede che venga fatta luce su quelle pesantissime responsabilità di cui i due Moloch (la “Premiata Ditta”, la definisce Donati) dello sport dovranno rispondere in sede penale.

Per le sue denunce ‘anticipatorie’ (visto che sono state messe nero su bianco quattro anni fa) la Voce è stata querelata da WADA, i cui interessi vengono curati da uno dei più accorsati studi legali di Ginevra.

La prima udienza si terrà il 22 gennaio 2022.

Ci accusano, in sostanza, di aver infangato immagine & onore di WADA – una sorta di lesa maestà – per aver osato scrivere (e documentare) il modo in cui hanno del tutto calpestato gli scopi statutari previsti, operando cioè in modo del tutto opposto rispetto a quello sbandierato in tutte le sedi. Guarda caso, è la conclusione alla quale è arrivato proprio il gip di Bolzano, Pelino, che ha finalmente acceso i riflettori su un colossale castello non solo di ipocrisie, ma anche di falsità e menzogne, tanto che ora i capi d’accusa contro WADA e IAAF sono pesantissimi: si va, cioè, dalla frode processuale al falso ideologico (per due fattispecie) fino alla calunnia. Da brividi.

Ma veniamo a “I Signori del Doping”. Un libro da consigliare a tutti, soprattutto ai più giovani che si cimentano in discipline sportive: quindi molto adatto per l’adozione ad uso scolastico.

Di seguito, vi proponiamo in rapida carrellata i passaggi salienti che riguardano i due protagonisti della ‘Premiata Ditta’: WADA e IAAF. 

LA “PREMIATA DITTA”

Scrive Attilio Bolzoni, storica firma di Repubblica sul fronte antimafia, nella prefazione. “Aspetto questo libro da quel giorno di luglio del 2016, quando sono scivolato su qualcosa che per mestiere a me era estranea e insieme molto familiare, l’atletica e la mafia, i diari di allenamento e le rappresaglie, i test ematici e i ricatti, la misurazione dei battiti cardiaci e l’inganno”.

E poi: “Era una trama di mafia, qualche puparo che tirava i fili e tanti pupi che si muovevano a comando”.

Da tener presente che tra le tante doglianze di WADA nei confronti della Voce, c’è il fatto di aver parlato, noi della Voce, di ‘metodi mafiosi’ usati da IAAF e WADA…

Scrive ancora Bolzoni su tutta la combine-doping: “Un gigantesco suq camuffato da regole che non sono regole e governato da patti inconfessabili, cordate, combine, protezioni. Troppo pericoloso Alex Schwazer che avrebbe potuto vincere e vincere di più anche senza doping, troppo insopportabile che a riportarlo in alto fosse proprio Sandro Donati, troppo contagiosa quell’‘idea’ di sport per i boss dell’atletica mondiale. Troppo tutto per stare inerti a guardare, meglio giustiziarli, mandarli al rogo quei due, il campione ritrovato e l’eretico di sempre”.

“Non ci sono mandanti a volto coperto e non ci sono moventi misteriosi in questo ‘delitto imperfetto’ che è stata la crocefissione di Alex Schwazer e l’estremo tentativo di insudiciare il suo allenatore Sandro Donati. Gli avvenimenti s’incastrano uno con l’altro, implacabilmente”.

Eccoci alla premessa di Donati. “L’attività antidoping, con il trascorrere degli anni, ha finito per costituire per il sistema sportivo un potentato che è entrato in evidente contrasto con gli interessi e gli obblighi sociali di protezione della salute e di lotta alla diffusione del doping. Per fare un esempio significativo, l’Agenzia mondiale antidoping (la WADA), a nome dell’intero sistema sportivo internazionale, si è battuta affinchè, nei diversi Paesi europei, operasse un solo laboratorio antidoping. E’ accaduto così che in Italia venissero chiusi due laboratori attivi e non ne venissero mai aperti altri regionali, come sarebbe stato invece previsto dalla Legge 376 del 2000. In parole, povere, il sistema sportivo internazionale ha agito per avere l’esclusiva dei controlli antidoping e quindi la disponibilità assoluta di un’arma letale con la quale, secondo le convenienze politiche, scoprire o coprire gli atleti dopati”.

Passiamo ad un capitolo fondamentale, che Donati chiamo ‘Intermezzo’, perché è finalizzato a delineare meglio, per i lettori, gli identikit dei due Moloch in campo, WADA e IAAF.

Nel 2012 la lanciatrice di disco russa, Dar’ja Piscalnikova, “inviò una mail alla WADA e alla IAAF e perfino al CIO per denunciare il doping sistematico che le veniva somministrato dai dirigenti del suo Paese, che poi provvedevano anche a ripulire le sue urine nelle analisi antidoping. Ebbene, cosa fece la WADA? Proprio in nome dei rapporti di forza, girò la mail dell’atleta alle autorità russe! E cosa fece invece la IAAF? La stessa identica mossa”.

“La IAAF e la WADA erano accomunate da un identico interesse politico ed economico, coordinate tra loro perfino nella scelta della delazione. Questi fatti consentono di capire come la complice compattezza con la quale le due istituzioni sportive si sarebbero difese nel processo di Bolzano venga da lontano…”.

E’ poi la volta de “Il database della vergogna”, dove “erano custoditi i dati del passaporto biologico che poi servivano ai responsabili della IAAF per porre in atto i propri accordi illeciti, le estorsioni, i ricatti nei casi di sospetto doping degli atleti russi, o turchi e di chissà quanti altri Paesi”.

“Dal database del 2009 emergevano già numerosi casi anomali, peraltro con forte prevalenza di atleti russi, su cui la IAAF operò una precisa scelta politica, ammantata di scientificità”.

“La WADA sapeva almeno dal 2009 delle porcherie che si nascondevano in quel database della IAAF, ma non intervenne”.

“Quello della IAAF era un bubbone che la WADA non si impegnò mai ad estirpare, salvo intervenire parzialmente dopo la denuncia televisiva del giornalista tedesco Hajo Seppelt”.

Donati rammenta la figura di Jack Robertson, “già importante ufficiale investigativo dell’Agenzia antidroga statunitense (DEA) e poi per alcuni anni, fino al 2015, investigatore capo presso la WADA”. “Il 4 agosto 2016 rilasciò un’importante intervista alla testata “ProPublica”, nella quale osservò con amarezza che il risultato delle sue lunghe indagini era finito nelle mani sbagliate. Robertson proseguiva con altre pesantissime affermazioni riguardanti il gravissimo ritardo con cui la WADA, malgrado fosse pienamente a conoscenza della situazione, si era mossa, aspettando fino a maggio 2015 prima di nominare una Commissione indipendente per indagare su tutto lo sport russo e su quel laboratorio antidoping di Mosca”. “Tempo dopo tutti questi fatti, nel novembre 2018 Robertson dichiarò: ‘Mi rattrista ulteriormente vedere un’Agenzia una volta rispettata, diventare l’incarnazione di ciò che avrebbe dovuto invece contrastare. Dal momento che il presidente e il direttore generale della WADA, Olivier Niggli, si rifiutano di ascoltare e continuano a macchiare la già rovinata reputazione dell’Agenzia, presto il mio nome, con tutto il cuore e con orgoglio, a coloro che chiedono le mie dimissioni”.

Concludiamo tornando al giallo Schwazer.

Scrive Donati con amarezza. “Una breve riflessione: nell’ordinanza conclusiva, il GIP di Bolzano ha fatto esplicito riferimento agli altissimi interessi economici che si sono celati dietro questa vicenda. L’Agenzia mondiale antidoping e la Federazione internazionale di atletica, colte più volte in flagrante, hanno via via perso il loro aplomb istituzionale, palesando quello che realmente sono: organismi autoreferenziali che hanno fatto della lotta al doping un tornaconto economico ed un potentato politico”.

ALEX SCHWAZER / IL “SISTEMA WADA”: CARTE FALSE & PERIZIE TAROCCATE. Andrea Cinquegrani il 21 aprile 2021 su la Voce delle Voci. Un mese fa il campione di marcia Alex Schwazer, dopo un estenuante calvario giudiziario e mediatico durato oltre cinque anni, è stato assolto da tutte le false accuse di doping dal tribunale di Bolzano. Il gip Walter Pelino ha firmato un’ordinanza storica: non solo, infatti, ha scagionato da ogni accusa l’atleta altoatesino, ma ha dimostrato con una mole di documenti e prove inoppugnabili come sia rimasto vittima di una autentica congiura, un complotto scientificamente ordito ai suoi danni, soprattutto per “delegittimarlo” come teste nel processo a carico di medici corrotti della federazione e addirittura coautori di una strategia di diffusione del cosiddetto “doping di Stato” (come ad esempio è avvenuto in Russia).

Il campione, quindi, doveva essere moralmente "ucciso", eliminato, demolito nella sua credibilità. Da qui nasce quel “castello di carta”, di carte & documenti scientificamente taroccati non solo dalla IAAF, ossia la Federazione Internazionale di Atletica, ma soprattutto dalla WADA, ossia l’associazione mondiale antidoping che sulla carta – ma solo sulla carta – dovrebbe combattere quella battaglia: e invece copre, insabbia, falsifica prove e test, tarocca le perizie. 

I “FALSI” DELLA VOCE

La Voce ha scritto decine e decine di articoli sul caso-Schwazer, a partire dalla fine del 2016 e per tutto l’anno seguente. Quasi in perfetta solitudine, dal momento che il mainstream, la grancassa dei media di regime, ha scodinzolato davanti ai colossi WADA e IAAF, attaccando frontalmente il nostro campione, senza mai dubitare della sua innocenza, senza mai mettere in discussione l’operato dei suoi accusatori. Uniche eccezioni, qualche articolo comparso sulla Gazzetta dello Sport e sul Fatto, le ricostruzioni di Attilio Bolzoni su Repubblica, i servizi delle Iene. Poi basta. Bisogna uscire dai nostri confini per trovare vere inchieste: soprattutto in Francia ed in Germania, dove un paio di canali televisivi hanno puntato i riflettori sulle tresche di WADA e IAAF. La Voce ha pagato un prezzo per la sua voglia di scavare e di scovare la realtà di quanto è successo, a partire da quel maledetto 1 gennaio 2016, quando in modo del tutto anomalo (unico caso nella storia dell’atletica) venne prelevato quel campione di urina nell’abitazione di Alex, a Racines. Da qui parte la story, che la Voce, appunto, ha dettagliato in 19 articoli e inchieste. Tutti querelati dai legali svizzeri di WADA, dal primo all’ultimo. Siamo stati accusati di aver ordito un’autentica campagna di stampa basata sul ‘falso’. Su ricostruzioni false e diffamatorie, super lesive dell’onore e della reputazione di WADA. Ogni articolo, secondo i legali elvetici, contiene informazioni, notizie, ricostruzioni del tutto "false". In sostanza, la Voce è colpevole di aver scritto e denunciato con 3 anni di anticipo quello che ora clamorosamente viene alla luce attraverso l’ordinanza Pelino! Uno dei capi d’imputazione a nostro carico, è quello di aver accusato la WADA di tradire il fine per il quale è stata costituita: combattere la diffusione del doping, mentre invece WADA copre ed è parte super attiva della combine. Guarda caso, la stessa accusa che le viene mossa – una fra tante – dal gip di Bolzano. Inutile aggiungere altre parole: per consentire a tutti i lettori e ai cittadini di farsi un’opinione, e soprattutto per valutare se quanto scrive la Voce sia “falso”, soprattutto alla luce di quanto ha scoperto il gip Pelino, in basso troverete un link che riproduce integralmente la querela scagliata dalla corazzata WADA nei nostri confronti, una piccola ma battagliera testata fino al 2014 cartacea, e poi on line. Cliccando su un secondo link, poi, potete leggere le 87 pagine della storica ordinanza del gip di Bolzano. 

AL VIA IL PROCESSO CONTRO LA VOCE

La prima udienza per il processo di diffamazione intentato dalla WADA alla Voce si terrà al tribunale di Napoli fra tre settimane, il 12 maggio prossimo. Abbiamo pensato, a questo punto, si riportare i passaggi che tirano in ballo WADA e sono contenuti nella minuziosa ordinanza del gip Pelino. Sarà un’esposizione un po’ lunga: per il semplice fatto che praticamente tutta l’ordinanza rappresenta un fortissimo j’accuse nei confronti di WADA. Un atto giudiziario che non lascia scampo ad alcun dubbio: ed anzi, apre la strada (anzi, l’autostrada) ad un processo che vedrà come imputati di una sfilza di pesantissimi reati proprio WADA e IAAF, fino a ieri i grandi accusatori e da domani sul banco degli imputati: frode processuale, falso ideologici (per tre diverse fattispecie) e diffamazione, tanto per gradire, i reati dei quali sono accusate le due corazzate dello sport. Cominciamo quindi con la carrellata di Frodi & Falsi commessi dalla premiata ditta WADA-IAAF. Precisando che tale ordine non alfabetico, ma con ogni probabilità di ‘responsabilità’, è stato scelto proprio dal gip. Del resto, il numero di riferimenti a WADA è molto superiore, nelle 87 pagine, rispetto a quelli riservati a IAAF. In pratica, l’impianto dell’ordinanza è tutto costruito sul colosso internazionale dell’antidoping (sic). Di seguito, riportiamo le frasi del gip, desunte, pagina per pagina, dall’ordinanza. 

L’ORDINANZA PELINO, PAGINA PER PAGINA

PAGINA 3 – Il gip fa subito riferimento alla “produzione di atti falsi e decettivi con cui i consulenti nominati dalla WADA, a contraddittorio già chiuso, hanno tentato di inficiare i dati emersi dalla perizia”.

Viene poi fatto riferimento ai 3 motivi di “opacità” di cui parla il pm (solo tre, precisa Pelino): la dichiarazione “gravemente mendace” sia della IAAF che del laboratorio di Colonia, accreditato da WADA; la volontà di WADA e IAAF di “non consegnare i campioni di urina”; le “dichiarazioni mendaci all’autorità italiana prima e a quella tedesca poi”. Si tratta di “opacità” – si chiede Pelino – o non piuttosto di un “reato”?

PAGINA 4 – Pelino scrive di “spiegazioni inverosimili e dunque con ogni probabilità false”, a proposito delle analisi svolte dal laboratorio di Colonia sul campione di urine di Alex.

Si parla, poi, della “abnorme quantità di DNA che il perito ha riscontrato nel campione”: un’altra delle questioni bollenti.

Scrive Pelino: “è comprensibile che WADA e IAAF nel tentativo di ‘salvare la faccia’ neghino anche l’evidenza scientifica”.

PAGINA 4 – Si parla ancora di “attività decettiva posta in essere dai consulenti nominati da WADA a contraddittorio chiuso”.

Poi di un’altra questione bollente, quella relativa alle e-mail intercettate e sottratte da un gruppo hacker alla IAAF: “e-mail – scrive Pelino – finalizzate ad esercitare una pressione sul laboratorio di Colonia affinchè resistesse alla richiesta di consegnare i campioni sequestrati”.

PAGINA 7 – Il gip Pelino illustra il “Metodo WADA”.

“Alcuni fatti – scrive – sono molto indicativi sotto il profilo del metodo con cui WADA ha inteso operare in questo procedimento”. Sono 5 punti molto circostanziati: alcune analisi condotte da WADA “in gran segreto”; le “lacune nella catena di custodia”; il formale – e regolarmente disatteso – impegno di WADA ad offrire la massima collaborazione per le indagini; il “colpo di scena” operato da WADA nel nominare un terzo consulente di parte, tale Vincenzo Pascali. Pascali e Tagliabracci – scrive il gip – “producevano un’ulteriore consulenza nella quale contrapponevano un’asserita letteratura scientifica, in realtà inesistente, ai dati sulla concentrazione del DNA emersi nella perizia”.

PAGINA 8 – Scrive Pelino: “Il fatto che anche questa operazione (la nuova consulenza, ndr), come la precedente, sia miseramente fallita e si sia rivelata un vero e proprio autogol per WADA, nulla toglie alla gravità del fatto: altra mera ‘opacità’ o, piuttosto, un disperato tentativo di gettare fango perché l’esito del procedimento non era quello da essa sperato?”.

Il gip ribadisce il fatto che siano state proprio WADA e IAAF ad impedire, di fatto, lo svolgimento di queste analisi. E precisa: “Impedire di fatto l’espletamento di una prova che si ha nella propria disponibilità e contravvenire ad un impegno espressamente assunto nei confronti del giudice e delle altre parti processuali, non sono circostanze che rimangono giuridicamente irrilevanti o qualificabili come mere scorrettezze non sanzionabili. Soprattutto se si ha la sfrontatezza di chiedere il rinvio a giudizio proprio prendendo a pretesto il mancato espletamento di quella prova!”. Più chiari di così…

PAGINA 9 – Si fa il primo cenno all’attività denigratoria portata avanti dal neo-consulente di WADA, Pascali, contro il colonnello del RIS di Parma, Giampiero Lago, perito nominato dal tribunale di Bolzano.

PAGINA 14 – Si parla espressamente di manipolazione delle provette. “Il fatto che ciò fosse possibile persino all’interno del prestigioso laboratorio di Colonia, primo riferimento della WADA, è emerso incontrovertibilmente nel corso del presente procedimento”.

PAGINA 15 – Siamo ad uno dei passaggi fondamentali dell’ordinanza Pelino. “Noi non abbiamo una prova diretta della manipolazione. Ma abbiamo un dato, quello appunto relativo alla concentrazione del DNA che trova, allo stato, adeguata e unica spiegazione nell’ipotesi della manipolazione. L’assenza di una prova diretta, della ‘pistola fumante’, è indubbia, ma certo tale circostanza non consente di considerare irrilevante o addirittura insussistente, come asserisce la difesa WADA, il quadro di contesto che ha prodotto numerosi, gravi e convergenti elementi indiziari che tale ipotesi sostengono in modo coerente e notevolmente significativo”.

PAGINA 16 – Si torna al tema della e-mail sottratte alla IAAF. Osserva il gip: “E’ curioso osservare come a sollevare l’eccezione non sia la diretta interessata IAAF, che ha subito la sottrazione dei dati, ma la WADA e come a pretendere l’esclusione di materiale probatorio ‘scottante’ non sia, come solitamente avviene, l’indagato, ma all’opposto (è proprio il caso di dirlo), le persone offese”.

PAGINA 18 – Nelle e-mail, tra l’altro, si parla esplicitamente del ‘plot’ (il complotto) ai danni di Alex Schwazer: una riprova delle “illecite pressioni esercitate dalla IAAF sul laboratorio di Colonia, affinchè impedisse la consegna dei campioni di urina all’autorità giudiziaria italiana”. Delle mail, delle pressioni sul laboratorio di Colonia e del ruolo svolto da WADA e IAAF si parla anche nelle seguenti pagine (da 19 a 23).

PAGINA 25 – Sulla quantità controversa di DNA, scrive Pelino: “Nella sua richiesta di archiviazione, il Pm ha indicato unicamente la circostanza della quantità discordante, senza coglierne, peraltro, la gravità e cioè il fatto che non si trattasse di un mero errore, ma di una dichiarazione FALSA finalizzata a far sì che la Corte d’Appello di Colonia, così come espressamente richiesto da IAAF, WADA e Istituto di Biochimica (laboratorio di Colonia), non autorizzasse la consegna del campione B o, in subordine, autorizzasse il prelievo di un’aliquota così esigua da rendere non percorribile e, pertanto, vanificare l’accertamento peritale”. 

MANIPOLAZIONI & FALSITA’

PAGINA 29 – Prosegue il gip: “Il fatto che la IAAF e il laboratorio di Colonia non abbiano esitato a commettere dei reati dapprima per non consegnare il campione B e poi per cercare di giustificare la propria dichiarazione mendace, coprendo con un altro falso il primo falso, la dice lunga su quanto alta dovesse essere la posta in gioco”.

PAGINA 37 – Sempre in relazione alla concentrazione del DNA, nota il gip: “Ecco perché è scientificamente rigoroso parlare di anomalia ed è inaccettabile che il Pubblico Ministero, evidentemente accondiscendendo alle obiezioni (come si vedrà del tutto infondate) dei consulenti di WADA e IAAF, nessuno dei quali, a quanto risulta, è laureato in statistica, ponga questo termine tra virgolette; ma ciò, come si vedrà, ben si spiega con gli artifici posti in essere da WADA e dai suoi consulenti nel tentare di screditare quei dati”.

PAGINA 38 – Scrive Pelino: “Il reale motivo del rifiuto di WADA e IAAF di collaborare fornendo, in forma del tutto anonima, le provette in questione, è in realtà motivato dalla piena consapevolezza che l’esito della sperimentazione sarebbe stato negativo ed avrebbe, con ogni probabilità, indotto a scartare in modo definitivo tale ipotesi”.

Ancora: “WADA e IAAF, pur perfettamente consapevoli del fatto di aver esse stesse impedito di provare la non incidenza del testosterone sulla concentrazione del DNA avendo rifiutato di fornire aliquote anonime con una quantità anche minimale di urina di soggetti dopati, hanno invocato, proprio sulla base della mancata sperimentazione sul punto, il rinvio a giudizio dell’indagato (Alex Schwazer, ndr)”.

PAGINA 41 – Scrive il gip. “La precisa volontà di IAAF e WADA di non collaborare nell’indagine contraddice un non meno preciso impegno scritto assunto per conto di WADA dal suo direttore legale, Julien Sieveking”. “La mancata collaborazione di WADA e IAAF, e la violazione dell’impegno espressamente assunto da WADA, non sono giuridicamente irrilevanti”.

PAGINA 45 – Circa la possibile verifica se l’assunzione di sostanze dopanti possa aumentare la concentrazione di DNA nelle urine, osserva Pelino: “Questa verifica è stata impedita da WADA e IAAF con argomenti tanto pretestuosi quanto infondati, contravvenendo all’impegno espressamente assunto da WADA di collaborare”.

PAGINA 46 – Scrive il gip: “Quando, nell’ambito delle analisi sul DNA, è emerso il dato relativo alla concentrazione, WADA, che evidentemente ne aveva ben compreso la pericolosità, ha cercato subito di correre ai ripari e lo ha fatto con la strategia che ha caratterizzato la sua difesa durante tutto l’incidente probatorio, cioè violando il contraddittorio”.

PAGINA 47 – “Il suo legale, infatti, ha atteso l’udienza del 12-9-2019 in cui avrebbe dovuto chiudersi l’incidente probatorio, per produrre un’analisi che WADA aveva fatto effettuare dal laboratorio di Losanna nell’ottobre 2017 su un campione prelevato a Schwazer il 27-6-2016 e risultato negativo”. Il gip rileva, in tale comportamento, una triplice, grave violazione: soprattutto con riferimento al fatto che quell’analisi fosse ancora nella disponibilità di WADA dopo ben due anni.

In tre pagine (47-48 e 49) il gip elenca una sequela di “dubbi emersi e chiarimenti che WADA avrebbe dovuto fornire”, come riassunti nell’ordinanza del 16 ottobre 2019. Ne bastino un paio che capire la gravità della posizione di WADA. “L’analisi è stata condotta a perizia in corso, in maniera del tutto autoreferenziale e fuori dal contraddittorio”. “Il dato più sorprendente è rappresentato dal fatto che WADA si ponesse il problema della concentrazione del DNA di Schwazer già ai primi di ottobre del 2017”.

Tutte le pagine seguenti (fino a 53) tirano in ballo precise responsabilità di WADA sul fronte delle analisi.

NOI SIAMO WADA

PAGINA 54 – Cominciamo ad entrare nelle pagine più calde dell’ordinanza del gip di Bolzano.

Scrive Pelino: “Ciò senza contare il fatto che il perito (il colonello del RIS Lago, ndr) aveva evidenziato una serie di lacune, alcune delle quali davvero marchiane, della documentazione e della catena di custodia”. Segue un elenco di ‘informazioni’ di fonte WADA, così come annotate da Sieveking. Nota il gip: “E’ interessante notare come nessuna, ma proprio nessuna, di queste informazioni, sia stata in alcun modo documentata. Il messaggio dunque è forte e chiaro: noi siamo WADA, siamo al di sopra di qualsiasi possibilità di verifica o controllo e dovete fidarvi di noi”.

Nero su bianco, sono le parole precise del gip.

PAGINA 56 – Si torna al fantomatico esame dell’urina di Schwazer effettuato a Losanna per conto di WADA.

Osserva il gip: “Si cerca, così, di dimostrare un assunto attraverso dati palesemente inverosimili e non documentati al dichiarato scopo di inficiare quanto emerso dalla perizia: cioè l’anomalia della concentrazione di DNA presente nell’urina di Schwazer del 1 gennaio 2016”.

“Siamo quindi in presenza di un palese tentativo di alterare artificiosamente i dati al fine di inficiare l’esito della perizia, cioè di una vera e propria FRODE PROCESSUALE”.

Siamo arrivati al clou. Frode processuale contestata a WADA.

E il gip va giù in modo durissimo contro i “consulenti” di WADA: “E’ davvero stupefacente che i consulenti (postumi) di WADA, professori Pascali e Tagliabue, pretendano di fondare l’attendibilità di tale dato sulla base di una sua valenza a priori: ‘La credibilità del documento è nel valore del dato stesso e nella credibilità di chi lo ha prodotto e non nel rispetto di altra formalità peritale’. Leggendo quest’affermazione così perentoria – commenta Pelino – sembra davvero di tornare all’epoca di Galileo Galilei: con la sola differenza che il dato fornito dalla WADA non ha certo l’autorità consolidata dei testi aristotelici!”.

PAGINA 57 – Ancora più duro, il gip, nei confronti dei periti di WADA: “D’altronde i consulenti di parte non sono assoggettati a giuramento. Sicchè basta trovarne qualcuno privo di scrupoli deontologici che può sostenersi qualsiasi cosa”.

PAGINA 59 – Da dove nasce l’astio del consulente Pascali nei confronti del colonnello Lago? Bisogna tornare al caso di Elisabetta Claps, dove Pascali venne sostituito proprio da Lago, per capirlo. “Da ciò – desume il gip – nasce la profonda acredine del prof. Pascali nei confronti del col. Lago, che trasuda da ogni pagina delle due ‘consulenze’ e che costituisce – è più che ragionevole supporre – la ragione per cui è stato selezionato da WADA come proprio consulente”.

PAGINA 61 – E’ ancora la singolar tenzone ingaggiata da Pascali contro Lago a tener banco. Nota Pelino: “Nella seconda ‘consulenza’, effettuata col prof. Tagliabracci, il perito (Lago, ndr), che secondo il prof. Pascali si era sottratto ad una “autentica critica fra pari”, viene ulteriormente degradato a ricercatore improvvisato che produce in proprio dati fasulli”.

Segue una sfilza di volgari attacchi del tipo, “Il dottor Lago non è un ricercatore di professione”; “Probabilmente il dottor Lago affronta le proprie ricerche senza saperne abbastanza”; “Le sperimentazioni del dottor Lago partono da una incompleta informazione sul tema della ricerca”, e via di questo volgare passo.

PAGINA 62 – Prosegue il gip. “In altre parole, secondo i due ‘consulenti’ il perito è un ciarlatano, i consulenti di parte che avevano partecipato al contraddittorio degli incompetenti, e il giudice un ingenuo che si è lasciato ingannare da dati “fatti in casa” e privi di validità scientifica in quanto in contrasto con l’opinione di una (fantomatica) letteratura corrente”.

“Al di là del carattere pesantemente diffamatorio di queste affermazioni – continua Pelino – nonché della spregiudicatezza di chi le ha proposte e di chi le ha fatte entrare nel processo con quelle modalità (il legale di WADA), quello che preme qui rilevare è l’assoluta falsità ideologica e la strumentalità al tentativo di frode processuale che anche per il tramite di esse è stato perpetrato”.

Parole di una gravità inaudita.

PAGINA 63 – Altrettanto pesanti le considerazioni successive. “La produzione di un atto ideologicamente falso di solito ha proprio lo scopo di ingannare per procurare a chi lo produce un ingiusto vantaggio: nella specie, il vantaggio che i ‘consulenti’, il legale di WADA e WADA stessa si ripromettevano era quello, apertamente sbandierato nella memoria e nella consulenza di parte prodotta fuori dal contraddittorio, di cercare di minare il dato relativo all’anomala concentrazione di DNA riscontrata nell’urina prelevata ad Alex Schwazer l’1.1.2016”.

“Qui, però, oltre alla mera falsità ideologica di questi dati (che come detto si dovrà accertare in separate sede) vi è qualcosa di più: questa tabella di dati è stata allegata a corredo degli artifici logici che mirano sostanzialmente a contrapporre quanto accertato dal perito (Lago, ndr) con quanto emergerebbe da una, in realtà inesistente, opinione corrente della comunità scientifica”.

PAGINA 64 – E a conclusione del ragionamento, emerge: “Non esistendo alcuna opinione corrente da contrapporre a quanto emerso dalla perizia, i ‘consulenti’ di WADA ne hanno creato una ad arte, creando o taroccando i dati”.

Un’altra bordata da novanta.

PAGINA 65 – Entriamo nel museo degli orrori made in WADA, ossia “Il campionario degli argomenti ed artifici logici utilizzati”, come li etichetta il gip di Bolzano. Non ci dilunghiamo perché si tratta di dati molto tecnici; ma molto gravi per le precise responsabilità di WADA e dei suoi ‘consulenti’ (sempre ‘virgolettati’ in modo ironico dal gip).

PAGINA 66 – Il gip si avvia alle conclusioni. “Riepilogando quanto sin qui osservato, nel presente procedimento abbiamo assistito ad una serie impressionante di artifici e dichiarazioni false finalizzati dapprima a non consegnare il campione B o a limitare a 6 ml la quantità di urina da consegnare al perito, adducendone l’inutilità perché secondo la letteratura scientifica corrente sarebbe occorsi almeno 10 ml; poi a consegnare una provetta diversa, contenente guarda caso 6 ml; quindi a coprire il precedente falso; infine ad inficiare i dati emersi dalla perizia”.

Un’altra, autentica galleria degli orrori.

PAGINA 67 – Continua la disamina del gip: “La falsa dichiarazione sulla quantità, che la perizia aveva incontrovertibilmente dimostrato, veniva poi coperta da un’altra, in cui si adduceva un errore, del tutto inverosimile, legato al fatto che il campione era stato scongelato: il perito ha chiarito che per un tecnico di laboratorio un errore del genere è semplicemente impossibile”.

“Allorchè, nonostante il piccolo quantitativo di urina consegnato al perito attraverso le frodi di cui sopra, questi è riuscito ad effettuare l’analisi genetica ed incidentalmente è emerso il dato dell’enorme concentrazione del DNA nei predetti campioni, WADA si è incaricata di cercare di smontare detto dato attraverso ulteriori artifizi. Il primo è consistito nel presentare – guarda caso aspettando sino all’udienza in cui si doveva chiudere l’incidente probatorio in modo da non dare al perito la possibilità di prendere posizione e alla difesa di replicare – l’analisi effettuata a Losanna nell’ottobre 2017 da cui emergeva, o perlomeno così veniva dichiarato, un valore varie volte superiore a quello emerso in perizia, per usare le parole del direttore affari legali di WADA, Julien Sieveking”.

PAGINA 69 – Le accuse continuano a fioccare e le falsità griffate WADA si moltiplicano. Punta l’indice il gip: “Se forte è il sospetto che si sia cercato di coprire un dato fasullo con altri dati fasulli, questo sospetto diviene ancora più forte se analizziamo la ‘consulenza’ dei professori Pascali e Tagliabracci, guarda caso incaricati il primo (in violazione dell’articolo 225 cpp) al termine dell’udienza del 14.9.2020 quando lo scrivente stava per accingersi a dichiarare chiuso l’incidente probatorio ed il secondo ancora più tardi (senza il deposito di alcun atto formale di nomina) in modo da eludere ogni contraddittorio. Detta "consulenza", come si è dimostrato, e la memoria allegata, contrappongono falsamente una inesistente letteratura corrente ai dati della perizia, senza però riportare alcun dato oltre a quelli già indicati”. 

IL CASTELLO DI CARTE

PAGINA 70 – Prosegue il gip come un rullo compressore. “Si è quindi palesemente cercato di cancellare l’anomalia emersa in perizia, non già attraverso dati statistici che ne dimostrassero la non correttezza, ma attraverso una serie di dati falsi o artatamente prospettati, emersi da presunti studi che non sono stati mai documentati da WADA o dai suoi consulenti”.

“Alla luce di tutto questo, appare più che evidente che siamo in presenza di un castello di carte costruito ad arte per ingannare”.

“Prima si è cercato di impedire la perizia sul campione B, poi si è cercato di consegnare una provetta diversa, quindi di inficiare i risultati della perizia e non si è esitato di ricorrere a dichiarazioni false, a dati falsi o artatamente presentati, e ad artifizi per trarre in inganno il giudicante: cioè a vere e proprie frodi processuali”.

E cosa mai volete di più?

PAGINA 71 – Continua il j’accuse di Pelino. “L’impressionante serie di fatti sopra esaminati ed i reatiche si sono evidenziati, costituiscono altrettanti indizi, gravi, precisi e concordanti a sostegno di quest’ipotesi per la quale sussiste, come si dirà più oltre, anche un preciso e fortissimo movente”.

“Solo una posta così alta, quale la necessità di celare la manipolazione commessa e coprire quanti vi furono invischiati, può spiegare come enti che dovrebbero combattere il doping e garantire il mondo dello sport, atleti compresi, siano ricorsi alle nefandezze sopra esaminate”.

PAGINA 75 – Siamo adesso alla carrellata finale dei falsi e dei tarocchi made in WADA.

“Il verbale di consegna del campione di urina di Alex Schwazer prelevata l’1.1.2016 al laboratorio di Colonia era ideologicamente falso”, in alcune parti fondamentali.

“Anche il documento redatto dal laboratorio di Colonia in relazione alla catena di custodia interna al laboratorio del suddetto campione è ideologicamente falso nella parte in cui dichiara che la provenienza del campione è ignota, laddove risultava l’indicazione ‘Racines’”.

“Inoltre gli accertamenti compiuti dal perito sulla documentazione afferente le analisi effettuate a Losanna hanno evidenziato l’esistenza di lacune persino peggiori”.

“La realtà accertata da questo processo è che la catena di custodia dei reperti in perizia è di fatto del tutto evanescente”.

“La cosa davvero paradossale è che, tra le obiezioni mosse da WADA e IAAF per impedire il trasporto delle aliquote in Italia, vi fosse quella per cui solo presso i laboratori da essa accreditati avrebbe potuto essere garantita la catena di custodia! Oggi, alla luce di quanto emerso, quelle affermazioni e le lunghe discussioni che ne sono seguite hanno davvero il sapore di una beffa”.

“La realtà è che gli atleti non hanno reali garanzie e il sistema è totalmente autoreferenziale”.

“Il fatto di effettuare le controanalisi in presenza dell’atleta non tutela da eventuali manipolazioni commesse a monte. Solo la consegna del secondo campione ad un laboratorio terzo, del tutto indipendente dal circuito WADA e possibilmente ubicato nello Stato di appartenenza dell’atleta (onde evitare di dover battagliare per anni per ottenere solo parte di ciò che si era chiesto per l’effettuazione della perizia) potrà effettivamente impedire, in futuro, che fatti simili tornino a verificarsi”. 

I PEGGIORI INTRALLAZZI

PAGINA 76 – Descrive il gip: “Nell’odierno sistema WADA e IAAF operano in maniera totalmente autoreferenziale ed il presente procedimento ha eloquentemente dimostrato come esse non tollerino affatto controlli dall’esterno ed anzi siano pronte a tutto per impedirlo, al punto da produrre dichiarazioni false e porre in essere frodi processuali. Il controllante e il controllato finiscono per coincidere, anzi per invertirsi”.

“La cosa è davvero singolare se si considera che di norma, per qualsiasi altra tipologia di accertamento/analisi, chi subisce il controllo riceve per legge un campione del materiale prelevato per l’analisi, in modo tale che la possibilità di manipolazioni sia esclusa in radice. Gli atleti, invece, non ricevono alcuna reale garanzia, perché entrambi i campioni hanno la stessa destinazione e sono dunque nelle mani delle medesime persone, e ciò sul presupposto che gli enti in questione e il personale di cui si avvalgono siano al di sopra di ogni sospetto”.

“Questo meccanismo ha finito per conferire a questi enti un potere assoluto e per favorire i peggiori intrallazzi, come la vicenda del doping di stato (fra tutti quello della federazione russa), troppo a lungo impunemente tollerato, ha ampiamente dimostrato”.

PAGINA 81 – Storicizza Pelino: “Il fenomeno della falsificazione delle prove è vecchio quanto l’umanità”. E cita i casi più clamorosi degli ultimi anni: come quello – a botte di concussione, corruzione, riciclaggio – che ha visto quale protagonista l’ex presidente della IAAF Lamine Diack, condannato il 16 settembre 2020 dalla Corte d’Appello di Parigi in quanto al vertice di un vasto sistema di corruttela.

PAGINA 82 – Il gip ricostruisce l’incipit del giallo Schwazer. “La Difesa Schwazer ha dedotto, sin dall’inizio, che la decisione di effettuare il controllo a sorpresa era partita il 16 dicembre 2015, cioè, guarda caso, il giorno in cui Alex Schwazer aveva testimoniato contro i medici della federazione di atletica, Fiorella e Fischetto, che avrebbero spinto gli atleti a doparsi. Doping di Stato, dunque, e una testimonianza pericolosa che non solo veniva dall’interno di quel mondo, ma anche da un atleta che aveva scelto come proprio allenatore il paladino dell’antidoping: Sandro Donati. Colpire Schwazer significava, dunque, neutralizzare quella pericolosa testimonianza e, al tempo stesso, neutralizzare Sandro Donati, da quel momento allenatore di un dopato”.

“Il fatto stesso di aver creato un sistema in cui l’atleta deve fidarsi ciecamente dell’onestà di chi ha in custodia entrambe le sue provette, attendere l’esito di faticose rogatorie internazionali per ottenere, a distanza di anni, solo una piccola parte di quel campione B che le norme di WADA e IAAF vorrebbero, a parole, raccolto a sua tutela, significa aver affidato a questi enti un potere enorme, potere che dopo quanto emerso in questa vertenza e dopo quanto accertato dalla Corte d’Appello di Parigi nel processo a carico dell’ex presidente IAAF, non ha più alcuna ragion d’essere”. 

FRODE PROCESSUALE, FALSI IDEOLOGICI & DIFFAMAZIONE

PAGINA 83 – “Se controllore e controllato coincidono, nessuna garanzia è data agli atleti e non bastano certo i comitati etici a impedire la commissione di frodi, ove gli interessi in gioco sono così alti”.

“Se non si coglierà l’occasione di prendere atto di quanto emerso da questo processo per cambiare radicalmente le cose (…), il caso sarà inevitabilmente destinato a ripetersi e tutto verrà coperto come se nulla fosse accaduto, come d’altronde già emerge dalle dichiarazioni rese dal direttore degli affari legali di WADA, Sieveking, il 10 dicembre 2019: ‘Wada ritiene che debba essere escluso oltre il minimo dubbio che vi sia stata una manipolazione dei campioni’. Beati loro che non hanno dubbi!”.

Continua il ciclone Pelino: “Anzi, tale è l’arroganza che si sono concessi pure il lusso, nella memoria conclusiva, depositata il 30 ottobre 2020 (dunque fuori dal contraddittorio) di asserire falsamente: a) l’inutilità intrinseca della sperimentazione avviata stante l’assenza di anomalia della concentrazione di DNA, riscontrata nell’atleta, rientrante nel range di variabilità normale del DNA come ‘comprovato dalla letteratura sul tema (cfr. memoria WADA del 30.20.2020); b) Un ‘affrettato e imprudente giudizio di inattendibilità espresso dal perito sull’analisi di Losanna, in quanto detta valutazione era avvenuta ‘senza nemmeno chiedere a WADA la documentazione che ritiene mancante’; c) La ‘eccezionale durata dell’incidente probatorio’; ‘Aver protratto l’incidente probatorio per ben più di tre anni senza che le perizie esperite abbiano dato risultati univoci e scientificamente attendibili’”.

“C’è un limite a tutto, anche all’impudenza!”, sbotta il gip.

PAGINA 85 – Eccoci all’epilogo. “Per le ragioni sopra esposte, il Giudice per le indagini preliminari, alla luce di quanto sopra esposto e dettagliatamente argomentato, ritiene accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni di urina prelevati ad Alex Schwazer l’1.1.2016 siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”.

“Ritiene sussistano forti evidenze del fatto che nel tentativo di impedire l’accertamento del predetto reato, siano stati commessi una serie di reati che di seguito si elencano”.

Segue l’elenco, che è bene leggere – per completezza – nel link in basso dove riproduciamo l’intera ordinanza del tribunale di Bolzano. In sintesi, si tratta dei reati di frode processuale, diffamazione e falso ideologico, quest’ultimo per tre diverse fattispecie. 

A questo punto, siamo in attesa delle decisioni del PM, che dovrà formalizzare i capi di accusa e decidere sui rinvii a giudizio.

Avrà il coraggio, il pm incaricato, di portare alla sbarra i vertici (e i lacchè, ‘consulenti’ ad esempio compresi) dei due colossi internazionali che dettano legge – come abbiamo ormai imparato a memoria – nel mondo dello sport? La "loro" legge… 

P.S. Il gip Pelino fa una postilla, che sottoscriviamo pienamente, rammentando le parole che Cicerone scriveva al figlio Marco nell’autunno del 44 avanti Cristo.

Eccole: “Fra tutte le specie d’ingiustizia, la più detestabile è quella di coloro che, quando più ingannano, più cercano di apparir galantuomini”.     

PS 2 – Per motivi di spazio, non indichiamo i link di tutti gli articoli e le inchieste della Voce sul caso Schwazer (che del resto trovate ‘a pezzi’ virgolettati nella querela di WADA). Comunque, consultando l’archivio Voce e cioè andando sulla casella CERCA, scrivendo ALEX SCHWAZER oppure WADA li potere trovare e leggere facilmente tutti.

“SISTEMA WADA – SECONDA PARTE. I GALANTUOMI DEI FALSI E DELLE FRODI PROCESSUALI. Andrea Cinquegrani il 22 aprile 2021 su la Voce delle Voci. Quando una querela si trasforma in un autentico boomerang. Quando una montagna di accuse per diffamazione erutta proprio contro chi, quelle accuse, le ha montate ad arte. Per discreditare e delegittimare chi vuol solo fare chiarezza su un "caso", con l’unico strumento che ha a disposizione: il giornalismo d’inchiesta, fatto di carte, documenti & riscontri. Succede con il giallo che ha coinvolto Alex Schwazer, finito in un tritacarne giudiziario (e anche mediatico) dal quale è uscito solo due mesi fa, quando il gip del tribunale di Bolzano, Walter Pelino, lo ha scagionato da ogni accusa e, addirittura, ha tirato pesantemente in ballo le responsabilità dei suoi grandi accusatori, WADA e IAAF, rispettivamente l’Associazione internazionale antidoping e la Federazione internazionale di atletica. La Voce ha cominciato a scrivere del caso, o meglio del "plot", del complotto, a partire dalla fine del 2016 e per tutto il 2017, come abbiamo illustrato nella lunga inchiesta di ieri, 21 marzo. Pochi mesi dopo il carrarmato della WADA ci ha investiti in pieno, dispiegando la sua artiglieria pesante, vale a dire uno dei più potenti studi legali di Lugano. Una querela che tira in ballo tutti i 19 articoli e inchieste scritte nel corso di un anno, tacciati di falsità, superficialità e quanto di peggio può esistere nel mondo della diffamazione. Avremmo, noi, inventati tutto di sana pianta, al solo scopo di danneggiare e infangare l’onore e la reputazione di una grande Agenzia internazionale, fondata al solo scopo di difendere gli atleti dalla piaga chiamata doping. La Voce, in realtà, ha avuto un grande, gradissimo torto, si è macchiata di una colpa difficilmente cancellabile: ha cioè scritto, con oltre 3 (tre) anni di anticipo, quello che solo parecchio dopo, a febbraio 2021, è emerso in modo clamoroso attraverso la poderosa ordinanza firmata dal gip del tribunale di Bolzano, Walter Pelino: che mette a nudo, una per una, tutte le responsabilità di IAAF e, soprattutto WADA, nel ‘plot’, accusandole senza mezzi termini di reati gravissimi, che vanno dalla frode processuale al falso ideologico (per tre fattispecie) fino alla diffamazione. Reati per i quali i due colossi dovranno rispondere davanti alla magistratura e, soprattutto, davanti agli atleti, a tutti gli sportivi, all’opinione pubblica. Quella opinione pubblica che, nel corso di questi lunghi anni di calvario per Alex Schwazer, è stata accuratamente ‘disinformata’ (tranne poche eccezioni) tanto per sbattere il ‘mostro’ (Alex) in prima pagina e genuflettersi meglio davanti ai due moloch.

Di seguito, potete leggere una lunga disamina – da noi commentata, punto per punto, accusa per accusa – della querela di WADA. In questo mondo vi potrete fare un’idea precisa di quanto accaduto.

WADA CONTRO VOCE, PAGINA PER PAGINA

Pagina 1 – Nelle prime due pagine – ma poi il ritornello verrà spesso ripetuto – WADA si autocelebra come regina mondiale dell’antidoping, che ha nel suo codice genetico e nel suo statuto la lotta al doping.

Peccato che il gip Pelino, nella sua ordinanza, abbia letteralmente smascherato questa finzione, sottolineando proprio il contrasto tra scopi istituzionali e comportamenti messi in campo da WADA.

Pagina 2 – Proprio “la definizione dell’oggetto e dello scopo sociale di WADA è funzionale alla comprensione della gravità dell’offesa subita per via delle condotte diffamatorie poste in essere dal gennaio 2017 tramite il sito internet ‘La Voce delle Voci’”.

La prima accusa, quindi, si smonta proprio perché sono stati i vertici di WADA – come documenta l’ordinanza – a tradire la loro mission e gli scopi sociali che si erano prefissati.

Attaccano la Voce, poi, per la cessazione delle pubblicazioni a seguito di una condanna per diffamazione. La vicenda è stata da noi più volte illustrata (e denunciata).

Pagina 3 – I legali di WADA denunciano “una pesante campagna diffamatoria” e ricostruiscono per sommi capi il caso Schwazer: ma si tratta, ovviamente, della loro distorta visione, come illustra con dovizia di particolari l’ordinanza Pelino.

Pagina 4 – Scrive WADA: “Da subito Alex Schwazer si difendeva dalle accuse, sostenendo di essere vittima di un complotto ordito da non meglio precisati soggetti appartenenti al mondo dell’atletica leggera che sarebbero stati spinti da un sentimento di rivalsa nei confronti suoi e del suo nuovo allenatore e mentore Sandro Donati”.

Fanno un’ironia non poco a sproposito, i legali di WADA, visto che si tratta della pura realtà dei fatti. Proprio come viene dettagliata da gip Pelino.

Hanno la faccia di bronzo, addirittura, di ironizzare sulle accuse di manipolazioni formulate da Schwazer: anch’esse, tanto per cambiare, ampiamente confermate dal gip di Bolzano. Non basta. Perché l’ironia travalica ogni limite quando viene scritto che “i legali del sig. Schwazer ipotizzavano la fattispecie di reato di ‘frode in competizione sportiva’, ‘frode processuale’ ed alcuni reati di falso”.

Proprio le accuse formulate adesso dal gip Pelino (frode processuale, falso ideologico per tre fattispecie e diffamazione) e che stanno alla base del possibile, prossimo rinvio a giudizio dei vertici di WADA e IAAF!

Pagina 5 – Si parla della perizia del laboratorio di Colonia, che fa parte del circuito WADA. Un tema passato ai raggi x dal gip Pelino.

Osano scrivere i legali di WADA: “Alla base delle accuse infamanti subite da WADA per mano de La Voce delle Voci vi è, tra le altre, l’insinuazione che il laboratorio di Colonia sia asservito alla Fondazione e dunque le sue scelte siano espressione della volontà di WADA”.

Non asservito, ma asservitissimo. Come la Voce scrive, ribadisce e soprattutto conferma con una montagna di prove il gip Pelino. 

IL BUON NOME E L’ONORE DI WADA

PAGINA 6 – Lorsignori ora passano ai “Fatti”. E premettono che si tratta di articoli e inchieste (19 quelli tirati in ballo) contenenti “accuse false e ben circostanziate, gravemente lesive del buon nome e della reputazione di WADA”.

Va subito sottolineato che la fabbrica del FALSO in serie si chiama WADA, come documenta in modo inoppugnabile il gip Pelino nella sua ordinanza.

Così come WADA ha sempre accusato di ‘falso’ Schwazer, ora WADA accusa di ‘falso’ la Voce. Ogni “uom dal proprio cuor l’altrui misura”, dicevano i saggi. Ma qui si tratta di una precisa strategia legale, costruita scientemente a tavolino, volta a delegittimare l’avversario con accuse false (e provenienti da chi, invece, quei falsi li produce ritualmente in serie).

Pagina 7 – “In un crescendo di offese gratuite e prive di alcun fondamento – viene scritto – tali articoli accusano WADA, nell’ordine: (punto numero uno, ndr) di aver partecipato ad un complotto ai danni di Alex Schwazer, finalizzato a non consentire all’atleta di partecipare alle Olimpiadi del 2016”.

Lo abbiamo fatto, e rivendichiamo quelle inchieste e quegli articoli che, con largo anticipo, denunciavano il ‘plot’, il complotto, come ora emerge in tutta la sua gravità delle pagine dell’ordinanza Pelino. Non modificheremmo, oggi, neanche una virgola di quanto abbiamo scritto soprattutto in quel 2017 e poi negli anni seguenti.

Proseguono le accuse di WADA contro la Voce. Come punto numero 2, veniamo accusati di aver accusato WADA (scusate il bisticcio) “di aver ostacolato e di ostacolare tutt’ora l’accertamento dell’esistenza di tale presunto complotto”.

Verissimo. La nostra accusa, oggi, è più forte che mai, dopo quanto ha potuto accertare con mezzi di cui non potevamo certo disporre noi, giornalisti d’inchiesta, il gip del tribunale di Bolzano, che inchioda i vertici di WADA come primi autori del ‘plot’, il complotto, come viene espressamente definito nell’ordinanza.

Sempre a pagina 7, i legali di WADA riportano i passaggi di un’inchiesta, nella quale scrivevamo, tra l’altro, che “WADA, invece di vigilare, copre depista e lucra”.

Lo confermiamo pienamente oggi, a distanza di quattro anni, forti dell’amplissimo materiale probatorio raccolto dal gip di Bolzano ed esplicitato in modo estremamente chiaro nella sua ponderosa e poderosa ordinanza.

“Si tratta ovviamente di accuse false”, scrivono nella loro querela i legali di WADA a proposito della ricostruzione effettuata dalla Voce. Da quale pulpito viene la predica! Proprio dai super esperti di falsi e tarocchi!!

Pagina 8 – Insistono sul tema, i legali del colosso antidoping (sic), quando mettono nero su bianco: “In sintesi, WADA è descritta dal signor Cinquegrani come un soggetto che, pur essendo a conoscenza di un sistema volto a favorire l’uso del doping nello sport, lo benedirebbe, venendo intenzionalmente meno ai propri principi morali e statutari e favorendo gli atleti russi, statunitensi e britannici nel ricorso a pratiche illecite”.

Lo dicono con ironia, lorsignori, ma colgono perfettamente nel segno. E la Voce ribadisce, con ancora maggior forza, quelle accuse. Sì, WADA ‘benedice’ quel sistema di corruttele e di doping di Stato, e viene scientemente meno ai suoi ‘compiti morali e statutari’. Proprio per quella così ‘alta posta in gioco’ cui fa più volte espresso riferimento Pelino.

Sempre a pagina 8, veniamo accusati di voler ingenerare nel lettore “il sospetto di una cooperazione tra WADA e IAAF in un presunto depistaggio finalizzato ad impedire l’accertamento della manomissione dei test biologici dell’atleta il 1.1.2016”.

Lo confermiamo, quel sospetto, che adesso si fa anche certezza, visto quanto è riuscito a dimostrare – documenti e perizie alla mano – il gip di Bolzano, che nella sua conclusione, al primo punto, così scrive: “Per le ragioni sopra esposte, il Gip, alla luce di quanto dettagliatamente argomentato, ritiene accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni di urina prelevati ad Alex Schwazer il 1.1.2016 siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”.

Più chiari di così!

Continua WADA, sempre a pagina 8 della sua querela contro la Voce. “L’articolo afferma che, al pari della IAAF, WADA avrebbe tentato di ostacolare la perizia, chiedendo di svolgerla all’interno del laboratorio di Colonia, da sé ‘controllato’”.

E’ successo proprio così, lo confermiamo. E lo conferma – con dovizia di dettagli – il gip di Bolzano.

Ma non basta. Insiste WADA: “Ciò che sottintende il giornalista, infatti, è che l’interesse di WADA a far compiere gli esami presso laboratori ‘propri’ sarebbe una scelta funzionale all’insabbiamento della vicenda”.

Stra-confermiamo anche tale circostanza. E a corroborare le nostre affermazioni ci sono le parole del gip: “Solo la consegna del secondo campione ad un laboratorio terzo, del tutto indipendente dal circuito WADA potrà effettivamente impedire, in futuro, che fatti simili tornino a verificarsi”. Ed aggiunge: “Nell’odierno sistema WADA e IAAF operano in maniera totalmente autoreferenziale e il presente procedimento ha eloquentemente dimostrato come esse non tollerino affatto controlli dall’esterno ed anzi siano pronte a tutto pur di impedirlo, al punto da produrre dichiarazioni false e porre in essere frodi processuali”.

Di nuovo: più chiari di così!

PAGINA 9 – Uno dei top (dell’ipocrisia e non solo) è raggiunto quando viene scritto: “E’ poi solo il caso di ricordare, sempre sul punto, che non esiste alcun rapporto di interdipendenza tra WADA e i laboratori da questa accreditati, compreso quello di Colonia”.

Niente di più falso: perché il laboratorio di Colonia fa parte del cosiddetto ‘circuito WADA’, ossia dei laboratori ‘accreditati’ da WADA e quindi ritenuti di stretta osservanza, di estrema fiducia.

Viene poi aggiunto: “La falsa immagine che di WADA viene offerta al lettore è quella di un ente corrotto e corruttore che avrebbe complottato con altre entità per accusare falsamente di doping il signor Schwazer, nascondendo, invece, gli illeciti commessi di altri atleti”.

Va detto: i legali di WADA riescono a rendere perfettamente i concetti e il senso di quanto la Voceha scritto. WADA, infatti, ha "complottato" (le virgolette sono solo per riferirsi ai termini usati dalla controparte, perché di vero complotto si tratta), lo ha fatto in combutta con altre entità (IAAF e il laboratorio di Colonia) per ‘accusare falsamente di doping il signor Schwazer’. Perfetto: è successo proprio questo. Come documentano le decine e decine di pagine dell’ordinanza firmata da Pelino.

Non è finita. Perché viene poi scritto che “il giornalista afferma nuovamente che WADA avrebbe ‘vivacemente contestato’ la scelta di fare eseguire la perizia presso il comando dei RIS di Parma, luogo prescelto dal Gip di Bolzano”.

E’ proprio così. Lo dicono i fatti, le carte, tutte le circostanze. Lo dettaglia Pelino. Lo conferma “l’acredine” mostrata lungo tutto l’iter peritale da uno dei tre ‘consulenti’ di WADA, Vincenzo Pascali, nei confronti del colonnello Giampiero Lago, il comandante del RIS che ha firmato la perizia affidatagli dal tribunale di Bolzano. 

FALSITA’ E MANIPOLAZIONI

PAGINA 10 – Un altro top viene raggiunto quando i legali di WADA precisano: “Ad ulteriore conferma della tesi complottista seguita dal blog, l’articolista afferma che WADA sarebbe entrata nel panico, per gli esiti che potranno scaturire dagli esami (ndr, del DNA)”.

Basti ricordare, a tal riguardo, quanto scrive Pelino a pagina 46 della sua ordinanza: “Quando, nell’ambito delle analisi sul DNA, è emerso il dato relativo alla concentrazione, WADA, che evidentemente ne aveva ben compreso la pericolosità, ha cercato subito di correre ai ripari e lo ha fatto con la strategia che ha caratterizzato la sua difesa durante tutto l’incidente probatorio, cioè violando il contraddittorio”.

Continuano i legali WADA: “In altri termini, WADA, insieme a IAAF, starebbe tentando in ogni modo di ostacolare le indagini tecniche in corso poiché preoccupata del loro possibile esito. Ciò presupponendo sempre la falsità delle accuse di doping rivolte all’atleta e la manipolazione dei suoi dati biologici ad opera di IAAF e WADA”.

Perfetto. Una ricostruzione davvero precisa e puntuale, quella appena effettuata dal team WADA e attribuita alla Voce come oltraggiosa della loro adamantina reputazione.

Tutto vero, come oro colato. WADA e IAAF hanno “ostacolato le indagini tecniche”, proprio “perché molto preoccupate del loro possibile esito”. E ciò – esatto – presupponendo la “FALSITA’ delle accuse di doping e la MANIPOLAZIONE dei suoi dati biologici ad opera di IAAF e WADA”.

Hanno la faccia di bronzo (il gip la chiama più urbanamente “impudenza”) di fare anche dell’ironia, lorsignori, i ‘galantuomini’ ricordati da Cicerone.

PAGINA 11 – Si parla di IAAF e WADA che “chiudono regolarmente gli occhi”. E poi si riprende il consueto leit motiv, puntando l’indice contro un nostro articolo del 2 marzo 2017: “WADA, l’agenzia internazionale per il doping, che fa finta di controllare e vigilare ed invece è spesso e volentieri collusa con chi truffa a botte di doping”. La stessa circostanza è ripetuta anche nella pagina seguente (la numero 12).

Spiacenti: è l’esatta fotografia delle realtà. 

METODI MAFIOSI

PAGINA 13 – Ed ancora una volta, scrivono i legali di WADA: “Anche in questo caso, la Fondazione viene accusata di concorrere con la IAAF nel tentativo di depistare le indagini italiane circa l’assunzione di doping da parte del sig. Schwazer”. La solita solfa.

Sempre a pagina 13, i signori della Fondazione antidoping sostengono che “la campagna diffamatoria ha assunto contorni ancor più gravi, oltrepassando ogni limite con la pubblicazione di due nuovi articoli, in cui WADA viene esplicitamente accusata di aver gestito ‘in modo mafioso’ le procedure di analisi dei campioni biologici di Alex Schwazer”.

Proprio quanto è successo: se non sono “metodi mafiosi” quelli che portano a manomettere prove e provette, taroccare i test, organizzare frodi processuali, imbandire falsi ideologici d’ogni sorta, diffamare eminenti periti come il colonnello Lago, dove stanno, allora, i veri metodi mafiosi? Sono proprio questi – lo ribadiamo a chiare lettere – e sono tanto più gravi perché orditi da colletti bianchi, quei ‘gentiluomini’ di ciceroniana memoria.

E proprio a pagina 13 si comincia a trattare il caso delle e-mail sottratte alla IAAF.

“Non vi è nessun’altra comunicazione che coinvolga, direttamente o indirettamente, membri o rappresentanti della WADA”, scrivono i suoi legali.

Allora come mai – sottolinea Pelino nella sua ordinanza – proprio da WADA sono arrivate le bordate più pesanti contro quella sottrazione di e-mail, assai più rispetto a chi era stato direttamente colpito, come la IAAF? La prova lampante che il contenuto (autentico) di quelle e-mail preoccupava molto i vertici della Fondazione antidoping: perché contribuiva a svelare il ‘plot’.

Pagina 14 – Si prende a spunto, stavolta, un articolo del 4 luglio 2017, basato proprio sull’affaire delle e-mail. “Già il titolo spiega la portata diffamatoria dell’articolo. Il lettore, infatti, è portato a credere che in quelle mail vi sia la prova del complotto organizzato ai danni di Alex Schwazer da IAAF e WADA. Cosa che, si ribadisce, non è”.

Ed invece, purtroppo, E’. Ed in modo manifesto. Ma non si tratta della sola prova del complotto: quanto di una delle tante. Quelle tante che è possibile trovare lunga la più che istruttiva lettura dell’ordinanza Pelino.

“WADA è nuovamente accusata di voler ostacolare le indagini di Bolzano”, lamentano i suoi legali. Ed è la pura, sacrosanta, certificata verità.

PAGINA 15 – Ora è il turno di un articolo del 17 luglio firmato da Paolo Spiga, uno pseudonimo utilizzato da Andrea Cinquegrani (e addirittura ‘identificato’ da WADA come un cittadino sardo: ai confini della realtà). Titolo dell’articolo: “Caso Schwazer / Da Colonia arriva il campione taroccato”, nel quale “si afferma apoditticamente – scrive WADA – che il campione giunto al RIS di Parma sarebbe appunto ‘taroccato’ e che tale circostanza sarebbe stata accolta da WADA e IAAF ben contente di tutto l’andamento ‘mafioso’ delle procedure”.

Ancora una volta colgono nel segno, gli strenui difensori degli atleti dalla piaga del doping. Quel campione è stato taroccato, senza più alcun bisogno di virgolettare il termine. E di taroccamento parla (anzi scrive) senza peli sulla lingua il gip di Bolzano.

Quanto all’andamento ‘mafioso’ delle procedure, vale il ragionamento fatto poco fa. E le virgolette, anche in questa circostanza, si possono tranquillamente eliminare. 

I CASTELLI DI ACCUSE INFONDATE

PAGINA 16 – I legali WADA continuano a scrivere di ‘procedure mafiose’ e di ‘campione taroccato’. E ad un certo punto notano: “L’articolo accusa il laboratorio di Colonia di aver ‘preso in giro’ il Giudice di Bolzano, inviando al RIS di Parma un campione taroccato, nel tentativo di rendere vano l’accertamento disposto dal Gip”.

Ancora una volta: è successo proprio così. Come la Voce ha scritto a suo tempo e WADA riporta.

Ma il gip non chiama in causa, per la ‘presa in giro’, solo il laboratorio di Colonia, bensì direttamente anche WADA e IAAF!

Hanno poi l’impudenza di sostenere: “La falsa notizia che esce da questo castello di accuse infondate e omesse informazioni è che il laboratorio di Colonia starebbe con ogni mezzo, anche illecito, impedendo di accertare il complotto subito da Alex Schwazer”.

Perfetta ricostruzione, manca solo un dettaglio: il laboratorio di Colonia agisce su preciso imput (come dimostrano le e-mail e certo non solo) di WADA e IAAF.

A proposito di “castelli”, parlano da perfetti esperti della materia, i vertici di WADA. Basti leggere a pagina 70 dell’ordinanza Pelino: “Alla luce di tutto questo, appare più che evidente che siamo in presenza di un castello di carte costruito ad arte per ingannare. Prima si è cercato di impedire la perizia sul campione B, poi si è cercato di consegnare una provetta diversa, quindi di inficiare i risultati della perizia e non si è esitato di ricorrere a dichiarazioni false, a dati falsi o artatamente presentati, e ad artifizi per trarre in inganno il giudicante: cioè a vere e proprie frodi processuali”.

A questo punto: chi è che costruisce “castelli”, la Voce o WADA? Chi è che fabbrica catene di “falsi”, la Voce o WADA? Chi è che tarocca le notizie, la Voce o WADA? Chi è che artatamente presenta dati fasulli, la Voce o WADA?

Pagina 17 – Si comincia subito con una boutade già scritta, a proposito delle ricostruzioni effettuate dalla Voce: “Questa falsa ricostruzione dei fatti, unita al continuo suggestivo riferimento a inesistenti interdipendenze tra WADA e il laboratorio (mediante inesistenti affiliazioni), induce a ritenere che WADA possa essere la regia dietro al complotto”.

Proprio così, signori. In combutta con la IAAF e sulla pelle di chi osa controllare, ficcare il naso o addirittura denunciare: come ha fatto il coraggioso teste Schwazer nel procedimento a carico dei medici con la maglietta della Federazione di atletica e come ha cercato di fare la Voce con le sue contro-inchieste.

Sempre a pagina 17 si torna sulle terminologie mafiose. Una diminutio per WADA, questa volta. Perché l’articolo contestato parla di “IAAF, descritta come una vera e propria piovra mafiosa. I cui tentacoli riescono a condizionare le azioni della WADA, l’organismo che sulla carta dovrebbe contrastare l’uso del doping nell’atletica”.

Sembrano, pari pari, le doglienze espresse da WADA per la vicenda delle e-mail e brillantemente spiegata dal gip nella sua ordinanza: allora, come ora, è WADA a lamentarsi per qualcosa di cui il diretto interessato, IAAF, non fa. Del resto, sorge spontanea la domanda: come mai WADA si è mossa come un carrarmato contro la Voce mentre IAAF non ha mosso un dito? Eppure, in tutti gli articoli e le inchieste i due mostri sacri vengono tirati in ballo (quasi) sempre in coppia!

PAGINA 19 – Si torna a parlare della “presunta congiura ai danni di Schwazer”. “In particolare, secondo l’articolista, tale congiura sarebbe la vendetta, voluta dalla IAAF, per rispondere alle dichiarazioni accusatorie rese dall’atleta – nell’ambito del processo celebrato a suo carico in occasione della prima vicenda doping, del 2012 – nei confronti di un medico della stessa IAAF, il dott. Giuseppe Fischetto”.

Sbagliano soprattutto la data e la circostanza, i legali di WADA. Basta andare a leggere (pagina 82) l’incipit del giallo Schwazer come descritto da Pelino nella sua ordinanza: “La Difesa Schwazer ha dedotto, sin dall’inizio, che la decisione di effettuare il controllo a sorpresa era partita il 16 dicembre 2015, cioè, guarda caso, il giorno in cui Alex Schwazer aveva testimoniato contro i medici della federazione di atletica, Fiorella e Fischetto, che avrebbero spinto gli atleti a doparsi. Doping di Stato, dunque, e una testimonianza pericolosa che non solo veniva dall’interno di quel mondo, ma anche da un atleta che aveva scelto come proprio allenatore il paladino dell’antidoping: Sandro Donati. Colpire Schwazer significava, dunque, neutralizzare quella pericolosa testimonianza e, al tempo stesso, neutralizzare Sandro Donati, da quel momento allenatore di un dopato”.

Pagina 20 – Si torna ad affrontare il tema dell’invio parziale del campione di urina dal laboratorio di Colonia al RIS di Parma. “Obiettivo del sig. Spiga sembra quello di screditare il provvedimento giudiziario tedesco che ha imposto l’invio parziale dei campioni biologici e le tesi dei consulenti tecnici del laboratorio di Colonia, della IAAF e della WADA, che sul punto sono concordi nel ritenere che il campione parziale inviato sarebbe sufficiente per l’esecuzione degli accertamenti peritali richiesti dal Gip di Bolzano”. Ebbene, secondo Spiga – inveiscono i legali di WADA – “il quantitativo di materiale biologico inviato al RIS non sarebbe sufficiente a svolgere le analisi”. E continuano: “Anche sul responsabile di quel ‘tarocco’, l’articolo non sembra concedere dubbi: ‘Proprio quei vertici IAAF, in combutta con quelli griffati WADA, che cercano di incastrare Schwazer, colpevole di lesa maestà per aver puntato i riflettori, già molti mesi fa, su quelle combine”.

Lo ribadiamo per l’ennesima volta. E’ questo il vero, autentico copione andato in scena per anni, e che ha trovato la sua apoteosi nel caso-Schwazer. Un copione, del resto, fedelmente ricostruito, scena per scena, dal gip di Bolzano.

Pagina 21 – Si prosegue con la litania: “Anche in questo caso, l’accusa è pertanto grave e circostanziata ed è quella, ‘in combutta con IAAF, di aver incastrato Schwazer, facendolo risultare falsamente positivo al doping e impedendo, poi, di far emergere tale presunto complotto”.

Lo ripetiamo fino allo sfinimento: le cose stanno proprio così.

Pagina 23 – Basandosi su un articolo del 1 ottobre 2017, così scrivono i legali di WADA: “L’oggetto dell’articolo è l’approssimarsi dell’udienza davanti al giudice di Colonia, chiamato a decidere se accogliere o meno la richiesta di rogatoria formulata dal Gip di Bolzano inerente l’invio in Italia della parte residua di campioni biologici dell’atleta, ancora custoditi presso il laboratorio di Colonia. Tale notizia è l’occasione per il sig. Paolo Spiga per ribadire le consuete, calunniose allusioni ad un ruolo attivo di WADA nel presunto complotto subito dall’atleta: ‘Dava molto fastidio, Alex Schwazer, per le sue denunce sul mondo del doping, sui finti controlli e soprattutto sulle complicità in seno sia alla IAAF che alla WADA”.

Non resta che ripetere per l’ennesima volta quanto già sostenuto: è proprio così. C’è stato un complotto ordito da WADA e IAAF per incastrare e delegittimare Schwazer, punto. La monumentale ordinanza del gip di Bolzano è tutta lì a dimostrarlo in pieno. 

LE ACCUSE DELLA VOCE E L’ORDINANZA DEL GIP

Pagina 25 – Ancora una volta viene tirato in ballo l’invio in Italia dei campioni biologici da Colonia. Osserva WADA, riferendosi ad un articolo Voce del 16 ottobre 2017: “Anche nel riferire questa notizia, l’articolista non perde l’attimo per diffamare, con l’ennesima falsa informazione, il buon nome di WADA”. Si tratta delle già viste interferenze e condizionamenti esercitati da IAAF e WADA per la consegna dei campioni di Colonia al Gip e quindi al RIS.

Hanno la faccia tosta, lorsignori, di parlare di false informazioni, proprio loro, che di falsi nella vicenda Schwazer ne hanno costruiti a bizzeffe, fino a produrre falsi per coprire falsi precedenti. E osano parlare del loro ‘buon nome’: loro, i galantuomini…

Pagina 32 – Tra le principali accuse che vengono mosse alla Voce c’è quella di non aver rispettato la verità, la realtà dei fatti. Così sentenziano: “Tutti gli articoli in questione contengono una ricostruzione di fatti storici accaduti viziata dall’inserimento intenzionale di inesattezze tali da stravolgere completamente il significato di quanto accaduto”.

E, per fare un esempio fra tanti, pensosi osservano: “Si pensi al tema della perizia sul DNA dell’atleta”. Un tema che è stato affrontato in modo molto approfondito nell’ordinanza di Bolzano, la quale giunge a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle dei legali di WADA.

Ma c’è soprattutto una cosa da sottolineare, di fronte alle farneticanti accuse lanciate da WADA: la verità dei fatti, la ricostruzione storica del caso effettuata quattro anni fa dalla Voce con le sue inchieste e i suoi articoli, guarda caso, combacia perfettamente, punto per punto, in modo impressionante con quella effettuata dal gip del tribunale di Bolzano.

Pagina 33 – Proseguono incessantemente nelle farneticazioni, i legali griffati WADA: “In questi termini, la specifica accusa di aver partecipato al complotto ordito ai danni di Schwazer non può certo considerarsi una notizia, dovendosi degradare a mera illazione priva di alcun fondamento, come tale gravemente diffamatoria”.

Inanellare tali e tante baggianate in poche righe è davvero da guinness dei primati!

Non è una notizia? Una notiziona! Soprattutto tenuto conto del totale livello di appiattimento di quasi tutti i media, irregimentati e scodinzolanti davanti ai padroni del vapore nel mondo sportivo, WADA e IAAF. E pronti a gettare la croce addosso al povero Schwazer, la vittima del super plot!

Mere illazioni? Supposizioni prive di ogni fondamento? E anche diffamatorie? Siamo davvero ai confini della realtà. Ma per rientrarvi si fa presto: basta scorrere – come abbiamo più volte sottolineato – le pagine dell’ordinanza Pelino che inchiodano i responsabili, i colletti bianchi, i galantuomini a quei pesantissimi reati dei quali prima o poi dovranno rispondere.

Alex Schwazer: «Ho vinto la mia Odissea. Ora voglio le Olimpiadi». Intervista al marciatore italiano medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, prosciolto dal gip di Bolzano dopo 5 anni di battaglie legali. Simona Musco su Il Dubbio il 19 marzo 2021. «Mi sento molto più leggero. Non ho mai perso la speranza: quando sai di essere innocente pensi sempre che, prima o poi, riuscirai a dimostrarlo. E credo ancora nello sport: nonostante tutto, è bello, tanto bello». È passato un mese da quando Alex Schwazer, il marciatore italiano medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, è stato prosciolto dal gip di Bolzano. L’atleta non era ricaduto nel vortice del doping. Non aveva mentito quando, dopo lo scandalo che gli costò le Olimpiadi di Rio, giurò solennemente di non aver fatto nulla, di essere pulito, di essere innocente. E per accertare questa verità ci sono voluti cinque anni. Una verità che è ancora più complessa di quanto si potesse immaginare: a suo danno si era azionata una macchina del fango che ora rischia di ritorcersi contro i manovratori. Il 22 giugno 2016, dopo un controllo a sorpresa della Iaaf (la federazione mondiale di atletica leggera) effettuato il primo gennaio, Schwazer risultò di nuovo positivo. Secondo quell’esame, nel suo corpo c’era una quantità troppo alta di anabolizzanti e steroidi. Il 10 agosto, poco prima della 20 chilometri di Rio, il Tas lo condannò a rimanere otto anni fuori pista. Ma quelle provette, ha sentenziato il giudice, molto probabilmente sono state manipolate per farlo fuori. La sua colpa: aver testimoniato contro i medici accusati di consigliare doping agli atleti.

Come ci si sente dopo una battaglia del genere?

Sono stato molto felice per l’archiviazione. Sono passati tanti anni, anni di lotta e di battaglia, e questa ordinanza chiude finalmente la vicenda. Quando combatti per avere giustizia e riesci a raggiungere il tuo obiettivo ti senti molto più leggero.

Il gip dice una cosa fortissima: c’è stato un complotto ai suoi danni. Come si sta al centro di una macchinazione del genere?

È una situazione assurda. Io sono solo un atleta e la controparte in tribunale erano istituzioni molto forti e potenti. Avevo sempre dentro di me la speranza di riuscirci, anche se ci sono stati momenti molto amari e difficili da superare. Ma per arrivare alla verità non avevo altra scelta.

La sua storia inizia dopo Pechino, quando ha deciso di fare ricorso all’epo. Cosa le era successo?

Probabilmente, dopo la vittoria qualcosa dentro di me è cambiato. Mi sentivo un po’ arrivato, diciamo così. Avrei dovuto fermarmi, riposare. Ma dall’altra parte c’era anche l’agonista in me che comunque voleva andare avanti e migliorare. Ed è arrivato un momento in cui, a causa del fatto di non aver mai staccato, di non aver mai fatto una pausa, ho sentito una grande stanchezza dentro. Allora non avevo la forza di dire: ok, sto un anno senza gareggiare, faccio altro per poi tornare motivato e in equilibrio. Sono andato avanti e alla fine, in quel periodo di grossa debolezza, mi sono fatto influenzare dal fatto che comunque in Russia, allora, c’è stato un doping di Stato. Il sistema di controllo non funzionava. A Londra mi sono detto: o mi fermo o faccio le Olimpiadi come le faranno i miei avversari russi. E purtroppo ho scelto la seconda opzione.

Il mondo dello sport è inquinato dal doping e lei ci è caduto dentro. Nessuno l’ha aiutato in quel momento di debolezza?

Nel mondo dello sport conta la prestazione, principalmente. La persona conta meno. Conta il fatto che tu sia un atleta forte. C’è l’aspettativa di portare a casa un risultato importante.

Si è come delle macchine, insomma.

Un po’ sì, perché bisogna in qualche maniera funzionare. Nessuno in quel momento è stato attento a quello che mi stava succedendo come persona.

I medici a cui si è rivolto non hanno denunciato, anzi hanno avallato quel sistema. Poi è arrivato Sandro Donati. Come ha cambiato la sua vita?

Mi sono rivolto a lui perché avevo dentro di me questa grande voglia di tornare alle gare, avevo voglia di allenarmi, di confrontarmi con gli altri. L’ho scelto anche perché volevo dare delle garanzie in più, volevo dimostrare di tornare alle gare da persona pulita. Lui combatte da sempre tutto quello che ruota attorno al sistema antidoping. L’ho scelto, oltre che per le capacità tecniche, per fare un progetto.

Lui è l’altra vittima di questa storia. Qual è stato il momento più duro in attesa della verità?

Ci sono stati tanti momenti difficili. Non saprei dirne uno. È stata una lotta per ogni singolo passo che si doveva fare. Già solo il fatto che il giudice italiano ci abbia messo un anno per ottenere le provette sequestrate in Germania fa capire che bisognava combattere per ogni singola cosa. Sia io sia Sandro.

C’è stato mai un momento in cui ha temuto che non si arrivasse ad avere giustizia?

Quello no. Ci sono stati momenti in cui magari mi appariva più evidente il fatto fosse una battaglia estremamente difficile. Ma la speranza non l’ho mai persa, perché quando sei innocente ci credi fino alla fine di poterlo dimostrare. Poi c’è stata la volontà evidente del giudice di andare fino in fondo. E questo mi ha dato anche forza.

C’è stato però anche chi dubitava della sua innocenza, nonché la gogna mediatica. Come ha passato quei momenti?

Ho seguito e seguo molto poco tutto quello che riguarda l’opinione pubblica in generale, perché sono convinto che queste cose, alla fine, ti tolgono solo energie e tempo che dovresti investire sulle cose veramente importanti. Non sono stato lì ad ascoltare e leggere quello che è stato detto o scritto. Sono andato per la mia strada con un unico obiettivo.

Si è ritrovato contro colossi che dovrebbero garantire la pulizia dello sport e invece hanno fatto il contrario. Com’è essere Davide e riuscire a battere Golia?

È difficile, perché hanno mezzi molto più grandi e importanti dei miei, anche per difendersi a livello giuridico. Sono tutte cose che hanno sommato difficoltà nella mia ricerca della verità. Ma la cosa che mi ha dato forza è stato il fatto di sapere di essere dalla parte del giusto. Non guardi tanto chi hai contro, ma pensi che non hai niente da temere e che sono loro, caso mai, ad avere qualcosa da temere.

Ora c’è l’incognita Tokyo. L’accusa a suo carico è stata archiviata, ma la squalifica ad otto anni rimane valida. Ha speranze anche per l’Olimpiade?

Io ho solo una possibilità, fare ricorso davanti al Tribunale federale svizzero. È molto difficile, le statistiche dicono che pochissimi casi, negli ultimi anni, sono stati accolti. Ma non ho niente da perdere ed è l’unica possibilità che ho per tornare alle gare. Io ci credo, ma è molto difficile.

Perché è così difficile se un Tribunale ha stabilito che lei è vittima di un complotto?

Con questo ricorso non verrà rivalutato il mio caso per intero, perché è un procedimento straordinario. Sarebbe molto diverso se io potessi essere di nuovo giudicato dal tribunale arbitrale dello sport. E allora potrei metterci dentro tutti gli ultimi 4 anni e mezzo. Ma per fare questo dovrebbero essere d’accordo tutte le controparti. E ovviamente non lo sono.

Ci crede ancora nello sport, dopo quello che è successo?

Sì, perché lo sport è come la vita. Ci sono cose belle e cose meno belle. Però questa passione è tuttora dentro di me, altrimenti non vorrei tornare in gara. Ci credo, nonostante tutto è una bella cosa. Molto bella.

Caso Alex Schwazer, fine di un incubo: non fu doping. «Le urine del campione furono alterate». Mia Fenice giovedì 18 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Archiviazione per non aver commesso il fatto. Questa la decisione del gip del Tribunale di Bolzano Walter Pelino al termine del processo di primo grado per l’ex marciatore Alex Schwazer. Il gip, accogliendo la richiesta del pm, ha ritenuto “accertato con alto grado di credibilità” che i campioni di urina nel 2016 furono alterati per far risultare l’atleta positivo. Alex Schwazer ha appreso la notizia dell’archiviazione dell’inchiesta doping mentre si stava allenando. Come si legge sul sito dell’Ansa, lo racconta il suo legale Gerhard Brandstaetter. «Il giudice ha approfondito la questione in maniera straordinaria. La soddisfazione ovviamente è grande, perché abbiamo lottato anni per questo». Al più presto Schwazer si attiverà a livello di giustizia civile, ma anche sportiva per una revoca della squalifica. «Motivazioni di questa portata di un giudice penale di certo vanno prese in considerazione», sottolinea Brandstaetter. «A parte Giovanni Malagò che ha cercato di dare una mano, per il resto silenzio più totale dal resto del mondo sportivo: sono stati cinque anni di battaglia durissima, e solo negli ultimi anni la Federatletica aveva assunto una posizione più distaccata, forse capendo che l’accusa era indifendibile». L’allenatore dell’atleta Alex Schwazer, Sandro Donati, confessa all’Adnkronos «l’amarezza di aver condotto questa battaglia in solitudine. Ora è il momento che gli altri facciano le riflessioni del caso. Cosa diranno adesso? E cosa possiamo fare perché queste cose non accadano più? Anch’io in qualche modo sono stato incastrato: passato per fesso o complice, e non sono né l’uno ne l’altro. Ora anch’io dico grazie a questo giudice coraggioso».

Alex Schwazer è stato assolto dall’accusa di doping: «L’atleta non ha commesso il fatto»non ha commesso il fatto». Marilena De Angelis su Urban Post il 18 Febbraio 2021. Alex Schwazer è stato assolto dall’accusa di doping “per non aver commesso il fatto”. Il Gip del tribunale di Bolzano, Walter Pelino, ha infatti disposto l’archiviazione del processo nei confronti del marciatore altoatesino. Il ragazzo nel 2016 era risultato positivo a un controllo a sorpresa incorrendo così in una squalifica di 8 anni. Dunque, Il Gip ha accolto la richiesta della Procura, che aveva chiesto l’archiviazione a dicembre, e ha dato ragione ad Alex. Il vincitore dell’oro olimpico a Pechino 2008 ha da sempre sostenuto l’ipotesi di un’alterazione dei campioni. Dunque oggi, 18 Febbraio 2021, Alex Schwazer può festeggiare un’altra importantissima vittoria nella sua vita. Alex Schwazer è stato assolto dall’accusa di doping del 2016. Il Gip del tribunale di Bolzano, Walter Pelino, come riportato da Sport Mediaset, ha spiegato che: «(La World Anti Doping Agency e la Federazione internazionale di Atletica) hanno operato in maniera totalmente autoreferenziale, non tollerando controlli dall’esterno fino al punto di produrre dichiarazioni false. È quindi provato che la manipolazione delle provette che lo scrivente ritiene provata con altro grado di probabilità razionale avrebbe potuto avvenire in qualsiasi momento a Stoccarda come a Colonia, ove si è dimostrato esservi provette non sigillate dunque agevolmente utilizzabili alla bisogna». La chiusura del processo penale e il proscioglimento di Schwazer, però, non gli consentiranno di partecipare ai Giochi di Tokyo. La squalifica, infatti, è valida fino al 2024. Alex però, dopo questa vittoria in tribunale, ha la possibilità di presentare un nuovo ricorso alla corte federale svizzera per tornare a gareggiare.

Chi è il corridore azzurro? Alex Schwazer è nato a Vipiteno il 26 dicembre 1984 ed è un noto marciatore italiano, campione olimpico della 50 km a Pechino 2008. Ha quasi 37 anni, è altro 185 cm e pesa circa 73 Kg. Ha iniziato a praticare l’atletica leggera a 15 anni, gareggiando nel mezzofondo, e passando alla marcia solo nella categoria allievi. Fino al 2012 ha gareggiato per il Centro Sportivo Carabinieri, la cui sede della sezione di atletica leggera si trova a Bologna. Nel 2005 ha vinto i Campionati italiani nella gara dei 50 km. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, Alex dal 2007 al 2012 ha avuto una relazione sentimentale con la pattinatrice Carolina Kostner.  Dal 2016 ha iniziato a frequentare Kathrin Freund, con la quale si è sposato il 7 settembre 2019.  I due hanno avuto una figlia di nome Ida, nata nel 2017. 

Da gazzetta.it il 18 febbraio 2021. Felice, felicissimo Alex Schwazer. L'archiviazione del processo penale per doping da parte del gip di Bolzano era la notizia più attesa e lui la commenta così: "Sono molto felice che dopo 4 anni e mezzo di attesa finalmente è arrivato il giorno in cui è stata fatta giustizia. Probabilmente non potrò dimenticare tutte le cose - prosegue in un file audio diffuso attraverso la sua manager Giulia Mancini -, ma il giorno di oggi mi ripaga un po' di tante battaglie che insieme ad altri che mi sono stati vicini ho dovuto affrontare in questi quattro anni e mezzo, che non sono stati per nulla facili". L'archiviazione, con tutto quello che sta emergendo sulla manipolazione delle provette, ha scatenato una serie di reazioni. Il presidente di Libera, don Ciotti, ha le idee chiarissime: "Ora è provato: Alex Schwazer è stato incastrato per impedirgli di partecipare all’ultima Olimpiade di Rio. Aveva ragione Alex, con il suo allenatore Sandro Donati, a proclamare la propria innocenza e a denunciare esplicitamente la manipolazione delle sue provette. Libera gli è stata accanto da quando è ripartito per una nuova ed esemplare vita sportiva. E adesso con lui chiede che venga annullata immediatamente la squalifica di 8 anni. Il Cio deve consentirgli di partecipare, se lui lo vorrà, ai giochi Olimpici di Tokyo 2021. Forza Alex, Libera continuerà a marciare al tuo fianco, anche in questa nuova sfida nel nome dello sport pulito e della giustizia giusta". Stefano Mei, nuovo presidente Fidal, ha saputo della svolta giudiziaria durante il Consiglio federale: "Siamo nel pieno del primo Consiglio e devo dire che non ho avuto modo di leggere attentamente le motivazioni del provvedimento. Quello che posso dire adesso è che le sentenze non si commentano mai. Dobbiamo tutti rispettare l’operato della Magistratura, come cittadini e a maggior ragione come rappresentanti delle Istituzioni, anche di quelle sportive. Aggiungo però che se le anticipazioni di stampa riferitemi fossero rispondenti, si aprirebbero scenari inaspettati".

Da repubblica.it il 18 febbraio 2021. La vittoria più bella degli ultimi anni. Alex Schwazer alza le braccia al cielo, questa volta non sul traguardo di una gara di marcia, ma in un’aula di tribunale. Il Gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino, infatti, ha disposto l’archiviazione del procedimento penale a carico di Alex Schwazer per “non aver commesso il fatto”.

Nel 2016 non ci fu doping. L’indagine si riferisce al presunto caso di doping del marciatore altoatesino, risalente al 2016 quando, a seguito di un controllo antidoping a sorpresa, Schwazer era risultato positivo, rimediando successivamente una squalifica di 8 anni per doping, vista la recidività. L’atleta ha sempre negato di aver fatto uso di sostanze dopanti in quel periodo (al contrario del 2012 quando ammise la violazione delle regole) contestando formalmente la validità del test dichiarandosi vittima di un complotto. E le accuse dell’ex marciatore potrebbero non essere così distanti dalla realtà viste le anomalie riscontrate dal Ris di Parma, Giampietro Lago, sulle urine (conservate nel laboratorio Wada di Colonia) del corridore. L’archiviazione, però, non permetterà comunque a Schwazer di partecipare all’Olimpiade di Tokyo, vista la squalifica fino al 2024 comminata dal Tas di Losanna. Ciò non toglie che l’altoatesino, alla luce della decisione del Tribunale di Bolzano, non possa rivolgersi ora alla Corte Federale Svizzera, per impugnare la sentenza del Tas.

Fa.To. per “la Repubblica” il 19 febbraio 2021. E adesso che succede? Adesso che il gip di Bolzano Walter Pelino ha stabilito che l' accusa di doping per Alex Schwazer va archiviata perché il marciatore «non ha commesso il fatto», come prosegue questa storia di bugie, intrighi e complotti? Chi ha messo il testosterone nell' urina conservata nel laboratorio di Colonia? E cosa ne sarà della squalifica sportiva di otto anni per un fatto che non ha commesso? Nel giorno della riabilitazione giudiziaria, Schwazer e il suo allenatore Sandro Donati sono stati chiamati dal presidente del Coni Giovanni Malagò: l' Italia è pronta ad accoglierlo nella spedizione alle Olimpiadi di Tokyo. Però c' è un verdetto del Tribunale arbitrale dello sport da ribaltare (squalifica fino ad agosto 2024) e può essere solo lo stesso Tas a farlo. Schwazer, se vuole tornare a correre in gare ufficiali, dovrà presentare un ricorso a Losanna portando nuovi elementi. E in questo, l' ordinanza di Pelino è qualcosa di più di un buon viatico.(...)

NON ERA DOPING. Michela Allegri e Emiliano Bernardini per “il Messaggero” il 19 febbraio 2021. La marcia più lunga della sua carriera, durata quasi 5 anni. E la medaglia più importante da appuntarsi al petto: quella dell' innocenza. Nel 2016, quando era stato escluso dalle Olimpiadi di Rio, Alex Schwazer non era dopato. L' atleta azzurro che vinse l' oro della 50 km a Pechino 2008 e fu squalificato per 8 anni era finito al centro di un intrigo internazionale: provette incustodite e test manipolati, prove false presentate a processo, mail compromettenti recuperate da un gruppo di hacker russi, addirittura doping di Stato. A scriverlo, nelle 87 pagine di ordinanza che dispone l' archiviazione del procedimento penale a carico del campione, è il gip di Bolzano, Walter Pelino: «Siamo in presenza di un castello di carte e costruito ad arte per ingannare». L' atto di redenzione di Schwazer contiene accuse pesantissime nei confronti della Federazione mondiale d' atletica (Iaaf) e dell' agenzia mondiale antidoping (Wada). Avrebbero fabbricato prove e documenti falsi per insabbiare un dato choc: il campione di urine dell' atleta era stato manipolato per farlo risultare positivo alla presenza di testosterone.

IL SOGNO. Adesso il marciatore punta a chiudere la carriera alle Olimpiadi di Tokyo - «io ci spero», ha detto -, ma la squalifica fino al 2024 comminata dal Tas di Losanna non è ancora stata annullata. Ma a Bolzano ci saranno nuove indagini: il gip ha rispedito gli atti al pm ribaltando le carte in tavola. La procura dovrà smascherare chi ha incastrato il campione e il suo allenatore, Sandro Donati. Il giudice, che parla di «macchina del fango», ravvisa i reati di falso ideologico, frode processuale, diffamazione. Alex, assistito dall' avvocato Gerhard Brandstaetter, ha saputo la notizia mentre si stava allenando: «Giustizia è fatta, un giorno che mi ripaga di anni di battaglie». Nell'ordinanza vengono ripercorse le tappe di quello che il giudice descrive come un imbroglio gigantesco. Viene ipotizzato anche un movente: la decisione di effettuare il controllo a sorpresa era partita il 16 dicembre 2015, «cioè, guarda caso, il giorno in cui Schwazer aveva testimoniato contro due medici della federazione di atletica che avrebbero spinto gli atleti a doparsi». Una tesi proposta dalla difesa, che il giudice accoglie e così riassume: «Doping di Stato e una testimonianza pericolosa, che non solo veniva dall' interno di quel mondo, ma anche da un atleta che aveva scelto come allenatore il paladino dell' antidoping, Donati. Colpire Schwazer significava neutralizzare quella pericolosa testimonianza e, al tempo stesso, neutralizzare Donati». I due medici, condannati in primo grado, erano poi stati assolti in appello: «La testimonianza di Schwazer, squalificato per doping per 8 anni dopo una precedente squalifica sempre per doping, non era apparsa credibile», scrive il gip.

L' INTRIGO. Ma ecco tutte le anomalie riscontrate dal giudice, fin dal primo gennaio del 2016. Il prelievo delle urine viene fatto a Capodanno e il marciatore è positivo al testosterone. Agli occhi del mondo è una ricaduta imperdonabile: Alex era stato squalificato dalle Olimpiadi di Londra 4 anni prima, sempre per doping, e l' ingaggio di Donati era stato un modo per dimostrare il suo pentimento. Inizia la guerra legale, serratissima: Schwazer e Donati sostengono che le provette esaminate dal laboratorio di Colonia sono state manipolate, accusano Iaaf e Wada. Adesso il gip dà loro ragione. Nell'ordinanza rievoca l' affare Dreyfus, scrive che Iaaf e Wada hanno messo in piedi un sistema in cui «gli atleti sono senza alcuna garanzia» rispetto ai «peggiori intrallazzi». I periti nominati dai due enti avrebbero mostrato «alterigia baronale» e «pressapochismo». E, soprattutto, ci sono prove evidenti della manipolazione dei test. I campioni di urine non erano anonimi e sigillati, non sarebbero stati subito consegnati dall' ispettore, ma sarebbero rimasti per diverse ore a Stoccarda, alla portata di chiunque. Il laboratorio di Colonia avrebbe anche mentito sulla quantità (6 ml invece di 18) per evitare di consegnare un campione al perito nominato dal giudice. Nelle urine dell' atleta, inoltre, era stato trovato un livello altissimo di Dna, anomalo in condizioni di buone salute - Schwazer stava bene - e compatibile con una manipolazione del contenuto della provetta. Sono poi state trovate alcune mail, hackerate da Fancy Bear, un gruppo di hacker russi, tra il capo dell' antidoping Iaaf e il legale della federatletica: il primo parla espressamente di «complotto verso A.S. di cui il laboratorio di Colonia è parte».

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2021.

1. Chi ha squalificato Schwazer? Quando termina la sanzione?

Quello di Alex Schwazer (per la positività al testosterone del 1° gennaio 2016) è stato un processo sportivo anomalo e sommario. A causa della notifica tardiva della sua positività, per provare a partecipare ai Giochi di Rio il marciatore rinunciò al procedimento di primo grado davanti al Tribunale dell' atletica optando per un appello diretto davanti alla sezione speciale «olimpica» del Tribunale di arbitrato sportivo, che a Rio trattò il caso in poche ore. La squalifica (8 anni, il massimo della pena considerata la recidiva) scadrà il 15 agosto 2024 quando l' atleta altoatesino avrà quasi 40 anni: una data che lo taglia fuori dai Giochi di Parigi.

2. Ci sono precedenti di atleti condannati sul piano sportivo e assolti sul fronte penale?

In Italia la discordanza tra esito del processo penale (favorevole all' atleta) e condanna sportiva è comune. I giudizi in genere concordano sulla colpevolezza solo in caso di confessione dell' incolpato o evidenze giudiziarie contro l' atleta raccolte dall' autorità giudiziaria. Se queste mancano, spesso la sola positività al controllo non è ritenuta sufficiente dal giudice penale per raggiungere il grado di prova. Casi noti di difformità delle due sentenze sono quelli del ciclista Davide Rebellin (argento olimpico a Pechino 2008, poi revocato) e del maratoneta Alberico Di Cecco, entrambi colpevoli per la giustizia sportiva e innocenti per quella penale.

3. Schwazer può ancora presentare appello?

No: il Tas di Losanna è giudice ultimo internazionale in materia. Contro le sue sentenze si può ricorrere (solo per gravi pregiudizi nei confronti dell' incolpato, l' ha fatto con successo il nuotatore Sun Yang che ha ricusato Franco Frattini presidente del collegio) al Tribunale federale svizzero. I legali di Alex hanno presentato ricorso nel 2020, richiesta rigettata il 5 maggio perché immotivata.

4. È possibile ricorrere alla Corte europea per i Diritti dell' Uomo?

Sì. L' ha fatto Caster Semenya (il procedimento in corso) contro i nuovi regolamenti dell' atletica leggera che la discriminano in quanto atleta con differenze dello sviluppo sessuale. L' ha fatto Michel Platini avverso la squalifica comminatagli dalla Fifa prima e dal Tas poi: la Corte l' ha respinta giudicando la sanzione equa e ragionevole. I ricorsi per casi di doping sono rarissimi (il ciclista Erwin Bakker nel 2019, ad esempio) e tutti finora respinti.

5. Su cosa potrebbe basarsi l' appello alla Corte europea?

Sul diritto di Schwazer a un «giusto processo». Per farlo i suoi difensori dovranno dimostrare che tra gli elementi emersi nell' inchiesta di Bolzano ve n' erano di importanti, già noti nel 2016 al momento del giudizio sportivo, che sono stati colposamente o dolosamente trascurati dai magistrati del Tas.

6. È possibile chiedere la grazia? E a chi?

L' istituto della grazia è previsto dall' ordinamento sportivo. Ma solo per fatti disciplinari (doping escluso) su iniziativa delle singole federazioni e mai del Cio. Viene di norma concessa ai dirigenti (anche se radiati) dopo almeno 5 anni dalla sanzione.

7. È ipotizzabile una revisione del processo?

Non ci sono precedenti, ma alcuni giuristi sportivi non lo escludono nel caso in cui emergano clamorosi elementi probanti a favore di un complotto o una manipolazione, ad esempio una piena confessione o prove documentali inoppugnabili.

Alex Schwazer, un giallo e un pasticcio: è anche un complotto? Giuseppe Toti su Il Corriere della Sera il 16/9/2020. Sono più di quattro anni di battaglia legale, quasi tre di udienze preliminari al Tribunale di Bolzano e tre perizie ad avere spalancato le porte all’ipotesi del complotto contro il marciatore Alex Schwazer (oro olimpico ai Giochi di Pechino 2008e attualmente squalificato a 8 anni per la positività al doping nel 2016) e il suo allenatore Sandro Donati. Il lunghissimo lavoro di analisi compiuto su atleti in attività e popolazione comune dal colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma e genetista incaricato dal Gip di Bolzano Walter Pelino di fare luce sul «giallo» più clamoroso nella storia dello sport degli ultimi anni, ha condotto a due risultati. Il primo: ha escluso che il valore anomalo e abnorme di Dna presente in uno dei due campioni di urina (1200 picogrammi per microlitro nella provetta B) prelevata a Schwazer durante il controllo a Racines dalla Iaaf, l’1 gennaio 2016, possa essere giustificato dalla fisiologia umana. Né è spiegabile con il super allenamento, tantomeno con patologie di vario genere (mai accusate da Schwazer in nessuno dei tantissimi controlli antidoping subiti). Il secondo risultato, in pratica, è una diretta conseguenza del primo. Ossia: quel valore anomalo del Dna può essere stato determinato dalla manomissione delle provette. L’epilogo della storia è atteso nelle prossime settimane e arriverà al termine di un percorso tortuoso e tormentato, che vide la sua genesi in tempi non sospetti, quasi cinque anni fa. È il 16 dicembre quando Schwazer si presenta in aula a Bolzano e testimonia contro il gigante Russia e due medici della Iaaf (Fischetto e Fiorella, condannati in primo grado e assolti in appello: in un’intercettazione telefonica del 2016 Fischetto dirà, a proposito di Schwazer: «Sto crucco deve mori’ ammazzato»). Immediatamente dopo la conclusione dell’udienza parte l’ordine della Iaaf di controllare Schwazer il giorno di Capodanno. E questo accade. Con un «piccolo» particolare: sul foglio del prelievo destinato al laboratorio antidoping di Colonia c’è scritto Racines, il luogo dove è stato effettuato il prelievo. Ma le regole antidoping in materia sono altre: nessuna indicazione deve essere riportata che possa far risalire all’identità dell’atleta oggetto del test. L’ispettore del controllo, dipendente della ditta privata Gqs di Stoccarda, riporta sul verbale di avere consegnato lui i campioni, a mano, il 2 gennaio, al laboratorio di Colonia. Sei mesi più tardi, però, a Rio de Janeiro, davanti ai giudici del Tas, salta fuori la verità: l’ispettore ammette infatti di avere lasciato le provette presso la ditta Gqs intorno alle 15.30 dell’1 gennaio. Dunque i campioni sono rimasti incustoditi per ben 15 ore negli uffici in cui almeno 6 persone hanno libero accesso, prima di partire per Colonia il 2 mattina. E così la catena di custodia è già saltata. Il primo esame sulle urine dà esito negativo ma la Iaaf richiede al laboratorio una seconda analisi da svolgere con un metodo diverso e più meticoloso al termine del quale il laboratorio trova una piccola quantità di testosterone. Il 13 maggio informa la Iaaf che mette il risultato in un cassetto per più di un mese e lo comunica a Schwazer solo il 21 giugno, quando i Giochi sono ormai alle porte. Il 17 gennaio 2017 si apre il processo penale a Bolzano: il pm Giancarlo Bramante e il Gip Walter Pelino richiedono alla Iaaf l’urina, ottenendo un rifiuto. Dopodiché si rivolgono al giudice tedesco per opporsi. Quando il giudice di Colonia accoglie la richiesta, i magistrati italiani si sentono raccontare che possono dare solo l’urina A perché di urina B sono rimasti solo 6 millilitri e per l’esame del Dna ne occorrerebbero 10. Il perito del tribunale italiano, il colonnello Lago, scoprirà che di urina B ce n’era il triplo di quanto dichiarato e che per cercare il Dna bastava un solo millilitro. Il 7 febbraio 2018 Lago va a Colonia per prendere l’urina e il direttore del laboratorio, spalleggiato dall’avvocato della Iaaf, tenta di rifilargli non l’urina B sigillata ma un’anonima urina contenuta in una fialetta di plastica. Dietro la prospettiva di una denuncia penale, il direttore consegna la vera urina B, quella sulla quale si troverà la principale anomalia. Ora il giudice Pelino invierà il fascicolo al pubblico ministero Giancarlo Bramante, titolare dell’inchiesta e il pm dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio di Schwazer oppure l’archiviazione. In quest’ultimo caso, l’atleta avrebbe in minima parte giustizia, giacché non ci sarebbe comunque la possibilità di un nuovo processo in sede sportiva. Una decisione di archiviazione, accompagnata da adeguate motivazioni, potrebbe però aprire per Schwazer e per il suo allenatore Donati la strada a un procedimento risarcitorio.

Assolto per non avere commesso il fatto. Giuseppe Toti su Il Corriere della Sera il 19/2/2021. Il gip di Bolzano ha sancito ciò che le perizie dei RIS avevano già rivelato e il buonsenso suggeriva da tempo: le urine allungate di Dna che costarono al marciatore Alex Schwazer l’esclusione dall’Olimpiade di Rio e dal consesso delle persone cosiddette perbene non erano farina del suo sacco, ma furono alterate da qualcuno che non voleva più averlo tra i piedi. Inflazionati come siamo da complottismi che poggiano sulle fragili basi della maldicenza, vedere sbugiardato un complotto autentico ci coglie quasi impreparati. La storia di Alex parla a tutti noi: è quella di una pecora nera che decide di sbiancarsi, ma benché ripulita, o forse proprio per questo, continua a venire rifiutata dal suo gregge in nome del pregiudizio e della paura. Oltre a un cognome irto di consonanti, Schwazer ha ricevuto in dono un carattere fragile e un talento cristallino che nel 2008 gli permise di vincere l’Olimpiade di Pechino con le sue sole gambe. Cominciò a doparsi per reggere il ritmo dei marciatori russi, dei quali poi si scoprì che erano anche più drogati di lui. Venne pizzicato alla vigilia dell’Olimpiade successiva, quella di Londra, mentre i fenomeni di Mosca stantuffavano imperterriti sotto lo sguardo benevolo di un presidente della federazione mondiale di atletica finito poi in carcere per corruzione e di un cagnolino da guardia dell’Antidoping che custodiva mazzette milionarie dentro la lavatrice. Se Schwazer avesse espiato la pena in silenzio, forse il suo ambiente ne avrebbe premiato l’omertà, riaccogliendolo come un figliol prodigo. Invece, per idealismo ed emotività, Alex chiamò a correo tutto il marcio della marcia, mettendosi alla testa della lotta al doping con lo zelo tipico dei convertiti. Si accostò al prete antimafia don Ciotti e ingaggiò un allenatore, Sandro Donati, che aveva consacrato l’esistenza a svergognare l’abbruttimento chimico dello sport. Come in un film di Hollywood, di colpo l’eroe si ritrovò privato di tutto: amici, denaro, premi, sponsor, persino la fidanzata Caroline Kostner, già punita con una lunga squalifica per il solo fatto di avere mentito sulla presenza in casa di Alex durante un controllo a sorpresa. Scontata la pena, Schwazer ricominciò a marciare: meno forte di prima, ma sempre più di tutti gli altri. Commise l’errore di vincere la gara che garantiva l’iscrizione all’Olimpiade di Rio, nonostante una telefonata anonima della vigilia avesse suggerito al suo allenatore di farlo andare piano. I vertici dell’atletica mondiale non potevano correre il rischio che Schwazer l’ex dopato, ma soprattutto Schwazer il ribelle, vincesse un’altra medaglia. La mattina del Capodanno 2016 saltò fuori una provetta di urine assai bizzarra, perché portava impresso il nome del paese in cui Alex si stava allenando, in barba alle regole che imponevano l’anonimato. La provetta, che al primo esame aveva dato esito negativo, viaggiò per mezza Europa fino a fermarsi a Colonia, dove spuntarono tracce di testosterone e una dose di Dna incompatibile con un essere umano e forse anche con l’Incredibile Hulk. Tanto bastò al sistema per sbatterlo definitivamente fuori. I suoi precedenti di dopato funzionarono come una lettera scarlatta, rendendolo immediatamente sospetto, recidivo e indifendibile. Intorno alla sua solitudine venne sollevato un muro. E adesso? Nessuno potrà più restituire al trentasettenne Alex Schwazer il tempo perduto e la fiducia negli uomini che non ne hanno avuta in lui. Ma almeno l’onore sì. L’onore e un biglietto aereo per Tokyo, sede della prossima Olimpiade. Un lieto fine con retrogusto amaro: non è forse il segreto delle grandi storie?

Alex Schwazer assolto: «Questa sentenza è stata per me come l’arrivo di un figlio». Giuseppe Toti su Il Corriere della Sera il 19/2/2021.

Alex Schwazer che cosa ha provato appena ha saputo la notizia?

«Difficile rispondere, avrò bisogno di alcuni giorni per metabolizzare il tutto. Sicuramente ero molto contento perché aspettavo questo momento da quattro anni e mezzo. Finalmente tutti gli sforzi compiuti avevano determinato un risultato importante».

Schwazer assolto: la grazia, la revisione del processo, ecco cosa può succedere ora

Quando scadrà la squalifica sportiva di Alex Schwazer?

Che cosa stava facendo?

«Mi stavo allenando, e quando sono tornato a casa ho trovato una marea di messaggi sul telefono. Allora ho capito che il decreto di archiviazione era stato depositato...».

Che cosa le ha detto sua moglie?

«Poco perché non ho avuto molto tempo da dedicarle. Però mi ha fatto una bellissima torta al cioccolato con i cinque cerchi olimpici sopra. È stato come la nascita di un figlio».

Qual è stato il periodo più duro?

«La cosa difficile è che mi sono ritrovato scaraventato in un campo non mio: io sono solo un atleta. In un’aula di tribunale non sei a tuo agio, non è come fare un gara. C’è molta più insicurezza, senza contare che questa vicenda è durata quattro anni e mezzo, un tempo lunghissimo da sopportare».

Il decreto del gip è durissimo, persino spietato contro le istituzioni sportive coinvolte: se lo aspettava?

«Credo che il giudice da subito abbia fatto capire che non si sarebbe fatto intimorire da nessuno, sin dalla questione delle provette che il laboratorio di Colonia non voleva consegnare. Io sono riuscito a leggere solo i punti salienti dell’ordinanza ma sono felice che il giudice abbia messo davvero tutto quello che è accaduto in tre anni e mezzo di indagini».

Ha sempre avuto fiducia nella giustizia?

«Sì, in quella ordinaria sempre. Non era concepibile accettare questa porcheria e non ho mai temuto di perdere tutto. Ho pensato solo a farcela, a lottare con tutte le mie forze. Non poteva esserci spazio per altro».

La cosa che maggiormente l’ha ferita?

«Parlerei di rammarico, non di ferita. Il rammarico di aver dovuto constatare che in questa storia i ruoli si sono invertiti. Avrebbe dovuto essere la Iaaf a dire: okay per le urine, okay per ulteriori controlli, okay per la verità. Invece, hanno sempre cercato di bloccare tutto. Come ha sottolineato il giudice».

Pensa che qualcuno, tra quanti l’hanno attaccata in passato, le chiederà scusa?

«Sinceramente non m’interessa. Per me contava solo arrivare alla verità».

Esclusi paternità e matrimonio, è il giorno più bello dal 2016?

«A livello sportivo direi che sia il mio giorno più bello in assoluto. Senza ombra di dubbio. Questo decreto di archiviazione è più importante anche della medaglia d’oro vinta all’Olimpiade di Pechino, nel 2008. Questa è una vittoria di gran lunga più faticosa. Molto più faticosa».

Ha un grande motivo in più, ora, per sperare di partecipare ai Giochi di Tokyo?

«Guardi, io oggi ho raggiunto il novanta per cento del mio obiettivo. L’eventuale ritorno all’attività agonistica rappresenterebbe soltanto il restante dieci. La cosa fondamentale per me era che il tribunale stabilisse, nero su bianco, che sono pulito e innocente. Non devo mica per forza andare alle Olimpiadi. Se succederà, bene. Altrimenti pazienza. Io non mi sono fatto nessuna idea riguardo ai passi da compiere sul fronte sportivo. Vedremo in seguito, accadrà quel che accadrà. Il futuro sportivo non è nelle mie mani. Dunque, inutile arrovellarsi».

Schwazer innocente e incastrato: nel 2016 non era dopato. Giovanni Capuano su Panorama il 18/2/2021. Alex Schwazer nel 2016 non era un dopato. Non aveva assunto nulla di tutto quanto gli fu addebitato alla vigilia dei Giochi di Rio de Janeiro, togliendolo di mezzo quando era il grande favorito delle prove di marcia, una storia bellissima di caduta (nel 2012) e redenzione. Lui e il suo tecnico Sandro Donati, soli contro il mondo. Quel mondo che, ha messo nero su bianco il Gip di Bolzano, Walter Pelino, "ha operato in maniera totalmente autoreferenziale non tollerando controlli dall'esterno, fino al punto di produrre dichiarazioni false". Alex Schwazer era innocente ed è stato incastrato. Scrive anche questo il documento che ha chiuso con il proscioglimento per non aver commesso il fatto: "E' provato che la manipolazione delle provette, che lo scrivente ritiene provata con alto grado di probabilità razionale, avrebbe potuto avvenire in qualsiasi momento". Qualsiasi momento di una storia cominciata con il controllo a sorpresa nell'abitazione di Schwazer a Racines il giorno di Capodanno nel 2016 e dipanatasi per settimane, mesi, con il lungo giro delle provette fino al laboratorio di Colonia. Il suo mondo l'ha tradito. Chi? Wada e Iaaf secondo il giudice di Bolzano che per arrivare a scrivere la parola fine ha dovuto lottare per anni per riuscire ad avere reperti, prove o anche solo quanto stava alla base dell'annunciata positività dell'allora marciatore azzurro, scaricato da tutti quando era già a Rio de Janeiro e costretto a tornare in Italia come un reietto. Difeso da nessuno, nemmeno dallo sport italiano che si apprestava a vivere l'euforia delle Olimpiadi. Almeno non pubblicamente. Scaricato da tutti quelli del suo mondo, lui da solo con Sandro Donati (da sempre guru dell'antidoping e per questo personaggio scomodo a tanti) a proclamare la propria innocenza. A giurare di non esserci ricascato dopo la vicenda di anni prima, quella sì da colpevole con vergogna, pagata con una lunga squalifica e con il rientro alle gare. Le 87 pagine del giudice Pelino sono un atto d'accusa durissimo verso il sistema sport mondiale. L'agenzia antidoping (Wada), la federazione mondiale di atletica leggera (Iaaf) vengono descritte come entità impegnate per anni a cercare di negare la ricerca della verità. Il laboratorio di Colonia, custode delle provette "manipolate" secondo il Gip di Bolzano, fece di tutto per non consegnarle alle autorità italiane fino al febbraio 2018. Due anni più tardi. Non solo. "Sussistono forti evidenze del fatto che nel tentativo di impedire l'accertamento del predetto reato – si legge nelle motivazioni – siano stati commessi una serie di reati". Per i quali ora viene chiesto alla Procura di procedere: falso ideologico (fu detto che esistevano solo 6 millilitri dell'urina di Schwazer mentre in realtà ce n'erano il triplo), frode processuale (pressioni sul laboratorio di Colonia in teoria terzo e super partes). E una tabella ricreata ad arte "prodotta ad incidente probatorio concluso e contenente dati che o sono falsi o sono artatamente prospettati dai consulenti al predetto scopo di far ritenere rientranti nella normale variabilità quelli emergenti dalla perizia". Tutto questo, Alex Schwazer e Sandro Donati lo hanno urlato al momento per quasi cinque anni. Tanti ce ne sono voluti perché un giudice potesse analizzare prove e documenti al di fuori del mondo dello sport e trarne le sue conclusioni. Restituendo dignità umana e sportiva a un marciatore e al suo tecnico che a Rio de Janeiro nel 2016 sognavano di dimostrare che si può essere i migliori anche gareggiando da puliti dopo aver pagato le proprie colpe.

Alex Schwazer, il gip: nel 2016 niente doping. "Le urine sono state alterate". Le iene News il 18 febbraio 2021. Nel 2016 il marciatore italiano era stato condannato a 8 anni di squalifica per doping. Oggi il gip di Bolzano chiude l'incubo di Alex Schwazer, assolto per non aver commesso il fatto: “I campioni di urina sono stati alterati”. L'atleta ora sogna le Olimpiadi di Tokyo. Noi vi riproponiamo anche una nostra intervista del 2009 assieme all’ex fidanzata Carolina Kostner, in cui parlano entrambi anche di doping. Assolto per non aver commesso il fatto: “I campioni di urina sono stati alterati”. La decisione del gip di Bolzano chiude un incubo per il marciatore italiano Alex Schwazer. Cliccando qui lo rivedete qui in una nostra intervista del 2009 con l’ex fidanzata, la campionessa di pattinaggio sul ghiaccio Carolina Kostner, in cui parlano entrambi anche di doping. Risultato positivo al testosterone durante un controllo nel 2016, era stato squalificato per 8 anni per doping (altra storia l’episodio del 2012, ammesso dall’atleta, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino). Per il controllo del 2016 Schwazer si era detto vittima di un complotto organizzato per stroncare la sua carriera. Dalle indagini è emerso che quei campioni di urina sarebbero stati alterati proprio per arrivare alla sua squalifica.  Il marciatore ora chiederà la revoca della squalifica, ancora valida fino al 2024, e sogna le Olimpiadi di Tokyo. 

Dagospia il 19 febbraio 2021. Da Radio 24. Alex Schwazer alle olimpiadi di Tokyo? “Con il poco allenamento che ha fatto già in Italia non lo batterebbe nessuno, se si risolve la faccenda a livello politico e lui può rientrare con un paio di mesi di allenamento lo metterei nella condizione che sarebbe molto difficile batterlo anche a livello mondiale”. Lo ha detto Sandro Donati, allenatore di Alex Schwazer, a 24Mattino di Simone Spetia su Radio 24. Donati ha precisato che Schwazer ha poco tempo per allenarsi perché “deve lavorare per portare avanti la famiglia, ha dovuto restituire premi e spendere un sacco di soldi per avvocati e consulenti”. “Ci sono stati vicini in maniera chiara soltanto il presidente del CONI e il segretario generale, Malagò e Mornati, vicini dal punto di vista umano e pratico sempre e con discrezione, dovendo stare anche attenti perché sarebbero stati attaccati, per il resto non abbiamo sentito mai nessuno”. Lo ha detto Sandro Donati, allenatore di Alex Schwazer, a 24Mattino di Simone Spetia su Radio 24. Donati ha raccontato che dagli altri atleti la solidarietà è stata “poca, ci sono stati dei mestatori che hanno cercato di aizzare gli atleti contro Alex ma nella realtà non c’è stata una vera presa di posizione”. “Non è mai piaciuto che io lavorassi con un atleta che aveva avuto problemi col doping, la mia scelta ha destabilizzato un ambiente che aveva bisogno che uno di quei pochi positivi non fosse tolto dalle loro grinfie poiché loro basano la loro credibilità e la loro severità sui pochi numeri che riescono a prendere ogni tanto, l’antidoping è controllato politicamente e tenuto basso nei livelli di efficacia”. Lo ha detto Sandro Donati, allenatore di Alex Schwazer, a 24Mattino di Simone Spetia su Radio 24. Donati ha raccontato che “nel momento in cui si è creata la falsa positività qualcuno l'ha sostenuta ed è stata l'occasione di per colpire me. Io avevo avuto un ruolo molto importante in una precedente indagine in rappresentanza della WADA mi erano stati affidati materiali giudiziari sequestrati a indagati e in uno computer avevo trovato un gigantesco database che ricostruiva 12 anni di analisi ematiche fatta dalla federazione internazionale agli atleti di tutto il mondo con una montagna di valori anomali sui quali la federazione non era intervenuta una porcheria incredibile per cui per tanti anni invece che fare l’antidoping era stata fatta solo una accolta di dati”.

Schwazer, il campione innocente azzoppato dalla gogna. Simona Musco su Il Dubbio il 19 Febbraio 2021. L’atleta non era ricaduto nel vortice del doping. Non aveva mentito quando giurò solennemente di essere pulito. Lo dice un Tribunale. «Finalmente c’è scritto nero su bianco che io sono innocente, è da quattro anni e mezzo che aspetto questo giorno, arrivato solo perchè non ho mai smesso di lottare». Alex Schwazer è commosso. Perché ieri, finalmente, la verità che ha tanto urlato è stata certificata. L’atleta non era ricaduto nel vortice del doping. Non aveva mentito quando, dopo lo scandalo che gli costò le Olimpiadi di Rio, giurò solennemente di non aver fatto nulla, di essere pulito, di essere innocente. E lo è davvero, come stabilito dal gip del Tribunale di Bolzano, Walter Pelino, che ieri, a cinque anni dallo scandalo, ha disposto l’archiviazione del procedimento penale a suo carico «non aver commesso il fatto». Anzi, a suo danno si era azionata una macchina del fango che ora rischia di ritorcersi contro i manovratori. Una gogna insensata, inutile, che ha fatto cadere l’atleta dal cielo stellato degli sportivi agli inferi degli emarginati. Trattato da reietto, anche dopo la sua riabilitazione dopo lo scandalo della prima squalifica per doping. Era successo nel 2012, quando alla vigilia delle Olimpiadi di Londra venne trovato positivo all’eritropoietina dopo un controllo a sorpresa effettuato dalla Wada. Schwazer ammise in lacrime il suo errore e in un attimo si ritrovò congedato dall’arma dei Carabinieri e squalificato per 3 anni e 6 mesi. Nel 2016, dunque, si affidò a Sandro Donati, maestro dello sport e da sempre schierato contro il doping, preparandosi per l’Olimpiade di Rio. E ricominciò a vincere: la prima medaglia fu alla 50 km di marcia, con lo strepitoso tempo di 3 ore e 39 minuti esatti. Ma il il 22 giugno 2016 venne dichiarato nuovamente positivo, dopo un controllo a sorpresa della Iaaf effettuato il primo gennaio. Secondo quel controllo, nel suo corpo c’era una quantità troppo alta di anabolizzanti e steroidi. E Il 10 agosto, poco prima della 20 chilometri di Rio, il Tas lo condannò a rimanere otto anni fuori pista, di fatto sancendo la fine della sua carriera. Ma l’architrave, assolutamente instabile, del processo è caduta fragorosamente, una fine anticipata dalla richiesta della Procura di Bolzano, a dicembre scorso, di archiviare le accuse rivolte all’ex marciatore azzurro, campione olimpico della 50 km di marcia a Pechino 2008. «Alex Schwazer – si legge nell’ordinanza – non ha fatto uso di doping, anzi, le sue urine risultate positive sono state alterate». Il caso vede coinvolte l’agenzia mondiale antidoping ( Wada), la federazione mondiale di atletica leggera ( World Athletics, ex Iaaf) e il laboratorio antidoping di Colonia, dove le provette del controllo in questione sono rimaste dal 2 gennaio 2016 fino al febbraio 2018 quando, a fatica, sono state consegnate alle autorità italiane incaricate al prelievo. Per il giudice, quei campioni di urina sono stati, «con un alto grado di credibilità», alterati, «con lo scopo di risultare positivi» così da «ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore Sandro Donati». Per il giudice, sussistano dunque «forti evidenze del fatto che nel tentativo di impedire l’accertamento del predetto reato siano stati commessi una serie di reati», motivo per cui ha restituito gli atti al pm, per verificare le ipotesi di «falso ideologico», «frode processuale» e «diffamazione» ai danni dell’atleta. Una «serie impressionante di artifici e dichiarazioni false», secondo il giudice, che rivolge accuse pesanti nei confronti di Wada e World Athletics: «Nell’odierno sistema Wada e Iaaf (oggi World Athletics) operano in maniera totalmente autoreferenziale ed il presente procedimento ha eloquentemente dimostrato come esse non tollerino affatto controlli dall’esterno ed anzi siano pronte a tutto per impedirlo, al punto di produrre dichiarazioni false e porre in essere frodi processuali». Nessuna garanzia per gli atleti rispetto ai «peggiori intrallazzi», scrive il gip, secondo cui i suoi periti hanno mostrato «alterigia baronale» e «pressapochismo». Non c’è la «pistola fumante», ma comunque prove evidenti della manipolazione. In primo luogo perché i campioni di urine non erano anonimi, né sigillati e non furono consegnati subito dall’ispettore, rimanendo per diverse ore a Stoccarda. Colonia, inoltre, mentì sulla quantità ( 6 ml invece di 18) per sfuggire all’obbligo di consegnare un campione per la perizia, salvo poi tirare fuori una terza provetta spuntata dal nulla e non chiusa. Ma non solo: nelle mail tra il capo dell’antidoping Iaaf, Thomas Capdevielle, e il consulente legale della Iaaf, Ross Wenzel, ottenute a seguito di un’operazione di hackeraggio da parte da Fancy Bear, il primo parla espressamente di «complotto verso A. S. di cui il laboratorio di Colonia è parte». Ma non solo: nelle provette è stata riscontrata una eccessiva e anomala concentrazione di Dna, giustificabile, per il gip, solo con un tentativo di manipolazione, attraverso il riscaldamento delle provette per far evaporare l’acqua dalle urine e aumentare, così, la concentrazione di testosterone. Le ragioni del complotto, ha spiegato al Dubbio Gerhard Brandstädter, legale dell’atleta, stanno tutte nella paura di altre indagini sul mondo «corrotto» dell’antidoping, la certezza che Donati «aveva tutta una serie di informazioni e notizie e aveva collaborato anche a smascherare certe attività del doping, testimonianze che l’atleta ha reso, insomma: rendere poco credibile il team Schwarz, metterlo fuori gioco. E sappiamo cosa è successo a Sochi. Donati e Schwarz potevano dare un contributo importante, ma sono stati attaccati per renderli inattendibili. Un attacco di politica sportiva». Teoria che il gip avalla: il controllo a sorpresa fu deciso il 16 dicembre 2015, giorno in cui Schwazer testimoniò contro i medici della federatletica italiana, accusati di consigliare doping agli atleti. «È un grande sollievo morale per Alex, che si vede liberato da un sospetto così infamante, diabolico e direi quasi folle – ha aggiunto Brandstädter -. Abbiamo trovato un giudice molto coraggioso e meticoloso, che non si è fatto spaventare dai mille ostacoli che tentavano di frapporsi all’incidente probatorio e un perito qualificato, che ha lavorato con assoluta serietà. C’è tanta gente che dovrebbe vergognarsi per quello che ha fatto, ma una modalità per vergognarsi non c’è, quindi dovranno subire le conseguenze. Adesso esamineremo in sede di diritto sportivo, ma anche penale, visto che sono stati evidenziati comportamenti gravemente dolosi, tutte le strade che questo provvedimento ci apre». La carriera di Schwarz, però, intanto è stata rovinata. «Ma ha continuato ad allenarsi, sta bene e sicuramente potrebbe competere a livello mondiale – ha concluso il legale -. Adesso vediamo se i tempi ce lo permetteranno».

(ANSA il 19 febbraio 2021) L'agenzia mondiale antidoping Wada si dice "inorridita" dalla sentenza di ieri del tribunale di Bolzano sul caso del marciatore Alex Schwazer, respinge le accuse e minaccia azioni legali. In un tweet diffuso nella notte la Wada ha così preso posizione sulla vicenda. La Wada "ha preso atto con grave preoccupazione dei commenti fatti da un giudice del tribunale di Bolzano nella decisione sul caso penale nei confronti del marciatore Schwazer. Il dispositivo della sentenza è lungo e articolato, e necessiterà di essere valutato nella sua completezza, la Wada è inorridita dalle numerose accuse spericolate e prive di fondamento".

Schwazer, World Athletics: "Resta sospeso fino al 2024". La Wada: "Inorriditi da decisione del Tribunale di Bolzano". La Repubblica il 19 febbraio 2021. L'ex Iaaf dopo l'archiviazione del procedimento penale a carico del marciatore azzurro: "Rifiutiamo qualsiasi intento da parte dell'atleta o altre persone di minare o annullare la decisione finale e vincolante del Tas". L'agenzia mondiale antidoping: "Abbiamo fornito prove schiaccianti che il giudice ha respinto, prenderemo in considerazione anche azioni legali". Mentre la Wada si dice "inorridita" dall'archiviazione del procedimento penale per doping a carico del marciatore azzurro Alex Schwazer da parte del Gip del Tribunale di Bolzano, World Athletic, la federazione internazionale di atletica leggera, fa sapere che Schwazer "resta sotto squalifica" fino al 2024 chiudendo quindi le porte ad una partecipazione dell'azzurro alle Olimpiadi.

"Wada prenderà in considerazione anche azioni legali". La Wada afferma in un tweet diffuso stanotte di aver preso atto "con grave preoccupazione" della sentenza e delle motivazioni fornite dal giudice. "Nel corso del procedimento, la Wada era parte civile e ha fornito prove schiaccianti che sono state confermate da esperti indipendenti e che il giudice ha respinto a favore di teorie infondate - si legge nel comunicato - L'Agenzia sostiene tutte le prove fornite e respinge con la massima fermezza le critiche diffamatorie contenute nella decisione. Una volta che le motivazioni sono state analizzate, la Wada prenderà in considerazione tutte le opzioni disponibili, comprese azioni legali".

La sentenza del Gip Pelino. Il Gip Pelino, nell'ordinanza di archiviazione di 87 pagine, oltre a ritenere che i campioni di urina prelevati ad Alex Schwazer il 1 gennaio 2016 "siano stati alterati allo scopo di risultare positivi", ha parlato di "autoreferenziale sistema da parte di Wada e Iaaf (oggi World Athletics, federazione mondiale di atletica leggera) che non tollerano affatto controlli dall'esterno ed anzi siano pronte a tutto per impedirlo, al punto da produrre dichiarazioni false e porre in essere frodi processuali".

La World Athletics gli nega le Olimpiadi di Tokyo. Malgrado sia stato riabilitato, Schwazer, comunque, non potrà andare alle Olimpiadi di Tokyo. La World Athletics, la ex Iaaf, federazione mondiale della disciplina regina delle Olimpiadi, con un comunicato ha, infatti, ribadito che "non potrà partecipare a competizioni internazionali fino al 2024", anno in cui scadrà la sua squalifica per doping. "Rifiutiamo qualsiasi intento da parte dell'atleta o altre persone di minare o annullare la decisione finale e vincolante del Tas", sottolinea la nota. "World Athletics preferisce non commentare la decisione delle Autorità Italiane di non perseguire l'atleta per il crimine di 'dopaggio'. Questa è una questione di legge nazionale - è scritto nel comunicato dell'ente mondiale dell'atletica -. In tutti i casi, rifiutiamo in modo risoluto qualsiasi intento da parte dell'atleta o qualsiasi altra persona di minare o annullare la decisione finale e vincolante del Tribunale Arbitrale dello Sport (Tas), sulla base di quelle che possono essere descritte solo come teorie di manipolazione inverosimili". "La Wada si è unita a World Athletics nel rifiutare completamente qualsiasi suggerimento di manipolazione in questo caso - continua la nota -. World Athletics ha recentemente difeso con successo un'appello dell'Atleta al Tribunale Federale Svizzero che chiedeva una revisione della sentenza del Tas sulla base della presunta manipolazione". La conclusione di 'World Athletics' è che "il signor Schwazer non potrà partecipare a competizioni internazionali fino al 2024". 

La Wada si difende e parla di diffamazione. Doccia fredda per Schwazer dopo l’archiviazione, la World Athletics: “No alle Olimpiadi di Tokyo”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Nessuna scusa, nessuna marcia indietro e tantomeno nessuna possibilità di poter gareggiare alle Olimpiadi di Tokyo che si terranno quest’anno. Dopo l’archiviazione del procedimento penale per doping a carico di Alex Schwazer, ex marciatore italiano che nel 2016 risultò positivo per la seconda volta in carriera a un controllo antidoping, non si placano le polemiche sportive e giudiziarie. La decisione del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano infatti non modifica il ‘no’ della World Athletics, la ex Iaaf, federazione mondiale della disciplina regina delle Olimpiadi. Per Schwazer infatti non ci sarà la possibilità di gareggiare fino al 2024, anno in cui scadrà la sua squalifica per doping. In una nota ufficiale la federazione ricorda che “il signor Schwazer non potrà partecipare a competizioni internazionali fino al 2024”. La doccia gelata dalla World Athletics segue la durissima replica della Wada nei confronti del tribunale di Bolzano. L’agenzia mondiale antidoping infatti non vuole sentir parlare di “complotti” nei confronti del marciatore azzurro, definendosi su Twitter “inorridita per le molteplici accuse sconsiderate e infondate fatte dal giudice contro l’organizzazione ed altre parti coinvolte nel caso”. La Wada ha ricordato come nel corso del dibattimento “ha fornito prove schiaccianti avvalorate da esperti indipendenti, che il giudice ha rigettato in favore di teorie prive di fondamento”, sottolineando anche come resterà ferma nel “sostenere tutte le prove fornite e rigetta fortemente le critiche diffamatorie contenute nella sentenza. Quando tutto il provvedimento sarà stato analizzato, la Wada considererà tutte le opzioni disponibili, incluse le azioni legali”. Il gip del tribunale di Bolzano aveva scritto nell’ordinanza di 87 pagine di un sistema “autorefenziale” da parte di Wada e Iaaf, pronte ad impedire controlli dall’esterno al punto da produrre dichiarazioni false e porre in essere frodi processuali. Per il gip Walter Perino i campioni di urina nel 2016 furono alterati per far risultare l’atleta positivo, un dato “accertato con altro grado di credibilità”. Dopo il controllo del primo gennaio 2016, le provette vennero analizzate nel laboratorio antidoping di Colonia, in Germania dove rimasero dal 2 gennaio 2016 fino al febbraio 2018. Una decisione che costò a Schwazer la partecipazione alle Olimpiadi di Rio de Janeiro in Brasile.

Caso Schwazer, avvocati e magistrati dalla parte del gip: «Inammissibili gli attacchi al giudice: regole rispettate». su Il Dubbio il 27 Feb 2021. Magistrati e avvocati schierati col gip finito sotto attacco dell’Agenzia mondiale antidoping dopo l’archiviazione del procedimento penale a carico di Alex Schwazer accusato di doping. «Senza entrare nel merito della vicenda che ha portato il collega gip di Bolzano a disporre l’archiviazione del procedimento a carico di Alex Schwazer, le espressioni utilizzate da Wada nel proprio comunicato non possono che essere interpretate nel senso anzidetto, ossia come un’inammissibile identificazione della persona del magistrato con il provvedimento assunto». È quando scrive in una nota l’Associazione nazionale magistrati del Trentino Alto Adige in merito agli attacchi da parte dell’Agenzia mondiale antidoping nei confronti del Gip del Tribunale di Bolzano che la scorsa settimana ha archiviato il procedimento penale a carico di Alex Schwazer accusato di doping. La Wada poche ore dopo la pubblicazione dell’ordinanza di archiviazione si era detta «sconvolta dalle molteplici accuse sconsiderate e infondate fatte dal giudice». Il documento della giunta dell’Associazione nazionale magistrati del Trentino Alto Adige precisa, «pur essendo legittimo che in uno stato democratico i provvedimenti giudiziari siano oggetto di critiche, queste tuttavia non devono mai trasmodare in attacchi più o meno velati al magistrato che tali provvedimenti ha emesso». Solidarietà nei confronti del gip Walter Pelino anche da parte dell’Ordine altoatesino degli avvocati. «Il procedimento condotto dal dottor Pelino si è svolto inequivocabilmente nel pieno rispetto delle regole processuali e la disposta archiviazione è esattamente il frutto di una valutazione rigorosissima degli elementi di prova emersi nel corso di una istruttoria articolata, puntuale ed esaustiva», scrive il presidente dell’ordine forense Franco Biasi aggiungendo che «le sentenze non sono frutto di convincimenti personali dei magistrati».

Emiliano Bernardini per ilmessaggero.it il 20 febbraio 2021.  L’avversario da battere, per capire se Alex Schwazer potrà o no riaprire le porte delle Olimpiadi, adesso è il tempo. Sempre lui. Sulle strade di gara così come nelle aule dei tribunali. Il conto alla rovescia per cancellare la squalifica di otto anni infertagli nel 2016 è già iniziato. Un’altra lunga marcia e pochissimi mesi per tagliare il traguardo. Diciamolo francamente: servirà un’impresa. Non impossibile. Soprattutto se il mondo dello sport sarà suo alleato. Il primo a farlo è stato il presidente del Coni, Giovanni Malagò giovedì, subito dopo il pronunciamento del Gip di Bolzano, ha chiamato Alex e il suo allenatore Sandro Donati. Un modo per esprimere felicità ma anche far capire che per Schwazer un posto per Tokyo c’è. «Il Coni ha sempre seguito con discrezione e serietà questa vicenda e continuerà a farlo con attenzione e interesse, monitorando e valutando possibili sviluppi a tutti i livelli perché è un dovere per tutti i protagonisti di questa storia avere chiarezza e fugare ogni dubbio al fine di non lasciare ombre e sospetti di cui sicuramente lo sport non ha bisogno». Schwazer, Donati e il legale Brandstaetter sono decisi ad andare avanti con la stessa fiducia che li ha accompagnati in questi 4 anni e mezzo. E ora anche con la forza di aver visto finalmente riconosciuta la verità: Alex non si è mai dopato nel 2016. Da ieri l’avvocato bolzanino è al lavoro per capire quale strada intraprendere. Al momento ce ne sarebbero tre con una possibile quarta via. La prima porta al Tribunale arbitrale dello sport di Losanna. D’altronde è l’unico che può ribaltare una sentenza emessa dallo stesso Tas. Per fare ricorso il marciatore di Vipiteno dovrà portare nuovi elementi. La sentenza arrivata da Bolzano è un buon punto di partenza. «E’ una assoluzione con formula piena di cui non si potrà non tenere conto» sottolinea l’avvocato Brandstaetter. La seconda strada porta al Tribunale federale elvetico. In entrambe i casi il problema restano i tempi lunghi della giustizia. Una terza possibilità è quella che porta direttamente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. A novembre ci si è rivolta anche la Semenya ricorrendo contro la federazione di atletica mondiale che aveva introdotto delle norme ad hoc che subordinavano la sua partecipazione alle gare di mezzofondo all’assunzione di farmaci per abbassare il livello naturale di testosterone. Infine c’è l’idea di chiedere la grazia al Cio, magari con l’aiuto del Coni. In questo caso bisognerebbe portare una istanza gerarchica al Comitato internazionale come organo supremo del governo sportivo. Via complicata da battere visto che il Cio dovrebbe ribaltare non una sua sentenza ma una del Tas. Come detto sarà un’altra battaglia durissima. E lo si è capito dal commento fatto dalla Wada, l’agenzia mondiale antidoping che si è detta «inorridita dalle numerose accuse spericolate e prive di fondamento», rimarcando come «resta ferma nelle prove che ha fornito e rigetta nei termini più decisi le critiche diffamatorie contenute nella sentenza. Una volta che tutto il provvedimento sarà stato analizzato, Wada valuterà tutte le opzioni disponibili inclusa l’azione legale che sarà possibile intraprendere». Il legale di Schwazer ha risposto con fermezza: «È arrivata l’ora di collaborare di trovare delle soluzioni più che giuridiche, umane», e invita le federazioni competenti e la stessa Wada «a rivalutare il loro atteggiamento nei confronti di un atleta che è un talento straordinario per lo sport e che ha dimostrato in questi anni un carattere e una fiducia che ora sono stati ripagati». Il traguardo resta lontano, ma sempre meno di mesi fa. Anche se come ribascono tutti «Rio 2016 era la sua Olimpiade». Alex continua ad allenarsi. Sei volte a settimana. A breve intensificherà il programma. Road to Tokyo.

Schwazer va risarcito ma non è un eroe. Antonio Ruzzo il 19 febbraio 2021 su Il Giornale. Il caso Schwazer è enorme, è un’ingiustizia a cui  non si potrà riparare. Tanto per prenderla alla larga però vale la pena di ricordare quale sia la vera origine delle Olimpiadi, e degli atleti olimpici storie incerte ma legate al Mito. Due per la precisione: quello dei Giochi nati da un rito funebre in onore di Pelope  per ricordare la sue vittoria  su Enomao e quello che racconta di Eracle, atleta per antonomasia che, giunto in Elide per compiere una delle sue fatiche, avrebbe dato il via ai primi Giochi sulle  rive del fiume Alfeo in onore di suo padre Zeus Olimpio. Comunque sia i Giochi erano un rito religioso-militare in cui  l’atleta era considerato il contraltare in tempo di pace del soldato. Instancabile, forte e valoroso, che si batteva per la gloria propria, della famiglia e della città. Incarnava l’ideale eroico, uomo mortale ma eccezionale per i suoi tratti fisici e morali. Era la linea di congiunzione tra l’uomo e l’universo divino, un semidio in molti casi generato da un essere divino e uno mortale. Gli eroi contati da Omero ovviamente non ci sono più ( non ci sono mai stati?) ma forse rincorrendo l’utopia di un’olimpiade che oggi non si sa più neanche esattamente cosa sia tra politica, potere, business, sponsor e breakdance al posto della lotta, possono essere il punto di partenza per una riflessione. Alex Schwazer non è un eroe. E’ stato, e forse lo è ancora, un atleta fortissimo che ha vinto, ha barato per vincere ancora come facevano tutti gli altri, che è stato smascherato, si è pentito ed ha pagato. Poi, come hanno sentenziato i giudici di Bolzano, l’hanno “fregato” e questo forse è il punto più angosciante di tutta questa infinita vicenda perchè apre scenari inquietanti sul doping ma soprattutto sull’antidoping, sulla Wada, sulla Iaaf, sui poteri a cui si assoggettano logiche e azioni. Dovrebbe questa essere l’occasione per fare un po’ di chiarezza e molta pulizia, ma così non sarà. Potrebbe essere questa l’occasione di capire che controlla i controllori e se ci si può fidare perchè il rischio è che ormai non ci sia più certezza. Schwazer non è un eroe ma ora ha tutto il diritto ad un risarcimento morale ed economico. Che non è però il diritto ad andare a Tokyo. Quello dovrebbe, un un mondo olimpico perfetto, seguire altre logiche.  Tornando alle origini e agli eroi di Omero va detto che tra i tanti dubbi del Mito una certezza c’era. Solo gli atleti che avevano madre e padre greci, che si erano distinti per coraggio e rettitudine e che non avevano subito condanne legali potevano calcare la sacra sabbia di Olimpia. Era un onore assoluto oltrechè un premio concesso dalle divinità. Che non facevano sconti.

La gogna e la riabilitazione dopo 5 anni. Archiviato Alex Schwazer, l’oro olimpico non si dopava: urina alterata e carriera distrutta. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Alex Schwazer non si dopava. I campioni di urina nel 2016 furono alterati. Un incubo durato 5 anni, una carriera macchiata e terminata anzitempo (otto anni di squalifica) per l’ex marciatore, oggi 36enne, che alle Olimpiadi di Pechino, nel 2008, conquistò l’oro nella 50 chilometri. “Archiviazione per non aver commesso il fatto” questa la decisione del gip del Tribunale di Bolzano al termine del processo di primo grado.  Il giudice Walter Pelino ha accolto la richiesta del pm contestandone la tesi di “opacità” da parte della federazione mondiale di atletica leggera e della Wada (l’agenzia mondiale antidoping) nelle analisi che portarono alla positività e alla relativa squalifica di  Schwazer. Il gip ritiene “accertato con altro grado di credibilità” che i campioni di urina nel 2016 furono alterati per far risultare l’atleta positivo. Dopo il controllo del primo gennaio 2016, le provette vennero analizzate nel laboratorio antidoping di Colonia, in Germania dove rimasero dal 2 gennaio 2016 fino al febbraio 2018. Una decisione che costò a Schwazer la partecipazione alle Olimpiadi di Rio de Janeiro in Brasile.

Innocente ma la sua carriera è stroncata. Alex Schwazer dopo l’archiviazione: “Trattato come un mostro, una vittoria faticosa”. Rossella Grasso su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Alex Schwazer non si dopava. Lo ha stabilito il Tribunale di Bolzano al termine del processo di primo grado, ponendo fine a un incubo durato 5 anni. I campioni di urina nel 2016 furono alterati: “Aspettavo questo momento da quattro anni e mezzo. Finalmente tutti gli sforzi compiuti avevano determinato un risultato importante”, ha detto l’atleta al Corriere della Sera. Non solo un processo lunghissimo, ma anche una carriera macchiata indelebilmente e stroncata anzitempo con 8 anni di squalifica per l’ex marciatore, oggi 36enne che alle Olimpiadi di Pechino, nel 2008, conquistò l’oro nella 50 chilometri. Ora arriva l’ archiviazione per non aver commesso il fatto ma la ferita resta aperta. “La cosa difficile è che mi sono ritrovato scaraventato in un campo non mio – ha raccontato l’atleta dopo aver conosciuto l’esito della sentenza – io sono solo un atleta. In un’aula di tribunale non sei a tuo agio, non è come fare una gara. C’è molta più insicurezza, senza contare che questa vicenda è durata quattro anni e mezzo, un tempo lunghissimo da sopportare”. Ora Schwazer si gode una vittoria diversa, quella giudiziari, che finalmente lo tira fuori dalle accuse e dall’infamia che gli è stata gettata addosso per tanti anni. “Questo decreto di archiviazione è più importante anche della medaglia d’oro vinta all’Olimpiade di Pechino, nel 2008. Questa è una vittoria di gran lunga più faticosa. Molto più faticosa”, ha commentato. E guarda ai Giochi Olimpici di Tokyo con una certa amarezza: ha continuato ad allenarsi ma purtroppo la sua partecipazione o meno non dipende da lui. “La cosa fondamentale per me era che il tribunale stabilisse, nero su bianco, che sono pulito e innocente. Non devo mica per forza andare alle Olimpiadi. Se succederà, bene. Altrimenti pazienza. Vedremo in seguito, accadrà quel che accadrà. Il futuro sportivo non è nelle mie mani. Dunque, inutile arrovellarsi”.

Valerio Piccioni per gazzetta.it il 20 febbraio 2021.“Adesso basta, gli insulti a Gianmarco Tamberi sono assurdi. Smettiamola”. Sandro Donati rivolge un vero e proprio appello a farla finita con le brutte parole che via social i soliti martellatori da tastiera stanno indirizzando al campione azzurro del salto in alto. Tutto nasce per quella frase di Tamberi, “Schwazer vergogna d’Italia”, di cinque anni fa. Quelle parole vengono ora rinfacciate al saltatore marchigiano che peraltro ha anche espresso ieri parole di vicinanza al marciatore altoatesino commentando l’ordinanza del gip Walter Pelino. “Bisogna smetterla, Tamberi è un campione vero, pulito, prezioso per tutta l’atletica. Non ha senso parlare di una frase pronunciata quando il contesto era assolutamente diverso, e di certo non si era a conoscenza di tutte le cose che poi sono emerse nelle indagine per poi entrare nell’ordinanza del gip di Bolzano”.

Federica Pellegrini, quando disse di Alex Schwazer: "Radiatelo". Ora che è stato svelato il complotto, che fa? su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021. “Ci sono stati vicini in maniera chiara soltanto il presidente del Coni e il segretario generale, Malagò e Mornati, vicini dal punto di vista umano e pratico sempre e con discrezione, dovendo stare anche attenti perché sarebbero stati attaccati, per il resto non abbiamo sentito mai nessuno”. Sandro Donati, allenatore di Alex Schwazer, ospite a 24Mattino di Simone Spetia su Radio 24. ha parlato del caso clamoroso che ha riguardato il campione italiano e ha raccontato che dagli altri atleti la solidarietà è stata “poca, ci sono stati dei mestatori che hanno cercato di aizzare gli atleti contro Alex ma nella realtà non c’è stata una vera presa di posizione”. Tra quelli che attaccarono all'epoca dei fatti Schwazer c'era anche la campionessa italiana di nuoto Federica Pellegrini. Nel 2016 la nuotatrice disse senza troppi giri di parole: "Ci vuole la radiazione".  E ancora: "E' appena successo e, onestamente, non so se darla per vera. Vedremo nei prossimi giorni, ma comunque dispiace molto che ci sia ricascato, se si può dire così, di una cosa fatta non volutamente. Io avevo rispettato la sua riabilitazione dopo la lunga squalifica, ora se fosse confermata la sua positività cambierei idea". Il problema, disse la Pellegrini, "è tarare le pene: per casi gravi, come Epo o anabolizzanti, io sono per la radiazione a vita, già alla prima positività. E vi assicuro che molti altri atleti la pensano così". Ma Alex Schwazer non ha commesso il fatto, e il processo per doping è stato archiviato. Questaè stata la decisione del gip del Tribunale di Bolzano Walter Pelino al termine del processo di primo grado per Schwazer, oro nella marcia a Pechino 2008 e in seguito sanzionato per doping. Il gip, accogliendo la richiesta del pm, ha ritenuto "accertato con alto grado di credibilità" che i campioni di urina nel 2016 furono alterati. Insomma, Schwazer è una vittima. Ora qualcuno gli chiederà scusa?

Dagonews il 22 febbraio 2021. “Schwazer ha detto che questa vittoria in tribunale vale dieci volte di più del suo oro olimpico”. Sandro Donati, allenatore del marciatore azzurro, parla a “Campioni del mondo” su Rai-Radio 2, dell’archiviazione da parte del gip di Bolzano del procedimento penale per doping a carico dell’atleta altoatesino. “Siamo riusciti ad affermare la verità. Adesso spetta alle massime istituzioni sportive tutelare un bene comune oltre che la giustizia”. La domanda delle cento pistole resta sul tappeto. Perché colpire Schwazer? Donati tira in ballo Iaaf (ora World Athletics) e l’agenzia mondiale antidoping (WADA) e rimanda all’ordinanza di 87 pagine del giudice in cui si ricostruisce quanto accadde il 15 dicembre 2015 al processo di Bolzano. “Schwazer mosse accuse dirette contro i due medici della federazione internazionale. In quello stesso giorno, un’ora dopo, la Iaaf (la federazione mondiale di Atletica leggera) ordinò un controllo antidoping a sorpresa” per il 1° gennaio che avrebbe portato alla positività di Schwazer alla viglia dei giochi di Rio. “Il punto di partenza – prosegue Donati - è stato colpire Alex per screditarlo e non rendere efficace la sua testimonianza e le sue accuse. Poi è diventato qualcosa di peggiore. La manovra è stata coperta a tutti i livelli. E poi è stato fatto pagare il conto anche a me”. Il tecnico di Schwazer rifiuta l’etichetta di apostolo dell’antidoping? “La realtà è diversa. Mi sono trovato come allenatore della Nazionale ad essere oggetto di tentativi di dopaggio di atleti a me affidati, mi ribellai e da qui è iniziata la storia che purtroppo non è finita. Non mi hanno fatto fare l’allenatore, ero responsabile della velocità e del mezzofondo veloce. Dopo le prime denunce di doping mi hanno esautorato per sempre. È un dato di fatto, emerge dalle indagini giudiziarie. I media hanno faticato a darmi ascolto e quando io dovevo subire le ritorsioni delle istituzioni sono stato lasciato solo". Schwazer è stato scagionato dalle accuse di doping nel processo penale ma resta in ballo la squalifica sportiva fino al 2024. Donati chiede una mano alle massime istituzioni sportive. “Alex da tempo ha riacquistato serenità, equilibrio, ha retto bene anche con l’aiuto di una moglie eccezionale mostrando la tempra di un campione”. L’obiettivo è restituire a Schwazer quei Giochi olimpici che gli sono stati negati nel 2016. A Tokyo Alex può lottare per l’oro. Parola di Sandro Donati: “Nonostante i 36 anni, Alex tiene molto bene, l’ho mantenuto su un allenamento al 60%, lavora 6 ore al giorno per mantenere la famiglia. Con un paio di mesi di allenamento sarebbe fortemente competitivo”. Lui portabandiera? “L’aggressione che ha subito ha cancellato le sue colpe passate. È un martire per le sofferenze atroci che ha subito. Ma abbiamo atleti magnifici: Pellegrini, Tamberi, Paltrinieri…”

Schwazer, il complotto sul doping e la nostra petizione: firmate per farlo marciare alle Olimpiadi? Le Iene News il 16 marzo 2021. Torniamo a parlarvi con Antonino Monteleone del caso di Alex Schwazer, il marciatore medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino 2008, che la giustizia italiana ha prosciolto dalle accuse di doping del 2016. Vi raccontiamo perché sarebbe stato vittima di un complotto. E perché merita di poter gareggiare nelle prossime Olimpiadi di Tokyo anche se la squalifica internazionale contro di lui non è stata ancora tolta: firmate la nostra petizione per aiutarlo? Torniamo, dopo l’intervista di venerdì, a parlarvi con Antonino Monteleone di Alex Schwazer. Il marciatore italiano, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, è stato prosciolto, lo scorso febbraio, dalla giustizia ordinaria italiana dalle accuse di avere assunto sostanze dopanti nel 2016. Accusa, proveniente dalle autorità anti-doping mondiali, che gli costò la partecipazione alle Olimpiadi di Rio 2016. La sua storia ha fatto il giro nel mondo. Al momento non potrebbe partecipare comunque alle prossime Olimpiadi di Tokyo 2020 (rinviate a questa estate a causa della pandemia) perché la squalifica internazionale non è ancora stata cancellata. Noi vorremmo che potesse farlo perché siamo convinti che ne abbia diritto. È per questo che lanciamo la petizione su Change.org rivolta al presidente del Consiglio Mario Draghi che potete firmare cliccando qui sopra. La sua storia sembra la trama di un film di spionaggio. Trovato positivo al doping nel 2012, Schwazer aveva confessato e avrebbe fatto i nomi: per questo sarebbe stato punito. Si sarebbe dopato in un momento in cui lo facevano tanti atleti, soprattutto russi, ma lo scandalo del “doping di Stato” non era ancora esploso. Viene trovato positivo all’Epo prima delle Olimpiadi di Londra e squalificato per tre anni e 6 mesi. Ne parliamo con lui e parliamo con Sandro Donati, che ha dedicato la vita alla lotta per uno sport pulito. Fu proprio lui a determinare il controllo decisivo su Alex nel 2012. Ed è lui che vuole dargli una seconda chance diventando il suo allenatore nel 2015 con controlli molto scrupolosi e continui, 42 volte in un anno e tre mesi. Donati, simbolo di queste lotte, ci racconta anche le sue storiche battaglie contro il doping nell’atletica leggera iniziate fin dagli anni ’80. Nel 2016, prima delle Olimpiadi di Rio, Schwazer viene trovato di nuovo positivo e squalificato, in quanto recidivo, per otto anni. Per la giustizia ordinaria italiana però in questo caso le sue urine sarebbero state manipolate per farle risultare positive e le accuse di doping contro di lui sono state archiviate il 18 febbraio scorso dal gip di Bolzano Walter Pelino. Sarebbero state il frutto di un complotto per vendicarsi delle accuse rivolte a importanti dirigenti della federazione fatte in un'aula di Tribunale e due settimane dal controllo del primo gennaio 2016. Anche il suo allenatore Sandro Donati sarebbe stato un obiettivo di queste trame. Proprio Donati è il destinatario di una esplicita richiesta, da parte di un giudice di gara, di "far perdere" Alex Schwazer nel corso di una competizione internazionale. Non solo questo: la corruzione e i mille atleti russi coinvolti nel “doping di Stato” di Mosca, come potete vedere nel servizio qui sopra, hanno sconvolto le più alte organizzazioni internazionali dell’atletica e dei controlli antidoping. La squalifica internazionale per ora resta e al momento Schwazer, che vorrebbe tornare a marciare alle Olimpiadi di Tokyo, non può farlo. Abbiamo parlato di questo anche con il presidente del Coni, Giovanni Malagò. “La sentenza del giudice di Bolzano è molto chiara, non si può non tenerne conto, Schwazer è una persona innocente”, ci ha detto ribadendo la sua vicinanza all’atleta. “Giustizia ordinaria e giustizia sportiva però non obbligatoriamente collimano".

Alex Schwazer, ecco cosa sembra non tornare nella versione dell'agenzia anti doping. Le Iene News il 02 aprile 2021. Torniamo a parlarvi con Antonino Monteleone del caso di Alex Schwazer, il marciatore assolto dalla giustizia ordinaria italiana dalle accuse di doping del 2016 ma ancora squalificato per quell’episodio. L’agenzia antidoping mondiale insiste sulla validità della squalifica. Eppure le anomalie, le contradizioni e le bugie citate dai giudici di Bolzano sono tante. Ecco perché si parla di “campioni manipolati”, sentendo tre personaggi fondamentali, e perché vi invitiamo a firmare la nostra petizione. L’agenzia antidoping mondiale continua a insistere sulla squalifica di Alex Schwazer? Noi, stasera a Le Iene, vi raccontiamo con Antonino Monteleone perché sarebbe sbagliata, tornando per la quarta volta sul caso del marciatore italiano, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, appena assolto dalla giustizia ordinaria italiana dalle accuse di doping del 2016 per cui si dichiara vittima di un complotto. Schwazer, dopo una positività nel 2012 (ammessa), aveva scelto un allenatore paladino della lotta al doping, Sandro Donati. Confessando tutto, avrebbe fatto anche i nomi di alcune persone coinvolte nel giro. Per questo, sostiene l’atleta, sarebbe stato punito da un “complotto” con la positività nel 2016 per cui il Tribunale di Bolzano l’ha appena prosciolto, parlando di urine manipolate per farle risultare positive. Resta in vigore però la squalifica internazionale a 8 anni che gli impedirebbe di marciare alle Olimpiadi di Tokyo. Per aiutarlo a riuscirci noi de Le Iene abbiamo lanciato la petizione su Change.org che trovate qui sopra. Mentre anche il Parlamento italiano chiede ora al governo di sostenerlo. La World anti doping agency ha emesso con un comunicato ufficiale in cui sostiene di aver fornito su Schwazer “evidenze scientifiche oltre ogni ragionevole dubbio”. Anche oggi il direttore generale della Wada, Olivier Niggli dice, intervistato dal Corriere della Sera: “La tesi del complotto non ha prove, Alex non tornerà a marciare”. Niggli contesta la sentenza della giustizia ordinaria italiana, sostiene di aver collaborato con la nostra magistratura e che non si sono prove di un complotto: “Il Tribunale ci ha diffamati. È Sandro Donati la vittima di questa storia, non Alex: è stato tradito”. Eppure le anomalie, le contradizioni e le bugie citate dai giudici di Bolzano sono tante. Stasera a Le Iene, dalle 21.10 su Italia1, vi daremo ulteriori elementi, dopo i primi tre servizi sul caso. Nel primo abbiamo intervistato il marciatore italiano, nel secondo abbiamo ripercorso tutta la sua storia parlando anche con Sandro Donati, nel terzo vi abbiamo raccontato perché i giudici italiani parlano di campioni di urine manomesse. Oggi ascolteremo le dichiarazioni di Richard McLaren, giurista e professore universitario canadese, noto per l’inchiesta sul “doping di Stato” della delegazione russa durante le Olimpiadi invernali del 2014 a Sochi, in Russia. Il comandante dei Ris di Parma, colonnello Giampietro Lago, perito del Tribunale di Bolzano, spiega poi punto per punto come sarebbero stato manipolati i campioni di urine di Schwazer. La Iena va anche dal professor Vincenzo Pascali del Policlinico “Gemelli” di Roma, tecnico per la Wada per il caso al Tribunale di Bolzano.

Alex Schwazer, i dubbi sui controlli anti doping e perché deve andare alle Olimpiadi. Le Iene News il 02 aprile 2021. L’agenzia mondiale insiste sulla validità dei controlli anti doping del 2016 che non permettono ad Alex Schwazer di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo. Anche se la giustizia ordinaria italiana l’ha appena assolto per quell’episodio di 5 anni fa e parla di provette manomesse. Ecco con Antonino Monteleone nuovi elementi che spiegano perché l’atleta dice di essere vittima di un complotto e perché vi invitiamo a firmare la nostra petizione. Anche il Parlamento ha chiesto al governo di aiutare Alex Schwazer perché questo atleta secondo la giustizia italiana ha subito e sta subendo un gravissimo torto. Noi de Le Iene siamo in prima linea in questo dopo aver lanciato il 16 marzo una petizione per sostenerlo su Change.org, rivolta al presidente del Consiglio Mario Draghi. 

I fatti. Schwazer, dopo una prima positività (ammessa) nel 2012, era tornato ad allenarsi con Sandro Donati, da sempre paladino della lotta al doping. Avrebbe fatto anche i nomi di alcune persone coinvolte nel giro. Per questo, sostiene, sarebbe stato punito da un “complotto” con la positività nel 2016 per cui il Tribunale di Bolzano l’ha appena prosciolto, parlando di urine manipolate per farle risultare positive. Resta però la squalifica internazionale a 8 anni che gli impedirebbe di marciare alle Olimpiadi di Tokyo. La World anti doping agency ha emesso con un comunicato ufficiale in cui sostiene di aver fornito su Schwazer “evidenze scientifiche oltre ogni ragionevole dubbio”. Anche oggi il direttore generale della Wada, Olivier Niggli dice, intervistato dal Corriere della Sera: “La tesi del complotto non ha prove, Alex non tornerà a marciare”. Niggli contesta la sentenza della giustizia ordinaria italiana, sostiene di aver collaborato con la nostra magistratura e che non si sono prove di un complotto. “Il Tribunale ci ha diffamati. È Sandro Donati la vittima di questa storia, non Alex: è stato tradito”. Eppure le anomalie, le contradizioni e le bugie citate dai giudici di Bolzano sono tante. Stasera siamo al quarto servizio su questo caso. Nel primo abbiamo intervistato il marciatore italiano, nel secondo abbiamo ripercorso tutta la sua storia parlando anche con Sandro Donati, nel terzo vi abbiamo raccontato perché i giudici italiani parlano di campioni di urine manomesse. Oggi ripartiamo da quelle provette di Schwazer che sarebbero rimaste incustodite per 16 ore. Ascolteremo le dichiarazioni di Richard McLaren, giurista e professore universitario canadese, noto per l’inchiesta sul “doping di Stato” della delegazione russa durante le Olimpiadi invernali del 2014 a Sochi, in Russia. McLaren spiega come le provette anti doping potrebbero essere aperte e chiuse senza che nessuno se ne accorga. Il comandante dei Ris di Parma, colonnello Giampietro Lago, perito del Tribunale di Bolzano, spiega poi punto per punto come sarebbero stato manipolati i campioni di urine di Schwazer. E ci racconta il “muro di gomma” contro cui si sarebbe scontrato da parte di Wada e Iaaf (oggi World Athletics, la federazione mondiale dell’atletica leggera). La Iena cerca anche un confronto anche con il professor Vincenzo Pascali del Policlinico “Gemelli” di Roma, tecnico per la Wada per il caso al Tribunale di Bolzano.

Alex Schwarzer, il Tribunale di Losanna respinge il ricorso: doping e complotto, addio alle Olimpiadi di Tokyo? Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Per Alex Schwarzer si allontana sempre di più la possibilità di poter competere alle prossime Olimpiadi di Tokyo 2021. Il Tribunale dello Sport di Losanna, ha infatti respinto il ricorso del marciatore altoatesino sulla squalifica per doping, in un nuovo arbitrato che lo vedeva opposto alla federazione mondiale d'atletica e alla Wada, l'agenzia mondiale antidoping. Secondo quanto riportato dall'ANSA, Alex Schwarzer aveva avanzato richiesta al Tas di "misure provvisorie", in seguito ad una ordinanza del gip di Bolzano che lo aveva scagionato dalle accuse di doping. Sembra quindi esser sfumato l'ultimo appiglio cui l'atleta poteva aggrapparsi per partecipare alle Olimpiadi di Tokyo, rimandate al 2021 a causa della pandemia. I legali di Schwarzer hanno presentato ricorso al Tribunale Federale Svizzero, unico organo di giustizia ordinaria per cui sono appellabili le decisioni del Tas. In attesa di questa decisione, i legali avevano chiesto al Tribunale di Losanna una sospensione provvisoria degli 8 anni di squalifica inflitti a Schwarzer. La squalifica era stata comminata dal Tas nell'agosto 2016 durante le Olimpiadi di Rio. L'atleta azzurro continua a lottare per eliminare la squalifica, ma i tempi stretti in vista di Tokyo, non gli stanno facilitando la battaglia legale. Il legale di Alex Schwarzer, l'avvocato di Bolzano Gerhard Brandstaetter, ha commentato la vicenda: "Attendiamo ad ore la decisione del tribunale federale svizzero. Abbiamo anche ricevuto una lettera della Wada, che ha ribadito che non ammetterà Alex alle gare, ma l'unica cosa che può sbloccare davvero la situazione è il Tribunale federale svizzero" ha ribadito l'avvocato. Nel caso in cui anche la Corte federale svizzera dovesse esprimere un giudizio negativo, Schwarzer potrebbe rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Tuttavia, il tempo richiesto per portare avanti la causa, con molta probabilità non gli consentiranno di prendere parte ai prossimi giochi olimpici.

Da gazzetta.it il 14 maggio 2021. Il Tribunale federale svizzero ha chiuso il caso Schwazer. E’ arrivato un no alla richiesta di riapertura del processo sportivo e la sospensiva della squalifica di 8 anni comminata dal Tas nell’agosto 2016 durante l’Olimpiade di Rio.

LA SENTENZA—   Dopo l’ordinanza del gip di Bolzano che lo aveva scagionato dalle accuse di doping sottolineando presunte scorrettezze della federazione mondiale e della Wada, Schwazer si era rivolto alla giustizia elvetica, ma nel Decreto della I Corte di diritto civile si legge che “l’istanza di conferimento dell’effetto sospensivo e di adozione di altre misure cautelari nella domanda di revisione è respinta”. Non ci sarà sospensione della squalifica e Schwazer non potrà partecipare quindi ai Giochi di Tokyo.

CORTE EUROPEA—   La sentenza è arrivata dopo i pareri negativi espressi da World Athletics, Wada e Tas. Ora Schwazer potrebbe ancora rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma con tempi più lunghi che non consentirebbero di partecipare all’Olimpiade. Il Tribunale federale deve ancora decidere il merito della causa, ma i tempi non saranno stretti.

Schwazer, niente Tokyo: il Tribunale federale svizzero dice no alla sospensione della squalifica. La Repubblica il 14 Maggio 2021. Il marciatore azzurro non potrà partecipare ai Giochi: respinta la richiesta relativa allo stop di 8 anni per doping inflitto durante i Giochi di Rio nel 2016. "Né rabbia né frustrazioni non ho rimpianti". Si chiudono definitivamente le porte dei Giochi di Tokyo per Alex Schwazer: il Tribunale federale svizzero non ha concesso infatti la sospensione della squalifica di 8 anni inflitta al marciatore azzurro nel 2016 durante le Olimpiadi di Rio. I giudici hanno preso in considerazione anche i pareri (contrari) di Wada, Tas e World Athletics. "Non ci fermeremo, ci sono Tribunali penali, civili e la Corte europea dei diritti dell'uomo"". Così l'avvocato, Gerhard Brandstaetter. Schwazer si era rivolto alla giustizia della Confederazione dopo l'ordinanza del Gip di Bolzano che lo aveva prosciolto dalle accuse di doping. Il giudice presidente Christina Kiss nelle sue considerazioni ha spiegato che "una domanda di revisione al Tribunale federale non ha effetto sospensivo ma il giudice dell'istruzione può, d'ufficio, o ad istanza di parte, accordarlo nonché ordinare altre misure cautelari". Sul documento  si legge che "il 26 aprile 2021 scorso la Fidal (federazione italiana di atletica leggera) ha comunicato al Tribunale federale svizzero di non opporsi alla concessione dell'effetto sospensivo e all'emanazione di misure cautelari, mentre con osservazioni 27 aprile 2021 la Wada, la Iaaf (ora World Athletics) e il Tas propongono di respingere la domanda di misure d'urgenza". Il Tribunale stabilisce quindi che "l'istanza di conferimento dell'effetto sospensivo e di adozione di altre misure cautelari nella domanda di revisione è respinta". "Non c'è nessun tipo di rabbia o frustrazione da parte mia sulla decisione del Tribunale federale svizzero che non mi ha concesso la sospensione temporanea della mia squalifica". Così Schwazer dopo la mancata concessione della sospensione. "Avevamo solo questa possibilità visti tempi stretti e non ho nessun tipo di rimpianto - aggiunge Schwazer che anche in questo momento difficile è supportato dalla famiglia e dalla sua manager Giulia Mancini -. Dopo l'assoluzione a livello penale ho dato tutto quello che potevo dare in allenamento negli ultimi mesi pur sapendo che sarebbe stato difficile che venisse sospesa la mia squalifica. Ringrazio tutti colori che mi hanno sostenuto". "È stato un gioco infernale organizzato, il fatto stesso che il Tribunale federale svizzero non avevano rispettato la data del 6 maggio è stato un disprezzo estremo. Questa è una storia da incubo". Lo dice l'allenatore di Schwazer, Sandro Donati, paladino nella lotta al doping. "La comunicazione è arrivata per vie traverse, peggio di così non si poteva immaginare - aggiunge Donati -. Questo è un imbroglio con complicità altissime ma nessuno di noi contro la forza straripante può fare qualcosa: contro le forze la ragione non vale. Wada e Iaaf (oggi World Athletics, ndr) hanno fatto ogni passo all'unisono. Che razza di agenzia mondiale antidoping è se rinuncia alla terzietà schierandosi assieme a World Athletics?". "Alex spingeva per fare la sua ultima Olimpiade, non lo abbiamo lasciato solo anche se per mio conto questo procedimento non doveva essere fatto, come non doveva essere fatto nemmeno quello nel 2016 a Rio de Janeiro". Continua amareggiato, Sandro Donati. "Losanna è la cittadella dove si fa tutto. Anche l'avvocato era contrario - prosegue Donati -. Spero comunque che da questa vicenda media e responsabili sportivi siano rimasti impressionati e che sia un motivo di riflessione per tutti quanto accaduto a Schwazer. Si devono porre dei limiti allo strapotere di questa gente".

Non vi sembra ora di finirla? Alex Schwazer, il perfetto capro espiatorio per alimentare la sete di linciaggio. Angela Azzaro su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. Dopo che il gip di Bolzano ha archiviato il caso di doping che pesava dal 2016 su Alex Schwazer, ieri faceva una certa impressione leggere i giornali. Tutti ad esaltare l’atleta, a descrivere la sua rivincita, a gioire con lui. Nessuno che abbia fatto “mea culpa”, che abbia chiesto scusa a lui e ai lettori. Eppure mai come nel caso del campione altoatesino l’informazione ha dato il peggio di sé, lanciando la pietra della gogna, tirando i sassi più violenti. Solo alcuni si sono discostati, sollevando dei dubbi, ma come spesso accade prevale la convinzione che le accuse non si discutono, che se c’è qualcuno che finisce nel mirino della giustizia non può che esserci qualcosa di vero. Schwazer che aveva già avuto problemi di doping nel 2012 pagando un prezzo molto alto, si era risollevato. E il secondo tonfo nel 2016, per accuse ora rivelatesi ingiuste, era stato particolarmente violento. Ma anche la prima volta, pur se confermate le sue responsabilità, il clima era stato lo stesso odioso, ancora più odioso perché rivolto a una persona che aveva sbagliato. Non c’era stata nessuna pietà per chi aveva fatto un errore, nessuna indulgenza: Schwazer era l’appestato, il carnefice. Non si era tanto e solo dopato, era come se avesse ucciso, fatto una strage. Era un serial killer che andava catturato perché metteva a repentaglio la vita e la morale pubblica. La fidanzata di allora, la pattinatrice Carolina Costner, non solo ci finì in mezzo, ma per salvarsi dovette fare pubblica abiura. Lasciarlo al suo destino, perché la vox populi lo chiedeva. Di più lo pretendeva, altrimenti finiva nel fango pure lei. In un mondo dello sport iper competitivo, in cui gli atleti sono spinti nelle braccia del doping, la doppia morale è chiara: far di tutto perché lo sport sia sempre più business, ma se si becca qualcuno con le mani in pasta, lo si fa a pezzettini. Non si mette in discussione il modello, non si fa un passo indietro, non si criticano le cifre da capogiro che girano intorno per esempio a certi sport. Si accetta che la legge del mercato imperi, pronti però a scovare chi sbaglia, in maniera tale da offrirlo al pubblico come capro espiatorio. E quale miglior capro espiatorio del giovane campione, biondo, altro bravo, che si fa trascinare dall’uso di sostanze? La seconda volta in molti hanno pensato: vedi, impossibile cambiare, impossibile rifarsi una vita. Se sei un poco di buono, resti un poco di buono. E giù a linciare di nuovo il giovane, l’atleta, l’uomo, senza dargli il beneficio del dubbio. Ma non è solo questione di garantismo. O almeno del garantismo che si riferisce al rispetto delle regole. È il garantismo “umano”, quello che non ci fa mettere su un piedistallo per giudicare l’altro. Viene prima e dopo le accuse formali. Prima e dopo il processo. Dovrebbe venire prima e dopo le sentenze sputate sui giornali. È la possibilità di capire le ragioni dell’altro anche quando sbaglia, soprattutto quando sbaglia. La storia di Schwazer, i suoi alti e bassi, questa altalena costante di cadute e riprese, ci danno anche questa possibilità. Non solo dare valore alle sentenze e non alle accuse. Non solo mettere in discussione il ruolo della stampa. Ma anche e soprattutto ripensare la possibilità di “perdonare”, di considerare la colpa non come un marchio, ma come un errore da cui si può venire fuori. Ma se ne può venire fuori se prima non si è stati distrutti, zittiti, messi all’indice. Ce la faremo mai? Schwazer, una volta colpevole, un’altra innocente, ci dice di sì. Ce la dobbiamo fare.

Il caso dell'atleta altoatesino. Gli Schwazer dimenticati: ogni anno in Italia distrutta la vita a mille innocenti. Giulio Cavalli su Il Riformista il 20 Febbraio 2021. Tra le vittorie di Alex Schwazer, il marciatore italiano che stava sulla cima del mondo ed è rotolato nel fango per un reato che non ha mai commesso, ce n’è una che non gli garantirà nessuna medaglia ma che potrebbe essere una lezione universale. Essere prosciolti da un’accusa ingiusta costa: costa in termini economici, costa per i traguardi bruciati, pesa per tutto il vilipendio feroce che si scatena ogni volta già nel momento dell’accusa ma soprattutto ferisce per il tempo. Sanguinano quei cinque anni che Schwazer ha passato per ottenere giustizia e che non gli verranno restituiti, mai. Forse potrebbero anche essere risarciti: ma voi fareste cambio per soldi del vostro tempo che non avete vissuto, della fama rovinata? Sui giornali di ieri, nelle trasmissioni e sui social è un coro unanime di sdegno misto a vergogna in soccorso del marciatore altoatesino e rimbomba l’invocazione “giustizia” in modo bipartisan, ci sono dentro quelli considerati troppo garantisti e ci sono dentro anche quelli che solitamente agitano il cappio e invece questa volta si sciolgono di fronte allo sportivo che rende la vicenda fascinosamente epica, pronta per farci un editoriale cardiaco e per coniugare le fatiche della marcia, la linea del traguardo, la fatica di una rincorsa lunga: una narrazione troppo golosa per non buttarcisi a pesce. Solo che in Italia siamo pieni di Schwazer. Non indossano divise e non finiscono sui quotidiani sportivi, hanno compiuto imprese senza il riconoscimento del podio e le loro marce contro la giustizia hanno gli stessi relitti: famiglie distrutte, rapporti professionali perduti, carriere che sono deragliate e poi non sono più ripartite, piccole gogne locali che hanno la stessa bile di quelle grandi e nazionali, la sensazione inumana di subire un’ingiustizia e di non trovare il modo per dirlo, lo stesso meccanismo turpemente lunghissimo per riuscire ad ottenere una sentenza che riabilita sulla carta ma che non riesce a rimetterti in piedi, la consapevolezza che la giustizia che deraglia sia il più grosso crimine che si possa vivere in un Paese democratico. Per gli Schwazer senza scarpe da corsa la proclamazione della loro innocenza è un pacca sulla spalla che rimbomba per il vuoto che si è creato intorno, spesso non finisce nemmeno su quegli stessi giornali che li hanno crocifissi ed è una misera consolazione che non si riesce a condividere. Nemmeno da assolti spesso si riesce a urlare la propria innocenza. I dati delle vittime di ingiusta detenzione e di chi subisce un errore giudiziario sono mostruosi: dal 1991 al 31 dicembre 2019 sono 28.893 persone, 996 all’anno. E il costo di questa pandemia sotterranea che si fatica a proporre al dibattito pubblico non è solo sociale e umano ma è costato in 28 anni 823.691.326,45 euro: sono circa 28 milioni e 400mila euro all’anno. La stragrande maggioranza di loro tra l’altro ha dovuto sopportare molto di più di un processo in giusto e della gogna: dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione nei registri conservati presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 31 dicembre 2019 28.702 persone sono finite in custodia cautelare da innocenti, 1025 innocenti ingiustamente detenuti ogni anno, quasi tre al giorno. Allora forse varrebbe la pena trasformare in un’occasione tutta questa giusta indignazione per il caso Schwazer in una riflessione generale, nell’impegno dello Stato di garantire il margine minimo di errore ma soprattutto in un principio di cautela (sprezzantemente chiamato “garantismo”) che dovrebbe indurci a riflettere su quante volte i carnefici siano quelli che stigmatizzano qualsiasi dubbio in un giudizio. A Schwazer sono in molti a dover chiedere scusa, non solo i tribunali, per il marchio a fuoco che gli hanno impresso addosso e che ora in modo un po’ patetico cercano di spolverargli via. Siamo pieni di Schwazer in giro per strada, persone che incrociamo indifferenti convinti che non ci possa capitare. E quando capita si finisce dentro il buco. Questa sarebbe la medaglia da perseguire.

·        Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.

Giuseppe Signori. Beppe Signori, dalla Nazionale all'embolia cerebrale: "Colpa dei pm", la drammatica denuncia. Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Un giovane prende la palla e dribbla, con velocità ed astuzia, il difensore avversario nello stadio Pino Zaccheria di Foggia e con la palla al piede calcia, in modo preciso e violento, nella porta difesa da un grande portiere, quel Claudio Taffarel che pochi anni dopo diventerà campione del mondo con la nazionale brasiliana. «Il mio primo gol in serie A fatto alla quinta giornata di campionato è forse quello che maggiormente mi è rimasto nel cuore». Chi parla è Giuseppe Signori, per tutti Beppe, centottantotto gol nel campionato di serie A italiano e nono marcatore assoluto al pari di Alessandro Del Piero e Alberto Gilardino. Beppe Signori aveva ventun anni e stava segnando in quella squadra allenata da Zdenek Zeman chiamato il "Foggia dei miracoli ", alla cui presidenza c'era un grande imprenditore, purtroppo mancato quest' anno: Pasquale Casillo. Il "Foggia dei miracoli" nasce nel 1989 ed è stato caratterizzato dal modulo (4-3-3, spiccatamente offensivo) e dal gioco spumeggiante. Quella squadra, dopo aver vinto il campionato di serie B nell'anno 1990-91 con il miglior attacco del campionato, si ritrovava a giocare con una squadra impegnativa come il Parma. Il Foggia però, con quello che era considerato il "trio delle meraviglie" dei giovani Baiano, Rambaudi e Signori, non era da meno. 

Beppe, dapprima nel 1991 il tuo primo gol in serie A e poi, tre anni dopo, la chiamata in nazionale da parte di Arrigo Sacchi per i Mondiali in Usa. Hai qualche ricordo?

«Ho il ricordo che purtroppo fummo ad un passo dal vincere i Mondiali. Avevamo iniziato molto male e fummo ripescati dopo il girone di qualificazione ma piano piano la squadra salì fino ad arrivare alla finale con il Brasile».

E lì, ai rigori, perdeste...

«Iniziò Baresi sbagliando ma rimediò Pagliuca parando il rigore successivo ma poi, purtroppo, fallì Massaro, la cui conclusione non irresistibile venne respinta proprio da Taffarel a cui avevo segnato il mio primo gol in serie A. Sul dischetto andò Dunga per il Brasile che non sbagliò, spiazzando Pagliuca ed a questo punto i verdeoro, a un tiro dalla fine, si ritrovarono in vantaggio 3- 2: per vincere, sarebbe bastato che il loro ultimo rigorista facesse gol. Ma non fu necessario arrivare a ciò poiché Roberto Baggio, nonostante fosse uno degli specialisti dagli undici metri, tirò alto il quinto e ultimo penalty degli azzurri. Il Brasile vinse così il mondiale».

Quel mondiale che venne dedicato ad Ayrton Senna, il pilota brasiliano morto ad Imola il 1 maggio di quell'anno. Ci sono analogie tra la nazionale del 1994 e quella di oggi campione d'Europa?

«Secondo me non molte e come ho già detto noi abbiamo iniziato molto male mentre l'Italia campione d'Europa è partita molto bene con la consapevolezza delle proprie forze. Mancini ha avuto la capacità di ricreare e ricostruire un gruppo che dopo Totti e Del Piero si era sfilacciato facendosi male da solo e non solo...».

Cos' altro?

«Mancini ed il suo team fatto dal massaggiatore, dall'accompagnatore, da Lombardo e Salsano passando da Evani e Vialli hanno costruito entusiasmo tra la gente è questa è la cosa più importante. Il nostro Paese, dopo un anno e mezzo di pandemia, aveva bisogno anche di questo momento di leggerezza e condivisione».

Secondo te chi è stato il leader del gruppo?

«Ti rispondo dicendo che il gruppo è stato leader. Mancini ha costruito qualcosa di formidabile con una panchina lunghissima dove ogni giocatore, quando chiamato a rispondere, dava il meglio di se e diventava indispensabile».

Hai voglia di fare qualche esempio?

«Locatelli è entrato ed ha fatto una doppietta decisiva. Stessa cosa Chiesa, Berardi, Pessina. Lo stesso Immobile è stato decisivo anche tornando in difesa e giocando con umiltà. Senza parlare di Spinazzola che fino all'infortunio ho considerato il miglior giocatore degli europei».

Tra un anno ci saranno i mondiali a Dubai. Non credi che le aspettative elevate possano essere un elemento di criticità nel gruppo?

«I mondiali sono un'altra storia a parte. Io credo che nazionali come Germania, Spagna o Francia non siano mai in crisi ed a queste dobbiamo aggiungere le squadre sudamericane come Argentina, Brasile, Colombia: insomma tra un anno sarà tutto diverso ma con questo gruppo credo che potremmo dire sempre la nostra».

Dove hai visto, e con chi, le partite?

«Con qualche amico e sempre con la mia famiglia».

Hai detto, durante la partita Italia-Spagna, "il primo che sbaglia il rigore vince la partita". Ed hai avuto ragione. Come mai questa tua affermazione?

«Statisticamente, anche se sembra paradossale, è così. Questo accade perché cambia, per chi calcia i rigori seguenti, il livello di tensione e concentrazione e subentra la consapevolezza che non possono sbagliare. Così è stato anche per la finale Italia-Inghilterra».

Due date importanti nella tua vita: 1 giugno 2011, il giorno in cui sei stato arrestato, e dieci anni dopo il 1 giugno 2021 in cui sei stato riabilitato dalla Figc con il presidente Gravina. Come sono stati questi anni?

«Durissimi soprattutto all'inizio dove sono entrato mio malgrado in un tritacarne mediatico impressionante. Sono stato molto male perché sapevo della mia totale estraneità ai fatti. Tu pensa che di questa indagine che vedeva 135 imputati hanno fatto prescrivere tutto senza mai andare a processo».

Prescrizione a cui tu hai rinunciato...

«Io, pur conoscendo il rischio, ho voluto che si celebrasse nei tribunali il contraddittorio tra accusa e difesa. Ed abbiamo vinto e questa è stata una grande gioia».

Cosa hai detto ai tuoi familiari, ai tuoi figli riguardo questa vicenda giudiziaria?

«Che se prima mi stimavano come il calciatore Signori adesso dovevano credere in papà Beppe. Così è stato».

Hai avuto delusioni?

«Mi ha deluso chi sapevo già l'avrebbe fatto».

Ed invece chi ti è stato vicino?

«La mia famiglia a partire da mia moglie Tina, i miei figli ed i miei genitori. Tutti loro sono stati la mia vera forza per affrontare ogni criticità e superare gli stress».

Per questo stress hai anche rischiato la vita?

«Due anni fa mi hanno preso all'ultimo momento per una embolia cerebrale. Per fortuna ero già in ospedale a Bologna e si sono accorti immediatamente; ma credimi lo stress di dieci anni di ingiustizia ti fa davvero del male profondamente».

Anni difficili anche per la pandemia visto che tu sei di Alzano Lombardo, l'epicentro del coronavirus?

«I miei genitori abitano lì ancora adesso ed io ero estremamente preoccupato per gli sviluppi del Covid. Per fortuna ne siamo usciti tutti in modo positivo nonostante qualche perdita avuta tra alcuni amici».

Ma vi siete ammalati?

«Sì, tutti, ma per fortuna in modo leggero».

E adesso cosa farà Beppe Signori?

«Intanto faccio il padre di sei bellissimi figli e credimi non è cosa da poco, ma certamente il mio sogno sarebbe quello di riprendere ad allenare una squadra di calcio».

E questo sarebbe il giusto risarcimento per un campione che ingiustamente è dovuto rimanere fuori dalla vita sportiva non per proprie responsabilità.

Daniele Magliocchetti per "il Messaggero" l'1 giugno 2021. Gabriele Gravina concede la grazia a Giuseppe Signori. Sarà ufficiale oggi, con un provvedimento firmato dal presidente federale in persona. A dieci anni esatti dal suo arresto, per la vicenda legata al calcio scommesse, la Figc lo riabilita e da oggi, con effetto immediato, Beppe-Gol potrà tornare nel mondo che gli appartiene e più ama, quello del pallone. E dalla porta principale. Una battaglia durata dieci anni e che il numero uno della federazione, particolarmente coinvolto dalla vicenda, ha voluto fare sua, tanto che ha fatto in modo che l'ufficio legale della Figc fornisse nel più breve tempo possibile il parere preliminare per accelerare l'iter della grazia da poter firmare. Detto, fatto.

LACRIME DI GIOIA Per l'incontenibile gioia dell'ex attaccante di Foggia, Lazio, Bologna e Nazionale, che ieri, appena appresa la notizia dal suo avvocato Patrizia Brandi, si è messo a piangere, commosso come, forse, non è mai stato nella sua vita. Una liberazione. L' ultimo atto, quello più atteso e tanto desiderato. Emozionati tutti e due, l'ex giocatore e il suo legale, che non hanno mai smesso di credere e lottare per l'innocenza a livello penale e sportivo. L'arrivo della grazia è una notizia che farà impazzire due popoli, quello biancoceleste e rossoblù, ma anche la stragrande maggioranza degli italiani che amano il calcio e lo sport. Roma e Bologna, due piazze che, nel tempo, hanno sempre sostenuto Signori, fino a organizzare una raccolta firme per riabilitare Re Beppe direttamente inviata al presidente Gravina. Per lui nel 1995 cinquemila tifosi della Lazio sono scesi in piazza per non farlo andare via, visto che Cragnotti l'aveva ceduto al Parma. Ed erano pronte a rifarlo.

LA RINASCITA Dal primo giugno del 2011, al primo giugno del 2021, dieci anni dove è successo di tutto, a pensarci bene sembra quasi la sceneggiatura di un film. A partire proprio da quella drammatica mattina del 2011, quando l'attaccante venne arrestato e condotto in carcere perché coinvolto nello scandalo del calcio-scommesse. Si diceva fosse il «regista occulto» di una rete internazionale, colui da cui partivano le indicazioni per manipolare i risultati di gare di A e B. Fandonie. Bugie messe in giro da persone poco raccomandabili che l'avevano coinvolto a sua insaputa perché sapevano della sua passione per il gioco. Beppe giocava, sì, ma l'ha sempre fatto in modo onesto e regolare. Più lo urlava, più veniva etichettato come mostro. Ed è stato proprio questo a distruggerlo nell' anima, tanto che, durante gli anni dei processi, in cui non ha saltato nemmeno un'udienza, è stato male, ricoverato in ospedale, il cuore ha rischiato di non reggere. Distrutto, ma, nonostante gli cominciassero a mancare le forze e la speranza, non ha mai mollato. Non aveva pensato di ricorrere alla prescrizione, perché era innocente e voleva dimostrarlo, ma a Cremona, nel processo principale, è arrivata, mentre a Piacenza e a Modena, due procedimenti dove era accusato di aver manipolato tre partite, è stato assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste».

Dieci anni di accuse gravissime. Una vita rovinata. Ma adesso la riabilitazione e la possibilità di rimettersi in gioco e fare quello che più gli piace, lavorare sul campo, allenare. Già perché Beppe l'anno prima del disastro aveva ottenuto il patentino d' allenatore, superando brillantemente il Supercorso di Coverciano e, nonostante le lotte legali, non ha mai smesso di aggiornarsi. E chissà che ora, ottenuta la grazia, non ci sia già qualche società interessata alle idee calcistiche di un ragazzo che ha fatto 188 gol in serie A, di un campione che ha fatto sognare tanti. Ma soprattutto di un uomo vero, onesto che vuole solo tornare su un campo di calcio. Libero e felice.

Da gazzetta.it il 15 dicembre 2020. Il procedimento sul calcioscommesse è prescritto: lo hanno deciso i giudici del tribunale di Cremona chiudendo il processo nei confronti degli ultimi cinque imputati tra cui Beppe Signori, vicecampione del mondo con la nazionale italiana nel 1994 e l'unico a essersi presentato in aula questa mattina. "Mi piaceva scommettere ma l'ho sempre fatto in modo leale e non ho mai truccato alcuna partita. Mi hanno rovinato la vita solo perché il mio nome garantiva interesse mediatico": lo ha detto questa mattina, in tribunale a Cremona, Giuseppe Signori, ex bomber di Foggia, Lazio e Bologna oltre che della nazionale. Oltre a Signori, erano imputati l'ex calciatore serbo Almir Gegic, l'ex capitano del Bari Antonio Bellavista, l'ex portiere della Cremonese Marco Paoloni e il corriere Valerio.

Beppegol era innocente: 10 anni di calvario prima della riabilitazione dell’ex calciatore. «Il fatto non sussiste»: Signori non era colpevole di calcio scommesse. Ma il pm bollò come inutili le sue dichiarazioni. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 3 giugno 2021. Dalla scommessa del Buondì Motta da mangiare in trenta passi in diretta tv, a quelle decise a tavolino dai gestori occulti del totonero anni 2000, il passo – almeno nell’ipotesi degli inquirenti – era stato brevissimo. Un passo accompagnato dai titoli dei giornali che lo indicavano come mente occulta del nuovo calcio scommesse e che è finito per costare a Beppe Signori, lo spietato angelo biondo di Zemanlandia, dieci anni di calvario giudiziario interrotto solo lunedì, con il provvedimento di grazia arrivato dalla giustizia sportiva – che segue le due assoluzioni «perché il fatto non sussiste» della giustizia ordinaria di Piacenza e Modena – per opera del presidente federale Gravina. Una storia giudiziaria dai tratti surreali quella di Beppegol. Una storia che prende il via dalla passione smodata dell’ex calciatore per le scommesse – alcune di quelle architettate durante i ritiri con in compagni di squadra sono diventate patrimonio comune della storia recente del calcio italiano – e che finisce con le manette che scattano il primo giugno del 2011, quando una coppia di agenti lo preleva alla stazione centrale di Bologna per condurlo in Procura. «Mi hanno intercettato, seguito, pedinato – ha detto Signori intervistato a margine dell’udienza che lo ha scagionato –. Fino in Svizzera, fino al Mc Donald, fino allo zoo. Non sono mai riusciti a trovare niente. Anche nelle intercettazioni, il mio nome non saltava mai fuori». Quando l’ennesimo scandalo legato alle scommesse clandestine esplode nell’estate di 10 anni fa, Beppe Signori viene indicato dagli inquirenti come “mente” del gruppo: l’uomo in vista, l’ex calciatore che si portava dietro l’etichetta di “amante delle sfide”, quello in grado di organizzare il sottobosco clandestino di scommettitori e calciatori sul viale del tramonto. «Ho chiesto di essere interrogato dal pm tantissime volte – ha dichiarato Signori all’indomani della riabilitazione sportiva che gli consentirà di rientrare nel calcio dalla porta principale, l’unica adatta ad un vice campione del mondo – ma sono stato sentito solo dal gip, il pm andò via dopo pochi minuti bollando l’interrogatorio come “inutile”». Articoli su articoli, trasmissioni televisive, barzellette feroci: l’arresto di Beppe Signori – che trascorrerà una decina di giorni ai domiciliari prima di essere rimesso in libertà – suscita così tanto scalpore da diventare protagonista di uno dei primi meme virali a imperversare sul web. Poi, dopo la gogna mediatica «che mi ha procurato un sacco di problemi, anche fisici e che ha segnato profondamente la mia famiglia», i processi, le assoluzioni, e ora la riabilitazione anche in quel mondo del calcio che, salomonicamente, un po’ lo ha protetto, un po’ lo ha gettato al fiume. «Sono molto soddisfatto per essere stato assolto con la formula de “il fatto non sussiste” – ha detto Signori ai giornalisti presenti lunedì in Tribunale a Modena in occasione dell’udienza che ha chiuso finalmente il cerchio giudiziario –. Sono andato avanti fino alla fine perché sia io che il mio avvocato abbiamo creduto alla mia innocenza: volevo la verità e volevo uscire a testa alta da questa situazione. Finalmente siamo alla fine, sono passati dieci anni, dieci anni lunghi che non mi restituirà più nessuno, ma io sono un combattente nato e passerò sopra anche a questo. È un risultato importante, perché la prescrizione avrebbe potuto lasciare qualche ombra di dubbio, invece abbiamo lottato e abbiamo ottenuto il massimo, a questo punto guardo avanti con fiducia e ottimismo. Vorrei rientrare nel mondo del calcio». E se Signori, il folletto imprendibile capace di stregare le tifoserie di Foggia, Lazio, Sampdoria e Bologna, può finalmente guardare a un futuro sgombro di sospetti e illazioni per la sua nota passione per il gioco d’azzardo, altrettanto soddisfatta si è dichiarata l’avvocato dell’ex calciatore, Patrizia Brandi: «Non abbiamo dubitato un momento solo dell’innocenza di Beppe, tanto da decidere di rinunciare alla prescrizione. Questa assoluzione chiude la bocca a tutti quelli che a suo tempo lo hanno lapidato. Questo è un finale che non lascia repliche, nessun sorrisetto, nessun ammiccamento. La fine di una storia che dice che Signori non ha fatto niente ma è stato travolto da un tritacarne terrificante per 10 anni».

Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport” il 2 giugno 2021. Proprio come quando scattava sulla fascia ed era quasi impossibile frenarne la corsa. Pallone sul sinistro, la testa bionda e riconoscibilissima leggermente abbassata, la porta, il gol. «Sono passati dieci anni, precisi precisi». Adesso sorride, Beppe Signori, oscillando tra diversi gradi di esistenza. Riesce ad abolire ogni distanza tra realtà e delirio. Perché in un delirio ha vissuto e da un delirio è da poco uscito. «E poi uno non dovrebbe essere scaramantico. Oggi venivo arrestato. Oggi, proprio oggi. Il primo giugno 2011 mi accompagnavano in questura a Bologna, il primo giugno 2021 è finito tutto. La grazia dopo due assoluzioni piene. Né manette né gabbio, grazie a Dio. Ho fatto quattordici giorni ai domiciliari e basta. La galera me l’hanno risparmiata. Ma risparmiare il carcere al boss dei boss non è forse una colpevole incongruenza? Una vicenda nata male, la mia. Sotto tanti aspetti. Mai, ripeto mai sono stato interrogato dal pm che ordinò l’arresto. Ho subìto solo l’interrogatorio di garanzia da parte del gip, e dopo dieci, undici giorni, i tempi naturali, mi spiegarono. Il pm si sedette di fianco a me, il tutto durò quarantotto minuti, il più breve. E dopo tre minuti il pm si alzò e disse: “Vado via, vista l’inutilità di questo interrogatorio”. In seguito ho chiesto decine di volte di essere riascoltato, ma ho sempre ricevuto la stessa risposta. No no, no no. E questo mi ha fatto pensare». 

A cosa? 

«Che ero soprattutto - lo si ricava dall’ordinanza - il volto dell’inchiesta. Duemilaundici, non c’era niente. Non c’erano Mondiali, né Europei. Un nome abbastanza noto in Italia e nel mondo che non fosse tesserato, il mio. C’erano tutte le condizioni per trasformarmi da mente, finanziatore e scommettitore nella faccia da mostrare al pubblico. Carne da macello. Io ho acquisito le intercettazioni, in 70mila registrazioni il mio nome non esce mai... Non ci sono», e lo sottolinea scandendo le tre parole. 

Beppe, al di là dello sputtanamento, della dignità calpestata, del dolore provato… 

«Fermati! Fisici, psicologici, tanti i danni che mi ha procurato questa storia. Cicatrici enormi. Due anni fa mi è partito un trombo dal polpaccio che ha bucato il polmone. Mi sono ritrovato al Sant’Orsola sdraiato, intubato, perché stavo per schiattare. Ovviamente al trombo hanno concorso diversi fattori, però l’inchiesta ha contribuito a debilitarmi, insomma l’ho somatizzata. Le troppe sigarette hanno fatto il resto. Così come mi piaceva scommettere, mi piaceva fumare. Ho pagato, ho pagato tutto e troppo». 

Tu eri un ludopatico, questo non è un segreto. 

«Ludopatico, no. Che mi sia sempre piaciuto scommettere, lo sanno pure i muri. Già da ragazzino vivevo di sfide, ho sempre considerato il mio modo di scommettere un incentivo a migliorare». 

Non capisco. 

«Ricordo che alla Lazio feci una scommessa con Maurizio Neri. Era un periodo in un cui non riuscivo a segnare, mi trovavo in grande difficoltà. Scommisi che a fine stagione avrebbe giocato meno minuti lui rispetto ai gol che avrei segnato io. La vinsi, naturalmente. È un esempio stupido, se vuoi, ma la sfida del Buondì Motta e altre ancora come le vuoi catalogare? Per come sono fatto di carattere, non esiste che io vada da un calciatore per dirgli “ascolta, ti do i soldi se perdi la partita”». 

Hai bruciato tanto denaro nelle scommesse. 

«Leggende metropolitane. La verità è che mi piace il gioco, frequentare il Casinò, vinci, perdi, rivinci, riperdi. Il giocatore non vuol sapere prima come andrà a finire, l’adrenalina è l’accensione, il rischio il senso della puntata. Quando sono entrato in questo vortice la cosa più straniante è stata proprio questa. Se io sono un giocatore e conosco già il risultato finale non sono un giocatore». 

Qual è stato il momento più difficile? 

«L’arresto, sicuramente l’arresto. Mi sembrava di essere finito dentro un film. Fermato, accompagnato in questura… Mi chiamò mia sorella mentre ero sul Frecciarossa per Bologna e chiese in quale carcere mi avessero portato. Che cazzo stai dicendo? le dissi. E lei: Perché sei stato arrestato. Io arrestato? Ma se sono sul Frecciarossa. Arrivato a Bologna domandai ai due poliziotti in borghese che mi vennero a prendere cosa stesse accadendo. Risposero che era per una questione relativa a delle società. Pensai subito a mio padre, avevamo delle società insieme, che cazzo avrà combinato? Mi mostrarono la foto del tg con il lancio “arrestato Beppe Signori per il calcioscommesse”. Ero incredulo, loro che mi guardavano quasi sorpresi. Furono gentilissimi, uno dei due mi spiegò che la procura di Cremona aveva già venduto la notizia… La mia vita è stata completamente stravolta. Dalle situazioni più delicate, i bimbi che andavano a scuola a Roma. Sai, Roma e Lazio - “tuo padre se vende le partite” - ai rapporti con le persone. Nicolò aveva dieci anni. Per loro fu molto pesante. E pesante lo è stato per Tina, mia moglie». 

Non hai mai smesso di lottare, questo sì. 

«Ho avuto dei grossissimi momenti di sconforto, in particolare all’inizio. Non dico che ho pensato a gesti estremi… O meglio, ci ho pensato, ma non ho mai preso in considerazione l’idea di farla finita. C’erano i figli, mia moglie, gli amici più stretti che mi sono stati accanto, alcuni dei quali sono venuti a mancare, i miei familiari, mia sorella. Se entro in un negozio e rubo una mela, mi rivolgo all’avvocato e gli spiego che ho rubato una mela e che dobbiamo trovare un escamotage per uscirne puliti. Il problema sorge quando non entri nemmeno nel negozio e ti accusano di aver rubato la mela. Giustificare una cosa che non hai fatto è assurdo, ci sono momenti in cui non ci stai più con la testa». 

Così come togliere ogni dubbio a certa gente per la quale resti colpevole nonostante due sentenze. 

«Non mi curo di loro. Ho voluto fugare qualsiasi tipo di dubbio, non con la grazia, ma con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste. Dieci anni ci sono voluti, sono questi i tempi della giustizia in Italia. Non ho bisogno di convincere nessuno. Non più. Domando solo: è possibile che in questi dieci anni non abbiano trovato nulla? Sono stato l’unico che ha voluto andare fino in fondo. Io ero già sereno dopo le due assoluzioni, mi han dato grande forza. Ho affrontato vari processi, numerosi interrogatori, sono entrato in un ambiente che non era il mio. Il tribunale. Non so se l’hai mai provato, ma stare davanti a persone che non ti conoscono e sono lì per giudicarti è un’esperienza sconvolgente. Temi che un testimone racconti delle cagate che poi devi smontare. Ringraziando Dio, nei due processi, sia a Modena, sia a Piacenza, i testimoni dell’accusa hanno confermato che io non ero mai stato neppure nominato. Dico Carobbio e Gervasoni, che hanno ammesso di aver combinato delle partite. Il nome di Beppe? Mai sentito: non sono presente nelle intercettazioni perché non parlavo con queste persone e allora come facevo a organizzare e finanziare le puntate? Con i segnali di fumo? Io, il boss dei boss. Mi hanno intercettato, seguito, pedinato. Fino in Svizzera, da McDonald’s, allo zoo. Ho comprato le intercettazioni perché volevo entrare nella testa di chi mi accusava». 

A 53 anni e dopo un’esperienza del genere si può ancora ricominciare? 

«È già una vittoria rivedere il numero del tesserino da allenatore ottenuto nel 2010, pochi mesi prima dell’arresto. Volevo fare l’allenatore. Dietro una scrivania non mi ci vedevo. Oggi mi piacerebbe rimettermi in gioco, faccio la battuta: vorrei scommettere su me stesso».

Nel calcio le scommesse illegali sono all’ordine del giorno e di scandali con i calciatori tra i protagonisti ne abbiamo vissuti più di uno. 

«Ci sono stati processi, condannati, assolti, vittime e carnefici. Non ho mai vissuto in un paradiso e tra gli angeli, solo uomini. Con i loro difetti, debolezze che non giustifico». Fa una lunga pausa. «Ho inseguito la verità. Processuale, non esterna. Ho combattuto da solo e con i miei avvocati. Se non avessi ottenuto l’assoluzione piena avrei pagato di persona. Mi è stato chiesto perché non ho voluto rinunciare al processo di Cremona. Volevo il bianco, non il grigio della prescrizione. Sono contento così, Ivan. Guardo negli occhi i miei figli e Tina, i miei familiari, mia sorella, e li vedo finalmente felici. Tina è stata fondamentale, la perquisizione l’ha subita. Io ero a Roma e hanno perquisito la mia casa a Bologna, quando non c’ero, abbastanza strano. Ma come: il boss dei boss tu non l’arresti? Il Riina della situazione non lo interroghi? Perché non mi hai voluto ascoltare? Da Cremona a Bologna, di nuovo a Cremona, processi rimbalzati da un posto a un altro come palline di gomma. I giornalisti che mi telefonavano, volevano sapere, chiedevo loro soltanto pietà, cosa avrei potuto dire? Alcuni si sono comportati malissimo. C’è una frase che riassume quello che ho patito: il dolore rovescia la vita, ma può determinare il preludio di una rinascita».

Da bologna.repubblica.it il 23 febbraio 2021. “Dopo dieci anni è finita, anche se io e il mio avvocato non avevamo mai avuto dubbi sulla mia innocenza. In qualche modo vengo ripagato, giustizia parziale è stata fatta, perché comunque questi anni non me li restituirà più nessuno, è una rivincita e speriamo che sia la prima di una lunga serie. Io ho fatto tutto questo per essere riabilitato a livello sportivo. E’ una prima vittoria, spero che ne arrivino altre”. Sono le parole pronunciate oggi, 23 febbraio, alla Libertà di Piacenza da Beppe Signori fuori dal Tribunale. il processo a carico di Signori s'è concluso con un’assoluzione piena. L’ex giocatore di Foggia, Lazio e Bologna era imputato nel filone piacentino dell’inchiesta sul calcioscommesse. Era accusato di aver truccato il risultato della gara tra Piacenza e Padova del 2 ottobre 2010. Signori, difeso dall’avvocato Patrizia Brandi del foro di Bologna, aveva rinunciato alla prescrizione.

Beppe Signori, ecco la giustizia italiana: "Non truccò il risultato". Assolto con formula piena... dieci anni dopo. Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Dopo anni di indagini per Beppe Signori, l’incubo è finito: è innocente dall'accusa di aver truccato le partite. lo ha stabilito  la sentenza emessa dal Tribunale di Piacenza riguardo al filone dell’inchiesta sul calcioscommesse che vedeva tra gli imputati l’ex bomber di Lazio e Bologna. L'ex calciatore, che aveva rinunciato alla prescrizione, è stato assolto con formula piena perché il fatto non sussiste. “Dopo dieci anni è finita, anche se io e il mio avvocato non avevamo mai avuto dubbi sulla mia innocenza. In qualche modo vengo ripagato, giustizia parziale è stata fatta, perché comunque questi anni non me li restituirà più nessuno, è una rivincita e speriamo che sia la prima di una lunga serie. Io ho fatto tutto questo per essere riabilitato a livello sportivo. E’ una prima vittoria, spero che ne arrivino altre”, ha spiegato Signori ai giornalisti dopo la sentenza. Signori era accusato di aver alterato il risultato della gara del 2 ottobre 2010 tra Piacenza e Padova. L'ex bomber ha poi postato Instagram un’immagine di repertorio con la maglia della Nazionale: "Assolto con piena formula perché il fatto non sussiste, non per insufficienza di prove. Una vittoria nettissima senza se e senza ma”, il commento sulla sua pagina social.  A dicembre Signori era stato fortunato grazie alla chiusura del filone di Cremona per prescrizione e adesso la speranza è che dopo questa sentenza sia cancellata la radiazione da ogni categoria arrivata nel 2012. 

L'ex attaccante non ha truccato partite. Beppe Signori assolto dopo 10 anni di inferno nel processo calcioscommesse: “Giustizia è fatta”. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Ha passato dieci anni da inferno, travolto dai media alla ricerca di un colpevole e della solita gogna, ma Beppe Signori è innocente. L’ex calciatore, che ha fatto innamorare i tifosi di Foggia, Lazio e Bologna, è stato infatti assolto dall’accusa di aver truccato il risultato della gara tra Piacenza e Padova, giocata il 2 ottobre 2010 e terminata 2-2. L’ex vicecampione del mondo con la nazionale italiana nel 1994 aveva infatti rinunciato alla prescrizione, sicuro delle sue ragioni, e il tribunale di Piacenza ha confermato la sua innocenza. “Assolto con formula piena perché il fatto non sussiste, art. 530 co. 1 C. P. (Non per insufficienza di prove)!”, ha commentato il 53enne ex attaccante della Nazionale sulla sua pagina Instagram. “Dopo 10 anni è finita, anche se io e il mio avvocato non avevamo mai avuto dubbi sulla mia innocenza”, ha commentato Signori al sito del quotidiano piacentino Libertà. “In qualche modo vengo ripagato, giustizia parziale è stata fatta, perché comunque questi anni non me li restituirà più nessuno, è una rivincita e speriamo che sia la prima di una lunga serie”, ha aggiunto l’ex campione all’uscita del tribunale accompagnato dal suo avvocato Patrizia Brandi. Signori nel 2011 trascorse due settimane agli arresti domiciliari. Accusato di aver avuto contatti con un gruppo criminale dedito alla combine delle partite, Signori è stato anche radiato dalla giustizia sportiva. “Io ho fatto tutto questo per essere riabilitato a livello sportivo. E’ una prima vittoria, spero che ne arrivino altre”, ha concluso l’ex centravanti del Foggia di Zeman.

Da sport.tiscali.it il 24 febbraio 2021. Beppe Signori è stato assolto dall'accusa di aver truccato il risultato della gara tra Piacenza e Padova, giocata il 2 ottobre 2010 e terminata 2-2. L'ex bomber di Foggia, Lazio e Bologna era imputato nel filone piacentino dell'inchiesta sul calcio-scommesse, ritenuto responsabile di aver aggiustato il risultato di Piacenza-Padova (campionato di serie B 2010/2011) attraverso finanziamenti provenienti da un gruppo definito dei "singaporiani".

"E' una rivincita". "Mai avuto dubbi sull'esito di questo processo dopo dieci anni vengo in parte ripagato, anche se questi anni non me li restituirà nessuno, è una rivincita", il commento l'ex-attaccante, vicecampione del mondo con la nazionale italiana nel 1994 nei Mondiali Usa all'uscita dal Tribunale di Piacenza.

Radiato dalla giustizia sportiva. Signori trascorse due settimane agli arresti domiciliari nel 2011 e recentemente ha rinunciato alla prescrizione per andare in giudizio. L'ex bomber fu radiato da ogni categoria dalla giustizia sportiva, e ora che ha dimostrato la sua innocenza auspica di essere "riabilitato" anche in questo ambito.

Francesca Morandi per corriere.it il 24 febbraio 2021. Centoottantotto gol in Serie A. Ora vorrebbe segnare il 189esimo. «Ma in questo caso è un campionato del mondo, visto che sono vice campione del mondo». Ci scherza su Beppe Signori, l’ex bomber tornato a Cremona oggi 27 ottobre 2020 , a quasi dieci anni dal suo arresto (ai domiciliari) nella maxi indagine sul calcio scommesse, accusato di essere il promotore dell’associazione a delinquere collegata al gruppo di Singapore che apriva i cordoni delle borse per finanziare le «combine».

Spostamenti del processo. Un ping-pong giudiziario: da Cremona il processo era stato trasferito per competenza territoriale a Bologna e da Bologna (dove intanto era iniziato) era stato rimpallato di nuovo a Cremona. Il reato si prescriverà ad ottobre, ma come ha detto ai giudici l’avvocato Patrizia Brandi, «nelle carte di Bologna trasmesse a voi, è evidentissima la prova dell’innocenza di Signori» e, quindi, come prevede il codice di procedura penale, «il tribunale potrà pronunciare sentenza di assoluzione». Lo si saprà il 15 dicembre prossimo. Signori ci spera nel 189esimo gol: l’assoluzione. In caso contrario, accetterà la prescrizione, perché di stare in ballo altri anni per un processo lungo e costoso non se la sente più. «Ma non ho fatto nulla. Sono qua per difendere la mia credibilità, la mia innocenza. Chiedo solamente che sia fatta giustizia». Un caffè al bar con l’avvocato, poi, alle 9, si infila in Tribunale. Si sfoga e si commuove l’ex calciatore nato 52 anni fa ad Alzano Lombardo, uno dei focolai della Bergamasca che ha pagato un alto tributo di morti per il Covid-19. Il pensiero va alla sua gente: «Là è iniziato, hanno vissuto il dramma». E ai suoi genitori «blindati in casa, li sento tutti i giorni».

Cosa è successo. Oggi Signori ha un ristorante a Bologna «chiuso per il lokcdown». Da ex attaccante continua ad attaccare. Non più sui campi di calcio, ma nelle aule di giustizia. A Modena e a Piacenza ha rinunciato alla prescrizione dei reati satellite: le presunte combine di Modena-Sassuolo, Modena -Siena e Piacenza-Padova. A Cremona c’è l’associazione a delinquere. «Sono arrabbiato, ma tranquillo. Rileggendo le carte, ho visto che ci sono state cose allucinanti. E la cosa brutta è che in dieci anni sono stato ascoltato una sola volta nell’interrogatorio di garanzia dal gip, il dottor Salvini, proprio qui a Cremona. Ho fatto richieste su richieste di voler essere riascoltato dal pm: tutte vane. Vengo considerato il capo dei capi e che io non venga ascoltato mi sembra un paradosso. Ci sono 80-90mila intercettazioni, le ho contate, in cui io non ci sono mai, ma risulto il capo. Facevo i segnali di fumo? Sono l’unico che non ha cambiato il numero di cellulare, ce l’ho dal 1988, più trasparente di così si muore. il singaporiano con cui ero in contatto non c’entrava nulla con il gruppo di Tan Seet: mi aveva contattato, perché voleva comprare una squadra di calcio, o il Piacenza o il Modena in crisi economica. Mi aveva chiesto se volevo fare l’allenatore». Si commuove, il leggendario bomber dall’indimenticabile sinistro. «Dieci anni sono tanti, sono successe molte cose. Al di là del tritacarne mediatico, perché uno passa dalle stelle alle stalle in un battito di ciglio, è stato devastante tutto il resto, a livello mentale, fisico. E, poi, i figli che erano ancora piccoli quando è successo con tutto il trauma immaginabile, il lavoro». Un’idea di che cosa sia successo dieci anni fa, Signori se l’è fatta. «Credo che quell’estate del 2011, in cui non c’erano né Mondiali né niente di niente, c’era tutto un interesse mediatico sul niente. Non voglio passare per presuntuoso, ma il mio nome attirava i giornali. Se al posto di Beppe Signori ci fosse stato uno dei tanti giocatori minori … Ho “ringraziato” quando nell’indagine è entrato anche Antonio Conte che ha preso gli spazi sui giornali. “Almeno per un po’ mi lasceranno tranquillo” mi sono detto».

Giustizia sportiva. Poi Signori esprime tutta la sua rabbia nei confronti della giustizia sportiva. «Sono stato condannato all’ergastolo sportivo. Mi hanno radiato per avere il tesserino, ma non per essere tesserato. Anche il capitolo sportivo lo affronteremo nelle sedi opportune». «La giustizia sportiva è un qualche cosa che l’inquisizione medievale al confronto era garantista — afferma l’avvocato Patrizia Brandi che lo difende —. Riapriremo il processo quando avremo sei assi in mano, non quattro, andremo a rigiocare quella partita.

·        Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

«Io, Iaquinta, ho vinto il mondiale ma ora mi chiamano mafioso…» Simona Musco su Il Dubbio il 12 febbraio 2021. Iaquinta, uno degli eroi di Berlino del 2006, racconta di come il suo mondo, fatto di gol e corse sui campi verdi, sia stato stravolto da un’operazione della Dda, che ha fatto finire in carcere centinaia di persone, compreso suo padre. «Perché me lo tengono in carcere? Così me lo ammazzano. È un accanimento». Vincenzo Iaquinta, uno degli eroi di Berlino del 2006, non si dà pace. Ci racconta la storia di suo padre dallo studio di uno dei suoi avvocati, Pasquale Muto. E racconta di come il suo mondo, fatto di gol e corse sui campi verdi, sia stato stravolto da un’operazione della Dda, che ha fatto finire in carcere centinaia di persone, compreso suo padre. Una tela che ha imbrigliato anche lui, il campione del mondo, che nella comunità calabrese dell’Emilia Romagna «è come Gesù bambino», spiega Muto per rendere l’idea di quanto sia amato. Iaquinta è stato condannato nel processo “Aemilia” ad un anno (in primo grado a due), pena sospesa, per la mancata custodia di due pistole e 126 proiettili, ceduti, secondo il pm, al padre al quale, fin dal 2012, un provvedimento del prefetto di Reggio Emilia ne aveva proibito la detenzione. Ed è per lui, accusato di essere una figura strategica delle cosche emiliane legate al clan di Cutro, che Vincenzo decide di parlare. Per i giudici del primo grado, che lo avevano condannato a 19 anni (ridotti a 13 anni in appello), «grazie alla sua brillante carriera di imprenditore edile, alla sua incensuratezza, alla disponibilità di denaro e alla positiva immagine pubblica del figlio Vincenzo, noto giocatore della serie A di calcio e campione del mondo, rappresenta una delle figure maggiormente importanti, strategiche, all’interno del sodalizio criminoso». Insomma, un nome buono – e famoso – da spendere per ottenere potere. Ma il figlio, che a quelle accuse non ha mai creduto, non ci sta. «Il mio nome serviva per dare lustro a questo processo – racconta al Dubbio -. Ma noi con la ‘ ndrangheta non c’entriamo nulla. A noi la ‘ ndrangheta fa schifo».

Come si passa da Berlino ad un’aula di tribunale?

«È stato un percorso durissimo, iniziato, in realtà, prima dell’arresto, ovvero nel 2012, quando mio padre è stato escluso dalla white list e si è visto negare il porto d’armi che deteneva da 30 anni. Tutto per le frequentazioni con gente che aveva avuto problemi con la giustizia e per una cena, diventata famosissima a Reggio Emilia, alla quale mio padre partecipò. Per dimostrare la sua innocenza, su consiglio dell’avvocato Carlo Taormina, che allora ci seguiva, si è autodenunciato alla Dda di Bologna. Quell’anno c’era stato il terremoto, mio padre, che è imprenditore edile e ha sempre lavorato da solo con la sua società, dopo questo episodio non ha più potuto lavorare».

In che senso si è autodenunciato?

«Ha chiesto una verifica sulla sua attività, affinché accertassero che era tutto apposto. Questo è successo prima dell’arresto, quindi non poteva minimamente sospettare che ci fosse questa indagine a suo carico. Ha chiesto agli organi inquirenti che controllassero tutta la sua vita. Ma ha mai visto un mafioso autodenunciarsi?»

Cos’è successo nel 2015?

«Il 28 gennaio, giorno in cui lo arrestarono con l’accusa di 416 bis, è stato un fulmine a ciel sereno sulla mia famiglia. Dal 2012, quando si è autodenunciato, fino al 2015, nessuno è venuto a controllare, a fare un sopralluogo dal commercialista, nella società, nelle banche. Tutto è successo dopo il suo arresto e non è mai stato trovato niente di illecito. Mio padre non aveva 80 società, ne aveva una sola. Vive al Nord da 50 anni ed è venuto su con una valigia di cartone. Se vedesse dove viveva da bambino rimarrebbe scioccata».

Qual è la storia di suo padre?

«Come tanti altri calabresi, è andato via per cercare lavoro. All’età di 16 anni era partito con il fratello più grande per Milano e lì dormiva in una fabbrica. Poi si è trasferito a Reggiolo, dove ha iniziato a lavorare sotto padrone. Piano piano, si è reso conto di avere le capacità per farlo e ha costruito la sua impresa da solo. Così come la casa in cui viveva con mia madre: dopo una settimana di lavoro, passavano il sabato e la domenica a tirarla su. Poi ho avuto la fortuna di giocare a calcio e diventare famoso e conosciuto, campione del mondo. Ma secondo lei avevamo bisogno dei soldi della ‘ ndrangheta, con quello che ho guadagnato nel calcio? Avevo bisogno di mescolarmi con gente così? Nessuno mai nella mia famiglia ha avuto problemi con la giustizia».

La sua famiglia era comunque molto ricercata.

«Ci avvicinavano per chiederci una foto, una maglietta, un autografo. Quando sono diventato famoso io, per così dire, è diventato famoso anche il papà di Iaquinta. È sempre stato martellato. A Cutro ci conosciamo tutti, ma io in Calabria ci vado in vacanza. Mio padre ci andava una volta l’anno, perché ha la casa al mare, o ai funerali, ai matrimoni: è tradizione, è un contesto socioculturale diverso da quello emiliano. Perché devo dire di no a chi mi chiede una maglietta o una foto? Mio padre, anche durante il processo, ha sempre detto queste testuali parole: se conoscere qualcuno è reato, io sono colpevole».

Cosa gli viene contestato?

«Di essere partecipe all’associazione di ‘ ndrangheta dei Grande Aracri».

Ci sono reati fine?

«No, niente».

E come partecipe avrebbe preso delle decisioni?

«Nessuna. Io posso dire che mio padre è innocente. Non avrei fatto nemmeno questa intervista se avessi sospettato che anche una minima cosa potesse essere vera. Siamo entrati in un vortice più grosso di noi e a dire la verità non ce la faccio più. Ho fiducia nella giustizia, anche se tra primo e secondo grado è stato tutto davvero allucinante. Sono senza parole».

Lei ha vissuto il processo assieme a suo padre da imputato. Com’è stato?

«Il mio coinvolgimento ha una motivazione vergognosa: io devo pagare per quello che ho fatto, non per altre cose. Se devo pagare perché mio padre ha spostato le armi ok, lo faccio, ma non mi si può accusare di avere agevolato la ‘ ndrangheta. Da questa accusa sono stato assolto, ma prima mi è stato contestato l’articolo 7: avrei agevolato i clan con armi legalmente detenute. Sono stato io a dire, durante la seconda perquisizione, dove fossero. Mi dissero: non si preoccupi, sarà una cosa amministrativa. Dopo quindici giorni fui convocato in caserma e quando ho letto cosa mi contestavano stavo per svenire. Sono cose gravi per la mia famiglia, per i miei figli».

Parliamo della cena del 21 marzo 2012 con Giuseppe Pagliani, consigliere forzista di Reggio Emilia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa, quella cena fu convocata dai clan per organizzare la controffensiva alle interdittive antimafia.

( Risponde l’avvocato Muto) «È tutto documentato: Giuseppe Iaquinta rimase lì non più di 40 minuti. Ma al di là di questo, l’avvocato Giuseppe Pagliani per questo fatto è stato assolto. Era una cena pubblica, con giornalisti, poliziotti, avvocati, insomma quanto di più lontano da ragionamenti criminali. A Iaquinta viene contestato di essere in contatto con affiliati, ma i contatti con Gianluigi Sarcone ( che recentemente si è dichiarato colpevole dell’accusa di aver fatto parte dell’associazione mafiosa, ndr) in questi anni sono pochi. Il contatto più frequente è con Alfonso Paolini: lui e Iaquinta sono amici di infanzia e qui a Reggio Emilia hanno giocato per tanti anni insieme nella squadra di calcio degli emigrati calabresi, della quale Paolini era l’allenatore. E fino al 2015, per quanto ne sapesse Iaquinta, era una persona normale. Insomma, Iaquinta non era nemmeno consapevole di far parte dell’associazione. Frequentava queste persone perché venivano dal suo stesso paese. È vittima di un contesto socioculturale che nessuno può cambiare, tanto meno la magistratura».

Durante le sue frequentazioni non aveva notato nulla di strano?

«È stato intercettato per mesi, ma non è emerso nulla».

Viene contestato anche il cosiddetto “affare Blindo”, ovvero di aver ripulito dei soldi rubati all’estero.

«Secondo l’accusa mio padre avrebbe messo a disposizione 800mila dollari puliti prendendo in cambio un milione e 400mila euro sporchi, da dividere in due. Ma non è stato trovato alcun movimento in banca: non c’è stato. La verità è che chi ha davvero fatto questa operazione ha sfruttato il cognome di mio padre per accreditarsi».

Chi?

( Risponde l’avvocato Muto) «Romolo Villirillo, che conosce Iaquinta, per fregare la controparte disse: guarda che noi i soldi ce li abbiamo, perché abbiamo dalla nostra parte Iaquinta. È ovvio che Iaquinta è una parte economica accreditata, con un figlio che prende 3 milioni e mezzo di euro l’anno dalla Juventus! Ma non c’è nulla che provi il suo coinvolgimento. Niente».

C’è un altro fatto, che per l’accusa prova l’atteggiamento mafioso: in occasione del furto di due ombrelloni alla casa al mare in Calabria, Iaquinta avrebbe contattato un mafioso locale per lamentarsene e gli ombrelloni sono riapparsi in poche ore Come andarono i fatti?

( Risponde l’avvocato Muto) «Gli ombrelloni sono stati pagati. Iaquinta sentiva quotidianamente questo Paolini, perché erano amici fraterni. In una conversazione Paolini chiede: come andiamo questa mattina? E Iaquinta dice: niente, stamattina mi hanno rubato gli ombrelloni. Punto. Paolini chiama Villirillo ( che non ha nemmeno il numero di telefono di Iaquinta) per far sì che vengano restituiti gli ombrelloni. E Villirillo fa credere che questi ombrelloni vengono restituiti tramite il suo intervento, ovvero se ne vanta. Ma gli ombrelloni sono stati pagati, acquistati dalla famiglia Iaquinta dall’amministratore del villaggio dove si trova la casa al mare. Che a sua volta si vanta con Villirillo di averli fatti arrivare da Pisa, mentre invece, probabilmente, li aveva già in magazzino».

Quindi in tutto ciò per voi c’è un leitmotiv: chi parla di Iaquinta lo fa perché vuole sfruttare questo cognome altisonante.

«Assolutamente sì. E anche al processo lo hanno usato per fare pubblicità, perché ogni volta che si parlava di mio padre ci sbattevano in prima pagina. I giornalisti fanno il loro mestiere, ma a volte per un titolo shock non si preoccupano delle conseguenze».

Le era capitato, prima di quest’evento, di vivere il pregiudizio nei confronti dei calabresi?

«Mai. Adesso ci additano come mafiosi. La gente che ci conosce non ci crede assolutamente. Ma chi legge un giornale e non sa niente di noi si fa prendere dai dubbi».

Cosa ha significato tutto questo per lei?

«Hanno ferito la mia dignità, quella della mia famiglia, che è sempre stata umile. Anche dopo aver vinto un mondiale. Mia madre è morta nel 2019, era malata da cinque anni. Gli ultimi due anni si è dovuta curare senza il marito, che era in carcere. È stato una roba massacrante. Forse sarebbe morta lo stesso, perché aveva un male incurabile. Ma si è lasciata andare. Sto vivendo male, ma bisogna andare avanti, devo avere giustizia. Adesso attendiamo queste motivazioni».

C’è stato uno sconto di sei anni, rispetto al primo grado. Cos’è cambiato?

( Risponde l’avvocato Muto) «In primo grado, a febbraio 2018, era stata fatta una contestazione suppletiva all’associazione. Dal carcere, alcuni esponenti del clan continuavano a dare ordini, secondo l’accusa. I pentiti tirarono in mezzo anche Iaquinta, a cui venne così contestata la partecipazione all’associazione fino a febbraio 2018. In appello, però, è stato dichiarato parte dell’associazione fino a gennaio 2015. Quindi le accuse suppletive, che sono quelle per le quali è stato tradotto in carcere dopo il primo grado, sono cadute in appello. Subito dopo la sentenza, partendo da questo fatto, avevamo presentato istanza di scarcerazione, ma è stata comunque rigettata. Ma faremo ulteriormente ricorso».

( Risponde Iaquinta) «La Cassazione ci ha dato ragione sul cautelare, per mancanza di gravi indizi di colpevolezza. Stiamo parlando del nulla, perché a mio padre non hanno beccato né un giro strano di soldi né un appalto strano né una chiamata strana. Si basa tutto su supposizioni. Non c’è alcuna prova di un qualsiasi reato. Ma essere ‘ndranghetista porta qualcosa in cambio o è un gioco? È impossibile che mio padre sia in carcere da tre anni, lo stanno facendo morire. Una roba incredibile. E io non posso fermarmi».

Quando lo ha visto l’ultima volta?

«Dal vivo a febbraio dell’anno scorso. Ora solo in videochiamata. Mi ha detto che dopo il carcere c’è la morte. E per un innocente è ancora peggio, perché se uno ha fatto qualcosa è giusto pagare, ma da innocenti è terribile stare tra quelle quattro mura. Gli contesti due cene e lo metti tre anni dentro con i delinquenti veri? Perché lì ci sono delinquenti veri. Lui è forte, però ha paura. Si sta consumando».

Cos’è per lei la ‘ ndrangheta?

«Mi fa schifo. Non sapevamo cosa fosse, prima d’ora».

Cosa farà per dimostrare la sua innocenza?

«Siamo in mano alla giustizia. Per il resto, posso solo raccontare la verità, come sto facendo ora. Non so cos’altro fare. Ho ancora fiducia, ma allo stesso tempo paura. Non pensavo che la giustizia italiana fosse così. Sulle nostre vite hanno costruito un castello».

·        Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.

«Io, stritolato dalla gogna e tradito dal mio stesso partito». Parola a Mario Oliverio. Simona Musco su Il Dubbio il 21 gennaio 2021. Intervista all’ex governatore della Calabria finito nel tritacarne per un’inchiesta chiusa perché «il fatto non sussiste». «La Calabria è una sorta di leggenda metropolitana che si utilizza come foglia di fico a seconda delle convenienze. Anche i problemi che ci sono in questa terra vengono utilizzati e agitati per criminalizzarla. E su questo non si può rimanere in silenzio». Mario Oliverio non ne può più. La sua terra, da decenni, viene cannibalizzata da tutti: politica, media e magistratura. E lui, reduce da un processo, si sente di poter parlare di ognuna di queste cose con cognizione di causa. Perché proprio l’indagine chiusa con la sua assoluzione “perché il fatto non sussiste” lo ha visto al centro di una «gogna mediatica e giudiziaria», ma anche politica. Proprio a seguito di quell’indagine, infatti, il Pd ha deciso di non ricandidarlo alla presidenza della Regione che fino a quel momento aveva guidato. Con ipocrisia, ammantando le vere ragioni di questioni politiche non meglio specificate. E chiuso uno dei capitoli più dolorosi della sua vita tira le somme, invitando ciascuno a svolgere il proprio ruolo, senza invadere il campo degli altri. «Bisogna battersi perché i mali di questa terra, a partire dalla criminalità, vengano sconfitti, ma va sconfitto anche il male di chi utilizza i problemi per sporcarla di fango come se fosse un’isola del male», racconta al Dubbio.

Partiamo dall’assoluzione.

«Per questa vicenda parlano le sentenze. Quella del 4 gennaio, con un’assoluzione perché il fatto non sussiste, ma anche quella della Cassazione sul ricorso contro l’obbligo di dimora per tre mesi nel mio Comune di residenza. Un provvedimento che mi ha limitato non solo nella mia libertà, ma anche nella funzione di Presidente della Regione. La Cassazione ha rimosso quel provvedimento senza rinvio definendomi “oggetto di un chiaro pregiudizio accusatorio”. In quelle sentenze c’è una risposta chiara a quella che è stata l’inconsistenza e la gravità di un’inchiesta che mi ha fatto finire in un tritacarne mediatico per due anni. Non solo, è stata questa la vera ragione per cui il Pd ha detto no alla mia candidatura».

Sembra che il partito abbia colto la palla al balzo per darle il benservito…

«Un grande partito non può nascondersi dietro il non detto. Su quel pronunciamento della Cassazione i dirigenti nazionali del Pd non hanno detto una parola. Nemmeno oggi, con una sentenza che è postuma alle elezioni, quindi con il problema delle liste per le candidature già superato. Ora ci si arrampica sugli specchi, ma era evidente anche alle pietre in Calabria e non solo – che la ragione era quella. C’è stato un atteggiamento supino e subalterno, non so per quali ragioni, ma la linea scelta è stata questa e segna il comportamento del Pd sulle problematiche della giustizia».

Qual è il rapporto tra politica e magistratura?

«In questa fase prevale l’onda giustizialista e condiziona questo rapporto. Si insegue una linea populista, che in questo momento condiziona l’azione parlamentare e l’azione del governo e il Pd non fa nulla per riportare la discussione sul terreno del confronto e del principio costituzionale della separazione dei poteri. Questa è una deriva che determina, di fatto, una condizione di restrizione della vita democratica e di condizionamento dell’esercizio del potere legislativo. Deriva che non fa bene nemmeno al potere giudiziario, che in questo modo viene screditato e crolla davanti alle verifiche della magistratura giudicante, perdendo credibilità».

Qual è il problema della magistratura?

«Non è in discussione la necessità della libertà dell’investigatore, ma il problema è che non si può privare della libertà una persona a cuor leggero. Perché poi passano anni e si producono lacerazioni profonde nella vita delle persone, nelle relazioni e negli affetti. Gli errori giudiziari stanno alla Giustizia come i preti pedofili stanno alla Chiesa. Sfregiano chi la subisce ma sfregiano anche l’istituzione a cui appartengono. Nel mio caso c’è stata anche una limitazione dell’esercizio democratico e della sovranità popolare sulla base di nessun indizio, come ha detto la Cassazione».

Talvolta sembra quasi che, specie in Calabria, la magistratura assuma un ruolo di supplenza rispetto alla politica. Come se ne esce?

«L’azione della politica deve essere ancora più rigorosa nella selezione delle classi dirigenti e delle rappresentanze. Ma questo, appunto, è un compito che spetta alla politica. La magistratura deve intervenire per colpire i reati, non può sostituirsi alla funzione della politica. Troppo comodo, dopo due anni di gogna, far finta di nulla. Io sono stato assolto e sono soddisfatto, non mi sono mai rassegnato, ho sempre creduto nella Giustizia, ma il pensiero che anche un solo calabrese potesse pensare che il Presidente a cui ha dato fiducia abbia approfittato del suo mandato è stato un tormento. Questo sega le gambe a chi fa dell’assunzione dei valori della trasparenza e della legalità la bussola della propria azione di governo. Mi sono trovato in una dimensione paradossale, con il mondo letteralmente capovolto».

La Calabria è stata al centro di polemiche per quanto riguarda il commissario alla sanità e negli ultimi tempi per i fondi destinati dal Recovery Plan. È rimasta come sempre ai margini dell’agenda politica?

«La Sanità è l’esempio di come questa regione venga tenuta in una condizione coloniale. È in una condizione disastrosa, ma sono 11 anni che la Regione è commissariata e i poteri vengono esercitati attraverso il commissario dal ministero della Salute, dal Mef e dal Governo. Anche qui bisogna sfatare la favola per cui tutto è riconducibile alle classi dirigenti locali. I commissariamenti sono la longa manus del Governo nazionale su questa terra e l’amplificazione delle incapacità e delle difficoltà delle classi dirigenti locali, che non voglio minimizzare, ma non possono essere la foglia di fico sulle responsabilità di Roma. Per quanto riguarda poi il Recovery, purtroppo anche nell’ultima versione la Calabria viene penalizzata. Penso per esempio all’Alta Velocità: il Mezzogiorno e la Calabria vengono tagliati fuori e lo saranno per altri cinquant’anni, non è concepibile. Così come per gli hub della portualità: si fa riferimento esclusivamente al porto di Trieste e a quello a quello di Genova, trascurando il Sud. Un porto come quello di Gioia Tauro, che è il più grande porto di transhipment del Mediterraneo e sicuramente del nostro Paese, non viene nemmeno menzionato».

In primavera ci saranno le elezioni in Calabria, pensa di ricandidarsi?

«Penso che bisogna mettere in campo un progetto, costruire un fronte largo delle forze democratiche. Ritengo che la strada che è stata imboccata anche dal Centrosinistra nelle settimane scorse sia assolutamente sbagliata. C’è stata una rincorsa ai populismi, alle forze che agitano i problemi senza avere una proposta di governo. Io credo che invece bisogna recuperare una visione riformista e moderna, una visione che sia credibile. Io sono disponibile a costruire questo percorso e dare un contributo in questa direzione sento di dare un contributo. Non ho mai anteposto problemi di carattere personale agli interessi generali ed agli obiettivi di carattere collettivo. Il primo terreno per misurare appunto la bontà di un’impostazione politica è il progetto, la tensione che si crea e la capacità di dare un’ispirazione riformista e credibilità ad un progetto di governo».

Nel caso, lo farebbe con il Pd?

«Il Pd nazionale, incredibilmente, mi ha mi ha lasciato solo e continua a far finta di nulla, un’indifferenza che la dice lunga sulla bontà delle scelte che sono state compiute anche nel recente passato. Immagini che io faccio parte della Direzione Nazionale e nell’ultimo anno non mi hanno nemmeno invitato a partecipare. La mia storia politica parla più di ogni altra cosa. Non credo che ci sia nessuno abilitato a dare pagelle e a decidere chi e come può stare in un campo. Mi auguro semplicemente che non si consumino altri atti distruttivi e forzature di stampo coloniale, che la Calabria sta già abbondantemente pagando senza che nessuno sia chiamato a risponderne».

Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 5 gennaio 2021. Le accuse di corruzione e abuso d' ufficio che gli avevano precluso la ricandidatura alla presidenza della Regione Calabria, alle elezioni di gennaio 2019, sono cadute perché «il fatto non sussiste». Il gup di Catanzaro Giulio De Gregorio ha assolto l'ex presidente della Regione Mario Oliverio (Pd), coinvolto nel 2018 nell' inchiesta «Lande desolate», coordinata dalla Procura di Catanzaro. Il procuratore distrettuale Nicola Gratteri aveva chiesto l'arresto per l'ex presidente, ma il giudice delle indagini preliminari si era opposto, prescrivendo comunque nei confronti di Oliverio l'obbligo di dimora nella sua residenza a San Giovanni in Fiore. La Cassazione aveva definito le accuse contro Oliverio un «chiaro pregiudizio accusatorio» parlando di «assenza di gravità indiziaria». Non luogo a procedere anche per la deputata del Pd Enza Bruno Bossio e suo marito Nicola Adamo, ex vice presidente della Regione, anche loro coinvolti nell' inchiesta. Le accuse a Oliverio riguardavano la costruzione di piazza Bilotti a Cosenza e l'ammodernamento degli impianti sciistici di Lorica, entrambi i lavori appaltati dall'imprenditore Giorgio Barbieri, considerato vicino al clan Muto di Cetraro. Non avendo più la possibilità economica per eseguire entrambi i cantieri, Barbieri avrebbe chiesto e ottenuto finanziamenti regionali sotto forma di opere complementari. Secondo l'inchiesta «non dovuti, né legittimamente esigibili». Come presidente, Oliverio non avrebbe fatto nulla per impedire che quei fondi finissero nelle mani di Barbieri. «Finalmente è arrivata la giustizia - ha dichiarato Oliviero -. È stato sgomberato il campo da tante falsità».

Calabria, assolto dalle accuse di corruzione e abuso l'ex governatore Mario Oliverio. Alessia Candito su La Repubblica il 4 gennaio 2021. "Il fatto non sussiste" è la formula con cui il gup di Catanzaro ha scagionato dalle accuse l'ex presidente pd della Regione, costretto alle dimissioni dopo l'arresto e non ricandidato dal partito. Assolto dall'accusa di corruzione e abuso d'ufficio perché "il fatto non sussiste". Per l'ex governatore dem della Calabria Mario Oliverio finisce il processo "Lande desolate", che ha scoperchiato anomalie e forzature in una serie di appalti e lavori negli anni scorsi realizzati fra Cosenza, Lorica e Scalea e finiti in mano a ditte vicine ai clan. Al termine del giudizio con rito abbreviato, celebrato subito dopo l'udienza preliminare fissata per tutti gli indagati dell'inchiesta, il giudice ha disposto l'assoluzione per Oliverio "perché il fatto non sussiste". Prosciolti dall'accusa anche la deputata Pd Enza Bruno Bossio e il marito, l'ex consigliere regionale Nicola Adamo, che in caso di rinvio a giudizio avrebbero optato per il rito ordinario. Per i magistrati della procura di Catanzaro, che per l'ex governatore avevano chiesto una condanna a 4 anni e 8 mesi, in quel clima inquinato l'allora governatore, insieme ad Adamo e Bruno Bossio, avrebbe cercato di sgambettare il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto. In cambio di un maxi-finanziamento per opere non necessarie, Oliverio - questa era la contestazione della procura - aveva chiesto e ottenuto dalla ditta incaricata della realizzazione di pazza Bilotti, opera simbolo dell'amministrazione Occhiuto, un rallentamento dei lavori. "Accuse infamanti" le aveva definite subito Oliverio l'allora presidente di Regione Calabria, destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora emesso dal giudice e per questo "esiliato" per mesi nella sua San Giovanni in Fiore. "La mia vita e il mio impegno politico e istituzionale sono stati sempre improntati al massimo di trasparenza, di concreta lotta alla criminalità, di onestà e rispettosa gestione della cosa pubblica" aveva rivendicato annunciando uno sciopero della fame, poi passato in cavalleria.  A "liberarlo" la sentenza con cui la Cassazione ha bocciato quella decisione, in precedenza confermata dal tribunale del Riesame, senza però riuscire a invertire la parabola discendente del politico. L'inchiesta "Lande desolate" è diventata infatti la goccia che ha fatto definitivamente traboccare il vaso delle tensioni fra il governatore dem, poco apprezzato in ambienti romani anche a causa del crollo di consensi negli ultimi anni di mandato, e i vertici del Pd, in quei mesi impegnati a definire gli assetti in vista delle imminenti regionali. Ad una sua ricandidatura, da Roma è arrivato un secco "no" e né dichiarazioni al vetriolo, né proteste - arrivate fin sotto il Nazareno con un sit-in di fedelissimi dell'allora governatore- hanno convinto il Pd a tornare sui propri passi. A distanza di un anno e ad assoluzione incassata, Oliverio è soddisfatto - sottolinea uno dei suoi legali, Enzo Belvedere - "anche se gli è rimasta l'amarezza di aver subito quest'onta durante il suo incarico di governatore. L'amarezza non si cancella così facilmente, sapendo di essere una persona perbene. Per oltre 40 anni ha fatto politica senza avere mai avuto alcun problema con nessuna Procura, si è ritrovato ad avere una misura cautelare e non essere ricandidato solo per questo problema giudiziario". In realtà, fra Oliverio e i vertici del partito romano il problema è sempre stato più politico che giudiziario. Ed anche sul fronte processuale i grattacapi dell'ex governatore non sono certo finiti. Al momento, è stato infatti rinviato a giudizio per peculato per un maxi-finanziamento da 95mila in teoria destinato ad "attività di promozione turistica", in realtà servito per una "personale promozione politica" al festival di Spoleto, per abuso d'ufficio in un altro procedimento in cui gli si contesta l'arbitraria rimozione del presidente del cda di Fincalabra, ente in-house della Regione, e per gli appalti aggiustati individuati dall'inchiesta Passpartout. Un processo che sul banco degli imputati vede anche Nicola Adamo, di recente rinviato a giudizio per traffico di influenze anche nell'ambito del maxiprocedimento Rinascita Scott.

L’inchiesta di Gratteri che ha terremotato la politica calabrese finisce con un flop. L’ex governatore della Calabria Mario Oliverio è stato assolto perché “il fatto non sussiste”. Il Dubbio il 4 gennaio 2021. L’ex governatore della Calabria Mario Oliverio è stato assolto. La decisione del gup di Catanzaro Giulio De Gregorio perchè “il fatto non sussiste”. L’ex presidente della giunta calabrese, del Pd, era accusato di abuso d’ufficio e corruzione nell’ambito del processo “Lande desolate”. La Procura aveva chiesto una condanna a 4 anni e 8 mesi di carcere. L’inchiesta si riferisce a presunte anomalie nella realizzazione di tre opere pubbliche. Oliverio  ha scelto il rito abbreviato, mentre gli altri imputati saranno giudicati con quello ordinario con udienza fissata per il 7 ottobre. “Sono stati due anni di gogna mediatica, nei miei confronti – ha commentato Oliverio – Ho speso la mia vita e il mio impegno politico e istituzionale avendo sempre come bussola la legalità, la correttezza amministrativa, il rispetto dei diritti e delle persone”. “Ho sempre combattuto in prima fila per il riscatto della mia terra e per la liberazione di essa da tutte le mafie e cricche affaristiche – ha continuato Oliverio – Quella mattina di dicembre del 2018 è come se il mondo si fosse capovolto. Nella mia funzione di massimo responsabile del Governo della Regione venivo sottoposto ad un provvedimento cautelare. Un atto grave non solo per la mia immagine, ma soprattutto per l’immagine della Calabria finita nel tritacarne mediatico e nella macchina del fango. Il solo pensiero che i calabresi, a partire da quelli che avevano riposto in me fiducia, potessero essere indotti a credere che il loro presidente avesse tradito la loro fiducia ed approfittato del ruolo che gli avevano conferito sono stati la più grave ferita e il più grande e insopportabile tormento della mia vita. Sono felice per i miei figli, per i miei cari, ma anche per i calabresi”. “Ora che si è affermata la verità e che la Giustizia, attesa da me in rispettoso silenzio, si è imposta è necessaria una riflessione approfondita – spiega Oliverio – Non posso non ringraziare quanti mi sono stati vicino in questa fase difficile, ma soprattutto ringrazio i miei avvocati difensori Enzo Belvedere ed Armando Veneto che sin dall’inizio hanno saputo impostare una linea difensiva argomentata e forte non solo della verità quanto della lettura giusta delle carte processuali. Esse tutte sin dall’inizio mostravano la mia totale estraneità agli addebiti mossimi con "grave pregiudizio accusatorio". “Da garantista non posso non accogliere favorevolmente l’epilogo della vicenda giudiziaria legata all’inchiesta lande desolate per l’ex governatore Mario Oliveiro e per la deputata Enza Bruno Bossio” ha commentato il commissario regionale del Partito Democratico della Calabria Stefano Graziano. “Va dato atto della grande correttezza e rispetto istituzionale, di essersi difesi nelle sedi deputate e aver dimostrato l’infondatezza delle accuse”.

"Ora è necessaria una riflessione approfondita". Assolto Oliverio, l’ex Governatore della Calabria perseguitato da Gratteri: “Due anni di gogna”. Redazione su Il Riformista il 4 Gennaio 2021. L’ex governatore della Calabria Mario Oliverio (Pd) è stato assolto dalle accuse di corruzione e abuso di ufficio. Oliverio era stato coinvolto nell’inchiesta ‘Lande desolate‘ per presunte irregolarità negli appalti di alcuni lavori a Cosenza, Lorica e Scalea. La sentenza è stata emessa dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Catanzaro al termine del processo con rito abbreviato con la formula della insussistenza del fatto. La Procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, aveva chiesto una condanna a 4 anni ed 8 mesi di carcere. Oliverio – poi sostituito dalla esponente di centrodestra Jole Santelli alle successive elezioni – venne raggiunto mentre era in carica da un provvedimento di obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore (Cosenza), poi annullato dalla Cassazione. Con l’assoluzione di Oliverio nel rito abbreviato sono caduti anche i capi d’imputazione nei confronti dell’ex consigliere regionale Nicola Adamo e della parlamentare Enza Bruno Bossio, anche loro del Partito democratico, accusati di aver ritardato i lavori di Piazza Bilotti per mettere in difficoltà il sindaco di centrodestra, Mario Occhiuto. Adamo e Bruno Bossio avevano scelto il rito ordinario diversamente da Oliverio ma per entrambi è stata emessa dal Gup la sentenza di non luogo a procedere. Per altre 14 persone il magistrato ha disposto invece il rinvio a giudizio. “E’ una sentenza netta, chiara. La giustizia finalmente è arrivata, in ritardo ma è arrivata. Sono stati due anni di gogna mediatica, nei miei confronti“. Questo il commento di Oliverio dopo l’assoluzione. “Ho speso la mia vita e il mio impegno politico e istituzionale  avendo sempre come bussola la legalità, la correttezza amministrativa, il rispetto dei diritti e delle persone. Ho sempre combattuto in prima fila per il riscatto della mia terra e per la liberazione di essa da tutte le mafie e cricche affaristiche. Una mattina di Dicembre del 2018 è come se il mondo si fosse capovolto. Nella mia funzione di massimo responsabile del Governo della Regione venivo sottoposto ad un provvedimento cautelare. Un atto grave – continua – non solo per la mia immagine, ma soprattutto per l’immagine della Calabria finita nel tritacarne mediatico e nella macchina del fango. Il solo pensiero che i calabresi, a partire da quelli che avevano riposto in me fiducia, potessero essere indotti a credere che il loro presidente avesse tradito la loro fiducia ed approfittato del ruolo che gli avevano conferito sono stati la più grave ferita e il più grande e insopportabile tormento della mia vita. Sono felice per i miei figli, per i miei cari, ma anche per i calabresi“. Poi conclude: “Ora che si è affermata la verità e che la Giustizia, attesa da me in rispettoso silenzio, si è imposta, è necessaria una riflessione approfondita. Non posso non ringraziare quanti mi sono stati vicino in questa fase difficile, ma soprattutto ringrazio i miei avvocati difensori Enzo Belvedere ed Armando Veneto che sin dall’inizio – scrive – hanno saputo impostare una linea difensiva argomentata e forte non solo della verità quanto della lettura giusta delle carte processuali. Esse tutte sin dall’inizio mostravano la mia totale estraneità agli addebiti mossimi con “grave pregiudizio accusatorio”.

"Lande desolate" o desolata procura? Salvate la Calabria dal ciclone Gratteri, e dalle inchieste giudiziarie con risultati scarsissimi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Conosco personalmente Mario Oliverio, Enza Bruno Bossio e Nicola Adamo. Da molti anni. Conosco le tante battaglie che hanno condotto, sempre dalla stessa parte: del lavoro, della lotta alla povertà, della giustizia sociale, dei diritti. Non ho mai avuto neppure il minimo dubbio sulla loro innocenza. Del resto mi pare che persino la Corte di Cassazione abbia avuto pochi dubbi, quando, due anni fa, annullò il provvedimento cautelare contro Mario Oliverio, cioè contro il presidente della regione Calabria, che era stato costretto al domicilio coatto in un paese di montagna dalla testardaggine di un magistrato. La Cassazione disse – e scrisse – che il provvedimento era dovuto ad un “evidente pregiudizio accusatorio” contro Oliverio. Da parte di chi? Immagino del procuratore di Catanzaro, che si chiama Nicola Gratteri. Non so se lo avete mai sentito nominare, magari lo avete scorto in qualche trasmissione Tv, dove è ospite fisso… Gratteri aveva chiesto al Gip l’arresto di Oliverio. Il Gip, che in genere è molto tenero con Gratteri (come quasi sempre i Gip lo sono nei confronti dei loro colleghi Pm) pare che sorrise e disse: beh, senza neppure un indizio è impossibile… Già. Io faccio questa semplice domanda: ma un procuratore della repubblica che chiede di arrestare il Presidente della regione, e poi viene schiaffeggiato prima dalla Cassazione che gli rivolge un’accusa pesantissima (grave pregiudizio accusatorio) e poi da un Gup che assolve per non aver commesso il fatto il Presidente e tutti gli altri imputati politici (che, anzi, non vengono nemmeno rinviati a giudizio dopo un paio d’anni di gogna), un procuratore della repubblica, dico, (sempre lo stesso) che invece di tacere, il giorno in cui viene eseguita la misura contro Oliverio, dichiara ai giornalisti, testualmente: “Posso dirvi che siamo tranquillissimi delle risultanze investigative e che anzi queste miglioreranno. Ci saranno altre novità, ci saranno sorprese…”, e poi aggiunge: “Con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ingrassare alcune cosche”… beh – chiedo sommessamente – questo Procuratore deve necessariamente restare al suo posto? Voglio dire: Nicola Gratteri ha condotto molte inchieste giudiziarie in Calabria, tutte con risultati scarsissimi. Ora ha tentato – con successo – di mettere spalle al muro una giunta regionale che stava governando bene, e che aveva ottime possibilità di essere rieletta; ha messo a soqquadro tutta la politica calabrese creando un grave danno alla regione; è stato smentito decine di volte dalla Cassazione e dai giudici… è proprio indispensabile che resti lì, a spadroneggiare su tutta la vita pubblica? Se un dirigente politico presentasse un bilancio così devastante della propria attività, esisterebbe qualcuno che non ne chiederebbe le dimissioni? Come mai, invece, tra i politici, nessuno chiede che il Csm, o il ministro, o il Parlamento, assumano un’iniziativa per proteggere la Calabria dal ciclone Gratteri? C’è di più. C’è qualcosa di ancora più inquietante. Il Pd. Riflettiamo un momento: il Pd, che è il partito di Oliverio, di Adamo, di Enza Bruno Bossio, e che conosceva perfettamente l’innocenza dei suoi dirigenti, non ha mosso un dito quando è scoppiato lo scandalo che Gratteri chiamò “lande desolate”. Non so a cosa si riferisse, Gratteri, con quel nome. A me viene in mente il Pd e la procura di Catanzaro. È lì che la desolazione è infinita. Il Pd non difese Oliverio, Adamo e Enza Bruno Bossio, li abbandonò, intimorito. Non denunciò la manovra per condizionare le vicine elezioni regionali e togliere di mezzo un candidato scomodo come Oliverio. Fece di più: quando arrivò il momento di fare le liste elettorali tagliò via Oliverio e mise al suo posto un signore che veniva dal centrodestra e poi era passato vicino ai 5 Stelle: il dottor Callipo, eccellente imprenditore, ma che francamente aveva poco poco a che fare con la politica e con la sinistra. Il Pd sapeva che in questo modo rinunciava a una probabile vittoria e lasciava il campo libero. Lo fece lo stesso. Perché? Ve lo dico io: in ossequio al signore delle Calabrie. Non c’è nessun’altra spiegazione. Mi piacerebbe sapere se oggi i vertici del Pd, a Roma, ammetteranno l’errore, porteranno le scuse a Oliverio e gli metteranno a disposizione il partito. Io non so se Oliverio deciderà di candidarsi per le prossime elezioni. Io spero di sì, me lo auguro con tutto il cuore. Anche se è chiaro che questa vicenda giudiziaria lo ha incredibilmente indebolito, sia sul piano politico sia della resistenza umana. Ha subito una gigantesca ingiustizia (dovuta a imperizia o a persecuzione?), e difficilmente potrà riprendersi. Chi, immagino, non riceverà nessun danno dall’errore clamoroso è Nicola Gratteri. Che magari, incoraggiato dal silenzio della politica, ci proverà ancora. Cosa gli costa?

P.S. Bonafede!!! Se esisti batti un colpo. Cosa aspetti a mandare gli ispettori a Catanzaro??? Ricordi che il procuratore generale di Catanzaro, un anno fa, fu punito, degradato e trasferito a 1.000 chilometri di distanza per aver criticato Gratteri. Dunque criticare Gratteri è molto più grave che sbagliare clamorosamente una inchiesta e tentare di arrestare il Presidente della regione?

E’ giornalismo, questo? Il tritacarne di Travaglio contro Oliverio: 15 prime pagine di accuse, una breve a pagina 13 per l’assoluzione…Redazione su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. L’assalto giudiziario del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri contro l’allora presidente della regione Mario Oliverio fu raccontato ed esaltato dal Fatto Quotidiano almeno 15 volte in prima pagina. Sapete – no? – come si chiama questa pratica, in gergo: è la gogna mediatica. Si prendono le accuse di un Pm, si trasformano in sentenze per magia, e si usano per demolire una persona. Molti articoli, molti titoli, molti editoriali di Marco Travaglio in persona. Poi un bel giorno succede che il Gup debba emettere una sentenza sulle accuse di Nicola Gratteri a Oliverio. E la sentenza è semplice, secca e veloce: il fatto non sussiste. Cosa sussiste? Solo il Fatto Quotidiano. Il quale ripara alla sua travolgente e sconsiderata campagna di stampa con un gesto molto onesto: dà notizia ai suoi lettori della assoluzione. In pagina 1? no. In pagina 2 ? No. In pagina tre, quattro, cinque, sei… no, no, no. In pagina 13. Proprio in fondo alla pagina. Una “breve” (si chiama così, sempre in gergo giornalistico, spesso viene usata per annunciare feste di paese, di piccolo paese, o lotterie, o riffe) di 18 righe esatte, con un titolo a una colonna. Nelle 18 righe non trova spazio la parola Gratteri. Cioè il nome del magistrato che ha collezionato il suo ennesimo flop, dopo aver terremotato la regione e spinto al cambio di maggioranza. E’ giornalismo, questo? Diciamo che se per giornalismo intendiamo l’attività di chi fa informazione, beh, no: non è giornalismo. Se invece ci riferiamo solo al giornalismo italiano, allora sì: è giornalismo di prim’ordine…

Mario Oliverio è innocente, Nicola Gratteri e il Partito Democratico no. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Assolto perché il fatto non sussiste nel processo di primo grado Mario Oliverio, neppure rinviati a giudizio Nicola Adamo ed Enza Bruna Bossio. Quello che fu, fino più o meno un anno fa, lo stato maggiore del Pd in Calabria, esce a testa alta dalle inchieste giudiziarie dopo aver perso le elezioni regionali del 26 gennaio 2020, che da quelle indagini e da una feroce campagna mediatica furono fortemente condizionate. Questa volta il tonfo della Dda di Nicola Gratteri è pesante, pesantissimo. E anche il Partito Democratico si ritrova con le ossa rotte e la vergogna di aver abbandonato i suoi figli, da Bassolino a Oliverio, nelle mani dei più fetidi circhi mediatico-giudiziari. Mario Oliverio era il presidente della Regione Calabria, eletto nel 2014 con il 61% dei voti, era un esponente potente del Pd, quando nel dicembre del 2018 la magistratura si accorse di lui e gli rovesciò addosso una serie di accuse per fatti che riguardavano appalti. Da una parte avrebbe accelerato un iter, dall’altra ne avrebbe rallentato un altro. Non si riuscì a mettergli le manette, il gip non concesse neppure i domiciliari. Ma l’umiliazione di una sorta di confino come si faceva con i mafiosi sì, quella gli fu gettata addosso, con l’obbligo di dimora al suo paese in provincia di Cosenza, San Giovanni in Fiore. La prima informazione di garanzia parlava solo di un abuso d’ufficio, ma l’atteggiamento degli uomini della procura di Catanzaro fu da subito molto aggressivo, tanto che, come ebbe modo di lamentare l’avvocato Vincenzo Belvedere (che insieme a Armando Veneto era il difensore di Oliverio), all’udienza del riesame si presentarono in tre. E parlarono tutti e tre, con grande prosopopea, contro il presidente della Regione Calabria. Non si era mai visto. Lo stesso procuratore Gratteri, in un’intervista a Rai Uno, diceva che «con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ‘ingrassare’ alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte». E annunciava novità e sorprese. Infatti nel frattempo Oliverio aveva già ricevuto un’altra informazione di garanzia, questa volta per corruzione. I suoi complici? Il consigliere regionale Nicola Adamo, altro uomo forte del Pd, e Enza Bruno Bossio, deputata dello stesso partito. Quelli che oggi, per decisione del gup, non vengono neppure rinviati a giudizio. Mario Oliverio reagì con forza, iniziò subito uno sciopero della fame, dichiarò che non avrebbe consentito a nessuno, «neanche a Gratteri, di infangare la mia storia». Ma il suo incubo di materializzò subito e prese le vesti del presidente del consiglio regionale Nicola Irto del Pd, il quale riuscì a mettere insieme il peggio delle tradizioni comuniste e quelle del grillismo, con una dichiarazione in cui, dopo la doverosa riverenza alla magistratura, insultò il suo collega e compagno, mostrando anche grande sgrammaticatura giuridica: «Sul piano umano – disse – auguro al presidente Oliverio di poter chiarire nel più breve tempo possibile davanti alla magistratura la propria posizione». Requiescat in pacem. Il Pd stava con il procuratore Gratteri e voleva che lo si sapesse. Era iniziata, con un anno di anticipo, la campagna elettorale. Anche perché, nel frattempo, qualcun altro aveva dato sepoltura alla candidatura di quello che pareva il più temibile avversario politico nel centrodestra, il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto. Anche lui cecchinato da avvisi di garanzia, difeso dalla sola Forza Italia, ma spedito subito via da un bel calcio nel sedere da parte di Matteo Salvini. A poco servirà il fatto che nel mese di marzo del 2019 la Corte di cassazione avesse ribaltato il teorema accusatorio della procura nei confronti di Oliverio e annullato l’obbligo di dimora con un giudizio tagliente che denunciava un “chiaro pregiudizio accusatorio” da parte degli uomini di Gratteri. Ormai i giochi politici sono fatti. E anche un po’ sfatti. Gli ultimi mesi del 2019 sono caratterizzati dal nuovo blitz della Dda di Catanzaro che tenta di rafforzare il proprio potere, mentre Nicola Gratteri annuncia urbi et orbi che lui sarà il Giovanni Falcone di Calabria e che nella sua terra si celebrerà il maxi-processo più grande del secolo, il Maxi. La campagna elettorale di Calabria, che sfocerà nella vittoria di Jole Santelli il 26 gennaio di un anno fa con il 55%, sarà fortemente condizionata dalla retata di Gratteri, con i partiti intimiditi e pronti a fare a gara per mostrarsi meritevoli agli occhi dei pubblici ministeri. Con un contorno di giornalisti travestiti da prefiche ululanti che inveivano stracciandosi vesti e capelli. Oliverio fu costretto a rinunciare alla candidatura, al suo posto arrivò Pippo Callipo, grande imprenditore calabrese del tonno, cui fu affidato il compito di tenersi alla larga dalle sigle di partito e possibilmente anche dalla politica. Lui fece anche di più, e di peggio. Disse subito che ci voleva un ricambio della classe dirigente e che con lui presidente nessuno avrebbe più dovuto bussare alla porta di “politici, burocrati e mafiosi”. La paura, il terrore, il ricatto furono il sale di gran parte di quella campagna elettorale. Jole Santelli seppe tenersi in disparte e vinse. Soprattutto per merito, e per il grande amore che ha sempre nutrito per la sua terra. Ma anche perché tutto il resto era verminaio. Un imprenditore per bene come Callipo ridotto a mettere insieme la politica e la mafia per farsi bello agli occhi di qualche toga. L’Espresso che dedica quindici pagine a quelle elezioni, titolando “Calabrexit”, un invito a scappare da una Regione in cui, secondo i piccoli torquemada, intere famiglie di politici erano sporcate dalla ‘ndrangheta. Senza riportarne i nomi, ricordiamo di un candidato che ha il torto di essere il figlio di un altro che è stato sindaco ai tempi dei “boia chi molla” e che ha un fratello indagato; un’altra ha il padre condannato; uno è considerato “vicino” a persona coinvolta nell’inchiesta sui rimborsi ai consiglieri regionali; e uno “continguo” a un imprenditore coinvolto in un’inchiesta di mafia, anche se poi assolto. Padri, mogli, fratelli, suoceri, amici e vicini di casa di un candidato. Nessuno viene risparmiato. Sembra che il direttore d’orchestra della campagna elettorale, dopo il blitz del 19 dicembre 2019, risieda in qualche palazzo di giustizia. Finisce alla gogna persino il professor Francesco Aiello, che è il candidato del Movimento cinque stelle, ma che viene infilzato dai grandi giornalisti d’inchiesta del Fatto Quotidiano. I quali avevano spalancato gli armadi più segreti del professore, scoprendo che aveva avuto un cugino. Un cugino vero, di primo grado. Uno con cui forse Francesco Aiello aveva giocato da piccolo. Ma che da grande, mentre uno brillava nella carriera universitaria, si era fatto ammazzare nel 2014 a Soveria Mannello in una sparatoria tra cosche. Così, mentre il povero professore si affannava a fare il disconoscimento di cuginanza, quasi gli fosse piombata addosso una sorta di ombra di Banco, la pietra tombale sulla sua candidatura fu posta da Nicola Morra, presidente della Commissione bicamerale antimafia e finto calabrese. «Mai farò campagna elettorale per questo candidato», sentenziò. E chissà se sia stato lui a farlo perdere. Ma de minimis… eccetera. Quel che ci si domanda oggi, mentre il sostituto di Gratteri ha ancora chiesto per Mario Oliverio quattro anni e otto mesi di carcere (con che coraggio, dopo che la stessa Cassazione aveva rimproverato pregiudizio accusatorio!) è se esista ancora qualche partito (o qualche Matteo Renzi, che fu anche segretario del Pd), tra quelli che si definiscono “moderati” o socialdemocratici o liberali che abbia il coraggio di dirsi innocente. Innocente rispetto al fatto di aver preso ordini dai pubblici ministeri per far loro decidere i sindaci o i presidenti di Regione. Gli unici veramente innocenti sono le brave persone che arrivano dopo. Come Jole Santelli che ha vinto contro Callipo una partita che, senza Gratteri, sarebbe stata giocata tra Oliverio e Occhiuto. Proprio come venticinque anni fa il bravo Marco Formentini (scomparso pochi giorni fa) divenne sindaco di Milano sulle ceneri del centro sinistra dopo le inchieste di Di Pietro.

·        Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.

L'errore giudiziario. Gigi Sabani, perché fu arrestato anche se innocente il celebre presentatore. Roberta Caiano su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Prima il fango, poi l’oblio. La storia di Gigi Sabani non può essere raccontata se non nel segno di Enzo Tortora. Molti gli elementi che accomunano le due vicende, eppure non si ricorda abbastanza quanto la malagiustizia possa diventare un marchio indelebile. Showman, presentatore e grande uomo di spettacolo, Luigi Sabani, meglio conosciuto come Gigi, è uno dei volti più famosi e noti al pubblico degli anni Ottanta e Novanta. Nato a Roma il 5 ottobre 1952, le sue grandi doti di imitatore lo lanciano nel mondo dello spettacolo nel 1973 grazie alla partecipazione al programma radiofonico La Corrida, da cui comincerà qualche anno dopo la sua carriera calcando i più celebri palchi televisivi. Dagli inizi degli anni ‘80, infatti, costella una serie di successi attraverso la partecipazione a trasmissioni Rai come Domenica In, Fantastico, Stasera mi butto, Il grande gioco dell’oca e Buona Domenica sulle reti Mediaset, dove presenta anche la prima edizione di Ok, il prezzo è giusto! che gli vale la premiazione di due Telegatti. Le imitazioni dei grandi personaggi dello spettacolo dell’epoca come Adriano Celentano, Gianni Morandi e tanti altri portano Sabani ad essere sempre più amato e apprezzato dal pubblico, tanto che anche le sue qualità di conduttore e intrattenitore televisivo sono sempre più ricercate conducendolo sulla cresta dell’onda. Basta poco, però, per fare in modo che le luci della ribalta gli si ritorcono contro quando a metà degli anni Novanta viene coinvolto in una vicenda giudiziaria che cambierà per sempre la sua carriera e la sua vita fino alla morte.

LA VICENDA GIUDIZIARIA – E’ l’estate del 1996 quando lo scandalo dei “provini a luci rosse” definito come prima Vallettopoli investe importanti nomi del mondo dello spettacolo tra cui Gigi Sabani e Valerio Merola, suo collega e amico. Il 18 giugno di quell’anno i carabinieri piombano in casa dello showman per arrestarlo con l’accusa di reato di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione. Al centro dell’imputazione ci sono le dichiarazioni dell’allora minorenne Katia Duso, aspirante showgirl, la quale racconta al pm incaricato del caso Alessandro Chionna di presunti approcci sessuali con il conduttore nell’estate precedente, in cambio della promessa di lavorare nel mondo dello spettacolo. La Duso, infatti, faceva parte della scuola per modelle di Biella ‘Celebrità’, al centro della storia in quanto sede che avrebbe ospitato incontri privati tra le ragazze e personaggi dello spettacolo al fine di ottenere un posto assicurato sotto i riflettori di televisione e cinema. Sabani trascorre così tredici giorni agli arresti domiciliari fino all’1 luglio, quando viene deposta la sua scarcerazione. Nonostante l’anno seguente arriva l’archiviazione del procedimento nei suoi confronti dal gip di Roma su richiesta del pm Pasquale Lapadura e viene proclamata la sua innocenza, il conduttore rimarrà scosso dalla vicenda fino agli ultimi giorni di vita. Anche la sua carriera ne risente, ottenendo ruoli e apparizioni di importanza inferiore rispetto agli albori della sua vita artistica. Anche la sua allegria nelle imitazioni e la sua verve da conduttore, sebbene intatte, è come se fossero sempre velate di malinconia e sofferenza. Infatti l’artista non lascia cadere la vicenda e decide presentare denuncia per abuso d’ufficio nei confronti del pm Chionna, il quale proprio nel 1997 sposa la sua ex-teste nell’inchiesta Anita Ceccariglia ex compagna dello stesso Sabani. Nel 1998 il conduttore viene prosciolto del tutto senza neanche arrivare al processo, passo che lo conduce ad avviare anche un procedimento contro il Ministero del Tesoro al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti, sia psicofisici che d’immagine. Sabani viene risarcito per 24 milioni delle vecchie lire per i tredici giorni di ingiusta detenzione che scontò ai domiciliari, sebbene nessuna cifra gli è mai bastata per tornare alla vita di prima. La travolgente vicenda giudiziaria lo aveva segnato nel corpo e nella mente tanto da procurargli un forte stato di stress emotivo e psicologico. Come ha raccontato lo stesso conduttore in diverse interviste, anche dopo anni dall’accaduto, l’amore e l’affetto del pubblico non lo hanno mai lasciato da solo ma non poteva dire lo stesso di molti suoi amici e colleghi che invece si erano allontanati da lui. Chi invece gli era rimasto accanto non ha risparmiato parole dure in sua difesa soprattutto dopo la sua morte, avvenuta prematuramente per un infarto il 4 settembre 2007. In particolar modo suo figlio Simone Sabani, il quale ha sempre sottolineato quanto l’errore giudiziario subito dal padre lo avesse segnato nel profondo. Inoltre, sette mesi dopo la sua scomparsa nasce il suo secondo figlio avuto dalla compagna Sabrina, che però non potrà mai conoscere.

·        Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.

Usarono Enzo Tortora per coprire il patto Stato-Camorra Valter Vecellio. Il Garantista, 30 Giugno 2014. Il dottor Diego Marmo nella bella e importante intervista rilasciata a “Il Garantista”, sia pure trent’anni dopo, chiede scusa a Enzo Tortora; ci ricorda che la sua requisitoria si svolse sulla base dell’istruttoria dei colleghi Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, e “gli elementi raccolti sembrarono sufficienti per richiedere una condanna”; che per tutti questi anni ha convissuto con il tormento e il rammarico di aver chiesto la condanna di un uomo innocente; che fu a causa del suo temperamento focoso e appassionato che definì Tortora “cinico mercante di morte” e “uomo della notte”. Va bene, anche se si potrebbe discutere e controbattere tutto. Per via del mio lavoro di giornalista al “TG2” mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che era in realtà il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, si diceva), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo, e che si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Marmo; che a un certo punto pone una retorica domanda: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”. Cercavamo…Anche Marmo, sembrerebbe di capire, cercava. E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? Non basta dire che la requisitoria del dottor Marmo si è svolta sulla base dell’istruttoria deli colleghi Di Pietro e Di Persia. Non basta. Il 18 maggio di ventisei anni fa Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore: Tortora era stato arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, fatto uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare era sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che portò alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “perché?”. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il “TG2”, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Venne chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Quello è stato fatto lo si sarà fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un cumpariello. Barra è un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino…Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Questo in istruttoria non era emerso? E il sedicente numero di telefono in un’agendina, mai controllato, neppure questo? C’è un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Quando suo padre fu arrestato, le chiesi, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. u che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”. Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto i costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Da quella vicenda è poi scaturito grazie all’impegno radicale, socialista e liberale, un referendum per la giustizia giusta. A stragrande maggioranza gli italiani hanno votato per la responsabilità civile del magistrato. Referendum tradito da una legge che va nella direzione opposta; e oggi il presidente del Consiglio Renzi e il ministro della Giustizia Orlando approntano una serie di norme che vanno in direzione opposta rispetto a quanto la Camera dei Deputati ha votato qualche settimana fa. Valter Vecellio Il Garantista, 30 Giugno 2014

33 anni fa la scomparsa di Enzo Tortora. Chiuso per lutto, è morta la giustizia. Enzo Tortora su Il Riformista il 18 Maggio 2021. Questo è un testo scritto da Enzo Tortora. Lo ha trovato Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione Enzo Tortora, riordinando le carte. Non sappiamo quando sia stato scritto. Leggetelo. Potreste pensare che sia stato scritto proprio oggi, esattamente 33 anni dopo la sua morte. L’operazione dialettica è molto semplice. Se un cittadino, sbattuto in galera innocente, processato e condannato a pene enormi sulla sola parola di criminali “pentiti”, se dunque, osa protestare, urlare alla vergogna, chiedere un tipo di giustizia diverso e degno dell’Occidente, allora salta su, da una delle “correnti” della nostra beneamata Magistratura il solito (disinformato) colonnello in toga che accusa (la citazione è testuale) «di screditare l’immagine di una giustizia impegnata sul difficile fronte della criminalità organizzata» (Sic!). Ma che c’entra? Vien voglia di dirgli. Voi mi parlate di giustizia. Io grido all’ingiustizia, io vi parlo dei diritti di ogni cittadino e voi mi rispondete gargarizzando retorica. È proprio dal peccaminoso mondo dello spettacolo che voglio trarre un’adeguata immagine. Nel vecchio varieté, quando la sciantosa era in crisi, e lo spettacolo faceva acqua, si dava ordine ai macchinisti di buttar giù il fondale con l’immagine dell’Italia, turrita e regolarmente cinta del tricolore. “Evviva Trento e Trieste” si gridava allora: e si otteneva un applauso “spontaneo” irrefrenabile, un applauso che salvava lo spettacolo e metteva fine alla imbarazzante situazione. La gente, uscendo, dimenticava quasi che lo spettacolo faceva schifo. Certe abitudini gli italiani, o meglio certe corporazioni, le hanno conservate. Alcuni mettono fine ad una discussione, facendo scendere oggi dal fondale l’immagine della Magistratura, cinta di lauri, la bilancia (assai sbilanciata e con pesi ahimè falsi) in mano, e all’inno “viva la Magistratura”, che si impegna sul difficile fronte…. eccetera eccetera, si attacca la fanfara consueta. È il tipo di operazione irritante, demagogica, ma pesantemente avanzata quando si tenta da noi di discutere sulla tematica, atroce, del processo di tipo sovietico-napoletano, “felicemente” conclusosi (per il 1° troncone) l’altro giorno. Osereste voi mettere in dubbio… eccetera eccetera!? Sì, bisogna dirlo: osiamo metterlo in dubbio. Osiamo negare, per esempio, che magistrati incapaci, o palesemente, pervicacemente immersi in un dialogo privilegiato coi “loro” pentiti, magistrati che disprezzano le prove, la ricerca dei riscontri più grossolani, e gli stessi diritti della difesa, mietano gli stessi applausi, godano degli stessi consensi, usufruiscano dello stesso rispetto di cui godono invece magistrati onesti, scrupolosi, professionalmente preparati. Ce ne sono ancora, per fortuna. Ma la sceneggiata napoletana mostra invece le sue vistose crepe. Nessun “viva l’Italia”, gridato dal capoclaque di qualche “corrente” riuscirà mai a far dimenticare al pubblico l’indecenza di quello spettacolo. Figuriamoci se potranno dimenticarlo le vittime. Ora, si dice, una volta stabilito che la camorra è un fenomeno essenzialmente milanese capeggiata da un ligure come il sottoscritto, un uomo cancellato dalla vita, e dal suo lavoro, e coperto di infamia, “bisogna attendere la motivazione”. In Italia bisogna attendere sempre qualche cosa. Una volta è il tram, una volta il rimborso Iva, una volta (e qui si rivela la cultura del disprezzo nella quale il Paese è immerso) che la libertà, la dignità, la salute, l’onore di un uomo o di una donna sottoposte a strazio abbiano giustizia e risarcimento. Ma dopo una sentenza che rappresenta una vergogna, cosa ci si può attendere di più da una “motivazione” che non può che ripercorrere i sentieri “logici”, ma di una logica aberrante e stravolta che ha condotto a quella vergogna? Una volta che si è solennemente affermato che zero più zero fa dieci, cosa può contenere di nuovo, di rivoluzionario se non l’ancor più agghiacciante mappa del pensiero “matematico” di certi giudici”? Naturalmente per attendere questa mirabile opera pitagorica occorreranno mesi. Dico mesi. La legge, per la verità, la richiederebbe in quindici giorni. Ma si può chiedere il rispetto della legge a una “magistratura impegnata sul difficile fronte…” eccetera eccetera? Perfino le cento e più assoluzioni di quel processo mostruoso (e che suonano per l’istruttoria bocciatura solenne dopo anni di carcere per gli interessati) sono state nei commenti napoletani, giustificati da “carenze degli uffici”, eccetera eccetera. Un avvocato, di quelli a vongole, di quelli che festeggiano offrendo il caffè al pm, ha persino osato dire che «se si fosse dedicato meno tempo alle indagini su Tortora, forse gli errori sarebbero stati minori». È il colmo! Su di me (e qui sta una delle tante vergogne) non si è fatto il minimo accertamento. Benchè fosse addirittura, dai miei difensori, implorato. Ma l’uomo che parlava di una “giustizia impegnata sul fronte”, non ha torto. Si tratta proprio di “fronte”, di terminologia militare. È giustizia per campagne, giustizia all’ingrosso, che può concedersi tutto, anche il massacro del diritto, in nome della nobiltà del fine. Machiavelli, un Machiavelli mal letto, in certe procure e, con le sanguinose scorciatoie dei pentiti, fa strage di civiltà. Giustizia di guerra, dunque. E quindi, plotoni di esecuzione. La mia pallottola era già in canna dal 17 giugno 1983. Anzi, da qualche mese prima, mentre lavoravo spensierato, onesto e felice. Quello che avete fatto a me, signori napoletani, è enorme. Ma non tanto quello che avete fatto “di me”. Ma “dentro di me”. La vostra arroganza crudele, la vostra supponenza spocchiosa resterà indimenticabile nella storia dell’anti-diritto. E chi mai, tra le vestali che si squassano le vesti dinanzi al grido di radicali e di socialisti contro il metodo napoletano ha letto una, dico una sola pagina di questo processo? Essi ci accusano di “lesa Maestà”, di vilipendio. Del resto, io stesso sono stato denunciato per aver replicato con un “è un’indecenza” agli insulti del pubblico ministero. Dicendo “indecenza” mi contenni. Se qualcosa, caso mai, di questa motivazione mi interessa è il sapere dove sono finite le lettere che dimostravano, e storicamente, l’impossibilità della lunare accusa che mi è costata 10 anni. Erano misteriosamente scomparse (a Napoli succede anche questo). Ricordate il “giallo delle lettere”? Noi gridammo, ancora una volta, all’inciviltà. “Le lettere ci sono” assicurò il Presidente. Ma il giorno dopo fece marcia indietro: “non si trovano proprio”. E con quella bella coerenza, entrò in camera di consiglio: “sarà una cosetta veloce” ebbe la bontà di prevenirci. Io auguro a quei giudici di assaggiare sulla loro pelle, un giorno, i morsi di uno o più pentiti. Di vedere crollare in un giorno la loro vita, la loro fatica, il loro onore. Sul nulla. Per nulla. Ma non si rivolgano quel giorno ai radicali che, da soli, conducono, in un paese sordo, distratto, superficiale, questa immensa battaglia di riforma. Rischierebbero di trovare la nostra porta sbarrata, con la scritta: “Chiuso per lutto. La giustizia è ormai morta”. Enzo Tortora

Da “il Giornale” il 25 gennaio 2021. «Al cimitero monumentale di Milano, una colonna spezzata conserva le ceneri di Tortora con una epigrafe che non sia una illusione, una frase presa dal ricordo che Leonardo Sciascia fece sul Corriere della Sera. Un auspicio che invece è una realtà. Nulla è cambiato. Il sacrifico di Enzo Tortora non è servito. Anzi oggi viviamo un momento in cui le garanzie, le certezze giuridiche, il principio costituzionale sulla presunzione di non colpevolezza, sono quotidianamente calpestati. Complici, una classe politica che non vuole contrastare la magistratura e una stampa che ha in Marco Travaglio il suo indiscusso leader». Così Francesca Scopelliti, la moglie del presentatore tv processato ingiustamente, ha commentato la situazione della giustizia italiana in un'intervista ad «Affari Italiani».

ENZO TORTORA, PARLA CON AFFARI L'EX COMPAGNA FRANCESCA SCOPELLITI. "Il sacrifico di Enzo non è servito a nulla! E’ successo con lui, succede ancora: nessun magistrato che sbaglia paga!" Mirko Crocoli Domenica, 24 gennaio 2021 su Affari Italiani. Dalle lettere di Enzo: “A LORO (i giudici) PREME COSTRUIRMI DELINQUENTE”. Francesca: “Era straziato dall’assenza di diritto e di verità, si è fatto leader di una nobile battaglia per la giustizia giusta”. E sulla classe politica di oggi: “ignoranti e presuntuosi”. Il ricordo nostalgico per Marco Pannella. Responsabilità civile dei magistrati? “Un vulnus di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze”. Lettere scritte dall’inferno che trasudano la sua ferma determinazione a “far sapere”, perché “Tortora è morto di malagiustizia, così come Falcone e Borsellino sono morti di malavita”. E poi, Craxi, Cossiga e Andreotti….Quei giudici napoletani? “Dopo l’assoluzione in appello di Tortora i magistrati napoletani che avevano partecipato ognuno per il proprio incarico a condannarlo furono promossi sul campo. E’ successo con Enzo. Succede ancora: nessun magistrato che sbaglia paga”.

Il sacrifico di Enzo non è servito a nulla! Pochi giorni fa (esattamente il 20 gennaio), Francesca Scopelliti, Calabrese (di Nicotera) oggi grossetana di adozione, ha compiuto 70 anni. È giornalista, dal 1996 al 2001 Segretario del Senato delle Repubblica durante la presidenza Mancino, ma soprattutto è stata la compagnia di Enzo Tortora per molto tempo e nei durissimi mesi di carcerazione del noto conduttore di Portobello. Molto legata, come Enzo, ai radicali di Pannella (per i quali è stata eletta nel 1994 nella coalizione dell’allora centrodestra a guida Berlusconi), oggi, Francesca ci parla di lei, del Covid, della vita personale, dell’esperienza politica e - con non poca emozione - anche e a maggior ragione dei momenti più devastanti vissuti in quella drammatica estate del 1983, quando l’Italia assistette inerme ad una delle pagine più infami e tristi della sua storia. Le lettere che Enzo ha mandato a Francesca sono quanto di più doloroso possa esserci tra i "testamenti" scritti all'interno e nel profondo delle nostre patrie galere. Un errore giudiziario che - come direbbe Baget Bozzo - grida vendetta al cospetto di Dio. Del suo uomo, amato da tutti gli italiani, tempo fa ammise: “I magistrati napoletani che hanno inquisito Tortora sono stati arroganti e protervi ma anche sfortunati: perché non poteva capitare loro un uomo più innocente. Un uomo che non aveva mai preso una multa o pagato una bolletta con ritardo, mancato di rispetto al vicino di casa o al vigile. Un uomo che aveva un grande rispetto delle istituzioni, che amava la fanfara dei bersaglieri e l’inno dei carabinieri, che si inorgogliva dell’operato dei soldati nelle missioni di pace, che per una insaziabile curiosità si era formato una cultura come pochi e non amava essere incluso nello star system dello spettacolo. Lui si sentiva semplicemente un giornalista della carta stampata e televisivo".

Francesca, pochi giorni fa ha spento 70 candeline. Auguri innanzitutto. Ci può fare un breve bilancio della sua vita?

R. I bilanci sono il segno degli anni che passano e i miei cominciano ad essere tanti. Cosa dire? A volte penso che la vita non sia stata generosa con me perchè mi ha regalato momenti di grande gioia, è vero, ma anche di dolore ancora più grande. Come cadere da una stella: ci si fa male. Ma se devo dare un giudizio più profondo, penso che proprio quelle gioie e quei dolori mi hanno fatto crescere e diventare quella donna che oggi sono. Quando ho conosciuto Enzo lavoravo in una agenzia giornalistica, lo Staff Studio, e mi occupavo di musica, televisione, moda (un giornalismo leggero, anche se divertente e piacevole). Dopo il 17 giugno 1987 sono passata dalle canzonette al codice penale, dalle rouches alle carceri, dai concerti al Parlamento. Con un salto che mi ha maturata, mi ha fatto aprire gli occhi su una realtà, quella della malagiustizia, che non pensavo fosse possibile. Da qui, il mio impegno con i radicali di Marco Pannella e la presidenza della Fondazione Tortora che Enzo ha voluto affidarmi per testamento.

I Radicali. Partito a cui sia lei che Enzo avete dato tanto e viceversa. Ci racconta qualche aneddoto inedito tra lo storico leader Pannella e l’allora suo compagno Tortora?

R. Oggi, il nostro Paese paga la mancanza di uomini come Enzo Tortora e di  leaders come Marco Pannella: questo lo sanno in tanti, anche quelli che occupano le stanze del potere, ma non lo dicono, chiusi nella loro ignorante presunzione. A volte mi domando chi in questa vicenda, tra Marco ed Enzo, ha “guadagnato” di più. Tutti e due, mi dico. Marco si è fatto regista di una grande azione politica che all'epoca riscattò i radicali dallo “sgarbo”, dal tradimento di Toni Negri. Enzo, a dispetto di chi lo voleva camorrista con accuse infamanti quanto false, grazie a Marco, si è fatto leader della battaglia per la giustizia giusta, culminata con la vittoria schiacciante (tradita poi dal Parlamento) del referendum per la responsabilità civile dei magistrati. Un vulnus di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Marco era un politico infaticabile, esigente con se stesso e quindi con gli altri: per le elezioni europee del 1984, Enzo – candidato per il PR – fece la campagna elettorale da via dei Piatti 8. La nostra casa era presa d’assalto da operatori di televisioni che arrivavano da tutta Italia, in fila nelle scale ad aspettare il proprio turno: si cominciava nella tarda mattinata e si finiva a notte inoltrata. Una sera, erano già passate le dieci, alcuni tecnici siciliani piazzavano le luci per l'ennesima intervista, e vedo Enzo stanco. Mi avvicino e lui me lo conferma. Al che chiedo a Marco di sospendere e riprendere il giorno dopo  sottolineando “Enzo ha gli occhi arrossati”. E Marco mi risponde, “sì, lo vedo. Portagli degli occhiali da sole”. Le grandi battaglie si vincono così: Enzo fu eletto al Parlamento Europeo con  circa 500.000 preferenze!

Francesca, ma chi era Enzo Tortora? Vogliamo dirlo ai giovanissimi?

R. Quattro anni fa, con il prezioso aiuto dell'Unione delle Camere Penali all’epoca guidata da Beniamino Migliucci, ho raccolto in un libro le lettere che Enzo mi aveva scritto dall’inferno del carcere dove mi racconta l’incubo di una giustizia ferma al medioevo, dove fa un’analisi precisa dell’arroganza dei magistrati partenopei che sanno della sua innocenza ma che “per salvare la loro faccia fottono” lui, dove narra la sua amarezza per un’Italia che ha perso quei valori liberali e democratici nei quali Enzo credeva convintamente. Lettere che descrivono la barbarie delle carceri italiane: nel mese di agosto scrive “la giustizia è al mare, noi nella merda”. Lettere  che trasudano la sua ferma determinazione a “far sapere”, e “non gridare solo la mia innocenza ma battermi, perchè un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere”. Ho portato questo libro in molte scuole e ho apprezzato che i ragazzi  conoscevano già Tortora, merito delle insegnanti che li avevano preparati ma soprattutto della famiglia, di quelle nonne fedelissime di Portobello che non hanno mai dubitato della innocenza di Enzo. E questi giovani concordavano con me nel dire che Tortora è un “grande” del Novecento e che senza retorica può essere ascritto accanto a John Kennedy, al Mahatma Gandhi, a Martin Luther King, a Nelson Mandela perchè anche lui, straziato dall'assenza di diritto e di verità, si è fatto leader di una nobile battaglia per la giustizia giusta.

Ci ricorda quegli attimi dell’arresto (perché mai dimenticare) e i mesi successivi? Quanto dolore nella vostra vita?

R. Momenti drammatici, che non sono descrivibili perchè accompagnati da una incredulità pari solo alla violenza delle informazioni che giornali e tv – sponsor della procura napoletana - elargivano a piene mani. Enzo disse “mi è scoppiato dentro una bomba al cobalto”: quella bomba era il tumore che nel 1988 l'ha portato via. Tortora è morto di malagiustizia, così come Falcone e Borsellino sono morti di malavita. E in un Paese democratico, non è accettabile morire per colpa di un organo dello Stato, per mano di chi indossa la toga.

Craxi, Andreotti, Forlani, Cossiga. Con quali di questi Tortora aveva migliori rapporti e quali di essi si è speso di più per Enzo?  

R. Enzo era nel consiglio nazionale del PLI che all’epoca era forza di governo e i suoi referenti erano gli amici liberali. Fino a quando però hanno mostrato, fatta eccezione di Alfredo Biondi, la loro pavidità, la paura di perdere “posizioni” politiche. Fino a quando Pannella ha fatto quello che – credo – Enzo sperava facesse Valerio Zanone che del partito era il segretario: lo etichettò come il “farmacista di Pinerolo” perchè misurava l’agire politico con il bilancino dei milligrammi della convenienza. Poi, da Presidente del Partito Radicale, Enzo ebbe un buon rapporto con Bettino Craxi, il quale però – dopo il successo referendario sulla responsabilità dei magistrati - non capì subito l'importanza di rispondere con una buona e adeguata legge. Lo ammise poi, quando era già ad Hammamet. E fu colpito dalla fermezza con la quale Francesco Cossiga, all’epoca presidente della Repubblica e quindi del CSM, non strinse la mano a Felice Di Persia (il magistrato napoletano che insieme a Lucio di Pietro autore del caso Tortora) perchè, disse,  aveva perseguitato un uomo perbene.

D. A proposito di politica. Qualche bel ricordo della sua esperienza nell’Emiciclo?   

R. Sono stata eletta al Senato nel 1994, con la lista Marco Pannella. Era l’anno di Silvio Berlusconi, il quale aveva incantato tutti noi con la sua rivoluzione liberale tanto che Marco mi fece aderire al gruppo di Forza Italia. Era finita la prima Repubblica e iniziava la seconda ma si respirava ancora la cultura della politica, la competenza e la conoscenza in ogni campo. Ero seduta alle spalle di Giulio Andreotti e si stabilì subito un buon rapporto. Mi disse che su Enzo aveva sbagliato giudizio e, condividendo la battaglia radicale sui diritti dei detenuti, mi chiese di scrivere un pezzo per il mensile che dirigeva “30 giorni” proprio sulla condizione delle carceri. Nel 1996,  Alfonso Pecoraro Scanio, rappresentante dei Verdi, era Ministro dell’Agricoltura per il governo Prodi: era l'anno in cui la Francia faceva test nucleari nel mare della Polinesia e lui venne in Senato per denunciare le malefatte francesi, aprendo un dibattito di “guerra”. Aveva ragione. Ma Andreotti scuotendo la testa mi disse “tu pensi che i francesi si spaventeranno di queste denunce e minacce?”. E mi spiegò che per avere qualche ragione il ministro avrebbe dovuto perseguire le vie diplomatiche e non quelle mediatiche. Ho imparato molto da Andreotti, ma il vero amico – tra i vecchi della politica – fu Francesco Cossiga che con il suo parlare schietto condannava il blitz napoletano contro la Nco che aveva fatto strame del diritto e delle libertà costituzionali. Ancor più accusando un innocente come Tortora. Ero onorata di sedere negli scranni del Senato e di portare avanti, lì, nella Camera Alta, la mia battaglia nel nome di Enzo. Una grande fatica, scarsi risultati. Mi sembrava di correre su un tapis roulant... ma pur sempre una bella esperienza. Vedo oggi il dibattito politico e... mi rattristo. Un parlamento vuoto anche se affollato, senza cultura, senza visione, senza convinzioni. Con un dibattito politico simile alle chiacchiere dei bar tra le tifoserie della curva nord e quella sud. E allora penso di essere stata fortunata a vivere quella stagione.

Giudici. Andiamo ai giudici. Alcuni di loro, nonostante l’abbaglio che è costato la vita ad Enzo, hanno fatto carriera. E’ verità? E se sì è normale tutto questo? Come può accadere una cosa del genere e, per giunta, in un Paese occidentale che dovrebbe essere considerato faro di democrazia?

R. Canis canem non est. Dopo l’assoluzione in appello di Tortora i magistrati napoletani che avevano partecipato ognuno per il proprio incarico a condannarlo furono promossi sul campo. Felice Di Persia andò appunto al consiglio superiore della magistratura, Lucio Di Pietro conquistò la procura di Salerno, Luigi Sansone, che era stato presidente della corte di primo grado, andò a dirigere la quinta sezione della Cassazione e Diego Marmo, il pm che definì Enzo “cinico mercante di morte”, fu messo a capo della procura di Torre Annunziata. Nessuno ha pagato, anzi hanno avuto tutti una brillante carriera. E’ successo con Enzo. Succede ancora: nessun magistrato che sbaglia paga. Colpa anche di quella legge sulla responsabilità civile dei magistrati inadeguata quanto inapplicata. Ce lo dice anche l’Europa.

Quindi, secondo lei, oggi a livello giudiziario non è cambiato nulla. La “lezione” Tortora è servita a ben poco.

R. Al cimitero monumentale di Milano, una colonna “spezzata” conserva le ceneri di Tortora con una epigrafe “che non sia una illusione”, una frase presa dal ricordo che Leonardo Sciascia fece sul Corriere della Sera. Un auspicio che invece è una realtà. Nulla è cambiato. Il sacrifico di Enzo non è servito. Anzi oggi viviamo un momento in cui le garanzie, le certezze giuridiche, il principio costituzionale sulla presunzione di non colpevolezza, sono quotidianamente calpestati. Complici, una classe politica che non vuole contrastare la magistratura e una stampa che ha in Marco Travaglio il suo indiscusso leader.

La Francesca di ora si ritiene più una donna di sinistra o di destra? E in questo contesto nazionale come vede l’attuale situazione politica?

R. Sono una radicale: che non è solo il possedere una tessera ma un modo di vivere, di stare dalla parte del più debole, in difesa del diritto e della libertà. Una filosofia di vita che tutti, soprattutto chi ha responsabilità politiche, dovrebbe fare sua. L’agire per convinzione e non per convenienza. Il difendere lo stato di diritto e il rispetto di tutti gli uomini e le donne. Credo che oggi l’unico politico capace di riassumere queste battaglie sia Matteo Renzi.

Pandemia Covid-19. Ci vuole dire il suo pensiero? Come ha vissuto questo lungo periodo di chiusura?

R. Ho una mamma di 95 anni che continua a dirmi “non voglio morire di questo male”. E invece viene bersagliata da informazioni stampa che fanno davvero terrorismo psicologico. Tante parole, tanti provvedimenti molte volte discordanti. In ogni caso, come tutti gli altri, vivo rispettando le regole, usando tutte le cautele e le prudenze necessarie, anche e soprattutto per proteggere la mia “vecchietta”.

Progetti per il futuro?

R. Quando finirà il pericolo Covid, riprenderò le mie conferenze sulla giustizia giusta nel nome di Enzo Tortora. Fino a quando avrò fiato continuerò a parlare degli errori giudiziari, che sono tanti, che sono troppi, continuerò a denunciare le indecenti condizioni delle carceri italiane con il loro eccessivo carico umano di cui nessuno si preoccupa. Continuerò a incontrare ragazzi e ragazze che sono l'unica vera speranza per un futuro migliore. Il presente temo sia troppo contaminato.

Ci vuole lasciare con un ricordo particolare di Enzo o con un appello affinché non accada più quello che è accaduto a lui? 

R. “L'enormità delle accuse è accompagnata da una mostruosità procedurale inconcepibile. Ciò che a loro preme, a loro è 'indispensabile' è costruirmi delinquente. In ogni modo. Io sono la ragione stessa della loro immensa e stolida retata nazista. Ora devono giustificarla e avidamente cercano le prove. Prima le manette, poi le prove. C’è qualcosa di mostruoso in questo: e deve vedersi con tutta l’evidenza possibile. Altrimenti qui non cambia niente. Illuso? Sì. Don Chisciotte? Sì. Ma ormai è guerra, Francesca, e in vita mia non mi sono mai tirato indietro. La verità deve vincere: voglio vederla in piedi!” Questo il buon esempio che ci lascia Enzo Tortora. Questo il buon esempio da trasferire ai nostri figli e nipoti.

·        Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.

I 77 anni del sindacalista ed ex ministro. Il compleanno di Del Turco e quel buco nella (nostra) memoria. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Novembre 2021. Il compleanno di Ottaviano Del Turco, caduto quest’anno in una grigia domenica di novembre, viene celebrato con la sobrietà che impone la situazione: malato di Alzheimer, l’ex leader socialista è confinato nella sua casa a Collelongo, in provincia de L’Aquila. I rari sprazzi in cui torna a sorridere e a manifestare un barlume di serenità si hanno quando il figlio Guido, giornalista a Mediaset, mette l’inno più antico della tradizione progressista, l’Internazionale. È solo a quel punto che Del Turco torna tra i suoi, sorride, si guarda intorno e fischietta l’inno, ritrovandosi sulla scia delle note. “Abbiamo spento 77 candeline”, ci conferma Guido Del Turco, che si prende cura del padre tutti i giorni. Ma c’è poco da festeggiare. “Il quadro clinico è drammatico, e il peggio è che devo portare ogni volta i certificati medici al magistrato di sorveglianza”. A valle di una lunga e penosa vicenda giudiziaria, iniziata nel 2008, Del Turco – che per la cosiddetta “Sanitopoli” venne perfino arrestato e detenuto per 28 giorni nel carcere di Sulmona (AQ) – ha visto cadere una a una le accuse in Cassazione. Rimane la controversa fattispecie di “induzione indebita” per la quale è stata pronunciata una sentenza di condanna a tre anni e undici mesi. I fatti risalgono alla sua esperienza di presidente della Regione Abruzzo, tra il 2005 e il 2008. Prima ancora, da Senatore, era stato presidente della commissione antimafia. E il Senato ha finito per confermargli l’assegno della pensione dopo che l’affondo della Giunta di palazzo Madama, su input dei Cinque Stelle, aveva provato a bloccarne l’erogazione. Già segretario confederale aggiunto della Cgil, per la componente socialista, Del Turco è stato tra i primi ad occuparsi di politiche attive e dell’esigenza di introduzione di un reddito di cittadinanza. Vice di Luciano Lama, cui è stato legato da una lunga amicizia, incarnò la coscienza critica del Psi negli anni Ottanta. Al congresso di Rimini del 1987 si rivolse alla platea, insieme con Giorgio Ruffolo e Giacomo Mancini, mettendo in guardia dalla deriva della corruzione. Diventa segretario nazionale del PSI nel 1994, per due mesi. Il 12 novembre 1994 lascerà le redini di un partito messo nel mirino della magistratura che aveva deciso di spegnerlo a ogni costo. “Ma ancora oggi quando gli parlo di Bettino Craxi, come di Luciano Lama, vedo mio padre che si rianima, sorride, cambia lo sguardo”, ci dice il figlio. Parallelamente alla carriera politica, Ottaviano Del Turco è sempre stato particolarmente dotato e apprezzato come pittore: “la pittura è una medicina per l’anima”, ripeteva nei momenti più bui. Ha dipinto centinaia di tele, per lo più oggi conservate in Abruzzo. Chi ha avuto l’opportunità di conoscerlo quando era attivo nella Capitale lo ricorda in veste ciceroniana: amava raccontare la storia artistica e architettonica di tutti gli angoli di Roma, dai monumenti più celebri ai dettagli nascosti. Ed è stato di casa per quarant’anni nel più noto negozio di forniture artistiche del centro, in via del Gesù. Dall’acrilico agli acquerelli, usava tecniche diverse per ottenere la stessa resa: il colore per modellare le figure, per renderle vive. La luce per scacciare la tristezza. Nel giorno dei suoi settantasette compleanni, l’unico regalo che gli si può fare è quello di un ricordo pieno e corretto. Una buona memoria. Lui l’ha persa, e purtroppo un po’ anche noi.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

La decisione su Formigoni "erga omnes". Vittoria per Del Turco, il Consiglio di Presidenza prende atto della sentenza Formigoni: l’ex governatore mantiene la pensione. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Ottaviano Del Turco può conservare la sua pensione. Il fronte populista e manettare incassa una parziale sconfitta nella riunione del Consiglio di Presidenza di Palazzo Madama, dove è stata esaminata la revoca alla sospensione del vitalizio per l’ex governatore dell’Abruzzo. In Consiglio non si è giunti ad un accordo e, dopo due ore di scontri tra la presidenza e i membri del Movimento 5 Stelle, si è preso atto della decisione della Commissione Contenziosa di ieri sul caso Formigoni, col via libera alla pensione per l’ex numero uno della Lombardia: una decisione esecutiva erga omnes che annullava la delibera Grasso-Boldrini sullo stop al trattamento previdenziali ai parlamentari condannati. Per questo non sarà operativo, almeno per il momento, il taglio del vitalizio dell’ex sindacalista e governatore dell’Abruzzo, gravemente malato. A spiegare cosa è successo durante la riunione del Consiglio di Presidenza del Senato è Francesco Giro. “Oggi ci si è limitati a prendere atto di una sentenza emessa dalla cosiddetta Commissione contenziosa, l’organo giurisdizionale di primo grado del Senato, che accogliendo il ricorso dell’ex senatore Formigoni ha decretato la morte della delibera Grasso del 2015, che revocava il vitalizio ai condannati in via definitiva e ciò in forza di una sentenza della Cassazione a sezioni riunite che equiparando i vitalizi alle pensioni ne impedisce la revoca ai condannati, ma solo ai latitanti, cosi come accade per i pensionati e, aggiungiamo noi, per gli stessi percettori del reddito di cittadinanza”, ha spiegato il senatore di Forza Italia”. Effetti che, conferma Giro, “valgono erga omnes, per tutti, per Formigoni ma anche per Del Turco”. Quanto alla richiesta del M5S alla presidente del Senato Casellati “di promuovere rispetto l’amministrazione del Senato un ricorso alla sentenza Caliendo, è impropria perché solo il vertice della stessa amministrazione, nella persona del Segretario Generale, può impugnare il provvedimento in piena autonomia, sentita l’Avvocatura dello Stato. Personalmente non credo vi siano i presupposti per invocare i presupposti di autotutela del Senato rispetto ad una sentenza giuridicamente ineccepibile. Ricorsi temerari vanno assolutamente evitati”, chiosa Giro. Una decisione che ha fatto andare su tutte le furie i rappresentati del Movimento 5 Stelle. Lasciando l’Aula del Senato Paola Taverna ha annunciato che i pentastellati chiederanno di impugnare la sentenza della Contenziosa, che apre la strada all’annullamento di tutte le delibere del Senato, legate alla Grasso-Boldrini. “Abbiamo chiesto alla presidente Casellati di procedere con il ricorso, e con la sospensione della sentenza” su Formigoni, chiedendo l’intervento “del segretario generale, su richiesta del presidente”. Ironia della sorte vuole che lo sblocco del trattamento pensionistico per Formigoni approvato ieri dalla Commissione Contenziosa del Senato, decisione che di fatto permetterà a Del Turco di mantenere il vitalizio, è dovuto all’applicazione della legge del 2019 che istituisce il reddito di cittadinanza. Il ‘baluardo’ del Movimento 5 Stelle indica i cittadini a cui va sospeso il pagamento dei trattamenti previdenziali in coloro che, condannati in via definitiva per reati che non sono di stampo mafioso o terroristico, si siano resi latitanti o siano evasi. Commentando all’Ansa la decisione del Consiglio di Presidenza del Senato Guido Del Turco, figlio dell’ex senatore e suo amministratore di sostegno, ha spiegato che per ora “aspetta indicazioni”. Per ora “non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione formale. Ma trovo odioso continuare a chiamarlo vitalizio: quella di mio padre è una pensione a tutti gli effetti dopo aver pagato i contributi per 20 anni di attività politica”. Guido Del Turco ricorda, a proposito del mantenimento dell’assegno per effetto della validità "erga omnes" della sentenza su Formigoni, che “c’è una sentenza della Cassazione e la pronuncia di cinque costituzionalisti che equiparano il trattamento pensionistico ai vitalizi degli ex parlamentari. Quindi continuare a usare la parola vitalizio e farne una battaglia è solo una bandiera da agitare. Basterebbe leggere le carte anziché invocare legalità”. Quanto alle condizioni del padre, Del Turco spiega che attualmente “le sue condizioni di salute sono quelle di un uomo affetto da Alzheimer e Parkinson, al massimo riesce a fare quattro passi“.

Fabio Calcagni. (calcagni) Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Condannato Angelini, così l’accusatore di Del Turco "eliminò" l’ex governatore. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'1 Giugno 2021. La Corte di Cassazione ha condannato l’imprenditore Angelini, l’accusatore di Del Turco per aver sistematicamente manomesso i dati riguardanti la sua clinica allo scopo di aumentare i rimborsi che doveva ottenere dalla Regione Abruzzo. Il gravissimo errore di Ottaviano Del Turco è stato quello di mettere in discussione quel sistema, che era anche un sistema di potere e che quindi aveva connessioni con giornali locali, con giornalisti poi approdati al grillismo, e anche con esponenti della magistratura. In Calabria, come a suo tempo ha dimostrato l’assassinio di Francesco Fortugno, a bloccare chi voleva mettere in questione il sistema di potere della sanità interveniva la lupara a pallettoni. In Abruzzo il sistema – per usare una espressione resa adesso popolare da Palamara – era più raffinato: si fondava su una triangolazione tra imprenditori, alcuni giornali, alcuni magistrati che cavalcavano l’onda. Così Angelini architettò l’operazione tangenti al punto tale che fotografò in anticipo la busta che avrebbe portato al Presidente della Regione e invocò come prove le sue numerose uscite dalla autostrada che però coincidevano anche con l’abitazione della moglie e di una sua clinica. Poi Del Turco fu colpito alle spalle anche dal partito a cui aveva aderito dopo la fine del Psi. Già le sue origini socialiste erano di per sé un handicap. Poi qualche esponente del Pd di origine democristiana fu parte attiva nella operazione che aveva anche il pregio di liberare gli organigrammi interni mettendo addirittura a disposizione il posto poi ambito, cioè quello di Presidente della Regione. Invece la parte del Pd proveniente dal Pci non espresse alcuna solidarietà anche perché convinta, nel suo foro interno, che la natura antropologica dei socialisti era organicamente collegata con la corruzione. Così Ottaviano Del Turco è stato “cucinato” in una Regione dove appunto per eliminare l’avversario politico non viene usata la lupara a pallettoni ma quella mediatico-partito-giudiziaria. Poi, molto più recentemente, si è aggiunto il fanatico giustizialismo grillino nel cui repertorio c’è l’obiettivo della distruzione totale dell’individuo. Così a Ottaviano Del Turco, affetto da Alzheimer, da Parkinson e da un tumore, una persona che non riesce più neanche a parlare con suo figlio Guido, è stato anche contestato il vitalizio, una operazione in sé indegna, ma degna delle erinni che siedono al Senato, di un noto deficiente che siede alla Camera e dell’organo della Stasi. Fabrizio Cicchitto

La gogna continua...Travaglio si accanisce su Del Turco: “Prendeva tangenti, lo dimostra il telepass di Angelini”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Aprile 2021. Per una volta l’ha spuntata il diritto. E il Senato non ha obbedito ai 5 Stelle guidati da Marco Travaglio. È una cosa molto importante. Sia dal punto di vista del diritto sia dal punto di visto umanitario. Sul piano del diritto è stato affermato il principio secondo il quale il godimento della pensione è un diritto universale, e il principio secondo il quale le norme e le leggi non possono avere valore retroattivo, anche se chi ne verrebbe svantaggiato è un sindacalista o addirittura un politico. Il Senato ha detto che siamo nel paese di Calamandrei e non di Pol Pot. Sul piano umanitario si è preso atto del fatto che togliere la pensione e il principale strumento di sussistenza a un signore di ottant’anni molto malato, di cancro, di Alzheimer, di Parkinson, è una azione feroce incompatibile con la civiltà. Sono molto contento. Temevo che non sarebbe andata così. E il mio timore l’avevo espresso qualche giorno fa con un titolo indignato in prima pagina: “La Casellati ha deciso: Del Turco deve morire in povertà”. L’indignazione, credo, era giusta, il bersaglio sbagliato. Maria Elisabetta Casellati non era colpevole. Al contrario: credo che si sia battuta per sconfiggere le armate dei polpottisti e ha ottenuto il risultato. È stata più saggia di me. Spesso i politici sono più saggi e attenti dei giornalisti. Chapeau. Ieri sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio aveva dettato la linea ai suoi, chiamandoli a un ultimo atto di resistenza. Credo che Travaglio – che ha una origine politica e culturale fortemente di destra – sia travolto soprattutto da un forte odio antisindacale. Non sopporta Del Turco che negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, ha guidato il movimento operaio a conquiste importantissime. Salariali, di diritti, di democrazia. Non gli importa niente delle sue condizioni di salute: deve pagare, è un socialista. Nel suo editoriale di ieri Travaglio accusa Del Turco di avere preso tangenti per consentire all’imprenditore Angelini, proprietario di cliniche, di truffare lo Stato. E ha sostenuto che la prova provata delle tangenti sta nel telepass che per ben 19 volte ha registrato il viaggio di Angelini a casa di Del Turco, in Abruzzo. Non è così. La sentenza riconosce che Del Turco non ha recato alcun danno patrimoniale alla regione. Del Turco in realtà nel 2005, poi nel 2006, poi nel 2007 contestò ad Angelini una cinquantina di milioni di fatture gonfiate e denunciò la truffa. Altro che copertura a una truffa: l’esatto contrario. Ed è esattamente questa la ragione per la quale è stato messo in trappola. Angelini non gli ha perdonato lo sgarbo, che le giunte precedenti non si erano sognate di fargli, e lo ha accusato e travolto grazie a una magistratura un po’ pasticciona. Direte voi: e il telepass? Il telepass ha segnato il passaggio delle automobili di Angelini all’uscita autostradale di Celano. Celano è esattamente il casello dal quale si esce per andare a una delle cliniche di Angelini. Ovvio che Angelini facesse spesso quel percorso. La casa di Del Turco invece è lontana almeno mezz’ora da quel casello. Secondo Travaglio la prova della corruzione sta nel fatto che Angelini uscisse dall’autostrada a Celano. Vi rendete conto? Cosa gli si può dire a questo benedetto ragazzo? Potrei usare dei nomignoli ripresi tutti dal suo giornale. Benevolmente, dico. Per esempio “il bomba”. O il “Cazzaro giallo…”

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il figlio di Del Turco querela Travaglio: “Mio padre assolto, non ha mai preso un solo euro di denaro pubblico”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Per Ottaviano Del Turco il Senato decide oggi. Alle 12,30 torna a riunirsi il Consiglio di Presidenza di Palazzo Madama: la revoca alla sospensione del vitalizio per l’ex governatore dell’Abruzzo va oggi esaminata e deliberata, o respinta. Dopo una serie di rimandi, l’agenda parlamentare ha rimesso la questione al centro; i casi di Formigoni, dell’ex senatore Pd Forcieri e di Maria Fida Moro – tutti ben diversi tra loro – hanno dato fuoco alle polveri dei populisti. A Formigoni è stato sbloccato il trattamento pensionistico parlamentare, a norma di legge, e apriti cielo: a corto di argomenti, dilaniati dalla querelle tra Conte e Casaleggio, ai Cinque Stelle non è parso vero. E per 24 ore hanno riempito il web di insulti verso l’ex governatore lombardo, conditi dalle scandalizzate dichiarazioni di questo o quell’altro pentastellato. Travaglio scorge una breccia e sul Fatto quotidiano titola “Derubano la sanità e vincono il vitalizio” affidando al fiele di cui gronda il suo editoriale qualche parola di troppo. E qualche numero vistosamente gonfiato. Costringendo l’amministratore di sostegno di Ottaviano Del Turco, suo figlio Guido, sempre lontano dai riflettori, a presentare una querela tonda per diffamazione. Della chiamata in giudizio nei confronti del direttore del Fatto si occupa l’avvocato Gian Domenico Caiazza. Mentre il legale prepara le carte, il figlio dell’ex governatore, su tutte le furie, smentisce punto per punto la stilettata di Travaglio. «Nessuna sentenza osa addebitare a Ottaviano Del Turco di essersi impossessato di un solo euro di denaro pubblico destinato alla Sanità abruzzese, come invece falsamente titola il Fatto Quotidiano». «Mio padre – aggiunge – è stato assolto, nei vari gradi di giudizio, da tutte le originarie imputazioni per le quali fu arrestato con molti esponenti della sua Giunta (poi assolti anche essi), che lo accusavano di aver preso denaro (sei milioni e mezzo di euro) dall’imprenditore Angelini, asservendo la politica sanitaria regionale in favore delle ruberie predatorie di questo signore». «Sono rimaste incredibilmente in piedi, così salvando almeno la faccia di quella sciagurata inchiesta – prosegue – quattro ipotizzate dazioni di denaro (sulle 25 originariamente contestate) da Angelini a mio padre (per 850mila euro, non 850 milioni come invece scrive il Fatto), letteralmente senza alcuna causale». Il Fatto parlerà di una svista, come al solito. Il caso ci vede sempre benissimo, quando c’è una svista. Riprende Guido Del Turco: «Già che c’era, papà se ne approfittò: questa, per quanto strabiliante, la motivazione della residua condanna». «Condanna che tuttavia riconosce che quelle pretese “mazzette” (mai provate oltre le parole di Angelini) furono del tutto estranee alle risorse finanziarie della sanità pubblica. Dunque, nemmeno quella residua condanna, scandalosamente ingiusta ed oggi oggetto di ricorso per revisione, osa addebitare a Ottaviano Del Turco di essersi impossessato di un solo euro di denaro pubblico destinato alla Sanità abruzzese» conclude il figlio dell’ex governatore. Il Fatto d’altronde ha bucato la notizia che Angelini, l’unico accusatore di Del Turco, è stato appena condannato in via definitiva per truffa proprio ai danni della Sanità abruzzese, ed ha subìto il sequestro dell’intero patrimonio. Figuriamoci se Travaglio poteva andare a ricordare le dichiarazioni del giudice Nicola Trifuoggi ad avvallo dell’indagine: «Abbiamo trovato vagonate di prove schiaccianti su Del Turco», disse l’ineffabile Procuratore nel 2008. Nel 2012 andò in pensione senza mai averne prodotta neanche una. Anche su Formigoni, del resto, si cade in errore. Lo sblocco del trattamento pensionistico per Roberto Formigoni approvato ieri dalla commissione contenziosa del Senato applica la legge del 2019 che istituisce il reddito di cittadinanza e che indica i cittadini a cui va sospeso il pagamento dei trattamenti previdenziali in coloro che, condannati in via definitiva per reati che non sono di stampo mafioso o terroristico, si siano resi latitanti o siano evasi. «E questo non è il caso di Formigoni che sconta la sua pena ai domiciliari», dice una fonte vicina alla Commissione contenzioso, guidata dal senatore azzurro Giacomo Caliendo. Oggi si vedrà se il caso produce un’analogia per Del Turco. Nell’ultima riunione dell’organismo che presiede Palazzo Madama, M5s e Lega avevano fatto mancare il numero legale. La proroga del beneficio a Del Turco, malato e non autosufficiente, è sostenuta da Forza Italia, LeU, Italia Viva e Pd. È l’ultimo appello per rispondere al populismo giudiziario con l’argine di una umanità giusta.

I paradossi della giustizia. Angelini era un truffatore, le accuse contro Del Turco per vendicarsi? Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Il grande (e unico) accusatore di Ottaviano Del Turco – Vincenzo Angelini – era un truffatore. E le sue truffe furono smascherate da Del Turco. Secondo voi può avere qualche briciolo di credibilità un accusatore così? La Cassazione ha emesso la sentenza definitiva contro l’accusatore di Del Turco (otto anni di reclusione). La truffa per la quale è stato condannato fu scoperta dalla giunta Del Turco. Il quale, ad occhio, pagò cara la sua scoperta perchè finì affondato dalle accuse di Angelini, alle quali i giudici credettero, pur senza riscontri. Precisamente le cose stanno così. Siamo all’inizio degli anni duemila. Angelini è il re delle cliniche private dell’Abruzzo. Le sue cliniche sono convenzionate con la regione e la Regione spende moltissimi milioni per finanziarle. La Regione dovrebbe poi controllare se i servizi per i quali viene chiesto il rimborso da Angelini siano stati resti effettivamente. Nel 2004 ad Angelini le commissioni ispettive della Regione contestano 14 mila euro. Praticamente niente. L’anno successivo si insedia la giunta Del Turco che contesta ad Angelini 18 milioni di euro per il 2005, 23 milioni di euro per il 2006 e 23 milioni di euro per il 2007. Il danno è enorme. Angelini è furioso. Vuole vendicarsi? Non lo sappiamo. Sappiamo che Del Turco è diventato ormai il nemico numero 1 della Sanità privata. Non solo di Angelini. Sono in molti a volere che sia eliminato. Nel 2007 la giunta avvia le procedure per cancellare la convenzione ad Angelini, e dalle denunce della giunta partono le indagini che porteranno a processare Angelini per truffa ai danni della regione. Il processo ad Angelini però avverrà a Chieti, non a Pescara. Questo è l’antefatto dell’arresto di Del Turco, che avviene nel luglio del 2008. Come avviene? la Procura sta indagando sulla scomparsa di circa 50 milioni dai bilanci di Angelini. Convoca Angelini e il procuratore gli chiede dove siano finiti quei soldi. Angelini non sa rispondere. Gli viene chiesto se li ha dati a Del Turco e ad altri politici. Lui risponde di no, senza dubbi. Il Procuratore gli fa notare – risulta dal verbale di interrogatorio – che se è stato costretto a pagare i politici, per lui non c’è reato, è parte lesa. Gli consiglia di chiedere al suo avvocato, che queste cose le sa. E gli spiega che altrimenti si apre un’indagine sulla scomparsa dei 50 milioni. Angelini torna dopo 15 giorni (siamo nella primavera del 2008) e accusa del Turco. Lo ho pagato. In cambio di che? Mistero. Le dazioni di danaro (come si dice in gergo) sarebbero state una ventina. Non c’è nessuna prova. Solo l’accusa di Angelini che intanto, per colpa di Del Turco, sta perdendo varie decine di milioni e la convenzione con la regione. La difesa di Del Turco dimostra che una quindicina di queste dazioni non possono essere avvenute. Angelini, come prova delle sue accuse, potra una foto sfuocata dalla quale non si vede niente ma che dovrebbe dimostrare che lui andò a casa di Del Turco il 2 novembre del 2007 con una busta, e che la busta che entrò in casa piena di soldi e uscì piena di mele. Le immagini non provano niente, ma c’è l’autista di Angelini che dice che sì, è così. Anche se lui non ha visto i soldi né le mele. La maggior parte dei reati attribuiti a Del Turco cadono nei vari gradi del processo, resta solo questo dei soldi e delle mele, che è diventato reato di induzione. Voi dite: non ci saranno le prove, ma almeno c’è una ricostruzione logica. La ricostruzione logica è questa: Del Turco il 2 novembre del 2007 avrebbe preso dei soldi da Angelini per favorire le sue cliniche, e a fine anno la Regione governata da Del Turco ha cancellato ad Angelini un credito di 23 milioni e avviato la fine della convenzione. Vedete bene che di logico non c’è niente. E vedete bene che questa ricostruzione, che fino a ieri poteva essere semplicemente una ricostruzione giornalistica, da ieri è una ricostruzione giudiziaria in piena regola, dopo la condanna di Angelini per truffa. Però resta Travaglio, che di tutte queste cose sa niente, che insiste a dire che Del Turco, che è stato tra i capi più prestigiosi del movimento operaio italiano, è un tangentaro. E resta il consiglio di presidenza del Senato che insiste a volergli togliere la pensione, travolto da una furia di ideologia antisindacale. Viene un po’ di rabbia, no?

L'ex governatore subisce da quindici anni un patibolo fatto di accuse infamanti. Condanna definitiva e sequestro dei beni ad Angelini, il grande accusatore di Del Turco. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Aprile 2021. Il grande accusatore di Ottaviano Del Turco, Vincenzo Angelini, è stato condannato in Cassazione a una pena definitiva di 8 anni per truffa ai danni della Regione Abruzzo. Regione allora rappresentata dal governatore Del Turco, che si vide additato con un castello di accuse mai provate, favoleggiando uno scambio di denaro mai riscontrato, di cui non c’è mai stata traccia. Per Del Turco non si è ancora fatta giustizia, ma intanto il suo unico accusatore si rivela, stando alle conclusioni dei magistrati, un uomo dalla condotta criminale. La suprema Corte di Cassazione, che ha l’ultima parola, ha definitivamente accertato come quelle di Angelini verso la Regione, in tema di rimborsi per le prestazioni sanitarie effettuate dalle sue cliniche private, fossero truffe belle e buone. Che però hanno fruttato capitali di cui Angelini godeva ancora fino a questa mattina. Aveva infatti la disponibilità di diversi beni, nonostante la condanna definitiva a 8 anni di reclusione per la bancarotta milionaria del suo gruppo imprenditoriale e la vendita, avvenuta negli anni scorsi, di beni mobili e immobili, compresa la casa di cura Villa Pini, oltre a quadri e opere d’arte di grande valore. A Vincenzo Angelini, magnate della sanità privata abruzzese che con le sue dichiarazioni fece finire in carcere nel 2008 l’allora presidente della Regione Ottaviano Del Turco, questi beni sono quelli confiscati, fra ieri e oggi, su disposizione del procuratore capo della Repubblica di Chieti, Francesco Testa. Beni per oltre 32 milioni di euro tra immobili, opere d’arte e gioielli. I Carabinieri, incaricati di eseguire la confisca che riguarda un appartamento a Chieti, due a Pescara e una villa a Francavilla al Mare (Chieti), hanno trovato anche oggetti in argento, altre opere d’arte il cui valore è da stimare, oro e pietre preziose. Tutti i beni via via prelevati e confiscati sono portati in un luogo che viene tenuto sotto stretta sorveglianza. Negli anni scorsi alcuni beni mobili dell’imprenditore erano stati misteriosamente sottratti da un grande garage, mentre molte delle opere d’arte sequestrate furono vendute da una casa d’aste di Roma nell’ambito della procedura fallimentare. All’asta, per 31 milioni, fu venduta la casa di cura ‘Villa Pini’ di Chieti. Attualmente Angelini sta scontando in detenzione domiciliare, per motivi di salute, la condanna per bancarotta fraudolenta, ma con l’ultima pronuncia della Cassazione, che ha reso definitiva la condanna per truffa, diventa esecutiva anche la pena detentiva. Per Ottaviano Del Turco, che subisce da quindici anni un patibolo fatto di accuse infamanti, le conseguenze sul piano della salute psico-fisica sono state pesanti. Difficile stabilire in quale misura la vita devastata di un innocente possa essere compensata dai suoi carnefici, che non si limitano in questo caso al solo Angelini ma anche agli esecutori materiali delle sue indicazioni. Sul piano della responsabilità civile dei magistrati il referendum del 1988 rimane largamente inapplicato.

I populisti fanno muro. Caso Del Turco, “Grillini e leghisti saranno contenti solo quando sarà morto?”. L’accusa di Cicchitto. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Vitalizio fa rima con supplizio: ancora un rinvio, l’ennesimo, dal consiglio di presidenza del Senato per decidere se revocare o meno il vitalizio a Ottaviano Del Turco. Un rinvio che arriva dopo un’ora di animato confronto nell’organismo che governa il Senato: Lega e Movimento Cinque Stelle hanno contrastato veementemente l’ipotesi del ripristino della pensione per l’ex Senatore e leader sindacale, oggi affetto da gravi patologie psico-fisiche. Per la non-autosufficienza ad Ottaviano Del Turco è stato affiancato come Amministratore il figlio Guido, e al riconoscimento formale delle autorizzazioni e dei certificati era stato consacrato l’ultimo bimestre del consiglio di presidenza. Sul Riformista Giuliano Cazzola ha ben messo in luce gli effetti della sentenza Onida, con cui si conferma l’irrevocabilità del diritto al trattamento pensionistico, che per gli ex senatori corrisponde al vitalizio. Il senatore Calderoli non si è convinto e si è presentato in consiglio di presidenza deciso al tutto per tutto pur di tagliare i fondi all’ex governatore abruzzese. Lega e M5S contrari, Pd, Leu e FI a favore, Italia Viva e Fratelli d’Italia assenti per malattia dei senatori Nadia Ginetti e Ignazio La Russa: si fosse andati al voto – in quell’ufficio di Presidenza, uno vale uno – avrebbe prevalso il buon senso e si sarebbe ripristinato l’assegno negato. Per tattica parlamentare, quando si è in minoranza e il numero legale balla, c’è un solo modo per uscirne senza essere sconfitti: rovesciare la scacchiera a terra e uscire dall’aula. Facendo venir meno il numero legale, si rimanda tutto. Quello che Calderoli ammette così: «Quello che dovevamo decidere lo abbiamo fatto al consiglio di Presidenza precedente e di conseguenza abbiamo abbandonato il consiglio di oggi». Le reazioni del fronte umanitario sono forti. «M5S e Lega saranno contenti solo quando sarà morto? Il M5S non ci sorprende perché hanno vissuto per anni solo di manette e forca, ma che facciano i moralisti quelli della Lega è incredibile. Lo Stato è ancora alla ricerca dei famosi 49 milioni e ancora non sappiamo cosa abbiano combinato Savoini e compagni all’Hotel Metropole ma loro fanno una battaglia frontale per l’eliminazione del vitalizio di Del Turco, una persona annullata dall’Alzheimer e che versa in condizioni economiche tali che solo il figlio giornalista può aiutarlo. Assurdo», dichiara Fabrizio Cicchitto, Riformismo e Libertà. E l’ex capogruppo al Senato del Pd, Andrea Marcucci, va giù dritto: «Va soppressa la revoca del vitalizio ad Ottaviano Del Turco. Mi rifiuto di pensare che qualcuno, come Lega e M5S, non sia d’accordo con un atto di umanità indifferibile». Anche la vicepresidente Dem del Senato, Anna Rossomando, parla di «una ragione prevalente, con motivi umanitari eclatanti, che permette di intervenire a favore della proroga dell’assegno a Del Turco, immutato l’impianto delle delibere Grasso-Boldrini». La senatrice articola il ragionamento: «Mi sembrava coerente con il discorso umanitario – responsabile del settore diritti del Partito democratico – la formulazione del provvedimento del giudice, che assegna a Del Turco l’amministratore di sostegno, certifica le difficilissime situazioni di salute dell’ex esponente del Psi, persona che non è in grado di provvedere a se stesso in alcun modo». Italia Viva sarà auspicabilmente presente martedì 13, togliendo ogni alibi dal tavolo e imponendo di assumere una decisione che ai numeri vedrebbe ripristinare l’assegno all’ex leader socialista. Quanto all’assenza di La Russa, le voci sono contrastanti. «Non condivide la posizione di Giorgia Meloni», sibilano dagli uffici di Fdi al Senato. «Non condivide l’apertura della presidente Casellati su Del Turco», sostiene un altro. E dato che la Casellati ha deciso di non decidere sul Copasir, Fratelli d’Italia si mette di traverso sull’ufficio di Presidenza. Le ragioni umanitarie possono attendere, insomma. Fino a martedì. «Considero profondamente ingiusta la sospensione del vitalizio a Ottaviano», fa sapere Teresa Bellanova, sua compagna di lotte sindacali. È lei a ricordare l’impegno di Del Turco con la Cgil; nel 1968 fu lui a lanciare la battaglia a favore degli operai a basso reddito, guarda a volte come gira a vuoto la ruota della vita.

L'odio per i sindacalisti. Feroce campagna di Travaglio contro Del Turco: l’ex sindacalista malato di Alzheimer, cancro e Parkinson. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Aprile 2021. In un corsivetto pubblicato, a sua firma, sul Fatto Quotidiano, Marco Travaglio si è scagliato di nuovo contro Ottaviano Del Turco. Spiegando a un lettore, che si stupiva delle difficoltà economiche di Del Turco, che in realtà tutta questa storia è solo una balla del Riformista. Del Turco, 78 anni, ex numero 2 della Cgil, poi parlamentare, ministro e presidente della Regione Abruzzo, e che è malato di Alzheimer, di cancro e di Parkinson, spiega Travaglio, in realtà ha un reddito di oltre 90 mila euro all’anno col quale sopravvive benissimo e oltretutto dispone di proprietà immobiliari per circa 290 mila euro. E perciò non si capisce perché il Senato non dovrebbe togliergli il vitalizio sulla base della norma Grasso che prevede la perdita del vitalizio (cioè della pensione) anche in spregio alla Costituzione. Allora bisogna provare a far capire a Travaglio quella questioncella delle sottrazioni e di come funzionano (si studiano in seconda elementare, ma alcuni bambini non le studiano e passano subito allo studio delle manette). Dunque, il reddito attuale di Del Turco è effettivamente di 92 mila euro lordi, che equivalgono a 63 mila netti. Però se gli levi la pensione da parlamentare, che ammonta a 45.500 euro, ne restano solo 23 mila. Cioè 1700 euro mensili. Quanto alle proprietà immobiliari consistono in una casetta a Collelongo, Abruzzo, suo paese natale, dove ora vive perché non si può permettere una casa a Roma, e che vale 90 mila euro circa. Voi dite: ma se Marco non sa la matematica, poco male, a te che ti frega? Mi frega, perché quel corsivetto vale per tutti i senatori 5 Stelle come “ordine” al quale attenersi. E anche per molti altri deputati che ormai su questi temi si allineano obbedienti ai soldati di Grillo. E dunque difficilmente si troverà nell’ufficio di Presidenza del Senato (che l’8 aprile decide) qualcuno così coraggioso da sfidare il corsivo di Travaglio, nonostante i pesanti errori di aritmetica. Quel che colpisce è la capacità di odio che si sprigiona dalla persona del direttore del Fatto. Contro un cristiano malatissimo e povero. Il suo grido: punitelo, punitelo, punitelo! Perché? Pura e semplice incontenibile ferocia, o anche il vecchio sentimento di furore contro i capi operai, i dirigenti sindacali, sempre odiati dai reazionari e dai forcaioli?

Il paese di Gramsci e don Sturzo in mano a dei piccoli Pol Pot? Vaffa della Casellati a Del Turco, la presidente si piega al ricatto dei grillini. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Ha dichiarato Guido Del Turco, figlio di Ottaviano: “Occorre sempre avere il massimo rispetto verso l’alta istituzione del Senato e del suo ufficio di presidenza…”. Beh, io dico di no, caro Guido. Non ho proprio nessun rispetto per gli autori di una mascalzonata. Sono indignato con la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati e con tutto il consiglio di presidenza di Palazzo Madama. Lei e loro – se ho capito bene – si sono piegati – forse a malincuore ma si sono piegati – al ricatto odioso e all’ignoranza dei 5 Stelle, hanno deciso di togliere la pensione a Ottaviano Del Turco e di condannare uno dei capi storici del movimento operaio e sindacale italiano a morire in una condizione di povertà. È una farabuttata, un insulto alla politica, alla democrazia, al sindacato, alla storia della Repubblica e anche al buonsenso. Ottaviano Del Turco ha quasi ottant’anni, ha delle malattie gravissime tra le quali l’Alzheimer, il Parkinson e un tumore, non ha i milioni da parte, vive delle sue due pensioni, quella da sindacalista e quella da parlamentare. Quella da sindacalista è di 1700 euro al mese. È bene che si sappia, visto che in questa epoca di populismo sfacciato e becero chissà cosa si crede: uno dei maggiori capi del movimento sindacale del dopoguerra ha raggranellato una pensione di 1700 euro. E ora dovrà sopravvivere, e curarsi, e pagare infermieri e personale di sostegno, con questi 1700 euro perché il Senato – in un empito di alta etica grillesca – gli ha tolto la pensione alla quale aveva pieno e sacrosanto diritto. Gliel’ha tolta perché Del Turco è stato condannato per una vicenda la cui assurdità ha recentemente spiegato molto bene, su queste colonne, l’avvocato Caiazza. Del Turco, quando era presidente della Regione Abruzzo, ha fatto la guerra alle speculazioni e alle nefandezze della sanità privata. La sanità privata – una parte della sanità privata – gliel’ha fatta pagare usando la forza di sopraffazione di una parte della magistratura. Del Turco è stato incarcerato, perseguitato, sottoposto a un assurdo processo. Quasi tutte le accuse sono cadute ma ne è rimasta in piedi una, sommamente ingiusta (e tutti coloro che hanno seguito la vicenda sanno quanto siano ingiuste quella accusa e quella condanna) e ciò è stato sufficiente perché un Parlamento travolto dal populismo folle dei grillini decidesse che se ne sbatte della Costituzione repubblicana e che toglie la pensione al suo ex senatore. Nessuno ha fatto le barricate per impedire che questo avvenisse. Una vigliaccata. Ottaviano Del Turco è stato un grande personaggio nella lotta politica e nella costruzione della Repubblica. È nato in Abruzzo, quando era ancora in corso la guerra. Suo padre lavorava in una cava di marmo e faceva il capo partigiano. Era povero. Da ragazzino Ottaviano se ne andò a Roma e iniziò a fare il sindacalista quando i suoi coetanei andavano a scuola e al Piper. Del Turco era socialista, è diventato molto giovane il punto di riferimento dei socialisti nella Cgil, è stato tra i protagonisti dell’autunno caldo, con Trentin, Lama, Carniti, Macario, Benvenuto. Non sapete cos’è l’autunno caldo? Sono quei mesi di fine anni Sessanta nei quali la classe operaia e il movimento dei lavoratori sferrarono un attacco micidiale contro il sistema ancora antico della “macchina padronale” e la disarticolarono, trasformando il vecchio e polveroso e autoritario capitalismo italiano in un sistema più libero, dove i lavoratori avevano più spazio, più diritti, più salari, più istruzione. Eravamo nel 1969, fu la grande stagione operaia che durò almeno fino al 1972 e poi proseguì per tutti gli anni 70. I sindacati impressero una spinta formidabile alla modernizzazione dell’Italia, forse ancora di più dei partiti politici. Del Turco era lì, alla testa della Cgil. Poi continuò il suo impegno, anche combattendo e dissentendo con gli altri leader sindacali. Si schierò fieramente con Craxi nel 1984, insieme a Carniti, quando ci fu la battaglia sulla scala mobile, ma restò sempre al suo posto, vicino a Lama, a Trentin. Nello stesso periodo c’era un ragazzetto un po’ più giovane di lui che provava a fare i soldi facendo il commerciante e poi l’attore di cabaret. Si chiamava Beppe Grillo. Ebbe successo nelle sue iniziative. fece effettivamente tanti soldi. Certo, non partecipò in nessun modo alla battaglia per rinnovare l’Italia, per renderla un paese giusto. ma non è obbligatorio sacrificare la propria vita per amore della politica. È assolutamente facoltativo. Oggi Del Turco viene condannato alla povertà da un Parlamento che prende ancora ordini da quel signore: Beppe Grillo. Li prese quando dimezzò le pensioni dei deputati, abolì il finanziamento dei partiti, tagliò il numero dei parlamentari, decise di punire in modo feroce chi fosse finito sotto il maglio della magistratura. E oggi, ancora, ha paura di lui. Non osa sfidarlo, in nome della vecchia tradizione democratica e sindacale di questo paese. Lascia Del Turco alla mercè dei 5 Stelle. Permette che uno dei maggiori esponenti della democrazia italiana sia messo alla gogna. Che vergogna. E io dovrei avere rispetto di questo Senato pauroso e ignorante? No, no, è impossibile. P.S. Ieri sera, dopo le prime reazioni alla decisione della Presidenza del Senato, è stato convocato l’ufficio di presidenza per l’8 aprile. Ci sarà un ripensamento? Ci sarà finalmente qualcuno che alzerà la voce e spiegherà, anche ai 5 Stelle, che differenza c’è tra un padre della Repubblica e uno che vale uno? Non ci spero molto, però….

La decisione illegale. La pensione a Del Turco non può essere revocata, Casellati ha violato la legge. Giuliano Cazzola su Il Riformista l'8 Aprile 2021. Oggi il Consiglio di Presidenza del Senato è convocato per riprendere l’esame e decidere (?) su quello che ormai è divenuto il “caso Del Turco”, ovvero se sarà confermata la revoca del vitalizio ai sensi della delibera Grasso-Boldrini del 7 maggio 2015 o se prevarranno non solo dei palesi motivi umanitari in ragione delle condizioni di salute dell’ex presidente della Regione Abruzzo (per ricordare solo l’ultimo incarico ricoperto da Del Turco), ma anche un ripensamento su di un provvedimento – assunto in regime di autodichia e in clima di caccia alle streghe – indegno del Parlamento di uno Stato di diritto. Che Del Turco sia gravemente malato, che soffra di diverse patologie invalidanti, credo sia ormai noto a tutti tranne che a lui, perché nella sua casa di Collelongo vive, assistito dai famigliari, non più padrone di se stesso. La sua mente vaga nella nebbia di un oblio che, nella situazione in cui è costretto, appare persino più compassionevole dei suoi carnefici. La vicenda giudiziaria di Ottaviano è riassumibile in un decennio di processi iniziati con accuse di reati gravissimi ognuno dei quali veniva rimosso ad ogni grado ulteriore di giudizio, fino ad essere condannato in via definitiva a tre anni e 11 mesi di reclusione per un reato – “induzione indebita a dare o promettere utilità” – che al momento dei fatti (2006-2007) non faceva parte del codice penale, essendo stato previsto come distinta fattispecie dalla famigerata legge Severino del 2012. È bene notare, a questo punto, un dato di fatto che ha la sua rilevanza: nella sentenza nessuna delle pene accessorie riguardava la sospensione o la revoca del vitalizio. Trattandosi di una sentenza passata in giudicato le sacrosante critiche, che essa meriterebbe, possono trovare una sede idonea in un’aula di giustizia, se i difensori di Ottaviano riusciranno a ottenere una revisione del processo, come hanno richiesto. La questione del vitalizio è una storia a sé che trova un preciso riferimento nella delibera Grasso-Boldrini del 2015. Vediamo la norma nel testo della Camera: «È disposta la cessazione dell’erogazione dei trattamenti previdenziali erogati a titolo di assegno vitalizio o pensione a favore dei deputati cessati dal mandato che abbiano riportato, anche attraverso il patteggiamento a) condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale (mafia e terrorismo) e dagli articoli da 314 a 322-bis, 325 e 326 del codice penale (reati contro la P.A. come peculato e concussione); b) “condanne definitive con pene superiori a due anni di reclusione per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a sei anni, così determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale”». Il caso Del Turco rientra nelle fattispecie indicate nella lettera a). Peccato – ne prenda nota il Consiglio di Presidenza – che il reato di “induzione” non sia indicato né come fattispecie né come articolo (319 quater c.p.). Infatti le indicazioni specifiche del “peculato” e della “concussione” devono essere considerate tassative. Se poi si volesse sostenere che prima di trovare una definizione specifica, l’induzione fosse inclusa nella concussione (da cui venne estrapolata dalla legge Severino) è doveroso ricordare che da quel reato Ottaviano Del Turco è stato assolto dal suo giudice naturale nel corso del suo calvario processuale. Questa potrebbe essere una motivazione, ineccepibile sul piano giuridico, che il Consiglio di Presidenza di Palazzo Madama potrebbe adottare oggi per il caso Del Turco. Poi sarebbe opportuno ed equo riesaminare la delibera, in modo che non possa fare altri danni. In questi giorni ho cercato di documentarmi il più possibile sulla dolorosa vicenda del mio amico. E mi sono imbattuto – su Internet – in un autorevole parere pro veritate del presidente emerito della Consulta Valerio Onida (recante la data del 18 marzo 2018 ovvero poco prima che la delibera dei due presidenti fosse assunta) con il titolo “Sulla legittimità costituzionale di misure di revoca del vitalizio ad ex parlamentari condannati per determinati reati”. Onida, in via preliminare, riteneva necessario porsi la questione della ratio di un provvedimento siffatto, domandandosi se la revoca o la sospensione: a) fossero un’ulteriore sanzione per il reato commesso e a esso conseguente; b) riguardassero un beneficio concesso unilateralmente e “graziosamente” dallo Stato la cui motivazione venisse a mancare nel momento in cui cessasse l’onorabilità del beneficiario; c) derivassero da una nuova normativa relativamente ai requisiti. Il parere poi prendeva in esame ognuna di queste causali con dovizia di argomenti (il documento è di ben 19 pagine) arrivando alle seguenti conclusioni per ciascuna di esse. Se si tratta di pene accessorie, esse devono essere disposte dall’autorità giudiziaria con la sentenza di condanna (il che nel caso Del Turco non è avvenuto); ma tali sanzioni non possono riguardare i trattamenti di natura previdenziale obbligatoria, ma solo eventuali benefici concessi unilateralmente per motivi che vengano meno in caso di sopraggiunta indegnità. Nel parere, poi, vi era una approfondita disamina delle caratteristiche del vitalizio e della sua equiparabilità – pure nella differenza di origine e di funzione – a un trattamento di pensione. Il che – in quel contesto normativo – ricopriva un significato dirimente proprio per escludere che si trattasse di una sorta di “benemerenza gentilmente concessa” e quindi revocabile. Quello degli aspetti previdenziali è un filone interessante da approfondire, perché tra la delibera del 2015 e la sua applicazione sul vitalizio di Del Turco, la prestazione “vitalizio” ha mutato natura giuridica. È indubbio, infatti, che la natura previdenziale della prestazione sia approdata a riferimenti più sicuri dopo la riforma dei vitalizi degli ex parlamentari (con delibere di ambedue le presidenze nel 2018), ricalcolati con un metodo contributivo (benché discutibile nei criteri adottati) proprio per rafforzarne – si disse – il carattere di pensione. La giurisprudenza consolidata ha escluso persino che le prestazioni di carattere assistenziale siano revocabili a fronte di certi reati di particolare gravità (anche di mafia e terrorismo). È veramente singolare che una sanzione siffatta sia comminata nel caso di un trattamento pensionistico obbligatorio in cui – in una qualche misura – vi sia un sinallagma tra la prestazione e la contribuzione versata, adottato sia pure con qualche forzatura proprio per eliminare il carattere di “concessione privilegiata” per lo status di parlamentare. Così, la trasformazione in senso previdenziale del carattere della prestazione – soggetta alla revoca – disposta nel 2018, potrebbe costituire un motivo per rivedere la delibera del 2015, in nome dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se la pensione è un diritto soggettivo (addirittura può essere pignorabile o ceduta solo in parte); se la retorica populista – anche attraverso un algoritmo de noantri – ha preteso che anche gli ex parlamentari avessero la pensione “come gli altri cittadini” (in realtà finendo per operare una discriminazione ai loro danni, perché gli ex parlamentari sono gli unici a cui è stata ricalcolata la pensione/ex vitalizio, col criterio contributivo), anche nella follia non stonerebbe un po’ di logica. E un po’ di vergogna.

Fino a quando l'Italia perseguiterà i socialisti? “Il linciaggio morale ed economico di Ottaviano Del Turco è insopportabile”, intervista a Bobo Craxi. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 6 Aprile 2021. Il “caso Del Turco” e quel “fine pena mai” che sembra una condanna politica, e in molti casi anche persecuzione giudiziaria, per chi, come l’ex segretario della Cgil, è stato socialista. Socialista italiano. Quello che Bobo Craxi, già sottosegretario di Stato agli affari esteri con delega ai rapporti con l’Onu nel secondo governo Prodi, consegna a Il Riformista è un appassionato j’accuse tra riflessione politica e testimonianza personale.

“La Casellati ha deciso: Del Turco muoia in povertà”. È il titolo-denuncia del Riformista che racconta l’ultima vigliaccata nei confronti di un uomo gravemente malato. Qual è il segno storico-politico di una vicenda che va oltre una dimensione umanitaria?

È il segno evidente di una lunga ed ostinata persecuzione nei confronti degli esponenti socialisti. A mia memoria non esiste in Europa nessun gruppo dirigente di partito democratico che abbia subito un ostracismo ed una persecuzione di questa natura in modo così prolungato nel tempo. Vicende giudiziarie hanno spazzato via il PSI ed i suoi dirigenti, perseguitati ora persino per l’ottenimento di un vitalizio come è accaduto nel caso di Ottaviano. Ad esso si aggiunge un isolamento politico prolungato nel tempo e l’imbarazzante occupazione dello spazio socialista da parte di forze politiche e di uomini politici che non hanno nulla a che vedere con la storia del movimento socialista passato e moderno. Io, a questo proposito, ritengo che sia stato un errore aver concesso il glorioso simbolo del PSI per consentire un gruppo parlamentare ai renziani. La gloriosa storia del nostro partito non può essere un mezzo per dare un ruolo ed uno stipendio ai professorini rottamatori della Leopolda. Per non parlare di personalità politiche di limpidissima tradizione democristiana o addirittura extraparlamentare che occupano in Europa posizioni apicali per nome e per conto del Partito Socialista. Va detto una volta per tutte: la Storia della DC ed anche quella del PCI sono state storie alternative e financo antagoniste della socialdemocrazia italiana ed europea. Non mi pare ci sia stato grande revisionismo ideologico in quei settori tranne il vezzo di esemplificare con il termine riformismo tutto ciò che appare compatibile con la sinistra di Governo; francamente veramente poco.

Nel suo articolo di commento, il direttore di questo giornale ha posto una domanda che le giro: “Possibile? Il partito erede di Gramsci e don Sturzo in mano a dei piccoli Pol Pot” pentastellati?

Questo è un problema che riguarda il PD.  La vocazione a restare sempre e comunque nell’ambito governativo ha piegato il Partito ad accettare un rapporto subalterno con i populisti. Errore grammaticale serio perché anche in Spagna il Psoe governa con i populisti ma con un rapporto di forza svantaggiato per questi ultimi. Nel caso italiano inoltre abbiamo l’anomalia di un movimento che è divenuto l’architrave del sistema e che è riuscito a perdere più di 100 parlamentari nel corso della legislatura.  E nonostante questo ha messo sotto scacco alternativamente la destra e la sinistra; la scelta di perpetuare rendendola  “organica” l’alleanza con i populisti è un errore perché l’anomalia della popolocrazia va contrastata ricostruendo il tessuto politico e sociale dei partiti. Galleggiando sull’onda d’urto delle forze anti-sistema il quadro politico non riuscirà a curare le proprie ferite ed apre le strade a nuove avventure. Non si tratta di un fenomeno stagionale ma di un vero e proprio virus inoculato nel tessuto democratico occidentale contro il quale, in questo caso sì, non é stato scoperto alcun vaccino. Solo una riforma istituzionale in senso presidenziale può mettere un freno allo strapotere delle forze anti-sistema che sono maggioritarie nel paese. L’unico vero contrappeso democratico è il rilancio della più alta carica dello Stato.

Perché nell’Italia alla perenne ricerca di un “salvatore” della patria e che innalza l’avvocato Conte a leader del centrosinistra, la parola “socialista” è diventata impronunciabile anche nel “nuovo PD” di Enrico Letta?

Perché la “damnatio memoriae” ha generato il peggiore dei luoghi comuni che neanche una storiografia più oggettiva ha saputo modificare. C’è peraltro una sorta di invidia sotterranea verso la nostra storia, e verso i nostri possibili collegamenti internazionali che rimangono intonsi. Tutti i compagni socialisti in Europa e nel mondo sanno che si sono presentati al loro cospetto degli impostori e che la Storia del socialismo italiano è una storia drammatica perché narrata dai vincitori. Fino a che noi rimarremo in vita ci batteremo per rovesciare questo stato di cose ed eviteremo che il Movimento di Conte apolide e populista chieda asilo al socialismo europeo di cui noialtri siamo membri fondatori.

I conti con la storia non si fanno in un’aula di tribunale. Eppure per molti dirigenti socialisti non è stato così. È una ferita destinata a restare perennemente tale?

Si, fino al momento nel quale i rapporti di forza non cambieranno. Se nel Senato della Repubblica avessimo potuto contare su un consistente gruppo politico e sufficientemente agguerrito, le assicuro che al vecchio segretario della CGIL non avrebbero tolto la pensione. Io avrei occupato fisicamente l’ufficio della sig.ra Casellati che nella sua vita politica non potrà mai vantare del prestigio politico di nessuno di noi sopravvissuto della storia socialista in Italia. Il Tribunale dei fatti assegna sempre il torto o la ragione; é difficile non analizzare quanto sia attuale e rispettato nel mondo il movimento socialista. Per questo io ritengo che anche dalla vicenda di Del Turco dobbiamo trarne una lezione ed una ragione di lotta politica. Per protestare vorrei recarmi al Quirinale con il segretario del partito. Questa vicenda non è un’offesa solo alla persona, al compagno, al sindacalista ma è un affronto alla Storia collettiva che ha riguardato milioni di persone in questo paese che va rispettata e maneggiata con il rispetto che merita.

La pandemia ha incrociato due anniversari storicamente e politicamente assai significativi: il centenario della nascita del Pci e il ventennale della morte di Bettino Craxi. Guardandoli dal suo osservatorio, politico e personale, cosa l’ha colpita di più?

Il carattere emergenziale del nostro tempo ha impedito di enfatizzare due passaggi significativi della Storia della Sinistra Italiana. Il tempo della riflessione e della revisione é maturo, ma la politica e la società hanno, legittimamente, uno sguardo rivolto altrove. L’anno dell’anniversario della scomparsa di mio padre tuttavia esordì sorprendentemente bene, il film di Amelio e la stessa interpretazione di Favino hanno suscitato un interesse che definirei nazional-popolare facendo uscire dall’angusta antinomia furfante-statista in cui avevano confinato la figura di Bettino Craxi. Mi ha fatto molta impressione la curiosità delle giovani generazioni, quelle scevre dal rapporto diretto con la prima repubblica che non hanno fatto in tempo a conoscere e con la democrazia fondata sulla centralità dei partiti ideologici. É stata una scoperta. Ciascuno ha catturato un suo brandello di vita politica per ergerlo ad icona, ora della socialdemocrazia europea, ora della difesa della sovranità nazionale (pensando a Sigonella) e del pensiero euro-critico da non confonderle con quello Anti-europeista. Questo rincuora coloro che ritengono che la stagione del riformismo socialista mantenga una sua vitalità trattandosi di un pensiero “lungo” adattabile ai nostri tempi. Io penso che sia così.

Il presente politico dell’Italia è sotto il segno di Mario Draghi. Al momento della formazione dell’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce, si sono sprecati, soprattutto sulla stampa mainstream, le definizioni: “Un governo di alto profilo”, “il governo dei migliori” e via celebrando. Cosa rappresenta per lei non tanto la figura di Draghi quanto l’operazione politica che sottende l’attuale governo? E a proposito di definizioni, qual è la sua?

Il governo è di emergenza nazionale ed ha sottratto alla polemica politica quotidiana la gestione di questa situazione catastrofica. Indubbiamente si è riposta una vasta speranza su Draghi pensando che egli potesse suscitare nuove passioni. È un governo a tempo che deve limitarsi a completare il piano dei vaccini e ad allocare le risorse a disposizione. Draghi ha guidato organi di controllo bancario, non ha mai presieduto istituzioni politiche. Nonostante il prestigio di cui egli gode il salto di qualità auspicato per il momento non c’è stato. Ma non ci sarà. In Europa viene misurata l’Italia, e l’Italia denuncia ritardi e distanze antiche che non possono essere ridotte dalla sola presenza di Mario Draghi che peraltro non appartiene a nessuna delle famiglie politiche riconosciute in Europa. Il resto purtroppo lo sta facendo lui non senza evidenziare la sua approssimazione politica; mi ha abbastanza stupito la sua partecipazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Vaticano. Credo uno dei sistemi giudiziari più arretrati del Mondo ordinati dal potere assoluto del Papa. Più che una gaffe l’ho considerata un’ingenuità che però denuncia una certa fragilità di consistenza politica. Dopodiché questa fase passerà e bisogna prepararsi per tempo per dare al paese un assetto politico convincente e soprattutto duraturo.

Giampiero Mughini per Dagospia il 24 febbraio 2021. Caro Dago, ti confesso che nutro una curiosità malsana per l’antropologia di quei giornalisti o intellettuali (o presunti tali) che si schierano con tale accanimento da una parte e sempre quella sostengono ad alta voce se non proprio furiosamente. E tanto più che per quanto mi riguarda, non solo io non sostengo più alcuna parte ma spesso quando inizio un ragionamento non so esattamente come lo finirò, e questo da quanto le cose di questo mondo sono divenute complesse, tutto fuorché monocromatiche. Prendiamo gli amici del “Fatto”, un quotidiano che io leggo sempre con piacere anche se le sue posizioni tantissime volte non sono le mie, o meglio quelle che pressappoco sono le mie. Loro sono a favore del ritiro del vitalizio ai parlamentari che abbiano ricevuto una condanna definitiva. Beninteso, non che io mi opponga a questa loro posizione. C’è che qualche volta le cose sono più complesse. Come nel caso di Ottaviano Del Turco, che da sindacalista socialista nella Cgil è stato un mio amico importante, nel senso che io reputavo importante il “riformismo” che Ottaviano predicava e attuava nel concreto del suo lavoro politico, a cominciare dalla sua sacrosanta posizione ai tempi del famoso referendum sui quattro punti di scala mobile, il referendum che Bettino Craxi ebbe il coraggio di affrontare a viso aperto e di vincere, ed è stata una delle battaglie storiche del riformismo moderno. Era un tempo in cui Ottaviano è stato umanamente e politicamente per me una stella polare, anche in ragione del nostro comune amore per le arti del Novecento. Poi accadde quello che sapete. Che Ottaviano venisse gravemente imputato di corruzione, di avere intascato dei soldi da qualcuno i cui interessi aveva poi smaccatamente favorito. Non si può leggere tutto, non ho mai letto una riga di quegli atti processuali. C’è il fatto della condanna definitiva. C’è il fatto che conoscessi e stimassi un magistrato che si era occupato in prima persona di quei processi e che mi diceva che la colpevolezza di Ottaviano era lampante. Naturalmente non ho mai scritto una riga sull’argomento né ho mai cercato Ottaviano per ascoltare la sua versione dei fatti. Non ce l’ho fatta, troppo forte era la lama che si era conficcata nel mio cuore per il fatto di temere che un mio caro amico avesse “tradito” quel che pensavo di lui. Naturalmente sapevo anche delle condizioni di salute di Ottaviano, che si erano fatte molto difficili. Da cui la drammatica delicatezza della questione se ritirargli o meno il vitalizio, e cioè se sì o no rendergli più difficile la lotta contro i suoi mali. Che dire? E’ troppo difficile, non ci ho mai provato e non ci provo da quanto risulta impervio usare o non usare sull’argomento una parola in più o in meno. Naturalmente in cuor mio vorrei che la sorte di Ottaviano fosse un po’ meno dolorosa, dall’altra capisco che la norma sul ritiro dei vitalizi a chi è stato giudicato colpevole è una norma oggettiva del nostro ordinamento repubblicano. Detto questo neppure sotto tortura scriverei un articolo contro la decisione presa dal Senato, quella almeno al momento di mantenere il vitalizio. Neppure sotto tortura scriverei un articolo come quello che è uscito oggi sul “Fatto” in una sua pagina interna. Un articolo di tale ferocia, di tale violenza, di tale accanimento contro Ottaviano. E non lo dico perché sono stato un amico di Ottaviano e che non lo rinnego affatto. Lo dico solo da essere umano che non ha da pontificare in nome di una parte. In nome di un fanatismo che riduce tutto al bianco contro il nero, ossia a ciò che non esiste in natura.

Da Il Fatto Quotidiano il 24 febbraio 2021. Il Senato continuerà a erogare il vitalizio a Ottaviano Del Turco. Nonostante già da due anni abbia perso diritto a percepirlo per via della condanna definitiva legata alla Sanitopoli abruzzese. La decisione è stata presa dal Consiglio di presidenza guidato da Maria Elisabetta Alberti Casellati. Una decisione presa in realtà per continuare a versare l'assegno nonostante le regole parlino chiaro e non conoscano eccezioni, nemmeno nel caso di grave malattia come quella che affligge l'ex dirigente sindacale della Cgil poi parlamentare per il partito socialista, indi ministro delle Finanze, eurodeputato e infine governatore dell'Abruzzo: in caso di condanna per reati di particolare gravità (Del Turco è stato riconosciuto colpevole di aver preso mazzette da un imprenditore proprietario di cliniche) la revoca del vitalizio è automatica. E invece no. "Il Consiglio di Presidenza è aggiornato in attesa della nomina da parte del giudice dell'amministratore di sostegno" è la formula approvata con i voti di Pd, Italia Viva, Forza Italia e Lega, mentre i 5 Stelle si sono espressi per la revoca dell'assegno. Una soluzione che spunta come un coniglio dal cilindro, a leggere le carte inviate dal figlio di Del Turco, Guido. Che nella sua interlocuzione con la Presidenza del Senato aveva scritto di aver avviato "su vostra sollecitazione la procedura presso il tribunale di Avezzano per diventare amministratore di sostegno". Guarda caso. Ormai da molte settimane Guido Del Turco scrive al Senato, ma solo ora si scopre che non aveva alcun titolo per farlo. Eppure, allegato al fascicolo che riguarda suo padre, agli atti di Palazzo Madama, compare una sua lettera in cui risponde ad alcune sollecitazioni dell'ufficio di presidenza del Senato rispondendo, per esempio, a chi gli chiede come abbia fatto lo scorso anno suo padre a firmare la dichiarazione dei redditi e, addirittura, la richiesta di divorzio da sua moglie, pur essendo tanto malato. Allo stesso modo, sempre Guido Del Turco ha vergato una nota difensiva in cui già a dicembre 2020 compare come procuratore speciale di suo padre quantificando le necessità economiche dell'ex senatore in "almeno 3.500 euro al mese". Intanto l'Isee di Ottaviano Del Turco ammonta a oltre 137mila euro. Può contare su un reddito di 92mila euro, ma anche su un discreto conto in banca (circa 65mila euro) e un patrimonio immobiliare personale da oltre 254mila euro.

L'accanimento del giornale di Travaglio. Caso Del Turco, il Fatto Quotidiano prova a intimidire i senatori. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. Un’azione squadrista è sempre una brutta azione. Anche se si tratta di squadrismo mediatico. Diventa particolarmente spiacevole quando la vittima designata non può difendersi proprio in nessun modo. Stavolta la vittima è Ottaviano Del Turco, uno dei più importanti sindacalisti del dopoguerra. Uno di quelli che cinquant’anni fa guidò la famosa riscossa operaia del 1969, impaurendo la borghesia più conservatrice, e ottenendo clamorose conquiste a favore dei lavoratori. Oggi è malato: ha quasi ottant’anni, un tumore, l’Alzheimer in fase molto avanzata. Del Turco ha due pensioni e vive con quelle. Una da sindacalista e una da senatore. Quella da sindacalista è di 1700 euro al mese (è stato il numero 2 della Cgil nazionale per molti anni: faceva parte proprio della crema della casta sindacale). Quella da senatore (3.400 euro) è più alta e rappresenta la sua sicurezza economica. Ora il Senato vorrebbe levargli la pensione da senatore perché ha subìto una condanna a tre anni di prigione. La Cassazione deve ancora pronunciarsi sulla richiesta di revisione del processo. È stato condannato senza prove, (anche senza indizi: l’unico indizio è la foto di un cesto di mele), tenuto a lungo in carcere, la sua carriera politica è stata stroncata, e anche la sua vita. Il suo accusatore dice di avergli dato sei milioni. Poi sono diventati 800 mila euro. Nessuno mai ha trovato traccia di questo tesoretto. Non c’è. Forse erano tangenti virtuali… Ieri il Senato avrebbe dovuto pronunciarsi definitivamente sul ritiro o no della pensione, dopo che una prima decisione (ritiro) era stata accolta con sdegno da un pezzetto del mondo intellettuale, e politico, e liberale, e democratico della repubblica. E perciò era stata sospesa. Alla vigilia della decisione definitiva, il Fatto Quotidiano ha fatto partire l’azione squadrista. Con un articolo (firmato, immagino, da un nome di fantasia perché è difficile pensare che l’abbia scritto proprio una persona in carne e ossa e anima) nel quale fa i conti in tasca a Del Turco (sbagliandoli e facendolo apparire più ricco di quello che è ) e sostiene che uno con tutti quei soldi non è affatto indigente. Perché – sostiene il Fatto – c’è tanta gente che vive “con 460 euro al mese e non fa tante storie”. Testuale. Il Fatto sostiene che Del Turco dovrebbe accontentarsi di 460 euro al mese e ringraziare pure. È chiaro che l’articolo è stato scritto per influenzare la decisione dei senatori. Una specie di intimidazione. Visto che si sa che i leghisti sono molto incerti se aderire alle posizioni fasciste dei 5 Stelle o restare nel campo democratico. La decisione comunque è stata spostata al 9 febbraio. Resta la sensazione di sgomento di fronte alla campagna di odio antisindacale, così personalizzata, scatenata da uno dei più importanti giornali italiani.

Il racconto. Il calvario di Del Turco: perseguitato, umiliato e offeso. Carlo Troilo su Il Riformista il 20 Dicembre 2020. Sono stato amico (oltre che corregionale) di Del Turco fin dai tempi della mia giovinezza. Fra i mille ricordi, ne cito solo uno: il fatto che Ottaviano, il giorno in cui si insediò alla Presidenza della Regione Abruzzo, fece approvare come prima delibera quella che concedeva il sostegno alla nascita della Fondazione Brigata Maiella, che tuttora opera per tener vivo il ricordo dei partigiani di mio padre. Nel luglio del 2006 Ottaviano doveva presenziare, con Franco Marini, alla intestazione a mio padre della piazza principale del suo paese natale, Torricella Peligna. Non venne e solo la sera sapemmo che era stato arrestato e rinchiuso, a Sulmona, in quello che all’epoca veniva chiamato “il carcere dei suicidi” e lì trattato come il peggiore dei criminali. Vergognosamente, nessuno – nei partiti di sinistra e nel sindacato – ebbe il coraggio di reagire. Fui l’unico – con un ampio articolo sul Messaggero Abruzzo – a prendere apertamente le sue difese. Il seguito è una storia atroce di malagiustizia, con un procuratore – Nicola Trifuoggi – che dopo pochi anni lasciò la Magistratura e tentò, con modestissimo successo, la carriere politica, mentre Del Turco, dopo anni di processi per una serie di imputazioni gravissime, fu condannato solo per il reato di induzione indebita. Ma pagò a caro prezzo quegli anni interminabili, ammalandosi di cancro, di Parkinson e di Alzheimer. Ora, l’ufficio di presidenza del Senato ha deciso di togliere a Del Turco la pensione (il cosiddetto vitalizio) secondo una legge del 2015, per le vicende giudiziarie risalenti al 2006: una decisione “fuori tempo”, inspiegabile e spietata, che speriamo possa essere definitivamente revocata anche grazie a un intervento del Presidente della Repubblica, di cui sono noti l’equilibrio e l’umanità. Faccio appello a lui, ricordando che il 25 aprile del 2018 egli volle celebrare la Liberazione in Abruzzo, visitando fra l’altro il Sacrario della Brigata Maiella, di cui Del Turco fu sempre un sostenitore, fino a far intestare l’Aula Magna della Presidenza della Regione a mio padre, che ne fu il fondatore e il comandante, ed al suo vice comandante.

Ottaviano Del Turco, un nuovo caso Tortora: perseguitato, isolato e offeso. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 9 Dicembre 2020. Era il 14 luglio del 2008. Le agenzie, le radio e le tv diedero la notizia che, all’alba, era stato arrestato, insieme ad altri, il Governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco. Allora io ero un deputato, appartenente ad un partito diverso da quello di Del Turco. Ma non esitai ad alzarmi in Aula – per anni nel più totale isolamento – per esprimergli tutta la mia solidarietà e la ferma convinzione della sua totale estraneità ai fatti di cui era accusato. Ottaviano ed io ci conoscevamo, allora, da 40 anni (oggi è trascorso mezzo secolo), durante i quali non c’era stata tra di noi soltanto una stretta collaborazione negli incarichi ricoperti all’interno della Cgil, ma anche un forte legame di amicizia, di frequentazione personale e familiare. Il procuratore che lo aveva incarcerato lo ricoprì, nella solita conferenza stampa, di accuse infamanti. Affermò che della sua colpevolezza esistevano prove “schiaccianti”. Ma io non fui mai sfiorato dal minimo dubbio (il cuore ha delle ragioni che i codici non conoscono) e, in tutti gli anni successivi, nella ricorrenza del 14 luglio, ho continuato a chiedere la parola in Aula e ad affidare agli atti le mie attestazioni di solidarietà. Ottaviano del Turco è stato un grande sindacalista, appartenuto a quell’Olimpo degli eroi di cui hanno fatto parte nomi indimenticabili come Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e tanti altri che hanno fatto la storia del sindacato (e del Paese) nella seconda metà del secolo scorso. Probabilmente, questi nomi, che a me ricordano tanti anni di vita vissuta intensamente, non dicono quasi nulla oggi. Del Turco è soltanto un ex parlamentare, malato di cancro e di altre patologie invalidanti, a cui è stato congelato il vitalizio perché condannato in via definitiva da una Corte di Giustizia. Ma chi è, che cosa è stato e ha fatto Ottaviano Del Turco? In una delle Lettere morali a Lucilio, Lucio Anneo Seneca così scriveva: «Tutti i momenti che appartengono al passato si trovano in un medesimo spazio: si vedono su di uno stesso piano, giacciono gli uni insieme con gli altri, tutti cadono nel medesimo abisso. E d’altra parte lunghi intervalli non possono sussistere in una realtà (la vita, ndr) che è breve nel suo insieme». È così anche per quanto riguarda il rapporto tra me ed Ottaviano: i ricordi si presentano tutti insieme e in una sola volta. Innanzi tutto, Del Turco è abruzzese. Il suo paese natale si chiama Collelongo. Ci si arriva per una strada che finisce lì. Eppure, per lui quella località sperduta è sempre stata molto importante. Colà aveva scelto il suo “buon ritiro” (una bella casa ristrutturata con cura), che si è trasformato nel suo carcere. È nota la sua attività di pittore: una passione che ha retto persino alla prova degli anni difficili della politica. E, purtroppo, ad eventi dolorosi più recenti. Prima che la malattia prendesse il sopravvento anche sul pennello, la tela e la tavolozza. Più piccolo di una numerosa squadra di fratelli, Ottaviano (il nome è legato al posto occupato nella saga familiare) seguì i più grandi quando andarono a cercare lavoro a Roma. I maschi avevano preso dal padre Giovanni ed erano tutti socialisti. Ottaviano scoprì giovanissimo la politica, anche come mestiere, nella Federazione romana del Psi. Chiusa l’esperienza nel partito andò a lavorare al sindacato e, dopo una breve permanenza all’Inca (il patronato della Cgil) si trovò alla Fiom durante l’autunno caldo. A suo onore va detto che non appartenne mai (chi scrive ne fu invece tentato) alla combriccola dei “giovani turchi”, abbacinati dai fasti di quella stagione, che pensavano fosse venuta l’ora dell’assalto al Palazzo d’Inverno del potere. Fu sempre attento ai rapporti con la Confederazione. Da moderato, non fu mai ben visto completamente nella Fiom, al punto di essere sostanzialmente emarginato (forse si fece estromettere volentieri) dalla gestione della vertenza Fiat del 1980, benché ricoprisse il ruolo di segretario generale aggiunto. Aveva delle intuizioni felici. Fu il primo, nel sindacato, a sollevare il problema dei quadri e dei tecnici e ad individuare l’esigenza di soluzioni contrattuali specifiche per queste categorie. La cosa sollevò un mezzo scandalo, come sempre accadeva (e accade) in Cgil quando qualcuno inventava soluzioni nuove. Ma Del Turco non sarà ricordato per la sua particolare capacità di approfondire le questioni di merito, anche se la legge del contrappasso ha voluto che, alcuni decenni dopo, diventasse titolare del Dicastero più tecnico e complicato che esista (le Finanze). Del resto, da un vero leader nessuno pretende una conoscenza particolareggiata del sistema dei ticket sanitari. È stato, però, uno dei primi sindacalisti a capire l’importanza dei media. E a comprendere, soprattutto, che una buona intervista (come aveva insegnato Luciano Lama), magari su La Repubblica, valeva di più (anche sul piano interno) di un articolato documento, scritto in sindacalese e votato da un organismo sindacale dopo ore di discussione. Durante gli incontri col Governo o qualche importante trattativa il suo vero pezzo di bravura si svolgeva quando l’incontro stava per concludersi. Riusciva sempre ad andarsene pochi minuti prima. Scendeva in sala stampa – praticamente da solo – e veniva accerchiato da un nugolo di giornalisti brandenti microfoni, taccuini e telecamere (allora i sindacalisti erano ascoltati). E dava il suo giudizio sull’incontro. Poi, quando scendevano le delegazioni al gran completo, i colleghi tenevano lunghe conferenze stampa, nelle quali venivano illustrati meticolosamente tutti gli aspetti del negoziato. Ma l’incipit era il più delle volte suo, come sue erano le prime riprese che andavano in onda nei telegiornali e le classiche tre parole che, nella società della comunicazione, mandano al macero intere biblioteche. Proveniente dalla Fiom, entrò nel 1983 in segreteria confederale e divenne subito “aggiunto” di Lama. La sorte volle che Del Turco si trovasse a gestire la “grande rissa” tra comunisti e socialisti del 1984 e 1985 sulla scala mobile, dopo il decreto di San Valentino. Lo fece con molta fermezza e tanto equilibrio, in tandem con Lama. E sempre con molta attenzione all’unità della Cgil. In quegli anni, circolarono addirittura alcune leggende metropolitane secondo le quali a Del Turco era stato offerto di diventare il segretario di un costituendo sindacato democratico (Cisl + Uil + socialisti Cgil), ma Ottaviano non prese mai in considerazione tale ipotesi (peraltro confermata in un libro di Pierre Carniti, pubblicato postumo). L’atteggiamento di lealtà tenuto in quel periodo gli valse un grande rispetto da parte dei comunisti (i quali erano molto meno settari, al dunque, dei loro eredi di oggi, finiti nella Legione straniera del Pd o sparpagliati in qualche gruppetto nostalgico di ex socialisti). Basti pensare che Del Turco divenne, negli anni successivi, uno degli oratori ufficiali ai funerali dei leader del Pci (a partire da quello – solenne e solennizzato – di Enrico Berlinguer). Ottaviano, negli ultimi tempi trascorsi in Cgil, era sempre meno interessato all’attività sindacale. Da tanto attendeva che dal partito gli venisse fatta una proposta. La sua maggiore aspirazione sarebbe stata la presidenza della Rai. Ma Craxi taceva. La sua grande occasione si presentò tra il 1992 e il 1993, nel pieno di Tangentopoli. Craxi non era ancora inquisito, ma ormai si era capita l’antifona: sarebbe stato sufficiente attendere qualche settimana, poi la questione socialista si sarebbe trasformata in un problema giudiziario. Claudio Martelli faceva la fronda (il suo slogan, rivolto a Craxi, era: «Un segretario non può diventare il “problema” del suo partito»). Ottaviano si schierò con lui, sia pure su di una linea leggermente diversa. Si mise ad andare il giro per l’Italia a riunire i sindacalisti socialisti all’insegna dell’appello al capo supremo: il partito è inquinato, Craxi faccia pulizia (e magari con l’aiuto di qualche sindacalista autorevole). Intanto, dopo i dissensi con Trentin in merito all’accordo triangolare del luglio 1992, per Del Turco l’aria si era fatta stretta in Cgil. Decise di forzare i tempi ed annunciò che se ne sarebbe andato, anche senza avere altri incarichi a disposizione. Era il marzo del 1993. La maggioranza del partito, poche settimane prima, gli aveva reso un grave affronto, scegliendo Giorgio Benvenuto, quale segretario al posto di re Bettino. Come Cincinnato, Ottaviano si ritirò a Collelongo. Intanto la situazione si deteriorava. Dopo qualche mese Benvenuto passò la mano, in polemica col vecchio gruppo dirigente che, a suo dire, non voleva farsi da parte. Ma in verità non volle prendere a mano la situazione amministrativa che Giorgio considerava disperata. Venne così il momento di chiamare Del Turco alla segreteria. Ottaviano si accinse a guidare i resti del Psi con molta fiducia in se stesso e girando in lungo e in largo l’Italia. Ma ormai non c’era più nulla da fare. L’anno dopo, toccò a lui condurre lo scontro decisivo con Craxi e vincerlo. Quando era già troppo tardi. Dopo aver lanciato Enrico Boselli alla guida di ciò che restava dello Sdi, Del Turco divenne parlamentare e ministro. Ritrovò posto sui media e la figlia gli regalò due bei nipotini. Soprattutto, svolse un ruolo assai positivo da presidente della Commissione antimafia, contro l’abuso dei pentiti ed una certa maniera disinvolta di amministrare la giustizia. Poi fu parlamentare europeo, e infine candidato vittorioso del centro sinistra alla presidenza della Regione Abruzzo. In quel ruolo divenne vittima di un clamoroso errore giudiziario che ne ha provocato l’arresto, le dimissioni, l’ostracismo e una condanna passata in giudicato dopo una lunga trafila processuale. Dicono che un Paese è libero quando i cittadini onesti, sentendo suonare il mattino presto alla porta di casa, pensano che sia il lattaio. Probabilmente anche Ottaviano Del Turco, esattamente il 14 luglio del 2008, si chiese come mai il lattaio passasse ad un’ora antelucana in quel giorno destinato a diventare uno dei più drammatici della sua vita. Invece, aprendo ancora assonnato il portone dell’abitazione di Collelongo, trovò i militari della Guardia di Finanza che gli intimarono di raccogliere un po’ di biancheria e lo condussero nel carcere di Sulmona a rispondere di un’imputazione pesante e disonorevole per un uomo politico, come la corruzione. Chi scrive conferma la convinzione più volte manifestata in tante sedi che Del Turco fosse completamente estraneo alle accuse, tanto da ripetere, con la persecuzione giudiziaria subita, un nuovo “caso Tortora”. Da allora, Del Turco è divenuto un uomo isolato e ignorato dal suo partito, dimenticato da tutti tranne che dai familiari e dagli amici, ferito nei sentimenti più intimi, escluso da quella politica attiva che ha rappresentato per decenni la sua ragione di vita. Fino ad essere oggetto di un abuso: la privazione di quelle risorse (il vitalizio) che consentono ai suoi cari di curarlo e di assicurargli di sopravvivere con dignità. Ma le sue condizioni di salute non gli permettono neppure di dire ai Maramaldi che lo hanno pugnalato: «Vili! Uccidete un uomo morto».

·        Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.

Roberto Maroni "si è ammalato di tumore al cervello": Renato Farina e il sospetto sulla "persecuzione dei pm". Renato Farina su Libero Quotidiano il 09 maggio 2021. Ieri Roberto Maroni, dalla sua abitazione di Lozza (Varese), si è lanciato in un grido di gioia e di rabbia, ma solo con dita e tastiera, perché non è bene si agiti chi è in cura per un tumore al cervello. Ha scritto su Facebook: «Dopo 7 anni di tormento tutte le accuse strampalate contro di me sono finalmente cadute ed è emersa la verità: non ho mai abusato del mio ruolo di governatore della Lombardia. Chi in questi anni ha coperto di fango me e i miei collaboratori dovrebbe solo vergognarsi e chiedere scusa». La cosa nuova, e bella, è che l'ex ministro dell'Interno e governatore emerito della Lombardia si riaffaccia al mondo, dopo la delicata operazione del gennaio scorso, non per la propria personale assoluzione, quella è già stata certificata con la formula più ampia nello scorso novembre dalla Cassazione, ma per la conclamata innocenza di una sua collaboratrice sentenziata dal Gup in rito abbreviato. Maria Grazia Paturzo era intervenuta al processo come testimone, essendo parte dello staff di Maroni, e aveva osato negare di essere amante del suo capo, secondo lo stereotipo da commedia all'italiana che vige meno al cinema ma a quanto pare va forte nei Tribunali. Falsa testimonianza! A processo!, e al diavolo il rispetto dell'intimità altrui. Il filone principale del processo riguardava un viaggio a Tokyo (mai svoltosi) e le pressioni per dare un contratto ad un'altra signora in un istituto collegato con la regione. Maroni e diversi collaboratori furono condannati in primo e secondo a Milano. Sentenza ribaltata a Roma, pieno onore agli imputati, dopo oltre sei anni di torture. Che avevano portato Maroni a non ricandidarsi, come sarebbe stato scontato, alla guida della Lombardia. Restava questo serpente grigio. Assoluzione per la Paturzo con la formula-macigno «perché il fatto non sussiste» lo ha finalmente spiaccicato. Ma quel serpente grigio era già entrato nel cervello di Maroni. Dopo anni di titoli, accuse, udienze, condanne al carcere per sé e i propri consiglieri additati come farabutti e venduti, il tutto dovendo lottare contro fantasmi di accuse ridicole, alla fine può venir giù tutto, le difese in Cassazione vincono, ma quelle interiori alzano le mani, vieni avanti tumore, mangiami. Oltretutto stavolta c'era da lottare contro il fantasma anguillesco di accuse ridicole. Ferito però Maroni ieri si è rialzato. Un comandante è così, un leader politico deve avere questa dignità: sentire addosso il peso delle colpe addossate alla sua squadra, dispiacersi per le pene proprie ma più ancora per quelle altrui.

COMBATTENTE. Maroni resta candidato sindaco per Varese, elezioni a settembre. Non vuole arrendersi. Al tumore, ovvio, sa già che, a 66 anni, dovrà combattere per decenni, ma sa che tanti ce la fanno e vuole essere se stesso. Soprattutto però la sua è una testimonianza e insieme una sfida. Sta in piedi. Anche se gli è stato imbastito contro un processo fotocopia del primo, stavolta non libera il posto inchinandosi al potere intimidente dell'apparato tribunalizio. Anche stavolta c'è di mezzo un presunto beneficiato e un'altra presunta amante. Rinviato a giudizio, come l'altra volta. La prima udienza del processo era programmata per il 28 aprile, ma è stata rinviata a luglio per l'incombenza di quella massa anomala già operata. Niente da fare, Roberto resta lì, a combattere, su tre fronti, che elenco in ordine di cattiveria dell'avversario: giudiziario, sanitario, politico. Il difensore di Maroni, Domenico Aiello, è impietoso e impetuoso: «C'è voluta la Cassazione per dire la parola fine lo scorso novembre a una sequenza di fatti e atti che - con la sentenza della Suprema Corte in mano - mi viene da definire se non persecutori male orientati sin dall'inizio. Un preconcetto ideologico che ha portato a una raccolta di vociferazioni da comari. Immondizia senza sostanza giuridica. Non si è trattato di errorini, di qualche sbaglio nella qualificazione del reato, di interpretazioni dubbie, ma di una catastrofe, altrimenti la Cassazione non avrebbe assolto Maroni & C. senza rinvio del processo a Milano». Anche stavolta l'amante... Qui Aiello sbotta:«Guardassero i magistrati le vicende sentimentali che proliferano e determinano carriere nei loro corridoi, invece di fantasticare su quelle altrui, esplorandole come fossero la Santa Inquisizione. Santa di che? Ieri una Gup coraggiosa ha tolto definitivamente il sasso di mano ai lapidatori dell'adultera». Non c'era bisogno delle rivelazioni di Luca Palamara a Sandro Sallusti per sapere - dice Aiello - come non siano tanto i codici e la coscienza a determinare certe indagini. «Queste cose nei tribunali sono arcinote, ma il manto delle toghe copre pudicamente tutto». Ovvio che abbia ragione Matteo Salvini a dare una scossa risanatrice al sistema ormai corrotto fin nei vertici, a dispetto di tantissimi magistrati onesti ed equilibrati. Non è dall'interno che si può sperare un cambiamento tale da determinare una ripresa di fiducia nei cittadini che oggi, con una percentuale dell'88 per cento (vedi Libero di ieri), lo ritengono inaffidabile e ingiusto. 

PROCURE A SENSO UNICO. Sappiamo bene che per diritto divino la procura di Milano è affidata da decenni a Magistratura democratica, la corrente più di sinistra della magistratura. Ovvio che per devozione ambientale, sudditanza psicologica, non per malafede, ma per l'inerzia del gioco delle correnti togate, la giustizia abbia un occhio strabico e qualche volta inventivo specie a Milano contro gli oppositori politici. Questo abbiamo scritto a proposito delle inchieste su Attilio Fontana, e i magistrati hanno ricorso legittimamente alla querela. Ma come si fa a non essere critici davanti a storie come queste? Si ripetono ossessivamente accuse, le ipotesi di reato, sceneggiatura, cambiando solo i nomi delle figurine tranne quella di Maroni. È l'ineluttabilità del rito ambrosiano cui il leghista ha dedicato un libro. L'uomo sa scrivere. Parla benissimo della sua applicazione sociale e persino politica. Ecco cosa sostiene al capitolo 9 dal titolo «I cecchini della politica»: «Quando viene applicato in magistratura, il rito ambrosiano sconta un difetto molto grave: in linea generale non ha come risultato l'accertamento della verità, ma quello di mettere in piedi un processo sommario e violento, che porta all'inevitabile distruzione della dignità e della reputazione della persona coinvolta, alla sua condanna immediata emessa da giornali e tv, ancor prima che l'interessato riceva l'avviso di garanzia». Aggiunge: «Ho le spalle larghe, ho sopportato l'ingiustizia senza far casino, ma so che a tante persone innocenti questi abusi rovinano la vita. I magistrati che sbagliano dovranno essere chiamati a rispondere, prima o poi. Nell'attesa che questa politica esca dal letargo, con alcuni amici di buona volontà stiamo mettendo in cantiere iniziative interessanti ed ambiziose». Il referendum non è male. In attesa che un Parlamento sonnacchioso trovi il medesimo coraggio di Maroni nella sua dura convalescenza.

·        Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Il memoir sulla città. Terra nostra, Bassolino racconta il calvario giudiziario: “Dopo le assoluzioni anche il Pd tornò a parlare”. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2021. Pubblichiamo, per concessione della casa editrice Marsilio, un estratto del libro “Terra nostra, Napoli la cura e la politica”, scritto da Antonio Bassolino e in libreria da giovedì. Un’attenta riflessione sullo stato di Napoli, sulle voragini da riparare e i rapporti da ricucire, tra le sue molte anime, con il resto del paese e le sue istituzioni. Un memoir politico senza sconti né censure per affrontare con passione immutata le nuove sfide della città. Il libro sarà presentato giovedì, alle 18, al Teatro Sannazzaro. “Diciannove, nella Smorfia, la cabala napoletana che trasforma sogni e fatti in eventuali numeri fortunati, indica la risata. Ma, per me, anche e soprattutto san Gennaro, ricordando la data del martirio, del principale miracolo e della festa. Diciannove doveva trasformarsi per me in un numero simbolico. Diciannove sono le sentenze che mi hanno scagionato da tutto e liberato da un peso che poteva diventare insostenibile. Tutte assoluzioni e archiviazioni perché il fatto non sussiste. E la diciannovesima sentenza ha provocato in me un inestricabile intreccio di tristezza, l’opposto della risata, e una comprensibile soddisfazione. È stata la meta della maratona più lunga tra quelle che ho corso, la cima della scalata più faticosa della mia vita. È il 12 novembre 2020 quando la Corte d’appello di Napoli decide l’assoluzione. Ero stato io a cercare una sentenza di assoluzione piena, rifiutando la prescrizione i cui termini, dieci anni dopo l’inizio dell’inchiesta, erano intanto scaduti. Ma la prescrizione non mi bastava, volevo andare fino in fondo, come è sempre stato nel mio stile. Non volevo macchie sulla mia vita politica e istituzionale, perché macchie non ce n’erano, volevo un’assoluzione nel merito, netta, precisa, insindacabile. Quest’ultimo processo era stato definito dalla stampa come quello delle «parcelle d’oro» e faceva riferimento a dei presunti pagamenti gonfiati a favore dell’avvocato amministrativista Enrico Soprano, quando ero presidente della regione. Un’inchiesta partita proprio pochi giorni prima della scadenza del mio mandato. Era l’ennesimo schiaffo che mi si dava, l’ultima tappa di una via crucis giudiziaria, un’inchiesta arrivata in zona Cesarini, come un viatico alla traversata del deserto che mi attendeva appena fossi uscito da Palazzo Santa Lucia. Ma ormai ero abituato. Sebbene sempre più amareggiato e incredulo, non mi sarei arreso. Con rispetto verso la magistratura, ma sicuro delle mie azioni, non mi sarei fermato. E la mia perseveranza mi ha dato ragione. Non ho mai avuto dubbi sulla giustizia, perché sapevo di essere nel giusto. Man mano che passavano le ore, la giornata è poi diventata di forte serenità. Una serenità alimentata dal leggere, anche nei giorni successivi, le tante dichiarazioni, i numerosi messaggi, articoli, post, tweet di chi si congratulava con me, di chi se la prendeva con le lungaggini dei processi, con l’accanimento della magistratura. Io mi sono limitato a esprimere l’essenziale. Con piacere vedo che finalmente qualche autorevole rappresentante del Partito democratico, il partito che ho contribuito a fondare, esce dal silenzio che per undici anni è stato mantenuto sulla mia vicenda giudiziaria, politica, umana. È che fa impressione anche il numero: diciannove. Ma è accaduto di più. Mi colpisce molto un’intervista di Giandomenico Lepore, capo della procura di Napoli dal 2004 al 2011. Un’autocritica che può essere racchiusa in una semplice frase: «Qualche errore l’abbiamo commesso». Per chi è stato per lunghi anni sulla graticola dei processi è una magra consolazione, non risarcisce perché non può risarcire. Ma chiarisce un atteggiamento della magistratura che dovrà necessariamente essere corretto. Questa sentenza arriva solo qualche mese prima della mia decisione di ricandidarmi a guidare Napoli. È stata decisiva? No, ma ha certamente influito, perché mi ha restituito tranquillità, permettendomi di concentrami sui veri temi che interessano Napoli. Potevo ritornare a correre, andare avanti”.

I casi a confronto. Lula e Bassolino, due pesi e due misure: la variante brasiliana del garantismo del Pd. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 10 Marzo 2021. Se credete che solo il Covid abbia una variante brasiliana, vi sbagliate di grosso. Anche il garantismo e la solidarietà esternati dal Partito democratico ce l’hanno e a propiziarne la scoperta è stato l’annullamento delle condanne verso l’ex presidente brasiliano Lula che ora torna in corsa per le presidenziali del 2022. È bastato che la notizia si diffondesse in Italia per mandare in visibilio i vertici via del Nazareno. E così, sulla pagina Facebook dei democrat, è stato un tripudio di «ci sono voluti quattro anni, ma giustizia è stata fatta», «la farsa finalmente è finita», «il Brasile recupera l’impegno di un uomo che, da presidente, dedicò tutto se stesso alla lotta contro le ingiustizie sociali». Parole che trasudano entusiasmo e quasi fanno sorgere il sospetto che il vero candidato del Pd alle prossime comunali di Napoli sia proprio Lula, altro che Roberto Fico o Gaetano Manfredi o Enzo Amendola. È interessante, a questo punto, confrontare l’ex presidente brasiliano con Antonio Bassolino. I due hanno molto in comune. Anche l’ex sindaco di Napoli e governatore campano è stato un punto di riferimento per la sinistra e per le istituzioni, poi è finito nel mirino della magistratura (non per quattro anni come Lula ma addirittura per 13, visto che il primo avviso di garanzia risale al 2007 e l’ultima assoluzione a novembre 2020), infine è stato scagionato e ora è pronto a giocarsi la sua partita per Palazzo San Giacomo. Eppure per la fine del calvario giudiziario di Bassolino, per 13 anni lasciato solo dai vertici del partito che aveva contribuito a fondare, si sono registrate soltanto “dichiarazioni di maniera”. Nessuno, nel Pd, ha pensato di rivalutare l’esperienza politico-amministrativa di Bassolino né di sostenerne la (ri)candidatura alla guida del Comune. Anzi, qualcuno l’ha definito «pezzo di storia del partito» con l’intento non di riconoscerne il decennale impegno politico, ma di relegarlo in soffitta tra i “vecchi arnesi” del partito. Altri hanno addirittura tentato di scoraggiarne il ritorno in campo sottolineando come la sua età non sia più verde, visto che tra dieci giorni compirà 74 anni. Eppure Lula ha due anni in più rispetto all’ex presidente della Campania e, senza andare troppo lontano, appartiene alla classe 1947 anche l’attuale premier Mario Draghi, leader di un governo sostenuto anche dal Pd. Qualcuno si chiederà: che senso ha evidenziare il doppiopesismo deli dem nei confronti di due personaggi così simili e, nello stesso tempo, così diversi come Lula e Bassolino? L’intento non è quello di santificare l’uno o l’altro, bensì quello di ricordare come il garantismo non possa essere praticato a fasi alterne o, peggio ancora, subordinato alla convenienza del momento. La sensazione è che Bassolino, a differenza di quanto accaduto per Lula, sia stato lasciato solo quando travolto dalle inchieste giudiziarie allo scopo di rottamare la vecchia classe dirigente del Pd e che adesso venga ignorato per fare spazio a nomi nuovi che, tuttavia, i vertici dem non sono stati ancora in grado di esprimere. In entrambi i casi emerge una concezione variabile del garantismo, applicato saltuariamente e ad personam. Quel valore, però dovrebbe essere invariabile, quasi una stella polare per il Pd. Che, nella fase di rifondazione che lo attende, dovrà necessariamente tenerne conto per recuperare un minimo di credibilità.

Le motivazioni della sentenza. Caso Bassolino: “I pagamenti erano leciti”, ma i Pm lo hanno straziato per venti anni. Viviana Lanza su Il Riformista il 2 Marzo 2021. A leggere le motivazioni della sentenza con cui a novembre scorso Antonio Bassolino, tornato nell’agone politico con la decisione di candidarsi a futuro sindaco di Napoli, è stato assolto da un’accusa di peculato che risaliva ai tempi in cui era commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, sembra che l’evidenza della prova fosse palese sin dal principio. E allora come mai è stato accusato, rinviato a giudizio e imputato in un processo durato anni e anni? Mah, resta un mistero. Stando alle motivazioni depositate dalla seconda sezione della Corte di Appello del Tribunale di Napoli, il nodo della questione, come sostenuto anche dagli avvocati Giuseppe Fusco e Massimo Krogh, difensori di Bassolino, sta tutto nella «erronea applicazione della norma prescrittiva» e nel fatto che «il giudice di prima istanza fondava la responsabilità dell’imputato sulla circostanza che era stato il predetto a firmare i decreti di liquidazione nei confronti del Soprano». Al cuore del processo c’erano infatti due decreti di pagamento, risalenti a giugno e a settembre 2001 e del valore ciascuno di 121.176.000 di lire, relativi alla liquidazione all’avvocato Soprano di competenze professionali per le attività di consulenza svolta a favore del commissario per l’emergenza rifiuti: parcelle che, secondo l’accusa, non rispettavano i minimi tariffari in applicazione della convenzione originariamente sottoscritta dalle parti, cioè da Soprano e dall’allora commissario straordinario e già presidente della giunta regionale Losco. Bassolino ha sempre respinto le accuse tanto da non accettare la sentenza di prescrizione firmata nel settembre 2016 dai giudici di primo grado e decidere di impugnarla per ottenere in appello una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda e delle contestazioni mosse dalla Procura. Di qui il processo dinanzi alla seconda sezione della Corte d’Appello di Napoli e la sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste» emessa tre mesi fa. Nei giorni scorsi sono state depositate le motivazioni e Bassolino ha commentato la notizia sulla sua pagina Facebook diventata ormai un diario quotidiano, scritto «passo dopo passo» come lo slogan che lo ha accompagnato in tutte le sfide politiche: «La notizia ha suscitato in me, come per le altre 18 volte, sentimenti diversi: da una parte comprensibile soddisfazione per me, per i miei familiari e per Napoli e dall’altra di dispiacere e dolore per una lunga solitudine politica quando invece sarebbe bastato esprimere fiducia nella giustizia e in Antonio Bassolino». Leggendo le conclusioni dei giudici che hanno firmato l’assoluzione si ha la sensazione di accuse poggiate su basi fragilissime e ricostruzioni non esatte. Bassolino sottoscrisse gli ordinativi di pagamento solo a seguito di istruttoria svolta conformemente ai regolamenti del Commissariato delle strutture competenti, quindi un’istruttoria espletata, controllata e avallata da altri. Il reato di falso ideologico che era stato inizialmente ipotizzato accanto alla vicenda delle parcelle era stato escluso, tanto che la Cassazione aveva confermato l’assoluzione di Bassolino contro le impugnazioni del pm, e – seguendo il ragionamento dei giudici di appello – non sussisteva nemmeno l’accusa di peculato. Dopo aver evidenziato che in dibattimento non sono emersi riscontri alle ipotesi accusatorie, i giudici di secondo grado sono infatti giunti alla conclusione che «soprattutto ciò che rileva è la piena assoluzione, per insussistenza del fatto, del Bassolino dal contestato reato di falso in atto pubblico in relazione proprio ai provvedimenti di disposizione di pagamento di cui è causa per l’odierna accusa di peculato». A ciò si aggiunga che nel settembre 2018 la Cassazione aveva assolto Soprano «per non aver commesso il fatto» per lo stesso reato per cui Bassolino era imputato e per cui era stata dichiarata, a settembre 2016, la prescrizione. Quindi, «il venir meno – si legge nelle motivazioni – del reato di falso presupposto, unitamente alla mancanza assoluta della prova dell’appropriazione del denaro da parte dei Bassolino e della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo allo stesso impongono l’assoluzione perché il fatto non sussiste». Ora il capitolo è davvero chiuso.

Parla l'ex sindaco. Dopo la 19esima assoluzione parla Antonio Bassolino: “Giustizia lumaca è un vantaggio per i disonesti”. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Novembre 2020. «I tempi della giustizia sono lunghi e ingiusti. È un problema che doveva essere affrontato da tempo e ancora non viene affrontato prioritariamente. Ed essendo lunghi e ingiusti, i tempi della giustizia rappresentano un danno per gli innocenti e un vantaggio per i colpevoli». Il giorno dopo la sentenza che certifica la piena assoluzione, Antonio Bassolino accetta di fare, con il Riformista, una riflessione alla luce della sua esperienza personale. L’altro giorno i giudici della Corte di Appello del tribunale di Napoli lo hanno assolto nel merito da un’accusa di peculato che risale agli anni in cui era commissario governativo per l’emergenza rifiuti in Campania e dalla quale l’ex governatore era stato già assolto in primo grado, con sentenza del 21 giugno 2016, per sopraggiunta prescrizione. Quella dell’assoluzione piena, nel merito, è stata una battaglia giudiziaria portata avanti nella certezza della propria estraneità ai fatti. L’avvocato Giuseppe Fusco, che assieme all’avvocato Massimo Krogh e all’avvocato Matteo De Luca ha rappresentato la difesa di Bassolino, lo aveva annunciato subito dopo la sentenza di primo grado: «Impugneremo la prescrizione». Per avere la definitiva risposta della giustizia, però, ci sono voluti anni. Tanti. «Tempi lunghi e ingiusti», sottolinea Bassolino, che di recente è tornato alla ribalta politica in vista delle prossime amministrative. Con le lunghe attese della giustizia, ha dovuto fare i conti più volte. Perché più volte, da amministratore pubblico, è finito nel tritacarne giudiziario e mediatico, ha subìto indagini penali e processi da cui, alla fine, è uscito sempre assolto. «È la diciannovesima sentenza di piena assoluzione», ha scritto Bassolino su Facebook commentando la sentenza della Corte di appello dell’altro giorno, quella che ha chiuso l’ultima vicenda giudiziaria ancora da definire tra le tante che, nel corso degli ultimi dieci anni, hanno visto la magistratura puntare la lente sulle sue decisioni e sulla sua lunga esperienza di amministratore pubblico. Un record, verrebbe da dire. Diciannove sentenze di assoluzione corrispondono ad altrettanti processi nei quali la Procura ha provato a sostenere le sue accuse contro l’ex governatore della Campania ed ex commissario per l’emergenza rifiuti. E proprio la gestione dei rifiuti è stato il tema su cui i pm napoletani hanno concentrato le loro indagini, insistendo sulla pista di presunte irregolarità che i giudici, nei diversi gradi del giudizio, hanno puntualmente, di volta in volta, smontato. È accaduto anche in quest’ultimo processo. La Procura contestava a Bassolino il peculato, per il semplice fatto che c’era la sua firma sul decreto con cui si liquidavano all’avvocato Enrico Soprano parcelle per 154 milioni delle vecchie lire per l’attività professionale svolta nel settore dell’emergenza. Soprano aveva ricevuto gli incarichi nel commissariato per l’emergenza a partire dal 1998, quindi ben prima dell’arrivo di Bassolino alla gestione di quella crisi. «L’attività posta in essere dal commissario pro-tempore si limitò alla sottoscrizione dei decreti autorizzativi che si fondavano su un’istruttoria espletata dalla direzione amministrativa», hanno chiarito gli avvocati Fusco e Krogh evidenziando le dichiarazioni dei vari testimoni ascoltati per ricostruire dettagliatamente i fatti. «Bassolino non intese né danneggiare né favorire chicchessia», si legge in uno dei passaggi centrali dei motivi con cui i difensori hanno impugnato la sentenza di assoluzione per prescrizione. «È emerso con chiarezza che Bassolino sottoscrisse gli ordinativi di pagamento dopo un’istruttoria conforme ai regolamenti del commissariato e svolta dalle strutture competenti». «L’istruttoria – sottolinea ancora la difesa – ha chiarito come la struttura commissariale fosse composta da una serie di articolazioni dotate di una loro indipendenza con compiti specifici di consulenza tecnica e giuridica e contraddistinte da un assoluto legame fiduciario tale da escludere ogni ingerenza diretta di Bassolino nella gestione ordinaria ed esecutiva. Appare indubbio che lo stesso non potesse avere le competenze tecniche per verificare la conformità delle parcelle liquidate alle tariffe professionali, fra l’altro non essendo emerso alcun elemento da cui desumere qualsivoglia accordo illecito tra i membri della struttura commissariale e i consulenti». Di qui la sentenza. Assoluzione piena.

Bassolino, nuova sfida dopo 19 assoluzioni: “Molti amministratori hanno paura”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Lo choc dei 19 processi, conclusi con altrettante assoluzioni, è ampiamente superato. Tanto che, dopo anni di lontananza da Palazzo San Giacomo, Antonio Bassolino è pronto a sfidare tutti pur di tornare alla guida di Napoli. E per “tutti” non s’intendono solo il bilancio comunale disastrato che Luigi de Magistris si appresta a lasciargli in eredità o la crisi economica che nel capoluogo campano fa crescere la disperazione e le disuguaglianze giorno dopo giorno. Si intendono anche (e, forse, soprattutto) l’astensionismo record, le resistenze di quel Partito democratico di cui don Antonio è stato fondatore e dal quale è stato ben presto messo all’angolo, le difficoltà di un ruolo istituzionale che sempre più spesso finisce nel mirino della magistratura. Sotto quest’ultimo aspetto basta pensare a Chiara Appendino, sindaca di Torino recentemente condannata a un anno e sei mesi per i fatti di piazza San Carlo, o a Marta Vincenzi, ex prima cittadina di Genova che ha patteggiato la pena di tre anni per l’alluvione del 2011. «Nessuno più di me è consapevole di quanto siano duri la battaglia elettorale e il governo di una grande città – spiega Bassolino all’indomani dell’annuncio della sua candidatura alle prossime comunali di Napoli – Alcuni amici e familiari mi hanno chiesto: “Chi te lo fa fare? I processi non ti sono bastati?”. Alla fine il dovere civico e morale di mettermi a disposizione della città ha avuto la meglio». Eccola la prima sfida dell’ex sindaco partenopeo, governatore campano e ministro del Lavoro: quella a un calvario giudiziario e a un’emarginazione politica che spaventerebbero chiunque dovesse soltanto pensare di candidarsi alla guida di un Comune. A quanto pare, però, non è il caso di Bassolino: «Ricordo bene ciò che ho vissuto e posso dire di essermi sempre assunto le mie responsabilità, ma ci sono molti amministratori eletti e altrettanti funzionari che quelle stesse responsabilità tendono a non prenderle perché terrorizzati dalle conseguenze di un qualsiasi provvedimento. Va ridiscusso con serietà il rapporto tra giustizia e pubblica amministrazione, soprattutto per quanto riguarda gli enti locali e territoriali». I 19 processi sono stati il pretesto con cui il Pd ha prima tentato di “rottamare” Bassolino e poi di affossarne candidatura a sindaco sottolineando la necessità di non rompere il fronte progressista costruito col Movimento Cinque Stelle e di arginare le destre a Napoli come nel resto d’Italia. Alla fine, però, don Antonio ha deciso di tirare dritto per la sua strada. Al momento il dialogo tra lui e i vertici del Pd, a cominciare dal segretario napoletano Marco Sarracino e dal governatore campano Vincenzo De Luca, sembra inesistente. Ma non è un problema: «La mia candidatura ha un valore politico e civico nello stesso tempo – prosegue Bassolino – Io, politico di lungo corso, punto a mobilitare le forze migliori nel superiore interesse di una città che versa in condizioni drammatiche. D’altra parte, è solo perseguendo il bene della comunità che si può realizzare il proprio legittimo interesse di parte perché è la buona amministrazione che genera il consenso». Ed è questa la chiave che Bassolino intende usare per vincere un’altra sfida, cioè quella all’astensionismo. De Magistris, infatti, è stato eletto dalla maggioranza di quel 37% di napoletani che sono andati alle urne. «Un primo cittadino con questi numeri è debole, chiunque esso sia – osserva Bassolino – Invece Napoli ha bisogno di istituzioni più forti, cioè sostenute dal consenso popolare, soprattutto in una fase delicata come quella che viviamo. Ampliare la partecipazione democratica è un obiettivo al quale intendo contribuire e spero che lo sia anche per gli altri candidati». Al netto delle questioni politiche, Bassolino si trova di fronte una città ben diversa da quella che ha amministrato dal 1993 al 2000. Il disavanzo comunale è lievitato fino a due miliardi e 700 milioni di euro, il debito complessivo si aggira intorno ai quattro miliardi e i servizi a cittadini e imprese sono pressoché azzerati: un declino reso fisicamente evidente dalle pessime condizioni di strade ed edifici pubblici. La soluzione può essere una legge speciale per le grandi città? «Un supporto finanziario a tutti i Comuni in difficoltà è necessario – ammette Bassolino – ma ancora di più lo sono il dialogo con la Regione e il Governo nazionale, il miglioramento delle performance di riscossione da parte dell’ente e un riassetto che attribuisca più poteri alle Municipalità e un ruolo da protagonista alla Città metropolitana. Napoli ha risorse civili incredibili: perciò dico che esiste una strada per mettersi alle spalle un dissesto mai dichiarato ma conclamato dai numeri e reso ancora più grave da una macchina amministrativa ridotta all’osso, oltre che per avviare un piano di riqualificazione e manutenzione del patrimonio edilizio pubblico e privato». A complicare il quadro ci pensa la crisi sanitaria ed economica scatenata dal Covid alla quale Bassolino intende rispondere con l’arma della collaborazione non solo tra i vari livelli istituzionali, ma anche tra le varie aree del Paese: «La pandemia è uno spartiacque che non ci consente di ragionare come un tempo. Ciò significa essere consapevoli del fatto che il Sud non può fare a meno del Nord e viceversa e che nessun sindaco, governatore o presidente del Consiglio può salvare la propria comunità da solo. La collaborazione è la strada maestra per superare la crisi spendendo bene e rapidamente i miliardi del Recovery Fund. E questo è un messaggio che vale per tutti, a cominciare dal sottoscritto».

·        Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Marco Ludovico per ilsole24ore.com il 30 novembre 2021. Colpo di scena nel caso Shalabayeva. Siamo alla vigilia del secondo grado del processo. La corte di appello di Perugia, sezione penale, nei giorni scorsi ha notificato alle parti la data del 17 gennaio 2022 per l’avvio del procedimento. In primo grado gli imputati Renato Cortese, Maurizio Improta, Luca Armeni, Francesco Stampacchia, Vincenzo Tramma, Stefano Leoni - dirigenti, funzionari e agenti della Polizia di Stato - e Stefania Lavore, giudice di pace, sono stati condannati a pene da due a cinque anni. Ma ora il Sole24Ore è in grado di anticipare una novità clamorosa. Potrebbe cambiare le sorti del dibattimento in appello.

L’invettiva sulla «dittatura» in Kazakistan

Tutti ricorderanno i titoli dopo la sentenza dei giudici della terza sezione presieduta da Giuseppe Narducci: «Rapimento di Stato». Gli imputati, dice la sentenza, di fatto «servirono gli interessi di altra nazione, cioè della dittatura kazaka». A pagina 34 delle motivazioni si legge come «la Repubblica del Kazakistan, nel 2013 (l’anno del caso Shalabayeva, n.d.r.) ancora governata dal dittatore Nursultan Nazarbaje» fosse per i giudici «un paese retto da un regime autoritario e dittatoriale, fondato su regole statuali contrarie ai principi che reggono il nostro stato costituzionale di diritto». Il collegio giudicante così raddoppiò le richieste di pena del pubblico ministero. Ma non per tutti il Kazakistan è una dittatura. Non lo è, per esempio, secondo l’Onu. 

Il report delle Nazioni Unite

L’accusa implicita di deportazione per gli imputati doveva presupporre il Kazakistan come stato fuori dalle regole democratiche. Ipotesi del tutto in contrasto con un documento a questo punto clamoroso. Testo ufficiale, non segreto, agli atti dei ministeri interessati come quello della Giustizia. È stato pubblicato nella primavera scorsa dal Segretariato di Unodc (Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine), organo del Segretariato delle Nazioni Unite. Comincia a circolare tra gli addetti ai lavori. Titolo: «Rapporto di revisione nazionale dell’Italia». Oggetto: verifica dell’attuazione della convenzione dell’Italia con l’Onu in materia di anticorruzione. Le Nazioni Unite hanno affidato il compito di questa ricognizione a due nazioni: Liechtenstein e Kazakistan. Un mandato certo non assegnato se le due nazioni fossero state considerate prive di garanzie di diritti personali, civili, democratici. 

La verifica della Convenzione Onu

La Convenzione Onu contro la corruzione prevede un sistema di revisione intergovernativo per la verifica dell’attuazione della stessa Convenzione. La procedura è lunga e complessa: riguarda la legislazione, gli strumenti di sanzione, i processi in vigore di cooperazione internazionale. Il documento Unodc, proprio nel frontespizio, indica il contenuto: «La recensione di Kazakistan e Liechtenstein sull’attuazione da parte dell’Italia degli artt. 15-42 del Cap. III rubricato come “penalizzazione e applicazione della legge” e articoli 44-50 del Cap. IV “cooperazione internazionale” delle Nazioni Unite Convenzione contro la corruzione per il ciclo di revisione 2010-2015». Una missione ufficiale. 

I riconoscimenti ufficiali

Il rapporto sull’attuazione in Italia della convenzione Onu anticorruzione è stato presentato a Roma il 6 ottobre 2015 in Banca d’Italia alla presenza del governatore Ignazio Visco e degli allora titolari della Giustizia, Andrea Orlando, e dell’Anac (Autorità nazionale anticorruzione), Raffaele Cantone. La Rappresentanza permanente d’Italia presso le Organizzazioni Internazionali a Vienna, guidata dall’ambasciatore Alessandro Cortese, il 19 ottobre pubblicò on line un dettagliato resoconto della presentazione. E Antonio Marini, storico pubblico ministero della procura di Roma, procuratore generale facente funzioni e avvocato generale della Corte d’appello capitolina, nello stesso anno scrisse un articolo on line sull’evento in Banca d’Italia. 

Uno scenario cambiato

Il caso Shalabayeva risaliva a due anni prima. L’incontro ufficiale in Bankitalia era a tutti gli effetti un riconoscimento del report pubblicato. Nessuno, a quanto risulta, sollevò obiezioni sulla legittimità del Kazakistan nella ricognizione affidata dall’Onu. Andando a ritroso, è proprio il mandato delle Nazioni Unite a mettere in discussione l’accusa di «stato dittatoriale» per lo stato kazako. La gravità delle imputazioni ai poliziotti si fonda, tra l’altro, sull’ipotesi dell’Italia asservita con i suoi funzionari di Stato a un paese autoritario. Non è concepibile, però, che un organismo di levatura internazionale assoluta come l’Onu affidi un mandato di verifica delle norme anticorruzione, in un sistema di revisione tra governi, a uno stato dittatoriale. Così, la valutazione ufficiale del Kazakistan è diversa da quella di una certa narrazione. Il documento Onu piomba nel dibattimento dell’appello a Perugia e darà fuoco alla battaglia processuale.

Renato Cortese e il caso Shalabayeva, quando la giustizia va in corto circuito. Il 17 gennaio si aprirà il processo d’appello ai poliziotti accusati del sequestro della moglie del latitante kazako Ablyazov. Lirio Abbate su L'Espresso il 26 ottobre 2021. Si apre il 17 gennaio a Perugia il processo d’appello ai poliziotti coinvolti nella vicenda di Alma Shalabayeva, la moglie del latitante kazako, Mukhtar Ablyazov, marchiato dalle corti di Londra come falsario e ladrone di un bottino miliardario, scappato all’estero proprio per non finire nelle prigioni inglesi e in fuga da oltre un decennio dal Kazakhstan, dove è stato condannato con l’accusa di aver rubato fondi statali per cifre colossali: circa sei miliardi di dollari. La sentenza del tribunale di Perugia che ha condannato lo scorso gennaio sei poliziotti e una giudice di pace per la contestata espulsione della ricca signora Shalabayeva, per cui nel 2013 si scatenò una bufera politica, si basa su una ricostruzione dei fatti che, secondo le verifiche effettuate da L’Espresso, risulta molto lacunosa. E appare smentita da documenti e verdetti stranieri di cui i magistrati italiani sembrano abbiano ignorato l’esistenza. Al centro del caso ci sono però poliziotti che hanno sempre fatto bene il loro lavoro di dirigenti della Polizia di Stato, uomini come l’allora capo della Squadra mobile di Roma, Renato Cortese, che è dirigente generale della polizia e nella sua lunga carriera ha portato in carcere latitanti pericolosi di Cosa nostra come Bernardo Provenzano, Pietro Aglieri, Giovanni Brusca, Salvatore Grigoli e Vito Vitale, tanto per citarne alcuni, e poi boss della ‘ndrangheta, ma anche i “colletti bianchi”, magistrati collusi e uomini delle forze dell’ordine corrotti dalla mafia siciliana e da quella calabrese, fino a svelare e bloccare i clan di Roma e del litorale laziale. Con Cortese è finito sul banco degli imputati anche un altro bravo poliziotto, Maurizio Improta, ex questore di Rimini e all'epoca dei fatti dirigente dell'Ufficio immigrazione a Roma. La condanna in primo grado è di cinque anni. Condannati anche altri cinque uomini che parteciparono alla perquisizione in casa della Shalabayeva, alle porte della capitale, per la ricerca del latitante Ablyazov, inseguito in ambito internazionale. L’uomo nel 2013 non era un rifugiato politico, mentre la donna, che si è presentata agli agenti mostrando un passaporto diplomatico della Repubblica Centraficana risultato poi falso, ha continuato per due giorni a sostenere di chiamarsi con un nome diverso dal suo, non solo non aveva mai formalizzato la richiesta di asilo politico, ma non era in possesso nemmeno di un permesso di soggiorno. Occorre fare un passo indietro, e rivedere cosa è accaduto all’epoca dei fatti. Il pomeriggio del 28 maggio 2013, intorno alle tre del pomeriggio, Cortese su indicazione del questore di Roma, Della Rocca, riceve alcuni diplomatici kazaki, i quali dichiaravano che a Roma, in una villa di Casal Palocco, si rifugiava un pericoloso latitante kazako: Ablyazov Mukhtar. L’uomo veniva indicato come contiguo ad ambienti terroristici “in grado di attuare un possibile attentato a Roma”. I diplomatici informavano Cortese che il ricercato poteva essere in compagnia di persone capaci di usare le armi. I diplomatici kazaki, come emerge dai documenti, non hanno manifestato alcun interesse per la posizione della moglie di Ablyazov, né avevano menzionato la possibilità che nella villa vi fosse anche sua figlia, la piccola Alua: la nota consegnata dai kazaki alla polizia si conclude con la previsione che: «nel caso di arresto, sarà in breve presentata al Ministero di Giustizia della Repubblica Italiana la richiesta di estrazione tramite canali diplomatici», ipotesi che poteva riguardare soltanto Ablyazov. L’intervento della squadra mobile di Roma era quindi stato richiesto esclusivamente per catturare un latitante che veniva ritenuto “altamente pericoloso a livello internazionale”. E Cortese per gran parte della sua carriera in polizia è uno specialista nell’arresto dei latitanti. Ed ha sempre attuato la stessa procedura che la legge gli consente di fare. Prima di iniziare le ricerche di Ablyazov, Cortese procede immediatamente a verificare, tramite i canali ufficiali interni alla Polizia di Stato, se quanto raccontato dai Kazaki in ordine allo stato di latitanza del ricercato corrispondesse al vero. Il capo della Squadra mobile aggiorna il Questore, contatta Lamberto Giannini, allora capo della Digos e oggi capo della Polizia. Per le verifiche dei profili eversivi della vicenda, contatta Gennaro Capoluongo, direttore della Prima Divisione Affari Generali del Servizio per la Cooperazione internazionale della Polizia e riceve la nota ufficiale dell’Interpol da cui risultava che realmente Ablyazov era ricercato in campo internazionale. Solo da questo momento, e quindi solo dopo aver ricevuto conferma dai canali del dipartimento della Polizia, Renato Cortese organizza insieme a Lamberto Giannini il gruppo di uomini, appartenenti ai rispettivi reparti, per la perquisizione del 28 maggio 2013 all’abitazione di Mukhtar Ablyazov. Cortese non partecipa alla perquisizione e non incontrerà mai Alma Shalabayeva. Il giorno dopo il capo della Mobile viene informato che il controllo non ha portato all’arresto del latitante mentre gli viene riferito che la Digos ha accompagnato all’ufficio immigrazione due persone prive di regolari documenti per soggiornare in Italia e una di queste poteva essere la moglie del latitante. Tutti gli atti che riguardano la donna vengono compiuti dalla Digos: l’attività di Cortese è dunque terminata. La Squadra Mobile non aveva alcuna competenza in materia di trattenimento ed espulsione e non avrebbe in alcun modo potuto verificare se vi fossero le condizioni per l’applicazione della disciplina prevista dal testo unico sull’immigrazione. Salvo il fatto che la donna veniva denunciata per il suo falso documento attraverso il quale si faceva chiamare Alma Ayan. La donna non aveva fra l’altro alcun permesso di soggiorno in Italia. Il punto vero della questione è che fino al temine di questa vicenda Alma Shalabayeva ha ribadito di essere Alma Ayan ed ha cercato in tutti i modi di tutelare l’identità africana. Leggendo l’informativa risulta chiaro che la Squadra Mobile ha riportato tutti i dati acquisiti in ordine alla figura di Alma Shalabayeva e, senza offrire deduzioni o facili conclusioni, ha evidenziato l’incongruenza con le affermazioni di chi insisteva ad essere Alma Ayan. Appare incredibile che la sentenza del tribunale di Perugia ometta completamente di considerare il fatto che, a prescindere dagli elementi raccolti dalla Questura, nel momento in cui la donna continuava a dichiarare di essere un’altra persona senza un valido documento a supporto, chiedeva di ottenere le condizioni per l’applicazione delle norme del codice penale e del testo unico dell’immigrazione. E non si può pensare che sia stato Cortese ad indurre in errore i magistrati di Roma che hanno emesso il nulla osta all’espulsione di Shalabayeva, perché le sue note ai pm risultano corrette. Ma anche in questo caso i magistrati della procura, citati dalla difesa, non sono stati ammessi in aula dal tribunale. La sentenza procede nelle sue deduzioni senza tener conto delle evidenze processuali che sono emerse durante il dibattimento, come il fatto che al contrario di quello che scrivono i giudici, non vi è stata alcuna “cieca obbedienza dello Stato italiano a quello kazako”. I fatti hanno dimostrato che si tratta di “un ragionamento fantasioso” elaborato nella sentenza. In mancanza di fatti e di prove, non si comprende a chi avrebbe obbedito Cortese e per quale ragione si sarebbe macchiato di un crimine così grave e infamante. La realtà è che questo dirigente generale della polizia di Stato ha fatto solo e soltanto il suo dovere, nell’ambito della legge, che era quella utilizzata per la ricerca di un latitante, come per decine di volte in passato aveva fatto, e quindi la segnalazione ai magistrati di una donna che si presentava con documento diplomatico falso. La perizia della polizia stabilisce che è stato «grossolanamente contraffatto», con quattro pagine sostituite, timbri mancanti e perfino «errori di ortografia in inglese e francese». Quindi la Procura di Roma concede il nulla osta all’espulsione. Ancora il 31 maggio, fino alla chiusura dell’udienza di convalida, Alma continua a sostenere di chiamarsi Ayan. Solo all’ultimo momento i suoi avvocati italiani dichiarano che è la moglie del dissidente Ablyazov, implorando di non mandarla in Kazakhstan. E mostrano per la prima volta un documento che il tribunale considera «decisivo»: un’attestazione di autenticità, firmata il giorno prima dall’ambasciatore centroafricano in Svizzera. Certifica che Alma ha «un passaporto di copertura», come il marito: un documento vero, ma con generalità false, rilasciato «per motivi di sicurezza». E a confermarlo, nel giugno 2013, è anche «una lettera del ministero della giustizia centroafricano». La sentenza umbra non segnala che risulta spedita «da una cabina pubblica», come i documenti in possesso de L’Espresso dimostra. E non registra nemmeno che in quei mesi la Repubblica Centroafricana era dilaniata da una sanguinosa guerra civile. Con un dittatore deposto, nel marzo 2013, da un colpo di stato militare. Quindi il passaporto diplomatico, rilasciato da un regime in rotta, risulta confermato da un ministro golpista. Come ha fatto Ablyazov a ottenere quei passaporti da agente segreto in una delle nazioni più povere del mondo? A Perugia non se lo chiede nessuno: solo le sentenze inglesi offrono uno spunto, parlando di «commerci di uranio in Africa». I giudici, riferendosi al Kazakhstan, non tengono conto nemmeno delle dichiarazioni fatte in aula dall’ex Capo della Polizia Alessandro Pansa il quale ha spiegato come nel maggio 2013, non esistevano su quel paese pericoli perché non vi erano segnalazioni negative provenienti da organismi come l'Unhcr, il Comitato Onu per i rifugiati. Il Kazakistan è un Paese appartenente alla rete dei 191 Paesi Interpol. Come ha ricordato il questore Della Rocca «l’ambasciatore kazako era un personaggio di una certa importanza perché il paese è inserito nel circuito Interpol e quindi qualsiasi richiesta provenisse da questo Paese per noi valeva come qualsiasi altra nazione del mondo». È dunque del tutto evidente che lo Stato italiano non ha subito alcuna pressione da parte dei kazaki e “non servava alcun particolare interesse nell’assecondare le sue richieste”, se non la manifestazione di una disponibilità istituzionale volta ad aiutare un altro Paese a catturare un suo latitante. E Cortese non aveva interesse a prendere in ostaggio Alma Shalabayeva. Come ha scritto il professore Giovanni Fiandaca sul Foglio, questo processo a Cortese e Improta è «un altro caso controverso, caratterizzato anch’esso da un (quasi) raddoppio della sanzione detentiva inflitta dal tribunale (cinque anni) rispetto a quella richiesta dall’accusa (due anni e qualche mese)». Secondo Fiandaca «al di là del rigore sanzionatorio, in questa vicenda appaiono a monte più che dubbi i presupposti, sia in fatto sia in diritto, che hanno indotto a emettere una condanna a titolo appunto di sequestro di persona (per di più, con aggiunta di ipotesi di falsità ideologica)». È dunque una storia giudiziaria da rivedere. Ad oggi l’unica constatazione che si può fare, basandoci sui documenti e i riscontri, è che un gruppo di validi poliziotti a caccia di un latitante pericoloso, per aver svolto esattamente le procedure che gli agenti conoscono bene, sono stati condannati per sequestro di persona. Il sequestro della stessa persona che andava in giro per Roma sotto una falsa identità e con un passaporto diplomatico fasullo.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 7 agosto 2021. Colpo di scena nella vicenda dell'espulsione dall'Italia, avvenuta nel 2013, della cittadina kazaka Alma Shalabayeva, moglie del presunto dissidente Mukhtar Ablyazov, che ha portato, nel 2020, a sette condanne per sequestro di persona da parte del Tribunale di Perugia, tra cui quelle dei super poliziotti Renato Cortese e Maurizio Improta. Nelle scorse ore il sottosegretario all'Interno Nicola Molteni, rispondendo a un'interrogazione di cinque parlamentari grillini ha messo in ordine i fatti. E ha definitivamente negato che il marito della Shalabayeva risultasse un «rifugiato politico» (precondizione per cui sono stati condannati gli imputati) e in merito ha citato una lettera del 2013 inviata dal Segretario generale dell'Interpol al capo della polizia italiana. Infatti il Regno unito non aveva mai riferito all'Interpol di aver concesso quello status ad Ablyazov e quindi la consultazione delle banche dati dell'Interpol non potevano rivelarlo, in compenso lo stesso risultava essere «un soggetto ricercato ai fini di arresto da tre Paesi membri dell'Interpol per gravi reati», come la truffa e l'appropriazione indebita di grosse somme di denaro. Molteni ha sottolineato quindi che il capo dell'Interpol, dopo il presunto sequestro, aveva ribadito che «nessun Paese membro dell'Interpol sarebbe stato in grado sapere, attraverso il Segretariato generale, che al signor Ablyazov era stato concesso dal Regno unito lo status di richiedente asilo o di rifugiato». È questo il quadro fornito dai ministeri dell'Interno, della Giustizia e degli Esteri riguardo a Ablyazov ai parlamentari 5 stelle che adesso chiedono la «riabilitazione di tutti coloro che hanno dovuto subire un'ingiusta condanna per i compiti svolti con decoro nell'esercizio delle proprie funzioni». I giudici hanno, anche, contestato ai poliziotti una sorta di asservimento al Kazakistan che era a caccia ricerca del presunto truffatore, ma una legge del 2016 ha ratificato un accordo di cooperazione del 2009 (precedente di 4 anni al presunto sequestro) firmato a Roma tra Italia e Kazakistan per il contrasto a diverse forme di criminalità.

Caso Shalabayeva, il Viminale "riabilita" i poliziotti condannati. Luca Fazzo l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. I due alti funzionari in attesa del processo d'appello. Altro che rifugiato politico. Mukhtar Ablyazov, il kazako che nel 2013 si era rifugiato in Italia, era un criminale ricercato per reati comuni. E nella casa alla periferia di Roma dove venne trovata sua moglie Alba Shalabayeva non c'erano i documenti classici di un esule politico ma l'armamentario classico di un latitante. A dirlo non sono i difensori di Renato Cortese e Maurizio Improta, gli alti funzionari di polizia condannati per sequestro di persona ai danni della Shalabayeva, ma il ministero dell'Interno retto da Luciana Lamorgese, che rispondendo all'interrogazione di alcuni esponenti grillini ha documentato con dovizia di particolari la situazione che portò all'arresto della donna e alla sua estradizione. Un documento che peserà inevitabilmente sul processo d'appello ai due funzionari. Nell'ottobre scorso, all'indomani della condanna di primo grado, l'allora capo della polizia Franco Gabrielli dovette sollevare Cortese e Improta dagli incarichi di questore di Palermo e di capo della Polizia ferroviaria, ma lo fece a malincuore, ribadendo la stima nei colleghi e la fiducia nella loro innocenza; Cortese uscì dalla questura di Palermo tra due ali di poliziotti che lo applaudivano. Eppure nelle motivazioni della sentenza, depositate in gennaio, i giudici perugini usarono parole di fuoco contro gli imputati, che arrestando la Shalabayeva e consegnandola al suo Paese avrebbero compiuto un crimine «di lesa umanità mediate deportazione». Ora il Viminale ricapitola per filo e per segno la vicenda, ed è una ricostruzione assai diversa da quella compiuta dai giudici. Nel documento si ricorda che Ablyazov si trovava in Italia senza alcun permesso di soggiorno e si era ben guardato dal presentare alcuna richiesta di asilo politico; l'ordine di cattura dell'Interpol era basato sulle richieste di tre Paesi (Kazakhistan, Russia e Ucraina) ed era basato su truffe di importi rilevanti, appropriazione indebita di 3,2 miliardi di dollari e 4 miliardi di rubli, nonché su associazione a delinquere. Quando, il 29 maggio 2013, il personale della questura di Roma era entrato nella villa di Casalpalocco dove il latitante era segnalato, Ablyazov era già sparito: ma c'era sua moglie, in possesso di un passaporto centrafricano falso con indicato uno stato diplomatico altrettanto falso. Pochi giorni dopo, con una nuova perquisizione, venivano trovati un rilevatore Gps, una microspia israeliana e cinquantamila euro in contanti. Interpellato dalla Mobile di Roma, il ministero degli Esteri riferì che la Shalabayeva non godeva di alcuna tutela diplomatica. Ed era impossibile sapere che la Gran Bretagna aveva intanto concesso asilo a Ablyazov: «per qualsiasi Paese membro che si fosse trovato a consultare le banche dati, era un soggetto ricercato da tre Paesi membri dell'Interpol per reati gravi».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Da "Oggi" il 14 aprile 2021. «Il 28 maggio 2013 ero in centro a Roma e un dirigente kazakho del più alto livello mi chiamò e fece una strana allusione. "L'Italia non fa per te", disse. Non capii, ma poche ore più tardi quando mi avvisarono del blitz a casa di mia moglie e di mia figlia, tutto fu chiaro. Saltai in macchina e scappai in Francia». Nel numero in edicola da domani del settimanale OGGI, l'uomo d'affari e oppositore del regime Kazakho, Mukhtar Ablyazov, racconta per la prima volta come sfuggì alla caccia all'uomo scatenata dalla polizia italiana e dai servizi kazakhi e come visse l'odissea della moglie Alma e della figlia Alua, strappate da casa, deportate illegalmente in Kazakhstan e lasciate per sette mesi «in ostaggio del regime del presidente Nazarbaiev». L'intervista è stata rilasciata a Parigi, dove Ablyazov ha ottenuto asilo politico. A Pasqua lo hanno raggiunto la moglie Alma e la figlia Alua, che vivono stabilmente a Roma. Il loro caso provocò uno scandalo che per poco non fece cadere il ministro dell'Interno Angelino Alfano e il neonato governo di Enrico Letta. E si è concluso con la condanna dei sette imputati, tra cui i super poliziotti Renato Cortese e Maurizio Improta: «La sentenza del tribunale di Perugia è un documento esemplare», dice Ablyazov, «perché pone in primo piano il rispetto dei diritti umani e della Costituzione e denuncia senza reticenze gli errori e i reati commessi da apparati dello Stato. Peccato che siano sfuggiti al giudizio i magistrati che avevano dato il nulla osta all'espulsione, gli uomini dell'ambasciata kazakha e chi, al più alto livello politico, deve aver avallato l'operazione… Ho dei sospetti, non ho prove e quindi non faccio nomi. Dico solo che gli ordini sono arrivati da molto in alto, altrimenti non si spiegherebbe la determinazione con cui è intervenuta la Polizia». Ablyazov vive perennemente in fuga, cambiando in continuazione casa e continua a denunciare i crimini della dittatura di Nazarbaiev «capace di interferire col funzionamento delle istituzioni di un paese democratico come l'Italia». Ablyazov rivela a OGGI per la prima volta: «Avevo un piano di fuga per Alma e Alua, caricarle su un bimotore, farle arrivare in Kirghizistan e da lì in Europa. Era rischioso ma eravamo pronti a tutto. Poi la pressione internazionale è salita e abbiamo capito che il regime avrebbe ceduto, liberando Alma e Alua». Nell'intervista interviene anche Alma: «La reazione del pubblico italiano m’ha impressionato… Non eravamo italiani eppure siamo stati investiti da un’ondata di affetto, di solidarietà, di amore, che non potrò mai dimenticare».

Paolo Biondani e Leo Sisti per “L’Espresso” il 2 marzo 2021. Un dissidente perseguitato da un regime dittatoriale, protetto come rifugiato politico dalle autorità britanniche? No, un latitante, marchiato dalle corti di Londra come falsario e ladrone di un bottino miliardario, scappato all' estero proprio per non finire nelle prigioni inglesi. La sentenza del tribunale di Perugia che ha condannato sei poliziotti e un giudice di pace per la contestata espulsione di una ricca signora kazaka, per cui nel 2013 si scatenò una bufera politica sull' allora ministro Alfano, si basa su una ricostruzione dei fatti che, secondo le verifiche effettuate dall' Espresso, risulta molto lacunosa. E appare smentita da documenti e verdetti stranieri di cui i magistrati italiani sembrano ignorare l' esistenza. Al centro del caso c' è Alma Shalabayeva, moglie di un ex banchiere, Mukhtar Ablyazov, in fuga da oltre un decennio dal Kazakhstan, dove è stato condannato con l' accusa di aver rubato fondi statali per cifre colossali: circa sei miliardi di dollari. La signora è stata espulsa dall' Italia, il 31 maggio 2013, con la figlia di sei anni che viveva con lei in una villa vicino a Roma. Per i giudici di Perugia (presidente Giuseppe Narducci) fu un «sequestro di persona» di «eccezionale gravità»: «un rapimento di Stato». Tra i dirigenti della polizia condannati in primo grado spiccano Maurizio Improta, ex numero uno dell' ufficio immigrazione, e Renato Cortese, passato alla storia dell' antimafia per la cattura del capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, dopo 40 anni di latitanza, e per molte altre indagini contro la 'ndrangheta calabrese e i più potenti clan criminali romani. Nelle 283 pagine di motivazioni, depositate in gennaio, i giudici di Perugia dedicano al suo curriculum tre parole («significativi successi professionali») e infliggono a lui e ad altri tre poliziotti cinque anni di reclusione, con «interdizione perpetua dai pubblici uffici». L' architrave delle condanne, ribadita più volte nella sentenza, è che «Alma Shalabayeva non poteva essere espulsa perché il marito aveva ottenuto nel 2011 lo status di rifugiato nel Regno Unito». I giudici di Perugia descrivono Ablyazov come «un dissidente, fondatore di un partito di opposizione, perseguitato dal regime kazako». E precisano che «l' asilo politico» a lui concesso a Londra va esteso «conseguentemente alla moglie», anche in Italia. Nel suo interrogatorio Cortese spiega che la polizia italiana fu attivata per arrestare l' ex banchiere, perché «era nella lista dei ricercati dall' Interpol» con accuse da «mariuolo». Ma il tribunale obietta che «l' unica circostanza processualmente decisiva è che erano state le autorità inglesi a riconoscere ad Ablyazov lo status di rifugiato». Un fatto giudicato «inconfutabile», che «preclude in radice l' apertura di un dibattito sulle qualità personali del rifugiato». E per scoprire la persecuzione kazaka del dissidente, incalza la sentenza, «sarebbe stato sufficiente digitare il suo nome su Google». Alle ricerche dai giudici su Internet sembrano però sfuggite le sentenze inglesi su Ablyazov, mai menzionate nelle motivazioni. Sono svariate decisioni dei tribunali britannici in dodici anni di procedimenti che hanno coinvolto rinomati studi legali fino alla Corte Suprema. Fin dal 2009 la banca statale kazaka Bta accusa Ablyazov di essersi «appropriato di 6 miliardi di dollari», fatti sparire nei paradisi fiscali attraverso «oltre mille società offshore». Il giudice Nigel Teare dell' Alta Corte di Londra è il primo a interrogarlo. Ablyazov testimonia su sé stesso e nega qualsiasi illecito. Il giudice lo accusa di aver mentito in udienza e lo condanna per «oltraggio alla corte» a 22 mesi di reclusione. La sentenza è del 16 febbraio 2012: specifica che Ablyazov ha commesso una «frode su scala epica», per impadronirsi «con un disegno in malafede» di «soldi che appartenevano alla banca». Con quel verdetto di 46 pagine, la patente di rifugiato del 2011 perde efficacia: Ablyazov non va più accolto a Londra come rifugiato, ma arrestato. Infatti l' ex banchiere scappa alla vigilia della decisione. La sentenza inglese riassume anche la vita di Ablyazov raccontata da lui stesso. Classe 1963, si laurea in fisica e viene assunto all' università statale del Kazakhstan. Con il crollo dell' impero sovietico si lancia negli affari e fonda la Astana Holding Company, con interessi nei media allineati al regime. Quindi diventa ministro dall' Energia. Ma poi viene inquisito e rimosso. A quel punto, nel 2001, fonda un partito di opposizione, "Scelta democratica del Kazakhstan". Nel 2002 viene condannato a sei anni e incarcerato. Ma già nel maggio 2003 ottiene la grazia dal presidente, Nursultan Nazarbaev. Tornato libero, Ablyazov si trasferisce a Mosca, dove fonda altre imprese. E nel 2005 rientra trionfalmente in Kazakhstan, chiamato dal regime a guidare la banca Bta. Un dissidente particolare, insomma, promosso banchiere di Stato. In pochi anni la Bta va in bancarotta con montagne di perdite. Nel 2009 Ablyazov fugge in Inghilterra, inseguito dalle cause dei kazaki, che lo accusano di aver concesso prestiti enormi a società offshore controllate segretamente da lui stesso «attraverso familiari e prestanome». Il 13 agosto 2009 il giudice William Blair (fratello dell' ex premier Tony Blair) firma il primo «freezing order», che congela il patrimonio di Ablyazov. A quel punto il giudice Teare accerta che l' ex banchiere «non detiene beni a proprio nome: usa società intestate a fiduciari». Incalzato dalle domande, Ablyazov ammette di controllare «un patrimonio superiore a un miliardo di dollari». E perché si nasconde dietro le offshore? Risposta: «Per proteggermi da incursioni illegali del presidente del Kazakhstan». La condanna per oltraggio alla corte riguarda «possedimenti inglesi» acquistati tra il 2006 e il 2008 per 35 milioni di sterline. Carlton House è una villa da sogno a Londra, in Bishops Avenue (detta "billionaires' row", la strada dei miliardari): comprende, tra l' altro, 9 camere da letto, una grande biblioteca, piscina e bagno turco. Qui è vissuto anche Madiyar Ablyazov, figlio di Alma Shalabayeva. Un secondo appartamento di lusso è situato al 17 di Alberts Court. E poi c' è una tenuta di 40 ettari a Englefield Green, a sei chilometri da Windsor. Si chiama Oaklands Park: otto case con giardini recintati tra prati, laghi e boschi privati. Queste proprietà inglesi, sulla carta, sono intestate a Salim e Syrym Shalabayev, fratelli di Alma. «Carlton House non è mia, sono solo l' affittuario», dichiara Ablyazov, sotto giuramento. Il giudice Teare analizza i dossier delle società offshore attribuite ai cognati. E conclude che «l' affitto è un imbroglio». Ablyazov viene condannato per aver mentito negando di essere proprietario dei beni sequestrabili dalle corti inglesi; per aver continuato a gestirli violando l' ordine di congelamento; e per aver falsificato prove. Il 6 novembre 2012 la Corte d' appello conferma la pena con un pesante commento del giudice Maurice Kay: «È difficile trovare in una causa civile una persona che si sia comportata con più cinismo, opportunismo e in modo più subdolo di Ablyazov». L' ordine d' arresto inglese, riconfermato nel 2019, è ancora valido. E finora alla Bta è stato riconosciuto il diritto di recuperare 4,5 miliardi di dollari. A Londra, in tempi diversi, anche i fratelli Shalabayev vengono condannati per oltraggio alla corte: Salim a 22 mesi, Syrym a 18. Mentre il verdetto su Ablyazov fa partire anche la procedura amministrativa di revoca dello status di rifugiato, formalizzata nel 2014. Nel processo italiano, iniziato nel 2018 e chiuso nel 2020, si parla però solo del permesso ottenuto nel 2011. E i poliziotti vengono obbligati a risarcire anche i «danni morali» subiti dai familiari di Alma Shalabayeva, compreso il marito latitante. Il tribunale di Perugia ricostruisce minuto per minuto le tre giornate che hanno portato all' espulsione della moglie di Ablyazov, partendo dall' irruzione della polizia nella villa, per arrestare il latitante. La signora presenta un passaporto centroafricano con un nome falso: Alma Ayan. La perizia della polizia stabilisce che è stato «grossolanamente contraffatto», con quattro pagine sostituite, timbri mancanti e perfino «errori di ortografia in inglese e francese». Quindi la Procura di Roma concede il nulla osta all' espulsione. Ancora il 31 maggio, fino alla chiusura dell' udienza di convalida, Alma continua a sostenere di chiamarsi Ayan. Solo all' ultimo momento i suoi avvocati italiani dichiarano che è la moglie del dissidente Ablyazov, implorando di non mandarla in Kazakhstan. E mostrano per la prima volta un documento che il tribunale considera «decisivo»: un' attestazione di autenticità, firmata il giorno prima dall' ambasciatore centroafricano in Svizzera. Certifica che Alma ha «un passaporto di copertura», come il marito: un documento vero, ma con generalità false, rilasciato «per motivi di sicurezza». E a confermarlo, nel giugno 2013, è anche «una lettera del ministero della giustizia centroafricano». La sentenza umbra non segnala che risulta spedita «da una cabina pubblica». E non registra nemmeno che in quei mesi la Repubblica Centroafricana era dilaniata da una sanguinaria guerra civile. Con un dittatore deposto, nel marzo 2013, da un colpo di stato militare. Quindi il passaporto diplomatico, rilasciato da un regime in rotta, risulta confermato da un ministro golpista. Come ha fatto Ablyazov a ottenere quei passaporti da agente segreto in una delle nazioni più povere del mondo? A Perugia non se lo chiede nessuno: solo le sentenze inglesi offrono uno spunto, parlando di «commerci di uranio in Africa». Oltre all' attestazione centroafricana ottenuta dagli avvocati di Alma, il tribunale considera «dirimenti» le loro testimonianze orali. Secondo la polizia, la signora non poteva ottenere asilo in Italia «perché non l' aveva mai chiesto». Ma la sentenza ribatte che uno straniero può domandare protezione «senza alcuna formalità», anche a voce. E a giurare che Alma lo fece in extremis, quando capì che non riusciva a farsi passare per Ayan, sono stati proprio i suoi avvocati, sentiti come testimoni. E giudicati più credibili dei poliziotti che dicono il contrario. Anche se uno dei legali ha letto e firmato il verbale d' udienza, dove la richiesta d' asilo non c' è. La sentenza si dilunga in conferme dell' attendibilità degli avvocati italiani, ma non si interroga sul ruolo dei legali stranieri. Per i testimoni normali è proibito ricevere soldi da una parte in causa. Gli avvocati invece vengono pagati per difendere gli interessi del cliente. Le cruciali attestazioni centroafricane risultano procurate da due legali: lo svizzero Charles De Bavier e il franco-canadese Peter Sahlas. Quanto hanno incassato dagli Ablyazov? Il tribunale se ne disinteressa. L' Espresso è in grado di colmare anche questa lacuna grazie ai Fincen Files, le denunce americane anti-riciclaggio (svelate dal consorzio Icij). De Bavier, tra ottobre 2013 e gennaio 2014, ha ricevuto 3 milioni e 450 mila dollari da una società offshore, inquisita per sospetto riciclaggio di denaro sporco, gestita dal marito di Madina Ablyazova, figlia di Alma e Mukhtar. L' altro legale ha incassato 310 mila dollari, nel paradiso fiscale di Jersey, sempre dal genero degli Ablyazov, che gestisce tesori offshore per centinaia di milioni. Il processo di Perugia è nato proprio da una denuncia di Madina Ablyazova: anche lei ora attende rimborsi dai poliziotti italiani. Il tribunale ridicolizza anche l' allarme della polizia sul rischio che Ablyazov potesse girare armato, «come un Bin Laden kazako», osservando che è accusato solo di reati economici. Negli atti di una causa francese, però, la banca Bta scrive che Abklyazov è stato condannato all' ergastolo, in Kazakhstan, anche come presunto mandante dell' omicidio, nel 2004, del banchiere Yerzhan Tatishev, suo ex socio. Un finto incidente di caccia, smascherato anni dopo da una perizia di tre esperti americani, che ha fatto confessare il killer, condannato a dieci anni. Anche questi verdetti non vengono esaminati e criticati dal tribunale, ma totalmente ignorati. L' Espresso ha chiesto più volte ad Ablyazov di replicare a queste sentenze. Dall' ex banchiere e dai suoi legali, nessuna risposta. Il tribunale di Perugia, per sintetizzare tutte le anomalie dell' espulsione di Alma Shalabayeva, la definisce «un caso unico». Questo è vero: negli ultimi 15 anni, solo altri 9 kazaki hanno chiesto asilo in Italia. Domande accolte: zero. Diversa la sorte della moglie del ricercato. In Kazakhstan, è rimasta nella sua casa, ha potuto rinnovare il passaporto e tornare pochi mesi dopo in Italia, dove ha finalmente chiesto e ottenuto asilo. Al processo i poliziotti hanno sostenuto, inutilmente, che il Kazakhstan «fa parte del sistema Interpol» e la Commissione per i rifugiati non lo considera un paese ad alto rischio come Eritrea, Somalia e pochissimi altri, dove le espulsioni sono vietate. Perfino con l' Egitto, nonostante l' omicidio di Giulio Regeni, dal 2011 al 2019 si contano più di mille decreti di espulsione all' anno. Solo nel 2013 l' Italia ha rimpatriato oltre 1400 cittadini egiziani. Nessuno di loro ha una famiglia miliardaria.

Caso Shalabayeva, l’Espresso getta fango sul dissidente e dimentica i rapitori di Stato. Cosa c'entrano le vicende giudiziarie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov con la condanna per il rapimento e l'espulsione di sua moglie, Alma Shalabayeva, e di sua figlia Alua? Se lo chiedono gli avvocati della donna dopo aver letto un lungo articolo dell'Espresso. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 6 marzo 2021. Cosa c’entrano le vicende giudiziarie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov con la condanna per il rapimento e l’espulsione di sua moglie, Alma Shalabayeva, e di sua figlia Alua? Se lo chiedono gli avvocati della donna dopo aver letto un lungo articolo dell’Espresso in cui si mette in discussione la sentenza del Tribunale di Perugia che ha condannato, tra gli altri, a cinque anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici Renato Cortese, all’epoca dei fatti capo della Squadra mobile di Roma, e Maurizio Improta, ex responsabile dell’Ufficio immigrazione della questura capitolina. L’articolo in questione – rilanciato anche sulla versione online del settimanale col titolo Perseguitato politico? No, ladro di miliardi. Le sentenze che riscrivono la storia del sequestro Shalabayeva – mira a ridimensionare il verdetto di Perugia semplicemente screditando la figura di uno dei protagonisti della vicenda: Mukhtar Ablyazov, declassato da dissidente a «latitante» fin dall’attacco del pezzo. La tesi di fondo è abbastanza semplice: altro che esule, Ablyazov è un truffatore miliardario ricercato dall’Interpol, ovvio che le autorità di Astana lo cercassero a Roma, nel 2013, per arrestarlo. Neanche un passaggio sullo strano comportamento dei kazaki, padroni di casa al Viminale in quei giorni, né sulle insistenze con cui riuscirono a ottenere l’estradizione di Alma Shalabayeva, totalmente estranea agli affari del marito. Con le dovute differenze, seguendo il ragionamento dell’Espresso, è come se per catturare Matteo Messina Denaro lo Stato italiano decidesse intanto di prendere in custodia la figlia con grande naturalezza. Una soluzione forse possibile nel Cile degli anni Settanta, o nel Kazakistan, non in uno Stato di diritto.In ogni caso, i giornalisti del settimanale scandagliano a fondo il casellario giudiziario di Mukhtar Ablyazov per rivelarne l’anima nera. Lavoro ineccepibile e certosino. Peccato che nel processo di Perugia nessuno si sia mai sognato di presentare il dissidente come un’anima pia – il procedimento riguardava il rapimento e l’espulsione di una donna e una bambina – e che nell’articolo vengano comunque riportate delle informazioni parziali. Senza entrare nel merito delle incontestabili accuse mosse al “ricercato” dalle polizie di parecchi Paesi, infatti, l’inchiesta dell’Espresso omette di sottolineare come Ablyazov sia a tutti gli effetti un rifugiato politico, in Francia, dal 29 settembre del 2020. Uno status riconosciuto a seguito di una lunga istruttoria nonostante i procedimenti pendenti del dissidente. Qualcuno a Parigi ha dunque stabilito che l’incolumità fisica di Mukhtar Ablyazov va tutelata, truffatore o no. E non è la prima volta, visto che già nel 2011 sono i britannici a riconoscere il diritto d’asilo all’oppositore politico. Uno status che, come ricordano i giornalisti dello storico settimanale, decade l’anno successivo a seguito di una condanna. Nel «2009 la banca statale kazaka Bta accusa Ablyazov di essersi “appropriato di 6 miliardi di dollari”, fatti sparire nei paradisi fiscali attraverso oltre mille società offshore», si legge sull’Espresso. «Il giudice Nigel Teare dell’Alta Corte di Londra è il primo a interrogarlo. Ablyazov testimonia su se stesso e nega qualsiasi illecito. Il giudice lo accusa di aver mentito in udienza e lo condanna per “oltraggio alla corte” a 22 mesi di reclusione. La sentenza è del 16 febbraio 2012». Quindi, «con quel verdetto di 46 pagine, la patente di rifugiato del 2011 perde efficacia: Ablyazov non va più accolto a Londra come rifugiato, ma arrestato. Infatti l’ex banchiere scappa alla vigilia della decisione», spiegano ancora i cronisti della rivista fondata nel 1955. Tutto corretto. Anche se parziale. Perché ciò che l’Espresso non prende in considerazione è un documento finito agli atti del processo di Perugia. Risale al 29 gennaio del 2011 e proviene dal Metropolitan police service di Londra. L’oggetto è inequivocabile: «Avviso di pericolo per la sicurezza personale». Le informazioni contenute lo sono anche: Mukhtar Ablyazov «potrebbe essere rapito o subire danni fisici che potrebbero essere motivati da ragioni politiche. La Polizia non può proteggerla, né giorno per giorno né ora per ora, da tale pericolo». Alla luce di questo documento, anche le ragioni della fuga da Londra devono essere riviste. Perché è proprio a seguito di questo avvertimento che la famiglia si smembra e Alma arriva in Italia assieme alla figlia. Eroe o criminale che sia Ablyazov, resta dunque da capire perché l’Espresso punti su di lui per giustificare un abuso certificato in primo grado da un Tribunale italiano. Perché, come dice Astolfo Di Amato, avvocato di Alma Shalabayeva, il processo non riguardava il dissidente, ma «la legittimità o meno dell’espulsione in 72 ore di una mamma e di sua figlia».

Il caso riletto dopo il Palamaragate. Sequestro Shalabayeva, perché hanno condannato i poliziotti e salvato Pignatone e il Pm Albamonte? Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. Questa è una storia che ha più domande che risposte. Che ne intreccia altre, tra cui il libro dell’ex magistrato Luca Palamara “Il Sistema”, e lascia sensazioni scomode, che inquietano. Ad esempio, che le indagini talvolta dimenticano pezzi importanti per strada. Per errore, per volontà o per sciatteria, al netto dell’umana fallibilità? È una storia che potrebbe cambiare copione grazie a due variabili non previste. La prima è il virus che ha fatto slittare la sentenza di un processo di primo grado da aprile a ottobre 2020 e le motivazioni a gennaio 2021 (ne parliamo poco più avanti). La seconda è appunto il libro di Palamara, uscito a ridosso di quelle motivazioni. A pagina 87 si legge: “A gennaio del 2015 mi attivo fortemente (è Palamara a parlare, ndr) per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone (procuratore a Roma, ndr) infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino (l’aggiunto che Pignatone ha scelto come suo braccio destro a Roma, protagonista al suo fianco delle più importanti indagini contro la mafia condotte in Calabria e in Sicilia, ndr). Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore (…). La pace siglata tra i due durerà però molto poco: di lì a breve (nel 2016, ndr) la Procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della stessa Questura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy”. Occorre adesso fissare nella mente queste due variabili impreviste e tornare alla cronologia dei fatti. C’è un tribunale, quello di Perugia, che è convinto di aver raggiunto la verità circa la “frettolosa espulsione dall’Italia della moglie del dissidente kazako”: l’ottobre scorso ha condannato due investigatori di razza nell’antimafia e nell’antiterrorismo, i questori Cortese e Improta appunto, altri quattro funzionari di polizia e un giudice di pace per sequestro di persona e falso documentale. Accuse gravi che macchiano per sempre l’onore di chi invece ha scelto di servire lo Stato, da poliziotto o da giudice. I fatti risalgono al maggio 2013 (dopo otto anni siamo alla sentenza di primo grado…) e riguardano un caso all’epoca clamoroso, l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Aula, 6 anni, moglie e figlia del politico dissidente e imprenditore kazako Muktar Ablyazov, ricercato all’epoca da tre paesi (Russia, Kazakstan, Ucraina) per vari reati fiscali e aver sottratto decine di milioni dalla Banca centrale di Astana di cui era stato presidente. Nelle motivazioni depositate il mese scorso si parla di “rapimento di Stato” e si afferma che “per tre giorni è stata compressa la sovranità nazionale”. Fermiamoci brevemente su quei fatti. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, in una villetta di Casal Palocco, zona residenziale a sud di Roma, irrompono 50 agenti della Digos e della squadra mobile allertati da un’informativa dell’ambasciata del Kazakistan sulla possibile presenza di Ablyazov sul quale pende il mandato di arresto internazionale. Nella villetta non c’è l’ex oligarca ma solo Alma e Aula, ospiti di Venera, sorella di Alma, e del marito. Gli agenti trasferiscono la donna nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria contestando l’autenticità del documento esibito, un passaporto emesso dalla Repubblica centroafricana intestato ad Alma Ayan. La sera del 31 maggio, alle 22.30, la donna e la figlia vengono imbarcate su un volo con destinazione Astana. Il provvedimento di espulsione è possibile grazie al nulla osta della Procura di Roma. In calce ci sono le firme del procuratore Pignatone e del pm di turno, Albamonte. Le indagini sulla vicenda restano alla Procura di Roma fino al 2016, poi vengono trasferite a Perugia perché tra gli indagati c’è un giudice di pace della Capitale che ha “attratto” la competenza in Umbria. Sempre a Perugia vive Madina Shalabayeva, sorella maggiore di Alma nonchè moglie di un altro oligarca riparato in Svizzera, Ilias Krupanov, che nel 2014 aveva già presentato una denuncia per sequestro di persona. Il pm che riceve la denuncia di Madina Shalabayeva, e che poi nel 2016 attrae da Roma l’indagine sui poliziotti, si chiama Antonella Duchini, successivamente indagata a Firenze e trasferita dal Csm. I dettagli sono sostanza in questa storia complicata. Eccone altri, utili a fissare il contesto. La Procura di Perugia all’epoca è guidata da Luigi De Ficchy, “rivale” di Pignatone che non lo sceglie come aggiunto nella Capitale. De Ficchy è anche il procuratore che nel 2017 (quindi dopo l’incontro al bar Vanni) indaga il magistrato Luca Palamara per corruzione (il gup proprio nei giorni scorsi ha chiesto all’accusa di specificare meglio le accuse nell’udienza preliminare) e che autorizza l’uso del trojan per intercettarlo. Le chat e le conversazioni captate dal trojan (fiore all’occhiello del ministro Bonafede) saranno poi all’origine dello tsunami che ha travolto il Csm, Palamara e tutta la magistratura, mettendo allo scoperto gli scontri tra le correnti della magistratura e gli accordi spartitori per le nomine apicali di procure e tribunali. De Ficchy ha lasciato la Procura di Perugia due giorni prima che, a fine maggio 2019, i giornali comincino a pubblicare le intercettazioni del trojan di Palamara. Infine, qualche riferimento politico, anche questo utile. A maggio 2013, il governo Letta ha da poco nominato a capo della polizia il prefetto Alessandro Pansa, dopo un periodo di vacatio dovuto alla prematura scomparsa del prefetto Manganelli. Il governo Letta ha in maggioranza il nuovo partito di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, creato dopo la traumatica scissione da Forza Italia. Torniamo all’indagine sulla “frettolosa espulsione” di Alma Shalabayeva e della figlia. Il passaporto trovato nella villetta di Casal Palocco risulta, come si è detto, falso. Motivo per cui viene avviata la procedura di espulsione. I notam dell’Interpol parlano di un ricercato per reati finanziari (il marito Ablyazov) che non gode e neppure ha mai richiesto lo status di rifugiato politico. Motivo per cui neppure la moglie può essere compresa sotto questa protezione. Il 31 maggio 2013, quindi, il procuratore Pignatone e il pm Albamonte, dopo vari scambi di carteggi con il capo della Mobile Cortese e il responsabile dell’Ufficio Immigrazione Improta, completano il fascicolo per l’espulsione con tanto di firma del giudice per i minori. Sempre il 31 maggio, nel primo pomeriggio, quando Alma e la figlia sono ancora a Ponte Galeria, si presentano in Procura a Roma i loro legali Riccardo e Federico Olivo, che comunicano che la donna ha la protezione diplomatica come risulta dal passaporto della Repubblica centroafricana. Passaporto che però è palesemente falso. Alle 17.30 Pignatone e Albamonte firmano il nulla osta e alle 22.30 mamma e figlia sono in volo per Astana. Dopo due giorni scoppia il caso: Shalabayeva diventa la cittadina più monitorata a livello internazionale. Emma Bonino, ministro degli Esteri, accende i riflettori e si mette al lavoro per proteggere madre e figlia che infatti torneranno in Italia pochi mesi dopo con un visto turistico, ottenendo poi l’asilo politico. Placate le acque mediatiche, la Procura di Roma, tra qualche imbarazzo visto che aveva autorizzato la partenza della donna, prosegue le indagini e nel maggio 2014 il pm Albamonte indaga per abuso e omissione il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta, insieme a suoi quattro collaboratori. Poiché tra gli indagati c’è il giudice di pace romano che seguì la pratica di esplulsione, il fascicolo emigra direttamente a Perugia per competenza. Dove lo aspettano, e a quanto pare già da un pezzo, De Ficchy e l’aggiunta Duchini. Tra i primi atti istruttori c’è il verbale del pm Albamonte. Che mette nero su bianco che la Procura autorizzò la partenza di Shalabayeva e della figlia perché i documenti centrafricani della donna erano falsi e da nessuna parte risultava che godesse dello status di rifugiato politico. La domanda è: se così stanno le cose, perché Perugia cinque anni dopo arriva a condannare con accuse pesanti i due poliziotti e non coinvolge l’ufficio della Procura romana che firmò il nulla osta? Perché, soprattutto, il Tribunale non ha mai ammesso le testimonianze del sostituto Albamonte? Se errore ci fu, fu commesso da tutti, e non solo da una parte. Diversamente, non ci fu errore. E allora le condanne di oggi sono da rivalutare. A questo punto merita leggere alcuni passaggi del verbale che Albamonte rese all’aggiunto di Perugia Antonella Duchini. È il 2 marzo 2016, il fascicolo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia (maggio 2013) è da poco stato trasferito a Perugia. Il dottor Albamonte ripercorre le ore del 31 maggio 2013. A metà mattina – racconta – “arrivò la telefonata del dottor Cortese (Mobile e Ufficio Immigrazione della questura di Roma erano responsabili della pratiche per l’espulsione per cui era necessario il nulla osta della Procura, ndr) che chiese se c’erano motivi ostativi a negare il nulla osta. Domanda alla quale risposi non ravvisando tali motivi”. Si tratta a tutti gli effetti di un nulla osta verbale. È una giornata intensa, quella, segno che il caso della signora Alma Ayan (questo il nome noto in Procura) assume subito un certo peso. Dopo la telefonata infatti si presenta in ufficio l’avvocato Federico Olivo, vecchia conoscenza del dottor Albamonte: “Mi disse che c’era un problema perché era stato sequestrato un passaporto che risultava contraffatto mentre invece era originale ed era anche un passaporto diplomatico”. A favore di queste tesi, l’avvocato mostra documenti consolari della Repubblica centroafricana che attestano l’autenticità del documento. Nella stessa conversazione l’avvocato “riferì anche che non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako, circostanza che risultava anche da fonti aperte”. Non un segreto di Stato, quindi. A quel punto Albamonte va dal procuratore aggiunto titolare del fascicolo (il dottor Rossi che poi però esce di scena per impegni personali) dove trova il padre di Federico Olivo, Riccardo. Insomma, il nulla osta verbale viene momentaneamente sospeso in attesa di verifiche sull’autenticità del passaporto diplomatico sequestrato dalla squadra mobile. La verifica però non fa cambiare idea: “Ci convincemmo – racconta Albamonte – che gli atti prodotti dalla difesa non erano sufficienti a escludere la falsità del passaporto diplomatico a nome Alman Ayan”. Dopo qualche minuto telefona il dottor Improta che sostiene di avere altro materiale utile al caso. “Il dottor Improta mi disse anche che l’Ufficio Immigrazione aveva bisogno di tempi celeri perché avevano la disponibilità da lì a poche ore di un volo per Astana”. Non potendo assicurare tempi celeri, il magistrato suggerisce – poi dirà di non aver mai saputo della presenza di una minore – di riportare la donna al Cie di Ponte Galeria. Albamonte sottopone il caso al procuratore Pignatone. Nel frattempo si fa pomeriggio. La documentazione aggiuntiva inviata da Improta consiste nella nota di Polaria di Fiumicino; della nota kazaka datata 30.5.2013 da cui risulta che “il vero nome di Alma Ayan è Shalabayeva, titolare di due validi passaporti kazaki e di un falso passaporto a nome Ayan”; la nota del cerimoniale del Ministero degli Esteri da cui risulta che “il nominativo di Ayan Alma era stato oggetto di una richiesta di accreditamento diplomatico per il Burundi ma che la pratica risultava poi essere stata revocata”. Raccolta e analizzata tutta la documentazione, Albamonte e Pignatone valutano che “il passaporto era falso come stabiliva la nota dell’autorità kazaka”. Inoltre, “il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako non fu centrale nelle nostre valutazioni. Avevamo la pro-va della falsità del documento. La presenza dell’indagata sul territorio italiano (richiesta dagli avvocati Olivo, ndr) non era dirimente. Tutto questo rese possibile il rilascio del nulla osta”. Nello stesso verbale Albamonte sottolinea che “nessuno gli aveva mai detto le vere generalità della donna erano Alma Shalabayeva” e che “non mi era mai stato rappresentato che l’espulsione potesse comportare rischi per l’incolumità della donna”. Il magistrato, proprio in chiusura di verbale, sottolinea di “non aver saputo che era coinvolta una bambina” e che nessuno gli disse che nella villa di Casal Palocco erano state rinvenute “mail da cui risultava che il nome di Alma Ayan era in realtà il nome usato da Alma Shalabayeva per ragioni di sicurezza”. Due circostanze che sembrano essere contraddette dalla lettura degli atti inviati in Procura il 31 maggio dal dottor Improta. L’oggetto scritto in testa al documento è infatti “Shalabayeva Alma alias Ayan Alma”. Nello stesso documento si legge: “Pertanto la Shalabayeva è nella condizione di essere rimpatriata unitamente alla figlia minore attualmente affidata a persona nominata dal Tribunale dei minori”. Conviene qui subito dire che la bambina partì regolarmente con la mamma, come prevede la legge, e che la procedura fu seguita dal giudice dei minori, che non risultano forzature o costrizioni e che anche all’arrivo ad Astana la donna e la figlia condussero una vita protetta fino a dicembre quando il governo italiano, a mo’ di scuse, le fece tornare in Italia con un regolare permesso. Nel frattempo il marito era in carcere a Nizza arrestato per fini estradizionali. Non ultima, va riportata la nota Interpol firmata dall’allora segretario generale Ronald Noble. La data è del 23 luglio 2013. “In sintesi – si legge – per quanto riguarda l’Interpol e qualsiasi paese membro il signor Ablyazov era un soggetto ricercato da tre paesi membri Interpol per gravi reati. Nessun paese membro Interpol sarebbe stato (il 31 maggio, ndr) in grado di sapere attraverso il segretariato generale che il Regno Unito aveva concesso ad Ablyazov lo status di rifugiato politico”. Come potevano quindi Procura e Mobile sapere che la moglie sarebbe stata a sua volta in pericolo tornando ad Astana? Leggendo le motivazioni della sentenza che ha condannato Improta, Cortese e gli altri poliziotti i giudici sembrano invece essere partiti dall’assunto che quello fu un “sequestro di persona”, quasi una “deportazione” e non di una regolare espulsione. Quella di Alma Shalabayeva è stata certamente una vicenda strana e per fortuna senza conseguenze su mamma e figlia. E questo è quanto più conta. Restano però aperte molte domande. La prima: come funzionò davvero la catena di comando che innescò l’irruzione a Casal Palocco? La seconda: dalla relazione del capo della polizia prefetto Pansa si desume che il capo della Squadra Mobile deliberò l’operazione sulla base dell’input ricevuto dall’ambasciatore kazako. È tuttavia evidente che né Cortese né Improta avrebbero potuto decidere autonomamente quella espulsione. Perché, poi, la Procura di Perugia non sentì tra i testimoni anche il procuratore Pignatone e il pm Albamonte? La lista delle domande sarebbe ancora lunga. E chissà che una chiave per trovare le riposte non possa trovarsi anche in quell’incontro al bar Vanni tra i due Procuratori di Roma e Perugia di cui parla Palamara nel suo libro. Tutto questo merita un approfondimento.

·        Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.

Aosta, Annamaria Franzoni torna in tribunale 18 anni dopo il delitto di Cogne: "Turismo macabro nella nostra villa".  La Repubblica il 4 febbraio 2021. Condannata in via definitiva per l'omicidio del figlio Samuele, ha fatto causa a una troupe tv: "Sono seccata che si parli ancora della mia storia". Annamaria Franzoni è comparsa stamane in tribunale ad Aosta come parte civile un un processo per violazione di domicilio in cui sono imputati una giornalista e un telecineoperatore. A 18 anni dal delitto di Cogne la donna è quindi tornata nello stesso palazzo di giustizia dove era stata sentita nell'ambito delle indagini sull'omicidio del figlio Samuele, per il quale è stata condannata in via definitiva. Accompagnata dal suo legale, è uscita dal tribunale coprendosi il volto col cappuccio della giacca, senza dichiarare nulla. "Non abbiamo nulla da dichiarare", ha detto il suo avvocato. Franzoni ha denunciato in aula la presenza di un "turismo macabro" nella villa di Cogne, teatro dell'omicidio del piccolo Samuele, con atti vandalici, nel corso del tempo, da parte di persone entrate nelle pertinenze per sottrarre oggetti da conservare per ricordo, tra cui persino un termometro. In tribunale la donna ha detto di temere che l'ingresso della troupe televisiva possa incentivare atti emulativi da parte di altre persone. Per questo, ha spiegato, la sua denuncia è volta a scoraggiare iniziative simili. Pur essendo la villa sottoposta a pignoramento, ha sottolineato la donna, lei ne è custode, quindi ha il dovere di vigilanza su quel bene e deve risponderne in caso di danneggiamenti. Franzoni, parte civile insieme al marito, si è detta inoltre "seccata" che a distanza di anni si parli ancora della sua storia. La vicenda per cui oggi Franzoni è tornata in tribunale nasce da un servizio televisivo del dicembre 2019. All'epoca la villa di Cogne era tornata alla ribalta perché l'avvocato Carlo Taormina, ex legale di Annamaria Franzoni, ne aveva chiesto il pignoramento. Il processo davanti al giudice monocratico del tribunale di Aosta Maurizio D'Abrusco e al vice procuratore onorario Cinzia Virota si è svolto a porte chiuse. Costituitasi parte civile insieme al marito, Stefano Lorenzi, oggi non presente, Franzoni ha detto in aula di essere stata avvisata da parenti e amici di quel servizio. Cercando la puntata della trasmissione sul web, ha notato che la troupe era entrata nelle pertinenze dello chalet, in particolare nel cortile e sul balcone. Aveva quindi deciso di sporgere denuncia. L'udienza è stata rinviata per l'esame dei due imputati: nel frattempo non è da escludere un eventuale accordo tra le parti che potrebbe portare alla remissione della querela.

Franzoni torna in tribunale: «Turismo macabro nella casa di Cogne, la gente  si porta via oggetti». Il Corriere della Sera il 5/2/2021. Annamaria Franzoni è comparsa questa mattina, 4 febbraio, in tribunale ad Aosta come parte civile un processo per violazione di domicilio in cui sono imputati una giornalista e un telecineoperatore. A 18 anni dal delitto di Cogne la donna è quindi tornata nello stesso palazzo di giustizia dove era stata sentita nell’ambito delle indagini sull’omicidio del figlio Samuele, per il quale è stata condannata in via definitiva. Accompagnata dal suo legale, è uscita dal tribunale coprendosi il volto col cappuccio della giacca, senza dichiarare nulla. «Non abbiamo nulla da dichiarare», ha detto il suo avvocato. Annamaria Franzoni ha denunciato in aula un turismo macabro alla villa di Cogne, teatro dell’omicidio del piccolo Samuele, con atti vandalici, nel corso del tempo, da parte di persone entrate nelle pertinenze per sottrarre oggetti da conservare per ricordo, come un termometro. In tribunale ad Aosta, nel corso del processo per violazione di domicilio a carico di una giornalista e un telecineoperatore, Franzoni ha detto di temere che l’ingresso della troupe televisiva possa incentivare atti emulativi da parte di altre persone. Per questo la sua denuncia è volta a scoraggiare iniziative simili. Pur essendo la villa sottoposta a pignoramento, ha sottolineato la donna, lei ne è custode, quindi ha dovere di vigilanza su quel bene e deve risponderne in caso di danneggiamenti. Franzoni, parte civile insieme al marito, si è detta inoltre seccata che a distanza di anni si parli ancora della sua vicenda. Il procedimento in corso ad Aosta nasce da un servizio televisivo del dicembre 2019. All’epoca la villa di Cogne era tornata alla ribalta perché l’avvocato Carlo Taormina, ex legale di Annamaria Franzoni, ne aveva chiesto il pignoramento. Il processo davanti al giudice monocratico del tribunale di Aosta Maurizio D’Abrusco e al vice procuratore onorario Cinzia Virota si è svolto a porte chiuse. Costituitasi parte civile insieme al marito, Stefano Lorenzi, oggi non presente, Franzoni ha detto in aula di essere stata avvisata da parenti a amici di quel servizio. Cercando la puntata della trasmissione sul web, ha notato che la troupe era entrata nelle pertinenze dello chalet, in particolare nel cortile e sul balcone. Aveva quindi deciso di sporgere denuncia. L’udienza è stata rinviata per l’esame dei due imputati: nel frattempo non è da escludere un eventuale accordo tra le parti che potrebbe portare alla remissione della querela. Intanto il primo tentativo di vendita della villa si terrà il prossimo 19 febbraio in tribunale ad Aosta (offerta minima 626 mila 475 euro). In base a una sentenza civile passata in giudicato a Bologna, Annamaria Franzoni deve al suo ex legale oltre 275 mila euro per il mancato pagamento degli onorari difensivi, divenuti circa 450 mila nell’atto di pignoramento.

Annamaria Franzoni torna in tribunale: "Turismo macabro a Cogne". Annamaria Franzoni si è presentata in tribunale ad Aosta per denunciare il "turismo macabro" nella villetta di Cogne che fu teatro del delitto nel 2002. Rosa Scognamiglio, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Annamaria Franzoni torna a far parlare di sé. Ma stavolta non si tratta del Delitto di Cogne bensì di una vicenda pertinente al "turismo macabro" presso la villetta che, nel 2002, divvenne teatro della drammatica morte del piccolo Samuele Lorenzi. Nella mattinata di giovedì 4 febbraio, Franzoni si è recata presso il tribunale di Aosta per costituirsi parte civile nel processo per violazione di domicilio in cui sono imputati una giornalista e un teleoperatore. All'uscita dall'aula, in compagnia del suo legale, non ha rilasciato dichiarazioni alla stampa. "Non abbiamo nulla da dichiarare", ha riferito il suo avvocato alla cronista de il Corriere della Sera.

"Turismo macabro a Cogne". Annamaria Franzoni ha denunciato in aula "un turismo macabro alla villa di Cogne". Successivamente alla tragica vicenda del 2002, la villetta dei Lorenzi sarebbe stata bersaglio di atti vandalici da parte di persone entrate nell'abitazione per trafugare oggetti da stipare a mo' di souvenir (tra i vari, vi sarebbe anche un termometro). In tribunale ad Aosta, nel contesto processuale della violazione di domicilio a carico di una giornalista e un teleperatore, Franzoni avrebbe dichiarato di temere che l’ingresso della troupe televisiva possa aver incalzato atti emulativi. Dunque, la sua denuncia servirebbe scoraggiare iniziative simili. Sebbene la villa sia sottoposta a pignoramento, la donna ritiene di esserne custode, e dunque spetterebbe a lei vigilare che i luoghi non vengano devastati o danneggiati da eventuali avventori. Da ultimo, si è detta "seccata" che a distanza di anni si parli ancora della drammatica vicenda che l'ha coinvolta.

Il procedimento. I fatti risalgono allo scorso 2009, quando l'ex avvocato della signora Franzoni, il professor Carlo Taormina, ha chiesto che la villetta fosse sottoposta a pignoramento per il saldo degli onorari difensivi. In quel contesto, un troupe televisiva si sarebbe addentrata nelle pertinenze dello chalet per registrare un filmato. Recuperando successivamente il video in rete, la donna avrebbe notato che la troupe aveva raggiunto il cortile e il balcone. A quel punto, avrebbe deciso di sporgere denuncia. Il processo davanti al giudice monocratico del tribunale di Aosta Maurizio D’Abrusco e al vice procuratore onorario Cinzia Virota si è svolto a porte chiuse. L’udienza è stata rinviata per l’esame dei due imputati. Tuttavia, non è da escludere un eventuale accordo tra le parti che potrebbe portare alla remissione della querela. Intanto la vendita della villetta potrebbe essere sospesa. "Ho chiesto il pignoramento perché la signora Franzoni non mi ha pagato. Ma adesso lo sta facendo, lo farà. La villetta dovrebbe essere venduta per il 19 febbraio e credo che i miei avvocati stiano facendo dei passi in avanti affinché la vendita non sia necessaria", ha dichiarato alla nostra redazione l'avvocato Carlo Taormina la scorsa settimana.

"La personalità e i suoi appoggi: perché Franzoni non confessa il delitto di Cogne". A 19 anni dal delitto, la drammatica vicenda di Cogne tiene ancora banco. Annamaria Franzoni è colpevole o innocente? "Assolutamente innocente", dice Carlo Taormina a ilGiornale.it. Colpevolista Bruzzone: "Nessun dubbio". Rosa Scognamiglio, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Sono passati 19 anni dal delitto di Cogne, 13 dalla condanna per omicidio nei confronti di Annamaria Franzoni, madre del piccolo Samuele Lorenzi, vittima di infanticidio. A distanza di quasi due decadi dalla terribile vicenda, e nonostante la sentenza definitiva della Cassazione abbia sancito le pagine conclusive di un lungo iter processuale, il finale di questa storia da brividi sembra ancora sospeso: Annamaria Franzoni non ha mai confessato di aver ucciso il figlio. "Credo ancora e assolutamente all'innocenza della Franzoni", afferma a ilGiornale.it l'avvocato Carlo Taormina, ex difensore della mamma di Cogne. Di tutt'altro avviso è invece la criminologa Roberta Bruzzone. "Che sia stata la Franzoni non ci sono dubbi di alcuna sorta, ma lo sa perfettamente anche lei. Semplicemente lo nega e lo negherà finché campa".

Il delitto. Tutto ha inizio il 30 gennaio del 2002, a Montroz, piccola frazione del comune di Cogne, in Valle d'Aosta. Alle ore 8.28 del mattino, al centralino del 118 giunge una telefonata a dir poco sconcertante. Una donna di 31 anni si dispera da un capo della cornetta: "Mio figlio vomita sangue, non respira più! Fate presto, è tutto insanguinato!". A lanciare l'allarme è Annamaria Franzoni, mamma del piccolo Samuele Lorenzi di soli 3 anni e 2 mesi, che giace agonizzante sul letto dei genitori. L'operatore allerta immediatamente i soccorsi inviando al luogo della segnalazione un elisoccorso. Alle ore 8.50 l'elicottero del 118 atterra nello spazio antistante la villetta dei coniugi Lorenzi. Disteso sulla neve, col capo e il volto completamente insanguinati, c'è Samuele. Il bimbo ha una benda che gli fascia l'intera circonferenza della testa. A provvedere alla medicazione è stata la dottoressa Ada Satragni, amica di Annamaria Franzoni, ritenendo si tratti di un aneurisma cerebrale. La donna riferisce che la mamma del piccolo, verso le 8.27 del mattino, le avrebbe telefonato sostenendo che al figlio fosse "scoppiato il cervello". Insospettiti dal racconto, e notando la presenza di profonde ferite sul capo del giovanissima vittima, i soccorritori decidono di avvertire i carabinieri. Il bimbo viene trasportato d'urgenza all'ospedale Margherita di Savoia, ma alle ore 9.55 viene confermato il decesso. Quarantotto ore dopo l'autopsia accerterà che si è trattato di omicidio: il piccolo è stato colpito ripetutamente alla testa – 17 è il numero delle ferite riscontrate - con un'efferatezza tale da indurre la fuoriuscita di materia grigia dal cervello. Qualcuno lo ha ucciso. Ma chi?

L'inizio di un incubo. A poche ore dalla tragedia le indagini vengono affidate ai carabinieri su coordinamento della procura di Aosta. La prima a essere ascoltata dagli investigatori è Annamaria Franzoni, la mamma di Samuele. È lei ad aver trovato il piccolo in una pozza di sangue prima di chiunque altro ed è lei ad aver telefonato al centralino del 118. Ai militari racconta di essersi allontanata da casa per pochi minuti, appena il tempo di accompagnare l'altro figlio, Davide, alla fermata dello scuolabus. Prima di uscire avrebbe portato Samuele, che si era svegliato piangendo, nella camera da letto matrimoniale, al piano inferiore della villetta. Sarebbe poi rincasata 8 minuti più tardi, quando il piccolo era già agonizzante. Dunque, secondo la versione della donna, qualcuno si sarebbe introdotto all'interno dell'abitazione durante la sua assenza, e in quel breve lasso di tempo avrebbe ucciso il figlio. Ma da un primo sopralluogo i carabinieri non riscontrano alcun segno di effrazione all'abitazione e dentro è tutto in ordine. Qualcosa non torna e il racconto di Annamaria contrasta con l'ipotesi iniziale di un tentativo di furto finito male.

La scena del crimine. Nelle indagini vengono chiamati in causa i Ris di Parma, guidati dal comandante Luciano Garofano. Gli esperti si rendono conto che l'omicidio si è risolto interamente nella camera da letto dei coniugi Lorenzi. C'è sangue ovunque: dal piumone alla parete dietro la testiera del letto e persino sul soffitto. Gli uomini del Ris si affidano alla bloodstain pattern analysis per provare a definire l'azione omicida. Si tratta di una tecnica all'avanguardia che consente di studiare la morfologia delle macchie di sangue al fine di specificare la dinamica dell'aggressione. Ma la stanza, teatro del terribile crimine, appare notevolmente inquinata dalle orme lasciate da tutte le persone che hanno affollato la villetta nel tentativo di soccorrere Samuele. La vicenda si complica fino a diventare un rebus di difficile risoluzione. Chi e per quale motivo ha massacrato un bimbo di soli tre anni? E se l'assassino avesse voluto attuare una vendetta nei confronti dei coniugi Lorenzi?

I sospettati. Nel mirino degli investigatori finiscono i vicini di casa di Annamaria e del marito Stefano. Secondo la coppia, qualcuno dei conoscenti potrebbe aver dato seguito al tremendo delitto sulla scia di frizioni irrisolte. Il movente dell'omicidio, a dir loro, sarebbe dunque da ricercare in dinamiche esterne al contesto familiare. La prima persona a cui i coniugi Lorenzi fanno riferimento è Ulisse Guichardaz, un guardiaparco con cui pare abbiano avuto degli screzi per la costruzione della villetta. Inoltre Annamaria racconta che, la sera antecedente al misfatto, l'uomo avrebbe rimproverato Samuele in modo eccessivamente severo. Poi è il turno di Daniela Ferrod, la vicina di casa che per prima avrebbe visto il bimbo in un bagno di sangue. Tra le due donne pare ci fossero frizioni, senza contare che la Ferrod avrebbe potuto essere l'unica a intrufolarsi nell'abitazione e commettere il delitto in un arco di tempo di soli 7/8 minuti (abitava a pochi passi dalla villetta). Da ultimo vengono chiamati in causa anche i coniugi Perratone. A detta dei Lorenzi, sarebbero stati invidiosi della loro serenità familiare. Gli inquirenti mettono tutti sotto controllo ma senza successo. Nessuna delle persone sospettate è minimamente coinvolta nella vicenda.

L'arresto di Annamaria Franzoni. L'11 febbraio 2002 gli inquirenti decidono di sottoporre a nuovo interrogatorio Annamaria Franzoni. La donna avrebbe avuto un comportamento sospetto quella tragica mattina in cui il figlio è morto, specie quando ha allertato i soccorsi. Quando telefona alla dottoressa Satragni per chiedere aiuto, Annamaria racconta che al bimbo "è scoppiato il cervello". Un minuto dopo, all'operatrice del 118 dice che il piccolo "vomita sangue". Da ultimo, nella breve conversazione con la segretaria del marito, afferma che "Samuele è morto". Versioni discordanti sulla narrazione dell'accaduto che si susseguono nel giro di soli 3 minuti, ancor prima che la giovanissima vittima fosse trasportata in elisoccorso all'ospedale di Aosta. Un altro dettaglio sconcertante riguarderebbe poi una frase rivolta dalla stessa al marito mentre i medici tentavano di rianimare il piccolo. "Mi aiuti a farne un altro?", avrebbe detto a Stefano sull'eventualità di mettere in cantiere un altro figlio. Inoltre il rinvenimento sulla scena del crimine del pigiama e di un paio di zoccoli insanguinati, abitualmente utilizzati da Annamaria, accendono i sospetti sul suo conto. In questo scenario complesso e articolato matura l'ipotesi di un figlicidio: il 14 marzo 2002 la Franzoni finisce in manette.

Il rebus del pigiama. Subito dopo l'arresto, la difesa passa al contrattacco. L'avvocato Carlo Federico Grosso, primo legale della Franzoni, presenta una perizia che conferma la versione fornita dalla sua assistita agli inquirenti circa il rebus del pigiama. La donna sostiene che fosse appoggiato sul piumone, che lo avesse tolto prima di accompagnare il figlio Davide alla fermata dello scuolabus. Quindici giorni dopo, il tribunale del Riesame di Torino annulla l'ordinanza del gip di Aosta. I giudici torinesi danno ragione alla difesa: il pigiama potrebbe non essere stato indossato dall'assassino al momento del delitto. Anche le tracce ematiche rinvenute sugli zoccoli non rappresentano una prova schiacciante di colpevolezza. Annamaria torna in libertà, dalla sua famiglia. Ma siamo solo all'inizio di un nuovo girone infernale.

L'arrivo dell'avvocato Taormina. Nel giugno del 2002 il caso riesplode. La Cassazione annulla l'ordinanza del Riesame di Torino. A quel punto il papà di Annamaria chiama in causa uno dei penalisti più arrembanti e affermati del panorama italiano. Si tratta dell'avvocato Carlo Taormina, deputato di Forza e Italia e sottosegretario agli Interni. Ora si lotta su due fronti. "L'unico merito che mi riconosco è quello di aver capito che se non avessi combattuto la battaglia della difesa della mia assistita su due fronti, quello giudiziario con l'argomento giudiziario e quello mediatico con l'argomento mediatico, io non sarei andato da nessuna parte - spiega l'avvocato, ormai ex difensore della Franzoni a ilGiornale.it - Ogni volta che veniva attaccata, io non mi risparmiavo e la difendevo a spada tratta”. Tra la procura di Aosta e l'avvocato Taormina quindi si apre uno scontro a colpi di perizie.

Quella strana telefonata al 118. Il 16 settembre del 2003, al tribunale di Torino, si svolge l'udienza preliminare del processo di primo grado. La Procura porta in aula tutti gli elementi raccolti in fase d'indagine per ricostruire l'omicidio. Sopra tutti, ve n'è uno molto importante: una telefonata che Stefano Lorenzi avrebbe fatto al 118 pressappoco all'alba del 30 gennaio. In quella chiamata, avvenuta poche ore prima dell'omicidio di Samuele, Stefano chiede l'intervento di un medico per sua moglie. Annamaria dice di sentirsi anenergica, senza forze nelle braccia e nelle gambe, e di avere un senso di oppressione al petto. Da lì la scoperta che la donna soffrisse di disturbi d'ansia e angoscia. "La Franzoni aveva delle problematiche legate in particolare all'angoscia. - chiarisce la dottoressa Bruzzone sul punto - La mattina stessa, lei segnala una situazione di grave disagio chiamando la guardia medica. È evidente che sta male. Probabilmente un capriccio di questo bimbo, più che normale e che in un'altra situazione avrebbe gestito in tranquillità, quella mattina è diventato una sorta di detonatore psicologico che ha fatto scattare una scarica di violenza inaudita".

Una nuova ricostruzione. Alla luce di nuove disamine effettuate dai Ris, l'accusa stabilisce una nuova ricostruzione della dinamica omicida. Alle ore 7.50 di quel tragico lunedì, Annamaria avrebbe fatto colazione col figlio Davide, il primogenito di 9 anni. A un certo punto, avrebbe sentito Samuele, che intanto si era seduto sulle scale che dividono la zona notte dalla zona giorno, piangere a dirotto. La Franzoni lo avrebbe preso in braccio e portato in camera da letto per tranquillizzarlo. Ma il pianto del bimbo non si sarebbe arrestato: è in quel contesto che, secondo l'accusa, è scattata la furia omicida. Il piccolo viene dapprima aggredito di fianco al letto. Poi la mamma si sarebbe messa a cavalcioni sul corpicino colpendolo ripetutamente alla testa con un oggetto contundente. Forse un mestolo ornamentale o un oggetto metallico. L'arma del delitto non è mai stata ritrovata. "Questo è un altro elemento che conferma quanto fosse lucida quando ha colpito il ragazzino - spiega la criminologa – Per liberarsi nell'immediatezza di un fatto di quella portata, facendo sparire l'arma del delitto, significa che ha conservato un'ottima lucidità".

Le intercettazioni sospette. In fase di indagine vengono raccolte una lunga serie di intercettazioni che riguardano la Franzoni. Due in particolare non passano inosservate. In primis la conversazione avvenuta con il marito in cui immagina l'esecuzione del delitto. "Quella è una intercettazione chiave – spiega la dottoressa Bruzzone – Lei parla con il marito raccontando per filo e per segno il delitto, anche passaggi che sono tutt'altro che facili da immaginare. Questo testimonia la piena consapevolezza di quello che è accaduto ma proietta la responsabilità di quanto lei ha fatto sulla vicina di casa. Quella interpretazione, a mio modo di vedere, è una sorta di confessione per interposta persona". C'è poi un'altra telefonata, quella fatta all'amica Ada Satragni. "Non so cosa mi è succ...", dice Annamaria. Poi subito dopo si corregge: "Non so cosa gli è successo" . Un lapsus? "Sia la chiamata con la Satragni che tutta una serie di comportamenti che lei mette in campo successivamente testimoniano la sua consapevolezza dell'accaduto – continua la criminologa – La Franzoni non ha dimenticato, come invece ipotizzano i periti di secondo grado. La Franzoni non ha agito in una sorta di intervallo temporale di sonnambulismo. È una donna che ha ucciso questo ragazzino con un dolo d'impeto devastante, dolo certificato anche dalla modalità con cui lo ha colpito ripetutamente al volto e al capo. Dopodiché non è riuscita ad ammettere la sua responsabilità preferendo rifugiarsi in questa presunzione di innocenza che si è frantumata davanti alle prove schiaccianti a suo carico".

La condanna a 30 anni per omicidio. Il giudice del processo di primo grado ordina nuove superperizie. Per analizzare in maniera approfondita la scena del crimine, viene interpellato anche l'esperto tedesco Hermann Schmitter, che in buona sostanza conferma l'esito degli esami condotti dai Ris. L'assassino di Samuele avrebbe indossato i pantaloni del pigiama e gli zoccoli di Annamaria Franzoni. I pochissimi dubbi riguardano solo la casacca. Fatto sta che l'indagine condotta dal perito risulta determinante ai fini processuali. Il 19 luglio del 2004, Annamaria Franzoni viene condannata a 30 anni di reclusione per l'omicidio del figlio.

Cogne Bis. Il 16 novembre del 2005 si svolge il processo d'appello. La Franzoni chiede e ottiene di aprire il dibattimento al pubblico. L'accusa richiede una nuova perizia psichiatrica ma l'imputata rifiuta di sottoporsi a un ennesimo test continuando a professarsi innocente. "Ci fu un momento nel processo di secondo grado, nel quale fu fatto capire che si sarebbe potuto risolvere il problema con un'indulgente perizia psichiatrica - spiega l'avvocato Taormina - E io confermo a distanza di anni che la Franzoni si rifiutò rivendicando la sua innocenza. 'Io non ho bisogno di salvarmi con il riconoscimento di una infermità mentale, io sono assolutamente capace di intendere e volere', disse infatti lei all'epoca". Dopo sei lunghi mesi, nel giugno del 2006, gli esperti incaricati dalla corte concludono che la Franzoni sarebbe stata vittima di uno “stato crepuscolare orientato”. “Durante lo stato crepuscolare – spiega a ilGiornale.it il dottor Renato Ariatti, psichiatra che periziò la Franzoni successivamente alla conclusione del processo – il campo di coscienza (attenzione, percezione, eccetera) si riduce notevolmente rimanendo concentrata su pochissimi contenuti di pensiero, molto ristretti, polarizzati su pochissimi aspetti. Ragion per cui ci si muove apparentemente come una persona ancora adeguata (posso uscire, andare a prendere l'autobus, eccetera), ma in realtà il livello di presenza rispetto alla realtà circostante è alterato”. Per i periti incaricati, il giorno del delitto, la Franzoni può aver ucciso il suo bambino ma l'avrebbe rimosso. “In linea generale, la rimozione di episodi ad altissimo impatto traumatico è teoricamente possibile – conclude lo psichiatra – ma è rara, molto rara. Ed è ancora più raro che ci sia una cancellazione totale dell'accaduto”.

“Non sono pazza e non ho ucciso mio figlio”. “Non mi stancherò mai di dire che non ho ucciso mio figlio - dice Annamaria all'esordio dell'udienza - Non è nella mia mente che troverete il colpevole. Non potrò mai confessare ciò che non ho mai fatto”. Taormina lascia la difesa della donna che viene affidata invece all'avvocato d'ufficio Paola Savio. Secondo il nuovo legale, Samuele è stato ucciso con un sabot con carrarmato mentre la donna accompagnava il figlio Davide alla fermata dello scuolabus. Ma la ricostruzione non convince i giudici. Il 27 aprile 2007, la Franzoni viene condannata a 16 anni di reclusione ma non andrà in carcere. Vengono esclusi i rischi di fuga e la pericolosità sociale. Il 21 maggio 2008 la Prima sezione penale della Corte Suprema di Cassazione conferma la sentenza d'appello. La sera stessa la Franzoni viene arrestata dai carabinieri a Ripoli Santa Cristina e condotta in carcere. Grazie all'indulto ottiene uno sconto della pena di 3 anni. Il 10 ottobre del 2013 guadagna la semilibertà e il 2 luglio 2019 Franzoni ritorna definitivamente a casa, da suo marito Stefano e dai figli Davide e Gioele, quest'ultimo nato a un anno della morte di Samuele.

Annamaria Franzoni: mamma killer o vittima? Il caso dal punto di vista processuale si è risolto. Ma tanti, forse troppi, restano i dubbi relativi alla vicenda. Su tutti un interrogativo: Annamaria, che non ha mai confessato di aver ucciso Samuele, è colpevole o innocente? "Assolutamente innocente", conferma l'avvocato Taormina fugando ogni sospetto sulla sua ex assistita. "Non ha mai confessato e mai lo farà - afferma la Bruzzone - Perché è un delitto per cui lei, per tutta una serie di caratteristiche di personalità che sono state ben tratteggiate dal professor Ugo Fornari, è riuscita a non ammettere mai il fatto. In buona sostanza ha separato il vissuto di colpa nei confronti di quello che ha fatto rispetto alla circostanza. Lei è pienamente consapevole di quello che ha fatto ma, per il tipo di personalità che ha e per il tipo di appoggi di natura familiare di cui ha beneficiato, non ha mai avuto l'impulso a confessare quello che è accaduto. Che sia stata lei non ci sono dubbi di alcuna sorta".

"Perché la Franzoni è innocente" Tutti i dubbi sul delitto di Cogne. Il professor Carlo Taormina, difensore di Annamaria Franzoni, racconta a ilGiornale.it il Delitto di Cogne: "Credo ancora alla sua innocenza". Poi sulla magistratura: "I giudici dello Stato fuori dalle aule di giustizia". Rosa Scognamiglio, Sabato 30/01/2021 su Il Giornale. Sono passati esattamente 19 anni dal delitto di Cogne, 13 da quando Annamaria Franzoni fu condannata per la morte atroce del figlio Samuele, di soli 3 anni. Protagonista di una delle vicende di cronaca nera più drammaticamente segnanti della cronaca nera è stato il professore e avvocato Carlo Taormina, al tempo, difensore della Franzoni. “Sono ancora convinto della sua innocenza”, dichiara alla redazione de ilGiornale.it.

Professore, il delitto di Cogne è passato alla memoria collettiva come "la madre dei delitti". Perché?

"C'è stata grandissima attenzione alla contrapposizione che emergeva tra l'immagine della madre e la terribile vicenda, della quale si pensava potesse essere stata l'artefice. Cogne ha dato luogo a una sorta di sentimento ancestrale collettivo del quale si sono fatti interprete i media, da ciò ne è conseguita una miscela esplosiva che spiega la definizione di "madre dei delitti". In quel periodo sono iniziate le prime indagini cosiddette 'scientifiche', era un momento in cui si cominciava a parlare di Dna sulla scena del crimine. Le forze dell'Ordine cominciavano ad avere un assetto nuovo, dal punto di vista della tecnologia e delle professionalità sul piano dell'investigazione, che lasciava il terreno tradizionale fatto spesso di intuizione e improvvisazione. Il 2002 è stato un anno di transizione e Cogne, senza ombra di dubbio, è stata una circostanza unica nel suo genere".

In che misura ha inciso l'incursione mediatica sullo svolgimento del processo?

"Cogne è la prima vicenda in cui l'intervento mediatico è stato incredibile sia dal punto di vista televisivo che giornalistico. Al tempo, sono stati fatti anche degli studi neuroscientifici per capire quanto questo bombardamento mediatico potesse incidere nella mente e sull'operato delle professionalità giudicanti. Ma penso che alla fine non sia stato determinante. Ha inciso sotto un profilo specifico, ovvero quello del controllo sullo svolgimento regolare del processo. In quel periodo i tribunali e le aule di giustizia erano inaccessibili, i pubblici ministeri se ne stavo barricati tradizionalmente nelle loro stanze. La polizia e i carabinieri prima di allora parlavano e discutevano solo con i pubblici ministeri. Era un mondo, quello della giustizia, molto circoscritto e chiuso. L'incursione mediatica ha interrotto quel ciclo, aprendo una nuova strada. Devo dire che sia a livello di giudice dello Stato sia a livello di giuria popolare, non ho riscontrato conseguenze negative per la mediatizzazione della vicenda. Noi facevamo il processo con circa l'80% dell'opinione pubblica che era colpevolista. Ma il processo si è svolto regolarmente, e io escludo che almeno in quel caso ci sia stato un condizionamento nelle menti di chi ha giudicato e operato. Insomma il sistema ha retto".

E invece quanto la sovraesposizione mediatica della signora Franzoni è stata condizionante per l'esito del caso?

"Al tempo abbiamo avuto una situazione molto particolare dal punto di vista della libertà personale. Nonostante l'aggressività mediatica – tutti ritenevano la Franzoni colpevole – io sono riuscito, e i giudici mi hanno dato seguito, a fare scarcerare la signora. La Franzoni è stata pochi giorni in carcere perché riuscimmo a dimostrare con una perizia psichiatrica che fosse innocua per l'altro figlio: gli psichiatri lo esclusero e la donna fu scarcerata. Questo attesta che la mediatizzazione non ha danneggiato dal punto di vista delle libertà personali. Moltissimi omicidi stanno in carcere dall'inizio fino alla fine del processo. La signora Franzoni che, secondo l'accusa, era un'omicida più tremenda delle altre perché avrebbe ucciso il suo bambino di soli tre anni, è stata liberata. Non solo, ma è tornata a casa con la famiglia e ha avuto un altro figlio".

In quel periodo nasce anche il cosiddetto "stile Taormina". Cos'è?

"Diciamo che sono stato il primo ad aver dato, al ruolo dell'avvocato, una dimensione diversa da quella tradizionale, relativamente alla gestione mediatica della difesa. L'unico merito che mi riconosco è quello di aver capito che se non avessi combattuto la battaglia della difesa della mia assistita su due fronti, quello giudiziario con l'argomento giudiziario e quello mediatico con l'argomento mediatico, io non sarei andato da nessuna parte. Ogni volta che veniva attaccata, io non mi risparmiavo e la difendevo a spada tratta. Insomma col delitto di Cogne è nato anche un nuovo modo di fare l'avvocato".

Tutto ruota intorno alla villetta dei Lorenzi durante le indagini. Per la prima volta, a Porta a Porta, Bruno Vespa ha mostrato al pubblico il plastico di un luogo del delitto. Possiamo dire che con Cogne la "scena del crimine" ha assunto una centralità mai avuta prima?

"Eravamo all'inizio dell'elaborazione teorica della scena del crimine, della sua importanza, della necessità di saperla esaminare con equipe di professionalità. Avevamo capito che sul luogo del delitto si addensano elementi psicologici, genetici, balistici e questioni medico-legali. Con la vicenda di Cogne nasce l'idea che per un'analisi approfondita ed esaustiva del caso bisognava affidarsi a personalità specializzate. È stata la prima volta che in Italia ci si è accostati alla tecnica investigativa della bloodstain pattern analysis, ovvero lo studio della forma delle gocce di sangue che si erano depositate sulle superfici della stanza dove si è consumato il delitto. La sentenza della Corte di Cassazione attribuisce valore probatorio alla bloodstain pattern analysis, questo la dice lunga. Inoltre quello fu il primo processo nel quale, attraverso la consulenza tecnica del criminologo Massimo Picozzi, un'indagine di personalità veniva applicata a un processo penale. Era una novità e un grande passo in avanti nel contesto dei reati penali".

Secondo lei sono stati commessi degli errori nelle indagini o durante il processo?

"Sono stati fatti moltissimi errori. Cogne è stato il primo processo in cui sono state fatte sperimentazioni genetiche e indagini di personalità. E questo devo dire che è stato un passo molto importante. Il problema era che, come tutte le cose che iniziano, si è andati spesso a scandaglio. Non c'erano protocolli, non c'erano regole. Le abbiamo costruite insieme ai carabinieri a partire da quella circostanza".

È ancora convinto dell'innocenza di Annamaria Franzoni?

"Assolutamente sì e ne ho più che un valido motivo".

Ce ne dice uno?

"Ci fu un momento nel processo di secondo grado nel quale fu fatto capire che si sarebbe potuto risolvere il problema con un'indulgente perizia psichiatrica. E io confermo, a distanza di anni, che la Franzoni si rifiutò rivendicando la sua innocenza.'Io non ho bisogno di salvarmi con il riconoscimento di una infermità mentale, io sono assolutamente capace di intendere e volere'. Non dico che ci fu fatta questa proposta ma era nell'aria, diciamo così".

Quindi, se la Signora Franzoni è innocente, l'assassino di Samuele è ancora a piede libero?

"Questa è una domanda che andrebbe rivolta alla procura di Torino e Aosta che hanno decretato l'esito del processo. Io posso solo confermare, e lo ribadisco ancora una volta, che credo all'innocenza della Franzoni".

Ripensando al processo, c'è qualcosa che non rifarebbe?

"Rifarei tutto, dall'inizio alla fine, senza cambiare una sola virgola".

Professore, lei ha chiesto il pignoramento della villetta di Cogne per il mancato pagamento degli onorari difensivi da parte dei coniugi Lorenzi. A che punto è il contenzioso?

"Ho chiesto il pignoramento perché la signora Franzoni non mi ha pagato. Ma adesso lo sta facendo, lo farà. La villetta dovrebbe essere venduta per il 19 febbraio e credo che i miei avvocati stiano facendo dei passi in avanti affinché la vendita non sia necessaria".

A oggi esiste un caso di impatto mediatico come quello di Cogne?

"Credo che la storia di Bossetti (delitto Yara Gambirasio, ndr) non possa essere dimenticata anche se si tratta di una situazione molto diversa. Tuttavia Cogne resta, a parer mio, un caso unico perché ha smosso tutte le nostre corde emotive aprendo a una nuova strada di fare indagini".

Posto che Cogne sia un caso a sé del passato, qual è il futuro della magistratura italiana?

"La strada della magistratura italiana è molto complicata e ritengo che non possa essere risolta se non mettiamo mano alla Costituzione Repubblicana. La guerra ci ha lasciato una Costituzione che, sotto certi profili, è assolutamente insuperabile. Mi riferisco per quello che riguarda i diritti della persona, le garanzia e via dicendo. Ma per quello che riguarda la struttura dello Stato, comprendendo anche la magistratura, secondo me, è diventata fatiscente. Ora deve essere ripresa e rimessa a posto. Così come si reclama a livello del potere esecutivo l'elezione diretta del Capo dello Stato o l'elezione diretta del Presidente del consiglio, anche per la magistratura bisogna cambiare qualcosa. È stata disegnata male, sullo schema dell'Ottocento, sullo schema illuministico, e quindi con una rigidezza dal punto di vista dei ruoli che ormai ha fatto il suo tempo".

La vicenda Palamara potrebbe aver smosso qualcosa. Non crede?

"Questo scoperchiamento della corruttela della magistratura attraverso la vicenda Palamara è una cosa che abbiamo sempre saputo e conosciuto. Ci voleva soltanto un detonatore come questo per portare alla luce tutto il sommerso. Ma purtroppo si continua ad aver questa tendenza a chiudere sul tema, a non parlarne, a minimizzare perché si è sempre alla ricerca di una ricostituzione dell'equilibrio. Ovviamente per 'equilibrio' s'intende la ricostituzione dei comodi per chi, come i magistrati italiani, fa esattamente quello che vuole, come e quando vuole, nei confronti di chiunque. Questo è il problema di fondo".

A che punto è invece la Giustizia?

"Io credo che il futuro della giustizia non sia dei magistrati dello Stato ma prima o poi diventerà delle giurie popolari. Naturalmente questo percorso deve essere fatto con gradualità, cioè senza creare situazioni di ulteriore squilibrio. Il giudice dello Stato, ossia il magistrato nominato dallo Stato, è legato agli interessi dello Stato. E quando questi interessi non guardano al bene dei cittadini ma all'esercizio del potere assoluto e inderogabile, questi non possono essere né i giudici né i magistrati dello Stato. Giudice del cittadino deve essere un altro cittadino, quindi le giurie popolari. Cacciamo i magistrati dalle aule di giustizia e mettiamoci le giurie popolari".

Come si arriva a un nuovo assetto?

"Si tratta di un percorso che deve essere fatto con gradualità, intelligenza e consapevolezza e, fino a quel momento, bisogna tenere presente quello che la Costituzione consente di poter fare. Molte cose possono essere fatte ma moltissime altre no. Nella Corte d'Assise i giudici popolari non contano nulla, perché ci sono i giudici dello Stato che decidono e impongono la loro opinione nelle Camere di Consiglio. Il giudice dello Stato dovrebbe governare il processo ma in Camera di Consiglio dovrebbero andarci i giudici popolari. Poi altro passaggio che ritengo fondamentale è quello di aumentare le competenze delle Corti d'Assise, facciamo due tipi di giurie popolari: una ristretta per i reati di minor rilievo e una allargata per i crimini più importanti. Ci sono tante cose da fare ed è tempo di cominciare. Se il 70% dei cittadini non si fida della magistratura vuol dire che non si fida dello Stato. Non possiamo più continuare ad avere questa simbiosi tra Stato e magistratura, è deleteria".

·        Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

La Farnesina conferma: Chico Forti pronto al trasferimento. «Non risulta alcuno smarrimento di documentazione», scrive il ministero in merito ad alcune notizie apparse stamattina. Il Dubbio il 6 giugno 2021. «Con riferimento ad alcuni articoli comparsi nella giornata odierna su alcune testate nazionali in relazione al caso del trasferimento dagli Stati Uniti all’Italia del connazionale detenuto Enrico Forti, si ritiene utile chiarire che non risulta alcuno «smarrimento» di documentazione». Lo precisa la Farnesina in una nota, spiegando che «quella relativa al trasferimento in Italia del signor Forti è una procedura complessa che vede coinvolte diverse amministrazioni degli Stati Uniti, in particolare lo Stato della Florida e il Dipartimento della Giustizia federale degli Stati Uniti». «Da parte italiana, in questa fase il ministero della Giustizia italiano segue direttamente la fase del trasferimento – prosegue la nota. Contestualmente l’ambasciata italiana a Washington e la Farnesina seguono gli sviluppi del caso. In particolare il ministro Di Maio ne ha discusso più volte con il segretario di Stato, Antony Blinken». «Nel frattempo – conclude la nota – lo Stato della Florida ha di recente trasferito il signor Forti in un penitenziario utilizzato per i detenuti in attesa di trasferimento». Arrestato nel 1998, Chico Forti è stato per anni al centro di una battaglia diplomatica tra Usa e Italia per riaprire il caso e ottenere il trasferimento. La svolta a dicembre 2020, quando il governatore della Florida ha accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia.

Tutti i dubbi sul caso Chico Forti. Enrico Chico Forti, trentino classe 1959, è stato arrestato nel 1998 negli Stati Uniti e condannato all’ergastolo nel 2000 da un tribunale della Florida con l’accusa di omicidio premeditato. Velista e produttore televisivo, Forti si è sempre professato innocente. La vicenda è legata alla morte di Dale Pike, figlio di Antony Pike, dal quale l’ex produttore stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza: Dale viene assassinato e trovato cadavere su una spiaggia di Miami il 15 febbraio 1998 e Chico incriminato per omicidio. Forti, ha ricordato la Farnesina nelle scorse settimane, ha potuto contare nel corso di questi anni su un’assistenza continua da parte delle autorità consolari italiane. Nel 2016, si è riusciti ad ottenere il suo trasferimento in un penitenziario più facilmente raggiungibile dal personale del consolato generale, nei pressi di Miami. I contatti dell’ambasciata e del consolato con Forti e i suoi legali sono stati costanti, con periodiche visite in carcere per verificare le sue condizioni di salute e detentive. Sul piano giudiziario, si legge sempre nella nota Farnesina, dopo che la sentenza di condanna è divenuta definitiva nel 2010 a seguito del rigetto di tutti i ricorsi in appello, l’obiettivo è stato sempre ottenere dalle autorità americane una revisione del processo o, in alternativa, la possibilità per Forti di poter scontare la sua pena in Italia, nel suo Paese, vicino ai suoi affetti.

Smentite notizie di stampa, trasferimento procedura complessa. (ANSA il 6 giugno 2021) - Nessuna documentazione riguardante il caso di Chico Forti è stata mai smarrita. Lo precisa una nota della Farnesina, smentendo le notizie secondo le quali il manager, da 20 anni in carcere in Florida per un omicidio al quale si è sempre dichiarato estraneo, non potrebbe rientrare in Italia a causa dello smarrimento di alcuni documenti. "Con riferimento ad alcuni articoli comparsi nella giornata odierna su alcune testate nazionali in relazione al caso del trasferimento dagli Stati Uniti all'Italia del connazionale detenuto Enrico Forti - si legge nella nota - si ritiene utile chiarire che non risulta alcuno 'smarrimento' di documentazione". Quella relativa al trasferimento in Italia di Forti, prosegue la nota, "è una procedura complessa che vede coinvolte diverse Amministrazioni degli Stati Uniti, in particolare lo Stato della Florida e il Dipartimento della Giustizia federale degli Stati Uniti. Da parte italiana, in questa fase il Ministero della Giustizia italiano segue direttamente la fase del trasferimento. Contestualmente l'Ambasciata italiana a Washington e la Farnesina seguono gli sviluppi del caso. In particolare il ministro Di Maio ne ha discusso più volte con il Segretario di Stato Blinken". "Nel frattempo - conclude la Farnesina - lo Stato della Florida ha di recente trasferito il Sig. Forti in un penitenziario utilizzato per i detenuti in attesa di trasferimento".

Alessandro Dell'Orto per "Libero quotidiano" il 7 giugno 2021. Il documento che potrebbe finalmente sbloccare il ritorno in Italia di Chico Forti resta introvabile e, anzi, diventa un mistero, ma almeno ora il problema è evidente a tutti. A chi - amici, parenti o persone ragionevoli che si sono semplicemente documentate - ha sempre creduto nell' innocenza di Chico, che sta scontando la condanna negli Usa dal 15 giugno 2000 per il presunto omicidio (mai davvero dimostrato) di Dale Pike il 15 febbraio 1998 a Miami; al mondo politico italiano che in 21 anni se ne è sempre fregato (a parte Giulio Terzi e, sei mesi fa, Di Maio che almeno ci ha messo la faccia, ma poi sembra essersi accontentato); agli organi competenti, che ora devono dare risposte precise. Già, perché dopo l'interminabile attesa, la speranza e la delusione, il caso di Chico non può restare per altro tempo sospeso tra ipocrisie, disinteresse, superficialità, pigrizia e incomprensioni internazionali. Ecco perché, a seguito della denuncia di Libero, i social ieri si sono scatenati tra indignazione e accuse, chiedendo giustizia per l' imprenditore italiano e pretendendo chiarezza sui documenti che il dipartimento della giustizia degli Stati Uniti d' America avrebbe dovuto mandare al nostro ministero della Giustizia per accordarsi sulla commutazione della pena (l' ergastolo senza condizionale - cioè il detenuto esce solo da morto - cui è stato condannato Chico non esiste nel nostro ordinamento), permettendo così alla pratica di essere trasferita da noi (arrivati nel Paese di espiazione della pena, il destino giudiziario viene deciso dalla magistratura locale sulla base delle leggi del posto. Per Chico si è mossa la gente comune, ma il caso è diventa subito politico. Il leader della Lega Matteo Salvini ha inviato un messaggio alla zia di Forti («Buona domenica Wilma.  Ma come mai tutto questo ritardo per rivedere Chico in Italia??») e ha espresso preoccupazione («Doveva da tempo essere trasferito dagli Stati Uniti all' Italia, ma i mesi passano e non sembrano esserci novità. Dopo aver letto alcune notizie di stampa allarmanti, che parlano di problemi burocratici che avrebbero bloccato tutto, sono tornato a scrivere alla famiglia per mettermi a loro totale disposizione come già successo in passato. La Lega segue la vicenda ed è a disposizione per dare una mano: bisogna fare di tutto per riportare Chico Forti a casa»). Mentre la Farnesina ha spiegato: «Quella relativa al trasferimento in Italia di Forti è una procedura complessa che vede coinvolte diverse amministrazioni degli Stati Uniti, in particolare lo Stato della Florida e il dipartimento della Giustizia federale degli Stati Uniti. Da parte italiana, in questa fase il ministero della Giustizia segue direttamente la fase del trasferimento. Contestualmente l'ambasciata italiana a Washington e la Farnesina seguono gli sviluppi del caso. In particolare il ministro Di Maio ne ha discusso più volte con il segretario di Stato, Antony Blinken». Tante parole, ma in realtà poche risposte concrete (il famoso documento dov' è? È partito? È arrivato?) e troppa diplomazia, che lascia quasi la sensazione che anche all' interno del governo la questione non sia chiara a tutti. Perché mentre la Farnesina diceva genericamente che la situazione è complessa, il ministero della Giustizia ha fatto luce su alcuni punti fondamentali della questione, precisando che «ad oggi gli Stati Uniti non hanno mai trasmesso all' Italia la documentazione prevista per il trasferimento di Enrico Forti, detenuto in un penitenziario della Florida. Il Ministero della Giustizia non ha quindi ricevuto alcun faldone, né documento utile all' estradizione del cittadino italiano, condannato per omicidio nel 2000. Al contrario, l'ultimo atto pervenuto dagli Stati Uniti è una lettera del Department of Justice di Washington, datata 26 febbraio, in cui si fa presente che il Governatore dello Stato della Florida sollevava ulteriori richieste di chiarimenti, a cui la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha subito dato seguito. L' ultima comunicazione formale è una lettera inviata dalla Guardasigilli lo scorso 10 marzo al Governatore dello Stato della Florida, per "attirare la sua attenzione sul caso" e fornire ulteriori rassicurazioni, al fine di favorire il trasferimento in Italia di Forti». E ancora, il ministero della Giustizia ha svelato che «ad oggi i competenti uffici del ministero della Giustizia, che hanno lavorato in coordinamento con quelli del ministero degli Affari Esteri, non hanno ricevuto alcuna risposta a questa lettera, di cui la Guardasigilli ha parlato anche nell' incontro con l'Incaricato d' affari americano in Italia. La Ministra Cartabia continuerà a sollecitare con vigore, in tutte le sedi opportune, l'estradizione in Italia di Enrico Forti». Ora, almeno, sappiamo che l'imbuto della questione è ancora negli Usa e che i rapporti restano complicati, vista la lentezza con cui gli Stati Uniti affrontano la questione. «Il risultato, però, è che sembra un gioco allo scaricabarile - dice con delusione Gianni Forti, lo zio di Chico -. Se io invio una richiesta e non ricevo risposta, dopo un po' mi rifaccio vivo e sollecito la persona cui ho scritto senza far passare troppo tempo. A questo punto mi aspetto un intervento ufficiale dello Stato italiano». Anche perché tra indignazione social, discussioni politiche e giustificazioni, a farne le spese è sempre lui, Chico. Che viveva felicemente a Miami, amava la vela (ha partecipato a sei mondiali e due europei di windsurf) e faceva il produttore cinematografico fin quando, nel 1998, senza motivo, è stato incolpato di aver ucciso Dale Pike, figlio di Anthony Pike, dal quale stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza. Che dal 2000 sta scontando l'ergastolo in Florida dopo essere stato condannato senza prove. Che ora ha 62 anni ed è rinchiuso in una prigione in attesa di trasferimento, che sei mesi fa è stato illuso di tornare presto in Italia, ma che ogni mattina si sveglia e capisce che il suo maledetto incubo - tra tanti blablabla - non è ancora finito.

Sono passati 6 mesi dall'annuncio dell'estradizione. Chico Forti “è stremato”, appello a Cartabia: “Risolvete i problemi burocratici con gli Stati Uniti”. Redazione su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Era il 23 dicembre 2020 quando Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, annunciò il ritorno in Italia di Chico Forti, il 62enne produttore televisivo e velista detenuto dal 2000 negli Stati Uniti dove sta scontando una condanna all’ergastolo per omicidio, nell’ambito di una vicenda giudiziaria piena di punti oscuri e aspetti da chiarire, con il diretto interessato che si è sempre dichiarato innocente. Quasi sei mesi dopo non c’è ancora una data ufficiale del ritorno, in carcere, nel suo Paese natale. A lanciare un appello alle istituzioni è Gianni Forti, zio dell’imprenditore trentino: “Chico ormai è allo stremo. Sì è vero, è un combattente nato. Ma stavolta è al limite. In questi mesi di pandemia, abbiamo avuto anche problemi a sentirlo con continuità. E’ isolato dal mondo. Poco prima di Natale dell’anno scorso, il ministero degli Esteri aveva annunciato che il trasferimento in Italia ormai era cosa fatta – continua Forti – Bene, ad oggi solo silenzio. Questa tragedia familiare, oltre che giudiziaria, non ha fine. A questo punto siamo costretti a chiedere al governo risposte certe”. Alla base del ritardo, dopo l’annuncio festante di Di Maio, ci sarebbero problemi burocratici: i documenti, che il dipartimento della giustizia degli Stati Uniti avrebbe dovuto mandare al ministero della Giustizia per accordarsi sulla commutazione della pena e relativo trasferimento, non sarebbero mai arrivati in Italia. “Senza questi documenti Chico non può rientrare – sottolinea Gianni Forti – Dall’annuncio del ministro Di Maio sembrava che sarebbero passate poche settimane, lo aspettavamo il 14 febbraio per il compleanno della mamma che ha compiuto 93 anni, poi a Pasqua, infine a maggio. Invece, ancora niente. Siamo fermi al palo”. “L’ultima mail di Chico Forti – prosegue lo zio –  è della settimana scorsa: si trova ancora in un carcere statale della Florida. Per l’estradizione in Italia deve essere prima trasferito in una prigione federale dal Dipartimento di giustizia americano. Se il governo italiano non sollecita gli americani, loro di certo non si fanno prendere dalla fretta – dice Gianni Forti -. La Farnesina ha fatto il suo lavoro, ora deve farlo il ministero della Giustizia. Se la prima lettera alle autorità americane non ha avuto risposta, spero che la ministra Cartabia ne invii un’altra. Ormai le mail di Chico arrivano a singhiozzo. Nell’ultima, a parte cose personali, ha scritto che ha piena fiducia che le istituzioni italiane accorceranno il più possibile la sua attesa. Ma si capisce che è una situazione atroce”. Un appello, dalle pagine del quotidiano Libero, è stato lanciato anche dalla mamma di Chico Forti, la signora Maria, 93enne. “Non lo vedo dal 2008, ormai non mi resta molto tempo. E’ fondamentale l’intervento del Governo per sbloccare gli ostacoli burocratici”.

Niccolò Magnani per ilsussidiario.net il 6 giugno 2021. Sembra non esserci proprio pace per Chico Forti, l’ex campione velista condannato per omicidio in Florida (ma si è sempre dichiarato vittima di un errore giudiziario, confermato anche dal fratello della vittima Dale Pike) che dovrebbe tornare in Italia dopo 22 anni di detenzione a Miami: come spiega oggi “Libero Quotidiano”, la famiglia Forti è disperata perché sarebbero sparite le carte utili per eseguire la “promessa” fatta dal Governatore della Florida di trasferire Chico in Italia avvalendosi dei benefici previsti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Il faldone con i documenti utili a sbloccare il ritorno nel nostro Paese dell’ex produttore e campione di windsurf dovrebbe essere stato inviato «dal dipartimento della giustizia degli Stati Uniti d’America al nostro Ministero della Giustizia per accordarsi sulla commutazione della pena». A Miami Chico è stato condannato all’ergastolo senza condizionale nel 2000 e vi potrebbe uscire, per legge, solo da morte da quella prigione: con il documento invece in questione, vi sarebbe possibile il trasferimento dato che «arrivati nel Paese di espiazione della pena il destino giudiziario viene deciso dalla magistratura locale sulla base delle leggi del posto», spiega ancora Libero. Il problema è che ora quel documento sembra del tutto sparito e nessuno sa dove sia finito: «La situazione è bloccata, sembriamo fermi a un binario morto e spero solo che Di Maio, che è stato l’unico che ci ha messo la faccia, non ci abbandoni», spiega lo zio di Chico, Gianni Forti a “Libero Quotidiano”. Lo scorso inizio maggio la famiglia del condannato in Usa ha parlato con l’ex Ministro Fraccaro e gli è stato spiegato che vi era un ritardo nella consegna di quei documenti da parti dei vertici del dipartimento federale Usa insediato da poche settimane dopo l’elezione di Joe Biden. Dal parlamentare M5s è stato però anche annunciato che comunque il faldone presto sarebbe stato in mano al Ministero italiano ma ora ad inizio giugno, a distanza di un mese, ancora non se ne sa nulla. «Non sappiamo a chi rivolgerci, non abbiamo il riferimento di una persona fisica», dichiara ancora lo zio di Chico disperato, lui come l’intera famiglia compresa ovviamente la mamma Maria che a 93 anni si alza ogni giorno con la speranza di poter rivedere suo figlio. Dopo l’enorme cassa di risonanza mediatica frutto di numerosi appelli del mondo dello spettacolo fino al programma “Le Iene” per il ritorno in Italia di Chico Forti, lo scorso 23 dicembre il Ministro degli Esteri Di Maio annunciava su Facebook l’accordo con il Governatore della Florida per l’istanza accolta di trasferimento in Italia, «avvalendosi dei benefici previsti dalla CEDU […] Si tratta di un risultato estremamente importante, che premia un lungo e paziente lavoro politico e diplomatico». Il dossier esiste? Non è ancora stato inviato dagli Usa? È stato perso in Italia? Sembra assurdo, ma dopo tutto quanto avvenuto negli ultimi 22 anni ora che si è praticamente alla linea del traguardo nuovamente si interrompe tutto: si spera, a questo punto, che sia questo davvero l’ultimo appello al Governo italiano per dirimere ogni ostacolo prima del “lieto fine”.

·        Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.

La decisione del gip di Cagliari. Matteo Sereni, dopo 11 anni finisce il calvario per l’ex portiere: “Non ha abusato dei figli”. Massimiliano Cassano su Il Riformist l'8 Marzo 2021. Le interrogazioni dei minori, che avevano portato ad accuse di abusi sui propri figli per l’ex portiere del Torino Matteo Sereni, sono state condotte “con modalità che sono l’antitesi della metodologia con la quale dovrebbe essere condotto l’esame di una minore abusata, specie in età prescolare”. Per questo motivo il gip Michele Contini del tribunale di Cagliari ha archiviato l’inchiesta a carico dell’ex calciatore, denunciato per una vicenda di violenze sui suoi figli rivelatasi quindi infondata. Si tratta del secondo provvedimento di archiviazione, dopo quello emesso nel dicembre del 2019 dal gip del tribunale di Torino, Francesca Firrao. Nel filone cagliaritano appena conclusosi si era ipotizzata perfino la realizzazione e la vendita di filmati a sfondo pornografico. Michele Galasso e Giacomo Francini, legali di Sereni, hanno affermato che “i minori sono stati a lungo interrogati con modalità inappropriate e potenzialmente suggestive di falsi ricordi” sia dalla moglie separata che dalla ex suocera, e anche dai consulenti tecnici in sede civile e penale. “La vicenda è così definitivamente chiusa”, hanno aggiunto i due avvocati. Come osservato dallo stesso tribunale, “è sperimentalmente provato che un minore, quando è incoraggiato e sollecitato a raccontare da parte di persone che hanno una influenza su di lui, tende a fornire la risposta compiacente che l’interrogante si attende e che dipende in buona parte dalla formulazione della domanda”. “Tali incoraggiamenti – aggiunge il gip – sono stati molteplici, sia da parte degli stretti congiunti, sia da persone estranee al loro ambito familiare”. Per l’ex portiere è la fine di un lungo periodo buio. “Dal momento in cui sono stato travolto dalle accuse – ha dichiarato – la mia esistenza è andata in fumo. Dopo un primo giudice che mi ha reso giustizia, oggi un altro giudice, dopo undici anni di calvario giudiziario, ha posto la parola fine a questo incubo”.

Massimiliano Nerozzi per corriere.it il 7 marzo 2021. All’improvviso — «era il luglio 2010, durante l’udienza di separazione» — Matteo Sereni si ritrovò l’anima devastata e il corpo distrutto: «All’epoca giocavo a Brescia, con alcuni anni di contratto, ma nel giro di poco mi vennero tre protrusioni cervicali e un’ernia. Mi trascinavo per le scale: e sono crollato». Accusa infamante: abuso su minori. Ne è venuto fuori, da innocente, con due archiviazioni (dei gip di Torino e Cagliari), ma è stato un incubo.

Matteo Sereni, come s’è salvato?

«Con la speranza che, alla fine, la verità avrebbe trionfato. E con l’amore delle persone che mi sono state vicino».

Chi?

«A partire da Stefania, la mia compagna, che mi ha dato il supporto e l’amore che servivano: con lei, e la nostra bimba, Sofia, siamo riusciti a rimanere a galla».

Che ha pensato l’altro giorno, quando è finita?

«Felicità, perché l’incubo era finito, ma a dir la verità non mi veniva voglia di gioire, perché sono stati anni di preoccupazioni, tormenti, attimi di sconforto. Se ti scontri con certe cose, cambi».

Quando è iniziato tutto, invece, come s’era sentito?

«Mi sono accorto della gravità dell’accusa giorno dopo giorno, con il passare del tempo. Ed è stato terribile: non riesci più a fare nulla, il tuo lavoro o quel che avresti voluto. Forse perché le porte un po’ ti si chiudono, a prescindere che tu sia colpevole o innocente».

Ci sono amici che non si sono più fatti sentire?

«Se c’è stato chi parlava male non so: mi basta sapere che i miei ex colleghi, gli allenatori, i presidenti, non hanno mai dubitato di me».

Chi di questi le ha dato la forza?

«Nomi non ne faccio, per non mancare di rispetto e coinvolgerli: ma loro lo sanno, perché li ho sentiti e ringraziati. Sono persone vere».

Oltre all’accusa, s’è mai sentito addosso il sospetto?

«Questa è una vicenda che ho vissuto sulla mia pelle, e per la quale hanno sofferto le persone care, da mia mamma a mio fratello. Papà è mancato proprio quando è iniziato tutto questo. E di quelli che mi incrociano per strada e magari mi borbottano dietro qualcosa non mi importa».

Undici anni per uscirne: pensieri sulla giustizia?

«Entri in un sistema nel quale non sai dove vai a finire. Io ho avuto la fortuna di avere due angeli, i miei avvocati, Giacomo Francini e Michele Galasso, che hanno smontato le montagne di accuse e di fango gettati su di me».

Che cosa le resta?

«Ho saputo di non essere l’unico, in Italia, a essere accusato ingiustamente. Anzi, durante la mia vicenda, in tanti mi hanno fatto sapere cos’era capitato a loro. In questo campo si deve ancora migliorare e per questo, vorrei fare qualcosa».

Cioè?

«Appena potrò, darò sostegno ai papà e alle persone che soffrono ingiustamente, mi batterò per la loro causa. Non ho la presunzione di sapere, ma davvero vorrei poter dare un contributo».

Cosa direbbe a chi si ritrova nella sua situazione?

«Che prego per lui».

Dagospia il 15 marzo 2021. Undici anni di indagini, di perizie, di processo senza mai trovare una prova vera che potesse certificare accuse così gravi. E alla fine si è concluso con due archiviazioni il procedimento a carico di Matteo Sereni, ex portiere in serie A - tra le tante squadre in cui ha militato, Torino, Lazio e Sampdoria - re, secondo le accuse della sua ex moglie, del reato più infamante: atti osceni su minori, e realizzazione di materiale pornografico. Anni durissimi, in cui Sereni ha visto stravolgere la propria vita, oltre che quella di chi ha voluto difenderlo. Adesso l' archiviazione è perentoria, e parla senza mezzo termini di testimonianza dei minori raccolte in modo inappropriato e manipolazioni non veritiere . E oggi che cosa si può fare ? Matteo Sereni, visibilmente provato, cerca di raccontarlo in questa intervista.

Giovanni Terzi per "Libero quotidiano" il 15 marzo 2021. Una vita tra i pali, quella di Matteo Sereni, a difendere le porte delle squadre per cui giocava. Sampdoria, Piacenza, Empoli, Brescia, Lazio e Torino, fino a una breve parentesi in Inghilterra, nelle file dell' Ipswich Town, per poi tornare In Italia, al Brescia, dove a trentasei anni darà l' addio al calcio. Ma la parata più difficile l' ha compiuta il 5 marzo scorso, quando il gip Michele Contini del Tribunale di Cagliari ha archiviato definitivamente l' inchiesta a suo carico per presunti abusi su minorenni. Una vicenda davvero drammatica. «Improvvisamente la mia ex moglie, Silvia Cantoro, durante la separazione giudiziale, inizia ad accusarmi di nefandezze senza precedenti che avrei compiuto su dei minorenni». Matteo Sereni è visibilmente emozionato, sono passati undici anni di calvario in cui si è sentito cadere il mondo addosso, e ora, finalmente, si è arrivati a una conclusione che lo scagiona. Le accuse mosse dalla ex moglie erano violentissime. Abusi sessuali, giochi erotici in barca in compagnia di altri amici del calciatore, fino alla realizzazione e alla vendita di filmati a sfondo pornografico: insomma, quanto basta per disintegrare l' esistenza di una persona.

«Nel 2009 iniziammo la separazione giudiziale - racconta -Ricordo perfettamente che, all' inizio, era semplicemente una lunga richiesta di pretese economiche, fino alla prima udienza nel luglio del 2010».

Che cosa accadde in quell' occasione?

«Entro in udienza e vedo i miei legali mettersi le mani nei capelli. Avevano appena letto le accuse che la mia ex moglie aveva mosso nei miei confronti. Da quel momento non ho più visto la luce».

Ma come si può essere arrivati a una situazione così assurda, e soprattutto per quale motivo ci sono voluti undici anni per accertare la verità?

«Credo sia importante che a questa domanda rispondano i miei avvocati, il mio Giacomo Francini e Michele Galasso, perché, mi creda , dopo un' odissea come questa, una persona ha davvero paura di parlare».

L' avvocato Giacomo Francini ha un' idea ben chiara del cortocircuito perverso che si è generato e che ha determinato il martirio del suo assistito: «I minori sono stati a lungo interrogati con modalità inappropriate e potenzialmente suggestive di falsi ricordi. Questo è stato fatto sia dalla moglie separata che dalla ex suocera, oltre che dai consulenti tecnici in sede civile e penale. Di fatto, basta leggere ciò che ha scritto il Tribunale: "È sperimentalmente provato che un minore, quando è incoraggiato e sollecitato a raccontare da parte di persone che hanno una influenza su di lui (e ogni adulto è per un bambino un soggetto autorevole), tende a fornire la risposta compiacente che l' interrogante si attende e che dipende in buona parte dalla formulazione della domanda. Tali incoraggiamenti sono stati molteplici, sia da parte degli stretti congiunti, sia da persone estranee al loro ambito familiare"». Parole pesanti del Tribunale, che stigmatizza le modalità con cui i minori sono stati sollecitati a dare risposte compiacenti e non veritiere. Ma c' è di più.

«In data 3 maggio 2017, la signora Cantoro in un verbale di assunzioni di indagini dichiarava che era stata la sua consulente, la dottoressa Bruzzone, a consigliare di registrare tutti, anche i minorenni. Questa modalità non è considerata corretta per ciò che è stato sancito dalla "Carta di Noto", che racconta le giuste modalità di riscontro rispetto a un minore potenzialmente oggetto di abusi. Questa cita che si deve garantire che l' incontro avvenga in tempi, modi e luoghi tali da assicurare la serenità del minore e la spontaneità della comunicazione oltre che evitare, in particolare, il ricorso a domande suggestive o implicative che diano per scontata la sussistenza del fatto che è oggetto dell' indagine».

E tutto questo non è accaduto?

«Assolutamente no. È il Tribunale che, nella archiviazione, pone l' accento sulla inadeguatezza della modalità di assunzione delle testimonianze».

Matteo, dal momento in cui è incominciato il procedimento penale, a lei non è stata più concessa la possibilità di vedere i suoi figli?

«Purtroppo è accaduto anche questo, proprio per il tipo di accuse che avevo ricevuto. Per questo sto ancora profondamente soffrendo e, mi creda, la sofferenza riguarda anche quegli amici che, prendendo le mie difese, si sono visti aggredire anch' essi dalla mia ex moglie».

Parla di Marco Quaglia?

«Non solo. Marco ha raccontato la verità, e su di lui si sono scatenate le ire di chi mi accusava ingiustamente. La vita di Marco è stata distrutta e per me è un pensiero; mi creda che essere la causa (senza colpa) di tanta cattiveria mi fa male».

Questa del 5 marzo e la seconda archiviazione.

«Si tratta del secondo provvedimento di archiviazione, dopo quello emesso nel dicembre del 2019 dal gip del tribunale di Torino, Francesca Firrao, e già in quell' occasione avevo tirato un primo sospiro di sollievo. Ma con quest' ultimo e definitivo possiamo finalmente dire che si è chiusa ogni situazione».

Come sono stati questi anni, come è riuscito a resistere?

«Ci sono stati momenti in cui non sentivo più stimoli nei confronti della vita stessa. Accusato di cose ignobili, che hanno comportato la distruzione della mia dignità. Ho avuto la fortuna di avere accanto persone speciali come mio fratello Giacomo, i miei avvocati, ma soprattutto la mia compagna Stefania, che ha saputo credere in me e tenermi sempre la mano. La grandezza di Stefania è stata quella di essersi accollata ogni cosa pur essendo molto più giovane di me. Ha dimostrato di essere una grande donna, ed è stata decisiva anche per riconciliarmi con il genere femminile».

In che senso?

«Non sono l' unico caso in cui una battaglia di separazione si trasforma in un vero e proprio calvario umano. Quanto sarebbe più opportuno che, in sede di separazione, i coniugi adottassero comportamenti più consoni».

Questo è vero, spesso si parla di alienazione parentale e di danni irreversibili.

«È così. La tutela per noi uomini viene esercitata soltanto durante il procedimento penale ma, come è accaduto a me , ci sono voluti dieci anni. Dieci anni di vita buttati via, di bugie e di danni fatti nella psiche dei miei ragazzi».

Poi l' arrivo di Sofia, quattro anni fa, la figlia avuta proprio da Stefania.

«La nascita di Sofia ha rappresentato la svolta nella mia esistenza. Un segno meraviglioso del destino, che mi ha fatto capire come questo fosse tornato ad essere benevolo bei miei confronti. Stefania, Sofia ed io abbiamo ripreso in mano la nostra vita, migliorandola, ed oggi siamo davvero sereni anche se, mi creda, le cicatrici provocate da questi dieci anni di supplizio non si cancelleranno mai».

Pensate di fare azioni legali a chi ha causato tutto questo?

«Preferisco per adesso che tutto rimanga così. In futuro vedremo».

Una domanda però a me che ho intervistato sorge spontanea: ma come è possibile che, a fronte di palesi bugie, la giustizia non proceda d' ufficio verso coloro che hanno determinato tanta sofferenza?

·        Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.

(ANSA il 3 magio 2021) - ROMA, 03 MAG - Sono definitive le condanne a 14 anni per Antonio Ciontoli, e a 9 anni e 4 mesi per la moglie Maria Pezzillo e i figli Martina e Federico, per l'omicidio di Marco Vannini, morto nella loro casa di Ladispoli nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015. La quinta sezione penale della Cassazione ha confermato la sentenza d'appello bis, del 30 settembre scorso, che aveva condannato Ciontoli per omicidio con dolo eventuale e il resto della famiglia per concorso anomalo.

Vannini, i giudici della Cassazione: “Condotta di Ciontoli spietata”. Le Iene News il 19 luglio 2021. “Ciontoli era ben consapevole di aver colpito Marco Vannini con un’arma da fuoco”. Lo scrivono i giudici della Cassazione che hanno condannato Antonio Ciontoli e la sua famiglia per l’omicidio di Marco Vannini. Una vicenda giudiziaria e umana che vi abbiamo raccontato con Giulio Golia e Francesca Di Stefano. "La condotta di Antonio Ciontoli fu anti doverosa, ma anche caratterizzata da pervicacia e spietatezza” per questo “appare del tutto irragionevole prospettare, come fa la difesa, che avesse sperato che Marco Vannini non sarebbe morto". Lo scrivono nero su bianco i giudici della Cassazione nelle 62 pagine delle motivazioni della sentenza di condanna della famiglia Ciontoli. Lo scorso 3 maggio ha messo la parola fine a una vicenda giudiziaria e umana iniziata 5 anni prima con la morte del ragazzo ad appena 20 anni. “Ciontoli era ben consapevole di aver colpito Marco Vannini con un’arma da fuoco e della distanza minima dalla quale il colpo era stato esploso”, scrivono i giudici. Per la morte di Marco tutta la famiglia di Antonio Ciontoli è stata condannata in via definitiva con la conferma delle pene dell’Appello bis: il capofamiglia sta scontando 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale mentre sua moglie e i figli Federico e Martina 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. Con Giulio Golia e Francesca Di Stefano abbiamo seguito anche quella giornata come potete vedere nel servizio qui sopra. "Tutti ebbero immediata cognizione di tale circostanza e tuttavia nessuno si attivò per allertare tempestivamente i soccorsi, fornendo le informazioni necessarie a garantire cure adeguate al ragazzo ospitato nella loro abitazione e che, sino a quella sera, avevano trattato come uno di famiglia", scrivono i giudici. Per loro tutta la famiglia Ciontoli la sera tra il 17 e il 18 maggio 2015 era consapevole “della presenza del proiettile ancora nel corpo di Vannini”. Quello che è successo dopo lo abbiamo sentito dalle intercettazioni telefoniche di quei 100 lunghissimi minuti in cui la famiglia non ha attivato i soccorsi. Secondo la Suprema corte, Ciontoli "ha interrotto bruscamente la prima telefonata al 118 effettuata dal figlio Federico e dalla moglie affermando 'non serve niente'; giunto al Pit di Ladispoli, ha preteso di conferire con il medico di turno, spiegando che l'incidente doveva essere mantenuto il possibile riservato, in ragione del suo impiego alla Presidenza del Consiglio". Per questo i giudici scrivono che "lo stato di soggezione nel quale versavano i familiari si desume da molteplici circostanze: tutti gli imputati, dopo aver compreso l'accaduto, omisero di attivarsi per aiutare effettivamente Marco". 

Le motivazioni della Suprema Corte. Omicidio Vannini, per la Cassazione Ciontoli “Spietato, moglie e figli manipolati. Al medico disse ‘lavoro per il Premier'”. Serena Console su Il Riformista il 19 Luglio 2021. La Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza che il 3 maggio scorso ha messo la parola fine alla vicenda giudiziaria dell’omicidio di Marco Vannini, il 21enne morto a Ladispoli la notte tra il 17 e il 18 maggio del 2015 per un colpo d’arma da fuoco sparato da Antonio Ciontoli, padre della sua fidanzata Martina. Secondo i giudici, “La condotta di Antonio Ciontoli fu non solo assolutamente anti doverosa ma caratterizzata da pervicacia e spietatezza, anche nel nascondere quanto realmente accaduto, sicché appare del tutto irragionevole prospettare, come fa la difesa, che egli avesse in cuor suo sperato che Marco Vannini non sarebbe morto”. Le parole dei giudici non lasciano quindi altre interpretazioni e spiegano come siano giunti alla decisione di condannare Ciontoli a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale. Le responsabilità della morte del ragazzo sono di tutti i parenti di Antonio Ciontoli presenti durante l’accaduto. La moglie, Maria Pezzillo, e i figli, Federico e Martina, stanno infatti scontando nove anni e quattro mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. Vannini, subito dopo essere stato colpito da un proiettile sparato da Antonio Ciontoli, si era lamentato per il dolore, chiedendo aiuto e l’intervento dei soccorsi, come provato dalla telefonata registrata tra Ciontoli e la centrale del 118. Tuttavia, secondo l’accusa, i familiari hanno atteso troppo tempo per chiedere l’intervento degli operatori sanitari. Per i giudici della Suprema Corte, inoltre, Ciontoli “omise prima, e per un tempo apprezzabile, di chiamare i soccorsi. Quando finalmente lo fece, omise di riferire quanto realmente accaduto, sebbene consapevole di aver esploso un colpo di pistola, con arma di potenza micidiale, e quindi con chiara rappresentazione della possibile verificazione dell’evento più’ tragico”. E ancora, si legge nella motivazione, Antonio Ciontoli si adoperò, con il fattivo aiuto dei suoi familiari, per cancellare le tracce della condotta, nascondendo l’arma, le cartucce e il bossolo del proiettile sparato. Si adoperò per “cancellare le tracce di sangue, a lavare il bagno, spostando dal luogo del ferimento Vannini, nonché a rivestirlo con indumenti non suoi”, si legge nelle motivazioni della Suprema Corte. Le carte del processo raccontano che “tutti si preoccuparono subito della presenza del proiettile ancora nel corpo di Vannini, tutti ebbero immediata cognizione di tale circostanza, tuttavia nessuno si attivò per allertare tempestivamente i soccorsi, fornendo le informazioni necessarie a garantire cure adeguate al ragazzo ospitato nella loro abitazione e che, sino a quella sera, avevano trattato come uno di famiglia. Eppure Vannini si era lamentato per il dolore, aveva invocato aiuto e lo aveva fatto in modo talmente forte che le sue urla erano state distintamente avvertite dai vicini di casa e registrate nelle conversazioni telefoniche con gli operatori del 118“.

Atteggiamento autoritario. Per i giudici i familiari di Ciontoli avevano timore di Antonio, tanto che quest’ultimo condizionò la condotta dei figli e della moglie. Come si legge nelle motivazioni della Corte di Cassazione, “lo stato di soggezione nel quale versavano i familiari si desume da molteplici circostanze: tutti gli imputati, dopo aver compreso l’accaduto, omisero di attivarsi per aiutare effettivamente Marco”. Ciontoli, spiegano i giudici della Suprema Corte, come “militare appartenente alla Marina militare e successivamente distaccato ai Servizi segreti, detentore di armi da fuoco e autore dello sparo, ha gestito in maniera autoritaria l’incidente e ha da subito minimizzato l’accaduto, tentando di rassicurare i familiari con spiegazioni poco credibili”. L’uomo, si legge negli atti, “ha interrotto bruscamente la prima telefonata al 118 effettuata dal figlio Federico e dalla moglie affermando: "non serve niente"; giunto al Pit di Ladispoli, ha poi preteso di conferire con il medico di turno, spiegando che l’incidente doveva essere mantenuto il più’ possibile riservato, in ragione del suo impiego alla Presidenza del Consiglio”. Serena Console

"Avete fatto condannare degli innocenti", Antonio Ciontoli contro i giornalisti. Angela Leucci l'8 Maggio 2021 su Il Giornale. "Quarto Grado" ha approfondito la recente condanna in Cassazione di Antonio Ciontoli e la sua famiglia per l'omicidio di Marco Vannini: ecco cosa è emerso. “Avete fatto delle manipolazioni ambientali”. Prima di entrare in carcere Antonio Ciontoli attacca i giornalisti di “Quarto Grado”. L’uomo è stato condannato nei giorni scorsi a 14 anni per l’omicidio di Marco Vannini, mentre la moglie Maria Pezzillo e i figli Federico e Martina Ciontoli hanno avuto 9 anni e 4 mesi per concorso. Antonio è stato sentito telefonicamente dai giornalisti di “Quarto Grado” prima del suo ingresso a Regina Coeli. “Penso che è il caso che parliamo delle manipolazioni alle ambientali che avete fatto durante le vostre trasmissioni - ha detto lapidario - Lei insieme a tutti gli altri avete manipolato le intercettazioni ambientali. È ovvio che voi avete manipolato le intercettazioni ambientali, per far credere scientemente e volutamente che le cose non erano così come erano andate”. I due giornalisti della trasmissione di Rete4 chiedono quindi a Ciontoli se crede che la corte sia stata manipolata da loro e dai colleghi. “Allora, voi l’avete manipolata - ha chiosato Antonio - Questo me lo deve dire lei, non certo io. È una realtà quella che io sto dicendo. Voi siete stati artefici di questa condanna. E lo faccia sentire… Faccia sentire le mie parole. Io per questo combatterò per sempre fino al mio ultimo respiro. Assieme a tutta la sofferenza che c’ho per questa immane tragedia, voi avete contribuito a far condannare due ragazzi innocenti e mia moglie che è innocente, manipolando volutamente e scientemente le intercettazioni ambientali. Se siete fieri di quello che avete fatto, se siete contenti… Ma certo, il vostro mestiere è quello di manipolare le intercettazioni ambientali. Stia vicino a Marina e Valerio che se lo meritano”. Anche Federico Ciontoli, prima della sentenza di Cassazione che ha condannato l’intera famiglia si è schierato contro i giornalisti, dicendo: “Vi chiedo solo rispetto”. Nei giorni precedenti Federico ha scritto una lettera aperta in cui ha parlato anche dei genitori di Marco, Marina e Valerio Vannini. In trasmissione Valerio ha spiegato che a loro non serviva nulla di tanto formale, ma sarebbe bastato un foglietto nella cassetta della posta 6 anni fa. La sorella Martina Ciontoli ha scritto anche lei qualcosa. “Lo abbiamo appreso dai giornali - ha ribattuto mamma Marina - Se voleva parlare con noi poteva farlo dal 18 maggio 2015”. Martina è attualmente a Rebibbia: lei e la madre avrebbero dovuto essere separate e in isolamento, ma sono state messe insieme su richiesta della giovane. Non le è stato possibile invece telefonare all'attuale fidanzato, per via di questioni tecniche. A “Quarto Grado” è stato ascoltato, tra gli altri ospiti intervistati in registrazione, Roberto Izzo, che all’epoca era comandante dei carabinieri di Ladispoli. Il militare ha affermato di essere stato contattato da Antonio Ciontoli quella notte e di aver sempre creduto al fatto che sia stato lui a sparare inavvertitamente, come in effetti lui gli ha raccontato. Izzo ha anche raccontato come Maria si dicesse preoccupata per il lavoro, la casa, i soldi e gli studi dei figli, mentre Martina fosse in evidente stato di choc. “La verità - ha detto papà Valerio in apertura del segmento sul caso nel programma - sicuramente non la sapremo mai. Sono sempre stato convinto che la verità l’unico che la poteva dire era Marco. Quella che hanno detto loro e che è uscita alla fine del processo è una verità processuale, non quella storica, che secondo me rispecchia in minima parte quello che c’è stato”.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Omicidio Marco Vannini, la Cassazione conferma le condanne per i Ciontoli. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Maggio 2021. La Cassazione mette la parola fine sulla vicenda giudiziaria riguardante la morte di Marco Vannini, il 20enne di Cerveteri morto il 17 maggio del 2015 nella casa della fidanzata Martina a Ladispoli (Roma), ucciso da un colpo di pistola. I giudici hanno infatti confermato le sentenze nei confronti di Antonio Ciontoli, della moglie Maria e per i figli Federico e Martina. Il primo è stato condannato a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale, gli altri tre a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. I giudici hanno infatti rigettato tutti i ricorsi delle difese. Si è trattato oggi del secondo pronunciamento della Suprema Corte sul caso: già a febbraio 2020, i giudici del Palazzaccio avevano “detto no” alla prima sentenza di corte d’Appello che aveva derubricato l’omicidio volontario riconosciuto in primo grado a omicidio colposo con una pena a 5 anni per Antonio Ciontoli. In quell’occasione i giudici avevano quindi rimandato il caso in corte d’appello per un secondo processo dinnanzi ad una corte d’assise diversa, quella che il 30 settembre scorso ha sentenziato la pena più pesante ristabilendo l’omicidio volontario. La sentenza, accolta da un lungo applauso, è arrivata dopo quasi quattro ore di camera di consiglio, dalla quinta sezione penale della Suprema Corte, presieduta da Paolo Antonio Bruno. La famiglia Ciontoli “stasera si costituirà in carcere“, ha spiegato l’avvocato Gian Domenico Caiazza, uno dei difensori dei Ciontoli.

LA REAZIONE DELLA FAMIGLIA VANNINI – “Sono contento che finalmente è stata fatta giustizia per Marco. Gli avevamo promesso un mazzo di fiori se fosse stata fatta giustizia e domani è la prima cosa che farò”. È stata questa la prima reazione dopo la lettura della sentenza da parte di Valerio Vannini, padre di Marco, dopo la conferma delle condanne per i Ciontoli. “Ci siamo battuti per 6 anni, la paura c’è sempre ma ci abbiamo creduto fino alla fine. Ora giustizia è fatta“, ha aggiunto quasi in lacrime Marina, mamma di Marco.

ASSENTI I CIONTOLI – Nessun membro della famiglia Ciontoli ha assistito alla lettura della sentenza di corte di Cassazione. Questa mattina erano invece presenti in aula Federico e Martina, seduti a destra rispetto alla corte. A sinistra c’erano invece Valerio e Marina, i genitori di Marco Vannini. I due hanno assistito alle circa 4 ore di udienza prima di uscire separatamente, con Federico a “distrarre” i giornalisti per permettere alla sorella di uscire senza essere notata. “Quello che dovevo dire l’ho detto in aula”, ha ripetuto Federico nella ressa di domande e “ho scritto a Marina (la madre di Marco Vannini, ndr)” rispondendo a chi gli chiedeva se avesse chiesto perdono alla famiglia Vannini.

IL CASO – I fatti risalgono al 17 maggio 2015. La vittima venne portata presso il punto di primo soccorso di Ladispoli a notte fonda, quasi due ore dopo essere stato colpito da un colpo di pistola sparato dall’arma che Ciontoli teneva in casa. Le sue condizioni erano ormai disperate: il proiettile, partito dalla pistola di Ciontoli mentre Marco, fidanzato di Martina, era ospite in casa, aveva provocato gravi ferite interne. Dopo il ferimento, i Ciontoli non fecero nulla per salvarlo: il ventenne urlava, preso dal panico per il dolore, ma ai soccorritori i tre componenti della famiglia dissero una serie di bugie: che Marco era scivolato, poi che aveva avuto un attacco di panico dopo uno scherzo, che si era ferito con un pettine. Antonio Ciontoli ammise che il ragazzo era stato colpito, per errore, da un proiettile, solo davanti al medico di turno: dallo sparo erano passate quasi due ore, la ferita che aveva sotto l’ascella destra, a prima vista non lasciava pensare a un colpo di arma da fuoco, ma gli aveva fatto perdere oltre due litri di sangue. Il proiettile aveva ferito gravemente il cuore e i polmoni, ma se fosse stato trasportato subito in ospedale, è emerso dalle perizie effettuate durante il procedimento, si sarebbe salvato.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Omicidio Vannini, la Cassazione conferma la pena: condannati i Ciontoli. Le Iene News il 3 maggio 2021. La Cassazione conferma la condanna dell’Appello bis per la morte di Marco Vannini. Antonio Ciontoli è stato condannato a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale. Per i suoi figli Federico e Martina, l’ex fidanzata di Marco, e la moglie Maria Pezzillo la condanna è stata a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. Martedì a Le Iene con Giulio Golia e Francesca Di Stefano vi racconteremo questa lunga giornata. Ricorsi rigettati per la famiglia Ciontoli. La Cassazione conferma le condanne dell’appello bis per la morte di Marco Vannini (nel servizio qui sopra). Antonio Ciontoli è stato condannato nell’Appello bis a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale. Per i suoi figli Federico e Martina, l’ex fidanzata di Marco, e la moglie Maria Pezzillo la condanna è stata a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. Dopo 6 anni arriva la parola fine a questa lunga vicenda giudiziaria e umana che vi stiamo raccontando con Giulio Golia e Francesca Di Stefano. Martedì a Le Iene vi mostreremo nuovi dettagli raccolti alla vigilia di questa sentenza. “Appena mi hanno detto che andavano in carcere ho detto finalmente la parola fine. Non c’è nessuna persona che ha vinto: noi abbiamo perso Marco e i Ciontoli devono andare in carcere", è il commento a caldo di mamma Marina. "Avevo tanta paura perché sono 6 anni che andiamo nelle aule di tribunale e sono successe tante cose". Stamattina si diceva fiduciosa mentre entrava nel palazzo di giustizia. Oggi per la prima volta all’esterno del palazzo di Giustizia erano presenti anche alcuni “sostenitori” di Federico Ciontoli. Si sono presentati con uno striscione nero con sopra una scritta bianca: “Federico innocente”. Così hanno accolto lui e sua sorella Martina, presenti in aula. “Sono stati in silenzio per 6 anni e oggi si mettono a parlare sui social. Credo che i giudici ormai hanno ben chiaro tutto quello che è successo”, ha detto Valerio Vannini entrando in tribunale. Il papà di Marco fa riferimento alla lettera di Martina Ciontoli: “Non ho mai davvero pensato al carcere neanche come ipotesi nel mio futuro di fronte alla consapevolezza della verità. Fra poco probabilmente dovrò confrontarmi con questa possibilità”, scriveva Martina, la figlia di Antonio Ciontoli, parlando anche di un abbraccio che vorrebbe mandare ai genitori di Marco “ma a questa immagine inorridiscono. Per loro è impensabile e io devo accettarlo e rispettarlo”. “Uno si pente subito dopo l’evento, non dopo 6 anni. Quale abbraccio vuole darci Martina? Noi vogliamo solo giustizia”, ha aggiunto Valerio. “Speriamo di mettere la parola fine e la conferma della sentenza dell’Appello bis con il riconoscimento dell’omicidio volontario. Solo così Marco può riposare in pace”, ha detto Roberto Carlini, lo zio di Marco. Anche lui ha commentato la lettera di Martina Ciontoli: “Hanno contribuito a destabilizzarci. Per noi è una scelta tardiva, lei non si è mai fatta viva. Sarebbe stato più comprensibile scrivere alla famiglia perché per loro è sempre stata come una figlia. Comunque vada oggi non vince nessuno né i Vannini, né i Ciontoli. Sarebbe solo togliere una pena in meno a questa famiglia che ha già perso un figlio”. "Finalmente domani porterò quel mazzo di fiori definitivo, mio figlio potrà riposare in pace sia lui che noi. Oggi è una liberazione”, ha concluso mamma Marina. Domani, martedì 4 maggio a Le Iene vi racconteremo questo nuova lunga giornata assieme a Giulio Golia e Francesca Di Stefano, con cui seguiamo da tempo questo caso.

Omicidio Vannini, la sentenza della Cassazione: Antonio Ciontoli condannato a 14 anni di carcere. Moglie e figli a 9 anni. Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. La Corte di Cassazione ha confermato le condanne ai membri della famiglia Ciontoli per l’omicidio di Marco Vannini. Antonio Ciontoli è stato condannato in via definitiva a 14 anni di carcere per omicidio volontario con dolo eventuale, mentre la moglie Maria Pezzillo e i figli Federico e Martina a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. Viene scritta, così, la parola fine al processo per la morte di Marco, il ventenne di Cerveteri ucciso da un colpo di pistola nella notte tra il 17 e il 18 maggio del 2015 nella villetta dei genitori della fidanzata Martina a Ladispoli, in provincia di Roma. "Giustizia è fatta, Marco riposa in pace", queste le prime parole della mamma di Vannini, Marina Conte, dopo la lettura della sentenza. Già in appello il giudice aveva scritto nelle motivazioni della sentenza che i i Ciontoli avrebbero potuto evitare la morte di Marco se avessero chiamato i soccorsi nell’immediato e senza dire il falso. La Suprema Corte, adesso, ha rigettato il ricorso della famiglia e confermato la sentenza di secondo grado. Quello che si è concluso oggi è il processo bis. Inizialmente, infatti, Ciontoli era stato condannato a cinque anni di reclusione per omicidio colposo, con una derubricazione del capo d'imputazione. Successivamente ci fu un ritorno in aula, così come ordinato dalla Cassazione. Stando a quanto ricostruito dalle indagini nel corso degli anni, Marco Vannini è morto per un colpo di pistola sparato da Antonio Ciontoli, padre della fidanzata, Martina. Il capofamiglia ha sempre sostenuto che il proiettile sia partito per sbaglio, mentre il ragazzo era nella vasca da bagno. Nonostante il dolore e le urla di Marco, la famiglia si è decisa a chiamare i soccorsi troppo tardi. Per di più, Antonio Ciontoli disse all’operatrice del 118 che il 20enne si era ferito cadendo su un pettine, facendo tardare così l'intervento dell'ambulanza.

Processo Vannini, Cassazione rigetta il ricorso e conferma le condanne dei Ciontoli: 14 anni al padre, 9 anni e quattro mesi a moglie e figli. Rory Cappelli, Clemente Pistilli su La Repubblica il 3 maggio 2021. I genitori dopo la lettura della sentenza: "Domani potremo portare i fiori sulla tomba di Marco. È stata fatta giustizia, ma non ci sono né vincitori né vinti". Durissima la requisitoria della procuratrice Olga Mignolo: "Avevano capito che stava malissimo, hanno preferito che morisse per evitare conseguenze". Sono definitive le condanne a 14 anni per Antonio Ciontoli, e a 9 anni e 4 mesi per la moglie Maria Pezzillo e i figli Martina e Federico, per l'omicidio di Marco Vannini, morto nella loro casa di Ladispoli nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015. La quinta sezione penale della Cassazione ha confermato la sentenza d'appello bis, del 30 settembre scorso, che aveva condannato Ciontoli per omicidio con dolo eventuale e il resto della famiglia per concorso anomalo. All'udienza hanno potuto assistere solo le parti e i familiari. La famiglia Ciontoli non ha assistito alla lettura della sentenza. Applausi e grida di gioia hanno accolto la lettura della decisione della Cassazione. Marco Vannini fu ucciso da un colpo di pistola nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015 mentre era a casa della fidanzata a Ladispoli, sul litorale romano.

La reazione dei genitori dopo la sentenza. Liberazione, commozione, la madre di Marco, Marina Conte, è sollevata, parla veloce, ringrazia. "Grazie a tutti. A tutti, ce l'abbiamo fatta", ha detto subito dopo la lettura della sentenza. "Me lo sentivo che andava così, me lo sentivo anche se ero agitata. Mio figlio ha avuto giustizia. Finalmente... Sono sei anni che andiamo avanti. Ma il messaggio che mando a tutti i genitori che hanno perso un figlio, è che non bisogna mai mollare", ha detto. "È stata data giustizia a Marco, avevamo promesso che avremmo portato un fiore a Marco, oggi possiamo farlo", ha aggiunto il padre, "per tutti noi è una liberazione". Eppure, "noi abbiamo perso Marco e loro ora devono andare in carcere. Qui non ci sono vincitori, non lo siamo né noi né i Ciontoli".

La mamma di Marco: "L'ho visto in sogno". "Una settimana fa ho sono sognato Marco, era bello, stava al mare e mi diceva: 'Mamma andrà tutto come deve andare stai tranquilla'. Questa cosa si è avverata. Marco oggi era in quest'aula di tribunale e ha riacquistato la sua dignità", ha detto Marina. "Loro potevano dire la verità e tante cose sarebbero andate in modo diverso, comportandosi in quel modo sono loro che sono arrivati a tanto non sono stata io, mio marito o la mia famiglia che ad avere creato pressioni, è stata la loro condotta a creare rabbia in tutti gli italiani perbene". Martina Ciontoli (fidanzata di Marco) e il fratello Federico non hanno rivolto parola ai genitori della vittima: "Hanno mantenuto il punto fino in fondo - ha aggiunto Marina - Martina per la prima volta ci ha rivolto uno sguardo. Uno sguardo che mi è sembrato di sfida, lei mi guardava fissa. Io aspettavo mi dicesse qualcosa ma non mi ha detto nulla. Il perdono passa attraverso la verità che non è mai uscita".

L'udienza in Cassazione. L'accesso all'aula è stato consentito dal collegio alle sole parti e ai familiari per mantenere il distanziamento, ma fuori dalla porta, aperta, c'è stato per tutto il giorno un discreto assembramento. Fuori, nella piazza, discutendo ogni dettaglio del processo arrivato alla terza e finale tappa, per chiedere "verità" e "giustizia", sono rimasti i sostenitori della famiglia di Vannini, ma anche quelli di Federico Ciontoli (figlio di Antonio) che su un prato hanno steso uno striscione nero con una scritta bianca, "Federico innocente!". Poi sotto il sole caldo di maggio, hanno atteso.

La requisitoria della procuratrice generale. "Tutti gli imputati mentirono. L'unico, a parte la famiglia Ciontoli, che poteva riferire come erano andati i fatti, era Marco Vannini, ecco perché la sua morte era preferibile per Antonio Ciontoli, allo scopo di evitare conseguenze negative per lui e la sua famiglia", ha detto in aula la pg Olga Mignolo chiedendo di confermare le condanne di Antonio Ciontoli e dei suoi familiari per la morte del giovane e dunque di dichiarare inammissibile il ricorso del sottufficiale della Marina Militare. Nei confronti di Federico e Martina la pg nel corso della requisitoria ha formulato anche un'ipotesi di attenuazione della pena. "È incontestabile l'accettazione da parte di tutti gli imputati della condotta del capo famiglia. Vannini, ferito, restò affidato alle cure dei Ciontoli, che avevano un obbligo di protezione verso di lui. Gli imputati erano gli unici che avrebbero potuto impedirne la morte. Erano perfettamente a conoscenza di quanto avvenuto. Tutti erano consapevoli che Marco stesse molto male e tutti assunsero condotte omissive, reticenti e mendaci".

La parola agli avvocati di parte. "Si dice che non perdeva sangue", ha spiegato l'avvocato ricostruendo gli attimi in cui Vannini veniva soccorso. L'avvocato di Federico Ciontoli ha anche chiesto di lasciare la parola al suo assistito. "Non è questa la sede", ha risposto il giudice. L'udienza è stata poi sciolta: "Ci sarà la sentenza prima del calare del sole".

La versione degli inquirenti. Secondo gli inquirenti, i Ciontoli avrebbero aspettato quasi due ore prima di dare l'allarme e far arrivare i soccorsi. Dalla loro abitazione la prima telefonata al 118 partì alle 23,41 del 17 maggio. "C'è un ragazzo che si è sentito male. Si è spaventato", si limitò a dire Federico Ciontoli. La madre annullò quindi la richiesta di soccorso: "Si è ripreso, l'ambulanza non serve". Dopo 24 minuti una seconda telefonata, questa volta fatta da Antonio Ciontoli: "Il ragazzo si è ferito con un pettine a punta, grida perché si è messo paura". Neppure un cenno al colpo di pistola calibro 9 che aveva ferito in bagno il ventenne. A Ladispoli un'ambulanza arrivò così 110 minuti dopo il ferimento. A quel punto arrivarono nell'abitazione dei Ciontoli anche i carabinieri e della pistola il sottufficiale parlò soltanto al medico di turno, specificando: "Non lo dica a nessuno, rischio di perdere il lavoro".

Il ventenne morì attorno alle 3 del 18 maggio, mentre veniva trasportato in eliambulanza al policlinico "Gemelli" di Roma. Convocati in caserma gli imputati continuarono quindi a mentire, tanto che, ripresi da una telecamera, iniziarono a concordare la versione dei fatti da fornire agli investigatori. Martina, la fidanzata della vittima, consolò anche il padre: "È andata così eh, mo basta...era destino che morisse".

Omicidio Vannini, condanne confermate per i Ciontoli. La mamma di Marco: «Fatta giustizia». Chiara Pizzimenti il 4/5/2021 su Vanityfair.it. «Potremo portare i fiori sulla tomba di Marco. È stata fatta giustizia, ma non ci sono né vincitori né vinti». Sono le parole dei genitori di Marco Vannini dopo che la Corte di Cassazione ha reso definitive le condanne a 14 anni per Antonio Ciontoli, e a 9 anni e 4 mesi per la moglie Maria Pezzillo e i figli Martina e Federico. Tutti coinvolti nell’omicidio di Marco, morto nella loro casa di Ladispoli, sul litorale romano, nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015. Ciontoli è stato condannato per omicidio con dolo eventuale, il resto della famiglia per concorso anomalo. La quinta sezione penale della Cassazione ha confermato la sentenza d’appello bis del 30 settembre 2020. «Me lo sentivo che andava così, me lo sentivo anche se ero agitata. Mio figlio ha avuto giustizia. Finalmente… Sono sei anni che andiamo avanti. Ma il messaggio che mando a tutti i genitori che hanno perso un figlio, è che non bisogna mai mollare», ha detto la madre di Marco. «È stata data giustizia a Marco, avevamo promesso che avremmo portato un fiore a Marco, oggi possiamo farlo», ha aggiunto il padre, «per tutti noi è una liberazione, ma noi abbiamo perso Marco e loro ora devono andare in carcere». Causa pandemia l’accesso all’aula è stato consentito alle sole parti e ai familiari per mantenere il distanziamento. Durissima la requisitoria della procuratrice generale. «Tutti gli imputati mentirono. L’unico, a parte la famiglia, che poteva riferire come erano andati i fatti, era Marco Vannini, ecco perché la sua morte era preferibile per Antonio Ciontoli, allo scopo di evitare conseguenze negative per lui e la sua famiglia”, ha detto Olga Mignolo chiedendo di confermare le condanne di Antonio Ciontoli e dei suoi familiari e di dichiarare dunque inammissibile il ricorso del sottufficiale della Marina Militare. E ancora: «Vannini, ferito, restò affidato alle cure dei Ciontoli, che avevano un obbligo di protezione verso di lui. Gli imputati erano gli unici che avrebbero potuto impedirne la morte. Erano perfettamente a conoscenza di quanto avvenuto. Tutti erano consapevoli che Marco stesse molto male e tutti assunsero condotte omissive, reticenti e mendaci». I Ciontoli avrebbero aspettato quasi due ore prima di chiamare i soccorsi e quando lo fecero non agirono in modo adeguato quando invece l’arrivo dell’ambulanza e cure tempestive avrebbero potuto salvare Marco. Alle 23 e 41 la prima chiamata. «C’è un ragazzo che si è sentito male. Si è spaventato». Poi l’annullamento. «Si è ripreso, l’ambulanza non serve». Quindi un’altra chiamata: «Il ragazzo si è ferito con un pettine a punta, grida perché si è messo paura». Era invece stato colpito con un proiettile di una pistola calibro 9. Ora sono definitive le condanne di padre, madre e figli, compresa Martina, la fidanzata di Vannini. Per loro si sono aperte le porte del carcere.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 4 maggio 2021. Non sono bastate le dodici particelle di residui di polvere da sparo rinvenute nel naso di Antonio Ciontoli, perché si prendesse ogni colpa dell'omicidio di Marco Vannini, il fidanzato della figlia Martina, rimasto ammazzato nella notte tra il 17 e il 18 maggio del 2015 nella casa a Ladispoli, sul litorale laziale. La Cassazione ha confermato la condanna per tutta la famiglia Ciontoli, presente quella sera, perché nulla fecero di determinante per salvare Marco, dopo che era stato raggiunto da un colpo di pistola esploso dalla pistola d'ordinanza del futuro suocero Antonio Ciontoli, militare in Marina e impiegato al Rud di Forte Braschi. La pena maggiore, 14 anni di reclusione, va a quest'ultimo per omicidio volontario con dolo eventuale, mentre la moglie Maria Pezzillo, i figli Martina e Federico sono stati condannati a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo nell'assassinio del giovane biondo ragazzo che sognava di superare il test d'ingresso, il VSP1, per entrare in Aeronautica. La sentenza è immediatamente esecutiva, i Ciontoli andranno in carcere. È dunque una pronuncia unica sotto plurimi profili: Non si ricorda a memoria d'uomo una condanna per omicidio di un intero nucleo familiare, né trova analogie il sofferto percorso di verità condotto dai genitori del giovane, Marina e Valerio, per trovare giustizia con il figlio ucciso troppe volte dagli errori, le sciatterie investigative, i depistaggi e le menzogne. In questa storia di verità imbrattata da menzogna, un momento preciso fotografa l'inizio del "mascariamento", per dirla in siciliano, di quando il depistaggio della famiglia Ciontoli ha aggredito la tragedia per spogliarla della valenza criminale e ridurla a disgraziata fatalità. Sono le 4 di notte del 18 maggio 2015, siamo al punto di primo intervento di Ladispoli. Medici e infermieri sono ancora increduli per la morte del giovane Vannini, che era giunto lì alle 00.45, «in stato comatoso», con un'ogiva in corpo per morire poco dopo, senza nemmeno raggiungere l'ospedale Gemelli di Roma, in elicottero. Non ce l'ha fatta, è spirato sulla piazzola dell'elisoccorso alle 3.10. Dopo 50 minuti i carabinieri già interrogano il medico di turno, Daniele Matera, che cristallizza una scena surreale: «Appena giunto il paziente in ambulanza - racconta -, una persona, qualificatosi come suo suocero, riferiva che mentre giocava in casa con Marco Vannini, accidentalmente, aveva esploso un colpo di arma da fuoco, colpendo il genero». Insomma, si sarebbe trattato di una disgrazia. Ma il medico aggiunge un dettaglio sconvolgente: «Lo stesso (Ciontoli, nda), mostrando e richiudendo subito un tesserino, affermava essere un carabiniere, mi chiedeva di non far figurare nel referto la ferita d'arma da fuoco, in quanto a suo dire era lieve, altrimenti avrebbe pregiudicato il suo lavoro». Matera non crede alle proprie orecchie, respinge la richiesta e prova ancora a rianimare Marco. Ma il proiettile, esploso da una calibro 9, si muove inesorabilmente nel corpo, in direzione del cuore. E lo raggiunge dopo che era entrato ore prima dal terzo medio del braccio destro, per attraversare il lobo superiore del polmone e giungere a colpire l'organo vitale di Marco, il giovane biondo, innamorato di Martina Ciontoli, dalla quale sognava di avere una primogenita da chiamare Ginevra. Anemia acuta meta emorragica. Il verbale del medico è scritto a mano, come se non ci fosse il tempo delle formalità. Come se ci fosse fretta di capire cosa è accaduto prima che il corpo delle indagini si infili, come accadrà, nelle sabbie mobili delle mille versioni dei Ciontoli, dei giochi di specchi per colmare quei 110 minuti di incomprensibile ritardo nei loro soccorsi. Marco era a casa loro, per dormire lì, poi non si sa cosa è accaduto. Nemmeno si capisce se davvero il gioco tra Antonio Ciontoli e Marco sia avvenuto in bagno visto l’improbabilità che il giovane ragazzo aprisse al futuro suocero dopo la doccia. «Un fulmine esploso in un cielo sereno, strappandomi una delle poche gioie della mia vita», sintetizza nonna Gina, 84 anni, che con mamma Marina e papà Valerio sono le vittime collaterali di questa tragedia. Nonna Gina da sempre custodisce sul comodino le foto del biondo Marco in divisa, per il rosario del pomeriggio. Ha pregato ogni giorno per arrivare ancora in vita ad oggi, e ascoltare l’ultima pronuncia della giustizia.  Adesso piange, «ora posso morire in pace anche domattina». Ha cercato la verità, rimasta per sei anni sulle montagne russe delle indagini, tra depistaggi, menzogne, silenzi. Sei anni in cui questa famiglia alternava la sfaticante battaglia giudiziaria a una ritualità profonda, rivolta al figlio-nipote ammazzato: la stanza di Marco al primo piano della villetta a Cerveteri lasciata come se il ragazzo potesse tornare a minuti, con le tapparelle abbassate a metà, il letto inondato da cuscini, i viaggi in Sardegna per respirare la natura e gli orizzonti che cullavano l’anima romantica di Marco, l’amatriciana perfetta cucinata da Marina ricordando i capricci culinari del figlio. E così l’accensione del fuoco per scaldare la taverna dove i Vannini si abbracciavano e avevano accolto Martina come la figlia femmina mai avuta. E queste sabbie mobili si sono estese fino alla suprema corte. Se è arrivata giustizia siamo ancora lontani dalla piena verità. Non si conosce, ad esempio, né la dinamica dell’omicidio (la ricostruzione si è resa impossibile senza il sequestro della casa subito dopo l’assassinio), né il reale movente dell’agire dei Ciontoli. Tra Martina e Marco c’erano tensioni, la ragazza non voleva che il fidanzato intraprendesse la carriera militare, «Se parti non mi vedrai più!» gli diceva, ma da qui a vedere una monolitica famiglia evitare di salvare un ragazzo ce ne corre. «Non diranno mai il perché - è sicuro Valerio -, altrimenti si compromettono. Se l’avessero detto qualcuno si prendeva trent’anni». I genitori sono in auto di rientro da Roma: «Passiamo dal cimitero - mi sento libera di guardare Marco sulla lapide. Sei anni fa gli ho promesso un mazzo di fiori in caso di giustizia vera, domani glielo porto». Squilla un cellulare, «Stanno arrestando i Ciontoli», ripete Marina chiudendo la telefonata. In auto cala il silenzio. È ora di andare al cimitero.

Omicidio Vannini, Antonio Ciontoli chiede di stare in cella col figlio: “È solo un ragazzo”. Debora Faravelli su Notizie.it il 05/05/2021. Antonio Ciontoli, condannato a 14 anni per l'omicidio di Marco Vannini, ha chiesto di poter stare in cella insieme al figlio Federico. Dopo la sentenza di Cassazione che lo ha condannato a 14 anni di carcere per l’omicidio di Marco Vannini, Antonio Ciontoli ha chiesto di poter stare in cella con il figlio Federico, anch’egli condannato. La richiesta è però stata respinta per questioni di protocollo.

Omicidio Vannini: la richiesta di Antonio Ciontoli. “Posso stare in stanza con mio figlio? È solo un ragazzo“. Questa la domanda del padre dell’allora fidanzata della vittima al direttore del carcere romano di Rebibbia. Lui e il figlio si sono infatti presentati all’istituto penitenziario poche ore dopo la sentenza di terzo grado che ha definitivamente condannato entrambi e gli altri familiari presenti al momento del delitto. Gli addetti li hanno accompagnati al centro clinico di Rebibbia dove rimarranno in isolamento per qualche giorno a causa dei protocolli anti Covid. Secondo quanto riportato dal Messaggero, avrebbero trascorso le prime ore in cella guardando la televisione. La moglie di Antonio Maria e la figlia Martina si trovano invece nella sezione femminile dello stesso carcere, anche loro in quarantena nell’infermeria. A differenza di padre e figlio, costoro potranno dormire insieme.

Omicidio Vannini, Antonio Ciontoli: la sentenza definitiva. Con la pronuncia del 3 maggio scorso, il caso relativo all’omicidio di Marco Vannini è stato definitivamente chiuso. Dopo cinque sentenze (una di primo grado, due di secondo e due di terzo), tutta la famiglia Ciontoli è stata condannata. Ad aver ricevuto la pena più severa è stato Antonio, autore dello sparo e colpevole di omicidio volontario. Secondo la ricostruzione dei giudici avrebbe infatti azionato la pistola per errore (parte colposa) ma avrebbe volontariamente e consapevolmente ritardato i soccorsi (parte dolosa). Senza quelle azioni e chiamando per tempo l’ambulanza, hanno mostrato le perizie eseguite, probabilmente Marco Vannini sarebbe ancora in vita.

Omicidio Vannini, Antonio Ciontoli: le condanne dei familiari. I figli Martina (fidanzata di Marco) e Federico e la moglie Maria hanno invece ricevuto una condanna a 9 anni e 4 mesi per concorso semplice in omicidio volontario. Per i giudici hanno infatti aiutato volontariamente il padre. Si tratta dell’unica modifica della Cassazione rispetto alla sentenza dei giudici d’Appello bis che avevano ritenuto i tre responsabili di concorso anomalo (e non semplice). Questo non ha tuttavia cambiato l’entità delle pene già stabilite.

Omicidio Vannini: la paura del carcere dei Ciontoli e la condanna in Cassazione. Le iene News il 04 maggio 2021. Per tutta la famiglia Ciontoli si sono aperte le porte del carcere. Sono stati tutti condannati in Cassazione per la morte di Marco Vannini. Un ultimo atto di una lunga vicenda giudiziaria e umana durata 6 anni che vi stiamo raccontando con Giulio Golia e Francesca Di Stefano. Abbiamo trascorso con i genitori di Marco le ore precedenti e subito successive a questa attesa sentenza. “Posso dire a mio figlio che giustizia finalmente l’ha avuta”. Sono le prime parole di Marina Conte dopo la sentenza della Cassazione. Per l’omicidio di Marco Vannini tutta la famiglia di Antonio Ciontoli è stata condannata in via definitiva con la conferma delle pene dell’Appello bis: il capofamiglia dovrà scontare a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale mentre sua moglie e i figli Federico e Martina 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. Con Giulio Golia e Francesca Di Stefano abbiamo seguito anche quest’ultima giornata di un lungo percorso umano e giudiziario durato 6 anni. Tutto è iniziato la notte del 17 maggio 2015, quando in casa Ciontoli parte un colpo di pistola verso Marco che aveva appena 20 anni. “Non c’è nessuna persona che ha vinto, lo ribadisco: noi abbiamo perso Marco e loro devono andare in carcere”, hanno detto i genitori di Marco, Marina e Valerio. Nessuno gioisce davanti a una famiglia intera in carcere: Federico e Martina non hanno nemmeno 20 anni e pagano non aver potuto, saputo e voluto contrastare le decisioni di loro padre. Anziché dare l’esempio li ha trascinati in un gorgo di menzogne, bugie e mancate verità insegnando loro di farla franca, quando invece avrebbero potuto salvare Marco. Pochi giorni fa abbiamo provato a chiedere un’intervista ad Antonio Ciontoli. “Abbiamo tante cose da dirci”, aveva risposto al nostro invito. Ma dopo averlo aspettato non si è presentato. Il giorno prima della sentenza abbiamo incontrato invece i genitori di Marco. “Sono più agitata della scorsa volta”, dice mamma Marina. Gli raccontiamo lo scambio di messaggi che abbiamo avuto con Ciontoli. Raccontiamo loro delle accuse che ci ha rivolto tra cui il non averli aiutati nella ricerca della verità. “Anche Federico ha scritto sui social che i giornalisti hanno contribuito a farci aumentare la rabbia”, racconta Marina. “Il mio silenzio in pubblico è derivato da tanti fattori: il dolore per quello che è successo, la paura, i pensieri assurdi. È innegabile che io abbia paura del carcere”, diceva Federico in uno dei tanti video comparsi sul suo profilo nelle ultime settimane. Attaccava i media per le “grosse responsabilità” e “strumentalizzazioni, falsificazioni, manipolazioni”. Il giorno della sentenza per la prima volta fuori dal palazzo di giustizia c’era un gruppo con uno striscione diverso dal solito: “Federico innocente”. In aula ci sono sia lui che sua sorella insieme. “Vi chiedo rispetto dopo 6 anni e di aspettare per la sentenza. Marco è la vera vittima di questa storia”, ha detto ai cronisti. Con lui c’era anche la sua fidanzata Viola Giorgini, l’unica assolta dei presenti quella sera in casa Ciontoli. “Vi siete resi conto di quello che avete fatto?”, ci dice la ragazza prima di salire in auto. Questa è l’ultima volta che vedremo i due fratelli insieme: hanno aspettato la sentenza a casa loro. “Finalmente giustizia è stata fatta. Non c’è nessuna persona che ha vinto. Non è stato facile lottare per ottenerla per 6 anni. Oggi è una liberazione per tutti”, commentano i genitori di Marco. “Noi sopravviviamo sarà così. Non c’è una pena giusta perché nessuno ci potrà ridare Marco. Eravamo una famiglia felice e quella felicità non ci sarà più”.

Adesso Ciontoli piange: "Sono il mostro che ha ucciso Marco". Angela Leucci l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Quarto Grado annuncia che commenterà sui canali social la sentenza di Cassazione bis per l'omicidio di Marco Vannini: intanto Antonio Ciontoli scrive una lettera aperta. Una lettera aperta in attesa della Cassazione bis. Antonio Ciontoli, così come i suoi figli Federico e Martina, ha riaperto i propri profili social. E intanto è attesa per lunedì la sentenza della Cassazione bis, che potrebbe confermare o ribaltare la sentenza di appello bis relativa al caso di Marco Vannini. Se n’è parlato ieri sera a Quarto Grado: la trasmissione ha annunciato che seguirà attraverso i propri canali social con Anna Boiardi cosa accadrà dopodomani. I social hanno assunto un grosso ruolo in questa vicenda, soprattutto dacché nei giorni scorsi hanno raccolto le parole della famiglia Ciontoli, papà Antonio in primis. “Sono Antonio Ciontoli - esordisce l’uomo sul suo rinato profilo Facebook - e, mio malgrado, il noto Antonio Ciontoli che tutti descrivono il ‘mostro’. Scrivo dalla solitudine in cui sono stato relegato ma della quale, a poco a poco, ho accettato di esserne prigioniero, dove ogni parola assume una consistenza incancellabile che mi fa paura, costretto a confrontarmi con il rimorso per il tremendo errore di quella maledettissima notte del 17 maggio del 2015, con chi sono e chi sono stato e che oggi odio, mentre cerco di capire cosa possa ancora rimanere di me, fino a quando riuscirò ad aprire gli occhi e con difficoltà continuare a respirare, nell’attesa, spero prossima, di abbandonare per sempre questa terrestre sofferenza”. Nella sua lettera aperta, Antonio afferma di non meritare più la vita e chiede perdono per la “giovane vita spezzata”, quella di Vannini. L'uomo racconta di essere stato in analisi, della sua giovinezza in un oratorio salesiano. E ha un pensiero per moglie e figli, oltre che per le persone che erano vicine a Marco. “E l’angelo Marco - prosegue Antonio Ciontoli - e l’orgoglio di poter essere un esempio, una guida per lui e per il suo futuro e invece... Forse ho iniziato a sbagliare da molto tempo prima? E tutti i piccoli errori che ho sempre fatto senza pormi troppe domande, che ho ignorato credendomi capace, sicuro, tranquillo e incosciente nella quotidianità, e che un giorno, di fronte all’imprevisto, nella mia sbagliata convinzione di saper gestire e nella sottovalutazione della gravità delle condizioni di Marco, mi hanno portato a rovinare definitivamente la vita di chi amavo, di chi dipendeva da me, perché sono arrivato impreparato alla resa dei conti. Ho pagato la mia sicurezza. Ed è stata tutta colpa mia”. Ciontoli continua riferendosi a se stesso come di “un padre di cui un figlio non si può fidare, che una figlia non sa più come poter amare, un marito che sente di non essere più all’altezza di poter condividere perfino le proprie sofferenze con la donna che da circa 35 anni mi sta accanto e non in ultimo un uomo, anzi, il mostro che ha strappato ai propri genitori l’unico figlio, la gioia di vivere una vita serena, cancellando in pochi in pochi minuti ciò che di più prezioso una mamma e un padre possono avere e vivere”. Ciontoli ripercorre quindi le sue azioni e poi chiede scusa alla propria famiglia, oltre che alla famiglia di Marco, ai suoi genitori Valerio e Marina Vannini che non hanno mai smesso di cercare la verità sulla morte dl loro figlio. Anche Martina e Federico hanno scritto sui social: Federico ha attaccato i media per la narrazione relativa alla loro vicenda, Martina ha ricordato di come non si fosse accorta che Marco stesse male e di non sapere che avesse un proiettile in corpo. Nella sentenza di appello bis, Antonio è stato condannato a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale, mentre il resto della famiglia - la moglie Mary, i figli Martina e Federico - è stata condannata a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo. La sentenza di lunedì potrebbe, come ricordato a "Quarto Grado", confermare oppure annullare con rinvio, tutto o una parte del processo.

Omicidio Vannini, Martina Ciontoli: “Dovrò confrontarmi con la possibilità del carcere”. Le Iene News il 30 aprile 2021. A poco tempo dalla sentenza della Cassazione prevista per lunedì 3 maggio, Martina Ciontoli scrive una lettera aperta in cui ripercorre la sera dell’omicidio di Marco Vannini, il suo ex fidanzato ucciso appena 20enne da un colpo di pistola sparato dal padre Antonio Ciontoli. Il padre e la famiglia sono stati condannati per l’omicidio. Con Giulio Golia e Francesca Di Stefano abbiamo seguito tutta la vicenda al fianco dei genitori del ragazzo. “Non ho mai davvero pensato al carcere neanche come ipotesi nel mio futuro di fronte alla consapevolezza della verità. Mi sto rendendo conto che fra poco probabilmente per come sono andate le cose per quella che è stata la realtà costruita, dovrò confrontarmi con questa possibilità e non so se sono in grado”.  Sono le parole di Martina Ciontoli contenute in una lettera. Lei è la ex fidanzata di Marco Vannini, il ragazzo ucciso per un colpo di pistola appena 20enne la notte tra il 17 e il 18 maggio 2015. Per questa morte il padre di Martina, Antonio Ciontoli è stato condannato nell’Appello bis a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale. Per la ragazza, l’altro figlio Federico e la madre Maria Pezzillo la condanna è stata a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. Dopo una lunga vicenda giudiziaria e umana che da tempo vi raccontiamo con Giulio Golia e Francesca Di Stefano. Tra poche ore potrebbe essere messa la parola fine. Dopo la sentenza dell’Appello bis (qui sopra potete vedere il servizio di quella giornata), i Ciontoli avevano fatto ricorso in Cassazione che si pronuncerà lunedì 3 maggio. Per loro è concreto il rischio che si possano aprire le porte del carcere. E anche di questa paura scrive la figlia di Ciontoli nella lettera inviata ad alcune testate giornalistiche. “A volte mi sembra di non poter comprendere io stessa l’inferno che ho vissuto. E che vivo. Cosa provo nei confronti di mio padre. Cosa ho provato e provo per non aver potuto piangere la perdita di Marco insieme a Marina e Valerio che per me erano come una seconda famiglia…”. Parla dei genitori di Marco che da 6 anni ormai chiedono giustizia e verità per la morte del figlio. “Avrei dovuto chiamarli subito quando ho visto che Marco non si sentiva bene per questo mi odiano e non si fidano di me, ma io in quel momento pensavo a capire che cosa avesse, mentre si lamentava, poi si riprendeva, poi si lamentava. Mio padre diceva che si era solo spaventato e aveva un attacco di panico…”, scrive Martina. Ripercorre così la sera del 17 maggio, sembra quasi giustificarsi per i tempi prolungati nei soccorsi. Per i giudici si è trattato di “cure improprie e confuse”. Hanno ascoltato anche le intercettazioni del 118 in cui sono stati ricostruiti i 110 minuti da quando il colpo è stato esploso al momento della chiamata. Un tempo che sarebbe stato invece di vitale importanza per salvare Marco evitando anche suoi genitori questo dramma. “Vorrei poterli abbracciare ma so che la distanza è irrecuperabile, lo è stata sin dal primo momento, e che la loro disperazione è troppo grande per poter anche solo avere il dubbio che le mie parole e i miei sentimenti siano sinceri”, scrive Martina Ciontoli. “Ormai all’immagine di un mio abbraccio inorridiscono. Per loro è impensabile e io devo accettarlo e rispettarlo”. 

Prevista per il 3 maggio la sentenza definitiva. Omicidio Vannini, la lettera di Martina Ciontoli: “Marco moriva e io non avevo capito niente”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Aprile 2021. “Oggi ho 25 anni. Non so quante volte ho desiderato riaprire gli occhi per risvegliarmi da quello che avrebbe potuto essere solo un incubo terrificante… Avevo 19 anni, Marco 20, quando una notte, all’improvviso, cambiava tutto. Per mano di mio padre. Per uno scherzo… Io non avevo capito niente. Marco stava morendo. Chissà se e quando lo ha capito anche lui. Non oso neanche pensarlo è il mio pensiero fisso…”. Con queste parole Martina Ciontoli ha scritto una lettera ai giudici della Corte di Cassazione in vita della sentenza definitiva sul caso della morte di Marco Vannini prevista per il 3 maggio. La lettera è stata affidata al Tg2 e riportata dal Corriere della Sera in sintesi. “È stato difficile capacitarsi di questo e rassegnarsi al fatto che il pregiudizio o una certa volontà riescono addirittura a cambiare la verità agli occhi degli altri. Allo stesso modo magari tutte queste mie parole potranno sembrare terrificanti se lette pensando che le abbia scritte un mostro, un’assassina… fredda, senza scrupoli, incapace di provare sentimenti e che per questo ha voluto la morte di Marco o lo ha abbandonato accettando che morisse come un cane. Vorrei che almeno qualcuno capisse che queste parole sono solo il risultato del tentativo che ho cercato di fare per tirare fuori almeno un po’ del caos che c’è dentro di me. Da anni non riesco a parlarne. Con nessuno. Neanche con chi mi è più vicino”. “A volte non so comportarmi… a volte sono fuori di me. Come se il dolore sia troppo forte per essere spiegato, per essere capito… A volte mi sembra di non poter comprendere io stessa l’inferno che ho vissuto. E che vivo. Cosa provo nei confronti di mio padre. Cosa ho provato e provo per non aver potuto piangere la perdita di Marco insieme a Marina e Valerio che per me erano come una seconda famiglia…. Avrei dovuto chiamarli subito quando ho visto che Marco non si sentiva bene…per questo mi odiano e non si fidano di me…ma io in quel momento pensavo a capire lui cosa avesse, mentre si lamentava, poi si riprendeva, poi si lamentava…mentre mio Padre diceva che si era solo spaventato e aveva un attacco di panico… provavo a tranquillizzarlo… gli stavo vicino…” “Marco era grave e aveva un proiettile in corpo…ma io non lo sapevo…non lo sapevo…e le mie azioni e i miei pensieri sono stati inutili per questo… Vorrei poter raggiungere il loro cuore, ritrovarlo, incontrarlo… Vorrei poterli abbracciare… ma so che la distanza è irrecuperabile, lo è stata sin dal primo momento, e che la loro disperazione è troppo grande per poter anche solo avere il dubbio che le mie parole e i miei sentimenti siano sinceri. Ormai all’immagine di un mio abbraccio inorridiscono…è impensabile per loro. E io devo accettarlo e rispettarlo. Non ho mai davvero pensato al carcere…neanche come ipotesi…nel mio futuro…di fronte alla consapevolezza della verità. Mi sto rendendo conto che fra poco probabilmente per come sono andate le cose…per quella che è stata la realtà costruita, dovrò confrontarmi con questa possibilità…e non so se sono in grado”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Federico Ciontoli, video Facebook: “Nessun mistero su morte di Marco”. Chiara Nava su Notizie.it il 22/03/2021. Federico Ciontoli è tornato a parlare dell'omicidio di Marco Vannini in un video condiviso su Facebook. Federico Ciontoli ha deciso di pubblicare su Facebook una serie di video per rispondere a tutte le domande che gli vengono poste sull’omicidio di Marco Vannini. Il ragazzo è stato condannato nel processo d’appello bis a nove anni e quattro mesi per concorso anomalo in omicidio volontario.

Le parole di Federico Ciontoli. Il 3 maggio Federico Ciontoli, insieme alla sua famiglia, sarà giudicato con sentenza definitiva dalla Corte di Cassazione, che dovrà decidere se confermare o no la condanna. “Il mio silenzio pubblico di questi anni è derivato da tanti fattori, la paura, il dolore, il rispetto, le assurde emozioni e gli assurdi pensieri che hanno vissuto dentro di me, l’impossibilità a volte di vedere un senso per la mia vita, il dispiacere per non essere riuscito a fare quella sera quello che serviva per salvare Marco. Per anni ho pensato, e ancora oggi lo sento, che per quanto impossibile sostituire Marco, sarei stato ogni giorno a casa di Marina e Valerio per provare a riempire quel vuoto incredibile. Non potrò mai essere Marco, ma forse avrei potuto essere una persona della stessa età di Marco lì con loro” ha dichiarato Federico Ciontoli nel suo video. Il ragazzo ha spiegato di non aver mai parlato pubblicamente prima d’ora perché non aveva le energie e preferiva parlare nelle aule di tribunali. “In questi anni, sono stato ascoltato una volta come testimone, due come imputato, e ho fatto due dichiarazioni spontanee in entrambi i processi di Appello. Il mio silenzio fuori dall’aula faceva più clamore di quello che avevo detto in aula” ha dichiarato. Secondo Ciontoli i media sono colpevoli di aver dato “spazio al gossip” e di aver fatto “speciali con persone he andavano nei programmi televisivi a dire che io avevo sparato una persona, cosa che non solo è stata scientificamente scartata dall’inizio, ma che non ha nessun senso“. Ha aggiunto anche che sulla morte di Marco Vannini “non esiste nessun segreto, nessun mistero” e che se il 3 maggio dovesse andare in carcere, continuerà a parlare da lì.

Chiara Nava. Nata a Genova, classe 1990, mamma con una grande passione per la scrittura e la lettura. Lavora nel mondo dell’editoria digitale da quasi dieci anni. Ha collaborato con Zenazone, con l’azienda Sorgente e con altri blog e testate giornalistiche. Attualmente scrive per MeteoWeek e per Notizie.it

Le accuse a due mesi dal processo di Cassazione. Omicidio Vannini, Federico Ciontoli torna con un video: “Così i media hanno manipolato i fatti”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Marzo 2021. Torna in video pochi giorni dopo la decisione di fissare al 3 maggio la data del processo in Cassazione che potrebbe spalancargli le porte del carcere. Federico Ciontoli torna a ribadire la sua verità in un video pubblicato su Facebook, dove ancora una volta accusa giornalisti e tv di “gravi strumentalizzazioni mediatiche”. Federico Ciontoli è stato condannato assieme alla madre Maria Pezzillo e alla sorella Martina per concorso anomalo nell’omicidio di Marco Vannini, il 19enne di Cerveteri (Roma) morto il 18 maggio 2015 in casa della fidanzata a causa di un colpo di pistola sparato dal padre della stessa, Antonio Ciontoli, condannato a 14 anni di carcere per omicidio volontario con dolo eventuale. Il racconto del disagio provato in questi anni da Ciontoli è evidente: “In questi anni sono stato ascoltato una volta come testimone, due come imputato, e ho fatto due dichiarazioni spontanee in entrambi i processi di Appello. E andare in aula significava incontrare fisicamente le persone che mi dicevano che dovevo essere sciolto nell’acido o essere dato in pasto ai maiali. Significava doversi far accompagnare dai carabinieri per vie alternative ed uscite secondarie. E i giornalisti erano sempre lì pronti a rincorrermi, ad estorcermi parole, quando avevo appena parlato in aula e di quello non gli era interessato nulla. Il mio silenzio fuori dall’aula faceva più clamore di quello che avevo detto in aula”. Quindi l’atto di accusa ai giornali e alle tv, già pronti con una sentenza di colpevolezza: “Ovviamente i media non hanno dato spazio a tutto questo allo stesso modo. Hanno deciso di dare spazio a gossip, o fare speciali con persone che andavano nei programmi televisivi a dire che io avevo sparato una persona, cosa che non solo è stata scientificamente scartata dall’inizio, ma che non ha nessun senso, ma perché avrei dovuto sparare una persona e perché avrei dovuto sparare il ragazzo di mia sorella? Poi questa stessa persona che mi accusò di questo finì apparentemente per dire in alcune intercettazioni che questo gli sarebbe anche venuto utile per la pubblicità al negozio”. Media che per Federico Ciontoli “hanno continuato a nascondere gli elementi importanti, continuando a manipolare, strumentalizzare, inventare altre storie alternative che potessero essere più appetibili”. Ciontoli non dimentica ovviamente Marco Vannini e la sua famiglia: “Purtroppo Marco non c’è più e nessuno potrà restituire a lui la vita e ai genitori il loro unico figlio, ma non penso che restare senza verità possa attenuare questa perdita, anzi. Voglio essere chiaro su questo, perché già ho letto numerose strumentalizzazioni, non esiste un’altra verità rispetto a quella che io ho detto in aula, ma ci sono tanti chiarimenti che posso dare pubblicamente. Non esiste nessun segreto, non esiste nessun mistero, e posso provare a spiegarmi meglio per far capire che questa del segreto e del mistero è solo una storia raccontata da riviste e tv per poter catturare la nostra attenzione e farci restare attaccati alla televisione, sfruttando così le nostre emozioni. Ma questo non è un film”.

«Quella sera a casa Ciontoli io c’ero e nessuno voleva la morte di Marco». Il Dubbio il 23 marzo 2021. Ecco la versione integrale della lettera scritta da Viola Giorgini, la fidanzata di Federico Ciontoli, assolta da ogni accusa. Il 3 maggio la Corte di Cassazione tornerà per la seconda volta a pronunciarsi sul caso Vannini/Ciontoli. Marco Vannini è morto a soli 21 anni il 18 maggio 2015 a Ladispoli, raggiunto da un colpo di arma da fuoco sparato accidentalmente da Antonio Ciontoli, padre della fidanzata Martina, all’interno della villetta di famiglia. Lo scorso ottobre la Corte d’Assise d’Appello di Roma ha condannato Antonio Ciontoli a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale e a 9 anni e 4 mesi sua moglie Maria Pezzillo e i figli Federico e Martina, condannati per concorso anomalo in omicidio volontario. Vi proponiamo una lettera a firma di Viola Giorgini, la fidanzata di Federico Ciontoli, assolta da ogni accusa.

Di Viola Giorgini: "Il 3 maggio si deciderà la sorte del processo, si deciderà se davvero tutta la “famiglia Ciontoli” voleva o meno la morte di Marco. Si parla di omicidio volontario, quindi si sostiene che volessero la morte di Marco, questo non è vero! Io c’ero e questo non è vero! In tanti credono di avere la verità in pugno, in tanti continuano a credere che esista un segreto, ma loro quella sera non c’erano…loro sono gli stessi che aspettano da noi un segnale di umanità, senza pensare quanto sia difficile esternare pubblicamente i propri sentimenti per far comprendere a chi, ancora oggi, si esprime augurandoci la morte. Tante persone non pongono domande ma predicano ed esprimono sentenze, senza domandarsi mai come si sarebbero comportati in una situazione come quella, senza cercare di capire quali siano state realmente le condizioni di quella sera. È chiaro che, dopo sei anni di pressioni, sono pochi coloro che riescono a scindere la realtà dalla finzione. E forse per molti deve essere ormai difficile anche solo ipotizzare di poter essersi sbagliati a giudicare in un certo modo sin da subito, o di essere stati influenzati senza accorgersene da un’opinione che si è diffusa con rapidità e che noi non abbiamo avuto la forza di contrastare. Non so esattamente cosa mi spinge a scrivere oggi, anche perchè ho ben chiaro cosa significa sentirsi impotenti di fronte a un mostro così grande, come quello che è stato creato in questi anni intorno a questa storia. Ormai so quanto sia stato deleterio il silenzio mediatico tenuto, ma mai avrei pensato che una storia del genere potesse finire in tv e sui giornali in questo modo, perché non ho mai creduto che fossero il luogo adatto alla sofferenza. Inoltre, non è mai stato facile capire come comportarsi, la valanga di attenzioni, insulti, minacce, pressioni non ha permesso di capire quale sarebbe stata la cosa migliore da fare per interrompere questo silenzio. Io e Federico abbiamo avuto paura di esporci, l’avremmo sempre voluto fare ma non sapevamo da dove iniziare e la verità è che tutt’ora non lo sappiamo. Io capisco che sia difficile credere ora alla nostra buona fede, ma la vita ci è crollata addosso in un secondo e un secondo dopo eravamo in tv, un secondo dopo ancora eravamo degli assassini. Non c’era e non c’è nessuno che consiglia come muoversi, non avevamo le forze e la voglia di lottare contro qualcosa del genere. Abbiamo sempre confidato nel fatto che parlare in aula fosse più importante del farlo pubblicamente…Forse c’è anche altro che mi spinge a scrivere: credere che sia assurdo avere la sensazione che l’esito del processo sia “già scritto” come in tanti dicono. Non può essere così… Non avrei mai pensato di arrivare a scrivere pubblicamente qualcosa di così personale…ma forse parlare dell’umanità che si “nasconde” dietro persone descritte come mostri, aiuterà a capire quanto in realtà siamo persone “normali”, solo con una storia molto pesante sulle spalle. A volte quello che non si conosce fa paura e lo si vede con un occhio sbagliato, finendo spesso per lasciare che la paura degeneri in discriminazione e odio. Marco da sei anni a questa parte è sempre stato presente in ogni pensiero, non c’è stato giorno in cui non abbia cercato di dividere le mie emozioni a metà. Ogni sensazione ed ogni azione compiuta, non l’ho mai più vissuta pianamente da quella sera, ho lasciato sempre una parte in sospeso, sperando che Marco potesse prendersela. Sentivo che la felicità non mi apparteneva più e quei rari momenti in cui riuscivo a sorridere non era mai un sorriso sincero, sentivo di essere altrove. Piano piano ho creato il mio mondo che oggi è fatto di pochi sorrisi, ma mi basta questo. Non c’è stato giorno e festività in cui io non abbia pensato a Marco, alla sua sofferenza e a quella di Marina e Valerio, senza mai concedermi per un momento la possibilità di essere pienamente felice. Le esperienze che io e Federico abbiamo vissuto insieme in questi anni sono state ricche di Marco, era in ogni cosa facessimo, senza il bisogno di parlarne, di dircelo. Noi in fondo Marco lo conoscevamo poco, andavamo poco a Ladispoli…ma Marco quella sera se n’è andato e noi c’eravamo. Da quel momento Marco è entrato a far parte della nostra vita e ci rimarrà sempre. Ci capita spesso di sentire una canzone che nei giorni successivi alla morte di Marco era sempre in radio, quella canzone oggi ci immobilizza ancora, ovunque siamo e qualsiasi cosa facciamo, ci fermiamo e restiamo immobili in silenzio. Ricordo quando io e Federico, non potendo uscire liberamente per via della pressione dei giornalisti e per la paura di essere riconosciuti e aggrediti, andavamo a camminare al mare in inverno e nelle giornate peggiori, laddove eravamo certi di non incontrare nessuno. I luoghi isolati erano diventati la nostra quotidianità. Era triste per noi e spesso ci sentivamo arrabbiati e soli, ma bastava osservare il mare in silenzio per accorgerci che era un dono anche quello che stavamo vivendo. La sensazione della sabbia sotto i piedi, l’odore del caffè al mattino, il brivido di ogni abbraccio sincero, il rumore del vento, tutte quelle piccole cose che sfuggono in una vita frenetica, noi le stavamo apprezzando. E senza bisogno di dire niente, accettavamo la situazione e pensavamo a Marco. Non credevamo di poterci concedere una felicità maggiore di quella, una felicità completa. Noi siamo ancora in vita e Marco no e al suo posto ci sarebbe potuto essere uno di noi.  Da quei momenti ho iniziato a capire che in un attimo la vita di chiunque può cambiare, quando meno te lo aspetti e quando sei meno preparato. Ti trovi a convivere con qualcosa di molto più grande di te, cambiando ogni piano e prospettiva, non trovando più la strada. Abbiamo visto la nostra banale vita di ventenni sgretolarsi piano piano, entrare a far parte di un meccanismo tanto devastante quanto evitabile…non smetterò mai di dire che tanti programmi e giornali hanno “giocato” davvero sporco appropriandosi della nostra vita come fossimo marionette. Adulti e giovani che hanno scelto di vendersi al mestiere di “giornalista” che insegue, corre e pedina persone. Hanno venduto le nostre immagini per cosa? Non hanno mai avuto il coraggio di rispondermi. In questi anni ho scritto tre lettere ai media, nessuno ha mai risposto. Sanno di essersi comportati in maniera meschina e poco umana ma non gli interessa, in fondo noi siamo solo immagini e voci mandate in tv. Sanno, con il loro processo mediatico, di aver avuto un ruolo nelle decisioni prese dalla giustizia in merito a questo processo. Ma questo, in fin dei conti, asseconda le loro teorie e gli fa gioco. È davvero disarmante. Abbiamo visto giornalisti urlare e gioire all’esito dell’ultima sentenza, come si può gioire di una cosa del genere? Come si può festeggiare per una possibile carcerazione? Questa è una storia triste di vita reale, non un film o una partita di calcio, dove urlare vendetta diventa lo slogan principale. Odiare è diventato normale e accettabile. Non oso immaginare cosa faranno il 3 maggio. Come può, questo, garantire un giusto processo? Come si può pensare che sia corretto che delle persone possano esser private dei loro diritti in questo modo? Io e Federico abbiamo vissuto il vero processo riponendo fiducia nella giustizia, soffrendo per non poterci mettere la faccia in aula a causa delle minacce, abbiamo avuto paura, ma ogni qualvolta si presentava l’occasione per parlare eravamo lì. Io c’ero quella sera e mi sono sentita, mi sento e mi sentirò sempre in colpa per essermi fidata di Antonio, per essere stata un’immatura, per non essere riuscita ad andare oltre e a capire cosa stesse succedendo. Mi sento responsabile per non aver sviluppato fino a quel momento un’autonomia di pensiero che mi permettesse di agire, ma Federico lo ha fatto. Si potrà dire qualsiasi cosa in merito, come è stato fatto fin ora, ma questa verità resterà sempre, qualsiasi sia la decisione della Cassazione. Non ha senso una condanna per omicidio volontario rispetto ad una mia assoluzione…Federico ha avuto il coraggio e la maturità di agire molto più di me. Io non posso non dirlo, io c’ero e so quello che è stato. Non ho mai negato gli errori commessi, che essi siano stati indotti o meno…ma nessuno ha voluto la morte di Marco, nessuno! Saranno i Giudici a decidere e non voglio credere che la sentenza sia davvero già scritta. Spero con tutto il cuore, che, per la verità di questa storia, si valutino tutti gli aspetti che non sono stati valutati e che non si valutino invece quelli emersi solo in tv e sui giornali. Questi ultimi non dovrebbero entrare a far parte di un processo.  Ho sempre creduto che il circo mediatico sia stato una grande mancanza di rispetto alla morte di Marco, al dolore di Marina e Valerio e alla nostra libertà e dignità come persone. Il circo mediatico è stata la causa che ha spinto Federico più volte a pensare di non poter trovare una via di uscita. A pensare che la morte potesse essere l’unica via per salvarsi da quelle minacce, da quegli insulti, dall’esclusione alla vita sociale e lavorativa. Questo non è violenza? Ho sentito spesso le Iene parlare di cyber bullismo, Quarto Grado e Chi l’ha visto parlare di violenza in generale, ma possibile che nessuno si renda conto dell’assonanza con quello che hanno fatto a noi e a tante altre persone? Il processo mediatico ha alimentato un tale odio nei nostri confronti da far arrivare le persone a minacciarci di morte. Come hanno potuto credere che Martina non soffrisse? Io con il tempo ho capito che ognuno ha il suo modo per esprimere, sopportare e convivere con il dolore che prova…  Io non ho mai pensato al suicidio ma io non ho visto distruggersi tutto intorno a me, la mia famiglia, la mia casa…Federico e Martina sì. E capisco che risulti un nulla rispetto alla morte di Marco e lo è, ma quando ci si ferma un attimo a pensare, possibile che non si metta in dubbio nulla? Possibile che sia così facile odiare?  Avevamo poco più di vent’anni e nonostante non fossimo soli e non lo siamo tutt’ora, nessuno è mai riuscito davvero a capire cosa si provi di fronte a tutto questo. Io e Federico siamo rimasti forti insieme, da soli non ce l’avremmo mai fatta. Abbiamo sempre voluto separare e tener lontano il mondo mediatico da quello giuridico e ancora di più da quello emotivo, dalla sofferenza sincera per ciò che è stato. Quando scrissi ai genitori di Marco, non credevo potessero portare la mia lettera in tv, da quel momento ho capito che qualsiasi cosa avessi fatto o detto sarebbe passata per le televisioni e i giornali e questo mi bloccò dal fare altro. Quello che volevo dire a loro era troppo personale per gettarlo in pasto agli sciacalli, ma so che avrei potuto fare di più, so che sarei potuta andare da loro… Ho sempre saputo di dover chiedere scusa per non essere stata abbastanza quella sera, ma io più di quella che ero, non potevo essere.  Io non posso immaginare il vuoto che sentono oggi, la sofferenza che hanno vissuto quando non hanno sentito atterrare l’elicottero al Gemelli, quando hanno saputo della morte di Marco. Io se solo provo ad immaginare quei momenti, perdo completamente la forza di tenermi in piedi. Il loro è il dolore più importante, lo è sempre stato e lo sarà per sempre, come ho detto più volte. Io conoscevo a malapena Marina e Valerio ma da quel momento sono legata a loro, come loro purtroppo sono legati a me. In tutti questi anni io e Federico abbiamo sempre posto la nostra sofferenza in secondo piano perché non la consideravamo abbastanza rispetto a quella che vivono le persone che erano e sono più legate a Marco. Ho assistito spesso al dolore di Federico, l’ho visto diventare un corpo senza forze, l’ho visto non mangiare per giorni e fissare un punto fino a che i suoi occhi per stanchezza finivano per chiudersi da soli. Ho avuto paura, ho mollato tutto per stare con lui, era solo e non ce la faceva più. Ci siamo accorti poco tempo dopo che l’unica cosa che lo avrebbe salvato sarebbe stato allontanarsi da qui. Il volontariato e quei pochi che non lo rifiutarono, lo aiutarono tanto. Quella sera eravamo i più estranei a Marco e anche nella sofferenza per la sua perdita siamo sempre stati un passo indietro agli altri. Anche la sofferenza per la vita che conduciamo è meno importante della sofferenza per la perdita di una persona, ma oggi so che forse non è giusto porre la questione sempre in questi termini, perché esistono tanti tipi di sofferenza e tutti meritano rispetto. Io non so perché si è arrivati a tanto in questi anni e non so perché si sia scelto di assecondare quei giornali e programmi che condannano a priori, che inventano e manipolano realtà, ma quello che so, è che il sentimento provato da me e Federico nei confronti di Marco e della sua famiglia in questi anni, è la cosa più sincera e profonda al mondo e mai nessuno ce la porterà via.  In questi anni la nostra vita è stata difficile e lo sarà ancora di più, ma noi una vita l’abbiamo ancora e Marco no e nonostante nessuno abbia mai voluto la sua morte, sentiamo il dovere di dare importanza a tale fortuna. Questo lo sappiamo da sempre, nonostante siano state dette tante cattiverie gratuite. Quello che Federico ora sta facendo pubblicamente è qualcosa di importante per chi in futuro sentirà il peso di una vita come quella che viviamo noi, perché nessuno dovrebbe vivere una vita così invadente…nessuno dovrebbe essere messo alla gogna mediatica, neanche il peggior criminale al mondo. Siamo esseri umani tutti. Il processo è una cosa, la gogna mediatica un’altra. I principali programmi che hanno trattato questa vicenda mandano un messaggio ben chiaro di giustizia al loro pubblico, dimenticandosi quanto in realtà siano tra i primi fautori delle più grandi ingiustizie. Le persone a causa loro e delle degenerazioni dei milioni di commenti sui social pensano di non voler più vivere…questo piace a chi ancora chiede pubblicamente di vederci morti? Con loro anche i politici hanno pensato di dover esprimere pareri, con un processo ancora in atto hanno preso una posizione, si sono schierati. Ma è normale in un Paese democratico una cosa del genere? È normale che la giustizia, la politica, il giornalismo, i social, i programmi televisivi siano così connessi tra loro da non garantire un giusto processo? È normale che ci si dimentichi che siamo tutti persone? Nonostante con questa lettera io voglia mandare un messaggio diverso e nonostante io creda che la piazza pubblica non sia la sede opportuna per parlare di certe cose, ho deciso di spiegare pubblicamente anche una mia famosa espressione infelice sulla quale il processo mediatico ha lungamente costruito ipotesi e giudizi di ogni genere. Lo faccio perché sono quasi certa che per molti queste mie parole sembreranno un ennesimo tentativo di “parare un po’ il culo” a Federico. Così spiegherò pubblicamente, nonostante io l’abbia già fatto diverse volte in aula, cosa ho inteso all’epoca, in quel preciso momento, con quella frase. Cercherò di far capire cosa successe prima di pronunciarla per rendere più chiaro il tutto. Federico, nella Caserma dei Carabinieri di Ladispoli, quando venne a sapere che volevano fare degli accertamenti solo su lui, il padre e la sorella, mi esplicitò il timore che i Carabinieri (i quali a un certo punto avevano iniziato ad assumere un atteggiamento più rigido e freddo nei nostri confronti rispetto all’inizio) trovando le sue impronte sulle armi, potessero dubitare del fatto che a sparare fosse stato davvero Antonio. Inizialmente nessuno aveva immaginato questa ipotesi, cioè che i carabinieri potessero mai dubitare che noi avessimo raccontato la verità. Eravamo solo sconvolti per la cosa assurda che era successa, per noi in certi momenti ancora non sembrava neanche vero che Marco potesse essere morto. Era assurdo. Eravamo preoccupati per Antonio, per la sua instabilità in quel momento, avevamo paura che per il senso di colpa e la responsabilità che sentiva potesse fare qualche gesto inconsulto. Poi, certe domande negli interrogatori e il cambiamento negli atteggiamenti dei carabinieri iniziò a farci venire ansia. Quest’ansia si amplificò nel tempo, e quando Federico la mattina del 18 andò via dalla Caserma di Ladispoli, io non lo vidi fino al pomeriggio, quando lo raggiunsi nella Caserma di Civitavecchia. In tutte quelle ore mi aveva lasciato con questa sua paura e io ebbi paura per lui. Non sapevo niente, non li vedevo tornare e poi ad un certo punto dissero anche a me di andare a Civitavecchia, solo a me, a Maria no. Questo mi spaventò ancora di più. Non capivo perché solo io. Era legato forse al dubbio che era sorto a Federico? Mi spaventai, ricordo che nel viaggio in macchina con quei due Carabinieri non riuscivo a muovermi, tremavo, sudavo, ma sentivo tanto freddo. Quando arrivai nella Caserma di Civitavecchia venni ascoltata subito. Poco dopo l’interrogatorio che durò circa un’ora, raggiunsi Martina e Federico sul divano. Federico mi chiese come prima cosa che cosa avessi detto in merito alle armi. Gli dissi che gli avevo detto che il primo momento in cui vidi la pistola (io ricordavo di averne vista una sola) fu quando lui, uscito dal bagno, la portò al piano inferiore della casa, prima di quel momento non le avevo viste. Questo perché, se la paura di Federico (anche mia per lui) era che potessero trovare le sue impronte sulle armi e dubitare che poteva essere stato lui a sparare e non Antonio, il mio specificare che fino al momento (ovvero quello dell’ingresso e dell’uscita di Federico dal bagno) io non le avevo viste e Federico era stato con me, dava certezza del fatto che lui non poteva averle toccate fino a quel momento. Questo avrebbe garantito l’impossibilità di dubitare del fatto che lui fino a quel momento non le avesse toccate e che quindi le impronte di Federico risalivano ad un secondo momento dallo sparo. Mi dissi, tra me e me: Federico le ha toccato solo in quel momento, se io lo confermo, loro non possono dubitare. Infatti, dissi “ho detto che l’ho vista solo in quel momento così t’ho parato un po’ il culo a te”. Vuol dire: ho detto che prima di quel momento io non avevo visto nessuna pistola (ed era l’assoluta verità) e dato che tu eri con me nel letto, non potevi aver visto né tantomeno toccato, nessuna pistola. Con “parato un po’ il culo” (linguaggio che all’epoca banalmente utilizzavo spesso, senza porre troppa attenzione al suo significato) intendevo dire che ho difeso Federico da un’ipotetica accusa riguardo il fatto che lui potesse aver toccato le armi prima del suo ingresso nel bagno. Questo garantiva con certezza che non avrebbero potuto in alcun modo dire che a sparare poteva essere stato Federico. Dicendo “così ti ho parato un po’il culo a te” sembra effettivamente che io abbia omesso o nascosto qualcosa, ma non è così. Ho utilizzato un linguaggio non corretto. Io con quella frase intendevo solo tranquillizzare Federico del fatto che avevo ribadito durante l’interrogatorio (che sembrò davvero accusatorio) che fino a quel momento né io né Federico avevamo visto le armi e che quindi, nonostante trovassero le sue impronte, non era stato Federico a sparare. Così avrei difeso Federico da quell’ipotetica accusa, che lo aveva spaventato ormai da ore. Credo che qualsiasi parola io pronunci o pronuncerò verrà sempre fraintesa, ma resta in me quella piccola speranza che mi permette di riprovarci oggi. Fin ora ho avuto tanta difficoltà a parlare di Marco pubblicamente, credevo di non potermelo concedere e questo ha fatto passare il messaggio che lui non fosse nei miei pensieri. Ma non è così. Alla fine di tutto, resterà solamente ciò che di più profondo e sincero c’è. In questa storia non potranno mai esserci vincitori e vinti, non è mai stata una guerra e mai lo sarà".

Omicidio Vannini, i Ciontoli sperano nella Cassazione: tutta la famiglia presenta ricorso. Le Iene News il 23 gennaio 2021. La famiglia Ciontoli presenta ricorso in Cassazione per l’omicidio di Marco Vannini, ucciso appena 20enne da un colpo di pistola esploso da Antonio Ciontoli. I loro avvocati hanno chiesto di derubricare il reato di omicidio volontario in favoreggiamento personale per non mandare in carcere la moglie e i figli. Antonio Ciontoli e tutta la sua famiglia presentano ricorso in Cassazione. Gli avvocati ipotizzano l’accusa di favoreggiamento personale per Martina e Federico Ciontoli e la madre Maria Pezzillo. Invece per Antonio Ciontoli chiedono la riforma della sentenza sul presupposto che lui abbia sparato per errore con la conseguenza che la sua colpa sarebbe solo di aver omesso di soccorrere la vittima. È questo il nuovo tassello nel processo alla famiglia Ciontoli, condannata a settembre per l’omicidio volontario di Marco Vannini. Una vicenda che noi de Le Iene vi abbiamo raccontato con Giulio Golia e Francesca Di Stefano. Il 30 settembre scorso Antonio Ciontoli viene condannato a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale e a 9 anni e 4 mesi la moglie Maria Pezzillo e i due figli Martina e Federica per concorso anomalo in omicidio volontario. È la sentenza del processo d'Appello bis per la morte di Marco Vannini, ucciso a 20 anni nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2015 da un colpo di pistola sparato dal padre della sua fidanzata Antonio nella villetta dei Ciontoli a Ladispoli. Con Giulio Golia abbiamo seguito anche tutte le udienze di settembre che si sono concluse con la sentenza dell’Appello bis. “È una grande emozione, finalmente dopo più di 5 anni abbiamo dimostrato quello che era palese dall'inizio", hanno detto i genitori di Marco, Marina e Valerio parlando con Giulio Golia nel servizio che potete vedere qui sopra. "La prima sentenza d'Appello ci ha fatto rivivere il lutto di Marco. La Cassazione ha riacceso la speranza e oggi è diventata legge. Non abbiamo mai cercato vendetta, solo giustizia. Bisogna sempre lottare perché prima o poi arriva". Ora con il ricorso dei Ciontoli in Cassazione la vicenda giudiziaria sull’omicidio del giovane Vannini non può ancora avere la parola fine. I legali della difesa in 80 pagine totali chiedono di verificare la questione di legittimità costituzionale dei reati contestati. Secondo loro, la sopravvivenza di Marco Vannini sarebbe convenuta ad Antonio Ciontoli poiché solo così il suo "piano" di celare lo sparo avrebbe veramente funzionato. I giudici della sentenza d’Appello bis avevano invece scritto di una “condotta omissiva successiva all’esplosione del proiettile”. Una conclusione a cui giungono dopo aver ascoltato testimonianze e intercettazioni da cui emergerebbe la paura di Ciontoli di perdere il lavoro come agente segreto ed ex militare dei Servizi segreti della marina. Ma anche la famiglia secondo la sentenza ha “aderito all’evento morte con la certezza che così Marco non si sarebbe salvato”. Per gli avvocati della difesa invece non sarebbe così, proprio per le “cure improprie e confuse”, come le hanno definite i giudici che hanno ascoltato anche le intercettazioni del 118 in cui sono stati ricostruiti i 110 minuti da quando il colpo è stato esploso al momento della chiamata ai soccorsi. Gli avvocati di Maria Pezzillo e dei figli Federico e Martina chiedono in un secondo ricorso la derubricazione in “favoreggiamento personale”, che data la familiarità con l’imputato principale diventerebbe reato non punibile.

Federico Ciontoli: «Io, perseguitato per l’audience e il consenso politico». Esclusivo: parla il figlio dell’uomo che cagionò la morte di Marco Vannini. Valentina Stella su Il Dubbio l'11 febbraio 2021. «Tutti dovrebbero desiderare la verità e la verità è che io sono innocente», così dice al Dubbio, in questa intervista esclusiva, Federico Ciontoli, figlio di Antonio, l’uomo che nel 2015 cagionò la morte di Marco Vannini. A quasi sei anni da quella tragica notte, Federico parla per la prima volta, e lo fa con noi che già avevamo accolto per primi la testimonianza di suo padre. Federico, oggi ventinovenne, tra qualche mese potrebbe finire in carcere e non per poco: infatti lo scorso ottobre la Corte d’Assise d’Appello di Roma ha condannato Antonio Ciontoli a 14 anni per omicidio volontario con dolo eventuale e a 9 anni e 4 mesi sua moglie Maria Pezzillo e i figli Federico e Martina, condannati per concorso anomalo in omicidio volontario. In estate la Corte di Cassazione tornerà a pronunciarsi.

Federico, perché ha scelto di rilasciare questa intervista?

«Ho scelto di farlo per due motivi. Il primo: penso che il silenzio che ho mantenuto sino ad ora sia tra i fattori che hanno influenzato l’andamento del processo. Quando è avvenuta la tragedia, sono rimasto in silenzio per il rispetto verso la famiglia di Marco e poi perché non avevo le forze fisiche e mentali per parlare. Tuttavia questo mio silenzio è stato utilizzato per raccontare i fatti in maniera unilaterale e spesso distorta. E ho purtroppo trovato queste distorsioni anche nelle motivazioni dell’appello bis».

Il secondo motivo per cui ha scelto di parlare?

«Sono qui per amore della verità. Non sono qui a parlare con lei per me stesso, non sono qui a sperare di evitare il carcere. Lo faccio anche perché questo non accada mai più ad altri».

Non accada cosa?

«Nulla potrà ridare un figlio ai genitori, nulla potrà ripagare la morte di Marco, però non mi possono condannare alla morte sociale, non possono volontariamente negare la verità. Tutto ciò non può, credo, appagare un dolore. Tutti dovrebbero desiderare la verità e la verità è che io sono innocente».

Quattro gradi di giudizio dicono che non è così.

«Ciò che mi lascia senza parole è che sin dall’inizio non si è cercato di capire se fossi colpevole, mi hanno subito condannato con pregiudizio e poi hanno cercato il modo di provare la mia colpevolezza. Non sono mai stato considerato una persona, non sono mai stato giudicato singolarmente ma sempre nel contesto dell’intera famiglia. Chiedo solo di essere giudicato per le mie eventuali responsabilità. Ci sono stati momenti in cui ho pensato seriamente di rinunciare alla difesa, perché qualsiasi cosa i miei avvocati, che ringrazio comunque per il lavoro di questi anni, cercassero di dimostrare era tutto inutile: mi sentivo paradossalmente senza difesa, perché mi avevano già condannato dall’inizio».

Psicologicamente come ha affrontato questi anni?

«Sono andato da diversi psicologi e da uno psichiatra ma quello che ho vissuto è difficile da spiegare. È difficile far capire quello che è successo quella notte e negli anni successivi. Il motivo per cui ho deciso di parlare, e non le nego che ho anche paura e dolore nel farlo, è che tutti gli stereotipi sulla mia persona, tutte le falsità che hanno detto su di me hanno alzato un muro con il resto delle persone. Lei non può capire quanto è straziante la solitudine che mi ci circonda in alcuni momenti: ho l’amore di Viola, gli amici veri mi sono rimasti vicini ma le assicuro che la mia vita è fatta di solitudini».

Che vita fa in questo momento?

«Quando è accaduta la tragedia, avevo una laurea triennale in ingegneria energetica e stavo preparando la tesi per la laurea magistrale ma ho interrotto. Avevo intrapreso anche gli studi di filosofia e lavoravo come sviluppatore informatico ma mi hanno licenziato per la pressione mediatica. Da quel momento non ho trovato mai più un impiego, benché avessi un buon curriculum e due mesi prima del licenziamento mi avessero aumentato lo stipendio. Adesso faccio il volontario, ma anche intraprendere questa strada non è stato facile perché alcune organizzazioni non se la sono sentita di accogliermi per il possibile impatto mediatico».

Nelle sue dichiarazioni alla Corte ha detto che per anni “ho camminato perseguitato dall’immagine di qualcuno che potesse venire a spararmi in testa spinto da quello che si diceva di me in televisione”. Cosa sono stati questi anni per lei?

«Ancora oggi quando cammino per strada, mi muovo a zig zag perché temo che ci sia qualcuno che mi segue e che mi vuol far del male. Dopo poco tempo dalla tragedia, abbiamo dovuto lasciare casa, non potevamo fare neanche la spesa perché tutti ci additavano. Per mesi e ancora adesso non incontro i miei genitori, viviamo sparpagliati: abbiamo paura di essere seguiti e che la stampa scopra dove viviamo solo per fare lo scoop. E poi incontrarci tutti insieme comporta un peso emotivo fortissimo che riusciamo a sopportare con molta fatica. Non possiamo neanche darci sostegno a vicenda perché ognuno di noi è coinvolto in questa tragedia. Ognuno di noi soffre in solitudine. Non c’è giorno che io non pensi a quanto è accaduto quella maledetta notte».

Si potrebbe obiettare che questo è nulla in confronto alla perdita di un figlio.

«Questo è ovvio. Qui non stiamo di sicuro facendo una gara a chi soffre di più. Però vorrei cercare di far capire che in quella casa, quella notte nessuno ha mai pensato che Marco potesse morire. È vero, mio padre ha mal gestito quella situazione ma questo non vuol dire che noi dobbiamo smettere di esistere agli occhi degli altri, che dobbiamo subire in silenzio le minacce che ci vengono rivolte, come quella di essere sciolti nell’acido, o di essere braccati a vita dalla stampa».

Lei attribuisce grosse responsabilità alla stampa. In fondo si tratta di diritto all’informazione.

«Le interviste non mi sono state chieste, hanno tentato di estorcerle, mettendomi quasi il microfono in gola. Ci sono tre episodi che mi sono rimasti impressi: un giorno sul treno Verona- Roma mi sono trovato accanto una troupe di “Chi l’ha visto” che mi ha quasi assalito. Come hanno fatto a sapere che ero in quel vagone? Il secondo episodio riguarda il conduttore delle “Iene” Giulia Golia che mi ha atteso forse per due giorni sotto casa, mi ha rincorso mentre andavo al lavoro e per non farmi partire si è frapposto fra me e lo sportello dell’auto. Il terzo episodio è quello di quando l’inviata di “Quarto Grado”, Chiara Ingrosso, mi ha seguito per le strade di Roma, fino a quando non ce ne siamo accorti e l’abbiamo fermata noi per strada. Questo a mio parere non è giornalismo, è sensazionalismo. E ciò ha avuto delle conseguenze».

Quali?

«La gogna mediatica ha alimentato l’odio verso di noi con opinioni e ricostruzioni che contraddicono i fatti, e qualsiasi informazione alternativa, anche se vera, viene silenziata. E poi ho visto, come le dicevo prima, che nelle motivazioni per cui sono stato condannato non ci sono prove processuali ma elementi apparsi solo in televisione».

Ad esempio?

«Non è vero che abbiamo lavato il sangue di Marco, che fosse copioso è un’invenzione, e non è vero che ci siamo messi d’accordo, non esisteva un piano di cui si parla tanto: se ci fosse stato un piano, nella prima chiamata al 118 perché ci sarebbero state voci discordanti di noi familiari? Se si ascoltano poi bene tutte le intercettazioni si capisce che non ci stavamo mettendo d’accordo. Nelle intercettazioni ambientali per ben 14 volte, o giù di lì, ho detto che mai avrei immaginato quello che poi è successo».

Ripercorriamo brevemente quanto accaduto. Lei quando ha capito che era partito un colpo d’arma da fuoco?

«Quando ho trovato il bossolo: sono andato subito da mio padre, gli ho fatto presente la situazione e gli ho detto di chiamare subito i soccorsi».

Suo padre si apparta e chiama il 118.

«Sì, lui aveva sparato e lui fece la seconda chiamata. Disse una bugia, ma come avrei potuto immaginarlo? Perché sarei dovuto rimanere ad ascoltare la chiamata? Io sono piuttosto corso a prepararmi, poco dopo sarei uscito per aspettare l’ambulanza in strada. Ribadisco che quando sono arrivati i soccorsi e mio padre era con loro a spiegare la situazione, io non ero presente. Stavo cercando parcheggio, come hanno dimostrato i dati del Gps. Ma questo elemento non è stato considerato dai giudici. Perché?»

Poi arriviamo al Pit.

«Prima di arrivare lì, mio padre mi confessò in macchina che non aveva detto ai soccorritori la verità. Io mi infuriai con lui e gli dissi di dirlo subito ai medici. Appena arrivati al Pit mi rivolsi ai genitori di Marco e gli comunicai che era partito il colpo. Ma mai avrei immaginato che Marco potesse morire».

Lei è stato condannato anche sulla base del fatto che avrebbe pulito l’arma con cui suo padre ha sparato accidentalmente.

«Non ci sono dati che confermano questo, anzi gli elementi a disposizione ci dicono che le impronte ci sono, sono molteplici ma non si riesce a dire a chi appartengono. Ma questo perché mio padre purtroppo ha sparato e poi io le ho prese per metterle in sicurezza».

Quanto ha inciso il carattere di suo padre nelle azioni o omissioni della famiglia quella notte?

«Io mi sono fidato di lui. Ci rassicurava che era in grado di gestire quella situazione. E io gli credo: sono certo che tutto quello ha fatto, compresi gli errori, lo avrebbe fatto anche se al posto di Marco ci fossi stato io».

Com’era il vostro rapporto?

«Come avviene in tante famiglie, c’erano state delle discussioni con lui a causa del suo carattere. Lui voleva che intraprendessi la carriera militare, io ho scelto altro. A tal proposito, si è parlato della mia gelosia nei confronti di Marco, ma io non potevo che essere contento che lui potesse dare a mio padre quello che io non gli avevo dato, ossia diventare un militare».

Qualcuno, compreso la mamma di Marco, crede che possa essere stato lei a sparare.

«Questa cosa non esiste e, in più, dai dati processuali non emerge che io abbia sparato a Marco, l’ipotesi è stata scartata. Perché se ne continua a parlare?»

Tornando a suo padre, non gli rimprovera nulla?

«Penso sia difficile non rimproverare qualcosa a mio padre per quella sera. Gli errori ci sono stati, come quello di utilizzare un’arma e non dirci quello che stava accadendo, sia quella sera che nei giorni successivi. Ma credo che si sia comportato così proprio perché non si immaginava quello che sarebbe accaduto da lì a poco».

Con quale stato d’animo si avvicina alla Cassazione?

«Con rassegnazione e paura, anche se credo ci sia ancora il tempo per giudicare seriamente sulla mia libertà. Tuttavia tutto quello che è successo fino ad ora mi porta a essere rassegnato. La mia libertà è messa in pericolo per ottenere l’audience e voti facili».

Ci spieghi meglio.

«Esiste un corto circuito mediatico e politico: la stampa ha narrato i fatti senza alcun rispetto delle garanzie di noi imputati e distorcendo anche gli elementi che ormai in dibattimento erano cristallizzati. Ciò ha portato a creare uno schieramento di opinione contro la mia famiglia e contro un sereno accertamento della verità. Alcuni politici hanno colto questo fenomeno e l’hanno usato per crearsi un consenso e raccogliere voti nell’ampia fascia di popolazione ormai ingannata da opinioni e ricostruzioni false. E se un politico si schiera dicendo che io sono un assassino, come può il suo elettore non convincersi ancora di più che lo sono? Noi abbiamo subìto un processo mediatico parallelo devastante. E non le sembra quantomeno anomalo che l’ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta venga a sedersi in prima fila in Cassazione il giorno della sentenza? O che il ministro della Giustizia incontri i parenti della vittima o che venga promossa una azione disciplinare nei confronti del pm? E Matteo Salvini che mi ha condannato credo senza leggere un atto del processo? Questo non avviene in tutti i casi giudiziari».

Non ha paura del carcere?

«No, dopo quello che ho vissuto in questi anni non temo il carcere. Se dovrò andarci, vorrà dire che porterò la mia battaglia avanti da lì dentro. L’essere in pace con la coscienza mi dà la forza di fare questa intervista e di affrontare il futuro. Mi sono chiesto: a cosa serve la verità, a cosa serve sapere di essere innocente? Adesso la verità mi dà l’energia non solo per me ma anche per quelli che come me stanno subendo e subiranno quanto appena raccontato».

La madre di Marco Vannini ha spesso detto che non si saprà mai veramente cosa sia accaduto in quella casa.

«Penso che la responsabilità sia sempre dei media che hanno creato confusione nella famiglia di Marco con le loro strambe ricostruzioni. E purtroppo, mi dispiace dirlo, la stampa ha strumentalizzato il dolore della famiglia di Marco, hanno sfruttato la loro sofferenza per creare altra sofferenza e creare una frattura tra la mia famiglia e quella di Marco. Tutto questo ha allontanato la verità: addirittura le bugie ripetute in questi cinque anni si sono trasformate in verità».

Lei si rimprovera qualcosa?

«Mi rimprovero il fatto di non essere riuscito a vedere chiaramente quello che stava succedendo quella sera. Se tornassi indietro, sapendo quello che so adesso, non rifarei le stesse cose. Ma senza conoscere quello che sappiamo adesso, non potrei che rifare tutto, perché ho fatto il massimo anche se quel massimo non è bastato a salvare Marco purtroppo. Io ho fatto tutto il possibile con gli elementi a disposizione in quel momento. Ho ripercorso mille volte nella mia mente quella notte perché avevo messo in dubbio me stesso e le mie convinzioni e se oggi parlo è perché sono riuscito a capire che non potevo fare altrimenti. Quella sera ho sempre fatto tutto affinché arrivassero i soccorsi che avrebbero aiutato Marco a stare meglio».

·        Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.

Da "Libero quotidiano" il 10 dicembre 2021. A una ventina d'anni dai fatti l'imprenditore e influencer bolognese Gianluca Vacchi è stato assolto perché il fatto non sussiste dall'accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione nel processo Parmatour, uno dei filoni del crac Parmalat. Lo ha deciso il tribunale di Parma, a fronte di una richiesta di condanna di quattro anni e sei mesi formulata dalla Procura. I fatti si riferivano all'operazione Last Minute Tour, tra il 2001 e il 2002, quando la società Last Minute, di cui Vacchi era detentore della partecipazione azionaria, fu ceduta alla Hit, galassia del turismo del gruppo di Calisto Tanzi, per 29 milioni di euro. Una cifra «esorbitante» e determinata in modo arbitrario, per la Procura, secondo cui l'importo venne distratto da Vacchi in concorso con Tanzi, Fausto Tonna, Claudio Baratta e Paola Visconti, nipote di Tanzi, allo scopo di creare pregiudizio ai creditori. Dopo una condanna a tre anni e sei mesi in primo grado, in appello a Bologna la decisione su Vacchi, nel 2014, era stata annullata, per essere il fatto ritenuto in sentenza diverso da quello contestato e gli atti rimandati al tribunale parmigiano per un nuovo giudizio, che si è concluso ieri.

Era coinvolto nel processo 'Parmatour'. Gianluca Vacchi assolto dopo 20 anni per il crac Parmalat: crolla l’accusa di bancarotta per l’imprenditore-influencer. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Un percorso lungo venti anni per arrivare all’assoluzione. È l’incredibile via crucis vissuta da Gianluca Vacchi, l’imprenditore bolognese ormai celebre anche come ‘influencer’ sui social network, che nella giornata di ieri, giovedì 9 dicembre, è stata assolto “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione.

Vacchi era finito coinvolto nel processo ‘Parmatour’, uno dei filoni del crac Parmalat e in particolare all’operazione Last Minute Tour, dal nome della società dell’imprenditore bolognese Last Tour. Tra il 2001 e il 2002, come ricostruisce l’Ansa, l’azienda di cui Vacchi era detentore della partecipazione azionaria venne ceduta alla Hit, società della galassia di Calisto Tanzi, per 29 milioni di euro.

Secondo i magistrati di Parma quel prezzo era “esorbitante” e determinata in modo arbitrario: per la Procura, l’importo venne distratto da Vacchi in concorso con Tanzi, Fausto Tonna, Claudio Baratta e Paola Visconti, nipote di Tanzi, allo scopo di creare pregiudizio ai creditori.

Nel processo di primo grado l’impianto accusatori aveva retto, portando ad una condanna a tre anni e sei mesi, mentre in Appello a Bologna nel 2014 quella sentenza era stata annullata perché il fatto ritenuto in sentenza era ritenuto diverso da quello contestato e gli atti erano stati dunque rimandati al tribunale parmigiano per un nuovo giudizio.

A fronte di una richiesta di condanna di quattro anni e sei mesi formulata dalla Procura di Parma Vacchi, difeso dagli avvocati Tullio Padovani, Andrea Soliani e Guido Magnisi, è stato invece assolto “perché il fatto non sussiste”.

“Il lungo percorso processuale – ha commentato all’Ansa l’avvocato Magnisi – dà atto a Gianluca Vacchi della sua assoluta onestà professionale ed estraneità alle vicende del crac Parmalat, da un lato. Dall’altro, riconosce all’invenzione di Last Minute Tour la capacità di un imprenditore genialmente estroso“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Gianluca Vacchi assolto dopo 18 anni: «Mi tolsero 170 milioni, mi sono rifatto una vita su Instagram». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2021. Gianluca Vacchi era accusato di bancarotta in un filone del crac Parmalat. La nuova vita: dall’Ima alla catena Kebhouze, il desiderio di chiedere a Sharon Fonseca di sposarlo.

«Quando stai sotto processo per 18 anni e poi vieni assolto perché il fatto non sussiste, due cose da dire uno ce l’ha, perché la gioia è grande, ma 18 anni sono lunghi, eterni». Gianluca Vacchi ha la voce sollevata e insieme ferma. Celebre per i suoi 44 milioni di followers sui social, per i balletti e la vita spensierata da milionario, in realtà, si portava questa pena dentro da quasi vent’anni. È a Miami e la notizia dell’assoluzione gli è arrivata giovedì. L’accusa era pesante: bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione nel processo Parmatour, uno dei filoni del crac Parmalat. La richiesta di condanna era di 4 anni e 6 mesi. I fatti risalgono al 2001 e 2002 quando aveva ceduto la sua Last Minute Tour alla Hit di Calisto Tanzi per 29 milioni euro, cifra «esorbitante» secondo la Procura di Parma che aveva ipotizzato una distrazione ai danni dei creditori Parmalat e che l’aveva condannato una prima volta. Però poi, la sentenza era stata annullata in Appello a Bologna, il processo era iniziato da capo.

Vacchi, quali sono le «due cose»?

«La prima è ringraziare i giudici del Tribunale di Parma che hanno preso in mano questo dossier penale con serietà e lo hanno valutato in tutta la sua inconsistenza arrivando a un’assoluzione totale. La seconda è che vivere 18 anni sapendo che il fatto non è mai sussistito è un’esperienza abbastanza forte e molto dolorosa». 

Il dolore a cosa era dovuto?

«È stato un processo pieno di assurdi giudiziari. La prima volta, nel 2012, sono stato condannato per un reato diverso da quello per il quale ero accusato. Infatti, è per questo che l’appello ha riconosciuto nulla la sentenza. Poi, mi sottoposero a un sequestro preventivo, che, a fronte di una supposta distrazione di 29 milioni, ammontava a 120 milioni. Ritenevano che dovessi essere responsabile in solido anche di cose fatte da persone che neanche sapevo esistessero». 

L’equivoco di partenza è sul valore della sua azienda.

«Last Minute Tour era la prima compagnia di vendita di prodotti turistici ultimo minuto, una tipologia di prodotto che, a distanza di vent’anni, è la più importante nel turismo ed è diventata di uso comune anche in altri settori, dai biglietti dei concerti ai posti al ristorante. Un’idea la cui bontà e genialità è stata confermata non da me, ma dalla storia. Con l’attentato alle Torri gemelle e un mercato che rallentava in attesa di assorbire lo choc, decisi di vendere. Il gruppo Parmalat era già attivo nel turismo e aveva a sua volta bisogno di collocare pacchetti comprati e invenduti. Io non li conoscevo neanche, in principio, mi aveva contattato la banca d’affari americana Merrill Lynch. Poi, c’è il crac Parmalat e vengo chiamato in mezzo a questa burrasca: il Pm sosteneva che il prezzo era privo di fondamento, basandosi su una perizia di poche pagine. Forse, erano tempi in cui non si era ancora sentito parlare di Amazon». 

Che c’entra Amazon?

«Basta aprire il Wall Street Journal per vedere decine di società in perdita che però valgono bilioni, è qualcosa che è successo a tanti colossi. Il mio competitor inglese, lastminute.com, fondato dopo di me, è stato poi comprato per più di un miliardo di euro. Non so come sia stato possibile questo travisamento. Ho visto gli uffici della Procura di Parma, erano talmente sommersi dalle carte, che forse non si poteva dedicare il giusto tempo a tutto. E penso anche che, in quel marasma di imputati, ero uno dei pochi solvibili. In quel 2012, però, quei 120 milioni sequestrati erano tutto il mio patrimonio. C’è voluta tutta la mia capacità di resistere per andare avanti. Ho avuto visite in casa dieci volte, anche col fabbro per scassinare la porta, volevano sequestrarmi anche i vestiti, hanno provato a entrare pure in casa di mia madre per prendere cose presunte mie. Ma non era finita». 

Che altro è successo?

«La Corte d’Appello di Bologna, dopo aver considerato nulla la sentenza di primo grado, annullò anche il sequestro. Però due giorni dopo, e senza che fosse stato aperto nessun processo civile, il Tribunale di Parma deliberò un altro sequestro di 50 milioni, durato altri anni. Eppure, il Pm di Bologna, quando fu annullato tutto, aveva detto, ed è agli atti, che quella era una brutta pagina della giustizia italiana». 

Come ha fatto a lavorare, vivere, in quegli anni?

«A lungo, non ho più potuto fare l’imprenditore, l’accesso al credito era chiuso. Mi era rimasta solo la partecipazione nell’Ima di famiglia. Mi sono inventato una vita su Instagram, ho creato l’azienda di me stesso, perché la vita reale era talmente opprimente che me ne sono inventato una virtuale. Instagram è nato come distrazione, nel 2013, nel momento più cruento dell’iter processuale. Però alla fine, se sono l’uomo che sono, è anche perché ho passato questo grande dolore e l’ho sconfitto prima dentro me stesso e poi in tribunale. Ho avuto la forza di reinventarmi, lavoro con grandi marchi globali, faccio il deejay a livello internazionale, ed è stato solo per mia forza, la mia tenacia». 

Sperava ancora nell’assoluzione?

«Sono sempre stato ancorato alla verità. Tanti, non i miei avvocati, mi hanno consigliato di transare, ma ho detto no perché transare è come e ammettere che hai fatto qualcosa». 

Qual è stata la prima cosa che ha fatto, appresa la bella notizia?

«Ho parlato coi miei avvocati, Tullio Padovani e Andrea Soliani, che mi hanno seguito con Guido Magnisi e il civilista Marco Dalla Verità. La notte prima, non avevo dormito. E poi ho chiamato mia madre, una donna che ha sconfitto due cancri e vedeva parlare di me al telegiornale associato al crac Parmalat. Con lei non sono riuscito a risparmiare la commozione. Era anche appena uscita da un mese di terapia intensiva, ha fatto in tempo a vedermi assolto ed è stata una gioia per entrambi». 

Chi era Gianluca Vacchi quando cominciava la sua odissea giudiziaria?

«Un imprenditore che viveva il suo lavoro con entusiasmo incredibile. Avevo cominciato facendo 18 miliardi di lire di debiti, che erano cinque volte il patrimonio di mio padre, per rilevare le quote della società di famiglia dai parenti meno interessati e rilanciarla. Ero arrivato a investire in dodici settori diversi, dal turismo appunto, alle roulotte, agli orologi. Ero un imprenditore su una rampa di lancio che fu minata e che fu tirato dentro una cosa più grande di lui, che coinvolgeva migliaia di risparmiatori truffati. All’inizio, presi l’accusa in modo devastante. Ero ancora un ragazzo. Ora, possono spararmi e neanche scalfirmi». 

Dove vive adesso, che vita fa?

«Sei mesi in Italia, sei a Miami, nella nuova casa comprata prima della pandemia, prima che diventasse la meta dove tutti i Billionaire americani sono arrivati lasciando New York, Los Angeles, San Francisco. Ci sto con la mia futura moglie Sharon Fonseca e la nostra bambina Blu Jerusalema. Buona parte della gioia della sentenza l’ho provata per lei, pensando che, alla fine, un giorno, suo padre sarà una persona assolta perché il fatto non sussiste e non uno che ha avuto problemi con la giustizia». 

«Futura moglie» è una notizia. Si sposerà?

«A Sharon non l’ho ancora chiesto. Voglio che sia una sorpresa, ma ho nelle tradizioni un’ancora molto forte, per cui non lascerò crescere mia figlia in una famiglia non tradizionale». 

Come sta Blu Jerusalema dopo l’operazione subita a sei mesi?

«Bene, aveva una palatoschisi, una malformazione congenita del palato. L’abbiamo operata a Parma, dove c’è uno dei due massimi luminari al mondo. Ci sono malattie peggiori, ma fa male vedere tua figlia uscire dalla sala operatoria con 25 punti in bocca, le mani fasciate per evitare che si tocchi. Grazie alla forza che mi dà, sto vivendo una seconda giovinezza anche di energia imprenditoriale. Ora, sto controllando con attenzione il lancio della mia catena di Kebab: Kebhouze». 

Da lei, uno s’aspetterebbe una catena di caviale e champagne.

«Ammetto che il kebab non l’avevo mai assaggiato. Ma ho scoperto che è il secondo street food più venduto al mondo e non esiste una catena. Ho aperto il primo negozio a Milano, ne arriveranno dodici entro marzo in Italia e 18 entro il 2022 fra Italia e Spagna. Mi sono innamorato del kebab: è un cibo sano, economico, i giovani lo adorano. Capisco che lei si aspettava il caviale, fa parte delle mie incongruenze. Un mese fa, Brunello Cucinelli ha fatto un evento con 400 giornalisti per parlare del suo capitalismo umanistico e della sua biblioteca universale e mi ha chiamato sul palco. Io ho avuto tante critiche facili sul mio essere influencer, e per i balletti su Instagram e ora che ho 44 milioni di followers mi salutano come un guru della ipermodernità. Insomma, ho fatto un grande discorso sul perché il libro sarà ancora centrale nel percorso di formazione personale dell’individuo. Qualcuno l’ha accolto con stupore, qualcuno ha detto: non vi meravigliate, non lo conoscete. Io ho basato la mia nuova vita facendo vedere solo la parte superficiale, ma non c’è solo quella. Se avessi fatto post sul resto, avrei quattro followers». 

Il precettore ce l’ha ancora?

«Certo. Ultimamente, abbiamo dibattuto soprattutto di attualità, da lì magari andando alla filosofia». 

L’ultima volta, sul Corriere, ci stupì raccontando che faceva la crioterapia in casa. Sono arrivate altre ipermodernità antiaging a casa Vacchi?

«La camera iperbarica: averla in casa è una cosa abbastanza nuova. Ci sto due ore tutte le mattine, ci dormo dalle sei alle otto. Ossigeno mente e corpo. E ho aggiunto una bici inventata da me a raggi infrarossi, che gioca sui contrasti di temperatura e porta ossigeno ai tessuti. L’obiettivo è hackerare l’età e arrivare bene al 2035, perché c’è un medico spagnolo che sostiene che, a quella data, potrà invertire il corso del tempo».

·        Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.

Da leggo.it il 14 dicembre 2021. Fabrizio Corona non perde occasione per mettersi al centro delle bufere. Anzi Fabrizio Corona crea le bufere. Torna in tv l'ex dei re dei paparazzi e lo fa in un'emittente napoletana su Canale 21 ospite al Peppy Night Fest lo show condotto da Peppe Iodice e lo fa con una scamorza in mano. «Questa è la scamorza di Ilary Blasi ». Il conduttore impanicato lo stoppa subito: «Adesso mi fai litigare proprio con tutti». Non soddisfatto Corona condisce il tutto mostrando il fisico in uno spogliarello: «A 50 anni penso di essere ancora in forma». Ma la frecciata a Ilary Blasi ormai è stata scoccata e va spiegata.  

Fabrizio Corona torna in tv contro Ilary Blasi

«La differenza tra me e tutti gli altri personaggi dello spettacolo è questa. Se vado in qualsiasi trasmissione, se viene chiunque dello spettacolo, io so dirti davvero chi è, da dove viene e perché. Questo è il mio mestiere. Questi personaggi li ho inventati tutti io». E dopo la battuta alla Pippo Baudo parte la lista dei vip che devono, a suo avviso, dire un "graie" a Fabrizio. «La Gregoraci? L'ho fatta fidanzare io con Briatore. Ilary Blasi? A 16 anni veniva con sua madre che mi portava il book con le sue foto nude ». 

Corona e le donne

Poi però si cambia argomento e si parla di amore. Quali flirt sono stati reali e quali falsi rispetto a quelli studiati a tavolino. «Con Belen Rodriguez? Sono in ottimi rapporti». Poi sul videowall una foto di Nina Moric: «Nina è croce e delizia, ma rimane sempre la madre di mio figlio». E su Asia Argento: «Asia Argento? Nella nostra follia, ci siamo trovati e abbiamo condiviso un momento della nostra pazzia». Ma poi ovviamnete ha aggiunto dell'altro: «Sono tutte e tre ancora innamorate di me: Nina, Asia e Belen». 

Il rapporto con Lele Mora

Ma Iodice vuole scoprire qualcosa in più su e chiede: «Ma chi è Fabrizio Corona?», «Una cosa che dico ironicamente, senza offendere nessuno, è che io sono Dio». Poi si parla del suo ex amico lele Mora: «Professionalmente non vale niente, non ho più rapporti e mi dispiace. Lui ha perso tutto. Questo mestiere non si fa con la fortuna e lui non ha le capacità. Si è perso, resta il bene. Ma dal punto professionale, Lele Mora non vale niente. Negli anni 2000 noi comandavamo l'Italia. Oggi a lui non è rimasto niente».  

La carriera

Ma Fabrizio non riesce più a trovare uno spazio per la sua professione nel mondo attuale: «Io non ero un fotografo, ero l'agente dei fotografi. I paparazzi non esistono più. Oggi, i giornali e Instagram non raccontano la verità. Quel mondo lì, il mondo mio, è un mondo morto». 

Gli errori

Ma Corona qualche errore lo ha fatto e il conduttore gli pone una domanda per cercare di capire lui come ha vissuto questi anni di problematiche giudiziarie: «Guardandoti qui in carne e ossa. Vorrei capire quali errori riconosci di aver fatto». Corona non ha dubbi:  «Gli errori, secondo me, non li ho fatti. Esiste questa parola: hybris. È un'ubriacatura di potere. Quando arrivi a trent'anni e dal niente sei riuscito a comandare, fare soldi, avere il mondo in mano, quando non hai amici e sei solo contro il potere, ti metti contro i potenti e poi te la fanno pagare. Perché sono stato solo contro il potere. Gli unici errori che ho fatto nella mia vita: volere tutto e subito. Ma non cambierei niente. Rifarei anche i sei anni di galera che ho fatto». 

Da corriere.it il 26 ottobre 2018. Sembrava un tentativo di riconciliazione. E invece si è trasformata in una lite furibonda in diretta. Il collegamento tra Ilary Blasi e Fabrizio Corona al Grande Fratello Vip si è concluso con una serie di accuse reciproche. «Il veto non è mai esistito», dice Ilary Blasi a Fabrizio Corona in apertura del collegamento, per difendersi subito dalle accuse di aver creato problemi ad un intervento dell'ex re dei paparazzi nella casa. «Guarda che non è una scelta intelligente tirare in ballo questa cosa- le risponde lui piccato- Ti rendi conto di quello che mi hai detto in puntata?». Ma lei a quel punto scatta, e replica con veemenza, accusandolo di «quello che è successo tredici anni fa». Ovvero uno scatto che testimoniava un tradimento del futuro marito, Francesco Totti, a pochi giorni dalle nozze. 

La rabbia della conduttrice

«L'hai fatto in un momento in cui io mi dovevo sposare ed ero incinta del mio primo figlio», dice ancora addolorata. Ma quando lui prova a replicare ancora, Ilary è impietosa e lo assale: «Stai facendo la figura del caciottaro- lo accusa, ricordando quando lui la accusava di parlare in tv con un accento romano marcato, da caciottara, appunto- racconti le tue storie, per fare gli scoop prometti ad aspiranti soubrette per fare delle interviste finte chissà che cosa. Prendila con filosofia, noi siamo andati avanti, sei tu che sei rimasto indietro: tutta Italia ha capito che tu fai gli scoop e li disfai. Io non ci casco. Ti devi prendere la responsabilità di quello che dici, non puoi venire qua e fare lo show. Ciao Fabrizio e buona vita», conclude Ilary chiedendo di chiudere il collegamento. Una rivincita per la conduttrice, che si becca l'applauso del pubblico. E una sconfitta per Corona, che già dal confronto con la ex, Silvia Provvedi, era uscito già pesto. Ma su Instagram poco dopo si sfoga: «Ora ti faccio vedere cosa combino».

Da gazzetta.it il 14 dicembre 2021. Ilary Blasi e Fabrizio Corona protagonisti di uno scontro dai toni fortissimi al Grande Fratello Vip. Entrato nella Casa per un incontro con la ex fidanzata, Silvia Provvedi, e incalzato dalla Blasi per alcune storie su Instagram in cui la accusava di non volerlo in tv, Corona ha alzato la voce quando la moglie di Totti gli ha chiesto: “Ti ricordi cosa mi hai fatto 13 anni fa?”. Il riferimento è alla vicenda Flavia Vento, di cui Totti (smentendola) parla anche nel suo libro: “Ha scritto un mare di cazzate - l’attacco di Corona -. La verità è che siamo tutti cornuti e tu sei stata tradita a un mese dal matrimonio”. Ilary Blasi ha replicato durissima: “Sei un caciottaro. Hai organizzato tutto quando mi dovevo sposare ed ero incinta del mio primo figlio, lo sa tutta Italia. Io quelli come te li 'sgamo' subito”. 

CORONA: "IO TI ROVINO" — Corona ha continuato la sua invettiva: “Ci persone importanti in tv che sanno che quello che ha scritto tuo marito è una stronzata. Io ti rovino”. A quel punto Ilary Blasi ha interrotto il collegamento e salutato Corona riprendendo normalmente la trasmissione. Per adesso, da parte di Totti, spesso a Cinecittà dietro le quinte del programma, non si registrano reazioni.

Da ilmessaggero.it l'8 novembre 2018. Fabrizio Corona nuovamente all'attacco. Per promuovere la sua intervista a Verissimo sabato prossimo l'ex re dei paparazzi, dopo il fidanzamento (tattico?) con Asia Argento, pubblica su Instagram l'audio censurato al GfVip quando fu protagonista di un accesso scontro con Ilary Blasi. Nel video si sente chiaramente Corona dire alla moglie di Totti: «Ricordati cosa facevi tu a 16 anni, ricordati da dove vieni. Non è perché hai sposato un calciatore e sei lì pensi di essere migliore degli altri». Una parte di queste frasi non si sentirono allora in diretta, un po' per le urla di Corona e della Blasi che si sovrapponevano, un po' perché l'audio di Fabrizio era più basso e dopo qualche minuto a Corona fu chiuso il microfono. «Mai,Mai,Mai...sopporterò nessuna censura!!!Sempre dirò e urlerò quello che penso!!», scrive Corona sul suo profilo. Come la prenderà Ilary? Stasera in puntata ci sarà un nuovo capitolo della saga? 

Sul web il pubblico social attacca duramente Fabrizio: «E lui si ricorda cosa faceva con Lele Mora?».

Corona viene accusato di avere «la memoria corta» dopo le parole dell'ex agente dei vip che qualche giorno fa ha rivelato: «Con Fabrizio ci fu sesso».

Molti lo accusano di scarsa coerenza anche per l'atteggiamento che ebbe con Totti. Dopo aver definito il campione giallorosso monumento del calcio italiano «uno che sa tirare due calci al pallone», ha dedicato all'ex capitano della Roma un post in cui addirittura lo omaggiava. 

«E ora - scrivono sui social - accusa la Blasi proprio lui che  per la sua condotta di certo non può essere un esempio? Almeno stesse zitto». 

Intanto sembra proseguire la storia tra Fabrizio e Asia Argento, protagonista anche lei di un accesso scontro (Dio li fa e poi li accoppia) con la mamma che ha pubblicato su twitter gli insulti pesanti che le sono stati rivolti dalla figlia. Daria Nicolodi riferendosi alla relazione con Corona aveva scritto su twitter: «Due signori di mezza età con felpa e cappuccetto che si baciano... un po’ inguaiati e un po’ inguaianti».Pubblicando poi  i commenti poco edificanti che le aveva mandato Asia in privato: «Sei una donna pessima, madre già lo sai, una fallita, sola nel mondo. Torna nel tuo dimenticatoio. Ora hai veramente esagerato. Fott... tr....».

Poi la vicenda era proseguita con un dietrofront della Argento che aveva risposto alla madre, sempre via social: «Mamma, lo so che sei preoccupata, ma non c'è niente da temere». Ritornando poi sull’argomento ieri sera, ospite di Chiambretti su Rete4 a #CR4 – La Repubblica delle donne: «Io le ho risposto privatamente- e lei ha pubblicato il mio messaggio. Vorrei stendere un velo pietoso perché credo che i panni, come si dice, dovrebbero essere lavati in casa propria».  Forse dovrebbe consigliarlo anche al suo Fabrizio.

Manuel Spadazzi per ilrestodelcarlino.it il 6 dicembre 2021. Lo chiamano da una parte all’altra. Gli stringono la mano. Chiedono un selfie. "Fabrizio, Fabrizio, dai che ci facciamo una foto". Lui sorride, abbraccia, posa con i fan. "Ne ho tanti, tantissimi. E non soltanto qui, ma in tutta Italia. Nonostante i miei guai giudiziari", dice compiaciuto Fabrizio Corona. Che venerdì sera è tornato in Riviera dopo "tanto, troppo tempo. Mi mancava venire da queste parti...". L’ex re dei paparazzi ha festeggiato tutta la notte, prima ospite al ristorante Hamerica’s in centro storico poi alla discoteca Top Club Frontemare, dove si è presentato dopo mezzanotte e si è esibito anche come deejay. Solo due mesi fa Corona, che sta scontando ancora le varie condanne subite agli arresti domiciliari, era stato denunciato perché sorpreso dalla Guardia di finanza a Genova, dopo che aveva ottenuto un permesso dal giudice di sorveglianza per recarsi a Roma. "Ma stavolta a Rimini – assicura Corona – è diverso. Ho avuto un permesso specifico dal giudice, per motivi di lavoro (Corona viene pagato per le sue ospitate)". 

Intende dire che non si è cacciato di nuovo nei guai, venendo a Rimini?

"Assolutamente no. E’ tutto regolare. Questo giudice ha capito la condizione in cui mi trovo. E io ho promesso di rigare dritto. Non voglio tornare in carcere". 

Da quanto tempo non rimetteva piede in Riviera?

"Da parecchio, ho perso il conto. Frequento la Romagna da oltre vent’anni, mi mancava e sono felice di essere tornato".

La sua popolarità, a giudicare dall’accoglienza ricevuta a Rimini, non è stata scalfita dalle vicessitudini giudiziarie.

"No anzi. La cosa bella è che io piaccio un po’ a tutti: dai ragazzi di 15 anni a quelli della mia generazione, fino ai più anziani. E tanti mi hanno manifestato solidarietà". 

Per quello che ha passato?

"Sì, soprattutto per le condanne subite. Io sono stato anche in carcere, ho pagato un prezzo altissimo. Sono un perseguitato, ma la gente sta dalla mia parte e mi vuole bene. Credo di essere uno dei personaggi più popolari oggi in Italia, quasi più di Pippo Baudo. La differenza tra me e lui è che io sono decisamente più bello".

Quanto deve scontare ancora, prima di chiudere i suoi conti con la giustizia?

"Parecchi mesi. Ma fino a quando il giudice mi concederà permessi per lavorare, io continuerò a farlo"

Claudia Osmetti per "Libero quotidiano" il 30 novembre 2021. I banchi ammassati nel salone principale. Gli zaini per terra. I ragazzi che ascoltano, attentissimi. Fanno lezione nella ex casa milanese di Fabrizio Corona, gli studenti del liceo scientifico "Volta" di Milano. In cattedra (per modo di dire, vista l'occasione) si parla di legalità, di beni confiscati a chi ha commesso un qualche reato, di come si possono riutilizzare, quegli immobili, a favore della società. Sono circa una ventina i liceali che, venerdì mattina, hanno oltrepassato il portone del lussuoso appartamento - otto vani, due milioni di euro solo il valore di mercato - in via de Cristoforis che fu dell'ex re dei paparazzi. La casa, formalmente, non era nemmeno intestata a Corona, ma a un suo prestanome: ma è stata sequestrata nel 2016 e confiscata nel 2018 dalla sezione Misure di prevenzione del tribunale. E' stata acquistata, dicono i giudici motivando l'azione nei suoi confronti, con soldi "di provenienza illecita". Di mezzo ci sono un fallimento e alcuni reati di natura tributaria. Quando iniziarono i guai giudiziari e i processi a suo carico, Corona viveva ancora lì. E ha continuato a starci (va detto, pagando l'affitto allo Stato) per diverso tempo. Ora sconta una detenzione domiciliare (è uscito dal carcere ad aprile dopo aver trascorso una decina di giorni nel reparto di psichiatria di un ospedale monzese) in un altro appartamento, ha davanti ancora tre anni per saldare definitivamente il suo debito con la giustizia: ma intanto la sua casa, quella storica, quella in zona corso Como, quella nella Milano del divertimento e della movida che è diventata un po' l'emblema stesso di Corona, finisce destinata alla didattica per le scuole superiori, in carico all'Agenzia nazionale per i beni confiscati, fino alla settimana scorsa, quando una classe del Volta "si impossessa" dei suoi spazi grazie a un accordo con l'ufficio Scolastico regionale e il benestare del ministero della Cultura. Durante la lezione si tratta un tema ("il codice antimafia e vari modi in cui Stato ed enti locali destinano i beni sequestrati e confiscati") che non è banale per niente. Corsi e ricorsi storici. C'è solo uno scatto, di quella lezione sul parquet dell'ex casa Corona. Un'insegnante che mostra alcune slide proiettate sul muro. Chissà cosa potrebbero raccontare, quei muri, se ne fossero capaci. Invece ai ragazzi interessa studiare, capire. «Vedere i giovani che parlano e si confrontano sul sistema di legalità sociale è un ben segnale per tutti noi, ci farà bene» taglia corto Fabio Roia, che fa il presidente della sezione Prevenzione del tribunale meneghino e che quelle norme, codici e cavilli li conosce a menadito. L'arredamento sfarzoso di Corona non c'è più, è rimasta solo la carta da parati. Ma non è quella che cattura lo sguardo. Sono i ragazzi che alzano la mano, fanno domande e approfondiscono. Chiamatela legge del contrappasso, se volete.

Dagospia il 29 novembre 2021. Dal profilo Instagram di Fabrizio Corona. Apprendo da tutte le principali testate giornalistiche che la mia casa ora ospita gli studenti del liceo. Grandi titoli sulla conversione, anzi, la redenzione: dal male al bene. Cari giornalisti visto che a voi è delegata l’informazione, ditela tutta. Quella mia casa amatissima è entrata dentro un procedimento che ho ampiamente confutato in sede giudiziaria, anche questo andrebbe detto, come andrebbe detto che quando ho fatto di tasca mia i progetti per i detenuti tra cui VOCE LIBERA (una testata giornalistica per detenuti presso il carcere di Busto Arsizio) nessun “giornalone” si è preoccupato di metterlo in evidenza. Io capisco che lo spot statale vi serva per prendere i fondi dallo Stato, però sconfinare nel non detto vi rende indegni. Cari liceali, non so esattamente cosa vi insegnino a casa mia, sarebbe bello venire in quella aula che era la mia casa per farvi una lezione di comunicazione. Ps sono invitati anche i giornalisti.

Alessandra Coppola e Giuseppe Guastella per corriere.it il 29 novembre 2021. Si parla di legalità, di beni confiscati a chi ha accumulato soldi con attività criminali e di come infine questi beni vengano riutilizzati a fini sociali. Gli studenti del liceo Volta seguono la lezione con tutta l’attenzione che merita un tema così complesso ma che l’aula in cui si svolge rende ancora più intensa: era il salone principale della fastosa casa milanese di Fabrizio Corona, l’ex re dei paparazzi che sta scontando in detenzione domiciliare per curarsi i poco meno di tre anni che gli restano per pagare il suo debito con la giustizia dopo anni di processi. È la legge del contrappasso, quello che i giuristi chiamano effetto «retributivo» della pena. L’appartamento di otto vani in via de Cristoforis, dal valore di circa due milioni, formalmente intestato a un prestanome ma riconducibile a Corona, fu sequestrato nel 2016 e confiscato nel 2018 dalla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano perché acquistato con soldi di «provenienza illecita» legati a un fallimento e a reati tributari. Dopo essere stato usato ancora per un certo periodo dallo stesso Corona — che ha sempre diligentemente pagato l’affitto allo Stato e ha traslocato alla data prevista — è stato definitivamente preso in carico dall’Agenzia nazionale per i beni confiscati per essere destinato alla didattica per le scuole superiori. 

A scuola da Fabrizio Corona

Venerdì scorso una ventina di studenti del liceo scientifico Volta hanno preso posto nei banchi allineati nel salone che per anni ha fatto da testimone agli ozi e agli stravizi di Corona e della sua corte dei miracoli, spesso più interessata ai benefit che ai problemi del padrone di casa. L’appartamento, del resto, ha avuto un’ampia fama legata al personaggio. Con lui la giustizia è stata di mano pesante, certo anche per colpa sua. Ma c’è del vero quando il suo avvocato Ivano Chiesa dice che, «a differenza di tanti altri imputati condannati per reati e fallimenti molto più gravi che non hanno mai pagato un euro, Fabrizio ha versato nelle casse dello Stato milioni tra tasse, sanzioni, risarcimenti e condanne». Il primo progetto a vedere la luce nell’ex casa di Corona è organizzato dall’Agenzia, in accordo con l’Ufficio scolastico regionale e, nel caso specifico del liceo Volta, con il ministero della Cultura. Tema: il codice antimafia e i vari modi in cui Stato ed enti locali destinano i beni sequestrati e confiscati. 

I beni confiscati

«I beni sottratti a tutte le forme di criminalità, da quella mafiosa a quella economica, devono ritornare nel circuito della legalità sociale per dimostrare come alla fine la legalità sia sempre una risorsa morale e materiale. Troppo spesso si accusa il sistema della prevenzione di non arrivare a questo obiettivo», afferma Fabio Roia, presidente della Sezione prevenzione, aggiungendo che «vedere giovani che parlano e studiano sistema di legalità sociale è un bel segnale per tutti noi, ci farà bene». Se non fosse per la carta da parati a larghe righe verticali bianche e nere, il nuovo arredamento essenziale non sembra avere più nulla di eccentrico che possa ricordare in qualche modo il vecchio proprietario.

Assolto Fabrizio Corona: aveva offeso Selvaggia Lucarelli in tv. Il tribunale di Milano ha assolto l'ex fotografo dei vip dall'accusa di diffamazione «perché il fatto non costituisce reato». Il Dubbio il 17 novembre 2021. Il Tribunale di Milano ha assolto Fabrizio Corona dall’accusa di calunnia e diffamazione nei confronti di Selvaggia Lucarelli «perché il fatto non costituisce reato».  L’ex agente fotografico era stato rinviato a giudizio per delle frasi offensive pronunciate durante la puntata del 17 giugno del 2018 di “Non è l’Arena”, trasmissione tv di La7 condotta da Massimo Giletti: «Penso – aveva detto Corona parlando della giornalista – che abbia accanimento e frustrazione contro di me e anche un po’ di gelosia perché non ci sono mai stato. Perché sono anni e anni che vuole il mio corpo e io non glielo do». Alle affermazioni rese in tv, Corona aveva fatto seguire poi due post pubblicati sul suo profilo Instagram: «È ossessionata da me», aveva scritto. Abbastanza perché Lucarelli decidesse di querelarlo. La procura ha chiesto l’assoluzione ritenendo le frasi pronunciate da Corona nelle tre diverse occasioni una «reazione, una risposta a una critica». Ma una lettura opposta è stata fornita dal legale della giornalista e opinionista tv, Gian Filippo Schiaffino, che qualificato le parole come «un’offesa di natura sessista». Il difensore Ivano Chiesa, che si è associato alla richiesta di assoluzione, ritiene che c’è un limite alla critica «ed è il rispetto della dignità degli altri se lo superi, se fai l’odiatrice, preparati che un giorno qualcuno ti dice basta». Corona, fiducioso nell’assoluzione, non ha assistito alla lettura della sentenza lasciando il tribunale quando il giudice era ancora in camera di consiglio.  «Questo processo non deve servire solo a me ma a tante altre persone che fanno del male al prossimo e non possono intasare le aule dei tribunali con queste vicende» mentre «in queste aule si dibattono processi importanti», ha detto Corona in aula, facendo dichiarazioni spontanee davanti ai giudici. «Non si può giocare con la vita delle persone», ha aggiunto l’ex fotografo. «La provocazione da parte della Lucarelli c’è stata anche prima della puntata di “Non è l’Arena” a cui ho partecipato, con delle affermazioni di Lucarelli di marzo 2018. Io sono andato in trasmissione il 7 giugno del 2018. La settimana prima della mia partecipazione era andata la signora Lucarelli, parlando con alle spalle una mia foto gigantesca, e ha detto che ero un c…»., ha spiegato in aula Corona.

Corona denunciato per evasione. Francesca Galici l'8 Ottobre 2021 su Il Giornale. Durante il tragitto (autorizzato) da Milano a Roma, Fabrizio Corona ha fatto una deviazione per la Liguria, dove è stato fermato in un locale. Potrebbero esserci nuovi problemi all'orizzonte per Fabrizio Corona. L'ex re dei paparazzi ha partecipato all'ultima puntata di Non è l'arena, che da questa stagione presidia il mercoledì sera di La7. Corona ha regolarmente ottenuto l'autorizzazione per recarsi da Milano a Roma, dove si registra il programma condotto da Massimo Giletti, ma prima di raggiungere la Capitale ha effettuato una deviazione verso Genova. Qui è stato riconosciuto dagli uomini della guardia di finanza. Fabrizio Corona pare si trovasse lì insieme ad alcuni amici e nel momento in cui le forze dell'ordine gli si sono avvicinate per chiedere i documenti li ha mostrati senza esitazione. Seguendo la procedura, la guardia di finanza ha posto Corona in stato di fermo giudiziario. Il pubblico ministero di turno, Arianna Ciavattini, pare abbia richiesto l'arresto in carcere per l'ex re dei paparazzi. Tuttavia, il pm ha ricevuto il parere contrario del giudice e Fabrizio Corona è stato denunciato a piede libero per evasione. Dopo essere stato ospite di Massimo Giletti, e aver litigato col giornalista Luca Telese, Fabrizio Corona ha fatto ritorno nella sua abitazione nel centro di Milano ma quanto accaduto a Genova potrebbe avere delle ripercussioni per lui. Infatti, i giudici del tribunale di Sorveglianza di Milano potrebbero nuovamente applicare la misura cautelare in carcere per Fabrizio Corona. L'ex marito di Nina Moric a Massimo Giletti ha raccontato i suoi ultimi 7 mesi di vita, dal giorno in cui, proprio il tribunale di Sorveglianza di Milano, decise di sospendergli i domiciliari. A causa di una reazione molto forte e autolesionista, Corona fu prima trasportato nel reparto di Psichiatria dell'ospedale Niguarda di Milano e poi fu tradotto nel carcere di Monza. Iniziò uno sciopero della fame e della sete come protesta per quella decisione e proseguì nel compiere atti autolesionisti. Il provvedimento di sospensione dei domiciliari venne poi revocato e dopo circa un mese Fabrizio Corona tornò a casa. Lo scorso 29 settembre, la corte di Cassazione ha annullato il provvedimento sospensivo del tribunale di Milano, in parte con rinvio (per un aspetto relativo a un difetto di motivazione) e in parte senza. "Fabrizio Corona non voleva scappare. È stato un errore: ha interpretato male il permesso che gli era stato concesso", ha detto l'avvocato Ivano Chiesa a Fanpage. Il legale ha poi proseguito: "Fabrizio è uscito tre ore prima da casa. Stava andando a fare delle visite prima di andare a Roma e partecipare al programma tv di Massimo Giletti. Ha chiesto scusa, è stato un errore. Ha sbagliato, ma non c'era l'intenzione di scappare".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Fabrizio Corona evaso "per errore". Prego? Parla l'avvocato: per l'ex re dei paparazzi si mette sempre peggio. Libero Quotidiano l'08 ottobre 2021. Fabrizio Corona è stato fermato e denunciato dalla guardia di Finanza. L'ex re dei paparazzi era a Genova senza avere il permesso, evadendo dunque gli arresti domiciliari. Una "svista" che potrebbe costargli il ritorno in carcere, ma che il suo avvocato definisce un semplice equivoco. "Fabrizio Corona non voleva scappare - è la replica di Ivano Chiesa a Fanpage -. È stato un errore: ha interpretato male il permesso che gli era stato concesso". Corona infatti aveva ricevuto il permesso per andare a Roma e partecipare al programma Non è l'Arena. Da lì però l'ex re dei paparazzi si è recato nel capoluogo ligure: "Fabrizio è uscito tre ore prima da casa. Stava andando a fare delle visite prima di andare a Roma e partecipare al programma tv di Massimo Giletti". Un'uscita per cui - a detta dell'avvocato - i carabinieri erano stati informati. "Ha chiesto scusa, è stato un errore. Ha sbagliato, ma non c'era l'intenzione di scappare", ribadisce Chiesa. Eppure ora Corona rischia che il tribunale di Sorveglianza chieda per lui nuovamente il carcere. Già quelli appena trascorsi non sono stati mesi semplici per l'imprenditore. A Non è l'Arena Corona ha ammesso che la notizia dell'arresto è stato un dramma: "Cinque infermieri vedono un tale Corona seduto sul cesso che si mangia il suo braccio". Proprio a fine settembre la Corte di Cassazione ha annullato il provvedimento che aveva revocato la concessione dei domiciliari: i giudici avevano infatti deciso che Corona non sarebbe tornato in carcere. Adesso però tutto è da vedere. 

Corona smonta la sinistra: "Lucano viene difeso da tutto l'establishment". Luca Sablone il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Corona se la prende con la giustizia italiana: "Abbiamo qualche problema". E denuncia: "Io trattato come un criminale, ma ora Letta difende un condannato a 13 anni".  Un ritorno dopo anni di assenza dalla scena della televisione. Fabrizio Corona si riprende l'attenzione delle telecamere per denunciare senza mezzi termini i malfunzionamenti della giustizia italiana e la disparità di trattamenti che ha subito nel corso della sua storia giudiziaria. A invitarlo in studio è stato Massimo Giletti, conduttore di Non è l'arena su La7, che al centro della puntata ha posto due punti essenziali: la giustizia e la legalità. L'invito a Corona è arrivato in seguito alla decisione della Corte di Cassazione che ha annullato il provvedimento che gli aveva revocato gli arresti domiciliari lo scorso marzo, in seguito al quale era stato tradotto nuovamente in carcere.

La denuncia di Corona

L'ex fotografo dei vip è partito da un presupposto chiaro, emerso soprattutto grazie al libro "Il Sistema" di Alessandro Sallusti: "Sicuramente abbiamo qualche problema con la giustizia italiana". Un'affermazione che reputa certa perché si definisce una persona che ha vissuto nelle carceri, nei processi, nelle sentenze. E ha sollevato una questione di fondo: come mai Mimmo Lucano, condannato in primo grado a 13 anni e due mesi di carcere, ha subito un trattamento mediatico soft? Corona infatti ha puntato il dito contro la sinistra, che si è affrettata a mostrare solidarietà verso l'ex sindaco di Riace: "Quando io ho preso 14 anni di galera tutti dicevano che ero un criminale. Invece ora Lucano è stato difeso da tutto l'establishment". E ha tirato in ballo pure Enrico Letta, segretario del Partito democratico: "Dice che è un'ingiustizia. Gente che è dentro il governo e si permette di criticare la magistratura...".

"Ve la farò pagare"

Dopo il verdetto della Corte di Cassazione l'ex fotografo dei vip si era detto "incazzato nero" per tutto ciò che è stato costretto a subire negli ultimi mesi prima di essere scarcerato. Corona aveva ribadito di aver condotto da solo la sua battaglia: "Sono 15 anni che non sono libero e che mi perseguitano. Ma io sono ancora qua più forte e più potente di prima". E poi aveva usato toni davvero forti: "Passerò i prossimi anni per avere giustizia contro di voi e farvela pagare. Anche se mi costerà caro". Lo scorso 22 marzo Corona era stato trasferito nel carcere di Monza. In precedenza era stato ricoverato per circa 10 giorni nel reparto di Psichiatria dell'ospedale Niguarda di Milano dopo essersi tagliato i polsi e aver spaccato il vetro di un'ambulanza con un pugno. A mandarlo su tutte le furie era stata la decisione del sostituto pg di Milano, Antonio Lamanna, che per lui aveva chiesto la revoca del differimento di pena e dunque la detenzione domiciliare in favore del ritorno in carcere.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan c

"Sei malato", "Ti odio". Scoppia la rissa tra Telese e Corona. Luca Sablone il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Telese va all'attacco: "È una persona malata". Corona sbotta: "Odio i giornalisti politicamente corretti". La reazione di Giletti: "Così devi uscire..." Scoppia la bagarre totale in diretta a Non è l'arena, programma condotto da Massimo Giletti in onda su La7. A scontrarsi verbalmente in maniera molto animata sono stati Luca Telese e Fabrizio Corona. L'ex fotografo dei vip, dopo anni di assenza dalla scena televisiva, è tornato davanti le telecamere per raccontare il suo percorso giudiziario e lamentare ciò che non funziona nella giustizia italiana. Il dibattito però si è fatto via via animato, tanto che il giornalista di Tpi e Corona hanno avuto uno scambio di battute infuocato.

Lo scontro tra Telese e Corona

Nella puntata erano andate in ondate le immagini dell'11 marzo scorso, quando il famoso paparazzo si era tagliato i polsi e aveva spaccato il vetro di un'ambulanza. Scene choc in seguito alla decisione del sostituto pg di Milano, Antonio Lamanna, che per lui aveva chiesto la revoca del differimento di pena e dunque la detenzione domiciliare in favore del ritorno in carcere. Su Instagram si era mostrato con il volto insanguinato. Poi era andato in escandescenza con la polizia incaricata di scortarlo all'ospedale Niguarda. In quell'occasione si era rivolto con fare minaccioso nei confronti degli agenti, soprattutto per sapere chi avesse preso il suo cellulare. Alla luce di tutto ciò Telese ha espresso la sua opinione, ritenendo di essere di fronte a immagini che raccontano "una malattia". Insomma, un fermo nei confronti di "una persona malata". Perché, è il suo ragionamento, altrimenti "non si sarebbe comportato così". "Ma non è vero", è stata l'immediata reazione di Corona. Che ha risposto per le rime al giornalista, alzando la voce fino ad arrivare a rivolgersi duramente a Telese. Senza mezzi termini o giri di parole, così come ha sempre dimostrato: "Io odio questi giornalisti italiani che oggi sono politicamente corretti". E a quel punto ha tirato una forte stoccata verso The post internazionale, giornale online diretto da Giulio Gambino: "Telese può giusto scrivere per Tpi. Quello è il giornale suo, che è il giornale che non dà una notizia da anni, è il nulla del giornale".

L'intervento di Giletti

Gli animi si sono fatti progressivamente caldi tanto da costringere a intervenire Massimo Giletti, che in maniera seccata si è così rivolto allo stesso Corona: "Questa è l'ennesima dimostrazione che non puoi stare qua, perché se fai così non fai del bene a te stesso". E l'ha invitato dunque a rispettare pacificamente chi porta avanti tesi diverse dalle sue. Ma l'ex fotografo dei vip ha continuato ad alzare il tono dello scontro e così il Giletti gli ha dato l'ultimatum: "Fabrizio ti prego, sennò ti devo chiedere di uscire. Stando così, in questo modo, non fai bene a te stesso. Se uno ti invita, devi dimostrare di poter portare avanti certi discorsi in modo normale".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Non è l'arena, Fabrizio Corona blasfemo: "Perché non credo in Dio". Giletti senza parole. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2021. "Non credo in Dio perché mi sento Dio". Fabrizio Corona non teme di apparire blasfemo: in studio a Non è l'arena, ospite di Massimo Giletti, l'ex re dei paparazzi racconta il suo calvario giudiziario e umano senza alcuna censura. Dopo aver ripercorso le ore drammatiche in un ospedale psichiatrico, con episodi di cannibalismo e autolesionismo raccapriccianti, Corona ascolta la lettera che in quei giorni gli aveva scritto Adriano Celentano. "Sono rimasto profondamente colpito nel vedere il dolore e la disperazione di una madre che aggrappata alla tua giacca piangeva e ti supplicava di stare calmo - sottolineava il Molleggiato -. Tu hai fatto tante str***e nell vita, la più grossa e direi la più pericolosa è quella di aver indotto i giudici a darti una punizione spropositata. Caro Fabrizio, solo tu puoi aggiustare il sentiero, della tua vita e di tutte le migliaia di persone che ti seguono su Internet. Io ho un'idea: l'inesistente". L'appello alla Fede di Celentano ha colpito Corona: "Lui è una persona piena di valori, aveva ragione su tutto già quando chiede la grazia per me nel 2015". "L'idea di Celentano era di avvicinarti a Dio", sottolinea Giletti. "Nella sua idea io avrei dovuto staccare da questo mondo, ripulirmi e affidarmi a Gesù - riconosce Corona -. Ma io non credo in Dio perché mi sento Dio". "Questo è uno dei problemi - conferma Giletti con amarezza -. Il peccato originale di Corona è il personaggio Corona".  

Francesco Fredella per iltempo.it il 7 ottobre 2021. “Questa è l'ennesima dimostrazione che non puoi stare qua, perché se fai così non fai del bene a te stesso": Giletti riprende così Fabrizio Corona nel corso di Non è l’arena. E’ la prima apparizione in tv dell’ex re dei paparazzi. “Fabrizio ti prego, sennò ti devo chiedere di uscire. Stando così, in questo modo, non fai bene a te stesso. Se uno ti invita, devi dimostrare di poter portare avanti certi discorsi in modo normale", continua il conduttore. Ma facciamo un passo indietro. Va in scena lo scontro con Luca Telese, che dice: "Fabrizio è una persona malata". Corona diventa furioso dopo l'intervento di Telese e risponde senza freni. “Non è in sé, lui stesso lo ha ammesso - sottolinea Telese -, questo è il fermo di una persona malata". Corona sbotta ancora: "Ma non è vero dai...". E Telese: “Allora devi chiedere scusa, insulti e ingiuri i magistrati di sorveglianza...". Corona esplode: "Io odio questi giornalisti italiani di oggi, politicamente corretti. Puoi giusto scrivere per Tpi, il giornale dei figli dei ricchi che non dà una notizia da anni, è il nulla del giornale". Poi interviene il direttore di Libero Sallusti: “Io conosco Corona è una persona lucidissima. Ma la telecamera...". Solo qualche giorno fa la Cassazione ha detto stop ai domiciliari per Fabrizio Corona. Annullato il

Da iltempo.it il 7 ottobre 2021. “In Italia abbiamo un problema con la giustizia". Fabrizio Corona si scaglia contro il sistema giudiziario italiano che lo ha prima mandato in carcere e poi, con la recente sentenza della Cassazione, ha annullato il provvedimento con il quale, lo scorso marzo, il Tribunale di Sorveglianza di Milano aveva disposto la sua carcerazione. "Basta guardare il caso Palamara e tutto il resto. La mia situazione è peggiore rispetto a qualsiasi altra storia italiana. Su di me hanno scritto persino il falso in atti di giustizia". Nel corso della trasmissione "Non è l'Arena" condotta da Massimo Giletti su La7, si è parlato anche del caso Mimmo Lucano: una vicenda giudiziaria lunga quattro anni che ha portato l’ex sindaco ad una condanna di 13 anni e due mesi di reclusione per presunte irregolarità nella gestione dei migranti " A me hanno dato 15 anni ed ero considerato un criminale - esplode Corona - Lucano ha preso 13 anni ed è stato difeso da tutto l'establishment. Lucano, invece, paladino dei migranti su cui lucrava, si è sempre sentito il Padreterno".

Da leggo.it il 7 ottobre 2021. "Cinque infermieri vedono un tale Corona seduto sul cesso che si mangia il suo braccio". Fabrizio CoronA, ospite in studio di Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, racconta la drammatica vicenda che lo ha visto protagonista qualche mese fa, ricoverato in un ospedale psichiatrico dopo l'arresto e la resistenza agli agenti che erano andati a prelevarlo a casa. L'ex re dei paparazzi legge il suo memoriale, mentre Giletti e gli altri ospiti della serata ascoltano in silenzio, storditi e attoniti dai toni crudi del racconto. "Chiedo di poter poter fumare in bagno, mi danno l'accendino. Sono controllato da tre uomini della scorta. Mi siedo sul water a torso nudo, con i pantaloni tirati su. Vedo sul mio braccio destro la ferita del giorno prima: due punti di sutura che mi sono fatto pugnalandomi con una penna bic. La guardo, fumo, e scatta qualcosa nel mio cervello". "Trovo dei legnetti e provo a scavare nella ferita, ma sono leggeri e si rompono. Sono da solo in un cesso schifoso circondato dalle urla di povera gente disgraziata. Mi avvicino con la bocca alla ferita, spingendo sempre di più afferro i punti con i denti, li tiro,si rompono, schizza il sangue ovunque. Sulla bocca, sugli occhi, sul petto. Sento uno strano sapore, mi piace". "Sono convinto che dentro la ferita ci siano pezzi di vetro dell'ambulanza rotta, è notte e come un cannibale mordo tutto - prosegue Corona - pelle, fili, punti, carne. Sono incontenibile e senza freni. Si apre la porta e cinque infermieri vedono Corona tutto sporco di sangue. C'è chi urla, chi piange, chi mi abbraccia. Io guardo il vuoto: sono uno psicopatico in un ospedale psichiatrico".

Non è l'Arena, Fabrizio Corona "si mangia il braccio". Giletti sconvolto, gelo in studio. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2021. "Cinque infermieri vedono un tale Corona seduto sul cesso che si mangia il suo braccio". Fabrizio Corona, ospite in studio di Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, racconta la drammatica vicenda che lo ha visto protagonista qualche mese fa, ricoverato in un ospedale psichiatrico dopo l'arresto e la resistenza agli agenti che erano andati a prelevarlo a casa.  L'ex re dei paparazzi legge il suo memoriale, mentre Giletti e gli altri ospiti della serata ascoltano in silenzio, storditi e attoniti dai toni crudi del racconto. "Chiedo di poter poter fumare in bagno, mi danno l'accendino. Sono controllato da tre uomini della scorta. Mi siedo sul water a torso nudo, con i pantaloni tirati su. Vedo sul mio braccio destro la ferita del giorno prima: due punti di sutura che mi sono fatto pugnalandomi con una penna bic. La guardo, fumo, e scatta qualcosa nel mio cervello". "Trovo dei legnetti e provo a scavare nella ferita, ma sono leggeri e si rompono. Sono da solo in un cesso schifoso circondato dalle urla di povera gente disgraziata. Mi avvicino con la bocca alla ferita, spingendo sempre di più afferro i punti con i denti, li tiro,si rompono, schizza il sangue ovunque. Sulla bocca, sugli occhi, sul petto. Sento uno strano sapore, mi piace". "Sono convinto che dentro la ferita ci siano pezzi di vetro dell'ambulanza rotta, è notte e come un cannibale mordo tutto - prosegue Corona - pelle, fili, punti, carne. Sono incontenibile e senza freni. Si apre la porta e cinque infermieri vedono Corona tutto sporco di sangue. C'è chi urla, chi piange, chi mi abbraccia. Io guardo il vuoto: sono uno psicopatico in un ospedale psichiatrico".  

Da corriere.it il 29 settembre 2021. La Cassazione ha annullato, in parte con rinvio (per un aspetto relativo a un difetto di motivazione) e in parte senza, il provvedimento con cui il Tribunale di Sorveglianza di Milano, lo scorso marzo, aveva revocato per Fabrizio Corona — a causa di una serie di violazioni delle prescrizioni — il differimento pena a lui concesso nel dicembre 2019 per una patologia psichiatrica, facendolo tornare in carcere. L’ex fotografo dei vip, difeso dall’avvocato Ivano Chiesa, si trova attualmente ai domiciliari. «Chi aveva ragione? E adesso chi chiede scusa a Fabrizio per oltre 20 giorni dentro? Valuteremo tutti i passi da fare», ha commentato l’avvocato Chiesa: «La Cassazione ha annullato un provvedimento contra legem. Voglio vedere una persona finire in carcere per un provvedimento che poi viene annullato». Il fine pena, al netto di eventuali premi, è fissato al 20 settembre 2024. 

Il carcere di Monza e il ricovero a Niguarda

Il 22 marzo scorso Corona era stato trasferito nel carcere di Monza, dopo essere stato ricoverato per una decina di giorni nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano: si era ferito quando aveva saputo la decisione dei giudici e aveva spaccato con un pugno il vetro dell’ambulanza. Inizialmente era stato deciso di portare Corona nel carcere milanese di Opera, poi era stato scelto il penitenziario di Monza, che ha anche un’apposita sezione con osservazione psichiatrica per i detenuti. 

Le violazioni contestate

Corona, a cui era stato revocato il differimento pena per una serie di violazioni delle prescrizioni, aveva portato avanti uno sciopero della fame in ospedale e si era ferito più volte per protestare contro la decisione dei giudici. 

Gli arresti domiciliari

Il 15 aprile scorso i giudici del Tribunale di sorveglianza di Milano avevano accolto la richiesta di sospensiva dell’ordinanza con la quale era stata revocata la detenzione domiciliare concessa per motivi di salute all’ex re dei paparazzi. Ai giudici si erano rivolti gli avvocati Ivano Chiesa e Antonella Calcaterra, difensori di Corona, sollevando questioni sullo stato di salute mentale dell’ex fotografo dei vip e sostenendo la necessità che potesse proseguire il percorso di cure fuori dal carcere.

"Perseguitato". La Cassazione annulla il carcere per Corona. Francesca Galici il 29 Settembre 2021 su Il Giornale.  Fabrizio Corona sfoga la sua rabbia sui social dopo la pronuncia della Cassazione e ora si prepara alla contromossa: "Non avrò pietà". Fabrizio Corona ha vinto una battaglia. La corte di Cassazione ha annullato il provvedimento che gli aveva revocato gli arresti domiciliari lo scorso marzo, a seguito del quale l'ex re dei paparazzi è stato tradotto nuovamente in carcere. Per il tribunale di Sorveglianza di Milano, Fabrizio Corona si era reso colpevole di una serie di violazioni delle prescrizioni alle quali si deve attenere da quando, nel dicembre 2019, gli è stato concesso il differimento pena per una patologia psichiatrica. A cavallo tra marzo e aprile 2021, Fabrizio Corona ha trascorso 12 giorni nel reparto psichiatrico dell'ospedale Niguarda di Milano e altri 20 giorni in una cella del carcere di Monza dopo essersi tagliato le vene in segno di protesta. "Chi aveva ragione? E adesso chi chiede scusa a Fabrizio per oltre 20 giorni dentro? Valuteremo tutti i passi da fare", ha dichiarato l'avvocato Ivano Chiesa, storico legale difensore di Fabrizio Corona, dopo la pronuncia della corte di Cassazione. "La Cassazione ha annullato un provvedimento contra legem. Voglio vedere una persona finire in carcere per un provvedimento che poi viene annullato", ha proseguito l'avvocato Ivano Chiesa. Fabrizio Corona, che utilizza con alta intensità i social network per comunicare col mondo esterno, si è detto molto arrabbiato per quanto accaduto la scorsa primavera, e ancora più arrabbiato perché con la sentenza di Cassazione ha avuto la conferma che quel provvedimento nei suoi confronti non fosse giusto. "Sono quindici anni che non sono libero e che mi perseguitano. Ma io sono ancora qua, più forte e potente di prima", ha scritto l'ex re dei paparazzi nelle sue storie, in quello che ha le sembianze di una valvola di sfogo per buttare fuori mesi di rabbia repressa da parte dell'ex re dei paparazzi. "Io non ho paura di voi", ha proseguito Corona, che poi ha continuato: "Un provvedimento illegittimo, che mi ha buttato in galera, senza tenere conto di relazioni mediche che dicevano che non ci dovevo andare, è stato prima sospeso e adesso annullato dalla Cassazione. Chi mi ripaga del danno che mi hanno fatto?". Quindi Fabrizio Corona ha rincarato la dose: "Anziché chiedermi scusa, mi processano perché ho rotto il vetro di un'ambulanza e perché ho offeso e forse aggredito un pubblico ufficiale che mi aveva rubato il telefono? Non avrò pietà". Al momento, il fine pena per Fabrizio Corona è fissato al 20 settembre 2024.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Irruzione della polizia in casa di Fabrizio Corona, lo sfogo: “Basta, è una persecuzione”. Ilaria Minucci il 21/06/2021 su Notizie.it. La polizia ha fatto irruzione in casa di Fabrizio Corona: l’episodio ha scatenato l’ira dell’ex paparazzo che ha postato due video e uno sfogo sui social. L’ex paparazzo Fabrizio Corona si è reso protagonista di un nuovo scontro con la giustizia nel momento in cui alcuni poliziotti hanno fatto irruzione all’interno della sua abitazione per eseguire dei controlli. Nel corso delle ultime ore, Fabrizio Corona ha diffuso tramite i suoi canali social due video, rapidamente diventati virali sul web. Il filmato postato dall’ex re dei paparazzi mostra la sua rabbia nel momento in cui un gruppo di agenti di polizia irrompe nel suo appartamento situato a Milano che sono giunti sul posto dopo aver ricevuto una segnalazione per schiamazzi: la segnalazione, infatti, indicava come luogo da verificare proprio la casa del fotografo. L’arrivo dei militari è stato estremamente criticato dal padrone di casa che ha inveito contro l’ennesima ingiustizia subita. In uno dei due video postati sul suo account Instagram, Fabrizio Corona intima ai poliziotti che si sono introdotti nella sua abitazione – alla quale hanno avuto libero accesso avendo trovato la porta d’ingresso aperta – di andare via e tornare nel suo appartamento soltanto quando saranno in possesso di un mandato di perquisizione. In alternativa, l’ex re dei paparazzi – da tempo coinvolto in svariate vicende giudiziarie e alle prese con molteplici problemi con la giustizia – invita gli agenti a uscire di casa e bussare alla porta, attendendo che sia lui ad invitarli a entrare e consentire loro di verificare la situazione presente nell’alloggio. La spiacevole vicenda, documentata con due video postati su Instagram, è stata corredata anche da un lungo sfogo apparso sul social, attraverso il quale Fabrizio Corona denuncia l’ennesima angheria subita e si appella anche al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, invocando una profonda e radicale riforma della Giustizia.

A questo proposito, infatti, l’ex paparazzo ha dichiarato: Dieci giorni fa sono stato denunciato per aggressione a pubblico ufficiale soltanto perché davanti a 30 testimoni e i miei legali ho cercato di riappropriarmi del mio telefono che mi era stato sottratto indebitamente. In un momento così drammatico per il nostro paese dove da chiunque, il popolo, la corte europea, gli avvocati, i detenuti, alcuni magistrati stessi, si richiede una urgentissima Riforma della Giustizia, alcuni esponenti delle istituzioni decidono, in maniera arbitraria, senza motivo, di delegittimare quel barlume di legalità che rimaneva in Italia. Caso Palamara, caso Storari, caso Davigo, caso Spadaro, Brusca libero dopo 25 anni, Formigoni con le tasche piene e tutti i giorni in televisione (io sono l’unico cittadino europeo a cui è vietata la libertà di espressione), i condannati di Eternit che non andranno mai in galera dopo aver ucciso migliaia e migliaia di persone, la Trattativa Stato Mafia, le sentenze che condannano lo Stato e Organi Istituzionali importantissimi, le verità nascoste di Gladio, Ustica, le aggressioni Politiche della magistratura. Mi fermo qui, potrei andare avanti ore ed ore. Io con tutti i problemi personali che ho, psichici e familiari, rinchiuso in casa da due anni senza l’ora d’aria, nonostante cerchi di impedire che qualsiasi cosa di illegale possa venire attorno a me, e mi ritrovo 9 poliziotti in casa armati, che si mettono i guantini neri pronti ad un intervento importante perché pericoloso per la Sicurezza Pubblica che necessitava la presenza di 9 poliziotti, un plotone, pagato da noi contribuenti. Sono stanco, non ce la faccio più, ve lo chiedo per favore, lo chiedo al Presidente della Repubblica, lasciatemi vivere in pace la mia vita legale con i miei immensi problemi. Ultima osservazione, il capo di questa delegazione di poliziotti che mi sono ritrovato in casa improvvisamente, uscendo ha pronunciato queste parole, che ho video ripreso, ma che non pubblico: ‘Ora ci divertiamo e ti facciamo chiudere di nuovo’. Venite pure a prendermi e richiudetemi di nuovo, sto giro mi taglio la gola, l’indirizzo lo conoscete è sempre lo stesso e lo conoscete anche bene, a quanto pare”.

Da fanpage.it il 7 giugno 2021. L'accoppiata che non ti aspetti (o forse sì?): Stefania Nobile, la figlia di Wanna Marchi, è diventata la nuova manager di Fabrizio Corona, incaricata di rappresentarlo per campagne promozionali e attività varie che riguardano il controverso ex re dei paparazzi, al momento ai domiciliari.

L'annuncio di Stefania Nobile. La Nobile, infatti, si è data all'attività di agente, con l'idea di rappresentare artisti, personaggi e talenti. Sul suo profilo Instagram, dove fa sapere che è disposta a rappresentare chiunque senta di avere una capacità particolare, ha dato l'annuncio: "Da oggi sono l'agente di Fabrizio Corona. Grande Fabri, faremo un mare di cose insieme. Sei il numero 1, non ho mai avuto dubbi. Per tutte le campagne su Instagram, per tutto quello riguarda il suo personaggio, scrivetemi". La Nobile rappresenta anche Davide Lacerenza, altro personaggio molto discusso nonché suo compagno di vita e socio da diversi anni, imprenditore di un noto locale milanese che ha scontato quattro anni di pena (uno in carcere e tre ai domiciliari) per associazione a delinquere e truffa.

Stefania Nobile e Fabrizio Corona, entrambi sono stati in carcere. Insomma, la Nobile ha qualcosa in comune con i suoi più noti clienti. Anche lei, infatti, ha conosciuto il carcere. Per anni collaboratrice della madre nelle televendite televisive, è stata arrestata insieme a lei nel 2001 per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e all'estorsione, proprio in riferimento alle televendite. Nel 2009 la Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna a 9 anni e 4 mesi di Stefania Nobile, che con la madre è stata condannata anche per bancarotta fraudolenta. Ha trascorso però gran parte del periodo ai domiciliari, per motivi di salute (soffre di artrite reumatoide) ed è tornata libera nel 2013. Corona, da parte sua, era stato reincarcerato nel marzo 2021 ma in seguito ad atti di autolesionismo e sciopero della fame il tribunale ne ha disposto il ritorno ai domiciliari, dove finirà di scontare la sua pena. 

Fabrizio Corona scrive ai giudici: «Non sono un criminale, non rispeditemi in carcere». Il pg di Milano ha chiesto la revoca dei domiciliari per l'ex fotografo dei vip, che avrebbe violato il regime di custodia. Ma per la difesa «rimandarlo in carcere sarebbe un sacrilegio». Il Dubbio martedì 9 marzo 2021. «Utilizza gli spazi libertà che gli sono concessi in modo strumentale», e, di fatto, fa tutto tranne che curarsi. Queste le motivazioni con cui il pg di Milano, Antonio La Manna, ieri ha chiesto la revoca dei domiciliari per Fabrizio Corona, il fotografo dei vip che ha ancora da scontare un cumulo di pene che terminerà il 17 settembre 2024. Il riferimento è alle contestazioni di violazione del regime a cui è sottoposto, dal momento che Corona ha continuato a usare i social e ha partecipato ad alcune trasmissioni televisive; compromettente per l’accusa soprattutto la sua comparsata in un programma di Barbara D’Urso con relativa querelle con la ex moglie Nina Moric sull’affidamento del figlio. Appresa la notizia, Corona non ha rilasciato nessuna dichiarazione alla stampa, rispettando le restrizioni imposte, ma ai giudici milanesi della Sorveglianza consegna una lettera di due pagine scritta a mano con cui chiede scusa e di non tornare in carcere. Missiva mostrata su Instagram dallo stesso ex fotografo dei vip: «Sono vecchio, i reati li ho commessi 15 anni fa e durante la notte ho i flashback come i reduci del Vietnam», scrive. «Sono vecchio – ribadisce – non sono e non sarò più quello di prima. Non sono un criminale». Ivano Chiesa, difensore insieme alla collega Antonella Calcaterra di Corona, si è opposto alla richiesta del pg La Manna spiegando che «le presunte violazioni, che per noi non ci sono, non sono tali da giustificare una revoca» dei domiciliari, dato che «prevale l’esigenza delle cure come dicono le relazioni presentate dagli esperti». Nell’udienza a porte chiuse di ieri, durata circa due ore, il difensore ha sottolineato come «Non si può buttare all’aria un percorso importante di cura che sta dando ottimi risultati, guai ad interromperlo dicono gli stessi esperti che lo hanno in cura». «Rimandarlo in carcere sarebbe un sacrilegio», ha detto ancora il legale. «Siamo preoccupati, e anche Fabrizio lo è, soprattutto per suo figlio, qualora dovesse tornare in carcere», ha spiegato il legale. «Le ragioni di salute che impongono che Fabrizio resti a casa non sono inferiori alla tutela della collettività. E le violazioni contestate non sono tali da giustificare una revoca dei domiciliari», ha spiegato l’avvocato, esprimendo anche un’obiezione di merito alle questioni sollevate dal pg:«Per Fabrizio Corona comparire in televisione o pubblicizzare qualcosa sui social è un lavoro. È la sua vita. E non c’ès critto da nessuna parte che non possa farlo. Sarebbe come impedire ad un avvocato di scrivere un atto. In ogni caso quando gli è stato espressamente inibito si è attenuto».

Da "corriere.it" l'11 marzo 2021. Ritorna in carcere Fabrizio Corona. Il Tribunale di sorveglianza ha revocato il differimento della pena ai domiciliari per motivi di salute legato alla dipendenza da cocaina. Corona dovrà rientrare in carcere per scontare il resto della pena che gli è stata inflitta per vari reati in diversi procedimenti penali. Il suo legale Ivano Chiesa ha detto che l’ex agente fotografico, «appena gliel’ho comunicato, si è ferito ai polsi». Corona ha pubblicato su Instagram un video con il volto sporco di sangue in cui attacca i magistrati. E scrive: «Adesso vi faccio vedere come si combatte. Ingiustizia. Pronto a dare la mia vita in questo Paese ingiusto».

L'accusa: "Fa tutto tranne che curarsi". Fabrizio Corona e la lettera per non tornare in carcere: “Ho i flashback come i reduci del Vietnam”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2021. “Sono vecchio, i reati li ho commessi 15 anni fa e durante la notte ho i flashback come i reduci del Vietnam”. Utilizza paragoni forti e, probabilmente, fuori luogo Fabrizio Corona, 46 anni, nella lettera (scritta a mano e pubblicata prima sui social) letta ai giudici del Tribunale di Sorveglianza per le “gravi violazioni” commesse. L’ex re dei paparazzi rischia di dover tornare in carcere per scontare i 9 mesi di affidamento in prova ai servizi sociali che gli erano stati concessi nel 2019 e poi revocati perché aveva violato troppe volte le prescrizioni. “Sono vecchio – aggiunge – non sono e non sarò più quello di prima. Non sono un criminale”. La preoccupazione, come spiega il legale Ivano Chiesa, che assiste Corona con l’avvocato Antonella Calcaterra, va soprattutto al figlio Carlos avuto con Nina Moric e da anni al centro di una battaglia, combattuta non solo in Tribunale ma anche a suon di messaggi sui social e ospitate tv. E proprio una denuncia della showgirl, a seguito della partecipazione di Corona ad un programma televisivo, insieme ad altri esposti e a comportamenti ritenuti dal sostituto procuratore generale Antonio Lamanna eccessivi, hanno messo di nuovo Corona nei guai. Per il rappresentante dell’accusa, l’ex agente fotografico di fatto utilizza gli spazi di libertà che gli vengono concessi, ma fa di tutto tranne che curarsi. Il rispetto delle prescrizioni per il sostituto Pg è la prima forma per dimostrare l’adesione ad un programma terapeutico. Rispetto che finora, però, è mancato. In aula Lamanna ha citato una sentenza della Corte Costituzionale ricordando che chi si trova agli arresti domiciliari per ragioni di salute, anche per seguire una terapia psicologica come Corona, non sta affrontando “un ritorno a casa ne un ritorno alla libertà piena. Permangono invece importanti limitazioni alla libertà personale e non viene meno l’esigenza dell’effettività dell’espiazione della condanna”. Di avviso opposto l’avvocato Chiesa, che ha tenuto a sottolineare i molti progressi fatti da Corona nel programma terapeutico che sta seguendo, testimoniate dalle relazioni di psicologi ed esperti che lo stanno seguendo. Quanto alle apparizioni pubbliche, Chiesa ha chiarito che “non c’è scritto da nessuna parte che una persona in detenzione domiciliare non possa andare in tv e non possa usare i social e, quando il magistrato di Sorveglianza glielo ha inibito, lui non lo ha fatto più, non c’è più andato, ma quella è la sua vita”. “Rimandarlo in carcere – conclude il legale – sarebbe un sacrilegio”. I giudici decideranno nei prossimi giorni come Corona dovrà scontare il resto della sua pena, il cui termine è previsto per settembre 2024. Corona ha postato su Instagram un video del messaggio, lungo due pagine e scritto a mano, che ha intenzione di leggere in aula. Alcune parti sono evidenziate in giallo. “Durante la notte – scrive ancora l’ex agente fotografico in un passaggio – ho i flashback come i reduci del Vietnam”.

Il caso dell'ex agente fotografico. Fabrizio Corona torna in carcere, sui social il volto pieno di sangue e la minaccia ai magistrati: “Avete creato un mostro”. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha revocato gli arresti domiciliari per Fabrizio Corona che dovrà quindi tornare in carcere. I giudici hanno infatti revocato il differimento pena in detenzione domiciliare nei confronti dell’ex agente fotografico, che deve scontare parte del cumulo pene di 10 anni, 10 mesi e 24 giorni con fine termine nel 2024. Lunedì sia il sostituto pg Antonio Lamanna che il magistrato di sorveglianza, Marina Anna Luisa Corti, avevano chiesto il rientro in carcere per Corona ravvisando una serie di serie di violazioni alle prescrizioni incompatibili con il differimento pena. “Sono allibito, questa è una pagina tristissima della Giustizia italiana“, ha detto a LaPresse l’avvocato Ivano Chiesa, difensore di Fabrizio Corona, commentando la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano che ha deciso di revocare gli arresti domiciliari all’ex agente fotografico. “In altre occasioni Fabrizio aveva sbagliato e sono stato io il primo a dirglielo. Questa volta, davvero, non c’è ragione per farlo tornare in carcere“, ha aggiunto. Da Corona non si è fatta attendere la reazione. In una ‘story’ su Instagram, mostrandosi insanguinato e rivolgendosi alla giudice Marina Corti e al procuratore Antonio Lamanna, ha detto che “questo è solo l’inizio”. “Quanto è vero Dio sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie. Vergogna. Chiedo che venga il presidente del tribunale di sorveglianza e guardi gli atti, altrimenti davvero mi tolgo la vita”, è la minaccia dell’ex agente fotografico. “Avete creato un mostro, ora sono cazzi vostri e questo è solo l’inizio“, ha aggiunto ancora Corona mentre sullo sfondo si vede il pavimento sporco di sangue. L’ex “re dei paparazzi”, come venivano definito Corona, è uscito e rientrato in carcere a ripetizione negli ultimi anni: ad ottobre 2016 gli venne revocato il primo affidamento terapeutico ottenuto 12 mesi prima; nel febbraio 2018 ebbe un affidamento provvisorio revocato dopo soli cinque mesi, stessa cosa successa anche con l’affidamento concesso a novembre 2019 e sospeso a marzo 2019. L’ultima uscita dal carcere risale al dicembre 2019 per differimento pena con detenzione domiciliare per curarsi. Non sono gravi le ferite riportate da Fabrizio Corona ad un braccio questa mattina, dopo aver saputo che sarebbe dovuto rientrare in carcere. L’ex agente fotografico è stato medicato all’ospedale di Niguarda. I tagli, da quanto si apprende da fonti mediche, erano relativamente superficiali. Corona ha dato in escandescenze contro i poliziotti che si sono recati a casa sua per portarlo in carcere e anche sull’ambulanza che lo portava al pronto soccorso, da quanto si è saputo, ha avuto una reazione scomposta e ha rotto un vetro del veicolo.

Fabrizio Corona, dopo il tentato suicidio botte, bestemmie e insulti agli agenti che lo portano in carcere: il video-choc. Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. Fuori controllo. Violento. Suicida. Sconvolgente. Si parla di Fabrizio Corona, che costretto all'ennesimo ritorno in carcere ha completamente dato fuori di testa. Poco prima di essere prelevato dalla polizia nel suo appartamento milanese, l'ex re dei paparazzi si è lanciato in una sconvolgente diretta Instagram. Al grido di "avete creato un mostro e adesso sono ca*** vostri", ha tentato il suicidio. O almeno così sembra: pieno zeppo di sangue, avrebbe provato a tagliarsi le vene. "Mi ammazzo", gridava inquadrando in primo piano il volto sporco di sangue. Immagini sconvolgenti, uno choc. Ma il peggio doveva ancora arrivare. La polizia, infatti, poi ha suonato al suo appartamento per prelevarlo, appartamento sotto al quale stazionava anche un'ambulanza, chiamata per soccorrerlo. E nel momento in cui la polizia è andato a prenderlo, Corona ha iniziato a gridare contro gli agenti in modo terrificante: urla, insulti, minacce, bestemmie. Immagini sconvolgenti. Fino a che l'ex re dei paparazzi è stato steso a terra, fermato. Corona accusava i poliziotti di avergli rubato il telefono. Immagini disturbanti che potete vedere nel video qui sotto. Immagini che con tutta probabilità costeranno a corona altre condanne, altro tempo in carcere. Il punto è che Corona è stato colpito dalla revoca degli arresti domiciliari, decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano. "Sono allibito, questa è una pagina tristissima della Giustizia italiana", aveva commentato il suo avvocato, Chiesa. Che aveva aggiunto: ""In altre occasioni Fabrizio aveva sbagliato e sono stato io il primo a dirglielo. Questa volta, davvero, non c'è ragione per farlo tornare in carcere". Ma come detto, alla luce di quanto accaduto oggi, nelle ultime ore, c'è da scommettere che per Corona le porte del carcere resteranno chiuse a lungo. A lunghissimo.

Fabrizio Corona tenta il suicidio in diretta Instagram: "Ca*** vostri, mi ammazzo". Video-choc, ricoverato in ospedale. Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. Fabrizio Corona si è tagliato i polsi ed è stato trasportato in ospedale. "Questo è solo l'inizio, quanto è vero Dio sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie. Vergogna. Chiedo che venga il presidente del tribunale di sorveglianza e guardi gli atti, altrimenti davvero mi tolgo la vita", dice Corona in una storia su Instagram in cui appare tutto insanguinato rivolgendosi alla giudice Marina Corti e al procuratore Antonio Lamanna. "Avete creato un mostro, ora sono ca*** vostri e questo è solo l'inizio", aggiunge. In sottofondo, intanto, mentre si vede il pavimento sporco di sangue, si sente qualcuno che chiede l'arrivo di un'ambulanza.

Spiega  l'avvocato Ivano Chiesa, che difende l'ex agente fotografico con l'avvocato Alessandra Calcaterra: "Quando Fabrizio Corona ha saputo che sarebbe dovuto tornare in carcere, si è tagliato i polsi e lo stanno portando in ospedale". Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, infatti, ha revocato gli arresti domiciliari per Corona che dovrà quindi tornare in carcere. "Sono allibito, questa è una pagina tristissima della Giustizia italiana", commenta Chiesa: "In altre occasioni Fabrizio aveva sbagliato e sono stato io il primo a dirglielo. Questa volta, davvero, non c'è ragione per farlo tornare in carcere". Corona, infatti, doveva scontare 9 mesi di affidamento in prova ai servizi sociali che gli erano stati concessi nel 2019 e poi revocati perché aveva violato troppe volte le prescrizioni. Un percorso travagliato quello dell'ex agente fotografico, che qualche giorno fa aveva chiesto scusa ai giudici del Tribunale di Sorveglianza con una lettera di due pagine. "Sono vecchio", aveva scritto, "non sono e non sarò più quello di prima. Non sono un criminale". Per una denuncia della ex moglie e showgirl Nina Moric, a seguito della partecipazione di Corona ad un programma televisivo, insieme ad altri esposti e a comportamenti ritenuti dal sostituto procuratore Antonio Lamanna eccessivi, Fabrizio si è rimesso nei guai. Secondo il rappresentante dell'accusa, l'ex agente fotografico di fatto utilizza gli spazi di libertà che gli vengono concessi, ma fa di tutto tranne che curarsi. Il rispetto delle prescrizioni, poi, per il sostituto Pg è la prima forma per dimostrare l'adesione ad un programma terapeutico. Rispetto che finora, però, è mancato. In aula, il sostituto Pg Lamanna ha citato una sentenza della Corte Costituzionale ricordando che chi si trova agli arresti domiciliari per ragioni di salute". Di avviso opposto l'avvocato Chiesa, che ha tenuto a sottolineare i molti progressi fatti da Corona nel programma terapeutico che sta seguendo, testimoniate dalle relazioni di psicologi ed esperti che lo stanno seguendo. Quanto alle apparizioni pubbliche, Chiesa ha chiarito che "non c'è scritto da nessuna parte che una persona in detenzione domiciliare non possa andare in tv e non possa usare i social e, quando il magistrato di Sorveglianza glielo ha inibito, lui non lo ha fatto più, non c'è più andato, ma quella è la sua vita". "Rimandarlo in carcere - conclude il legale - sarebbe un sacrilegio". I giudici però hanno deciso di mandarlo dietro le sbarre. 

Dagospia il 12 marzo 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Quello che ho detto è la verità. Ero presente e ho visto. Sono intervenuti il 118 e dieci dico dieci agenti di polizia. Ora Fabrizio è in ospedale e li rimarrà in osservazione medica e psichiatrica. Non è il caso di ironizzare su una vicenda umana e giudiziaria così grave. Il suo arresto è profondamente sbagliato e ingiusto e ignora il parere di tutti gli esperti incaricati dallo stesso Tribunale. Milano lì, 12.03.2021 Avv. Ivano Chiesa

Fabrizio Corona, l'avvocato Ivano Chiesa: "Io c'ero, quanti erano i poliziotti". Testimonianza inquietante, cosa è successo davvero? Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. "Quello che ho detto è la verità". Quando Fabrizio Corona si è tagliato i polsi ed è arrivata l'ambulanza, scrive Ivano Chiesa, il suo avvocato, a Dagospia, "ero presente e ho visto. Sono intervenuti il 118 e dieci, dico dieci, agenti di polizia. Ora Fabrizio è in ospedale e li rimarrà in osservazione medica e psichiatrica", aggiunge Chiesa. Quindi, conclude il legale, "non è il caso di ironizzare su una vicenda umana e giudiziaria così grave". L'arresto di Fabrizio Corona "è profondamente sbagliato e ingiusto e ignora il parere di tutti gli esperti incaricati dallo stesso Tribunale". L'ex paparazzo in questo momento è piantonato dagli agenti di polizia del carcere di Opera nel reparto di Psichiatria dell'ospedale Niguarda di Milano dove è stato ricoverato dopo essersi tagliato i polsi in seguito alla decisione del tribunale di Sorveglianza di revocare gli arresti domiciliari. Corona resterà in Psichiatria per qualche giorno prima di ritornare dietro le sbarre. L’avvocato Chiesa ha fatto sapere che sta bene, ma si è detto allibito per un provvedimento ritenuto "profondamente ingiusto e sbagliato che colpisce un uomo non pericoloso e che stava seguendo un percorso di cura". Corona, infatti, deve tornare in carcere. La decisione è stata notificata in tarda mattinata di ieri 11 marzo dal tribunale di Sorveglianza di Milano, che ha revocato il differimento pena in detenzione domiciliare per l'ex agente fotografico, a cui nel dicembre del 2019 era stato concesso di lasciare il carcere per potersi curare dalla tossicodipendenza e da una situazione di disagio psichico e depressione. La reazione di Corona alla notizia è stata violentissima. Prima, come ha detto il suo storico difensore, l'avvocato Ivano Chiesa, "si è tagliato i polsi", poi ha pubblicato un video su Instagram dove, con il volto coperto di sangue, gridava tutta la sua rabbia contro i magistrati che lo volevano rimandare all'"inferno". Infine ha reagito con violenza contro i poliziotti, cercando di divincolarsi e gridando frasi come "che cosa fate qui, andate via". Nella foga, ha anche tirato un pugno contro un vetro dell'ambulanza che lo aspettava per portarlo all'ospedale di Niguarda, mandandolo in frantumi. 

FABRIZIO CORONA TORNA IN CARCERE, E SUI SOCIAL ATTACCA ANCORA UNA VOLTA I MAGISTRATI. Il Corriere del Giorno l'11 Marzo 2021. Un portavoce di Facebook, società proprietaria del socialnetwork Instagram. ha fatto sapere che hanno rimosso post e storie di Corona: “Non permettiamo immagini o video di autolesionismo ed eliminiamo questi contenuti ogni volta che ne veniamo a conoscenza”. Si riaprono le porte del carcere per Fabrizio Corona che dovrà scontare il resto della pena che gli è stata inflitta per vari reati in diversi procedimenti penali. Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha revocato il differimento della pena ai domiciliari per motivi di salute legato alla dipendenza da cocaina. “Quello che mi hanno fatto i magistrati è la più grande ingiustizia dal punto di vista giuridico in Europa. Sono pronto a togliermi la vita”, dice Corona al Corriere. Il suo difensore, l’avvocato Ivano Chiesa ha riferito che l’ex agente fotografico “si è ferito ai polsi appena gliel’ho comunicato. E ora sono qui con lui e abbiamo chiamato l’ambulanza”. Sul posto è intervenuta subito una squadra di agenti della Questura di Milano, oltre ai sanitari del 118. Corona non contento ha dato di matto frantumando un vetro dell’ambulanza che lo aspettava per portarlo all’ospedale Niguarda, per i tagli che si è procurato alle braccia dopo aver saputo che doveva tornare in carcere. L’ex agente fotografico si è messo a gridare: “che cosa fate qui, andate via”, ha cercato di sfilarsi alle braccia dei poliziotti che lo stavano immobilizzando, puntando i piedi contro le portiere posteriore dell’ambulanza per poi colpire il vetro a calci. Corona ha pubblicato un video su Instagram (che successivamente lo ha rimosso e bloccato l’account) in cui con il suo volto sporco di sangue attaccava i magistrati Marina Corti presidente del collegio della Sorveglianza e il sostituto pg Antonio Lamanna dicendo loro: “Dottoressa Corti, signor Lamanna, questo è solo l’inizio, sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie. Adesso vi faccio vedere come si combatte. Ingiustizia. Pronto a dare la mia vita in questo Paese ingiusto“.” aggiungendo : “Chiedo, sennò davvero mi taglio la vita, che venga il presidente del tribunale di sorveglianza, che guardi gli atti. “Avete creato un mostro, ora sono ca…i vostri e questo è solo l’inizio”...Un portavoce di Facebook, società proprietaria del socialnetwork Instagram. ha fatto sapere che hanno rimosso post e storie di Corona: “Non permettiamo immagini o video di autolesionismo ed eliminiamo questi contenuti ogni volta che ne veniamo a conoscenza”. Ad influire negativamente sulla posizione di Corona sono state le sue attività lavorative non autorizzate, come le apparizioni in televisione, ed ancora più grave la presenza nella sua abitazione a Milano mentre era ai domiciliari, di più persone (tra cui alcuni pregiudicati). Corona, inoltre, avrebbe lasciato la sua casa più volte senza il permesso dei magistrati, che gli era stato concesso in alcune occasioni. E’ questo la sintesi del contenuto della decisione con la quale il Tribunale di sorveglianza presieduto da Marina Corti gli ha revocato dopo l’ultima udienza dell’ 8 marzo scorso la detenzione domiciliare. Nell’udienza di lunedì pomeriggio il sostituto pg di Milano Antonio Lamanna ha chiesto ai giudici della Sorveglianza di revocare il differimento pena per motivi terapeutici concesso a Fabrizio Corona, ora in detenzione domiciliare, nel dicembre 2019 e quindi che ritorni in carcere.  Adesso Corona dovrebbe essere ristretto nel carcere di Opera. Il fine pena, al netto di eventuali premi, è fissato al 20 settembre 2024 ma bisognerà capire se vanno sottratti i nove mesi che per la difesa sono già stati scontati (la decisione verrà nuovamente discussa davanti alla Cassazione il prossimo 18 marzo) e altri abbuoni. Secondo i calcoli dei difensori la pena potrebbe arrivare a fine 2023. Uno dei passaggi del provvedimento di una ventina di pagine con il quale i giudici della Sorveglianza di Milano hanno revocato, a partire da oggi, il differimento pena in detenzione domiciliare per l’ex ‘re dei paparazzi’, rimandandolo in carcere. C’è la necessità di interrompere una dilagante e sempre più frequente commissione di infrazioni da parte di Fabrizio Corona, che trovano fondamento soltanto nella sua volontà di ritenersi arbitrariamente una persona non sottoposta ai vincoli e ai limiti della legge. E’ questo secondo i giudici della Sorveglianza, il percorso di cura e terapie, che tra l’altro ha portato a buoni risultati dal punto di vista psicologico e psichico, potrà proseguire anche all’interno del carcere, mentre restando fuori ente fotografico ha continuato a violare le prescrizioni e forse anche a commettere reati, date anche le quattro denunce (una pure per truffa e un’altra per minacce alla ex moglie Nina Moric) accumulate negli ultimi mesi. Per il collegio giudicante della Sorveglianza (presidente Corti), il percorso di cura e terapie, che tra l’altro ha portato a buoni risultati dal punto di vista psicologico e psichico, potrà proseguire anche all’interno del carcere, mentre fuori l’ex agente fotografico ha continuato a violare le prescrizioni e forse anche a commettere reati, date anche le quattro denunce (una pure per truffa e un’altra per minacce alla ex moglie Nina Moric) accumulate negli ultimi mesi. Corona adesso è stato è ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano, piantonato dalla polizia e da agenti di polizia penitenziaria del carcere di Opera dove sarà trasferito quando potrà lasciare l’ospedale. Rimarrà ricoverato sedato probabilmente per qualche giorno. 

Non è l'arena, il delirio di Selvaggia Lucarelli dopo il tentato suicidio di Fabrizio Corona: "Così Massimo Giletti ha fatto il suo male". Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. “Il carcere fa schifo e non gioisco”. Così Selvaggia Lucarelli si è espressa in un tweet sul caso di Fabrizio Corona che, dopo aver saputo di dover tornare in carcere, si è ferito ai polsi e ha pubblicato un video su Instagram nel quale si è mostrato con il voto sporco di sangue e ha attaccato i magistrati. “Però dico due cose - ha aggiunto la giornalista di Tpi - la prima è che chi l’ha invitato in tv o addirittura gli ha dato un ruolo di peso nel suo programma come Giletti ha fatto il suo male. La seconda è il tribunale di sorveglianza, sempre troppo molle con lui”.  Il riferimento della Lucarelli, ovviamente, è alle diverse ospitate di Corona a Non è l'Arena, il programma della domenica sera in onda su La7. Chissà cosa penserà Massimo Giletti quando scoprirà di essere stato tirato in ballo dalla Lucarelli su questa vicenda sicuramente spiacevole. Lo scorso novembre, infatti, Corona è stato ospite di Non è l’Arena in diverse occasioni, sempre per parlare del caso di Alberto Genovese, che si trova in carcere con le accuse di violenza sessuale e sequestro di persona. La Lucarelli ha picchiato duro contro Giletti e pure contro il tribunale di sorveglianza, che a suo dire sarebbe stato troppo permissivo con l’ex re dei paparazzi. Il quale però deve tornare in carcere, come deciso proprio dal tribunale di sorveglianza di Milano, che ha revocato il differimento pena in detenzione domiciliare. “Appena gliel’ho comunicato, si è ferito ai polsi”, ha raccontato il suo avvocato. Immediatamente sono arrivati i soccorritori del 118 nell’abitazione di Corona, insieme agli agenti della Questura. 

Da leggo.it il 6 maggio 2021. Mercoledì, presso il tribunale di Milano, si è svolta l’udienza del processo che vede Fabrizio Corona imputato in una causa per diffamazione ai danni di Selvaggia Lucarelli. Nello specifico la Lucarelli, nel 2018 lo aveva denunciato per alcuni post su Instagram e per frasi pronunciate da Corona a “Non è l’arena” di Massimo Giletti tra cui: «Sono anni che vuole il mio corpo e io non glielo do». Entrambi, ieri, sono stati ascoltati dal giudice della settima penale Daniela Clemente. La situazione è apparsa subito tesa, con Fabrizio Corona richiamato per essere arrivato in ritardo e perché si rifiutava di indossare la mascherina, con l’ex agente fotografico che rispondeva al giudice tanto da venire minacciato di essere estromesso dall’udienza. Mascherina che poi non ha comunque indossato correttamente per tutta l’udienza. La Lucarelli, parte civile col legale Lorenzo Puglisi, ha affermato di non aver mai avuto alcun rapporto confidenziale con Fabrizio Corona, di averlo visto forse quattro volte e che la frase in questione, pronunciata in diverse occasioni da Corona è sessista e orientata a delegittimare la sua professionalità. Fabrizio Corona, ascoltato subito dopo, ha rincarato la dose e pur non portando a supporto alcuna prova della presunta “attrazione sessuale” della Lucarelli ha dichiarato, a sorpresa, che la Lucarelli avrebbe commesso una violenza (sessuale) nei suoi confronti baciandolo senza il suo consenso durante una puntata di un vecchio programma andato in onda nel 2010 su Sky (Celebrity Now). Anche l’avvocato di Corona Ivano Chiesa l’ha incalzata: «Lui era consenziente?” Corona ha poi aggiunto che erano altri tempi, in cui di violenza si parlava di meno e che se accadesse oggi sarebbe diverso. La Lucarelli, dopo alcuni momenti di incredulità, ha risposto che era una gag decisa con gli autori e che gli aveva chiesto il permesso di dargli un bacio a stampo durante l’intervista. Selvaggia Lucarelli, commentando l'accaduto dice da Leggo: «L’accusa è ovviamente ridicola e surreale e conferma il tentativo di Corona di screditarmi nella mia sfera sessuale, tema per cui è imputato. Questa volta però, visto che mi ha accusata di violenza, un reato gravissimo, davanti a un giudice e un pm, provvederò a denunciarlo per calunnia. Naturalmente possiedo il video di quell’intervista, da cui si evince che gli chiedo anche il permesso e che lui me lo concede, video che allegherò alla denuncia».

Non è l'Arena, Giletti contro Selvaggia Lucarelli: "Noi abbiamo salvato vite, tu voti a Ballando". La foto del bacio in bocca a Fabrizio Corona. Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. Il bacio in bocca tra Selvaggia Lucarelli e Fabrizio Corona. A Non è l'Arena Massimo Giletti risponde con questa "immagine del passato televisivo" della giornalista del Fatto quotidiano, che ha accusato il conduttore di La7 di aver danneggiato l'ex re dei paparazzi. Corona è finito nuovamente in carcere anche per la sua  condotta televisiva, come opinionista a Non è l'Arena. Ma Giletti precisa: "Non era il  mio programma ma quello della D'Urso, c'è un errore nell'ordinanza. Ciò detto, io ho cercato di dare una mano importante a Fabrizio, con me ha collaborato tantissimo. L'abbiamo mandato nel boschetto di Rogoredo perché solo lui aveva il linguaggio per parlare a quelle persone ed entrare in contatto con loro. Solo lui poteva salvare due ragazzi, trovati per caso quel giorno. Lui li ha presi e portati in comunità da Farneti. Io ci sono andato, Tommaso si è salvato e si è salvata anche Laura. Io e Fabrizio abbiamo salvato due persone quel giorno. Allora vedi Selvaggia, avessi fatto solo questo... Se non avessi dato quella opportunità a Fabrizio quei due ragazzi oggi sarebbero chissà dove. Lei avrebbe continuato a prostituirsi per farsi di droga, lui sarebbe disperato chissà dove. Magari non sarebbero neanche più vivi". "Vedi Selvaggia - è il suo messaggio durissimo - tu esprimi voti a Ballando con le stelle alzando le palette. Tu hai l'intelligenza per dire quello che vuoi, sicuramente, ma avere sempre le sentenze e questa voglia di giudicare gli altri tutti i momenti, dall'alto di che cosa? Beh, penso che avere un po' di umiltà sarebbe importante. Io ho dato una chance importante a Fabrizio".

Novella Toloni per ilgiornale.it il 15 marzo 2021. Scontro a distanza tra Massimo Giletti e Selvaggia Lucarelli a Non è l'Arena. Nell'ultima puntata del programma di La7 il conduttore ha invitato l'avvocato di Fabrizio Corona, Ivano Chiesa, per parlare degli sviluppi del caso dopo la sentenza di revoca dei domiciliari. Ma prima di dare spazio al tema della serata, Giletti si è reso protagonista di un'arringa difensiva contro le accuse mossegli dalla giornalista Selvaggia Lucarelli. L'arresto di Fabrizio Corona ha visto coinvolto in prima persona anche Massimo Giletti che, negli ultimi mesi, aveva accolto più volte nella sua trasmissione l'ex re dei paparazzi. A Non è l'arena Corona era stato ospite per parlare della sua biografia, ma anche per intervenire sul caso Genovese in qualità di manager di due delle vittime dell'imprenditore. Ospitate televisive che avrebbero penalizzato Fabrizio Corona secondo la giornalista de Il Fatto Quotidiano. Subito dopo l'arresto e la plateale protesta social dell'ex re dei paparazzi, infatti, Selvaggia Lucarelli aveva affidato ai social network un messaggio contro Giletti e altri conduttori accusandoli di aver danneggiato Corina invitandolo in tv. Parole - quelle scritte dalla Lucarelli sul suo profilo Instagram - mal digerite da Massimo Giletti che nell'ultima puntata del suo programma si è scagliato contro la giornalista. Nel farlo il conduttore ha scelto di pubblicare la fotografia di un bacio tra la Lucarelli e Fabrizio Corona commentando: "Aveva intervistato Fabrizio e ci fu un bacio sulle labbra. Io non mi permetto mai di esprimere o andare oltre nei commenti, ognuno fa la televisione e dice quello che vuole. Io, a differenza di quello che dice Selvaggia Lucarelli, non credo di aver danneggiato Fabrizio". Giletti è tornato poi sulla vicenda del bosco di Rogoredo, dove Non è l'Arena inviò mesi fa Corona per entrare in contatto con due giovani: "Lo abbiamo mandato lì perché solo lui aveva il linguaggio che ci permetteva di cercare di entrare in contatto con quelle persone. Solo lui poteva salvare due ragazzi trovati per caso in quel boschetto. Li ha presi e li ha portati in comunità. Sono andato a trovarli e si sono salvati". Poi, prima di dare spazio all'avvocato Chiesa, Giletti ha attaccato frontalmente la Lucarelli: "Tu esprimi voti a Ballando alzando le palette e con la tua intelligenza puoi dire tutto quello che vuoi, ma avere sempre le sentenze, sempre questa voglia di giudicare dall'alto di che cosa. Sai un po' di umiltà sarebbe importante".

Non è l'arena, "così sfrutta Fabrizio Corona": indiscrezione clamorosa su Massimo Giletti, tra poche ore...Libero Quotidiano il

14 marzo 2021. Dicesi "gilettismo" un genere televisivo che vive in bilico sull'ossimoro, che parte da altisonanti dichiarazioni d'intenti sul giornalismo d'inchiesta e approda allo sfogatoio nazionalpopolare più gridato, con in mezzo tutto e il suo contrario (tranne il garantismo di fronte agli imputati). Può anche piacere, intendiamoci, del resto c'è a chi piace la birra analcolica. Quello che vorremmo sommessamente dire all'inventore di cotanto genere, Giletti Massimo, è che fuori esiste un mondo, non sempre comprimibile nel recinto del gilettismo. Massimo Giletti e Fabrizio Corona a "Non è l'Arena" Ad esempio, esistono le esistenze spezzate, in balìa di loro stesse, involute nella perenne rappresentazione di un ruolo a cui si sono autocondannate. E non è propriamente commendevole, fare di queste vite incartate il materiale di combustione per alimentare lo spettacolo (?) sempre uguale a se stesso, quello che va in onda stasera su La7 col nome di Non è l'Arena. Se poi la persona resa pretesto per la convocazione odierna dello show è qualcuno che nel passato recente ti ha aiutato a montare lo show medesimo, l'opportunità di contemplare, per una volta, un minimo di tatto mediatico, dovrebbe tramutarsi in obbligo. Invece, la puntatona di oggi è stata annunciata con trailer urlatissimo su «uno dei personaggi più controversi d'Italia»: Fabrizio Corona, che torna in carcere dopo che il tribunale di Sorveglianza di Milano ha revocato la detenzione domiciliare. Ovviamente si promettono «immagini durissime e polemiche», altrimenti non sarebbe arena gilettiana, e figuratevi se qui facciamo le verginelle, però di fronte alla scena di Corona che si cosparge il viso di sangue alla notizia del provvedimento biascicando «questo è solo l'inizio!», o al suo vocale che da un'altra realtà assicura «io sono Dio!», insomma di fronte all'utilizzo smaccato di una individualità che ha perso il controllo di sé per chiamare i telespettaori al clic sul tasto 7 del telecomando, sale qualcosa di molto peggio dell'indignazione, sale un'irresistibile malinconia. Aggravata dal fatto che il (già) Furbizio ha costituito un'importante risorsa per il gilettismo, ad esempio, applicato al caso Genovese. Non solo in quanto autorità indiscussa sulle notti bianche del sottobosco vippettaro milanese, non solo con ospitate in teoria non consentite (che senz' altro sono tra le mattane che hanno irritato una magistratura che non vedeva l'ora di irritarsi), ma anche come consulente professionale di due delle presunte vittime dell'imprenditore, due ragazze che appunto hanno fornito la propria testimonianza ai microfoni di Non è l'arena. Che ora questo dramma umano periferico diventi il fiammifero per appiccare l'incendio-tv di giornata, con tanto di presenza della sofferente mamma Gabriella in studio, non pare edificante, per alludere eufemisticamente. Ma Giletti lo direbbe in altro modo, e allora prendiamo a prestito il suo linguaggio per rivolgergli una preghiera: non banchettiamo, stasera, da avvoltoi sul caso-Corona.

Fabrizio Corona, mamma Gabriella accusa i magistrati: "Abuso di potere, che Dio ci aiuti". Libero Quotidiano il 13 marzo 2021. Il dramma di Fabrizio Corona sconvolge anche mamma Gabriella. A due giorni dall'arresto dell'ex re dei paparazzi, condotto poi nel reparto di psichiatria dell'ospedale Niguarda di Milano dopo aver tentato il suicidio in diretta sui social e aver dato in escandescenze con gli agenti che lo avevano prelevato a casa, la madre scrive sulla pagina Instagram del figlio e parla di un uomo "perseguitato dalla magistratura" e di "abuso di potere". "Per la prima volta dopo tanti anni ti ho visto cambiato... - scrive la signora Gabriella - Certo ancora i gravi problemi legati alla tua patologia sono da debellare del tutto. Ma per i cittadini che in questa Italia cercano una giustizia giusta io dico che mio figlio è un perseguitato da un tipo di magistratura bigotta e priva di qualsiasi segno di sensibilità umana". Il riferimento della vedova di Vittorio Corona, giornalista storico collaboratore di Indro Montanelli scomparso nel 2007, è ai problemi mentali di Fabrizio, che sarebbe affetto da bipolarismo. A sua difesa si sono mosse le sue ex come Belen Rodriguez, l'amica Asia Argento e personaggi pubblici come Nunzia De Girolamo. "A nome di tutte le madri che hanno i figli perseguitati - prosegue la signora Gabriella - io chiedo che questo abuso di potere finisca perché il mio cuore è a pezzi ma... il mio onore di cittadina che credeva nella giustizia è stato trafitto da una lama piena di veleno e cattiveria. Che Dio ci aiuti affinché la giustizia possa vincere sull'arroganza di chi non è in grado di capire".

Non è l'arena, Fabrizio Corona arrestato. La mamma Gabriella in lacrime: "Prendete me, è malato per colpa mia". Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. "Venite a prendere me". Gabriella, la mamma di Fabrizio Corona, sconvolge i telespettatori di Non è l'Arena su La7. In collegamento con Massimo Giletti dopo il nuovo arresto del figlio, la signora ha la voce rotta dal pianto: "Alla luce di tutta questa lunghissima esperienza do ragione a Fabrizio in tutto, in tutto! Ha avuto delle condanne esageratissime, ha scontato tantissimi anni di carcere, è ancora considerato un criminale dalla magistratura pur con questa gravissima patologia", accusa riferendosi al bipolarismo di cui sarebbe affetto Corona. "Non solo, vogliono mandarlo nel carcere di Opera, di massima sicurezza, e non a Bollate, per esempio, un carcere più leggero e più adatto a un malato mentale. Ditemi se questo non è punitivo, se non è un accanimento. Io non l'accetterò mai, piuttosto devono passare sul mio cadavere. Anzi alla dottoressa Corti e al dottor Lamanna dico una cosa: venite a prendere me, perché se Fabrizio è malato forse è anche colpa mia che gli ho trasmesso la malattia". "Non prendete lui, lasciatelo in pace! Ha sofferto come un cane, ha un problema gravissimo nella sua famiglia, è assolutamente indispensabile che si curi e che stia bene per curare anche suo figlio. Avete capito o no? Lasciatelo in pace!", è l'appello disperato di Gabriella. In studio, lo psicologo Paolo Crepet tenta di rassicurarla: "La depressione non è trasmissibile geneticamente, certo può influire nell'ambiente familiare ma non è trasmissibile geneticamente da madre a figlio".

Fabrizio Corona arrestato e ricoverato, Nina Moric infierisce: "Cosa mi hanno fatto lui e sua mamma". Libero Quotidiano il 19 marzo 2021. Nina Moric torna a parlare di Fabrizio Corona, ricoverato in psichiatria all’ospedale Niguarda di Milano, in attesa di essere trasferito in carcere. La modella croata, tramite il suo legale, aveva fatto sapere di non voler commentare la vicenda giudiziaria dell'ex marito, “nel rispetto umano della persona di Fabrizio Corona”. Ma ha rivelato, tramite i social, qualche retroscena particolare proprio sull'ex re dei paparazzi. La Moric, replicando a un follower che l’ha invitata ad aiutare Corona sostenendo erroneamente che in passato il tribunale le tolse il figlio e che Fabrizio le concesse di vederlo, ha risposto che è stata la madre di Fabrizio e lo stesso Corona a toglierle il figlio. Tramite un giudice amico della famiglia Corona. Nel frattempo Corona continua lo sciopero della fame e della sete. Intanto la Cassazione ha deciso che Fabrizio Corona dovrà scontare di nuovo 9 mesi di reclusione che aveva già scontato, in affidamento terapeutico, tra febbraio e novembre 2018. La corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di Corona. Ricorso contro quanto stabilito lo scorso 13 ottobre dal Tribunale di Sorveglianza di Milano in accoglimento della richiesta del pg milanese Antonio Lamanna. L’avvocato Ivano Chiesa, comparendo in un video sui profili social di Corona, ha così commentato l’evolversi della situazione del suo assistito: "Nelle scorse ore, sempre sul profilo Instagram di Corona, è apparso un post che ha ricordato che oggi è la Festa del papà. Il messaggio ha cercato di sensibilizzare sul tema della distanza. Vale a dire di quei padri e di quei figli che per cause di forza maggiore non possono abbracciarsi in questo momento". Chiaro il riferimento al fatto che oggi non potrà vedere Carlos, il figlio che ha avuto da Nina Moric. 

Non è l'arena, Fabrizio Corona scrive a Massimo Giletti: "Sangue ovunque, come un cannibale", autolesionismo in carcere. Libero Quotidiano il 22 marzo 2021. La lettera esclusiva inviata da Fabrizio Corona a Massimo Giletti, letta con emozione dal conduttore di Non è l'Arena a La7. L'ex re dei paparazzi è stato arrestato di nuovo e portato nel reparto psichiatrico dell'ospedale Niguarda di Milano, dopo aver tentato di resistere agli agenti ed essersi resto protagonista di gesti autolesionisti. Si parla di sindrome borderline e problemi psichiatrici ormai difficilmente controllabili, la mamma di Corona e il suo avvocato accusano la giustizia di insensibilità e denunciano l'incompatibilità con un normale regime carcerario. La lettera di Corona sembra confermare la condizione di un uomo ai limiti del collasso fisico e psicologico. "Ho chiesto di poter andare in bagno a fumare, sono controllato a vista da tre agenti della polizia penitenziaria, mi metto a fumare sul water a torso nudo e vedo sul mio braccio la ferita che mi sono fatto sul braccio il giorno prima, due punti di satura pugnalandomi con una penna bic". Giletti legge, la voce tremante. "Mi avvicino con la bocca alla ferita, tiro i punti, si rompono, schizza il sangue ovunque, faccia, bocca, braccia, occhi, petto. Il sapore amaro mi piace, sono convinto che nella ferita ci siano i pezzi di vetro dell'ambulanza rotta e come un cannibale mordo tutto, pelle, fili, carne, tatuaggi, pezzettini di vetro. Sono incontenibile, non ho più freni". A quel punto entrano gli infermieri: "C'è chi urla, chi piange, chi mi abbraccia, io sono impassibile. Sono uno psicopatico in un ospedale pischiatrico. Massimo, io qui non posso uscire. Non mangio da 9 giorni, bevo mezzo bicchiere d'acqua, mi sono rasato di nuovo a zero, nel mio gergo significa l'inizio della guerra. Ho una rabbia irrefrenabile, quando mi sono tagliato il braccio maciullandolo non ho provato dolore. Non mi interessava il rischio della morte, sono pronto a morire per i miei diritti. Massimo lo deve sapere: nulla era premeditato".

Ricoverato in psichiatria continua lo sciopero della sete e della fame. Fabrizio Corona continua a farsi del male: “Pronto a morire per i miei diritti”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Marzo 2021. Dopo il ritorno in carcere Fabrizio Corona non si è dato pace. Dopo essersi provocato delle ferite in segno di protesta contro le decisioni del giudice di revocargli gli arresti domiciliari ha iniziato a mordersi la ferita provocandosi altro sanguinamento. È piantonato e sorvegliato 24 ore su 24 nel reparti di psichiatria dell’Ospedale Niguarda dove continua il suo sciopero della sete e della fame. Ha affidato a una lettera a Massimo Giletti letta durante Non è l’Arena la descrizione del folle gesto. “Sono pronto a morire per i miei diritti”, ha detto.

“Ho chiesto di poter andare in bagno a fumare, mi hanno dato un accendino – scrive Corona nella Missiva – Sono controllato a vista da tre uomini della polizia penitenziaria. Mi siedo sul water e mi metto a fumare a torso nudo, i pantaloni tirati su. Vedo sul mio braccio destro la ferita del giorno prima, due punti di sutura che mi sono fatto pugnalandomi con una penna”. “La guardo, fumo, la riguardo. A quel punto scatta qualcosa nel mio cervello. Provo a scavare nella ferita. Sono da solo in un cesso schifoso, circondato da urla di povera gente disgraziata. Mi avvicino con la bocca alla ferita, a poco a poco spingendo sempre di più riesco ad afferrare i punti del giorno prima con la bocca e con i denti. Li tiro, si rompono”. “Schizza il sangue ovunque, sulla faccia, sulla bocca, sugli occhi, sulle braccia, sul petto. Sento uno strano sapore, mi piace. È amaro. E continuo, sono convinto che nella ferita ci siano i pezzi di vetro dell’ambulanza rotta. È notte e come un cannibale mordo tutto: pelle, fili di punti, carne, tatuaggi, pezzettini di vetro. Sono incontenibile, non ho più freni”. “Di colpo si apre la porta e cinque infermieri vedono un uomo di 47 anni seduto sul cesso, tutto sporco di sangue che si mangia il suo braccio. C’è chi urla, chi piange, chi mi abbraccia, io sono impassibile, guardo solo il vuoto. Sono uno psicopatico in un ospedale psichiatrico”. E infine: “Sono in una stanza singola, vuota. Non c’è tv, non c’è radio. Le finestre sono chiuse e non c’è nessun tipo di vetro. Nulla con cui mi possa ferire. È un reparto con altri 15 pazienti, uno dei migliori del Niguarda. Massimo, io da qui non posso uscire perché sono detenuto. Ho tre persone che mi controllano a vista. C’è però un’enorme finestra da dove entra uno splendido sole. Non mangio da 9 giorni, bevo mezza bottiglia d’acqua e due caffè d’orzo. Lavoro, scrivo, leggo e mi alleno tutti i giorni senza forze, per terra. Determinazione”. L’ex “re dei paparazzi”, come venivano definito Corona, è uscito e rientrato in carcere a ripetizione negli ultimi anni: ad ottobre 2016 gli venne revocato il primo affidamento terapeutico ottenuto 12 mesi prima; nel febbraio 2018 ebbe un affidamento provvisorio revocato dopo soli cinque mesi, stessa cosa successa anche con l’affidamento concesso a novembre 2019 e sospeso a marzo 2019. L’ultima uscita dal carcere risale al dicembre 2019 per differimento pena con detenzione domiciliare per curarsi.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 22 marzo 2021. L'ultima notizia è che Fabrizio Corona dovrà scontare di nuovo nove mesi di reclusione che aveva già scontato, sia pur in affidamento terapeutico, tra febbraio e novembre 2018. Lo ha definitivamente stabilito la Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Corona contro quanto sentenziato lo scorso 13 ottobre dal Tribunale di Sorveglianza di Milano in accoglimento della richiesta del pg milanese Antonio Lamanna, che aveva evidenziato le violazioni commesse da Corona durante la fase di affidamento concessagli per favorire il programma di recupero dalla dipendenza da cocaina. Qui sopra, Gabriella Corona è con il figlio Fabrizio, per il quale la Cassazione ha disposto il rientro in carcere, nonostante il disturbo psichico che aveva spinto i giudici a concedergli gli arresti domiciliari in modo che potesse curarsi e liberarsi dalla dipendenza da cocaina Che dire? Cerchiamo di essere oggettivi: io non ricordo nella storia giudiziaria italiana nulla di paragonabile a quello che sta accadendo da quasi un decennio a Fabrizio Corona. Ma c' è di più. Ogni volta che si parla di Corona il fatto, anche il più drammatico, diventa e si trasforma in un episodio di costume, senza essere quasi mai affrontato semplicemente con l'attenzione giuridica che necessita. Questo approccio non solo è sbagliato, ma fa male e diventerebbe devastante per chiunque dovesse affrontare una propria vicenda giudiziaria: perché? E qui si apre un discorso che riguarda più che altro simpatia, antipatia, etica e morale - e credetemi - quando l' etica entra in una aula giudiziaria, questa trasforma il processo penale e lo abbassa a gossip. Oggi però siamo a una svolta nella vita di quest' uomo che, sicuramente, ha causato più problemi a se stesso che ad altri. Ho cercato Gabriella, la sua mamma, perché quel pianto disperato mentre abbracciava il figlio è un fatto umano che non può lasciare indifferenti. Gabriella Corona è una donna che ha sempre dimostrato equilibrio nel giudizio del figlio; ne è certamente "tifosa" ma non in maniera acritica, sottolineando sempre quante "stupidate" Fabrizio avesse commesso, ma riconoscendo anche quanto impegno stava mettendo nel suo recupero psichiatrico prima di essere arrestato. Io credo a mamma Gabriella. «Fabrizio è a rischio suicidio: il 70 per cento delle persone che soffrono della sindrome di cui soffre lui, alla fine si tolgono la vita». La voce della mamma di Fabrizio ha toni bassi, parla sottovoce, quasi a mostrare pudore in queste parole che sono macigni.

Lei ha paura per Fabrizio?

«Io sono disperata, e non uscirò nemmeno io da questa vicenda: lo sento. Questo è un colpo mortale dato a mio figlio e anche a me. Mi creda che vedere mio figlio insanguinato portato via e ammanettato dalla polizia è qualcosa che non uscirà mai più dalla mia memoria, ma soprattutto dal mio cuore».

Insieme a noi nella telefonata c' è l' avvocato Chiesa - "l'Avvo", come lo chiama Fabrizio -, un vero vice-padre che da sempre gli sta accanto.

«Fabrizio non doveva essere arrestato. È un dato oggettivo. Aveva avuto la conferma dagli psicologi dello Smi e dal Uepe che dopo un anno, pur essendo migliorato, non è guarito, e che si rende auspicabile il proseguimento della misura cautelare domiciliare in corso. Invece improvvisamente tutto questo è saltato».

Signora Gabriella, ma suo figlio era migliorato?

«Se misuriamo da uno a dieci il miglioramento rispetto alla sua patologia, adesso era arrivato a un buon livello: diciamo sette. Ma i medici sanno perfettamente che ogni evento da stress riapre e riporta indietro tutte le fatiche fatte in quest' anno di terapia».

Ci sono state occasioni in cui suo figlio ha dato prova di perdere totalmente il controllo.

«Certamente sì, ma come le ho detto non era guarito, e per questo ho il terrore che non solo possa peggiorare di nuovo, ma anche farsi del male in modo definitivo. Le voglio ricordare che gli errori fanno parte proprio di quel processo di guarigione a cui tutti tendevamo».

Ma quale patologia ha suo figlio, esattamente?

«È una patologia psichiatrica che si chiama disturbo borderline con disturbo bipolare di tipo narcisistico associato ad una sindrome depressiva maggiore. (La diagnosi è nell' ordinanza di revoca, ndr). E questa patologia non è compatibile con la detenzione».

L'altro giorno Nina Moric ha nuovamente attaccato Fabrizio, dichiarando il male che lei e suo figlio avreste fatto. In realtà dapprima attraverso il suo legale aveva fatto sapere che preferiva non commentare l' arresto di Fabrizio ma poi, sui social, replicando a un follower che l' ha invitata ad aiutare Corona, ha dichiarato che fu proprio lei, Gabriella, a toglierle il figlio, aiutata da un giudice amico.

Cosa ne pensa?

«Voglio rimanere su dei dati oggettivi per dare modo a chi legge di farsi una opinione. Premesso che è stato il Tribunale dei minori, anni fa, a togliere alla Moric il figlio affidandolo a me. Credo che una dichiarazione così grave nei confronti di un giudice non possa che avere conseguenze purtroppo gravi per Nina. Sono convinta che il periodo in cui ho avuto Carlos, sia stato per lui relativamente sereno. Per quanto riguarda l' arresto di Fabrizio, ed è scritto nell' ordinanza, Nina Moric faceva denunce direttamente al Tribunale di sorveglianza, cosa inusuale e che aveva come unico scopo quello di rimandare in galera lo stesso Fabrizio. Penso che questi due dati siano importanti per comprendere cosa muove la signora Moric...».

Ma nell' ordinanza sono citate altre denunce?

«Solo da parte di una persona che si era dichiarata amica. ma di cui preferisco non parlare».

Adesso Carlos dove vive?

«In questo momento è all' estero con i genitori della Moric e, mi creda, la cosa mi fa stare serena».

Non sarebbe serena se fosse con la madre?

«È stata una brutta pagina quella in cui la Moric ha reso pubblica sui social la vicenda intima e privata di una famiglia, scatenando le ire di Fabrizio. Preferisco non commentare».

Lei sente Carlos?

«Ogni tanto al telefono, e mi chiede sempre del padre, a cui è legatissimo».

Lei ha incontrato Fabrizio: come l'ha trovato?

«Dimagrito e provato. Per lui Carlos è decisivo, c' è un amore profondo che li lega. Quando l' ho incontrato all' ospedale di Niguarda, assistito da medici di grande livello professionale, ho anche dovuto dirgli dei nove mesi in più della Cassazione, e non è stato facile».

Come ha reagito suo figlio?

«Come un uomo distrutto, che ha già scontato otto anni di carcere e ne dovrebbe fare altri quattro. Dodici anni di galera sono un' enormità, e a volte non vengono dati neanche a chi si macchia di orribili delitti».

Lei alla fine perdona suo figlio?

«Io sono sua madre, so gli errori che ha commesso e, mi creda, tra noi c' è sempre stato un rapporto leale e sincero su questo. Dico solo che non doveva andare in carcere e si doveva continuare con il percorso di recupero che aveva iniziato».

Che ragazzo era Fabrizio?

«Legatissimo al padre e alla famiglia. Come gli altri miei due figli ha sempre respirato un' aria familiare sana fino al momento in cui ha incontrato alcune persone. E lì, mi creda, era giovane e si è rovinato».

Ed il papà di Fabrizio che cosa diceva?

«Mi ricordo ancora Vittorio (Vittorio Corona, ndr) che un giorno mi disse preoccupato che non amava le persone che stava frequentando».

E di chi parlava?

«Preferisco tacere. Per me ora l' unico pensiero è tirare fuori dalla galera mio figlio».

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2021. Da otto giorni Fabrizio Corona è in sciopero della fame dopo che il Tribunale di sorveglianza di Milano gli ha revocato la detenzione domiciliare. Chiede di incontrare il presidente Giovanna Di Rosa. Intanto, la Cassazione ha detto che deve fare in cella anche i nove mesi dell' affidamento in prova che gli era stato revocato nel 2018. Ieri la madre, Gabriella Privitera, lo ha visitato nel reparto di Psichiatria del Niguarda dov' è ricoverato.

Come l' ha trovato?

«Molto dimagrito. Ho cercato di convincerlo a prendere almeno un po' di zucchero, ma non vuole niente ( si commuove ). Non si aspettava la decisione della Cassazione. Si sente vittima di un' ingiustizia e di accanimento: quei mesi li ha scontati».

Lei ha dichiarato che nessuno come lei e il terapeuta conoscete la sofferenza di suo figlio. Che sofferenza è?

«Fabrizio ha una malattia psichiatrica: disturbo borderline con disturbo bipolare di tipo narcisistico associati ad una sindrome depressiva maggiore». ( La diagnosi è nell' ordinanza di revoca ).

Quando lo ha capito?

«Da una quindicina di anni. La malattia è venuta fuori pian piano e negli anni si è aggravata portandolo a commettere eccessi e reati».

Perché suo figlio è ossessionato dal denaro?

«Perché così si dà un valore. È un modo per celare la sua mancanza di autostima».

Sembra così sicuro di sé.

«Le malattie psichiatriche vengono mimetizzate da un comportamento che appare contrario alla sofferenza che c' è interiormente».

Come si comporta con lei?

«È altalenante. Ci sono stati periodi di rifiuto totale, perché è tipico della malattia psichiatrica sfogarsi con i familiari, e altri di grande amore».

È stato condannato a una pena spropositata, ma tecnicamente ineccepibile. Ha scontato più di otto anni e ne deve fare altri quattro. I giudici lo hanno fatto uscire due volte, ma non ha rispettato le regole ed è tornato in carcere. Ha giocato male le sue carte.

«È una considerazione che non ha senso perché Fabrizio è malato. Io non l' ho mai difeso dicendo che non ha sbagliato, ma, si creda o no, questi sbagli sono stati fatti quando usava stupefacenti e perché è malato. In questi anni ha fatto una terapia preziosissima che ha prodotto grandi miglioramenti. Non commette reati da molti anni. Ha solo trasgredito le regole, questa volta molto, molto meno della precedente. Fabrizio lancia sfide e io ho l' impressione che i giudici aspettino che li sfidi per poterlo punire, invece di fare in modo che sia protetto dai suoi comportamenti. L' ordinanza, per come mi è stata spiegata dagli avvocati, nega il lavoro fatto dal magistrato Simone Luerti, che aveva messo Fabrizio in affidamento per motivi pschiatrici, e non tiene in alcun conto le relazioni delle quattro strutture molto serie che lo hanno accompagnato nel suo percorso riabilitativo».

Dove pensa che debba stare suo figlio?

«Fabrizio deve tornare a casa dove con grande sofferenza ha fatto un cammino lungo con me, suo figlio Carlos, i suoi fratelli e le poche persone che gli vogliono veramente bene. Con l' aiuto dei terapeuti, siamo riusciti a farlo stare molto meglio. Deve continuare la terapia. Se lo mettono in carcere, muore».

Teme che si uccida?

«È la cosa che temo di più a causa della malattia. Faccio appello alla dottoressa Di Rosa affinché lo incontri».

Daniela Mastromattei per “Libero Quotidiano” il 20 marzo 2021. Un verdetto amaro, ma non del tutto inaspettato: Fabrizio Corona dovrà "scontare" di nuovo i 9 mesi di reclusione che aveva già "scontato" in affidamento terapeutico tra febbraio e novembre 2018. Così ha stabilito la Cassazione, che ha rigettato il ricorso presentato dall' ex re dei paparazzi contro la decisione dello scorso 13 ottobre del Tribunale di Sorveglianza di Milano. In quell' occasione i giudici avevano accolto la richiesta del pg milanese Antonio Lamanna, che aveva evidenziato le violazioni commesse da Corona durante la fase di affidamento concessagli per favorire il programma di recupero dalla dipendenza da cocaina. Fabrizio Corona nel video in cui si è tagliato e sporcato il viso di sangue «È un accanimento giudiziario che continua», commenta il suo legale Ivano Chiesa. «Avrebbe dovuto essere una notizia riservata perché si tratta di camera di consiglio, non di udienza pubblica, e invece devo apprenderla ancora una volta dalla stampa». L' avvocato Chiesa si è detto «molto preoccupato», perché il suo assistito «da una settimana in ospedale e in una condizione di grande sofferenza psichica, scoprirà dai giornali che deve scontare altri 9 mesi in carcere, invece di saperlo dal suo difensore. Mi sconcerta la totale mancanza di sensibilità umana», sbotta il legale. Sono in tanti a pensarla come lui. Lo stessso Corona lo urla a gran voce (ed è già stato querelato pure dai magistrati), cercando nei gesti eclatanti un' attenzione mediatica che sembra avergli voltato le spalle. Fabrizio sarà pure un ribelle, ma è una persona intelligente e le sue lotte contro i mulini a vento ce lo rendono un po' masochista. È riuscito a farsi revocare gli arresti domiciliari per aver invitato a casa il suo personal trainer in pieno lockdown, per aver concesso interviste in tv e per aver usato i social network: tutte cose che gli erano state vietate. Le regole non le sa rispettare. A niente sono servite le giustificazioni della difesa: «I social vengono gestiti dallo staff e Corona può lavorare». Nulla da fare, per i magistrati deve tornare in prigione. Ha provato a chiedere scusa: «Mi dispiace se ho sbagliato. Non voglio tornare all' inferno». Nessuna pietà. Sono arrivati dieci poliziotti per riportarlo nella casa circondariale di Opera. Per protesta, ma soprattutto perché vedere il cielo da dietro le sbarre è dura, si è tagliato i polsi. Ed è finito all' ospedale Niguarda, nel reparto di psichiatria, dove è sorvegliato 24 ore su 24. Le sue vicende giudiziarie sono fitte di inchieste e processi: condanne per estorsione per le foto che venivano ritirate dai vip a fronte di un pagamento, ma anche assoluzioni come quella dal reato di intestazione fittizia di beni per i soldi trovati nel controsoffitto di casa. Come scrive Celentano in una lunga lettera indirizzata all' ex paparazzo: «...hai fatto tante stronzate nella vita, la più grossa e direi la più pericolosa è quella di aver indotto i CASO GARLASCO giudici a darti una punizione spropositata». E «con la scusa di sommare le tue colossali cazzate, cioè ogni cazzata una punizione, ti hanno dato 14 anni di prigione. E qui, secondo me, sta la grande ingiustizia della giustizia italiana. Si danno 14 anni ad uno come te, che ha fatto sì cose punibili dalla legge, ma non a tal punto da equiparare i tuoi madornali errori di vita a chi uccide una persona. Non si contano i casi di individui che hanno assassinato una o più persone e, solo dopo 5 o 6 anni di buona condotta, escono di prigione». Parole che devono far riflettere, quelle del Molleggiato: «Forse è ora che la politica, anziché intraprendere affari con quei Paesi che fanno sparire le persone tagliandole a pezzi, dica qualcosa sull' arrangiamento-giustizia». E dopo anni di silenzio, arriva pure il perdono di Lapo Elkann. Il nipote di Gianni Agnelli ha fatto sapere di non provare alcun rancore per l' ex paparazzo. «The show must go on, bisogna andare avanti» dichiara Lapo in un' intervista su Novella 2000, riferendosi allo scandalo sul materiale compromettente che Corona aveva raccolto per ricattarlo. «Credo che nella vita si debba girare pagina, dimenticare il male. E lui si è fatto soprattutto del male. Spero non continui a farselo, e che riesca a trarre la forza dai suoi errori e ritrovare il meglio di se stesso».

Da leggo.it il 30 marzo 2021. Fabrizio Corona ha festeggiato i 47 anni in carcere. Li ha compiuti ieri in una cella del carcere di Monza, dove è stato trasferito il 22 marzo dopo un ricovero al reparto di psichiatria dell’ospedale Niguarda per essersi inflitto gesti autolesionisti dalla disperazione per la revoca dei domiciliari. In galera dovrà scontare circa tre anni di reclusione residua. Sul suo profilo Instagram, gestito dai collaboratori,  un'immagine di lui imbavagliato e la scritta choc: «47 anni, 6 di galera, 1 di comunità, 12 anni di processi e 20 giorni di sciopero della fame. Quello che mi avete fatto è imperdonabile». Il suo caso è diventato subito mediatico scatenando le reazioni di vip  e di  politici. La deputata di L’Alternativa c’è, Emanuela Corda, proprio ieri, ha presentato un’interrogazione sul caso di Fabrizio Corona al ministro della Giustizia Marta Cartabia. «Fabrizio Corona è stato riportato in carcere e prelevato nella notte da otto uomini della polizia penitenziaria nonostante i chiari problemi psichici indicati dal referto medico. Mi domando quanti detenuti che mostrano disagi mentali e tendenze all’autolesionismo vivano le medesime esperienze», ha dichiarato la deputata. Per poi proseguire: «Nel massimo rispetto delle decisioni della magistratura vorrei capire se non sia opportuno fare una riflessione e magari cambiare qualcosa. È un essere umano». Cosa ha spinto Emanuela Corda a depositare l’interrogazione? «Fabrizio Corona è un cittadino come tutti gli altri e se ha sbagliato è giusto che sconti la sua pena. Ma è anche giusto tener conto del fatto che si tratti di un essere umano in estrema difficoltà che da tempo cerca di combattere le sue patologie. Per questo ho ritenuto opportuno approfondire la questione con un atto ispettivo». Cosa porterà l’interrogazione? Nel giorno del 47esimo compleanno anche il garante dei detenuti di Regione Lombardia, Carlo Lio, ha voluto aprire uno spiraglio di speranza all'ex re dei paparazzi: «Spero che la risonanza mediatica del caso di Fabrizio Corona possa dare voce a molti casi simili al suo, facendo riflettere le istituzioni: riconsiderare se tenere o meno nelle carceri lombarde e italiane persone che hanno queste tipo di problematiche».

Dagospia il 25 marzo 2021. Dichiarazioni di Vittorio Feltri a Telelombardia. «Ma che cosa ha fatto poi, non ha ammazzato nessuno. Insomma noi vediamo gente che commette reati gravissimi e dopo due anni esce di galera, invece il povero Corona è continuamente in ballo con la cella. Secondo me Corona non è assolutamente un criminale nè un delinquente, è stupido. Usare i social è una cosa normale, lo fanno tutti, non mi sembra che questo comporti un reato o comunque un’azione scorretta. Anche partecipare alle trasmissioni televisive credo che sia legittimo. Mi sembra evidente che c’è un accanimento che non mi spiego, probabilmente avranno delle ragioni però sono ragioni che sono rimaste misteriose. Io penso che Adriano Celentano, che non gode di tutta la mia simpatia, in questo caso abbia perfettamente ragione e mi dispiace che invece molti altri agiscano in modo contrario rispetto a Celentano solo perché hanno un’antipatia per corona. Ora, secondo me, nei casi giudiziari non bisogna farsi influenzare dalla simpatia o dall’antipatia bisogna esaminare oggettivamente  i fatti e poi dare un’opinione o un giudizio. Ha ragione Celentano, ha ragione Travaglio, anch’io nel mio piccolo chiedo che possa esaminarsi la possibilità di concedere a questo ragazzotto ormai uomo la grazia che gli permetta di vivere in modo normale. A Corona se fosse mio figlio gli direi “Senti cerca di farti almeno furbo visto che non riesci a convincere tutto quell’apparato che ti vuole morto”.»

Da leggo.it il 17 marzo 2021. «Forse è ora che la politica, anziché intraprendere affari con quei paesi che fanno sparire le persone tagliandole a pezzi, dica qualcosa sull'arrangiamento-giustizia». Lo scrive Adriano Celentano, che dai suoi canali ha scritto a Fabrizio Corona, dopo averlo visto a "Non è l'Arena" da Giletti e all'alba della sua nuova incarcerazione. Nella lettera, tanta commozione per la vicenda umana di Corona, il dolore della madre e quello del giovane figlio, e un invito a darsi da fare: «Solo tu - dice Celentano a Corona - puoi aggiustare il sentiero, non solo della tua vita, ma quella di tutte quelle persone che aspettano un tuo segnale, comprese le migliaia di persone che ti seguono su Internet. Io ho un idea!!!». Celentano racconta di essersi emozionato e commosso davanti alle immagini dell'arresto e al dolore della madre di Fabrizio. «Poi tutto ad un tratto - aggiunge - come un fulmine a ciel sereno, il mio pensiero si è fermato su di te. Sulla tua persona...tu hai fatto tante STRONZATE nella vita... la più grossa e direi la più PERICOLOSA, è quella di aver indotto i GIUDICI a darti una punizione SPROPOSITATA. Con la scusa di sommare le tue colossali CAZZATE, cioè ogni cazzata una punizione, ti hanno dato 14 anni di prigione. E qui, secondo me, sta la grande INGIUSTIZIA della giustizia italiana. Si danno 14 anni ad uno come te, che ha fatto sì, cose punibili dalla legge, ma non a tal punto da equiparare i tuoi madornali errori di vita a chi uccide una persona. Non si contano i casi di individui che hanno assassinato una o più persone e, solo dopo 5 o 6 anni di buona condotta, escono di prigione» conclude.

Celentano scrive a Corona: "Su di te ingiustizia, ma solo tu puoi aggiustare il tuo sentiero". Adriano Celentano su La Repubblica il 16 marzo 2021. "Caro Fabrizio, hai fatto errori, ma sono sproporzionati 14 anni di prigione". "Hai fatto tante stronzate nella vita" ma "con la scusa di sommare le tue colossali cazzate" i giudici "ti hanno dato 14 anni di prigione. E qui, secondo me, sta la grande ingiustizia della giustizia italiana". Lo scrive dai suoi canali social Adriano Celentano in una lettera aperta a Fabrizio Corona dopo averlo visto a Non è l'Arena da Massimo Giletti e all'alba della sua nuova incarcerazione. "Caro Fabrizio - scrive il Molleggiato a Corona - anch' io, come chiunque abbia potuto vedere la scena straziante trasmessa da Giletti, sono rimasto profondamente colpito nel vedere il dolore e la disperazione di una madre che, aggrappata alla tua giacca, piangeva e ti supplicava di stare calmo. Un dolore così grande che pareva uscire dallo schermo, quasi come a sciogliere una lacrima di chissà quanta gente ti stava guardando". E Celentano racconta di essersi emozionato e commosso davanti alle immagini dell'arresto: "E mentre anch'io, a fatica, cercavo di fermare la mia, di lacrima, tutto ad un tratto, come un fulmine a ciel sereno, il mio pensiero si è fermato su di te. Sulla tua persona... tu hai fatto tante stronzate nella vita... la più grossa e direi la più pericolosa, è quella di aver indotto i giudici a darti una punizione spropositata. Con la scusa di sommare le tue colossali cazzate, cioè ogni cazzata una punizione, ti hanno dato 14 anni di prigione". Un numero di anni, secondo l'artista, talmente sproporzionato da spingerlo a parlare di "ingiustizia della giustizia italiana": "Si danno 14 anni ad uno come te, che ha fatto sì, cose punibili dalla legge, ma non a tal punto da equiparare i tuoi madornali errori di vita a chi uccide una persona - argomenta Celentano - Non si contano i casi di individui che hanno assassinato una o più persone e, solo dopo 5 o 6 anni di buona condotta, escono di prigione. Forse è ora che la politica, anziché intraprendere affari con quei Paesi che fanno sparire le persone tagliandole a pezzi, dica qualcosa sull’“arrangiamento-giustizia”. "Caro Fabrizio! Il dolore di tua madre è grande, come grande sarà quello di tuo figlio. Un bellissimo ragazzo che si trova 'nel bel mezzo' di una grande decisione... che dovrà necessariamente partire da te. Solo tu puoi aggiustare il sentiero, non solo della tua vita, ma quella di tutte quelle persone che aspettano un tuo segnale, comprese le migliaia di persone che ti seguono su internet. Io ho un idea!!!", conclude Celentano.

Da liberoquotidiano.it il 18 marzo 2021. Per la prima volta Lapo Elkann parla pubblicamente di Fabrizio Corona, che si è tagliato i polsi dopo che il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha deciso di revocargli gli arresti domiciliari e di farlo tornare in carcere. L'ex paparazzo è ora piantonato nel reparto di psichiatria all'ospedale Niguarda di Milano. Lapo ha parlato in una intervista con il settimanale Novella 2000 di Corona con il quale non ha mai avuto buoni rapporti, dopo il caso dei 200mila euro chiesti da Fabrizio alla Fiat. Ora lo ha perdonato. Ricordate? La notte tra il 9 e il 10 ottobre 2005 Lapo Elkann fu ricoverato in gravissime condizioni nel reparto di rianimazione dell'ospedale Mauriziano di Torino, a causa di un’overdose per un mix di oppio, cocaina ed eroina dopo un festino con dei transessuali. Tra questi c'era Patrizia, che poco dopo fu beccata da Corona per una intervista esclusiva. La Fiat venne a sapere della questione, contattò il paparazzo, il quale chiese loro 200mila euro per vendere tale intervista. Ma gli Agnelli rifiutarono. Da allora Lapo non ha mai parlato di Corona, se non in Tribunale nel processo in cui è stato ascoltato come testimone, dicendo che l’ex re dei paparazzi provò più volte a "giocare sporco" con lui. Ora il rampollo di casa Agnelli parla:  "L’ho perdonato, non ho nessun livore, nessun rancore, must go on, bisogna andare avanti", confessa Lapo al direttore di Novella 2000, Roberto Alessi. Lapo dopo tutto quello che ha passato sostiene che ad un certo punto bisogna saper "voltare pagina" e "dimenticare il male" per non lasciarsi vincere dalla negatività. Anche perché Fabrizio si è "fatto del male da solo" e "spero non continui a farselo. Lapo si augura quindi che possa "ritrovare se stesso" e "il meglio di sé". Perché forse al momento questo desiderio di cambiare e di crescere non c'è ancora stato.

Da ansa.it il 19 marzo 2021. Fabrizio Corona dovrà scontare di nuovo 9 mesi di reclusione che aveva già scontato, in affidamento terapeutico, tra febbraio e novembre 2018. Lo ha deciso la Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Corona contro quanto stabilito lo scorso 13 ottobre dal Tribunale di Sorveglianza di Milano in accoglimento della richiesta del pg milanese Antonio Lamanna che aveva evidenziato le violazioni commesse da Corona durante la fase di affidamento concessagli per favorire il programma di recupero dalla dipendenza da cocaina. Il verdetto è stato emesso questa sera dalla Prima sezione penale della Suprema Corte. Corona è attualmente ricoverato all'ospedale milanese Niguarda, nel reparto psichiatria, dove è piantonato e sorvegliato 24 ore su 24. Nei giorni scorsi avrebbe compiuto una serie di atti di autolesionismo. Era finito in ospedale la scorsa settimana, dopo essersi ferito come segno di protesta per la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano di revocargli gli arresti domiciliari per recluderlo nella casa circondariale di Opera.

Da liberoquotidiano.it il 18 marzo 2021. Aumentano le grane per Fabrizio Corona. Dopo la revoca degli arresti domiciliari e i suoi gesti estremi per evitare il carcere a tutti i costi, ecco che i giudici tornano a punirlo. Questa volta nel mirino delle toghe le frasi rivolte dall'ex re dei paparazzi in una diretta Instagram. Corona, appena saputa la notizia del suo ritorno dietro le sbarre, ha accusato i giudici milanesi. In particolare i mittenti del duro sfogo sono stati il sostituto pg Antonio Lamanna e il magistrato della Sorveglianza di Milano Marina Corti: "Questo è solo l’inizio, dottoressa Corti, signor Lamanna questo è solo l’inizio. Quant’è vero Iddio sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie", diceva con la faccia sporca di sangue. Da qui è piombata la decisione del magistrato della Procura generale di Milano. Dopo una breve valutazione degli atti - fa sapere l'Ansa - il giudice sporgerà querela e la denuncia arriverà ai pm bresciani, competente sui reati commessi. Intanto la difesa di Corona ha già fatto sapere di fare ricorso in Cassazione dopo la revoca dei domiciliari perché tutte le relazioni degli esperti agli atti dicono che l’uomo non deve tornare in carcere e deve continuare le cure per la sua patologia psichiatrica. Nonostante ad oggi sia ricoverato nel reparto di Psichiatria all’ospedale Niguarda di Milano, l'imprenditore non arresta la protesta. Corona si trova infatti all’ottavo giorno di sciopero della fame e della sete. Nei giorni scorsi sarebbe stato anche protagonista di una serie di atti di autolesionismo. Fabrizio avrebbe tentato di ferirsi con una vite. Tanta la solidarietà attorno all'ex di Nina Moric. Lo stesso consigliere regionale della Lega Max Bastoni ha deciso di fargli visita. Stando all'Ansa il politico ha potuto dialogare “con una persona colpita, psicologicamente provata, tesa, molto dimagrita e con una evidente necessità di cure”.

Fabrizio Corona, "sacrificherò la mia vita". Querelato dal magistrato che minaccia: per il paparazzo il colpo di grazia. Libero Quotidiano il 17 marzo 2021. Aumentano le grane per Fabrizio Corona. Dopo la revoca degli arresti domiciliari e i suoi gesti estremi per evitare il carcere a tutti i costi, ecco che i giudici tornano a punirlo. Questa volta nel mirino delle toghe le frasi rivolte dall'ex re dei paparazzi in una diretta Instagram. Corona, appena saputa la notizia del suo ritorno dietro le sbarre, ha accusato i giudici milanesi. In particolare i mittenti del duro sfogo sono stati il sostituto pg Antonio Lamanna e il magistrato della Sorveglianza di Milano Marina Corti: "Questo è solo l’inizio, dottoressa Corti, signor Lamanna questo è solo l’inizio. Quant’è vero Iddio sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie", diceva con la faccia sporca di sangue. Da qui è piombata la decisione del magistrato della Procura generale di Milano. Dopo una breve valutazione degli atti - fa sapere l'Ansa - il giudice sporgerà querela e la denuncia arriverà ai pm bresciani, competente sui reati commessi. Intanto la difesa di Corona ha già fatto sapere di fare ricorso in Cassazione dopo la revoca dei domiciliari perché tutte le relazioni degli esperti agli atti dicono che l’uomo non deve tornare in carcere e deve continuare le cure per la sua patologia psichiatrica. Nonostante ad oggi sia ricoverato nel reparto di Psichiatria all’ospedale Niguarda di Milano, l'imprenditore non arresta la protesta. Corona si trova infatti all’ottavo giorno di sciopero della fame e della sete. Nei giorni scorsi sarebbe stato anche protagonista di una serie di atti di autolesionismo. Fabrizio avrebbe tentato di ferirsi con una vite. Tanta la solidarietà attorno all'ex di Nina Moric. Lo stesso consigliere regionale della Lega Max Bastoni ha deciso di fargli visita. Stando all'Ansa il politico ha potuto dialogare “con una persona colpita, psicologicamente provata, tesa, molto dimagrita e con una evidente necessità di cure”.

Da "liberoquotidiano.it" il 17 marzo 2021. Fabrizio Corona continua con i gesti autolesionisti dopo la revoca degli arresti domiciliari e la decisione del tribunale di Sorveglianza di Milano sul suo ritorno in carcere. Una scelta che la difesa dell’ex re dei paparazzi ha contestato duramente, perché non consentirebbe a Corona di curarsi. Da alcuni giorni l’ex fotografo si trova nel reparto di Psichiatria dell'ospedale Niguarda di Milano. Dopo essere venuto a conoscenza della decisione dei giudici, infatti, Fabrizio Corona si è tagliato le vene del braccio, postando il video sui social. Adesso, come riporta il Giornale, avrebbe tentato nuovamente di togliersi la vita in ospedale. Questa volta con una biro. Lo ha raccontato uno degli avvocati del pool difensivo di Corona, Cristina Morrone. La Morrone ha rivelato che nella mattinata del 15 marzo l’imprenditore avrebbe effettuato un nuovo gesto autolesionista, "utilizzando una biro con cui si è colpito di nuovo alle vene delle braccia". “L'avvocato Morrone ha trovato Fabrizio Corona in condizioni psicofisiche debilitate e preoccupanti, decisamente peggiori rispetto ai giorni scorsi. La situazione verrà ovviamente monitorata, ma non possiamo nascondere la nostra angoscia", si legge in una nota. Per protestare contro la decisione dei giudici di rispedirlo in carcere, l’ex fotografo dei vip ha iniziato anche uno sciopero della fame e della sete. Il suo obiettivo è quello di incontrare Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Milano, affinché vengano riletti gli atti del suo fascicolo. Per Corona, infatti, c’è "un evidente pregiudizio nei suoi confronti". “Non lo piegheranno, se lui ritiene di aver subìto un'ingiustizia è capace di lasciarsi morire”, ha detto in maniera preoccupata l’avvocato Ivano Chiesa.

Fabrizio Corona condannato dalla Cassazione a nove mesi di carcere. L'avvocato: "Sono molto preoccupato". Libero Quotidiano il 19 marzo 2021. Per Fabrizio Corona, è svanita anche l'ultima possibilità di non tornare in carcere. Ieri 18 marzo, i giudici della Cassazione hanno confermato la revoca dell'affidamento in prova all'ex paparazzo. Quindi Corona dovrà di nuovo finire dietro le sbarre. "È accanimento giudiziario che continua", commenta il suo legale Ivano Chiesa. "Sono stufo di questo sistema giudiziario - afferma l'avvocato - e di apprendere le notizie dalla stampa. Avrebbe dovuto essere una notizia riservata perché si tratta di camera di consiglio, non di una udienza pubblica e invece devo apprenderlo, ancora una volta dalla stampa". L'avvocato Chiesa si è detto "molto preoccupato" perché "il mio assistito, che è ricoverato da una settimana in ospedale ed è in una condizione di grande sofferenza psichica, scoprirà dai giornali che deve scontare altri 9 mesi in carcere invece di saperlo dal suo difensore. Mi sconcerta la totale mancanza di sensibilità umana", sbotta il legale. Il verdetto è stato emesso dalla Prima sezione penale della Suprema Corte. Corona è attualmente ricoverato all'ospedale milanese di Niguarda, nel reparto psichiatria, dove è piantonato e sorvegliato 24 ore su 24. Nei giorni scorsi avrebbe compiuto una serie di atti di autolesionismo. Era finito in ospedale la scorsa settimana, dopo essersi tagliato i polsi come segno di protesta per la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano di revocargli gli arresti domiciliari per recluderlo nella casa circondariale di Opera. E ora il ritorno in carcere è una certezza. Ma non solo. Per Corona i guai non sono finiti. Nel mirino delle toghe ci sono le frasi rivolte dall'ex re dei paparazzi in una diretta Instagram. Corona, appena saputa la notizia del suo ritorno dietro le sbarre, ha accusato i giudici milanesi. In particolare i mittenti del duro sfogo sono stati il sostituto pg Antonio Lamanna e il magistrato della Sorveglianza di Milano Marina Corti: "Questo è solo l’inizio, dottoressa Corti, signor Lamanna questo è solo l’inizio. Quant’è vero Iddio sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie", diceva con la faccia sporca di sangue. Da qui è piombata la decisione del magistrato della Procura generale di Milano. Dopo una breve valutazione degli atti - fa sapere l'Ansa - il giudice sporgerà querela e la denuncia arriverà ai pm bresciani, competente sui reati commessi.

Fabrizio Corona, "perché i giudici non ascoltano i medici?": dubbi e sospetti del presidente Capri. Giulia Sorrentino su Libero Quotidiano il 19 marzo 2021. L'intervista al professore Paolo Capri, presidente dell'Associazione italiana di Psicologia Giuridica, sul caso di Fabrizio Corona. 

Professore, il caso Corona è l’emblema di tutti quei malati psichiatrici che oltre alla sofferenza per la propria malattia si trovano costretti a dover tornare in carcere. Lei cosa ne pensa a proposito?

"Fabrizio Corona e le persone che si trovano nella sua situazione hanno bisogno di aiuto e di cure. Se lui ha una diagnosi così importante non deve essere fatto ovviamente un discorso generalizzato rispetto ad una pena o condanna. Chiunque ha un disturbo di personalità deve essere valutato ed in base a quello si stabilisce il percorso della misura detentiva, non c’è dubbio". 

Ma perché allora hanno stabilito che deve tornare in carcere?

"Nel caso in cui c’è un disturbo psichico, e in questo caso si parla di disturbo borderline e narcisistico, siamo all’interno di un disturbo importante serio. Soprattutto il borderline rappresenta motivo di forte instabilità, di tensione emotiva e questo non può non essere preso in considerazione quando parliamo di carcere. Il borderline è appunto una personalità molto al limite e soprattutto va incontro a fortissime alterazioni emotive e psichiche che non gli consentono in determinati momenti della loro esistenza di condurre una vita equilibrata. Apparentemente possono sembrare “solo” instabili o con problematiche affettive, ma non è un problema solo di affettività perché questi soggetti hanno proprio un problema di gravi scompensi che si avvicinano al quadro psicotico". 

Cosa intende lei con quadro psicotico?

"Mi riferisco ad una situazione dove ci possono essere delle dissociazioni. Siamo difronte a pazienti con una sofferenza importantissima che vanno inevitabilmente curati. E’ chiaro che l’aspetto detentivo non può che peggiorare una situazione del genere. Non rimane neutrale il paziente, ma sta peggio". 

Lei sta affermando un concetto estremamente importante. Come si deve porre a legge davanti alla scienza? E non parlo solo del caso di Corona ma di tutti i casi in cui i malati psichiatrici devono rimanere in galera. 

"L’aspetto psichiatrico e psicologico andrebbe seguito con estrema cautela ed attenzione, non può mai essere tralasciato. Credo poi che nel caso specifico di Corona ci sia a corredo tutto l’aspetto mediatico che influenza molto l’opinione pubblica, tanto da trovare talvolta dei commenti nei suoi confronti di una violenza inaudita, basta aprire qualche blog. Lui certamente solleva una reazione generale a livello di comunità, l’aspetto sociale in tutta la sua completezza, quindi il suo è un caso centrale. Ma ce ne sono anche altri che non hanno la sua stessa notorietà che però purtroppo hanno il medesimo problema". 

Può fare un appello alla magistratura?

"Chiedo loro di ascoltare, di leggere con attenzione le consulenze tecniche, le perizie e se non fossero convinti di farne alte, ma di approfondire sempre. Chiedo loro di seguire il parere tecnico-scientifico perché il giudice non è il “peritus peritorum” e un magistrato non può nella nostra epoca avere le competenze di psichiatra e di psicologo. Il mondo scientifico di ampia natura si è talmente ampliato che un magistrato non può avere queste competenze, che invece spettano a chi è del settore. Si devono affidare ai medici, alle valutazioni cliniche psichiatriche e psicologiche e le devono seguire, questo è il mio vero appello". 

"Pericoloso assassino e delinquente?". Feltri brutale su Fabrizio Corona: "Ecco chi è davvero". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 marzo 2021 su Fabrizio Corona: "Pericoloso assassino e delinquente? No, solo uno stupido". “Povero Fabrizio Corona, l’hanno rimesso in galera come fosse un pericoloso assassino. Non capite che non è un delinquente ma solo uno stupido”. Così Vittorio Feltri ha affidato a un tweet il suo pensiero sull’ex re dei paparazzi, che nelle scorse ore è stato protagonista di un episodio che ha destato grande clamore nell’opinione pubblica. Dopo la revoca dei domiciliari decisa dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, Corona ha reagito nel peggiore dei modi, al punto che pare abbia tentato di tagliarsi le vene. Ha pure pubblicato un video sui social - poi censurato e rimosso - in cui si mostrava con la faccia sporca di sangue e inveiva contro tutto e tutti. “Fabrizio resterà in ospedale ancora per qualche giorno - ha dichiarato a fanpage.it Ivano Chiesa, il suo avvocato - ha tentato di tagliarsi le vene non appena ha saputo la notizia. Così è stato trasportato in ospedale per essere medicato. Eppure un uomo che ha degli evidenti problemi di salute ora dovrà ritornare in carcere”. “Adesso vi faccio vedere io come si combatte l’ingiustizia - aveva tuonato Corona nel video incriminato - pronto a dare la mia vita in questo paese ingiusto”. Ovviamente ce l’aveva con i giudici che hanno chiesto la revoca ai domiciliari: in un’altra ripresa si vede la madre dell’ex fotografo piangere quando i poliziotti prosano via da casa il figlio. “Non ho più dignità”, ha detto in lacrime la donna. 

Da “la Repubblica” il 13 marzo 2021. Caro Merlo, l' accanimento della giustizia contro Fabrizio Corona mi fa sospettare che qualcuno cerchi vendetta. A chi giova perseguire con tanta tenacia una persona fragile che ha sicuramente sbagliato ma non più di molti che girano liberi? Gabriella Niola

Risposta di Francesco Merlo. La vera condanna di Corona è la fama, e l'università che l'ha formato è il carcere dove, da oscuro fotografo che lavorava sulle immondizie, entrò, quella prima volta sì, per un eccesso di protagonismo giudiziario. Poi è diventato una delle tante parodie italiane della trasgressione, finti maledetti che esibiscono stramberie al posto del talento, eroi psicotici e angeli neri di mezza tacca. Anche i reati che via via ha commesso sono di mezza tacca e non giustificano - eticamente, non tecnicamente - tutto quel carcere. Ora gli restano un anno e nove mesi senza sconti per buona condotta, visto che la sua condotta è, per natura, cattiva. È anzi probabile che i suoi guai aumentino per la sceneggiata con cui ha accolto la revoca dei domiciliari che gli è stata inflitta - pensate - per aver lavorato come "opinionista" (orribile parola) nella tv trash. E sono d' accordo con lei, cara Niola: la tv ci propina "opinionisti" ben peggiori di lui, bulli come lui ma meno fragili, che ora se lo disputano insultandosi con le gote accese. Pesce piccolo, è vero, ma sgargiante, Corona ha immalinconito e provocato pena. Soprattutto quando il tg ha mostrato la signora Gabriella Corona, che in un angolo piangeva. Sono le lacrime di tutte le mamme nel Paese della Mamma. È lo Stabat Mater di Pergolesi, la Pietà di Michelangelo. In questa storia la Madre è la sola non di mezza tacca.

Elisa Toaff per "adnkronos.com" il 12 marzo 2021. ''Penso che Fabrizio (Corona, ndr) abbia già pagato abbastanza per i casini che ha fatto. Credo che nei suoi confronti ci sia un accanimento, mica possono fargliela pagare fino alla morte. Ci sono dei mafiosi che sono liberi e a lui lo sbattono dentro perché ha fatto una diretta su Instagram?''. Così Belen all'Adnkronos sulla decisione dei magistrati di far tornare Fabrizio Corona in carcere revocandogli i domiciliari. ''Ieri ho pianto tanto -racconta la showgirl argentina commentando le drammatiche immagini che raffiguravano l'ex re dei paparazzi con il volto insanguinato che inveiva contro i poliziotti che lo ammanettano a terra per poi farlo trasferire all'ospedale Niguarda- mi sembra che non sia più lucido, non sta più bene ed è una persona che ha bisogno di aiuto''. "Non dico che chi sbaglia vada per forza aiutato -tiene a precisare Belen- ma il carcere o le condanne devono riabilitare in qualche modo l'essere umano. Portarlo in galera non mi sembra la soluzione. Invece del carcere per me dovevano fargli pagare una grossissima somma per tutti i danni finanziari che ha commesso. Questa persona va curata -ribadisce- si vede su Instagram che non sta bene. Il gesto che ha fatto ieri era una chiara richiesta di aiuto''. Belen infine si rammarica che nessuno abbia controllato Corona quando violava gli arresti domiciliari: ''Se tu a Fabrizio dici di non uscire e di non fare dirette su Instagram lui non ci riesce ma non perché vuole tornare in carcere ma perché ha qualche problema che va curato in qualche modo. Potevano metterlo nelle condizioni di non fare dirette su Instagram e di non farlo uscire di casa, ma davvero! Se lo lasci libero lui fa come gli pare, non è una persona in grado di seguire le regole''.

Belen Rodriguez su Fabrizio Corona: "Ho pianto vedendo quelle immagini, non è più lucido". Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. Belen Rodriguez difende Fabrizio Corona dopo la decisione di revocargli i domiciliari e rispedirlo in carcere. Una decisione del Tribunale di Sorveglianza, che l'ex re dei paparazzi non ha preso per niente bene, arrivando addirittura a tagliarsi i polsi. "Credo che nei suoi confronti ci sia un accanimento, mica possono fargliela pagare fino alla morte. Ci sono dei mafiosi che sono liberi e a lui lo sbattono dentro perché ha fatto una diretta su Instagram?", ha detto la sua ex intercettata dall'AdnKronos. La showgirl argentina non ha nascosto poi la tristezza per quanto accaduto dopo la notizia della revoca degli arresti domiciliari. In particolare, l'hanno turbata le immagini di Fabrizio Corona col volto insanguinato e trattenuto a terra dagli agenti. "Ieri ho pianto tanto, mi sembra che non sia più lucido, non sta più bene ed è una persona che ha bisogno di aiuto. Il carcere o le condanne devono riabilitare in qualche modo l'essere umano. Portarlo in galera non mi sembra la soluzione - ha spiegato Belen -. Invece del carcere per me dovevano fargli pagare una grossissima somma per tutti i danni finanziari che ha commesso. Questa persona va curata, si vede su Instagram che non sta bene. Il gesto che ha fatto ieri era una chiara richiesta di aiuto". Secondo la Rodriguez, comunque, va fatto qualcosa per aiutare l'ex fotografo dei vip: "Se tu a Fabrizio dici di non uscire e di non fare dirette su Instagram lui non ci riesce, ma non perché vuole tornare in carcere ma perché ha qualche problema che va curato in qualche modo". Intanto il legale di Corona,  Ivano Chiesa, ha lanciato una petizione online su Change.org per chiedere la "liberazione" di Corona. Appello che in appena due ore ha raccolto oltre 10mila firme.

Vita in diretta, Fabrizio Corona "persona malata, bipolare". Nunzia De Girolamo lo difende: "Perché è accanimento". Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. "Un accanimento". Nunzia De Girolamo interviene sull'odissea giudiziaria e umana di Fabrizio Corona e si schiera con l'ex re dei Paparazzi. Alla notizia del suo ritorno in carcere, Corona ha letteralmente perso il controllo, prima cercando di tagliarsi le vene in diretta social, poi reageando con violenza all'arrivo dei carabinieri nella sua abitazione, addirittura sfondando il vetro di una ambulanza. Ricoverato all'ospedale Niguarda nel reparto di psichiatria, ha iniziato uno sciopero della fame nel tentativo di parlare con Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano. "Mi sembra un accanimento rispetto ad una persona che è malata", ha spiegato la De Girolamo, ospite di Alberto Matano a La Vita in diretta. "Corona divide, sicuramente, piace non piace - ha ammesso l'ex ministra dell'Agricoltura ed esponente del Pdl prima e dell'Ncd poi -, però è una persona malata, è bipolare, sta in cura. Ha fatto lo sciopero della fame, ieri si è tagliato le vene, sta facendo cose eclatanti". La De Girolamo, che da tempo ha lasciato la politica attiva per dedicarsi anche alla tv, prima come opinionista di Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7, quindi concorrente di Ballando con le stelle e ora conduttrice in proprio con il talk Rai Ciao maschio, è uscita da poco assolta da una lunghissima e dolorosa vicenda giudiziaria legata alle nomine all'Asl di Benevento: "Sappiamo che in questo Paese c'è un sistema della giustizia che non funziona", parole che si riferiscono alla vicenda di Corona, ma con una marcata nota autobiografica.

Dagospia il 12 marzo 2021. Dal profilo Instagram di Asia Argento. Quest’uomo non e un assassino, uno stupratore, un mafioso, uno spacciatore, un criminale. Ha sicuramente fatto un sacco di cazzate nella vita, ma ora, a 46 anni, nonostante ne abbia gia scontati piu di 6 in carcere, e un cittadino reinserito, che lavora e da da lavorare, che paga le tasse, e un padre, un figlio, un fratello ed un amico che si rende conto dei suoi errori per i quali ha chiesto scusa ai magistrati, davanti a tutti. Ma non gli viene perdonato proprio quel disturbo bipolare e narcisistico della personalita che gli e stato diagnosticato dai medici stessi dello stato, sotto i quali era in cura. Ora ditemi voi come potra quest’uomo apparentemente smargiasso ma profondamente fragile, passare incolume altri due anni e mezzo in carcere, io non conosco nessuno che sia uscito “riabilitato” dopo una lunga prigionia. Fare di Corona un caso esemplare solo perche e un personaggio pubblico e una roba da medioevo. Ma l’Italia non e un paese di lobotomizzati. Per questo io oggi grido con voi: GIUSTIZIA PER FABRIZIO!

Da repubblica.it il 12 marzo 2021. E' ancora ricoverato all'ospedale Niguarda di Milano, nel reparto di psichiatria, Fabrizio Corona che, ieri mattina, dopo la notizia del provvedimento della Sorveglianza che ha disposto il suo ritorno in carcere, ha dato in escandescenza, si è ferito lievemente alle braccia, ha reagito e urlato contro gli agenti e ha spaccato un vetro dell'ambulanza. Come riferisce, sempre attraverso il profilo Instagram dell'ex "re dei paparazzi", uno dei legali dello studio di Ivano Chiesa, l'avvocato Cristina Morrone, l'ex agente fotografico "sta facendo lo sciopero della fame e della sete e lo continuerà fino a che non gli verrà data la possibilità di parlare" con la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. Il ricovero di Corona potrebbe durare ancora qualche giorno, ma poi verrà portato nel carcere di Opera dagli agenti della penitenziaria che lo stanno piantonando in ospedale, assieme alla polizia. Nel frattempo, dall'entourage dell'ex "fotografo dei vip" è partita pure una raccolta di firme come forma di solidarietà. Il collegio della Sorveglianza (presidente Marina Corti), dopo la richiesta del sostituto pg Antonio Lamanna, ieri ha deciso di revocare, per una lunga serie di violazioni delle prescrizioni, il differimento pena in detenzione domiciliare che era stato concesso a Corona nel dicembre 2019 per una "patologia psichiatrica".

Non è l'Arena, "Sangue dappertutto". Massimo Giletti e il video censurato di Fabrizio Corona: cosa è successo prima dell'arresto. Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. Massimo Giletti a Non è l’Arena ha mandato in onda una telefonata con Fabrizio Corona e la madre, avvenuta poco prima dell’arresto. O meglio, della corsa in ospedale, dato che l’ex re dei paparazzi quando ha saputo di dover tornare in carcere - il Tribunale di Sorveglianza gli ha revocato gli arresti domiciliari e imposto di scontare la pena in cella fino al 2024 - si è provocato delle ferite profonde sui polsi, cospargendosi il volto di sangue. Il tutto era stato immortalato in un video pubblicato - e poi censurato - sui social: Corona era anche andato in escandescenza con i poliziotti che gli avevano preso il cellulare, arrivando a rompere uno dei vetri dell’ambulanza. Tutto sotto gli occhi della madre, che sperava che il figlio fosse sulla buona strada per riprendersi dal grave disturbo della personalità da cui è affetto e da cui si stava curando da quando era agli arresti domiciliari. “Giovedì io ricevo una telefonata - ha ricostruito Giletti - ero in redazione ed ero stato avvisato della situazione. A telefono c’erano Fabrizio e la madre”. Proprio quest’ultima, in lacrime, è stata la prima a parlare con il giornalista di La7: “Un’altra fatica enorme, qui c’è sangue dappertutto. Massimo, è il mio bambino, è proprio una cosa improvvisa, una cosa ingiusta, tu lo sai. Era migliorato, te lo giuro. Era diventato buono”. Poi è intervenuto Corona, che si è limitato a dire: “Tra un’ora mi portano dentro, vado io a piedi. Ti voglio bene, ciao”. 

Fabrizio Corona, non solo il tentato suicidio: cosa sta facendo nell'ospedale psichiatrico. Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. Fabrizio Corona è all’ospedale Niguarda di Milano nel reparto di psichiatria, ma ha iniziato lo sciopero della fame e della sete. A riferirlo è l’avvocato Cristina Morrone. La notizia è stata data tramite il profilo Instagram dello stesso Corona, attraverso un comunicato. Nella nota si legge che lo sciopero si protrarrà finché Fabrizio non avrà la possibilità di parlare con Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano. Naturalmente il riferimento alla dottoressa Di Rosa non è casuale, visto che è stata proprio la decisione presa ieri dal Tribunale di Sorveglianza di Milano a sentenziare che l’ex re dei paparazzi debba tornare in carcere. La vicenda ha provocato l’ira di Corona che nel momento in cui è stato prelevato dalla sua abitazione ha perso letteralmente le staffe, distruggendo il vetro di un’ambulanza.  Diverse le personalità celebri che si sono pronunciate sulla questione. In soccorso di Corona sono giunti  Vittorio Sgarbi, Rita Dalla Chiesa e Asia Argento, che con Corona ha avuto un flirt. A spezzare una lancia a favore anche Belen Rodriguez, che con Corona visse una chiacchieratissima love story in passato. Belen ha parlato di “accanimento. Portarlo in galera non mi sembra la soluzione. Invece del carcere per me dovevano fargli pagare una grossissima somma per tutti i danni finanziari che ha commesso. Questa persona va curata si vede su Instagram che non sta bene. Il gesto che ha fatto era una chiara richiesta di aiuto”. ha detto la modella argentina.

Le condizioni di Fabrizio Corona sono in peggioramento. Dopo il nuovo l'arresto e il ricovero per il trattamento sanitario obbligatori, Fabrizio Corona ha iniziato lo sciopero della fame e della sete. Il suo avvocato si dice preoccupato e teme per la sua salute fisica. Roberta Damiata - Lun, 15/03/2021 - su Il Giornale. “Fine pena 2024”. Questa la sentenza che il Tribunale di Sorveglianza ha stabilito per Fabrizio Corona che ha revocato la precedente decisione presa nel 2019 di concedergli gli arresti domiciliari. Ora l’ex re dei paparazzi è ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Niguarda e le sue condizioni, dopo il rocambolesco arresto preoccupano molto. Era stato il suo avvocato a comunicargli la notizia della revoca del precedente provvedimento e lui non l’aveva presa bene, tanto da provocarsi delle profonde ferite e cospargendosi poi il volto di sangue, tanto che le sue immagini erano state rimosse da tutti i social. Per questo motivo ma soprattutto dopo essere andato in escandescenza con i Poliziotti che gli avevano preso il cellulare, la sua rabbia è arrivata a rompere uno dei vetri dell’ambulanza. Tutto questo sotto gli occhi della mamma che a lungo aveva creduto alla possibilità di rivedere suo figlio riprendersi dal grave disturbo della personalità da cui è affetto, e da cui si stava curando da quando era agli arresti domiciliari. Per lui sono scese in campo molte delle sue ex compagne come Asia Argento e Belen Rodriguez convinte che l’ennesimo arresto possa essere davvero pericoloso per lui. E i primi cenni ci sono tutti. Ricoverato da quattro giorni all’Ospedale Niguarda, ha iniziato lo sciopero della fame e della sete fino a quando non potrò parlare con qualcuno del Tribunale di Sorveglianza. Se prima quindi si parlava solo di un quadro psicologico molto problematico, ora c’è anche una condizione fisica che sta degenerando. Per questo il suo legale ha chiesto che venga aumentata la sorveglianza da parte del personale medico, nonostante abbia come detenuto è piantonato da tre agenti.”Fabrizio non sta sicuramente bene - ha dichiarato l’avvocato - tagliandosi il braccio ha rischiato di uccidersi, e per le ferite che si è procurato al braccio gli sono stati messi 14 punti di sutura”.

Non è l'arena, Alessandro Sallusti e l'arresto di Fabrizio Corona: "Dieci agenti, non erano lì per caso. Cosa mi ha detto Palamara". Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. "Tutta una storia malata". Alessandro Sallusti, in collegamento con Massimo Giletti a Non è l'Arena, dà la sua lettura all'arresto di Fabrizio Corona, ripreso e mandato in onda in tv. Immagini impressionanti, per l'imponente dispiegamento di mezzi e la reazione rabbiosa dell'ex re dei paparazzi, visibilmente instabile dal punto di vista psicologico ed emotivo. "Gli agenti erano bravi ragazzi, ma non erano lì per caso, evidentemente erano lì per quello. Si sono trovati lì e hanno fatto quello che hanno fatto al meglio del loro addestramento e della loro coscienza. Qualcuno ce li ha mandati. Il problema è che forse sapendo con chi stiamo trattando magari anche l'arresto e l'invito alla consegna potevano avvenire in maniera diversa, tenendo conto che stiamo parlando di una persona instabile, diversa da mandare 10 persone sotto casa". Luca Telese dallo studio lo interrompe più volte, "ne mandarono 10 anche a te, quando violasti il domicilio, poi arrivò la grazia di Napolitano. Ricordalo, raccontalo!". Giletti allarga le braccia: "Stasera non ce la faccio, fate parlare il direttore, non vi accavallate". "Nel libro scritto con Palamara - riprende Sallusti - alcuni elementi ritornano: in questa storia c'è un problema di pregiudizio, invidia sociale e di protagonismo della magistratura, ci sono dentro tanti ingredienti che compongono la storia della magistratura italiana in questi ultimi anni, senza dare per forza della vittima a Corona.

Valeria Braghieri per “il Giornale” il 12 marzo 2021. Ogni volta che c' è di mezzo Fabrizio Corona ci ricordiamo e constatiamo, che in Italia c'è una giustizia, ci sono tribunali, avvocati, giudici, una cancelleria e che, sorprendentemente, tutto funziona. Nessuno è mai stato tanto prontamente ammanettato e condotto al gabbio quanto l' ex agente di fotografi che oggi non sapremmo in quale categoria professionale (e anche un po' umana) ascrivere. La vita di Fabrizio si è trasformata ormai in un evidente, continuo, scomposto grido d' aiuto. Lui non lo sa, ma è così. Mai visto qualcuno «suicidarsi» socialmente con la sua frequenza e la sua ostinazione: e non adesso, che si taglia i polsi e si cosparge la faccia di sangue come una languida diva d' altri tempi in versione splatter. Non adesso, in questa versione truculenta e antiestetica (al contrario, Corona ha quasi un' ossessione per il lato estetico della vita, in ogni suo aspetto): sono ormai anni che si rovina con irrefrenabile fantasia. Si fa prendere a botte dalla vita, mette il culo davanti ai calci, vanifica tregue e aiuti. Infrange la legge, sfascia la famiglia, pianta le donne, distrugge le automobili, imbottisce i soffitti di soldi non dichiarati al fisco, si autoproclama agente delle ragazze abusate alle «feste» di Alberto Genovese...Mai visto qualcuno scalpitare tanto davanti alla prospettiva di una vita «normale». Mai visto qualcuno scoraggiare via via e poi portare allo sfinimento i suoi già scarsi sostenitori, accelerare vedendo davanti il muro. Eppure... Eppure c' è sempre qualcosa che ci lascia perplessi nel vedere tanta caparbia solerzia nell' applicare la legge su Fabrizio Corona. E c' è sempre qualcosa che ci lascia perplessi nel vedere che «quell' altro lui» (che c' è), non riesce mai a farcela. Come se fosse anche un po' colpa nostra, e non solo sua. Come se quel continuo sorvegliare e punire, fosse l' ultima delle soluzioni adatta a quell' inconsapevole, disperato nemico di se stesso. Che ha scambiato il mondo per l' oratorio in cui faceva il bullo e tirava pallonate alle vetrate. C' è una parte di Fabrizio che è rimasta da qualche parte: impigliata, bloccata, maltrattata. La vetrata oggi è la sua fedina penale, i compagni sbeffeggiati sono diventati accusatori, ex mogli, figli già affaticati da tutto quello che hanno visto, la punizione del parroco oggi è la galera. Lui compie 47 anni il 29 marzo e non riesce a mettersi a posto. A trovare un posto e una tregua, da se stesso prima che da tutto il resto. Ma la giustizia italiana ha intanto trovato posto in lui: Corona è il posto in cui la giustizia del nostro Paese resiste.

Fabrizio Corona e gli altri: quando il carcere è inadeguato per chi ha disagi psichici. Corona era piantonato nel reparto di psichiatria dell’Ospedale Niguarda, poi è stato riportato in cella a Monza. Il suo avvocato ha chiesto la sospensiva. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 marzo 2021. Il carcere può alimentare il circolo vizioso della sofferenza psichica? Può diventare una sorta di amplificatore dei disturbi mentali e dove non si è in grado di assistere i detenuti adeguatamente? Alcuni fatti possono darci qualche indizio. «Ho chiesto di poter andare in bagno a fumare, mi hanno dato un accendino. Sono controllato a vista da tre uomini della polizia penitenziaria. Mi siedo sul water e mi metto a fumare a torso nudo, i pantaloni tirati su. Vedo sul mio braccio destro la ferita del giorno prima, due punti di sutura che mi sono fatto pugnalandomi con una penna». Così scrive Fabrizio Corona in una missiva indirizzata a Massimo Giletti, conduttore di Non è l’Arena. Dopo essersi provocato delle ferite in segno di protesta contro le decisioni del giudice di revocargli gli arresti domiciliari, Corona ha iniziato a mordersi la ferita provocandosi altro sanguinamento.

Il suo avvocato Ivano Chiesa: «Vorrei parlare con la ministra Cartabia». Fabrizio Corona era piantonato e sorvegliato 24 ore su 24 nel reparto di psichiatria dell’Ospedale Niguarda, poi lunedì sera è stato riportato in carcere a Monza. Il suo avvocato Ivano Chiesa ha chiesto al Tribunale di Sorveglianza, che gli ha revocato i domiciliari, la sospensiva dell’esecuzione e ha anche fatto ricorso in Cassazione sul provvedimento. Aggiungendo: «Vorrei parlare con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, perché ho delle cose da dirle e non riguardano solo Fabrizio Corona, ma anche gli altri detenuti come lui. «Fabrizio può far male solo a se stesso. Non mangia da 12 giorni e non stava in piedi: erano 8 contro uno, come se lui fosse pericolosissimo». A chi gli chiedeva se Fabrizio Corona sia intenzionato a continuare lo sciopero della fame, l’avvocato Chiesa ha risposto: «Lo conosco, so come è fatto e so che è un uomo che non si piega. Va a morire. Perché ritiene di essere vittima di un’ingiustizia. L’ho supplicato di bere o mangiare almeno qualcosa perché ho bisogno che lui sia in forze». Il legale fa presente infine: «Non ho ancora visto il foglio di dimissioni, spero che ce lo daranno. Questo Tribunale di Sorveglianza lo ha rimesso in carcere senza nemmeno una perizia psichiatrica».

Chi ha un disturbo psichiatrico difficilmente riesce a ottenere trattamenti adeguati. Il caso di Corona e il clamore mediatico che ne è conseguito fa emerge ancora una volta il problema della patologia psichiatrica e della possibilità di cura nei contesti carcerari. Su questo punto interviene Carlo Lino, Garante dei detenuti di Regione Lombardia. «Ricordo – commenta il garante regionale – che la salute e la dignità delle persone ristrette in carcere è affidata all’Istituzione e farsene carico nel migliore dei modi è un dovere e, al contempo, un indice che qualifica la nostra società». Lio prosegue: «L’esperienza che ho maturato mi porta ad affermare che, all’interno degli istituti di pena, le persone a cui è stato diagnosticato un disturbo psichiatrico difficilmente riescono ad ottenere trattamenti adeguati». Sempre il garante rileva come «i Garanti sono costantemente impegnati nel tentativo di risolvere le criticità che si riscontrano nelle strutture carcerarie e alcuni macroproblemi impongono di riflettere non sulla gestione del quotidiano ma sul sistema nel suo complesso. La finalità della pena è sempre la riabilitazione degli individui ed è orientata, per principio, al reinserimento dei condannati in un possibile contesto socio-lavorativo».

Il caso del detenuto costretto a bere dallo scarico del wc. In realtà, il tema della psichiatria in carcere è ritornato alla ribalta anche con un caso denunciato dall’associazione Antigone e riportato da Il Dubbio. Qualche mese fa un famigliare di M. si rivolge al Difensore civico di Antigone. L’uomo è detenuto nel reparto di osservazione psichiatrica, “Il Sestante” del carcere di Torino. Verso la fine di agosto, la famiglia di M. viene informata di un tentativo di suicidio del ragazzo a seguito del quale sembrerebbe essere trasferito in una “cella liscia”, denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. La “cella liscia” si chiama così perché è vuota e i detenuti vengono lasciati senza niente che non siano le quattro mura lisce della stanza. M., stando a quanto riferito, avrebbe passato diversi giorni in questa cella, e con l’acqua chiusa, ci è stato riferito, avrebbe addirittura bevuto dallo scarico del wc. La situazione peggiora, si agita, e la prassi che ci viene narrata è quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedare il detenuto. M. subisce un trattamento sanitario obbligatorio che non risponderebbe a nessuna perizia psichiatrica. Trascorre nove mesi continuativi nella sezione dedicata a soggetti in acuzie del reparto di osservazione psichiatrica, in cui la permanenza massima prevista dalla legge è invece di trenta giorni.

Il Garante nazionale in visita al carcere di Torino. Del caso si è subito interessato il Garante nazionale delle persone private della libertà effettuando una visita ad hoc nel carcere di Torino. Si è recato nel penitenziario per incontrare una rappresentanza delle persone ristrette nella sezione femminile che avevano indirizzato nei giorni scorsi una lettera – pubblicata recentemente su Il Dubbio – con osservazioni sulla realtà della propria esecuzione penale e con proposte circa la possibilità di ridurre il persistente sovraffollamento. Come scrive il Garante, «l’occasione ha fornito la possibilità di verificare anche la permanenza di condizioni assolutamente inaccettabili nella parte dell’Istituto che ospita persone in osservazione psichiatrica». Più volte, infatti, il Garante nazionale ha segnalato che le condizioni previste per chi si trova in condizioni di disagio psichico, spesso molto rilevante, all’Interno della sezione prevista non sono rispettose né della dignità e della sofferenza delle persone coinvolte, né della dignità di coloro che operano nella sezione con compiti di garanzia e sicurezza in una situazione di grave difficoltà.

Marco Zucchetti per “il Giornale” il 12 marzo 2021. Premesso che Fabrizio Corona di per sé non è null' altro che il protagonista di un romanzetto kitsch autoprodotto che unisce cinepanettone, pulp di bassa lega e poliziottesco, la sua vicenda appassiona perché è diventata simbolo sociale e perfino morale. Giudiziariamente, la trama si riassume così: un gentiluomo colpevole di estorsione finisce poi per collezionare reati e ulteriori condanne per 13 anni e fischia, tra denaro falso, fughe, minacce, false fatturazioni, frode fiscale, bancarotta, corruzione... Manca l' abigeato, per ora. Sconta un po' di galera, poi - per curare dipendenza dalla coca e disturbi psichiatrici e «reinserirsi» nella società - gli vengono accordati periodi di pena alternativa. In comunità, in clinica, ai domiciliari. Tante possibilità di redenzione e un guinzaglio (troppo) lungo, che a tanti altri detenuti è mai stato accordato. La contropartita è fatta di regole e divieti, ma Corona decide puntualmente di sputare in faccia all' autorità e alla giustizia che si affanna a dargli chance. Ignora ogni limitazione, sentendosi al di sopra della legge, continuando a recitare il suo patetico (e patologico) ruolo da duro e ribelle, istigato a suon di cachet da chi lo sfrutta mediaticamente e fomenta il suo cupio dissolvi. Si allontana dal domicilio, minaccia sui social, organizza feste, va ospite in tv. Se ne approfitta. E chi lo sorveglia glielo lascia fare, lo lascia autodistruggersi. Il dubbio è semplice: può la legge, uguale per tutti, chiudere sempre gli occhi perché «poverino sta male»? È sufficiente che Corona non abbia «mai fatto del male» (anche se le vittime dei ricatti e delle minacce non la pensano così) per consentirgli l'impunità perenne? Davvero si può ancora parlare di «accanimento giudiziario» dopo tutte le aperture di credito gettate al vento? Forse la risposta la danno silenziosamente quelli che lo hanno difeso, mostrandogli la pietà che si deve a ogni uomo che sbaglia e cade. In molti hanno visto in lui una vittima di se stesso da salvare, a cui garantire una riabilitazione. Oggi, i suoi difensori sono sempre meno, perché quella pietà umana (lo sa bene don Mazzi, definito «buffone e nullità» dopo averlo salvato) è stata tradita e dalla pietà si è passati alla pena. La pena che si prova nel vederlo blaterare dopo aver finto un suicidio da avanspettacolo, mentre insulta il mondo. E la pena che ora è inevitabile fargli scontare, in carcere o in clinica, poco importa. Lo si deve ai cittadini che rispettano le regole e a quei detenuti che ce la mettono tutta per rigare dritto.

Giuseppe Guastella per "corriere.it" il 15 aprile 2021. Torna alla detenzione domiciliare Fabrizio Corona. I giudici del Tribunale di sorveglianza di Milano hanno accolto la richiesta di sospensiva dell’ordinanza con la quale era stata revocata la detenzione domiciliare concessa per motivi di salute all’ex re dei paparazzi. Ai giudici si erano rivolti gli avvocati Ivano Chiesa e Antonella Calcaterra, difensori di Corona.

La madre di Fabrizio Corona: «Non vedo l’ora di riabbracciarlo». «È stata la cosa giusta da fare. Sono felicissima, non vedo l’ora di riabbracciarlo»: ha regatò così Gabriella Privitera, la madre di Fabrizio Corona, che non ha ancora potuto incontrare il figlio e lo ha solo sentito al telefono dopo la scarcerazione.

Il carcere di Monza e il ricovero al Niguarda. Il 22 marzo scorso Corona era stato trasferito nel carcere di Monza, dopo essere stato ricoverato per una decina di giorni nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano: si era ferito quando aveva saputo la decisione dei giudici e aveva spaccato con un pugno il vetro dell’ambulanza. Inizialmente era stato deciso di portare Corona nel carcere milanese di Opera, poi era stato scelto il penitenziario di Monza, che ha anche un’apposita sezione con osservazione psichiatrica per i detenuti.

Lo sciopero della fame. Corona, a cui era stato revocato il differimento pena per una serie di violazioni delle prescrizioni, ha portato avanti uno sciopero della fame in ospedale e si è ferito più volte per protestare contro la decisione dei giudici e i legali si erano detti molto preoccupati per la sua salute.

Ha tentato più volte il suicidio. Fabrizio Corona esce dal carcere, concessi gli arresti domiciliari: “Ora può essere curato”. Rossella Grasso su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Dopo le proteste, gli scioperi della fame, le minacce di suicidio e il ricovero in psichiatria al Niguarda, Fabrizio Corona è riuscito a ottenere gli arresti domiciliari. I giudici del Tribunale di sorveglianza di Milano hanno accolto la richiesta di sospensiva dell’ordinanza con la quale gli era stata revocata la detenzione domiciliare per motivi di salute. I due Avvocati Ivano Chiesa e Antonella Calcaterra hanno sollevato le questioni sullo stato di salute mentale dell’ex fotografo, sostenendo la necessità che Corona ricevesse cure necessarie fuori dal carcere. Ora Corona potrà lasciare il carcere di Monza dove è recluso dal 22 marzo. Prima di finire in carcere era stato ricoverato per circa 10 giorni nel reparto di Psichiatria dell’Ospedale Niguarda. Corona che deve scontare parte del cumulo pene di 10 anni, 10 mesi e 24 giorni con fine termine nel 2024, alla notizia della revoca degli arresti domiciliari si era ferito da solo per protestare contro al decisione del giudice avvenuta successivamente alle reiterate violazioni alle prescrizioni incompatibili con il differimento pena. In una ‘story’ su Instagram, mostrandosi insanguinato e rivolgendosi alla giudice Marina Corti e al procuratore Antonio Lamanna, aveva detto che “questo è solo l’inizio”. “Quanto è vero Dio sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie. Vergogna. Chiedo che venga il presidente del tribunale di sorveglianza e guardi gli atti, altrimenti davvero mi tolgo la vita”, aveva minacciato l’ex agente fotografico. “Avete creato un mostro, ora sono cazzi vostri e questo è solo l’inizio“, aveva aggiunto ancora Corona mentre sullo sfondo si vedeva il pavimento sporco di sangue. Poi ha iniziato lo sciopero della fame prima al Niguarda e poi una volta entrato in carcere a Monza, continuando a darsi anche a gesti autolesionistici. Sono stati numerosi i suoi appelli al giudice per farlo tornare a casa a finire di scontare la pena. Numerose anche le richieste dei suoi avvocati e della famiglia che più volte hanno sottolineato che Fabrizio Corona non sta bene e deve essere curato in una struttura idonea. Adesso tornerà a casa e potrà farlo. L’ex “re dei paparazzi”, come venivano definito Corona, è uscito e rientrato in carcere a ripetizione negli ultimi anni: ad ottobre 2016 gli venne revocato il primo affidamento terapeutico ottenuto 12 mesi prima; nel febbraio 2018 ebbe un affidamento provvisorio revocato dopo soli cinque mesi, stessa cosa successa anche con l’affidamento concesso a novembre 2019 e sospeso a marzo 2019. L’ultima uscita dal carcere risale al dicembre 2019 per differimento pena con detenzione domiciliare per curarsi.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

In carcere per "un grave errore". Sconcertante indiscrezione su Fabrizio Corona: ecco perché è tornato libero. Libero Quotidiano il 16 aprile 2021. Fabrizio Corona è uscito dal carcere di Monza e si trova ora ai domiciliari. L'ex "re dei paparazzi" ha lasciato la casa circondariale in seguito alla decisione del Tribunale di Sorveglianza che ha accolto la richiesta dei difensori di sospendere l'esecuzione del provvedimento in base al quale nelle scorse settimane gli era stato revocato, a causa di una serie di violazioni delle prescrizioni, il differimento pena a lui concesso nel dicembre 2019 per una patologia psichiatrica. In quella occasione era prima finito in un istituto di cura e poi poco dopo a casa in detenzione domiciliare.  Decisione che l'11 marzo scorso era stata tanto contestata sia dai difensori che dallo stesso ex fotografo dei vip che si era anche ferito con dei tagli a un braccio, aveva minacciato di togliersi la vita ed era quindi stato ricoverato e piantonato nel reparto di Psichiatria dell'Ospedale Niguarda di Milano. Poi di nuovo era finito in carcere. Ora in un video su Instagram, il suo legale, l'avvocato Ivano Chiesa vuole precisare che la detenzione è stata uno sbaglio: "Non è tornato a casa perché è un privilegiato, né perché è famoso né per gentile concessione dei tribunale, ma perché è stato riconosciuto che nei suoi confronti è stato commesso un errore". Quindi, continua: "Ringrazio i magistrati che si sono pronunciati, ringrazio il presidente del tribunale di sorveglianza ma non finisce qui perché quello che è successo in questi 30 giorni non può essere dimenticato". Insomma, conclude Chiesa: "Andremo avanti, questo è solo il primo round e lo facciamo per tutti i detenuti che si trovano nella stessa condizione".

Da "liberoquotidiano.it" il 20 aprile 2021. Fabrizio Corona è tornato ad autolesionarsi. Nonostante la recente scarcerazione e la decisione del Tribunale di Sorveglianza di concedergli i domiciliari, l'ex re dei paparazzi ha deciso di farsi di nuovo del male. Nelle sue ultime storie Instagram, lo si vede col volto ricoperto di sangue e una fascia stretta attorno al braccio. Nel video caricato compaiono anche diversi membri del personale sanitario accorsi a casa sua per aiutarlo e medicarlo. "Ho perso molto sangue. Adesso vado a curarmi, poi vado in carcere", ha detto Corona al telefono con qualcuno. Il calvario dell'ex fotografo dei vip è iniziato lo scorso 11 marzo, quando il Tribunale gli ha revocato i domiciliari a causa di una serie di violazioni delle prescrizioni. Domiciliari concessi a Corona nel 2019 per via di una patologia psichiatrica di cui soffre. Il ritorno in carcere ha fatto letteralmente impazzire l'ex agente fotografico, che ha contestato la decisione dei giudici prima ferendosi ad un braccio, poi rompendo il vetro di un'ambulanza e infine finendo nel reparto psichiatrico del Niguarda per oltre 10 giorni. In ospedale, inoltre, Fabrizio Corona, aveva dato inizio a uno sciopero della fame in segno di protesta. Ecco perché più volte i suoi legali si sono detti preoccupati per le sue condizioni di salute. E anche la mamma, Gabriella Privitera, aveva chiesto la scarcerazione del figlio perché in apprensione per la sua vita. Tanti i messaggi di solidarietà nei confronti di Corona, a partire da Adriano Celentano, che gli ha scritto delle lettere per dimostrargli vicinanza.

Fabrizio Corona, ascesa e crollo dell'italiano meno furbo di tutti. Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. Gli italiani, da sempre, sono un gran popolo di sognatori. Con l'immaginazione fervida e ingenua degli infanti, spesso non distinguono tra sogno e realtà, e forse proprio per questo hanno trasformato in realtà tanti sogni. Fabrizio Corona è tornato in carcere a Monza, dopo la revoca dei domiciliari. Dovrà scontare 9 mesi di reclusione residua Chi sono, in definitiva, gli italiani? Un popolo di illusi perbene, o una torma perbene che usa le illusioni per costruire cattedrali? I nostri vecchi, mattone dopo mattone, con fatica e dedizione, umiltà e buon senso, hanno costruito il matto paese in cui viviamo, con fondamenta solide e durature. I giovani sognatori di oggi, con tanta fantasia e voglia di fare, hanno costruito un castello di sabbia che si regge sull'azzardo, sui guizzi dell'intuito, sulla creatività dell'invenzione del momento. Fabrizio Corona è l'unico italiano ad aver abbattuto a martellate l'eredità di chi ha fatto l'Italia, con nonchalance e cinismo, in favore di un mondo fatuo ma redditizio, festaiolo ma leggero, ruvido ma ben congegnato. Con l'aggravante di aver creato lui stesso, tamarro di borgata nei modi spessi e ruvidi, cervello fino da avvocato intrepido, quell'impero di carta, moda e televisione che con fare da macho ha chiamato "Corona' s". Popolare e qualunquista come Guglielmo Giannini e il suo Uomo qualunque, Corona incarna i vizi e le virtù di un popolo chiassoso ed esuberante come quello italiano, da sempre afflitto dal fardello struggente di costruire qualcosa di grande da tramandare, con lo sforzo immane di un Davide in eterna lotta contro Golia. 

DAVIDE CONTRO GOLIA. Nella narrazione tutta italiana di Corona, Davide batte Golia prima ancora di combattere, grazie alla sete di arrivismo sfacciato, un senso di cinismo esasperato nelle relazioni e quel tocco di scaltrezza piratesca che inebria gli interlocutori come un Sassicaia d'annata in esposizione. Italiano fino al midollo nella sua ossessiva ricerca dell'auto-compiacimento e nella creatività sbarazzina dell'innovatore a ogni costo, dell'italiano medio non ha assorbito la qualità più utile: la furbizia per sopravvivere in un mondo di squali. I fatti sono lì a dimostrarlo. Aperta nel 2001 la sua agenzia fotografica, si scelse come socio Lele Mora, un tronista furfantesco senza nerbo nè corona, che infatti lo trascinó con sè nel burrone di "Vallettopoli". Nel 2008, da vero sprovveduto, pagó in due bar all'aeroporto di Fiumicino con banconote false. C'era bisogno di ostentare con spocchia la propria inutile onnipotenza? Direi di no: beccato e arrestato. Stessa sorte nel 2016, quando la PM Ilda Boccassini gli sequestra 1,7 milioni di euro in contanti trovati nel contro-soffitto della casa di un amico, cui Corona aveva affidato l'amministrazione di una delle sue società. In mezzo, una serie infinita di episodi di diffamazione e di truffa, che hanno gettato pesanti ombre sulla carriera di un genio assoluto e sregolato, ma troppo ingenuo per diventare un fenomeno. 

DISTURBO BIPOLARE. Il resto è storia recente, con il Tribunale di Sorveglianza che lo rispedisce in carcere dopo 1 anno e 3 mesi di detenzione domiciliare, di cui Fabrizio aveva beneficiato per il suo «disturbo di personalità borderline associato a disturbo bipolare in soggetto con personalità di tipo narcisistico». Al di là di ogni pernicioso tecnicismo, Fabrizio soffre della mania di grandezza di chiunque viva in simbiosi con l'amore viscerale di se stesso, in un matrimonio bipolare con il suo ego smisurato. Dopo 1 anno e 3 mesi, dicevamo, Fabrizio è tornato in carcere, per aver violato le prescrizioni dei giudici sulle sue presenze social e sulle sue presenze televisive, dove non ha lesinato critiche feroci ai magistrati. Quando ha saputo della notizia, Fabrizio ha inscenato un gesto triste di autolesionismo feroce, tagliandosi il braccio e cospargendosi il viso con il sangue zampillante. Lo hanno portato a San Vittorie, di recente è stato trasferito a Monza. Fabrizio ha detto, laconico: «Io torno in carcere perché ho lavorato. Mi sono comportato onestamente: la gente va in carcere perché commette reati. Io non li commetto dal 2015. Ho scritto un libro e sono andato in televisione, va bene. Ma tutto questo è paragonabile a uno spaccio o a un omicidio?». Giuseppe Prezzolini amava dire: «I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi che rispettano le regole». Fabrizio non è nè furbo nè fesso. È solo stupido, che forse è anche peggio.

Da "corriere.it" il 17 ottobre 2020. Fabrizio Corona è positivo al Covid-19. Lo ha dichiarato lui stesso su Instagram, spiegando che ha avuto la febbre alta, a 39, per tre giorni e mal di gola. Due giorni fa, sempre nelle sue storie, aveva mostrato che aveva eseguito il tampone: di qualche minuto fa il risultato di positività, comunicato via social.

Gli «avvisi». Corona ha aggiunto: «Sono dispiaciuto per la famiglia dei miei avvocati, dico questa cosa per avvisare tutti coloro che sono venuti in contatto con me in Tribunale, inclusi i giornalisti». Proprio martedì scorso l’ex fotografo dei vip si era recato alla Sorveglianza per un’udienza relativa alla sua detenzione domiciliare, insieme agli avvocati Ivano Chiesa e Antonella Calcaterra, e aveva rilasciato diverse dichiarazioni ai cronisti giudiziari.

Corona ha violato la quarantena? Nina Moric chiama il 112: "Lo ha invitato ma Carlos è asmatico". La showgirl si è scagliata pubblicamente contro l’ex marito perché avrebbe invitato il figlio Carlos Maria a casa sua nonostante sia in quarantena per positività al Covid-19. Novella Toloni, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. È guerra aperta tra Nina Moric e l'ex compagno Fabrizio Corona. Questa volta però le questioni personali non c'entrano. La modella croata ha denunciato l'ex compagno sui social per aver violato la quarantena sanitaria, invitando a casa sua il figlio Carlos Maria. L'ex re dei paparazzi, infatti, è risultato positivo al Covid-19 negli scorsi giorni e avrebbe dovuto rispettare l'isolamento di dieci giorni imposto dalla legge. Secondo quanto raccontato da Nina Moric attraverso il suo account Instagram, però, Corona avrebbe invitato il figlio Carlos Maria nella sua abitazione pur sapendo di essere potenzialmente contagioso per il ragazzo. "Ho appena chiamato il 112 - ha scritto nelle storie del suo profilo social la Moric - perché Fabrizio Corona, positivo al covid, ha invitato Carlos, senza che io ne sapessi nulla e adesso bivaccano facendo Stories su Instagram". Una denuncia pesante che, se trovasse fondato riscontro, potrebbe costare cara a Fabrizio Corona in quanto violazione di un provvedimento dell'autorità sanitaria. L'ex re dei paparazzi, che deve scontare ancora un residuo di pena in regime di detenzione domiciliare, negli scorsi giorni aveva partecipato a una nuova udienza in tribunale. Subito dopo il rientro nella sua abitazione aveva manifestato i primi sintomi influenzali e, in seguito al tampone, era risultato positivo al coronavirus. Fabrizio Corona avrebbe dovuto, dunque, rispettare l'isolamento per dieci giorni in attesa di un nuovo tampone ma, secondo quanto raccontato da Nina Moric, la quarantena sarebbe stata violata. "Fabrizio non rispetta non solo le norme sulla quarantena - ha proseguito la Moric - ma anche la salute di mio figlio e di tutti coloro che con costoro entrano in contatto. La polizia mi ha risposto che non può farci nulla e che ha fatto "i controlli della centrale e di chiamare mio figlio per farlo a tornare a casa" ma cosa vuol dire??? È follia pura. È per uomini come Corona che il virus si diffonde seminando anche la morte e purtroppo anche dall'errata e incoerente applicazione della legge. Siamo tutti a rischio". A preoccupare maggiormente la modella croata, che nei giorni scorsi aveva denunciato Corona per minacce, è la salute e l'incolumità del figlio. La donna ha spiegato, infatti, che il ragazzo soffre di problemi respiratori: "Un figlio di 18 anni può anche avere l'incoscienza di fare certe cose, ma per un padre di quasi 50 è inammissibile perché sa benissimo che Carlo è un soggetto che rischia essendo asmatico".

Ida Di Grazia per "leggo.it" il 13 Ottobre 2020. Nina Moric pubblica un audio choc: «Minacce da Fabrizio Corona, voglio fracassarti la testa». Anche Carlos teme il padre. È un audio da brividi quello pubblicato nel cuore della notte dalla modella croata che, se verificato, aprirebbe scenari inquietanti sulla sua situazione familiare. Su Instagram Nina Moric ha pubblicato un post a dir poco inquietante: «Arriva un momento quando il silenzio comincia a fare talmente tanto rumore che non riesci più a stare zitto. Ho provato con la giustizia, adesso vi regalo a voi quello che passo tutti i giorni e continuo inoltre a passare per quella malata di mente. Ai posteri l’ardua sentenza». Quello che preoccupa non è la però la parte testuale, ma i due audio contenuti all’interno del post. Nel primo si sente Nina Moric che parla al telefono con uomo che - secondo la tesi della modella - sarebbe Fabrizio Corona. Si sente la Moric dire: «Perché gli hai creato tutti questi traumi? Perché mi dici che sono una puttana davanti a Carlos?». Ed è qui che arriva la risposta choc di quello che sembrerebbe essere Fabrizio Corona: «Io penso che sarei arrivato quasi al limite di venire due giorni fa a prenderti la testa e fracassartela contro un angolo, in modo da ucciderti e non vederti mai più, eliminare il male che hai fatto a questo ragazzo». Il secondo audio è invece sembrerebbe essere tratto dalla conversazione che Nina ha con il figlio Carlos Maria. Le parole di Carlos fanno, se possibile, fanno ancora più paura, perché parlerebbero di minacce subite da parte del padre e dalla sua voglia di scappare da lui: «Vorrei aprirmi con te, io voglio diventare una persona migliore, venire da te e dimenticare questa persona, dimenticare il male». La Moric che ha registrato la conversazione è in lacrime, cerca di far sentire tutta la sua vicinanza al figlio e gli chiede se Corona lo sta minacciando: «In parte sì – risponde Carlos - Io voglio stare con te, è questa la verità. Tu sei una persona che mi può aiutare a essere migliore, più buona, perché purtroppo io stando con il male imparo anche il male». «Carlos - risponde in lacrime la Moric - cancella la chiamata, lui (Corona ndr) ti controlla il telefono». «Lo so mamma, so tutto - risponde -  Non mi interessa la palestra, non mi interessa questo mondo, la televisione. Voglio solo tornare da te. In chiusura Nina Moric  gli fa una promessa «Non sei abbandonato io ci sono io, sono il tuo scudo. Sappi che la mamma non è stupida, ti proteggerà sempre. Piuttosto che lasciarti nelle mani sbagliate io morirei. Devi stare sereno, è solo questione di tempo perchè so che tu stai male». 

Ulteriori 9 mesi di reclusione per Corona: revocato il periodo di affidamento. Fabrizio Corona dovrà scontare nuovamente il periodo di affidamento in prova di 9 mesi. a deciderlo è stato il Tribunale di sorveglianza di Milano. Francesca Galici, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto la linea dura della Procura generale sul nodo dei 9 mesi trascorsi da Fabrizio Corona in riabilitazione psichiatrica, per i quali era stata chiesta la revoca. Ora il giudizio passerà in Cassazione. "Se va bene a dicembre mi mancherebbero da scontare 1 anno e 8 mesi, vedo la libertà a breve", aveva detto Fabrizio Corona, che ora invece dovrà aggiungere altri 9 mesi a quei 20 di pena che gli sarebbero rimasti da scontare. Non è il primo provvedimento in materia, perché sulla questione dei 9 mesi si erano già espressi in più riprese a causa di diverse violazioni di Fabrizio Corona durante quel periodo che, secondo la procura, avrebbero di fatto invalidato i presupposti di fiducia concessi all'ex dei re paparazzi nell'affidarlo a una comunità terapeutica. Ora, gli avvocati di Fabrizio Corona sono pronti a ricorrere di nuovo alla Cassazione per ribaltare la decisione del giudice di sorveglianza. Nel frattempo Fabrizio Corona non si è fatto sentito bene. L'imprenditore si trova nel suo appartamento nel centro di Milano in regime di detenzione domiciliare e nelle scorse ore ha mostrato sui social di avere la febbre. Con la temperatura a 38 gradi centigradi e la tosse, per lui si è reso necessario il test per il coronavirus, che è stato rigorosamente effettuato con documentazione via social. L'esito non è ancora stato comunicato, occorrono diverse ore per processare il tampone, quindi per sicurezza Fabrizio Corona è rimasto isolato nella sua abitazione milanese. L'imprenditore, comunque, non si abbatte e ha reagito con grinta come sempre, continuando ad allenarsi. Trovandosi agli arresti domiciliari, quindi non potendo uscire, Fabrizio Corona nel caso in cui risultasse positivo sarebbe stato sicuramente contagiato da qualcuno che, anche da asintomatico, avrebbe frequentato la sua abitazione di recente. Con questa situazione, però, ha dovuto rinunciare alla compagnia di suo figlio. Vista la febbre alta e la tosse, quindi il sospetto fondato che possa trattarsi di Covid, Carlos Maria Corona è tornato a casa della madre Nina Moric. Negli ultimi giorni, la showgirl aveva pubblicato sui social due conversazioni registrate, una con suo figlio e una con l'ex marito, che hanno fatto molto discutere l'opinione pubblica. Ci sono minacce e insinuazioni gravi in quei pochi minuti, ai quali però sia Carlo che Fabrizio Corona hanno già replicato. Ora si aspetta di conoscere la decisione della Corte di Cassazione per i 9 mesi da riscontare da parte di Fabrizio Corona e, a più stretto giro, il risultato del tampone per il Covid. Intanto, Fabrizio Corona ha commentato la sentenza sui suoi social, con tre storie su Instagram: "Violazione dei principi di giustizia, per l'ennesima volta. Ora basta, basta!! È una vita che subisco ingiustizie. Pronto a tutto, anche a sacrificare la mia vita. Giuro. Non sono mai stato così". Molto duro anche l'avvocato Chiesa, difensore di Fabrizio Corona: "Sono senza parole e, lasciatemelo dire, sono incazzato nero". Il legale ha poi spiegato in termini tecnici, con un video pubblicato su Instaram, quanto accaduto oggi in tribunale.

Da leggo.it il 15 ottobre 2020. Fabrizio Corona dovrà scontare di nuovo 9 mesi che aveva già scontato in affidamento terapeutico, tra febbraio e novembre 2018. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, accogliendo la linea della Procura generale rappresentata dal sostituto pg Antonio Lamanna. «Se va bene a dicembre mi mancherebbero da scontare 1 anno e 8 mesi, vedo la libertà a breve», aveva detto l'ex agente fotografico prima dell'udienza di due giorni fa. Il provvedimento dei giudici è l'ennesima decisione su questa vicenda dei nove mesi, revocati per violazioni da parte di Corona, ora in detenzione domiciliare, nel percorso di affidamento. Ci sono stati anche due 'passaggi in Cassazione, alla quale ora la difesa potrà di nuovo ricorrere.

Giada Oricchio per iltempo.it il 15 ottobre 2020. Fabrizio Corona deve tornare in carcere. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Milano su istanza della Procura generale rappresentata dal sostituto pg Antonio Lamanna. L'avvocato Ivano Chiesa, che rappresenta l'ex re dei paparazzi, si sfoga: "Mai vista una cosa del genere in 35 anni di carriera" e Corona disperato minaccia il suicidio. I 9 mesi che Fabrizio Corona aveva scontato in affidamento terapeutico, tra febbraio e novembre 2018, non sono validi per i giudici del Tribunale di Milano: devono essere scontati in galera a causa delle continue violazioni delle regole da parte di Corona, attualmente agli arresti domiciliari. L'avvocato Chiesa che lo difende da anni potrà ricorrere in Cassazione. Una doccia fredda per Corona che solo due giorni fa, prima dell'udienza, vedeva la luce in fondo al tunnel: "Se va bene a dicembre mi mancheranno da scontare un anno e otto mesi, vedo la libertà a breve. Per i miei 48 anni potrei essere libero". Ma potrebbe non essere così e l'ex agente ha riversato tutta la sua rabbia su Instagram: "Violazione dei principi di giustizia. Per l'ennesima volta. Ora basta! Basta!!! E' una vita che subisco ingiustizie. Pronto a tutto, anche a sacrificare la mia vita. Giuro, non sono mai stato così". E dal profilo ufficiale di Corona su Instagram è intervenuto anche l'avvocato Ivano Chiesa: "Il Tribunale di Sorveglianza ha confermato che Fabrizio ha fatto 9 mesi in affido per niente perché sono stati revocati con effetto retroattivo. Sono senza parole e anche incazzato nero perché la sentenza si basa su un errore giuridico marchiano, grossolano. (...). Tornano in mezzo le violazioni... Il Tribunale di Sorveglianza ha smentito se stesso, prima dice che non erano importanti, ora dice che lo sono. Ma non era questo il tema su cui decidere. Fabrizio è senza parole. Tornerò in Cassazione per la terza volta. In 35 anni non mi era mai capitato".

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2020. Fabrizio Corona è detenuto dall' inizio del 2013 e, a pensarci bene, una pena così importante raramente è stata inflitta per reati non di sangue: talvolta abbiamo dovuto commentare pene più lievi anche per alcuni reati contro la persona. Ma tant' è, per Fabrizio Corona molti di noi si sono cimentati in valutazioni di tipo "morale" o "etico" che nulla hanno a che vedere con l' applicazione della legge, valutazioni che hanno probabilmente offuscato il reale stato delle cose dal punto di vista legale. Chi scrive ha sempre pensato che per i reati commessi quattordici anni di galera a Corona (diventati poi quasi dieci) siano una enormità. Purtroppo è talmente alto il livello mediatico che ogni volta Fabrizio Corona si porta dietro che poco si conosce di ciò che è accaduto e molto si crede di sapere rendendo possibile commentare e giudicare senza conoscere i fatti contestati. L' avvocato Ivano Chiesa è accanto a Fabrizio Corona da sette anni ed è oramai da lui considerato come un secondo padre; la sua ricostruzione dei fatti e soprattutto la considerazione delle attuali condizioni di Corona, alla vigilia di un altro importante procedimento, ci può aiutare a comporre un giudizio più sereno.

Avvocato, come conobbe Corona?

«Lo conobbi nella sala dei colloqui di Opera, era aprile del 2013 e già esistevano le sentenze che erano passate in giudicato e Fabrizio avvicinandomi mi disse "avvocato mi aiuti"».

E lei?

«Io iniziai a studiare il caso e mi resi conto che il primo processo in cui Corona prese cinque anni era sbagliato».

Mi spieghi...

«Corona fu condannato per estorsione aggravata che è un reato ostativo. Ma il fatto non sussisteva e nemmeno l' aggravante. Fabrizio aveva chiesto venticinque mila euro fatturati all' ex calciatore della Juventus David Trezeguet (esattamente la cifra che un giornale avrebbe pagato per quelle foto). Corona andò all' appuntamento con un suo autista perché gli avevano sospeso la patente e così venne contestata l' aggravante in quanto erano in due. Le faccio anche presente, e Corona l' ha postata sui social qualche giorno fa, che fu lo stesso Trezeguet in una intervista che disse che non c' era stata nessuna minaccia e nessuna estorsione».

Partì tutto da quel processo quindi?

«Assolutamente. Le faccio anche presente che il Gip di Torino chiese il proscioglimento per quel processo ma la Procura impugnò. Si arrivò alla sentenza senza mai convocare Trezeguet e in primo grado vennero dati tre anni e mezzo e in appello e Cassazione cinque».

Ma poi Corona scappò.

«Scappò su una Cinquecento preso dal panico e poi si costituì. Le sembra una fuga vera quella di uno che si mette su una Cinquecento alla volta del Portogallo?».

Questa fu la prima condanna, ma non l' unica, giusto?

«Quando presi in mano la situazione di Corona aveva venti processi penali a carico (molti dei quali per reati afferenti alla sua professione di fotografo e giornalista) e in questi processi ci furono assoluzioni e remissioni di querela. Venne condannato a tre anni e mezzo per bancarotta della sua società quando traslò il know how da una società all' altra e ad un anno e nove mesi per banconote false; anche questa condanna era un paradosso».

In che senso?

«Che fu pagato con banconote false per un lavoro e quando si accorse di essere seguito cercò di disfarsene. Ma sono tutti reati compresi negli anni tra il 2007 e il 2008. Null' altro ha più fatto dopo quelle date».

E le banconote nel controsoffitto?

«Era soltanto un reato fiscale invece se ne occuparono la Dda e il magistrato Ilda Bocassini. Corona ha pagato ogni tassa ed è stato assolto. Anche quella e stata una vicenda irreale».

Perché?

«Perché Corona ha fatto sedici mesi di carcere preventivo per una pena che alla fine è stata di sei mesi! Le sembra logico? Venne arrestato davanti al figlio Carlos come se fosse un delinquente affiliato con clan mafiosi. Alla fine non c' era nulla, ma devo dire che siamo stati fortunati...».

In che senso?

«Abbiamo avuto un giudice illuminato, il dottor Guido Salvini, che vide la lista dei testi che avevamo presentato per dichiarare da dove provenivano i soldi del controsoffitto. Avevamo più di duecento testi. Dopo i primi quaranta Salvini disse "va bene avvocato abbiamo capito". Su Fabrizio purtroppo aleggia un giudizio morale che poco ha a che vedere con la giustizia».

Che cosa intende dire avvocato?

«Per esempio, Fabrizio venne fotografato su uno yacht con la fidanzata in topless; apriti cielo...».

Beh, si può capire!

«Che cosa si può capire! Era stata autorizzata una serata (altrimenti sarebbe stato arrestato) aveva anche detto che avrebbe dormito su una barca ma la foto con la fidanzata determinava nei moralisti pruriti etici senza senso. Questo è un esempio tra tanti. Fabrizio, quando è stato messo in prova, lavorava alla sera ma faceva scalpore che di notte fosse nei locali. Se avessi difeso un cantante che fa concerti non avrebbe potuto cantare la sera? La sua libertà vigilata sarà nelle ore serali. O no?».

Qualche errore però Corona l' avrà pur commesso?

«Certamente ma nove anni di galera per "qualche errore" mi sembra eccessivo. Adesso a Fabrizio mancano due anni e mezzo ma l' 8 giugno ha un nuovo processo dove rischia altri nove mesi».

Sono importanti questi ulteriori nove mesi?

«Sono decisivi. Se dovessimo pensare che ha quasi quattro anni da scontare invece che due e mezzo sarebbe pazzesco. Fabrizio è profondamente cambiato, mi creda».

In che cosa è cambiato?

«Intanto ha ammesso il fatto di fare uso di sostanze e, mi creda, già questo è stato un passaggio profondo e importante. Una volta dichiarato, non ha più sgarrato sul tema delle tossicodipendenze ed è sempre stato rigoroso nel rispettare ogni regola. Siamo a un punto di svolta per Corona perché questi ulteriori nove mesi sono ingiusti sia dal punto di vista legale che da quello umano».

Come sta andando avanti la detenzione domiciliare di Fabrizio?

«Bene perché mano a mano che il tempo passava lui si rendeva conto sia dei suoi talenti che dei suoi difetti e su questi ultimi ha lavorato molto; posso assicurare che il Fabrizio Corona che butta le mutande dalla finestra non c' è più».

Che rapporto ha con Nina Moric, la mamma del figlio Carlos?

«Hanno molto discusso ma alla fine trovano sempre un punto d' incontro per il bene del figlio. Corona ci sarà sempre per Nina».

E con Carlos, il figlio?

«Esiste un rapporto carnale, di amore pazzesco. Penso che uno dei motivi profondi del cambiamento di Corona sia proprio a causa del figlio. Tra poco Carlos compie diciotto anni: entrerà in un' età importante e il papà vuole esserci».

Il rapporto con il papà Vittorio, grande giornalista?

«Fabrizio ha un rapporto metafisico con il suo papà, spirituale. Ci sono stati momenti molto difficili in cui è sembrato anche a me che ci fosse lo "zampino" del suo papà».

E di Gabriella, la mamma?

«Una madre che si batte fino ad andare dal Ministro della Giustizia è straordinaria. Gabriella è una guerriera di cui Fabrizio ha sempre bisogno».

Lei quindi si fiderebbe adesso a lasciare nuovamente in libertà Corona?

«Sì. Io mi sono sempre fidato ma adesso potete fidarvi anche voi».

Barbara Costa per Dagospia il 14 novembre 2020. Mica lo sapevo, che con un’ascia puoi sì decapitare una persona ma non spezzargli le clavicole (“sono dure come sassi”) e che una valigia con dentro un cadavere a pezzi meglio non buttarla nel Naviglio (“l’acqua è bassa, la trovano subito”), e né che il filler è fatto come il pongo, e se nel viso non te lo inietta uno esperto, ti vengono dei bubboni, e diventi un mostro. Lo racconta Fabrizio Corona, nel suo "Come ho inventato l’Italia", e lui le prime due "nozioni" le ha apprese in galera, la terza sempre in galera, ma a spese bubboniche proprie. Il viso glielo ha sistemato poi Giacomo Urtis, sempre in galera, dacché, è un fatto: Fabrizio Corona deve sistemarsi il viso ogni 6 mesi. Anche se fosse vera la metà della metà che Corona dice e scrive, va riconosciuto che con un tale “figlio di puttana” (parole sue, p.304) non ti annoi: l’Italia degli ultimi anni Fabrizio Corona se non se l’è inventata di sicuro l’ha macchiata, plasmata, firmata. Inutile che tu che mi leggi scuoti il capino, e mi dici di no: qualsiasi cretineria combini Corona, riempie pagine, siti, tg, e prende i tuoi occhi, tu la vuoi sapere, tu te la bevi e imbottisci il portafoglio di Corona, quello di pelle nera con catenina d’ottone, che gli ha regalato Belén. Corona, è come dicono i referti psichiatrici, lui soffre di (riassumo) “delirio narcisistico, disturbo bipolare, e borderline, che lo portano a una distorsione della realtà, con gesti estremi usati per attirare su di sé l’attenzione”. Ma lui te la sbatte in faccia, la sua ossessione, la sua droga: i soldi, i soldi, i soldi. Il suo orgasmo supremo sta nel possederli, ammucchiarli, contarli, già mentalmente dividerli a mazzette. È così dannato di soldi che le tre volte che portandoseli addosso a mo’ di bancomat umano se li è persi, ha dato di matto, e non ha trovato pace finché non è tornato in pari. Con ogni mezzo e modo: perché con Corona tutto è monetizzabile, T-UT-T-O. Non c’è neo, gesto, rutto, respiro, sguardo, anima che per Corona non valga e sia e diventi denaro sonante. Questa è la sua filosofia, questo il suo credo, e se tu credi di saperne già, e di non volerne più, frena, resetta, curva a U, ché, mio caro, sai un cazzo. Tutto quello che il Corona-show ha mostrato finora è solo parte di quello che qui ti dice e dettagliatamente descrive, e senti, te lo ripeto una volta sola, perché m’hai stufato: abbassa quel ditino ammonitore, non fare il Savino, non crederti chissà chi: davvero sei migliore di Corona? Se lo sei, se d-a-v-v-e-r-o lo sei, allora cosa cazzo fai qui, perché mi leggi? Vuoi negarlo? Tu vorresti essere lui, per un giorno, o una vita. Niente scuse: tutti, in qualche modo, a Corona pensiamo, e superiormente giudichiamo. Bella frescaccia, la moralità. Ma poi a me di moralizzare Corona o chiunque altro frega nulla, io sarei curiosa di conoscere le persone che l’hanno idolatrato, e non sui social: io vorrei sapere chi pagava Fabrizio 500 euro a botta per solo prendersi un caffè con lui e dirgli “Ciao” e così far credere alla propria fidanzata che lui e Corona fossero amici; e conoscere le donne che sotto casa gli offrivano il culo, e vorrei pure conoscere chi ancora confida nei reality, se Corona svela che lui a "La Fattoria" ha “combinato la durata della mia presenza, e avevo il cellulare, chiamavo Belén”. Nel libro, ti erudisci sulla storia criminale completa di Corona, e giudiziaria e carceraria e ci sono pagine di sesso, pagine di donne e ci sono Nina e Belén che non sono state come le altre, anche perché mai con le altre, Fabrì, mi sa riuscirai a fatturare quanto hai fatturato con loro (fregandole), e con la loro intimità presa, prezzata, venduta. In questo libro c’è l’elenco di “ogni figa del momento” che Corona s’è gustato e, ragazze, ve lo dico: ci sono nomi e cognomi, e fatti. Asia!!! Butta quei “leggings slavati, fumi sigarette puzzolenti”, che Fabrizio quel pomeriggio a casa tua ti ha fatto “vedere le stelle” è narrato nei particolari, e c’è pure la descrizione di uno dei tuoi bagni; Clizia!!! Avevi tutte le ragioni quel giorno a incazzarti per essere stata scordata in autostrada ma qui si parla di quello che hai fatto in macchina da “siciliana all’antica”; Zoe!!! Fabrizio dice che hai “la fica grassa”; Sonia!!! Ma che sul serio hai dormito anni sul letto di Corona, senza mai con lui goderne, bensì ogni volta spostandoti sul divano quando lui sul quel letto si voleva scopare la chiunque?!? Silvia!!! Che Fabrizio t’ha messo corna su corna qui lo ammette (le ha messe a tutte), e però elenca pure le corna che gli hai fatto tu, a iniziare da quelle negate con Fedez. Malena!!! E no, caro Fabrizio, il porno è terreno mio: qui potrei magari di reputazione intaccarti, e rivelare la tua effettiva "sostanza" penica. Mi basterebbe un whatsapp… ma non lo faccio. Per il momento. Fabrì, tu hai avuto più donne di me, sicuro, io poi dello showbiz nessuna e, da quanto racconti, me ne tengo alla larga: com’è che dici? Sono insicure, complessate, se gli viene un brufolo casca il cielo, però non si può negare che “è diverso, scoparsi una persona e scoparsi un personaggio: è come penetrare un nome, infilare l’uccello negli interstizi tra una combinazione di lettere capaci di esercitare un potere magico sulle persone”. Le peggiori sono le donne che frignano le coccole. Certo è che, se sei assillato e pieno di problemi, e ti ritrovi a letto con una che ti miagola “amore, se stiamo vicini, ce la faremo!”, i nervi ti saltano. Di una cosa, però, ti facevo più scaltro: dai, Fabrì, è legge: se una donna "pesa" la sua figa, e non te la dà, e ti fa penare per mesi, la scopata alla fine è sempre una delusione assoluta. Non ci stanno santi. Fabrì, tu che conosci tutti, tu che col tuo profilo fake segui e spii e ne scopri i punti deboli, sai che non esiste fama senza ricatto, e che quasi ogni starlet è un ricettacolo di segreti infetti, perché se sei diventato famoso sei pure diventato vulnerabile, specie se sei un politico: a proposito, Fabrì, ma che fine ha fatto quel video omoerotico di uno di destra, sparito insieme al suo partito? Dì un po’, com’è che sono i calciatori? “Un branco di subumani sfigati”. E i rampolli, i figli delle famiglie bene? “Una manica di nullità”. Fabrì, precisiamo: tu, a Lele Mora, non gli hai dato nemmeno un bacio: gli devi, e molto, ma glielo hai “fatto annusare, e basta”. Fabrì, un’ultima cosa: se non rilitighi con la D’Urso, che figata sarebbe promuovere (e ottimamente incassare) questo tuo libro a "Live", te contro le 5 sfere, e nelle 5 sfere ci stanno 5 tue ex che sputtani in queste pagine…?! Tu ti credi Dio, Fabrì, ma, stavolta, sicuro che ne esci illeso? Dopo lo scontro a distanza video, te le ritrovi davanti alla porta di casa, incazzate nere. Fai un po’ tu. Io, intanto, ti passo il mio Iban: vedi di saldarmi quanto devi.

Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 14 novembre 2020.

Fabrizio Corona, com' è la storia dell' omicidio commissionato ai suoi danni?

«Quale dei due?».

Spazio per tutta l' autobiografia che ha appena portato in libreria non ne abbiamo. Ne scelga uno.

«Le spiego della volta con gli albanesi. C' era un mio cliente, nipote di un celebre potente della storia d' Italia».

Prima di fare il nome: l' ha denunciato?

«Io non denuncio mai».

Allora, niente nome.

«Come vuole. Nel libro, c' è.

Insomma, mi fa causa: secondo lui, gli dovevo dei soldi. Ma la regola della malavita è che, se fai causa, non puoi mandare il recupero crediti».

In che senso?

«Se hai messo le carte in mano alla polizia, alla legge, non puoi mandare il balordo a pestare il debitore: se no, la polizia fa due più due. Non puoi stare col male e col bene. Chiaro?».

A spanne. Quindi?

«Arrivano in ufficio due albanesi. Uno dice: Corona, hai un problema con xx, vedi di dargli i soldi. E io: ah sì? Usciamo e vediamo. Scendo, il mio autista mi segue e scatta la rissa. Accorrono baristi, tabaccai, gli albanesi scappano. Dopo un po', un tale mi dice che c' è uno pesante di una famiglia balorda che mi vuole parlare. Era grossissimo e sul cucuzzolo della testa aveva tatuata la sigla Acab: all cops are bastards , tutti i poliziotti sono bastardi. Mi fa: sono venuti due albanesi per comprare una pistola e noi, prima di vendere una pistola, vogliamo sapere a che serve».

E a che serviva?

«A uccidermi o gambizzarmi. Il soggetto con Acab sulla testa, poi condannato a 21 anni con aggravanti mafiose, dice che lui e suoi si sono messi di mezzo perché mi rispettano. Insomma, combiniamo un appuntamento, lui, io, gli albanesi, il creditore. Che ha capito il messaggio e non s' è più visto. Però, in questi casi, devi stare attento che non ti capiti un cavallo di ritorno».

Il «cavallo di ritorno», ora, che sarebbe?

«Che un malavitoso ti fa un favore, ma per avvicinarti e ottenere qualcosa di peggio».

La sua incolumità è ancora a rischio?

«No, ma penso che morirò ammazzato».

Perché mai?

«Ho fatto sei anni di carcere, anche con criminali efferati di cui ho dovuto essere amico per salvare la pelle e che, quando escono, sanno dove trovarmi. Ora, arrivano e dicono: prestami diecimila euro. E io: "sto cavolo". Poi, dai domiciliari, esco per andare allo Smi, un centro di recupero di esecuzione penale, e trovo altri criminali, che pure vogliono favori. Prima, davo retta, ora, li mando a quel paese. Ma è gente che se la prende. Tanti mi vorrebbero morto».

Tutto è iniziato con le condanne per i fotoricatti e ora siamo oltre. Sa che il suo libro sembra la biografia di un criminale italiano?

«Non sono un criminale, sono un furbo che non ha fatto male alla povera gente, ma ha sfruttato e fregato un sistema già corrotto. Ora ho incontrato tante case di produzione per trattare i diritti per film e docuserie e tutti mi hanno detto: non pensare che ne esci bene. Sicuramente è così, ma anche Il Lupo di Wall Street , quando ha dato i diritti, era una persona diversa da quella che si vede nel film».

Perché il titolo è «Come ho inventato l' Italia»?

«Da quando quattordicenne mi sono tuffato in una piscina vuota, ho battuto la testa e non sono più stato l' angelo che ero, ho vissuto dall' interno tutto quello che ha segnato questo Paese: la moda, Tangentopoli, il berlusconismo... Ora immagino d' aver creato questo mondo a mia immagine e somiglianza perché l' ho strumentalizzato, ci ho guadagnato e l' ho colpito da anarchico. Il mio obiettivo era entrarci per distruggerlo, perché mio padre, da quel mondo, è stato sconfitto e io l' ho voluto vendicare».

Perché suo padre Vittorio Corona era da vendicare?

«Era un grande giornalista ed è stato fatto fuori dal sistema. Dalla Rai, nel '92, per un titolo sui politici e la Cupola; da Mediaset, perché non appoggiò Berlusconi nel '94. Andò alla Voce con Indro Montanelli e quando hanno chiuso, non ha più potuto lavorare».

Non è che l' Italia lei l' ha peggiorata, non inventata?

«Anche. Il "popolo di Corona" vede solo il lato nero: che ho belle donne, soldi, mando a quel paese i magistrati. Il mio è un mito negativo».

Se l' è costruito lei, coi soldi falsi lanciati in autostrada, i soldi in nero nel controsoffitto, gli insulti ai giudici.

«Mi sentivo il protagonista di una storia d' ingiustizia e ho cavalcato quello storytelling con la follia di chi pensava di non pagare le conseguenze. Poi, davanti al macigno di una pena di 14 anni cumulativa, ho capito di aver sbagliato».

Scrive di continuo «sono Dio». Di notte, a luce spenta, si sente ancora un dio?

«Mi vengono i flashback come ai reduci del Vietnam. Senza sonniferi, non dormo. Spesso rivedo un suicidio terribile dell' estate 2019: un detenuto con una pena di tre anni, dopo una brutta telefonata, con gente che urlava e guardie che non arrivavano, si è appeso al collo il lenzuolo e l' ho visto spirare sotto i miei occhi».

Come è riuscito a farsi pubblicare dalla Nave di Teseo, la casa editrice dell' intellighenzia milanese?

«Semplice: in galera leggo, studio e mi si accendono lampadine. Per cui, ho scritto un appunto: fissare appuntamento con l' editore Elisabetta Sgarbi. Mi ha trovato intelligente, mi ha pubblicato e mi ha fatto conoscere tutta la Milano più intellettuale. Anche la vedova di Umberto Eco. Mi ci sono trovato a mio agio».

Il libro è ben scritto e la domanda che circola è: l' ha letto prima di pubblicarlo?

«Non ho un ghostwriter. Ho il dono della scrittura».

Come si è rotto l' anulare?

«L' ho spaccato apposta in carcere: dovevo lanciare un marchio su una maglietta e avevo bisogno di uscire e farmi fotografare. Mi hanno portato cinque volte all' ospedale e ho fatturato 50 mila euro».

Cos' è il denaro per lei?

«La mia grande malattia: mi dà il senso del successo e dell' identità. Sto cercando di curarmi con due psichiatri».

Fine pena a febbraio 2024.

«Vorrei la grazia. Per la sproporzione della pena e per come sono cambiato».

Perché, nel libro, sua madre è sempre nella sua testa?

«La chiamo di continuo, ma da piccolo mi sentivo sempre il meno amato. Il mio auto-sabotaggio nasce lì: se amo e sono bravo, temo di restare fregato. A Nina Moric e a Belén ne ho fatte di ogni. Infatti, oggi so che non era amore. E anche nella vita ne ho combinate sempre tante per dirmi che me l' ero cercata».

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA.

Corona di spine con predica. Per quali misteriose ragioni Fabrizio Corona sia ancora in carcere, dopo essere stato liberato una prima volta, pertiene al rovesciamento del principio costituzionale secondo cui la prigione ha l'obbiettivo non di punire ma di riabilitare, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Per quali misteriose ragioni Fabrizio Corona sia ancora in carcere, dopo essere stato liberato una prima volta, pertiene al rovesciamento del principio costituzionale secondo cui la prigione ha l'obbiettivo non di punire ma di riabilitare. L'articolo 27 recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Evidentemente non lo ha letto bene il pm Tiziana Dolci. Dopo il precedente del pluridifeso (da attacchi che non ha avuto) Nino di Matteo, che nelle sue requisitorie abbonda più in teoremi che in fatti, abbiamo adesso la denuncia di «bugie clamorose» (da verificare) da parte di Corona: «Non si può scrivere quello che si vuole in un atto della Procura della Repubblica, siamo in uno Stato civile, non siamo in uno Stato in cui la magistratura può scrivere quello che vuole, vale per me e per tutti i cittadini». In effetti il dovere della verità, per un pm, dovrebbe prevalere sulla passione per l'accusa che, sostanzialmente, crea una disparità fra il magistrato e l'imputato. E, siccome i fatti non si possono discutere, la reazione a una contestazione non può essere una predica, ma un'affermazione certa. E invece, tradendo lo spirito dell'articolo 27, la Dolci ha risposto come una preside che crede nell'esempio delle punizioni: «Basta con questa aggressività, non c'è nessun motivo. Faccia tesoro delle esperienze passate». Chissà cosa avrebbe detto a Caravaggio!

Fabrizio Corona: la giustizia sbaglia, ma non perdona, spiega Antonio Pellegrino. Dopo la fuga in Portogallo, Fabrizio Corona si è consegnato alle autorità portoghesi. Tornato in Italia, dovrà scontare 7 anni, 10 mesi e 17 giorni di carcere (la condanna iniziale era di 5 anni). Il reato di estorsione deve essere sicuramente punito e non ci sono scusanti. (Ma quel fatto configura l’estorsione e se sì, perché non perseguire tutto il sistema gossipparo?) In tale sede mi preme sottolineare il modus operandi quantomeno discutibile, a mio avviso della giustizia italiana. Il titolo del blog in esame non deve indurre il lettore in errore: con la locuzione “la giustizia sbaglia” non intendo affermare che la pena inflitta al fotografo dei vip sia erronea, bensì credo sia sbagliata nella sua commisurazione. Un esempio su tutti può evidenziare il mio ragionamento: Michele Misseri, noto alle cronache per essere implicato nella vicenda che ha portato all'uccisione di sua nipote, Sarah Scazzi, fu accusato di occultamento di cadavere. Si parla quindi di una vicenda legata alla morte di una persona, per di più una ragazza quindicenne. L'articolo 412 del codice penale recita testualmente: “Chiunque occulta un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne nasconde le ceneri, è punito con la reclusione fino a tre anni”. Il reato di estorsione, dal canto suo, è disciplinato dall'articolo 619 del codice penale: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065”. C'è qualcosa che non quadra nelle due vicende: nella prima, quella riguardante Corona, quest'ultimo viene condannato a 5 anni dalla Cassazione (pena poi aumentata per la fuga) per aver estorto 25 mila euro a David Trezeguet, calciatore plurimilionario; nella seconda, legata all'omicidio di una ragazza, il codice prevede per occultamento di cadavere una pena massima di tre anni (il giudice decide da da zero a tre anni). Badate bene: con questo esempio non voglio scagionare il più noto paparazzo d'Italia, ma sottolineare l'incongruità della sua pena. Il reato di estorsione è sì grave, ma come molte norme del codice, penale o civile, c'è bisogno sempre di una interpretazione giurisprudenziale. L'estorsione di 25 mila euro fatta ad un calciatore plurimilionario è sicuramente meno grave rispetto a quella fatta ad una qualsiasi persona che porta a casa uno stipendio “ordinario”. In questo caso, anche 1000 euro sarebbero influenti nell'economia familiare. La giustizia italiana, talvolta, mostra alcune incongruenze e non solo. Lettera aperta a Tempi di Giuseppe Lucibello, avvocato di Fabrizio Corona: “Inspiegabile disparità di trattamento. In tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro”.  «Nel paese dove tutti si sentono allenatori della Nazionale di calcio si assiste, da qualche giorno, ad un nuovo, avvincente, esercizio intellettuale: improvvisarsi avvocato difensore del sig. Fabrizio Corona. In televisione e sui giornali ognuno dice la sua spingendosi sino a voler individuare, retrospettivamente, le migliori strategie processuali. Tuttavia, prima di lanciarsi in più o meno autorevoli, nonché improvvisate, dissertazioni su come si sia giunti alle sentenze di condanna occorrerebbe avere piena cognizione delle vicende processuali. Pertanto abbandonando il riserbo che mi ero imposto per non incentivare inutili illazioni e strumentalizzazioni sulla pelle di Fabrizio e sulla tragedia che sta vivendo, ritengo che sia doveroso, a questo punto, effettuare alcune considerazioni, avendo vissuto questa vicenda in prima persona (sia pur a processi già avviati, con le ovvie preclusioni del caso). Quando sono iniziate le sue vicissitudini giudiziarie (Potenza- Woodcock – con l’inchiesta Vallettopoli) Fabrizio era stato rappresentato come il dominus di una sorta di S.P.E.C.T.R.E. del gossip, seppur incensurato. Dopo anni di processi, grazie alla paziente e laboriosa opera anche dei colleghi che mi hanno preceduto o affiancato, l’ipotesi accusatoria di Potenza è stata smontata e la quasi totalità delle accuse mosse a Corona è venuta meno. L’imputazione di associazione per delinquere non è giunta neanche al dibattimento. Conseguentemente le contestate estorsioni, si sono “sparpagliate” – per ragioni di competenza territoriale – in mezza Italia, creando così il primo serio danno a Fabrizio, costretto a difendersi in più sedi anziché innanzi ad un unico Giudice. I giudizi sono stati i più disparati; come si suol dire paese che vai usanza che trovi. Per i Giudici di Roma il pagamento di decine di migliaia di euro – da parte di un noto sportivo – per il ritiro di un servizio giornalistico non aveva natura illecita, tant’è che il procedimento è stato archiviato. I Giudici di Milano, competenti per sette casi di estorsione tentata o consumata, tra il primo ed il secondo grado, hanno ritenuto di mandare assolto Corona in ben 5 di essi. La condanna, ad un anno e 5 mesi, per i due residui tentativi è intervenuta per l’eccessiva lesività delle foto. Nonostante le decisioni di Roma e Milano, i Giudici di Torino, per un fatto indiscutibilmente analogo a quelli per cui vi è stata assoluzione, hanno ritenuto Corona colpevole condannandolo alla pesantissima pena di 5 anni di reclusione. Un esito particolarmente infausto che conclude un iter travagliato e denso di colpi di scena: basti pensare che il GUP inizialmente aveva mandato assolto Fabrizio o che la Corte d’Appello, “giocando” tra attenuanti ed aggravanti, ha aumentato la pena inflitta dai Giudici di primo grado da tre anni e quattro mesi a cinque anni. In punto di pena basti pensare che il Tribunale di Milano, in primo grado, per un’estorsione consumata e tre casi di estorsione tentata aveva inflitto una pena di tre anni e otto mesi! Ebbene il sottoscritto è ancora fermamente convinto che le condanne inflitte in relazione alla pratica del “ritiro” siano assolutamente ingiuste e che prospettare a qualcuno l’esercizio di un diritto quale la pubblicazione di un servizio fotografico (realizzato lecitamente) non ha nulla a che fare con la coercizione tipica del reato di estorsione. Del resto è singolare che dal 2007 ad oggi la lotta a questa “diffusissima pratica” si sia risolta unicamente nel processo a Fabrizio Corona ed ai suoi collaboratori. Se fosse bastata una sola inchiesta a smantellare definitivamente una pratica illecita ci troveremmo innanzi alla più efficace operazione anticrimine di questo paese. Ma posto che il “ritiro” dei servizi risulta essere ancora, pacificamente, in auge è evidente come Corona abbia assolto la funzione di capro espiatorio e che nella eccessiva severità di questa condanna siano entrate in gioco molte, troppe, variabili. Tra queste variabili che peso hanno avuto le assoluzioni di Corona a Milano nella condanna di Torino? In definitiva, in tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro e la circostanza che, pur applicando le stesse norme di diritto, i Giudici siano giunti a sentenze così diverse. Mai come in questo caso, in effetti, la supplenza giurisdizionale volta a colmare l’ennesimo vuoto legislativo ha prodotto risultati così discordanti.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA: la giustizia sbaglia, ma non perdona, spiega Antonio Pellegrino. Dopo la fuga in Portogallo, Fabrizio Corona si è consegnato alle autorità portoghesi. Tornato in Italia, dovrà scontare 7 anni, 10 mesi e 17 giorni di carcere (la condanna iniziale era di 5 anni). Il reato di estorsione deve essere sicuramente punito e non ci sono scusanti. (Ma quel fatto configura l’estorsione e se sì, perché non perseguire tutto il sistema gossipparo?) In tale sede mi preme sottolineare il modus operandi quantomeno discutibile, a mio avviso della giustizia italiana. Il titolo del blog in esame non deve indurre il lettore in errore: con la locuzione “la giustizia sbaglia” non intendo affermare che la pena inflitta al fotografo dei vip sia erronea, bensì credo sia sbagliata nella sua commisurazione. Un esempio su tutti può evidenziare il mio ragionamento: Michele Misseri, noto alle cronache per essere implicato nella vicenda che ha portato all'uccisione di sua nipote, Sarah Scazzi, fu accusato di occultamento di cadavere. Si parla quindi di una vicenda legata alla morte di una persona, per di più una ragazza quindicenne. L'articolo 412 del codice penale recita testualmente: “Chiunque occulta un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne nasconde le ceneri, è punito con la reclusione fino a tre anni”. Il reato di estorsione, dal canto suo, è disciplinato dall'articolo 619 del codice penale: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065”. C'è qualcosa che non quadra nelle due vicende: nella prima, quella riguardante Corona, quest'ultimo viene condannato a 5 anni dalla Cassazione (pena poi aumentata per la fuga) per aver estorto 25 mila euro a David Trezeguet, calciatore plurimilionario; nella seconda, legata all'omicidio di una ragazza, il codice prevede per occultamento di cadavere una pena massima di tre anni (il giudice decide da da zero a tre anni). Badate bene: con questo esempio non voglio scagionare il più noto paparazzo d'Italia, ma sottolineare l'incongruità della sua pena. Il reato di estorsione è sì grave, ma come molte norme del codice, penale o civile, c'è bisogno sempre di una interpretazione giurisprudenziale. L'estorsione di 25 mila euro fatta ad un calciatore plurimilionario è sicuramente meno grave rispetto a quella fatta ad una qualsiasi persona che porta a casa uno stipendio “ordinario”. In questo caso, anche 1000 euro sarebbero influenti nell'economia familiare. La giustizia italiana, talvolta, mostra alcune incongruenze e non solo. Lettera aperta a Tempi di Giuseppe Lucibello, avvocato di Fabrizio Corona: “Inspiegabile disparità di trattamento. In tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro”.  «Nel paese dove tutti si sentono allenatori della Nazionale di calcio si assiste, da qualche giorno, ad un nuovo, avvincente, esercizio intellettuale: improvvisarsi avvocato difensore del sig. Fabrizio Corona. In televisione e sui giornali ognuno dice la sua spingendosi sino a voler individuare, retrospettivamente, le migliori strategie processuali. Tuttavia, prima di lanciarsi in più o meno autorevoli, nonché improvvisate, dissertazioni su come si sia giunti alle sentenze di condanna occorrerebbe avere piena cognizione delle vicende processuali. Pertanto abbandonando il riserbo che mi ero imposto per non incentivare inutili illazioni e strumentalizzazioni sulla pelle di Fabrizio e sulla tragedia che sta vivendo, ritengo che sia doveroso, a questo punto, effettuare alcune considerazioni, avendo vissuto questa vicenda in prima persona (sia pur a processi già avviati, con le ovvie preclusioni del caso). Quando sono iniziate le sue vicissitudini giudiziarie (Potenza- Woodcock – con l’inchiesta Vallettopoli) Fabrizio era stato rappresentato come il dominus di una sorta di S.P.E.C.T.R.E. del gossip, seppur incensurato. Dopo anni di processi, grazie alla paziente e laboriosa opera anche dei colleghi che mi hanno preceduto o affiancato, l’ipotesi accusatoria di Potenza è stata smontata e la quasi totalità delle accuse mosse a Corona è venuta meno. L’imputazione di associazione per delinquere non è giunta neanche al dibattimento.

Conseguentemente le contestate estorsioni, si sono “sparpagliate” – per ragioni di competenza territoriale – in mezza Italia, creando così il primo serio danno a Fabrizio, costretto a difendersi in più sedi anziché innanzi ad un unico Giudice. I giudizi sono stati i più disparati; come si suol dire paese che vai usanza che trovi. Per i Giudici di Roma il pagamento di decine di migliaia di euro – da parte di un noto sportivo – per il ritiro di un servizio giornalistico non aveva natura illecita, tant’è che il procedimento è stato archiviato. I Giudici di Milano, competenti per sette casi di estorsione tentata o consumata, tra il primo ed il secondo grado, hanno ritenuto di mandare assolto Corona in ben 5 di essi. La condanna, ad un anno e 5 mesi, per i due residui tentativi è intervenuta per l’eccessiva lesività delle foto. Nonostante le decisioni di Roma e Milano, i Giudici di Torino, per un fatto indiscutibilmente analogo a quelli per cui vi è stata assoluzione, hanno ritenuto Corona colpevole condannandolo alla pesantissima pena di 5 anni di reclusione. Un esito particolarmente infausto che conclude un iter travagliato e denso di colpi di scena: basti pensare che il GUP inizialmente aveva mandato assolto Fabrizio o che la Corte d’Appello, “giocando” tra attenuanti ed aggravanti, ha aumentato la pena inflitta dai Giudici di primo grado da tre anni e quattro mesi a cinque anni. In punto di pena basti pensare che il Tribunale di Milano, in primo grado, per un’estorsione consumata e tre casi di estorsione tentata aveva inflitto una pena di tre anni e otto mesi! Ebbene il sottoscritto è ancora fermamente convinto che le condanne inflitte in relazione alla pratica del “ritiro” siano assolutamente ingiuste e che prospettare a qualcuno l’esercizio di un diritto quale la pubblicazione di un servizio fotografico (realizzato lecitamente) non ha nulla a che fare con la coercizione tipica del reato di estorsione. Del resto è singolare che dal 2007 ad oggi la lotta a questa “diffusissima pratica” si sia risolta unicamente nel processo a Fabrizio Corona ed ai suoi collaboratori. Se fosse bastata una sola inchiesta a smantellare definitivamente una pratica illecita ci troveremmo innanzi alla più efficace operazione anticrimine di questo paese. Ma posto che il “ritiro” dei servizi risulta essere ancora, pacificamente, in auge è evidente come Corona abbia assolto la funzione di capro espiatorio e che nella eccessiva severità di questa condanna siano entrate in gioco molte, troppe, variabili. Tra queste variabili che peso hanno avuto le assoluzioni di Corona a Milano nella condanna di Torino? In definitiva, in tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro e la circostanza che, pur applicando le stesse norme di diritto, i Giudici siano giunti a sentenze così diverse. Mai come in questo caso, in effetti, la supplenza giurisdizionale volta a colmare l’ennesimo vuoto legislativo ha prodotto risultati così discordanti.

UN CASO SIMILARE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CASO CORONA.

Fabrizio Corona, perché tenere un innocente in galera? Subito la Grazia!, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Dopo aver sentito in tv le dichiarazioni di David Trezeguet, che di fatto lo scagionano, Fabrizio Corona nell’incontro con gli avvocati Ivano Chiesa e Gianluca Maris ha sbattuto i pugni. È per un verso sollevato, dall’altro sempre più arrabbiato per l’ingiustizia che sta subendo. Come non capirlo. «Che strana estorsione – spiega infatti Chiesa – in cui l’estorto dice di non avere subito nessuna estorsione e nessuna minaccia». Intervistato da Francesca Fagnani per il programma di La7 In Onda, il celebre calciatore ha di fatto riaperto il caso. «Si è mai sentito minacciato dall’autista che era con Fabrizio Corona?», ha chiesto la giornalista. «No, mai», è stata la risposta. «Ha mai sentito delle pressioni da parte dell’uomo che era con lui?». «No, nessuna». Fabrizio Corona aveva fotografato Trezeguet all’uscita da una discoteca con una donna che non era sua moglie. Quelle foto, nonostante fosse solo un’amica, potevano destare scandalo. E il fotografo e agente dei vip chiese al fuoriclasse se voleva comprare lui direttamente le foto. Per il Gip non c’era reato e proscioglie Corona. Sentenza poi impugnata dalla procura di Torino: per la Cassazione il processo va fatto. Ma mentre in primo grado si becca tre anni e 4 mesi perché gli vengono riconosciute le attenuanti generiche, in Appello la sentenza è ancora più dura: 5 anni. A rendere più pesante la condanna – poi diventata definitiva – è la presenza dell’autista, che rende l’eventuale estorsione aggravata. Oggi Corona è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Opera e deve scontare un cumulo di pene per 13 anni e 8 mesi, ridotte con la continuazione a 9 anni. Ma anche questa riduzione è a rischio perché è stata impugnata. La cosa più drammatica è che per un reato che appare un non reato Corona è sottoposto al regime del 4 bis, simile al 41 bis dei mafiosi. Trattato come un pericoloso assassino, non può neanche beneficiare di sconti di pena per l’uscita anticipata. È per questa ragione che anche un puro e duro come Marco Travaglio ha lanciato sul Fatto quotidiano una campagna per chiedere la Grazia in suo favore. Oggi, dopo le dichiarazioni di Trezeguet, questa prospettiva appare ancora più praticabile. Le assurdità di questa vicenda sono infatti numerose. Torniamo alle dichiarazioni del calciatore. Non si tratta infatti di una novità. Le stesse cose le aveva dette, durante le indagini, sia a Woodcock sia alla Procura di Torino. Trezeguet, cosa ancora più assurda, non viene mai chiamato a testimoniare durante il processo. La parte lesa, senza cui non esisterebbe il reato, viene tenuta fuori dal dibattimento e si usano le sue precedenti dichiarazioni. Le quali, comunque, non lasciano dubbi. L’estorsione non c’è stata. È qui che viene da pensare a una storia di accanimento. Ad un processo che diventa simbolico, contro un certo modo di fare e di vivere nel mondo dello spettacolo. Le vie per dimostrare le colpe di Corona sono tortuose, ma efficaci. Si contestano infatti le foto per violazione della privacy. È vero, questo il ragionamento dei giudici, che il calciatore sta fuori da una discoteca, quindi in un luogo pubblico, ma ci sta senza volerci stare. In più Corona non può avvalersi del diritto di cronaca perché non è un giornalista. Le sue foto sono un bene illecito e per questo va punito. «Faccio questo mestiere da trent’anni – commenta Chiesa – e non si può davvero parlare di estorsione. Si tratta di una palese ingiustizia a cui va posto rimedio. Ormai – continua – la gente mi ferma per strada per chiedermi di Fabrizio. Anche le persone comuni considerano assurdo quello che sta passando. La vivono come una minaccia pure nei loro confronti. ”E se capitasse anche a me?”, si chiedono angosciati». Intanto questo incubo lo sta attraversando Corona. Da qui la sua rabbia, anche nell’ultimo colloquio con gli avvocati. E il desiderio di avere giustizia senza essere trattato come il peggiore dei delinquenti. Se, dovesse essergli levata la continuazione che riduce il cumulo di pene da 13 anni e 4 mesi a 9 anni, Corona pagherebbe più di un assassino. Ma il punto non è neanche questo. Non è il paragone con chi ha commesso delitti più gravi. È che certe forme di ”tortura” non dovrebbero essere ammesse per nessuno, men che mai per una persona che, ogni giorno di più, appare essere innocente. Almeno che non si considerino gravi colpe la spavalderia o certi atteggiamenti troppo disinvolti. Ma se non ricordiamo male di tutto ciò nel codice penale non si parla. O no?

Provato, non rassegnato, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. Meno spavaldo, ma sempre proiettato su stesso, perché, ammette, «il dna non lo puoi cambiare». In bilico tra rabbia ed espiazione, dopo quattordici mesi di reclusione l’ex re dei paparazzi Fabrizio Corona fa i conti con se stesso e nella sua prima intervista dal carcere di Opera risponde per iscritto ad alcune domande. Condannato a un totale obiettivamente spropositato di quattordici anni e due mesi, con i suoi avvocati Gianluca Maris e Ivano Chiesa ha ottenuto la «continuazione» tra le due sentenze di Vallettopoli (diciassette mesi a Milano, cinque anni a Torino) e con essa una sostanziosa riduzione del cumulo che, in attesa della definizione di altre vicende e detratto quanto già scontato, è sceso a sei anni e undici mesi. Come sta vivendo il carcere? «Il carcere mi ha salvalo la vita. Mi ha fatto tornare con i piedi per terra. È riuscito a fermare un treno in corsa perenne da anni che ultimamente aveva perso sogni, equilibri e alzato troppo l’asticella del limite. Mi ha fatto scoprire il senso della realtà, insegnato a star bene con me stesso e messo nelle condizioni di proseguire nel migliore dei modi lungo la strada della vita quando tornerò libero».

http://www.corriere.it/includes2013/images/placeholders/bk_adv_01.png

Corona non più oltre i limiti? «Sono sempre lo stesso, il dna non lo puoi cambiare. Però sono migliorato, in tante cose. Sono più vero, più lucido e più uomo perché ho visto gente soffrire e morire, ho visto il tormento, la paura, lo sconforto, la vera solitudine e l’abbandono, ho capito cosa sono la cattiveria e la vera violenza. Tutto questo mi ha reso più forte». Pensa ancora di essere vittima di alcuni magistrati? «Nei miei confronti non c’è mai stata parità di giudizio: o scandalosamente innocente o dannatamente colpevole. È sempre stata solo una questione di simpatia o preconcetto, pregiudizio. Qui mi sono reso conto ancora di più dell’ipocrisia della giustizia italiana, che non è egualitaria. Assassini colpevoli condannati a 12 anni e solo presunti condannati all’ergastolo, anni di pena dati come fossero noccioline in carceri dove il concetto di rieducazione non esiste, dove le condizioni di vita, di igiene, di convivenza sono disumane e vergognose».

Ora ha ottenuto una notevole riduzione della pena. «Quando ho presentato l’istanza di messa in continuazione poteva capitarmi un giudice a cui stavo simpatico o uno che mi odiava. Dovevo solo sperare di trovare un giudice che avesse il coraggio di guardare gli atti, studiarli e fare giustizia senza timore di ferire i benpensanti e i finti moralisti. Un giudice capace di prendersi delle responsabilità, onesto, vero, giusto. L’ho trovato. Questo giro, finalmente, mi è andata bene. Ricordo lunedì 10 febbraio. Scendevo le scale per andare in sala avvocati come un robot. Quando si è aperta la porta ho guardato gli avvocati negli occhi. Mi hanno fatto un grande sorriso e ho ripreso a respirare».

Qual è stato il suo errore peggiore? «Rifiutare un patteggiamento ad otto mesi per Vallettopoli, un’indagine assurda, ma nessuno ha avuto mai il coraggio di ammetterlo, a causa della quale ho preso tre condanne, compresi i 3 anni e 10 mesi per bancarotta, dopo aver risarcito il danno. Da incensurato fui arrestato e portato a Potenza, feci un mese di carcere duro con quel Pepe Iannicelli, boss delle ‘ndrine bruciato vivo due mesi fa con la fidanzata e quell’angelo di suo nipote di soli 3 anni. È normale che dopo 4 mesi di detenzione preventiva sono uscito arrabbiato». E ne ha fatte di tutti i colori. «Ce l’avevo con il mondo intero, mi sono perso e ho commesso un sacco di errori». Cosa fa? «Faccio moltissimo. Quando ero a Busto Arsizio ho inventato un portale innovativo per i detenuti, ho raccolto circa 70 mila euro per loro, ho scritto un libro, ho lavorato come portavitto e sono riuscito dal carcere a mandare avanti la mia azienda senza farla fallire e mi sono mantenuto in forma allenandomi per almeno un’ora al giorno. Ho sempre tenuto vivo il cervello e ho ripulito l’anima». Con la libertà, cosa le manca? «Mi manca tantissimo mio figlio e mi mancano da morire le emozioni quotidiane che la vita ti dà. Qui, in parte, è come essere morti». La prima cosa che farà al primo permesso? «Vado a scuola a prendere mio figlio. È un anno che mi immagino questa scena, e so che solo quando lo vedrò uscire mi renderò conto di quante cose ho buttato nella mia vita, quante cose ho veramente perso».

Corona, lettera a Signorini: "Mi hanno ridotto la pena di 4 anni. Quando esco mi riprendo tutto". Fabrizio Corona è ritornato a parlare e, in una lettera indirizzata al direttore del settimanale Chi, Alfonso Signorini, fa sapere che il Gip di Milano si è pronunciato sulla riduzione della pena da 13 anni e 2 mesi, a 9 anni. Corona ha anche parole di speranza, lui non chiederà una pena alternativa, nonostante i termini per presentarla, ma ha deciso di continuare la sua permanenza in carcere promettendo: “un giorno uscirò e mi riprenderò ciò che ho capito di volere veramente”. La lettera - "Ciao direttore - si legge nella missiva - sono passati quasi 14 mesi dal giorno del mio arresto, precisamente 410 giorni, e tante cose sono successe, tante cose sono cambiate, ma una in particolare mi è rimasta in mente e mi ha dato, e mi dà ancora, la forza di andare avanti". Sono le parole di uno dei suoi due avvocati, Gianluca Maris, a dare la forza a Corona."Fabrizio qualsiasi cosa accada resta sempre te stesso, non cambiare mai e soprattutto ricordati sempre che alla fine ciò che è giusto vince". "Affronto i compiti che ho davanti e li porto a compimento uno a uno. Concentro l'attenzione su ogni singolo passo, ma al tempo stesso cerco di avere una visione globale e di guardare lontano. C'è sempre un limite e una linea d'ombra da superare per conoscere se stessi, e spesso per farlo bisogna passare da una disfatta. Per me la disfatta è stato il carcere", scrive ancora Corona. Poi aggiunge: "Ma è anche vero che il carcere mi ha fatto bene, mi ha reso un altro, mi ha fatto superare tutte le mie ossessioni. Sono finalmente riuscito a fermarmi, pensare, riflettere e capire. Oggi ho capito, e quando un giorno uscirò mi riprenderò tutto, ma solo quello che ho capito di volere veramente e per cui vale la pena vivere". Corona non ha fretta di uscire dal carcere, convinto che "la libertà dovrà arrivare quando avrò finito il mio percorso di uomo nuovo, quando potrò essere veramente felice, riuscire a godere delle piccole cose della vita, vivere di amore senza compromessi e doppi fini, essere vero, essere me stesso, costruire per creare e lasciare il segno, non avere più sensi di colpa, guardarmi allo specchio ed essere orgoglioso di me".

Fabrizio Corona: Da re dei paparazzi, a uomo depresso. Questo è quello che scrivono in molti e di cui è stato fatto un servizio a Canale 5 nella trasmissione Verissimo. Gossip, scatti segreti, bad boy, tutte queste parole ormai non fanno più parte della vita di Fabrizio Corona che da dietro le sbarre sta vivendo davvero un incubo, pensando pure che deve scontare circa dieci anni. Dicono che Fabrizio non è più riconoscibile e che passa quasi tutto il suo tempo ad allenarsi in palestra insieme al suo compagno di cella. Tutti lo conoscevamo come una persona spavalda, altezzosa e come un uomo tutto d’un pezzo che nessuno poteva minimamente sfiorare. Ma adesso non è più lui, è cambiato, si dice addirittura che prenda degli psicofarmaci per curare la sua depressione, anche se il suo entourage ha smentito completamente tutto. Fabrizio Corona comunque non sta bene e non vuole quasi vedere nessuno.

Corona si racconta dal carcere: "Ero ossessionato dal successo. Senza la galera, sarei morto". L'ex agente dei Vip: "Il chirurgo mi aiutava a fermare il tempo, le sostanze chimiche mi davano una mano a reggere". E svela: "Mi riempivo di pillole: pillole per allenarmi, per fare l'amore, per dormire", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. "Ho perso la fiducia dei magistrati e la mia credibilità. Anche se il mio non è stato un vero tentativo di evasione. Come si può pensare di fuggire a bordo di una 500 con 300 euro in tasca, rinunciando a tutto, mio figlio, il mio ufficio, la mia famiglia?". Fabrizio Corona sta scontando nel carcere di massima sicurezza di Opera. Dopo l'uscita del libro autobiografico Mea Culpa (Mondadori), l'ex agente dei paparazzi ha deciso di raccontare la prigionia a Vanity Fair. Nell'intervista dal titolo Volevo una vita perfetta, che si trova sul numero da oggi in edicola, si dice cambiato: "Il chirurgo mi aiutava a fermare il tempo, le sostanze chimiche mi davano una mano a reggere". Adesso che ha perso alcuni denti, non sente la mancanza di quella vita consumata sul filo del rasoio. Il sesso, per esempio non gli manca. "Ne ho fatto così tanto prima del mio arresto che quasi avevo la nausea - afferma - quello che mi mancano sono le emozioni".  La lontananza dalle telecamere e dai flash delle macchine fotografiche l'ha reso un uomo più libero. Paradossalmente, si sente più leggero dietro alle sbarre di un carcere di massima sicurezza di quanto non lo fosse prima dell'arresto. "Sono riuscito a fermarmi, ad avere il tempo di riflettere - racconta - non voglio sembrare drammatico, ma se non fossi finito in prigione, sarei potuto morire. Ero ossessionato dal successo, dai soldi. Dovevo avere le donne più belle, il fisico più scolpito, il look più alla moda. Volevo una vita perfetta e avevo il terrore di perdere tutto. E così mi ammazzavo di lavoro, incontri, appuntamenti, palestra. Il chirurgo mi aiutava a fermare il tempo, le sostanze chimiche mi davano una mano a reggere. Mi riempivo di pillole: pillole per allenarmi, per fare l'amore, per dormire". Da quando ha mandato in stampa Mea Culpa, Corona ha sentito che la sua vita ha iniziato a cambiare. "Dopo un anno di carcere mi guardo allo specchio e mi vedo diverso - rivela a Vanity Fair - ho i capelli lunghi e ricci, la barba curata, ho perso molti denti, sono dimagrito, la mia faccia non ha più quel gonfiore chimico". Nell'intervista fiume Corona racconta la vita in carcere e smonta anche qui luoghi comuni sulle molestie sessuali che hanno ormai formato l'immaginario collettivo. "È una farsa da film americani - spiega - la verità è che l’omosessualità è un tabù assoluto. I gay stanno separati dagli altri detenuti, insieme con i pedofili e gli zingari". Nella lunga chiacchierata con Enrica Brocardo, Corona non evita certo di tornare a puntare il dito contro i giudici e il sistema giudiziario. "Lo stesso giudice che mi ha condannato in primo grado a Milano nel processo di Vallettopoli - scrive nel suo libro autobiografico - ha condannato a sette anni Silvio Berlusconi per il Rubygate". Nell'intervista a Vanity Fair ha confermato la stessa condanna: "Trovo le sentenze nei confronti di Berlusconi assurde, come le condanne di Lele Mora e di Nicole Minetti. Lo dico perché quel mondo e le donne che ci ruotavano intorno lo conosco molto bene". E conclude: "Con Berlusconi mi accomuna solo una cosa: entrambi abbiamo esagerato con le accuse nei confronti della magistratura. Difendersi è giusto, ma bisogna sempre rispettare i ruoli e le regole. Altrimenti ne paghi le conseguenze: l’ho imparato molto bene".

Fabrizio Corona sta male, il re dei paparazzi è sotto psicofarmaci, scrive “Oggi”. Trascorre il suo tempo tra la cappella per pregare e la palestra. E si rifiuta di vedere perfino la madre Gabriella. Chiuso nel carcere prima di Busto Arsizio, e poi di Opera, dal 25 gennaio 2013, Corona è un uomo completamente diverso dallo strafottente vip che si esibiva ovunque con i pettorali ben in vista. E si mostrava anche dalle finestre della sua bella casa in Corso Garibaldi, quartiere milionario di Milano. Il suo stato di malessere è tale che l’ex re dei paparazzi prenderebbe psicofarmaci per cercare di tenere sotto controllo la situazione: è quanto emerge dal ritratto di Don Mazzi a Verissimo. Corona è dipinto come un uomo che sta molto male e allo stremo delle sue forze. “E’ molto cambiato, ma non sta bene”. Fabrizio Corona passerebbe, infatti, tutto il suo tempo tra la cappella dove prega e la palestra dove si allena in modo ossessivo per sentirsi alla fine sfinito e non pensare più a nulla. In questo stato di malessere e apatia, si rifiuta di vedere perfino la madre Gabriella a cui ha chiesto di non andare a trovarlo. L’unico che ancora riesce a stabilire un contatto con lui è il fratello Federico. A salvarlo sarà, forse, l’autobiografia che sta scrivendo e che magari riuscirà a fargli tornare l’equilibrio psicofisico. O ancor di più ci riuscirà la possibilità di vedere il figlio Carlos, dato il rapporto turbolento che ha ancora con Nina Moric anche dopo l’accordo per il divorzio. Sembra, infatti, che sia stato trovato un accordo con la Moric, che ha appena rivelato il suo passato shock, mentre Belen è completamente uscita dalla sua vita. Don Mazzi ha anche aggiunto che ritiene la pena che gli è stata comminata assurda e incongrua (sette anni, 10 mesi e 17 giorni):  ”Deve scontare più anni di un terrorista”. Non giustificata neppure dalla sua rocambolesca fuga terminata a Lisbona. Quando per l’ultima volta in modo “aggressivo” dichiarò: “Se qualcuno dice che ho pianto, lo querelo.

E proprio per Fabrizio Corona, il 2 luglio 2013 si è aperto al tribunale di Manduria, sede distaccata di Taranto, il processo a suo carico, chiamato a rispondere di violazione di domicilio della famiglia Scazzi ad Avetrana. L’episodio risale al 26 febbraio del 2011 quando Corona, all'epoca inviato di Mediaset, si introdusse nella casa di Concetta Serrano Spagnolo, la mamma di Sarah Scazzi. Secondo la denuncia di Concetta, Fabrizio Corona si sarebbe introdotto in casa sua, da una porta secondaria, spaventando la donna che, non riconoscendolo, avrebbe chiamato i carabinieri. Corona ha sempre dato una versione diversa dei fatti occorsi, dicendo che aveva avuto una conversazione amichevole di mezz’ora con Concetta. In una trasmissione televisiva, poi, lo stesso Corona chiese scusa a Concetta e spiegò qual era la sua intenzione, ossia, ottenere un’intervista per la quale era disposto a pagare. Nonostante ciò, le accuse non sono cadute. La prima udienza è slittata 17 dicembre 2013 . Il processo è saltato in quanto non c'era prova dell'avvenuta notifica a Corona. Dalla citazione risulta che l'imputato è detenuto nel carcere di Busto Arsizio, mentre in realtà attualmente sta scontando presso il carcere di Opera (a Rozzano, Milano), la condanna definitiva a cinque anni per il reato di estorsione ai danni dell'ex calciatore della Juventus Davide Trezeguet. La causa è stata celebrata al cospetto del giudice monocratico di Manduria Rita Romano, che ha fissato l'udienza del 17 dicembre dinanzi al tribunale di Taranto, citando anche i primi testi: quelli del pm sono la giornalista Filomena Rorro, il suo operatore Dante Crezio, un carabiniere della stazione di Avetrana e la mamma di Sarah. La difesa di Corona ha indicato Claudio Brachino, direttore di Videonews e produttore di programmi Mediaset, il fotografo Luca Bonaduce, il direttore di un’agenzia fotografica, Giuseppe Carriere, e il responsabile informazione di Mediaset, Mauro Crippa. In aula erano presenti Concetta Scazzi e il suo legale, l'avv. Luigi Palmieri. Per Corona si è costituita in giudizio una sostituta processuale dello studio legale Ivano Chiesa e Giuseppe cricchio di Milano. A rappresentarlo a Manduria c’era l’avvocato Dionisio Gigli che con una sua collega di Milano sarà sostituto processuale per conto dello studio legale Ivano Chiesa e Giuseppe cricchio di Milano.

22 dicembre 2013. Sarebbe dovuto essere nella sua casa milanese, in virtù di un provvedimento della magistratura lombarda, scrive “Il Quotidiano di Puglia”. Invece, si trovava a Martina Franca per prendere parte, come ospite, in una discoteca. Così, cinque mesi di arresto sono stati inflitti a Fabrizio Corona, il fotografo noto alle cronache mondane, ed anche a quelle giudiziarie, per una lunga serie di vicende. La condanna di Fabrizio Corona è scattata nei giorni scorsi con sentenza del tribunale di Taranto in composizione monocratica. È stato il dottor Benedetto Ruberto a accogliere la richiesta di condanna formulata dalla procura della Repubblica di Taranto. Corona è stato condannato per la violazione delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Secondo l’accusa, appunto, si era recato - senza alcuna autorizzazione - in una discoteca di Martina Franca. L’episodio era avvenuto il 7 ottobre del 2012 ed era avvenuto in orario notturno, ben oltre la mezzanotte. In quel periodo, però, su Corona incombeva l'obbligo di permanenza in casa, dalle ore 21 alle ore 7. Obbligo che era stato imposto con il decreto applicativo della sorveglianza speciale emesso il 30 maggio precedente dal Tribunale di Milano. La presenza in orario notturno nell’area martinese di Corona non era passata inosservata, tanto che i carabinieri l’avevano registrata e avevano trasmesso la segnalazione alla magistratura tarantina. Ne era nato un procedimento che è stato definito dal tribunale monocratico con la condanna dell’ex marito dell’attrice Nina Moric. Inutile sottolineare che nel processo davanti al tribunale di Taranto Fabrizio Corona compariva in contumacia, poichè non si era presentato, nè aveva prodotto una documentazione che “giustificasse” la sua assenza. È stato invece aggiornato all’udienza del marzo 2014 il processo a carico dello stesso Corona per l’incursione che il fotografo fece all’interno dell’abitazione di Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa in Avetrana. Corona per quell’episodio è accusato di violazione di domicilio. Il fatto risale al 26 febbraio del 2011.

Era stato condannato lo scorso gennaio 2013 a sette anni, dieci mesi e diciassette giorni di carcere per varie colpe di cui la più grave è estorsione aggravata e trattamento illecito dei dati personali, scrive l'Huffington Post. Nel maggio 2006, infatti, aveva chiesto all'ex attaccante della Juventus David Trezeguet 25mila euro per non pubblicare delle fotografie che lo ritraevano in compagnia di una donna. Dopo una breve fuga, durata 6 giorni, Corona si era consegnato alla polizia. Adesso il paparazzo parla del carcere come di un'esperienza formativa, quasi illuminante dopo 7 mesi passati nel penitenziario di Opera a Miilano, lo stesso dove fu mandato Lele Mora. "Cella 1. 1° Reparto. 4° Piano. Sezione B". E' da qui che Corona ha scritto una lettera al programma Verissimo , dove sarà l'ospite (assente) d'onore il prossimo sabato, 23 novembre, su Canale 5. "Io non provo più rabbia né rancore per chi mi ha condannato e inflitto questa pena così eccessiva e così assurda, ma anzi lo ringrazio perché mi ha dato la possibilità di capire tante cose, mi ha aiutato a riconoscere i tanti sbagli, ad ammettere gli errori, a guardarmi dentro, nel profondo della mia anima e capire finalmente, a quasi quarant'anni, chi sono e cosa voglio veramente", scrive il paparazzo e personaggio tv. Non nasconde la durezza della vita in cella soprattutto dopo "la scoperta di una grave malattia", scrive Corona, il carcere è "la realtà dell'inferno in terra, dove colpevoli ed innocenti sono costretti a vivere in condizioni vergognose e disumane nell'indifferenza istituzionale". Ma il paparazzo sembra aver trovato nuova forza. Per grave malattia Corona il disturbo psichiatrico rivelato dalla madre Gabriella, una "depressione monopolare". "Continuo a combattere come ho fatto dal primo giorno che sono entrato in questo nuovo mondo, con questa nuova vita, per dimostrare che nei momenti di difficoltà si deve niente affatto ripiegare le ali, abbassare il tiro, ma anzi, tentare di rilanciarsi lavorando sui propri margini di miglioramento". Parla di "valori veri" Corona, sui cui puntare, come "l'orgoglio ed il coraggio perché alla fine quello che veramente conta (nothing else matters) è il carattere e il cuore che metti nella vita". Di fronte alla disperazione, continua il personaggio della tv, bisogna "rispondere con il sorriso e il dito medio alzato". Vuole essere d'esempio a chi pensa di non farcela, scrive, per non lasciarsi andare: "Io non l'ho mai fatto e mai lo farò!". Chiude la lettera con una dedica alla conduttrice di Verissimo, Silvia Toffanin e alla madre, Gabriella. "Guardandovi seduto dal mio sgabello di legno mezzo rotto, attraverso un minuscolo televisore degli anni Settanta, voglio vedere mia madre sorridere: ha già pianto e sofferto troppo. Un bacio ed un ringraziamento speciale a te, Silvia. Con affetto. Fabrizio Corona". Fabrizio Corona invia una lettera dal carcere di Opera alla trasmissione Verissimo, condotta da Silvia Toffanin. Il quotidiano Libero la pubblica oggi in prima pagina. Il pezzo si intitola: «In carcere sono diventato migliore». Il testo: «A chiunque incontro e mi chiede come sto, rispondo sempre la stessa cosa: «Sto bene, molto bene». Ma risponderei così anche dopo 30 coltellate, sanguinante, in fin di vita. Ho sempre risposto così, a tutti. Penso che dopo la scoperta di una grave malattia, il carcere sia la cosa più brutta che possa accadere ad un uomo. È la realtà dell’inferno in terra, dove colpevoli e innocenti sono costretti a vivere in condizioni vergognose e disumane nell’indifferenza istituzionale. Io però, in questo momento, non provo più rabbia, né rancore per chi mi ha condannato e inflitto questa pena così eccessiva e così assurda, ma anzi lo ringrazio perché mi ha dato la possibilità di capire tante cose, mi ha aiutato a riconoscere i tanti sbagli, ad ammettere gli errori, a guardarmi dentro, nel profondo della mia anima e a capire finalmente, a quasi quarant’anni, chi sono e cosa voglio veramente. Il mio avvocato mi dice sempre: «Sii forte del fatto che ciò che è giusto alla fine vince», e io continuo a combattere come ho fatto dal primo giorno che sono entrato in questo nuovo mondo, con questa nuova vita, per dimostrare che nei momenti di difficoltà si deve niente affatto ripiegare le ali, abbassare il tiro, ma anzi, tentare di rilanciarsi lavorando sui propri margini di miglioramento e sulla riscoperta dei valori veri e dei sentimenti come l’orgoglio e il coraggio, perché alla fine, quello che conta veramente (nothing else matter) è il carattere e il cuore che metti nella tua vita. Bisogna saper rispondere alla disperazione con un sorriso di sfida e il dito medio alzato. E questo, oggi, deve essere d’esempio e di aiuto ai molti che pensano di non farcela e decidono di lasciarsi andare… Io non l’ho fatto e mai lo farò! Stare in prigione in questo paese è come morire lentamente, ma io continuo a vivere lo stesso, di notte, nei miei sogni, anche attraverso i ricordi di quella che è stata la mia incredibile vita: le tante emozioni provate, il grande amore dato e quello ricevuto, convinto, ancora oggi, che i sogni, se li desideri veramente e fai di tutto per raggiungerli, prima o poi diventano realtà. Oggi, chiuso dentro la mia cella, la numero 1 del primo reparto del carcere di massima sicurezza di Opera, guardandovi seduto dal mio sgabello di legno mezzo rotto, attraverso un minuscolo televisore degli anni Settanta, voglio vedere mia madre sorridere: ha già pianto e sofferto troppo. Un bacio e un ringraziamento speciale a te, Silvia. Con affetto».

Certo è di altro tenore quell’altra lettera. Chi è il vero Fabrizio Corona?

Fabrizio Corona, lettera dal carcere. Nella missiva pubblicata dal sito Social Channel l'ex re dei paparazzi non risparmia nessuno e alza la voce anche da dietro le sbarre , scrive Andrea Lallo su “Panorama”. Non ce la fa proprio Fabrizio Corona a stare lontano dai riflettori e, nonostante resti in carcere a Busto Arsizio, fa arrivare il 'Corona pensiero' al mondo tramite il suo sito Social Channel le cui redini ora sono in mano al fratello di Fabrizio, Federico. L'ex agente dei fotografi non si perde una battuta del dibattito mediatico in corso intorno alla sua persona e saltellando da un'emittente all'altra scopre cosa si dice di lui e come se ne parla. Prende, così, carta e penna e scrive una lettera pubblicata in esclusiva dal sito.  E' arrabbiatissimo Corona e sbotta: "La migliore spiegazione delle domande e dello sdegno verso la folla che mi acclamava a Malpensa e verso i numerosissimi fans che mi sostengono sul web sta nella pena che fanno i conduttori, gli ospiti e i contenuti delle loro trasmissioni, in onda su reti totalmente opposte". A questo punto l'ex burattinaio del gossip passa in rassegna giornalisti, conduttori e ospiti delle maggiori trasmissioni tv e ne ha per tutti: che sia Rai, Mediaset e La7 per ognuno Fabrizio ha parole di sdegno. Inizia la disamina dall'Arena di Massimo Giletti e scrive: "Su Rai1, un Giletti con jeans strettissimi, che evidenziano notevolmente le parti intime, si rende protagonista di un chiaro gioco  l massacro che non prevede alcuna possibilità di difesa se non quella del mio avvocato, fin troppo garbato, Nadia Alecci. Quante castronerie – per non dire cazzate – ho dovuto sentire nella mia piccola e fredda cella di Busto Arsizio". Attacca poi il direttore di Oggi Umberto Brindani sostenendo "Mi ha tirato in ballo accusandomi di un reato che non ho mai commesso e per cui infatti sono stato assolto, e non per qualche questione o cavillo giuridico, ma perché la verità era un’altra". "L’unico giornalista serio  - dice poi - è Enrico Mentana, che ha raccontato in diretta i fatti, dimostrando la mia assoluta innocenza". Se la prende persino con le reti Mediaset accusando le trasmissioni di approfondimento di essere poco più che avanspettacolo e chiosa, infine, con una sintesi scrivendo: "Sintesi.

Giletti: Corona, amico mio, devi pagare, sei un criminale. Devi pagare, hai fatto 21 reati e con il denaro hai industrializzato le estorsioni, l’appello di tua madre è ridicolo.

Risposta: vergognati, studia e non fare lo schiavo. Primo, non sono un fotografo, vendo foto, che sono di proprietà dei fotografi. In 7 anni ho fatto 120000 servizi, di cui ne ho venduti ai privati solamente 8. Per 5 di questi casi sono stato assolto, per altri condannato a 1 anno e 5 mesi per tentata estorsione, e nel caso Trezeguet – assolutamente identico a quello Gilardino, per il quale sono stato assolto – sono stato condannato a 5 anni. È stato chiamato un amico di Trezeguet – proprio come nel caso Gilardino – ci siamo incontrati in un bar in cinque, tre loro, io e un amico, e ridendo e scherzando gli ho mostrato i 45 scatti non compromettenti. Le foto non potevo regalarle, perché di proprietà dei fotografi. La cifra di 25000 euro, che il matematico ritiene assurda, era inferiore al valore della richiesta. Gliele ho lasciate, non potevo minacciare di pubblicarle perché non sono un editore; dopo un giorno, ringraziandomi, mi ha detto di volerle comprare, e gli ho fatto una ricevuta. Le modalità sono identiche al caso Gilardino, per il quale sono stato assolto; Per questo caso, invece, sono stato condannato a 5 anni, nonostante non si tratti di estorsione. Senza fare la vittima o il personaggio".

Fabrizio Corona ha tentato il suicidio in carcere? La smentita degli avvocati. Si era parlato delle precarie condizioni di salute dell'ex re dei paparazzi. Ora, il settimanale Oggi ha ricostruito che cosa è successo in quella drammatica notte. E la risposta dei suoi avvocati. Fabrizio Corona ha tentato il suicidio in carcere? O si è trattato solo di un atto dimostrativo? Sono le domande che si pone il settimanale Oggi in edicola, che ricostruisce quanto accaduto nel carcere di Opera la notte del 19 ottobre scorso. Intanto, Federico Corona, fratello di Fabrizio, annuncia una rettifica. La notte del 19 ottobre nel carcere di Opera, Fabrizio Corona avrebbe tentato di soffocarsi coprendosi naso e bocca con dei cerotti. Lo sostiene il settimanale Oggi, che nel numero in edicola ricostruisce attraverso fonti confidenziali un episodio finora coperto dal massimo riserbo, di cui l’ex re dei paparazzi si sarebbe reso protagonista in un momento particolarmente difficile della sua detenzione. Non è chiaro se si sia trattato di un tentato suicidio o di un gesto dimostrativo, ma secondo la ricostruzione del settimanale, avrebbe reso necessario il ricovero di Corona nell’infermeria dell’istituto milanese, per sottoporlo a un trattamento a base di sedativi e per medicargli le ferite provocate dai soccorritori quando gli hanno strappato i cerotti dal volto. L’episodio spiegherebbe così le notizie messe in circolazione a fine ottobre da familiari e amici, secondo cui Corona non riusciva a farsi una ragione di una condanna ritenuta sproporzionata per le sue reali responsabilità, non voleva più incontrare nessuno, era depresso e assumeva psicofarmaci. Dopo esser stato dimesso, Corona non sarebbe più rientrato nella cella che divideva con altri tre detenuti e la direzione del carcere gli avrebbe assegnato una cella dove è solo. Le sue condizioni nell’ultimo mese sarebbero decisamente migliorate e gli avrebbero permesso di avanzare nella stesura di un libro in cui ripercorrere le fasi salienti della propria esistenza. Dopo la pubblicazione della notizia sul settimanale Oggi, ci scrivono gli avvocati: “Egregio Direttore, nella nostra veste di difensori di Fabrizio Corona non possiamo non intervenire a proposito dell’articolo intitolato “Quel gesto disperato del detenuto Corona” apparso sul settimanale Oggi, da Lei diretto in data odierna (n. 49/2013) a pagina 42. Le notizie riportate in tale articolo sono assolutamente non corrispondenti alla verità. Non è vero che Fabrizio Corona abbia posto in essere un “gesto disperato”; non è vero che si sia coperto naso, bocca ecc.. con cerotti di tela; non è vero che sarebbe finito alcuni giorni in infermeria a causa di ciò. Allo stesso modo non corrisponde alla realtà che il trasferimento ad Opera si sarebbe reso necessario per “risparmiargli la ritorsione di altri detenuti a seguito di un suo presunto litigio”: la ragione è tutt’altra, e legata semplicemente alle esigenze dettate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Analogamente non è corrispondente alla realtà che Fabrizio Corona abbia un cattivo rapporto con gli altri detenuti e con gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Opera, né tantomeno che sia venuto alle mani con qualcuno di costoro. Per quanto ci consta è esattamente il contrario. Fabrizio Corona sta fisicamente e moralmente come può stare un detenuto, ossia con i comprensibili disagi che tale situazione comporta, ma senza “gesti disperati” e atteggiamenti aggressivi verso chicchessia. Considerata la situazione giudiziaria complessiva del nostro assistito e la sua condizione detentiva, considerata altresì la sua grande notorietà, La invito a pubblicare la presente per smentire le notizie apparse che hanno arrecato e possono ancora arrecare grave pregiudizio al signor Fabrizio Corona e che hanno inutilmente allarmato tutte le persone che lo conoscono e gli vogliono bene. Con riserva di tutelare gli interessi del nostro assistito nelle competenti sedi giudiziarie. Distinti saluti, Avv.to Ivano Chiesa e Avv.to Gianluca Maris. La famiglia di Fabrizio Corona definisce "infondata" la notizia, riportata dal settimanale e parla, giustamente, di sciacallaggio mediatico, lo stesso di cui, in passato è stato artefice Corona (la ruota gira e quella del mondo dello spettacolo ha gli ingranaggi arrugginiti). Come dire: chi la fa, l’aspetti. In una lettera, letta dal fratello Federico nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, Fabrizio Corona di suo pugno rettifica quanto accaduto: "Non ho mai tentato il suicidio, mai mi è passato per la testa e la sera del 19 ottobre ero beato nel mio letto di acciaio con il materasso di spugna rotto. Nessuno mi ha mai scattato una fotografia, specie in un carcere duro e serio come questo". Al direttore di Oggi, Umberto Brindani, scrive: "Caro Brindani, ti devi vergognare per quello che hai scritto perché ho un figlio di 11 anni che va a scuola, dove i compagni e le maestre parlano e lui non ha colpe. Ha già sofferto troppo e non ne vuole sapere nulla di queste falsità. Ti devi vergognare perché ho una madre che soffre e piange da nove mesi, e non sta bene perché ha perso la persona che amava. Tutte le notti si alza e piange ed così fragile che potrebbe credere a una cazzata come quella che è stata riportata sul tuo giornale". "Tuttora - spiega Corona in un altro passaggio della lettera - non sono in una cella singola, ma sempre con lo stesso detenuto come compagno, un sudamericano. Non ho mai agito con forza, né litigato con nessuno. Ho trovato più verità, dignità e umanità qui che tra tanta gente come te e nel tuo mondo".

Fabrizio Corona, libro – confessione, da Belen a Nina Moric. Dall’amore iniziato, esploso e finito con Belen, al matrimonio naufragato con Nina Moric, al tragico epilogo in una cella del carcere di Opera, a Milano. Sono intense e cariche di emozioni le 258 pagine in cui Fabrizio Corona, con l’aiuto del fratello Federico, si racconta a cuore aperto nel libro “Mea Culpa – Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me”, che uscirà nelle librerie il 14 gennaio 2014 per Mondadori. “Come posso dimenticare la prima volta che ti ho vista? Eravamo a Riccione, era domenica sera e c’era l’inaugurazione di un locale. Nina era l’ospite d’onore. Tu eri appena arrivata in Italia ed eri fidanzata con un giovane pierre (Simone, detto “Patatone”), io ero sposato da più di tre anni ed ero innamorato”. Così Fabrizio racconta il suo primo incontro con uno dei suoi amori più grandi, Belen Rodriguez, con cui ha poi condiviso una storia dal gennaio 2009 all’aprile 2012, nel capitolo del libro a lei dedicato, pubblicato in anteprima da “Chi”. Un retroscena continuo, dove Fabrizio si toglie la maschera per “raccontarsi” e “diventare una persona migliore”, cercando di dare un risvolto positivo alla permanenza nel carcere di Opera, dove vive dallo scorso 21 marzo 2013 per scontare una condanna a oltre 7 anni di carcere. “Se ti avessi incontrato prima, forse oggi non sarei qui dentro”, scrive Fabrizio a Belen, nella lunga lettera che rappresenta solo uno dei capitoli del libro. Un capitolo ricco di retroscena, dove i due personaggi Belen e Corona si incontrano, si innamorano, creano una delle storie più focose e discusse degli ultimi anni, per poi perdersi in vite differenti. Una gravidanza persa, un’altra desiderata invano, scelte di vita difficili , come quando “Ti avevano minacciata di strappare il contratto (con Mediaset, ndr) se non avessi chiuso con me. E tu, sempre più matta, hai mandato a cagare il tuo agente e tutti quanti: avevi scelto ancora la strada dell’amore”. “Molto spesso è più facile rincorrere qualcosa che ammettere a se stessi che non è finita”, conclude Fabrizio, rivolgendosi a Belen. “Ma i ricordi non si possono mai cancellare. E, come vedi, io non li cancello”.  «Quando si decide di vivere una vita spericolata, sempre di corsa, quando si vuole avere tutto e subito, quando si riescono a ottenere facilmente le cose che hai sempre desiderato e la tua preoccupazione è cercare di avere ancora di più, quando sei "drogato" di adrenalina e non riesci ad ascoltare niente e nessuno perché metti te stesso sempre avanti a tutto, quando scegli di sacrificare i tuoi affetti per i successi personali, quando ti ami troppo e ti senti onnipotente e decidi di camminare sempre su un cornicione, prima o poi cadi.» Per anni Fabrizio Corona ha condotto una vita sopra le righe, sprezzante di ogni regola e limite, si è imposto come uno dei protagonisti della cronaca e del gossip, ha suscitato l'ammirazione incondizionata di molti, ma anche l'avversione, persino l'odio, di tanti altri. Oggi, condannato a tredici anni di carcere e recluso dal 25 gennaio 2013, il bad boy si trova a fare i conti con il passato e con l'immagine pubblica che lui stesso si è costruito. Fra tentativi di dare un senso alla condanna e moti di ribellione, fra progetti ambiziosi e momenti di sconforto, emerge una semplice verità: finora il personaggio Corona ha soffocato l'uomo Fabrizio. Così, attraverso lettere a uomini pubblici e amici personali, scritte con la sincerità di chi non ha più nulla da nascondere, e squarci della sua tormentata esperienza dietro le sbarre, Fabrizio getta la maschera e mostra il suo vero volto, i valori, i sentimenti e gli affetti - lavoro, orgoglio, amore, coraggio - che sono parte integrante del suo patrimonio familiare. Corona non è «pentito» o «redento»: semplicemente vuole reinventarsi. Al cuore di questo sforzo c'è il figlio Carlos, qualcuno per cui vale davvero la pena di riconoscere i propri errori. È da qui che Fabrizio Corona vuole ripartire, e Mea culpa ne è la sorprendente e impietosa testimonianza.

Nel libro Fabrizio Corona ricostruisce la sua parabola: dalla scalata alla fama e alla ricchezza, fino alla caduta, ai processi e al carcere. Nella lunga lettera indirizzata a Belen, Corona ripercorre tutta la loro storia d’amore, dal primo incontro in un locale di Riccione: «Tu eri appena arrivata in Italia ed eri fidanzata con un giovane pierre, io ero sposato da più di tre anni ed ero innamorato. Non avrei dovuto notarti e invece sono stato tutta la sera a guardarti»; alla nascita del loro amore «Era una storia improbabile, avevamo troppi problemi, io in particolare ne avevo tanti e grossi». Dalla tante fughe «quante notti d’inverno ho dormito fuori dalla porta di quella casa di ringhiera al freddo, sotto la pioggia, sdraiato sul tappetino, con te che continuavi a guardare dallo spioncino per controllare che fossi ancora lì». Fino alla fine della storia, segnata dalla perdita del figlio che Belen aspettava da Corona e dal successivo tentativo di rinsaldare un amore che andava spegnendosi. Poi l’incontro di Belen con Stefano De Martino, l’uomo che poi lei ha sposato e dal quale ha avuto un figlio. «Belen, se ti avessi incontrato prima, forse oggi non sarei qui dentro. Dopo che abbiamo iniziato a frequentarci la mia vita è completamente cambiata e più passava il tempo, più il diavolo si allontanava da me. La mia immagine non ti ha rovinato, anzi ha contribuito a creare un personaggio incredibile, unico, uno strano mix di bellezza e trasgressione, fama e disobbedienza. Un’altra storia d’amore a metà tra un reality e vita vera, con improvvisi e continui colpi di scena, dove purtroppo, ancora una volta, ero io il regista. Ero all’apice della carriera. Non avevo imparato ancora la lezione, non mi era bastato il fallimento del mio matrimonio e così ho continuato a commettere gli stessi errori, che però hanno contribuito a farti diventare quello che sei oggi». Questo è uno dei passi più toccanti della lunghissima lettera aperta che Fabrizio Corona ha scritto dal carcere alla sua ex compagna Belen Rodriguez. Questa lettera, insieme con molte altre, indirizzate ad amici, ai familiari, alla ex moglie Nina Moric, sono contenute nel libro autobiografico “Mea culpa - Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me” che Fabrizio Corona ha scritto, con l’aiuto del fratello Federico, mentre sta scontando una condanna a 7 anni di carcere. Il settimanale “Chi” pubblica alcune anticipazioni, tra le quali proprio la lettera indirizzata a Belen, del libro (edito da Mondadori) che sarà nelle librerie dal 14 gennaio. Un libro scritto con toni ben diversi da quelli spavaldi e tracotanti usati in passato che, secondo le parole che lo stesso Fabrizio Corona ha scritto nella lettera indirizzata a se stesso, deve servire per "cercare di costruirti le ragioni per essere migliore. Usa questo tempo che hai a disposizione per cambiare, migliorare, per essere felice, per tornare finalmente a essere quello che sei veramente. Riprenditi te stesso!”. Nel libro Fabrizio Corona ricostruisce la sua parabola: dalla scalata alla fama e alla ricchezza, fino alla caduta, ai processi e al carcere. Nella lunga lettera indirizzata a Belen, Corona ripercorre tutta la loro storia d’amore, dal primo incontro in un locale di Riccione: “Tu eri appena arrivata in Italia ed eri fidanzata con un giovane pierre, io ero sposato da più di tre anni ed ero innamorato. Non avrei dovuto notarti e invece sono stato tutta la sera a guardarti”; alla nascita del loro amore “Era una storia improbabile, avevamo troppi problemi, io in particolare ne avevo tanti e grossi”. Dalla tante fughe “quante notti d’inverno ho dormito fuori dalla porta di quella casa di ringhiera al freddo, sotto la pioggia, sdraiato sul tappetino, con te che continuavi a guardare dallo spioncino per controllare che fossi ancora lì”. Fino alla fine della storia, segnata dalla perdita del figlio che Belen aspettava da Corona e dal successivo tentativo di rinsaldare un amore che andava spegnendosi. Poi l’incontro di Belen con Stefano De Martino, l’uomo che poi ha sposato e dal quale ha avuto un figlio. “Così”, scrive Fabrizio Corona “dopo la prima naturale reazione di rabbia, per la prima volta dopo tre anni e mezzo non ti ho più rincorso, perché sapevo che quella luce che dicevi di cercare nei miei occhi non sarebbe più tornata”.

Fabrizio Corona durissimo con Nina Moric: "Ti sei ripetutamente lasciata andare", scrive Silvia Tozzi. Fabrizio Corona nel suo libro appena uscito, che si intitola Mea Culpa, della ex moglie Nina Moric non parla certo bene. Nel libro, la storia è raccontata per intero, il primo incontro, le varie fasi del matrimonio. "Ti volevo più di ogni altra cosa ed ero disposto a tutto. Certo, il nostro rapporto non è mai stato dei più normali fin dall'inizio". Il problema era "la gelosia, la tua più della mia, ci ha divorato. Gli arresti domiciliari nella nostra casa sono stati una tragedia: litigate continue, la tua fuga per gelosia, il tuo tentativo di distruggere le cose belle che facevo", Mette in relazione i loro due personaggi: "Oggi sono convinto che non esiste più 'Fabrizio', c'è solo 'Corona', e che però non esiste più neanche 'Nina'. Ti sei buttata via, hai cancellato per sempre la tua autenticità". Corona tira in ballo loro figlio, Carlos: "Ha pagato le vere conseguenze del nostro rapporto conflittuale. Capire come faccia ad essere così perfetto, così speciale con due genitori come noi, resta un mistero. Sono convinto che qualcuno l'ha mandato per salvarci, entrambi, io e te. Il resto è storia, Nina. Tu non cambierai mai e io ho deciso di dire basta! Avremmo dovuto dirci addio tempo addietro per evitare tutto quello che è successo dopo. Specie la situazione mentale e fisica a cui ti sei ripetutamente lasciata andare". Non le perdona dio aver voluto l'affidamento esclusivo del bambino, le promesse di lei per farglielo vedere, per poi negarglielo. "Ti sei rivelata esattamente per quello che sei, una persona egoista. Guardandoti da fuori, da un luogo di vera sofferenza, mi sono reso conto che non meriti più niente e non ti giustifico più. Sapere che sei stata mia moglie oggi mi fa sentire un fallito". Nina Moric conferma: "Tutto è finito in quel maledetto 2007. Non avevo il coraggio di lasciarti, anche se non c'era più niente. La mattina del tuo arresto hai messo il cappello e, prima di uscire, mi hai detto:'Non mi abbandonare'. Ma eri già abbandonato. Io volevo la famiglia, tu il successo e i soldi". Ma poi offre il rametto d'ulivo: "Lo so, sono una che perde la pazienza e reagisce male. Non ti farò mai mancare l'affetto di Carlos. Non ti porto rancore. Ti auguro di uscire dal carcere e di ritrovare la tua vita". D'altro canto Corona, dice lei, ha le sue colpe. La tradiva, l'ha tradita davvero. "E' stata la goccia finale, l'ultima offesa. Soffrivo da molto tempo per la fine del nostro amore e per la tua situazione giudiziaria. Non ero una persona risolta, avevo tante sfumature nel mio carattere. Cercavo stabilità e un amore infinito, incondizionato. Quando ti ho conosciuto, tredici anni fa, ci ho creduto. E penso che tu abbia raccontato per la prima volta la nostra storia per quel che è stata: una storia importante. Ero all’apice della mia carriera, ma mi mancava l’amore e sei arrivato tu. Non pensavo che fossi attratto dal mio personaggio, ma, dopo pochi mesi, capito che eri entrato in competizione, che non volevi essere il marito di Nina Moric, ma Fabrizio Corona, E ci sei riuscito. Anch’io in Sardegna ero rimasta colpita da te e, quando ci siamo rivisti a Milano, al bar, il tempo si è fermato. Era il 2000, avevo finito lo show in tv con Giorgio Panariello e dovevo andare a Los Angeles e a New York per lavoro. Ti lasciai un numero di telefono sbagliato, non ci siamo visti per due settimane. Allora ho chiamato una nostra amica e le ho detto: Organizza una cena con Fabrizio, digli che c’è una ragazza che lo vorrebbe conoscere, ma non dirgli che sono io. Quando sei entrato al ristorante, è iniziato tutto. Non ti accorgevi della mia sofferenza e inseguivi i tuoi guai. Il giorno del funerale di tuo padre sei andato a lavorare. E' una cosa troppo importante, mi hai detto. Il giorno dopo eri in televisione con Lele Mora a parlare di Woodcock". La storia tra Nina e Corona, insomma, è finita per Vallettopoli. "L'ultima pagina della tua lettera è durissima. Come donna sono stata ferita, forse ci siamo fatti male tutti e due e mi prendo le mie colpe. Ma le mie erano solo ripicche rispetto a quello che ho subito. Quando hai cominciato a vedere Belen vivevamo ancora insieme, sei andato da lei alle Maldive, mentre dovevamo partire per Dubai".

"Mea Culpa" di Corona: il cambiamento dopo un vita sbagliata, scrive Cristiano Sanna. Che ci fa un filosofo e scrittore visionario, appassionato di cultura pop, assieme a chi è considerato il prototipo per eccellenza dell'arrogante tamarro tatuato? Franco Bolelli commenta e scrive la postfazione di Mea Culpa- Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me, libro di Fabrizio Corona edito da Mondadori in uscita il 14 gennaio. Il manager di paparazzi è attualmente nel carcere milanese di Opera, dove sta scontando in via definitiva una condanna a 7 anni, 10 mesi e 17 giorni comprendente l'esito di tre sentenze: condanna a 5 anni per il filone di inchiesta di Torino (foto con ricatto al calciatore David Trezeguet), un anno e cinque mesi per quello di Milano (tentata estorsione nei confronti dei calciatori Francesco Coco e Adriano) e un anno e sei mesi per un altro processo (patteggiamento risalente al 2009 per detenzione e spendita di banconote false e detenzione e ricettazione di una pistola). Mentre i media si concentrano sulla lettera strappalacrime scritta da Corona alla ex compagna Belen Rodriguez e prontamente inclusa nel libro, Bolelli sottolinea quali sarebbero i veri valori aggiunti di questa pubblicazione.

Franco, in Italia va molto di moda combinarne di ogni genere e poi quando arrivano le conseguenze delle proprie azioni fuori legge, correre lesti a inscenare pentimenti, confessarsi, rinchiudersi in monasteri e scrivere versioni fast food di Le mie prigioni. Non la preoccupa essere associato a un'operazione del genere?

"No, per il semplice motivo che il libro è agli antipodi rispetto alle cose elencate nella domanda. Mea Culpa è solo un passo nel percorso di riabilitazione e cambiamento che Fabrizio ha cominciato ad affrontare già prima di mettere per iscritto la storia dei suoi eccessi e della sua caduta".

Come siete finiti a lavorare assieme?

"L'ho incontrato ad un talk show condotto da Cristina Parodi, dove già diceva chiaramente di voler cambiare e allontanarsi da un mondo che considerava morto, cioè quello dello spettacolo molto legato al gossip. Ora Fabrizio chiede scusa alle persone che ha ferito, ammette gli errori e la necessità di svoltare verso un'altra direzione, ma lo fa mettendoci la faccia e direi anche in modo virile, senza scenate melodrammatiche e vesti strappate in diretta".

C'è chi sostiene che la persecuzione legale nei confronti di Corona si sia inasprita quando con i suoi paparazzi ha toccato il potere politico. Leggi: le foto fatte a Silvio Sircana, braccio destro di Romano Prodi, mentre avvicinava un transessuale a Roma. Che ne pensa?

"E' una domanda fatta alla persona sbagliata. Io non riconoscerei un complotto nemmeno avendolo di fronte agli occhi. Di istinto mi verrebbe da rispondere che le due cose sono disgiunte. Purtroppo, invece, so che il momento del crollo definitivo è coinciso proprio con le foto a Sircana".

Il libro ha un suo mercato e venderà bene. Ma al di là dei brani relativi alla storia d'amore e sesso con Belen, ci sono ragioni più interessanti per leggerlo?

"Eccome. Io direi che rimarrà deluso chi cerca il gossip, che è proprio poco. Anche il passaggio su Belen Rodriguez è contenuto in una lettera dolorosa, piena di rimpianto. Mi arrischio a dire di più: questo è un libro sui valori sani. Scritto da uno che ammette di essere stato un pessimo esempio, che si prende le proprie responsabilità, che ha voglia di curarsi di suo figlio e di ristabilire un'etica del lavoro lontana dai colpacci da paparazzo che lo hanno reso famoso qualche anno fa. Poi c'è anche altro: la costruzione del corpo, l'importanza dell'allenamento, ma alla larga dal pettegolezzo becero. Nella mia postfazione sottolineo questi aspetti, assieme alla mia sorpresa di trovarmi a collaborare con Fabrizio. Cosa che mai mi sarei aspettato di fare".

Insomma, uno che campava ricattando Vip con foto compromettenti e sventolava la sua infantile ammirazione per Tony Montana-Al Pacino in Scarface può diventare un esempio positivo?

"Di certo è in una fase di piena reinvenzione personale in cui mette a nudo tutti i suoi errori, definendoli per quello che sono, un mucchio di s....te da cui Corona persona si allontana, avendo il sopravvento sul Corona personaggio pubblico".

Prima di questo libro lei ha scritto Viva tutto!, assieme a Lorenzo Jovanotti Cherubini. Personaggio agli antipodi rispetto a Fabrizio Corona.

"Ma con un interessante tratto in comune: l'abilità di comunicatore, davvero al di fuori del comune".

Spesso Corona, durante interviste e ospitate tv, si commuoveva al ricordo del padre. Potrebbe nascere da lì il misto di rabbia e ribellismo che lo ha portato in carcere?

"Non saprei, la questione è delicata. Fabrizio ha sempre avuto ammirazione verso il padre Vittorio Corona, grande giornalista. Ritiene che sia stato oggetto di ingiustizia e di quel tipo di furbizia malevola che gli ha fatto del male. Per questo, forse, per anni l'atteggiamento di Corona figlio è stato quello di chi va fuori dalle righe e dalle regole per dimostrare di essere il più furbo di tutti. Con i risultati che tutti sappiamo".

·        Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.

Le parole della presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano. La lezione della giudice Di Rosa: “Vi spiego il caso Crespi, da ostaggio di Stato a messaggio di legalità”. Redazione su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. “Vorrei portarvi l’esempio di un’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Milano, in un caso specifico di cui si è molto parlato, ha ritenuto di escludere il pericolo di reiterazione dei reati compiuti, secondo la sentenza, in un contesto di associazione mafiosa. Badate che il caso si riferisce a una persona che nega la commissione dei reati e il Tribunale di Sorveglianza rispetta questa scelta, la ribadisce e la richiama. E allora cosa fa il Tribunale di Sorveglianza? Osserva che il lungo tempo trascorso dal fatto-reato deve essere coniugato ad altri fattori, tra cui l’impegno professionale e umano della persona a difesa della legalità nella lotta alla criminalità, compresa quella mafiosa, con il compimento di opere che sono oggetto di attestati di riconoscimento e perfino divulgate a fini educativi per le future generazioni”.

Sono le parole del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna di Rosa, nel corso del suo intervento al IX Congresso di Nessuno tocchi Caino andato in scena venerdì e sabato scorso nel carcere di Opera a Milano, citando passaggi dell’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza milanese, il 23 giugno scorso, ha accolto, in seguito alla domanda di grazia (parzialmente concessa dal presidente Mattarella), la richiesta di differimento della pena per Ambrogio Crespi dopo la condanna definitiva a 6 anni di reclusione con l’accusa di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore della Giunta Formigoni, per le regionali del 2010, servendosi, secondo i giudici, di conoscenze in ambienti della ‘ndrangheta.

“La persona esaminata – ha sottolineato la presidente di Rosa – ha adoperato la sua arte per promuovere la cultura della legalità, della giustizia, della bellezza e della speranza. Pensate che parole positive, che termini concreti che danno valore a quella persona, a quella persona il cui corpo, purtroppo, secondo quello che si sente discutere come tematica generale, viene usato come ostaggio per dire agli altri ‘guardate non fate così altrimenti finite così’. Quello di trattenere il corpo per fare confessare è un modo di combattere proprio dell’Inquisizione, è un modo proprio degli anni più oscuri della storia d’Italia”.

L'Annuncio termina tra 10s

“Io appartengo allo Stato – ha aggiunto -, svolgo dei compiti istituzionali, ma lo Stato non è questo, non è assolutamente questo, lo Stato ha compiuto centinaia di chilometri di distanza da questo ragionamento. Tornando alla nostra ordinanza, ci dice invece che con il compimento di queste opere per le future generazioni e con l’amore per questa etica condivisa, con l’indirizzare le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute di alto valore culturale, denuncia, impegno civile, strumenti efficaci per la diffusione di messaggi di legalità e di lotta alla criminalità, si porta a ritenere che la grazia, perché, guardate, l’istituto richiesto era il più ampio in assoluto possibile, qui non parliamo di istituti intermedi di benefici penitenziari, parliamo addirittura della grazia, che la grazia, dunque, potrebbe costituire un mezzo, leggo le parole testuali perché non so riepilogarle meglio, un mezzo di riparazione-rimedio alle possibili incoerenze del sistema rispetto al senso di giustizia sostanziale”.

“Questo – ha evidenziato il giudice – è esattamente la traduzione del principio su cui si fonda questo nostro incontro. Il diritto penale che è meglio tradurre in qualcosa di meglio del diritto penale, perché bisogna pensare ad altro, perché bisogna rimediare a quelle ingiustizie che la giustizia può produrre. Qui si legge in un provvedimento firmato dai giudici che le finalità della pena si declinano anche per gli aspetti attinenti la responsabilizzazione del condannato rispetto alle azioni commesse, l’osservazione della sua personalità e la comprensione delle cause sottese al reato per la promozione di un cambiamento sostanziale, non solo comportamentale o formale, in un’ottica sia preventiva che riparativa. In questo senso appaiono certamente fondate, e qui ‘certamente’ è rafforzativo perché vuol dire il tribunale è proprio convinto (…), le osservazioni della difesa in merito alla già esaurita finalità di socializzazione e reinserimento sociale della pena rispetto al condannato. Abbiamo scoperto una persona a cui la pena non faceva più niente, non serviva più anche se doveva ancora farsi degli anni”.

Subito dopo il giudice, applaudito dalla platea del congresso di Nessuno tocchi Caino, ha osservato: “Questo applauso secondo me va a questo provvedimento, a questo modo di sentire, a questo modo di essere, che è esattamente il contrario di quello che dicevamo prima, ti tengo per sempre dentro affinché altri guardino quello che ti succede e di te non me ne importa più nulla. No, lo Stato non fa così. E questo secondo me quel riportare all’ordine naturale delle cose la non violenza, di cui ha detto poco fa Sergio D’Elia, a quel vivere insieme, a quell’unire e non dividere. E un esempio espresso, esplicito di tutto questo, e porta a concludere che è felice, che è mirabile l’esperienza giudiziaria di questo provvedimento e di questa storia, che è una storia che dimostra che la verità non è quella che viene raccontata, è quella che viene vissuta da chi la conosce e ha questi risvolti”. “E questa verità – ha concluso – conferma che su tanti e diversi fronti si può arrivare a sanare il conflitto sociale nato con il reato, e sono fronti che portano l’intelligenza e il cuore a osare, e osando a sperare. E allora concludo questo mio intervento dicendo Spes Contra Spem“.

Migliore: “Da Di Rosa parole fondamentali per le nuove generazioni”

“Ho letto le parole pronunciate alla Assemblea di Nessuno Tocchi Caino dalla Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, sul caso di Ambrogio Crespi. Nel suo intervento, la presidente Di Rosa ha sottolineato la necessità di superare il senso unicamente retributivo della pena e, elevandolo a esempio illuminante, di intendere la grazia, che in molti abbiamo chiesto, per Ambrogio Crespi come un ‘mezzo di riparazione-rimedio alle possibili incoerenze del sistema rispetto al senso di giustizia sostanziale’. Si tratta di parole profonde, che identificano il senso di profonda cultura costituzionale, ma soprattutto che sono di fondamentale importanza per le nuove generazioni”. Così su Facebook Gennaro Migliore, deputato di Italia Viva e componente della Commissione Antimafia. “Siamo tutti chiamati a confrontarci con il senso delle pene – aggiunge – alla luce del dettato costituzionale e dell’esigenza di rendere la nostra società un posto più sicuro. Ambrogio ha rappresentato per molti un sicuro punto di riferimento nella promozione della cultura della legalità e del contrasto alle mafie. La sua vicenda è paradossale e l’errore nel giudizio è certo. Per questo considero le parole della giudice Di Rosa assai significative, capaci di dire, senza alcuna subalternità culturale, che il sistema penale è una infrastruttura istituzionale fondamentale, che bisogna però manutenere costantemente”. “Perciò – conclude – non smetterò mai di lottare per la grazia a Crespi, perché è la cosa giusta da fare per lui, ma anche la cosa giusta per noi è per tutti quelli che credono nella giustizia giusta”.

"Sono tutti uomini, i reclusi che dietro alle sbarre vivono e i poliziotti che ci lavorano". Ariaferma, il film sul rapporto detenuti-agenti. Crespi: “Racconta l’umanità di un modo che ho vissuto”.  Redazione su Il Riformista il 6 Settembre 2021. “Ho visto il trailer e sono rimasto senza parole, io che quel mondo l’ho vissuto. E’ una comunicazione che sta cambiando, quella tra detenuto e poliziotto penitenziario. Il film racconta proprio l’umanità che esiste tra le due parti: un tempo se un detenuto parlava con l’agente penitenziario veniva considerato un traditore, a sua volta il poliziotto è anche psicologo per certi aspetti”. A commentare all’Adnkronos, non senza emozione, il film sul mondo carcerario “Ariaferma” di Leonardo di Costanzo è Ambrogio Crespi, il regista antimafia condannato a sei anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso e oggi libero dopo aver ricevuto la grazia parziale dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “I miei complimenti al regista, riuscito a trasferire l’immagine più vera del carcere – continua – Difficile garantire la funzione educativa a una persona chiusa in gabbia h24, ancora più complicato che in un ambito di simile costrizione non si diventi ancora più cattivi. E, tuttavia, non mi stanco di lottare affinché il carcere sia educativo, non disumano. Io, nella mia condizione di recluso, ho trovato, ho toccato con mano quell’umanità che il film racconta perfettamente. Sono tutti uomini, i reclusi che dietro alle sbarre vivono e i poliziotti che ci lavorano. Diversi, eppure tanto simili. Il regista ha tirato fuori il vero dramma del carcere che quasi mai si riesce a trasferire nella realtà. Complimenti anche al Festival, per aver dato spazio a una pellicola come ‘Ariaferma’ che può essere davvero un qualcosa che può cambiare la sensibilità esterna”.

“Ariaferma” scuote il Festival del Cinema di Venezia: in scena l’assurdità del carcere. Federico Fumagalli su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Fosse vero … Se i prossimi italiani attesi nel concorso principale (in ordine di apparizione, Qui rido io di Mario Martone, Freaks Out di Gabriele Mainetti e America Latina di Damiano e Fabio D’Innocenzo) dovessero fare bella figura al Lido, allora le parole pronunciate dal direttore Alberto Barbera, lo scorso luglio alla presentazione della corrente 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (per una volta, il suo lungo nome scritto per esteso. Anche per dare un’idea della portata), culminerebbero in una totale compiutezza. Barbera — semper laudatur — dixit: il cinema italiano attraversa «un momento di grazia, in cui cineasti affermati si confermano al meglio e altri si definiscono come prospettive per il futuro». Oltre agli scroscianti applausi che hanno accompagnato i primi due titoli nazionali in gara, i bellissimi (e per pregi diversissimi) È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Il buco di Michelangelo Frammartino, l’onore al merito va anche a due dei tre “fuori concorso” visti finora: Ariaferma di Leonardo Di Costanzo e La scuola cattolica di Stefano Mordini. Il terzo è Il bambino nascosto di Roberto Andò, atteso l’11 per la chiusura. Dopo alcuni piccoli e preziosi lavori (L’intervallo, L’intrusa) con Ariaferma Di Costanzo gioca bene la carta, che la produzione gli permette. Per la prima volta insieme, due grandi interpreti napoletani. Silvio Orlando è un ergastolano («Niente di più lontano da me. Ho provato panico a interpretarlo»), Toni Servillo una guardia («affascinante essere un personaggio di decorosissima bontà, che crede nel suo lavoro. Tra responsabilità e compassione»). Oggetto di sceneggiatura è l’esperienza di vita, passata in un carcere prossimo alla dismissione, di due gruppi di distinta umanità. «Penso sia un film sull’assurdità del carcere — commenta il regista —. Abbiamo visitato molti penitenziari. Ovunque abbiamo trovato grande disponibilità a parlare, a raccontarsi. Fra agenti, direzione e detenuti, era facile si venisse a creare uno strano clima di convivialità, durante i nostri incontri. Poi, ognuno rientrava nel proprio ruolo. Quando gli uomini in divisa riaccompagnavano gli altri in cella». Ambrogio Crespi, il regista condannato a sei anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso, oggi libero dopo avere ricevuto la grazia dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, offre al film un suo giudizio. Che gli conferisce un mai banale — in un’opera di finzione e per giunta d’autore — attestato di veridicità. «Io che in carcere ci sono stato — spiega Crespi —, ritrovo nel film le stesse luci, gli stessi colori. Mi è venuta la pelle d’oca». Altro capolavoro, tecnico e artistico, dell’autore della fotografia Luca Bigazzi. «Gli interpreti — continua Crespi — sono pazzeschi. In carcere il rapporto umano esiste, anche tra detenuti e guardie». Con La scuola cattolica, Stefano Mordini sintetizza abilmente in due ore scarse e di buon ritmo, le oltre 1200 pagine dell’omonimo romanzo di Edoardo Albinati, Premio Strega nel 2016. Il regista semplifica ma non banalizza, la materia incandescente del libro. Le vite di giovani e ricchi borghesi, si intrecciano con il delitto del Circeo. Cronaca nerissima, datata 1975. «Volevamo spostarci verso i giorni nostri. Perciò, non abbiamo mostrato il conflitto politico dell’epoca», commenta Mordini. Ma gli aguzzini Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo, nel film «si muovono da fascisti, prendendosi spazi inaccettabili di violenza». Il cast è immenso. Impiega i volti noti (Cervi, Gifuni, Golino, Scamarcio, Trinca) a piccolissime dosi e lascia ampio spazio alle nuove leve. Racconta Valeria Golino: «Vedi giovani di talento e ti chiedi: ma chi è? Da dove esce questo?». Benedetta Porcaroli interpreta Donatella Colasanti, sopravvissuta al massacro in cui ha perso la vita Rosaria Lopez (Federica Torchetti, nel film). «Da subito ho provato empatia, con la luce e la purezza di queste due ragazze — ricorda Porcaroli —. C’era bisogno di un film così, per affrontare un tema tanto complesso». Si tace poi, sulle tante produzioni italiane presenti nelle sezioni collaterali. Ma solo perché, non si può vedere tutto. Comunque, una menzione a Il paradiso del pavone di Laura Bispuri (in gara a Orizzonti). L’autrice gira una storia famigliare con mano riconoscibile e dirige bene i suoi attori e le sue attrici (Rohrwacher, Sanda, Sansa). Ecce Leone d’oro (?). Capita sempre, durante il festival, al buio di una sala, di avere la sensazione di vedere scorrere le immagini del film destinato al premio più prestigioso. A volte, spesso, la sensazione è sbagliata. Comunque andrà a finire, quando sabato la giuria presieduta dal regista Bong Joon-ho emetterà i suoi verdetti, L’envement della regista francese Audrey Diwan — passato ieri nel concorso principale — è un film bello, coraggioso, orgogliosamente disinibito. Duro? Certo. Ma non poteva essere altrimenti, per mostrare la disgraziata vicenda, personale e sociale, di una ragazza che nella Francia del 1963, si ritrova incinta e senza la possibilità di abortire legalmente. Provare a farlo, significava rischiare la galera. O addirittura perdere la vita, a causa delle eventuali complicazioni di una operazione rischiosa e sotterranea, fuori dal circuito ospedaliero. Tenere il bambino, avrebbe comportato una forzata rinuncia agli studi universitari, dunque al sogno di un futuro migliore. Tratto dal romanzo autobiografico L’evento di Annie Ernaux, l’opera seconda di Diwan ha un piglio sincero e raro, nell’affrontare i dolori. Rispetto al singolare (Il dolore) Marguerite Duras, Ernaux è costretta a combatterne le molteplici forme: la decisione di non tenere il bambino, l’emarginazione sociale, la fisicità messa alla prova, il futuro a rischio, il presente distrutto. La 22enne franco romena Anamaria Vartolomei, protagonista, è uno spettacolo. Tematiche simili, negli anni hanno già portato ottimi film ai maggiori trofei. Il maestro inglese Mike Leigh, trionfatore a Venezia con l’autorale Il segreto di Vera Drake nel 2004. Il parigrado maestro romeno Christian Mungi, Palma d’oro a Cannes nel 2007 con l’iperrealista 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Altro merito della Diwan è di essere riuscita a ripristinare per immagini, la raffinatezza narrativa propria di Ernaux. In un evidente e proficuo scambio di sensibilità femminili. Ieri in gara si è visto anche, dal Venezuela, La caja di Lorenzo Vigas. Il titolo spagnolo rimanda alla scatola, che conterrebbe le ceneri del padre di un ragazzino orfano, puro di cuore e nelle intenzioni. L’incontro con un uomo, molto somigliante al genitore defunto, spingerà il giovane verso una pericolosa deriva. Il dickensiano Oliver Twist, contemporaneo e sudamericano, parte da un ottimo spunto di scrittura. Poi si accomoda su un neorealismo piatto e prevedibile. Vigas, l’unico dei registi in concorso a potere nuovamente rivincere il Leone (già aveva conquistato Venezia nel 2015, con Ti guardo) non pare destinato al bis. Oggi, Martone con Qui rido io (titolo internazionale The King of Laughter, dove il re della risata è Toni Servillo nei panni di Eduardo Scarpetta) apre il forcing italiano, per il finale di Mostra. Domani Freaks Out di Mainetti. Giovedì America Latina dei D’Innocenzo. La gioia sarebbe per una conferma, di positivissima tendenza del cinema nostro. Non vuole essere da meno la filmografia dell’ex blocco sovietico. Oggi, l’Ucraina di Vidblysk anticipa i titoli da Russia e Polonia. E poiché i festival non sono “giochi senza frontiere”, speriamo siano belli. Anzi, bellissimi. Federico Fumagalli

Sarà affidato ai servizi sociali. Ambrogio Crespi è libero, Mattarella dà la grazia parziale al regista anti mafia. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Ambrogio Crespi è definitivamente libero dal carcere. Lo ha stabilito il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha firmato – ai sensi di quanto previsto dall’art. 87 comma 11 della Costituzione – due decreti con i quali è stata concessa grazia parziale. Insieme a lui, Mattarella ha graziato anche Francesca Piccilli. Ambrogio Luca Crespi, condannato a sei anni di reclusione per il delitto di concorso in associazione di tipo mafioso, per fatti commessi dal 2010 al 2012, per il quale è stata disposta una riduzione della pena di un anno e due mesi, sarà affidato ai servizi sociali, non essendo la pena superiore a quattro anni di reclusione, limite che consente al Tribunale di sorveglianza l’applicabilità dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 dell’ordinamento penitenziario). La decisione tiene conto del parere formulato dalla Ministra della Giustizia a conclusione della prescritta istruttoria. Insieme a Crespi ottiene la grazia parziale anche Francesca Picilli, condannata a dieci anni e sei mesi di reclusione per il delitto di omicidio preterintenzionale commesso nel 2012, per la quale è stata disposta una riduzione della pena di quattro anni. “Nel valutare le domande di grazia presentate in favore degli interessati, il Presidente della Repubblica ha tenuto conto del positivo comportamento tenuto dai condannati durante la detenzione – si legge nella nota – e della circostanza che il percorso di rieducazione sino ad ora compiuto dai predetti potrebbe utilmente proseguire, qualora la competente Autorità giudiziaria ne ravvisasse i presupposti, con l’applicazione di misure alternative al carcere”. Crespi era stato scarcerato il 23 giugno scorso. “Nei lunghi anni trascorsi dal fatto oggetto della condanna, ad oggi Crespi Ambrogio non solo ha condotto la sua esistenza nei binari della legalità, in una dimensione … che non ha registrato ombre, ma ha indirizzato le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute come di alto valore culturale di denuncia sociale e impegno civile, ed efficaci strumenti di diffusione di messaggi di legalità e di lotta alla criminalità. Proprio questo impegno, che lo ha portato via via ad essere identificato come esempio positivo dal pubblico delle sue opere e da chi gli ha conferito vari riconoscimenti, appare come elemento eccezionale nella valutazione delle ripercussioni di una pena detentiva applicata a distanza di molti anni per un reato riconducibile proprio alla criminalità organizzata”. Questo è quanto scrissero i magistrati nell’accogliere la richiesta del differimento della pena, che sarebbe scaduto il 9 settembre, a sei mesi dall’irrevocabilità della sentenza. A distanza di una decina di anni dal fatto, pur senza aver mai smesso di rivendicare la sua innocenza, Crespi accettava la decisione definitiva e l’11 marzo scorso si costituiva nel carcere di Opera. Dello “stile di comportamento tale da apparire certamente al di fuori del contesto detentivo” scrive la relazione dell’istituto penitenziario; l’assenza di collegamenti con la criminalità è l’esito delle rituali note delle direzioni nazionale e distrettuale antimafia. “Sono felicissimo, è un giorno magico, la giustizia giusta esiste”, disse appena uscito dal carcere a giugno. Crespi si era costituito al carcere di Opera lo scorso 11 marzo dopo che la Cassazione aveva confermato la sentenza di appello che lo condannava alla reclusione per concorso esterno dell’associazione mafiosa ‘ndrangheta. Il regista conosceva bene quell’istituto di pena: vi aveva scontato già 200 giorni di carcerazione preventiva, di cui 65 in isolamento, e vi era tornato da uomo libero per girare il docu-film “Spes contra Spem – Liberi dentro”. Prima di entrare in carcere disse: “Ero venuto qui per combattere la mafia e ora ci torno da mafioso. Tutto questo è paradossale”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il comunicato del Quirinale. Mattarella e la grazia ad Ambrogio Crespi, ogni tanto la giustizia c’è…Redazione su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha concesso due grazie parziali ad Ambrogio Luca Crespi e a Francesca Picilli. Lo rende noto il Quirinale in un comunicato. «Il Presidente della Repubblica – spiega il Quirinale – ha firmato, ai sensi di quanto previsto dall’art. 87 comma 11 della Costituzione, due decreti con i quali è stata concessa grazia parziale. Le decisioni tengono conto del parere formulato dalla Ministra della Giustizia a conclusione della prescritta istruttoria». «In particolare, i condannati nei cui confronti è intervenuta la grazia parziale sono: Ambrogio Luca Crespi, condannato a sei anni di reclusione per il delitto di concorso in associazione di tipo mafioso, per fatti commessi dal 2010 al 2012, per il quale è stata disposta una riduzione della pena di un anno e due mesi; Francesca Picilli, condannata a dieci anni e sei mesi di reclusione per il delitto di omicidio preterintenzionale commesso nel 2012, per la quale è stata disposta una riduzione della pena di quattro anni». «Per effetto dei provvedimenti del Capo dello Stato agli interessati rimarrà da espiare una pena non superiore a quattro anni di reclusione, limite che consente al Tribunale di sorveglianza l’applicabilità dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 dell’ordinamento penitenziario)». «Nel valutare le domande di grazia presentate in favore degli interessati, il presidente della Repubblica – conclude il comunicato – ha tenuto conto del positivo comportamento tenuto dai condannati durante la detenzione e della circostanza che il percorso di rieducazione sino ad ora compiuto dai predetti potrebbe utilmente proseguire – qualora la competente Autorità giudiziaria ne ravvisasse i presupposti – con l’applicazione di misure alternative al carcere».

Il regista pensa al futuro. Intervista ad Ambrogio Crespi: “Grazie Mattarella, lotterò per un verdetto di innocenza”. Angela Stella su Il Riformista il 4 Settembre 2021. Il giorno dopo aver ricevuto la grazia, seppur parziale, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il parere positivo del Ministero della Giustizia, Ambrogio Crespi pensa a riscrivere nuovamente il suo futuro. Se non fosse arrivato l’atto di clemenza, il 9 settembre, dopo quattro mesi di differimento pena, sarebbe dovuto ritornare nel carcere milanese di Opera e lì sarebbe restato per circa 6 anni, essendo stato condannato per concorso esterno dell’associazione mafiosa ‘ndrangheta. Adesso, invece, davanti a lui ci saranno i servizi sociali (da definire ancora con gli avvocati e il tribunale di sorveglianza), ma soprattutto la sua battaglia per la revisione del processo. Da sempre si è detto, infatti, innocente. Ai figli, che non sanno nulla della sua vicenda, ha raccontato che andrà a Milano a trasformare le persone in agenti segreti, visto che i mesi già trascorsi in carcere li aveva giustificati come una missione segreta. Regista e autore dentro e fuori le mura di casa, insomma. Accanto a lui in questa battaglia gli avvocati Marcello Elia, Andrea Nicolosi, Simona Giannetti e l’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino.

Cosa ha provato alla notizia della grazia, anche se parziale?

È stata una grande emozione, non sapevo quali fossero le conseguenze di questo provvedimento. Poi quando con gli avvocati e con il comitato di Nessuno Tocchi Caino abbiamo analizzato la questione ho capito che non sarei più entrato in carcere e questo è stato per me un momento di liberazione assoluta da un grande senso di angoscia. E soprattutto ho guardato con gioia i miei bambini che in questi ultimi giorni hanno vissuto un grande stress.

Si aspettava questo risultato, tenendo conto anche del reato per cui lei è stato condannato e il fatto che il Presidente Mattarella ha perso un fratello per colpa della mafia e che non ha concesso molte grazie durante il suo mandato?

Ringrazio profondamente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella perché so quanto sia stato difficile concedere questa grazia soprattutto perché è una vittima di mafia. Ringrazio anche il Ministro della Giustizia Marta Cartabia e il Tribunale di sorveglianza di Milano che mi ha concesso a giugno il differimento pena scrivendo di me cose straordinarie. Dispiace essere dovuto ricorrere alla grazia, non sarei mai dovuto essere condannato per un reato mai commesso. Come dico sempre e come ho dimostrato, rispetto la sentenza ma non la condivido.

Che significato dare a questo gesto?

Ha un significato molto forte. Il Presidente della Repubblica ha dato una linea da seguire ed è stata una scelta coraggiosa, soprattutto in un periodo di profonda crisi della giustizia e della magistratura. Un gesto che racchiude una grande forza, un messaggio importante per me, la mia storia e per il senso della pena.

Cosa la aspetta ora?

Ora inizierò un nuovo progetto con la società per la quale lavoro: a Milano inizierò le riprese del docufilm “Spes Contra Spem 2” in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino. Nel futuro ci sarà sempre la necessità di diffondere il verbo della legalità e della speranza, anche nei luoghi bui come il carcere. Io sono la prova vivente che si deve avere speranza ma soprattutto essere speranza, come diceva Marco Pannella. Inoltre dobbiamo, attraverso la cultura, far comprendere alle giovani generazioni quanto sia pericoloso avvicinarsi alla criminalità organizzata, alle mafie e a tutto ciò che è illegale. La cultura può salvare la vita ed è su quella che dobbiamo investire. Intanto l’8 settembre sarò alla Mostra del Cinema di Venezia con il Docufilm “Le 7 giornate di Bergamo” prodotto da Psc Proger di Marco Lombardi, che mi ha dato la possibilità di lavorare come autore nei mesi in cui ero in carcere per contribuire allo sviluppo della sceneggiatura del film che vede la regia di Simona Ventura. È stato molto importante per me perché mi ha dato uno spiraglio di luce in un viaggio così buio, permettendomi di continuare a sviluppare la mia arte, anche in questa occasione.

Qual è, se c’è, la prossima battaglia giudiziaria?

Ci sarà assolutamente una prossima importantissima battaglia giudiziaria. Ora ci prepariamo per la revisione del processo e per la Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Ci sarà un giudice a Berlino che finalmente sentenzierà la mia innocenza. Angela Stella

La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano. Sentenza su Crespi è una pagina perfetta di diritto costituzionale. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 26 Giugno 2021.

1. Bene ha fatto questo giornale (Il Riformista, 24 giugno) a mettere in giusta evidenza il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso al regista Ambrogio Crespi il provvisorio differimento dell’esecuzione della pena. E non solo perché si tratta di una vicenda giudiziaria quantomeno controversa. Crespi è stato condannato nel marzo scorso in via definitiva per il volatile reato di concorso esterno in scambio elettorale-politico mafioso. Da libero (perché scarcerato nel 2013 per assenza di esigenze cautelari), si è costituito spontaneamente in carcere per scontare una pena a 6 anni di detenzione, vissuta come iniqua sulla base di un’innocenza sempre rivendicata in giudizio. I molti aspetti opachi dell’intera vicenda processuale (passata al setaccio nel libro di Marco Del Freo, Il caso Crespi), unitamente alla biografia del condannato che è l’antitesi del reato attribuitogli, hanno alimentato consapevoli e allarmate preoccupazioni. Per impulso di Nessuno Tocchi Caino – affidabile sensore nel riconoscere casi di malagiustizia – è nato un apposito comitato per «raccontare una storia diversa: quella della certezza del diritto, della speranza e della nonviolenza», facendo «parlare i fatti, le carte del processo, che si incaricheranno di gridare l’innocenza» di Crespi. Sul piano giuridico, l’azione del comitato mira alla grazia presidenziale o, in subordine, alla revisione del processo, anche attraverso il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’obiettivo finale è la rimozione di «una pena – che ai sensi della Costituzione dovrebbe essere volta alla riabilitazione – nei confronti di una persona come Ambrogio che ha riabilitato persone e non richiede di essere riabilitata», come ha scritto il Presidente del comitato, Andrea Nicolosi (Il Riformista, 26 marzo).

2. La decisione dei giudici milanesi va ben oltre il caso Crespi. Ha certo il merito di rimettere transitoriamente sui giusti binari un convoglio deragliato. Ma – per spessore argomentativo – assume il valore esemplare di un atto di giustizia, giusta perché costituzionalmente orientata. Il provvedimento si muove entro un perimetro preciso. C’è una domanda di grazia, presentata dalla moglie di Crespi. Il codice penale prevede, in questi casi, la possibilità di differire l’esecuzione della pena per non più di 6 mesi da quando la condanna è divenuta irrevocabile, a evitare l’inutile restrizione in carcere di un condannato che potrebbe beneficiare della clemenza presidenziale. Il tribunale di sorveglianza è chiamato, per questo, a formulare una prognosi sulla «non manifesta infondatezza» delle ragioni addotte a supporto della grazia, al fine di decidere sul differimento facoltativo della pena. Entro questi limiti di oggetto, i giudici milanesi scrivono una pagina da manuale di diritto penale costituzionale.

3. Ciò è vero, innanzitutto, per l’interpretazione dello scopo della pena che – costituzionalmente – deve tendere alla rieducazione del condannato. Originariamente equivocata (perché intesa quale emenda interiore). A lungo marginalizzata a vantaggio di altre funzioni della pena (dissuasione, prevenzione, difesa sociale). Poi circoscritta alla sola fase terminale della vicenda punitiva (cioè l’esecuzione penitenziaria). Oggi, grazie a una consolidata giurisprudenza costituzionale, il primato della pena quale trattamento risocializzante a struttura emancipante è assunto a «punto cardine» dell’intera vicenda punitiva, «da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sent. n. 313/1990). Il suo espresso riconoscimento testuale fonda «il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» (sent. n. 149/2018): dunque, nemmeno la sua natura intrinsecamente retributiva può azzerarne lo scopo dichiarato in Costituzione. Di ciò il tribunale di sorveglianza mostra piena consapevolezza. In linea con le osservazioni della difesa di Crespi, riconosce «già esaurita [la] finalità di risocializzazione e reinserimento sociale della pena rispetto al condannato». Lo attesta la sua vita successiva all’avvenuta scarcerazione nel 2013, caratterizzata da un impegno professionale e umano «profuso nella difesa della legalità e anche nella lotta alla criminalità, ivi compresa quella mafiosa». Ne è prova la sua produzione cinematografica, pluripremiata e riconosciuta quale efficace vettore educativo per le nuove generazioni. Tutto ciò – scrivono i giudici – «appare un elemento che può delinearsi come “eccezionale” nella valutazione del soggetto e delle ripercussioni di una pena detentiva applicata a distanza di molti anni, proprio per un reato riconducibile alla criminalità mafiosa». L’uomo che dovrebbe scontare la sua pena è oramai l’opposto dell’uomo del reato. Non si tratta di un giudizio prognostico condotto con lo psicoscopio: il giudice non è un palombaro dell’anima. Semmai, è chiamato a capitalizzare fatti concludenti esteriori che attestano un avvenuto reinserimento sociale, secondo una corretta visione secolarizzata del finalismo penale, aliena da ogni forma di emenda morale o di conversione interiore.

4. Evitare l’incompatibilità tra la situazione specifica di un singolo condannato e i principi costituzionali di rieducazione e umanizzazione della pena: a questo serve la grazia. La sua titolarità presidenziale, il suo procedimento, i relativi meccanismi di controllo sono stati tracciati dalla Corte costituzionale – nella sent. n. 200/2006 – proprio a partire da questo vincolo di scopo. Come sostiene la difesa di Crespi, l’atto di clemenza è «mezzo di riparazione in senso equitativo e di rimedio alle possibili incoerenze del sistema» quando, dandosi applicazione a una condanna ritualmente disposta, la pena «si tradurrebbe in una illegittima duplicazione del percorso di riabilitazione e in un trattamento inumano e degradante». Sono osservazioni che il Tribunale di sorveglianza condivide, ritenendole pertinenti al caso di Ambrogio Crespi: difficile è «conciliare il condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di ieri […] con l’uomo di oggi»; comprensibile è «il conseguente disorientamento che anche pubblicamente ha generato la sua incarcerazione». E tutto ciò conferma la plausibilità della richiesta di clemenza individuale. Qui, interlocutore privilegiato del provvedimento è il Quirinale. Crespi resterà libero fino al 9 settembre 2021. Se entro quella data non interverrà la grazia presidenziale, dovrà rientrare in carcere a scontare una pena oramai priva della sua finalità costituzionalmente necessaria. In passato, le grazie si contavano a migliaia: è una bulimia clemenziale che la sent. n. 200/2006 ha censurato, in ragione della straordinarietà del potere presidenziale, da esercitarsi con misura. Ma la misura non è necessariamente quella del contagocce. Ad oggi, il Presidente Mattarella ne ha concesse solo 26: c’è dunque un ampio margine per l’esercizio di un potere di clemenza altrimenti quiescente e irrilevante. Il caso Crespi gliene offre l’opportunità.

5. La vicenda in esame, infine, chiama in causa anche il regime ostativo penitenziario: il reato per cui è stato condannato, infatti, è incluso nella blacklist dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e Crespi – professandosi innocente – non ha mai collaborato utilmente con la giustizia, benché secondo le autorità investigative potrebbe ancora fornire un supporto conoscitivo utile. Tecnicamente, ciò non preclude né pregiudica l’esito della domanda di grazia, né rileva ai fini del differimento della pena. E tuttavia il provvedimento del tribunale di sorveglianza di Milano contiene utili elementi di riflessione su come valutare il silenzio dell’imputato prima, del reo poi. Nel caso specifico, si prefigura la ricorrenza dell’ipotesi di una collaborazione impossibile, per la non organicità di Crespi al sodalizio criminale e perché i comportamenti a lui addebitati sono stati interamente accertati. Più in generale, dalla sua condotta complessiva possono inferirsi «elementi positivi attestanti una intervenuta dissociazione dai contesti criminali al quale si ascrive il reato», tale da ritenere «l’insussistenza nell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata ed escludere la possibilità di un loro ripristino». L’osservazione del condannato durante il periodo di detenzione, unitamente a quanto riferito dalle Direzioni Antimafia, nazionale e distrettuale, e dalla Questura, ne confermano l’assenza di pericolosità sociale. Anche qui il caso Crespi mostra tutta la sua esemplarità, confermando quanto la Corte costituzionale ripete – all’unisono con la Corte di Strasburgo – a un legislatore malato di ipoacusia: ci può essere ravvedimento senza collaborazione, e il silenzio non necessariamente è sempre omertoso. È quanto invece esclude a priori la presunzione assoluta che regge il regime ostativo. Così però il principio per cui nessuno può essere costretto ad accusarsi (nemo tenetur se detegere) non solo si capovolge nel suo opposto (carceratus tenetur alios detegere), «ma rischia di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati» (sent. n. 253/2019).

6. Grazie al provvedimento del tribunale di sorveglianza di Milano, impariamo così che è l’art. 27, comma 3, Cost. a imporre una individualizzazione della punizione finanche al punto di rinunciare alla sua esecuzione, laddove ne ricorrano le condizioni e l’ordinamento preveda istituti a ciò finalizzati (liberazione condizionale, il differimento della pena, la sua estinzione totale o parziale per grazia ricevuta). È una lettura da suggerire ai troppi che, in nome di una fraintesa certezza della pena, invocano una reclusione fino all’ultimo giorno dentro una cella di cui andrebbe buttata via la chiave. Scoprirebbero così che la teologia della maledizione perenne, del «fine pena mai», del «devi marcire in galera», è straniera al disegno costituzionale dei delitti e delle pene. Andrea Pugiotto

Al centro il processo di rieducazione e di cambiamento. Caso Crespi, rivoluzione del Tribunale di sorveglianza: “Il carcere non serve a punire”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Giugno 2021. Non vorrei mettere in difficoltà la Presidente Rosanna Calzolari e le tre colleghe (Benedetta Rossi, Letizia Marazzi, Benedetta Faraglia) del Tribunale di sorveglianza di Milano che hanno concesso il differimento della pena a Ambrogio Crespi. Non vorrei che queste giudici si sentissero tirate per la giacchetta se dico che la loro ordinanza, che recepisce largamente gli argomenti di un’altra donna, l’avvocato difensore di Crespi, Simona Giannetti, mette al centro della funzione della pena non la vendetta e la punizione, ma il processo di rieducazione e di cambiamento del condannato. E in un certo senso dimostra anche la scarsa utilità del carcere per il reinserimento nella società e per la ricucitura dello strappo attuato con la trasgressione, con il reato. Una rivoluzione copernicana. Si può dire? Nel caso di Ambrogio Crespi poi c’era ben poco da rimediare, non avendo lui commesso il reato di concorso esterno in associazione mafiosa per il quale è stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione. Il regista aveva semplicemente partecipato a una campagna elettorale della Regione Lombardia a sostegno del consigliere Domenico Zambetti, poi eletto e nominato assessore. Ricerca di preferenze (ma quando si deciderà il Parlamento ad abolirle?) nel modo tradizionale di tutti i partiti. Con qualche frequentazione di troppo, cosa che tra l’altro, oltre a danneggiare Crespi, rovinerà completamente la vita di Zambetti, portandolo a pesanti crisi esistenziali, e determinerà anche la caduta dell’ultima Giunta Formigoni. Con le mafie e con i boss nessuno dei due accusati e ora condannati aveva niente a che fare. Ma i concorsi esterni non si negano a nessuno, e la storia di Ambrogio Crespi è talmente esemplare e simbolica dell’irrazionalità paranoica dell’amministrazione della giustizia, che andrebbe raccontata e spiegata nelle scuole. Non è stato il carcere ad aver rieducato Ambrogio Crespi, ma è suo il merito di aver “usato” la prigionia e l’ingiustizia per diventare maestro di Stato di diritto e di lotta alla mafia con la cultura e con le regole. Tutta la sua attività di artista e di vero divulgatore della cultura della legalità, come ricordato nell’ordinanza, ne ha fatto una persona addirittura incompatibile con lo stato di detenzione. Del resto la sua custodia cautelare non è durata a lungo, e il gip lo aveva scarcerato su richiesta dello stesso pm. Ma ancora permangono nei suoi confronti molti sospetti, determinati dal fatto di essersi lui sempre dichiarato non colpevole del reato che gli viene attribuito. Retropensieri che sempre riguardano chi non si assoggetta alla forza dello Stato che, se ti ha catturato, ti vuole, quasi per necessità, colpevole e genuflesso, meglio se “pentito”, cioè reo confesso e delatore.

Grazia per Ambrogio Crespi, il Capitano Ultimo: “Ha combattuto le mafie con film coraggiosi, che senso ha rieducarlo?”

Nel caso di Crespi lo si deduce in modo evidente dalle stesse relazioni della Direzione nazionale antimafia, della Dda di Milano e della Divisione Anticrimine della Questura di Milano. Pareri necessari (anche se non vincolanti, in teoria) dopo il decreto di un anno fa arrivato a correggere la circolare umanitaria (oltre che sensata) del Presidente del Dap Francesco Basentini, poi costretto alle dimissioni da una furibonda campagna mediatica contro “le scarcerazioni dei boss”. Che erano stati solo cinque, in realtà, e avevano semplicemente goduto per un breve periodo, in quanto anziani e malati, proprio del differimento della pena. E le giudici del tribunale di sorveglianza di Milano che si erano pronunciate su quei casi, insultate da quelli del “buttiamo la chiave”, erano state costrette a ricorrere al Csm con una pratica di autotutela. Ambrogio Crespi non solo in tutti questi anni, a partire dal 2013 quando è stato scarcerato fino a quando si è costituito, l’11 marzo scorso, dopo la sentenza definitiva della Cassazione, ha mantenuto il comportamento di un bravo cittadino che lavora ed è attaccato alla famiglia, ma ha fatto molto di più, con la sua attività culturale si è addirittura sostituito a quel mancato educatore che è il carcere. L’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Milano elenca le sue opere, i successi, i premi. I pareri delle istituzioni “antimafia” e della stessa questura di Milano sono positivi: non risulta che in tutti questi anni vissuti da uomo libero il regista milanese abbia mai avuto cattive frequentazioni o sia stato in qualche modo contiguo a organizzazioni mafiose. Però. L’elenco dei “però”, assunti anche dalla giudice di sorveglianza che per prima ha esaminato e poi respinto la richiesta di differimento pena, è lì a dimostrare la strettoia culturale che passa dal “fine colpa mai” fino ad arrivare al “fine pena mai”. Scrive la Dna il 21 marzo scorso che Crespi “non ha collaborato in nessun modo con la giustizia” e che “potrebbe fornire ancora un supporto conoscitivo utile”. Ma soprattutto che “..la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, non è certo superabile in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo e nemmeno in ragione di una sola dichiarata dissociazione…”. Se questo è il ragionamento, se questa è la cultura di chi deve dare suggerimenti ai tribunali di sorveglianza, alcuni articoli della Costituzione come il 27 o il 111 sul giusto processo sono già cancellati. E se a questo aggiungiamo il fatto (non mi stancherò mai di ricordarlo) che la Presidenza del Dap, voluta dall’ex ministro Bonafede e mantenuta da Marta Cartabia, è nelle mani di due magistrati “antimafia”, è apparentemente inutile parlare di rieducazione e reinserimento nel contesto sociale del condannato. Pare quasi che sia più educativo denunciare i propri amici che dichiararsi innocente. Per fortuna in Italia non esistono solo i pubblici ministeri e non decidono solo quelli che si proclamano “antimafia” (come se -repetita juvant- fosse compito dei magistrati lottare contro i fenomeni sociali), ci sono anche i tribunali di sorveglianza. Quello di Milano presieduto da Rosanna Calzolari ha proprio operato una rivoluzione copernicana. Ha spostato dal centro dell’universo giudiziario la pena e vi ha messo la rieducazione. Ha esaminato con attenzione gli argomenti usati dal difensore che, insieme a una serie di associazioni di altro valore morale e sociale, ha presentato al Presidente della repubblica la domanda di grazia per Ambrogio Crespi, e li ha considerati fondati. Dando un giudizio positivo sul, come di dice, “fumus di non manifesta infondatezza”. Perché non ci sono ombre, nella vita di questo condannato. Perché ha usato la sua professionalità, le sue capacità, la sua intera vita, in questi anni, al servizio di “denuncia sociale” e “impegno civile”. E per «la difficoltà di collegare il condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di ieri… con l’uomo di oggi, divenuto un simbolo positivo anche della lotta alla mafia...». Poteva mancare la tiratina di orecchie ai colleghi “antimafia”? Non è mancata. Infatti «le stesse Dna e Dda non hanno portato elementi di contenuto rispetto alla generica affermazione che il condannato potrebbe ancora fornire un supporto conoscitivo utile». Infatti non hanno potuto esimersi dal constatare «… l’assenza di elementi attestanti, nell’attualità, la pericolosità del soggetto e collegamenti dello stesso con la criminalità organizzata». Benissimo, possiamo concludere. Abbiamo un condannato che non solo è innocente (solo chi è accecato dal pregiudizio non lo vedrebbe), ma è un artista di grande successo soprattutto per opere tematiche sulla giustizia, ed è anche uno che fa pubblica propaganda per la lotta contro il potere mafioso. Abbiamo poi una brava e tenace avvocata e un tribunale di sorveglianza composto da quattro magistrate attente e che non si fanno intimidire dai colleghi molto apprezzati dalla stampa. È sufficiente questa rivoluzione copernicana al femminile? Speriamo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"Ho sempre avuto fiducia nella giustizia". Crespi esce dal carcere, la gioia dopo mesi da incubo: “Ho trovato giudici giusti, adesso voglio i miei figli”. Redazione su Il Riformista il 23 Giugno 2021. “Sono felicissimo, oggi è un giorno magico, ho sempre avuto fiducia nella giustizia. Se perdiamo la fiducia nella giustizia aiutiamo la criminalità”. Sono le parole di Ambrogio Crespi dopo l’uscita dal carcere di Opera, a Milano, dove era recluso dal marzo scorso dopo una condanna definitiva a sei anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia e sul voto di scambio. Crespi torna libero fino al prossimo 9 settembre dopo la decisione del tribunale di sorveglianza di Milano che ha accolto l’istanza presentata dai suoi legale, disponendo il differimento della pena in attesa che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si pronunci sulla domanda di grazia presentata nei mesi scorsi. “E’ stato un percorso davvero difficile, spero che sia l’inizio della fine di questa storia assurda e lunare” scrive Crespi sui social che sottolinea di aver “trovato dei giudici giusti”. Poi ringrazia “tutti, dai compagni di Nessuno tocchi Caino a tutte le singole persone che mi hanno appoggiato con amore e costanza in questa durissima prova. Non vedo l’ora di arrivare a Roma ed abbracciare i miei bambini che non vedo da 4 mesi” conclude ringraziando ancora una volta. Come si legge nel provvedimento depositato stamane, il collegio ha escluso il pericolo di reiterazione del reato e di fuga, rilevando “il profondo radicamento familiare, sociale e lavorativo sul territorio” di Crespi “e l’atteggiamento di accettazione delle regole”.  Nel corso degli ultimi anni – spiegano i giudici – Crespi “non solo ha condotto la sua esistenza sui binari della legalità, in una dimensione di impegno familiare, sociale e lavorativo che non ha registrato ombre (…) ma ha indirizzato le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute come di alto valore culturale, di denuncia sociale e impegno civile, ed efficaci strumenti di diffusione di messaggi di legalità e di lotta alla criminalità”. Il provvedimento di differimento della pena riporta tra l’altro il parere della Direzione nazionale antimafia e della DDA di Milano. Per la prima “non possono comunicarsi elementi che depongano per un attuale pericolo determinato da collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata e, pertanto, circa l’attuale pericolosità”.

LA STORIA DI CRESPI – Ambrogio Crespi viene arrestato il 12 ottobre 2012. Ore 4:30, la famiglia – Ambrogio, la moglie Helene, e il figlioletto di 4 mesi – dorme, ma improvvisamente il campanello comincia a suonare, insistente e violento. Il risveglio all’improvviso, la paura, la corsa ad aprire: i carabinieri invadono casa, la mettono a soqquadro, svuotano i cassetti, ribaltano i letti. È l’inizio di un incubo, è l’incredulità che si impossessa di tutti, è il primo doloroso capitolo della storia vera di un uomo che per la giustizia è uno ‘Ndranghetista, mentre per altri, come diceva Marco Pannella, era ed è un nuovo Enzo Tortora. Crespi viene portato ad Opera, dove trascorrerà circa sette mesi di carcerazione preventiva, definita dal leader radicale “vergognosa e ignobile”. L’8 febbraio 2017 il Tribunale di Milano lo condannerà a 12 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa, dandogli sei anni in più di quelli richiesti dal pm. Per il Tribunale l’uomo, forte delle sue conoscenze in ambito malavitoso, aveva contribuito a far convergere circa 3mila voti su Domenico Zambetti, condannato nello stesso processo a 13 anni e 6 mesi per aver acquistato questi e altri voti, durante le elezioni regionali lombarde del 2010. Il pm aveva indagato Crespi perché aveva sentito fare il suo nome nel corso di svariate intercettazioni effettuate nel 2011 tra personaggi legati alla criminalità organizzata. Le uniche prove a suo carico sono infatti le intercettazioni tra due uomini, uno dei quali, E. C., accuserà Crespi per poi ritrattare: “La storia dei voti procurati da Crespi Ambrogio a Zambetti me la sono inventata di sana pianta. Ho iniziato all’età di sedici anni a millantare su tutta la mia vita. Il motivo non glielo so dire. Non ero contento della mia vita e mi sono creato una identità parallela. Dicevo di essere un commercialista, avvocato, architetto, ingegnere. È qualcosa di insito nella mia natura. Nell’ultimo periodo mi sono vantato di essere ‘ndranghetista” (Fonte, Il Giornale 2014). Successivamente una perizia del giudice appurerà che l’uomo era affetto da disturbi mentali. Tutto questo non servirà a sottrarre dalla tenaglia della giustizia Ambrogio Crespi, seppur in appello, il 23 maggio 2018, la pena verrà ridotta a sei anni.

La lettera dal carcere del regista. Combatto ogni giorno per tutti: dopo di me mai più un innocente dovrà finire dietro le sbarre. Ambrogio Crespi su Il Riformista il 24 Aprile 2021. Lettera dal Carcere di Opera al “Comitato di Nessuno tocchi Caino per Ambrogio Crespi”. Ciao a tutti, eccoci qua a scrivervi dal carcere. Voglio ringraziarvi tutti per quello che state facendo. Sento la vostra forza che sfonda queste sbarre. Io sto bene anche se ho passato i primi 30 giorni non proprio benissimo. Un viaggio molto difficile: la condanna, l’ingresso in carcere, il Covid, il trasferimento a San Vittore, poi l’ospedale, poi il rientro a Opera. Insomma non è mancato nulla. Però sapere di non essere solo è qualcosa di magico. Quando avete fatto la maratona oratoria per me non sono riuscito a sentirvi tutti e questo mi è dispiaciuto tanto, perché Radio Radicale ha fatto due collegamenti con la vostra diretta. Però sentire le vostre voci ha fatto si che si spezzassero queste sbarre. Siete entrati con forza dentro la mia anima e vi confesso che il mio cuore batteva fortissimo, non sono riuscito a non commuovermi. Ho avuto la sensazione di essere libero, perché le vostre parole sono state macigni di energia positiva. Per questo vi voglio ringraziare con tutto il mio cuore, sentirvi vicino è qualcosa di forte che mi emoziona come un bambino, è un sentimento indescrivibile. Sapere di essere innocente e stare chiuso in carcere di massima sicurezza, i pensieri, la tristezza, il dolore, sono tutti protagonisti della mia quotidianità, però io combatto! Ma non combatto solo per me, lo devo a tutti voi e per quelle persone che prima di me non potevano combattere per affermare la propria innocenza perché quando arriva il timbro “colpevole” dalla cassazione è finita. Strappano la tua anima. Devi pagare una pena da innocente e se penso a quante persone prima di me, mi sento male. Ma mai nessuna dovrà pagare questo prezzo dopo di me. Io credo profondamente nella Giustizia, però oggi questa fiducia non è così viva come prima. Stare chiuso in una cella in carcere senza aver fatto nulla porta a farti mille domande ma alla fine la domanda principale è sempre una: PERCHÉ? Forse come mi dice Rita Bernardini “Caro Ambrogio, ti tocca per tutti” e allora questo viaggio, non voglio chiamarlo “il viaggio del dolore”, anche se il dolore non manca qua dentro soprattutto dopo aver fatto le videochiamate con i miei piccoli amori Luca e Andrea, vivo un’emozione così contrastante di felicità e tristezza. Insieme alla mamma, gli abbiamo raccontato una storia. Io sono in missione in un bunker. Allora quando facciamo le videochiamate metto vicino al mio viso la radio che ho acquistato in carcere insieme a un orologio e faccio finta di parlare con la base tramite questo orologio e quando mi comunicano che il tempo a mia disposizione sta terminando allora accendo Radio radicale e loro pensano che mi stiano chiamando. Vedo nei miei bambini la loro felicità, il loro orgoglio e quella sensazione di emozione positiva. In realtà forse questa è davvero una missione, affinché non succeda più a nessuno. E voi fuori state facendo cose straordinarie, siete in trincea a combattere e questa consapevolezza mi fortifica. Coltivo il mio cuore insieme alla mia anima abbracciando l’amore e la forza. Il mio pensiero vola raso al mare con il vento salato e le gocce d’acqua sul viso. Io sono libero! Oggi la giustizia non può essere il luogo dove trovare l’uomo giusto e non la legge applicata. È solo una questione di fortuna. E questo vale anche in Cassazione. Deve finire questo inferno. Per questo non voglio chiamare questo viaggio “il viaggio del dolore” ma lo chiamerò “il viaggio della speranza”: spes contra spem, per avere una giustizia giusta per tutti. Noi tutti siamo la speranza per il cambiamento e per dire basta. Perché trovarsi seduto su uno sgabello con davanti a sé un tavolino e una finestra con le sbarre? Sposto lo sguardo fuori dalla finestra e mi pongo mille domande, poi mi dico che nulla capita per caso e voi tutti siete la speranza di questo viaggio. Il mio corpo è chiuso in questo inferno però la mia anima e la mia forza sono lì con voi, sono al vostro fianco e non mollerò mai. Lo devo a tutti. Non è il tempo che mi fa paura ma stare chiuso in un carcere di massima sicurezza con una “ostatività” che mi fa riflettere molto. Non è possibile dover essere “fortunati” per trovare la giustizia giusta. Io credevo profondamente nella Corte di Cassazione però anche in quel luogo devi trovare l’uomo giusto. Non è giustizia questa. E questo è stato per me un pugno in pieno cuore il giorno della conferma della condanna. Mi prendevo a pizzicotti perché pensavo fosse un incubo. L’ultima notte in casa ho dormito con i miei due bambini ed Helene, tutti insieme nel lettone. Si addormentavano tutte le notti con me ed Helene. Luca voleva sempre la mia mano per fare la nanna, questo da quando con mio fratello lo abbiamo salvato da quella piscina, mentre Andrea non si staccava mai da me facendoci sempre le coccole. Li avevo soprannominati Luca “la cozza” e Andrea “il Koala”. Io non mollerò per nessuna ragione al mondo e tornerò dalla mia cozza e dal mio koala, combatterò con tutte le mie energie. Non mi ammalerò ma rinascerò, perché l’amore della mia famiglia e di tutti voi è il motivo di questo viaggio della speranza e io vi ringrazio a tutti, uno ad uno. Viva la vita, viva la libertà… perché io sono libero! Spes contra Spem. Ambrogio Crespi

Quando la giustizia finisce nella tomba. Ambrogio Crespi è un esempio nella lotta alla mafia: i giudici mandano in carcere un innocente. Angela Stella su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Gli strani giri della vita sono tutti qui: a breve per Ambrogio Crespi si apriranno le porte del carcere milanese di Opera. Lo stesso carcere dove aveva scontato 200 giorni di carcerazione preventiva, di cui 65 in isolamento, con l’accusa di concorso esterno in associazione di stampo mafioso e voto di scambio, e dove era tornato da uomo libero per girare il docu-film Spes contra Spem – Liberi dentro. Due giorni fa il regista, che ha iniziato la sua carriera collaborando alle produzioni televisive e teatrali di Gianfranco Funari, è stato condannato dalla Cassazione in via definitiva a sei anni di reclusione, perché accusato di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore alla Casa della giunta Formigoni, per le regionali del 2010, servendosi di conoscenze in ambienti della ‘ndrangheta. Eppure la Procura Generale aveva chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza d’appello. «Sono sconcertato dall’esito del ricorso» ha detto all’Adnkronos l’avvocato Riccardo Olivo, difensore insieme a Marcello Elia: «Crespi non si è reso responsabile di alcun illecito, la lettura degli atti non lascia dubbi. È quindi grandissimo il rammarico di vedere dichiarata la colpevolezza di un innocente quale è Ambrogio». Crespi, tirato in ballo da alcune intercettazioni, si è sempre dichiarato innocente. Il processo ha fatto molto discutere per le tantissime incongruenze, raccolte anche nel libro di Marco Del Freo Il Caso Crespi. Il caso giudiziario del regista Ambrogio Crespi. L’analisi di tutti i documenti (Male Edizioni, 2019). Come ha scritto il Presidente onorario di Cassazione, Alfonso Giordano, nella prefazione «anche per chi non abbia una approfondita conoscenza della personalità del Crespi, qualcosa stride nei due documenti giudiziari; e soprattutto poco convincenti appaiono certe credulità che hanno costituito i plinti dell’edificio usato per condannarlo in primo grado a dodici anni di reclusione, ridotti a sei in fase d’appello». Ripercorriamo brevemente la vicenda giudiziaria: Ambrogio Crespi viene arrestato il 12 ottobre 2012. Ore 4:30, la famiglia – Ambrogio, la moglie Helene, e il figlioletto di 4 mesi – dorme, ma improvvisamente il campanello comincia a suonare, insistente e violento. Il risveglio all’improvviso, la paura, la corsa ad aprire: i carabinieri invadono casa, la mettono a soqquadro, svuotano i cassetti, ribaltano i letti. È l’inizio di un incubo, è l’incredulità che si impossessa di tutti, è il primo doloroso capitolo della storia vera di un uomo che per la giustizia è uno ‘Ndranghetista, mentre per altri, come diceva Marco Pannella, era ed è un nuovo Enzo Tortora. Crespi viene portato ad Opera, dove trascorrerà circa sette mesi di carcerazione preventiva, definita dal leader radicale «vergognosa e ignobile». L’8 febbraio 2017 il Tribunale di Milano lo condannerà a 12 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa, dandogli sei anni in più di quelli richiesti dal pm. Per il Tribunale l’uomo, forte delle sue conoscenze in ambito malavitoso, aveva contribuito a far convergere circa 3 mila voti su Domenico Zambetti, condannato nello stesso processo a 13 anni e 6 mesi per aver acquistato questi e altri voti, durante le elezioni regionali lombarde del 2010. Il pm aveva indagato Crespi perché aveva sentito fare il suo nome nel corso di svariate intercettazioni effettuate nel 2011 tra personaggi legati alla criminalità organizzata. Le uniche prove a suo carico sono infatti le intercettazioni tra due uomini, uno dei quali, E. C., accuserà Crespi per poi ritrattare: «La storia dei voti procurati da Crespi Ambrogio a Zambetti me la sono inventata di sana pianta. Ho iniziato all’età di sedici anni a millantare su tutta la mia vita. Il motivo non glielo so dire. Non ero contento della mia vita e mi sono creato una identità parallela. Dicevo di essere un commercialista, avvocato, architetto, ingegnere. È qualcosa di insito nella mia natura. Nell’ultimo periodo mi sono vantato di essere ‘ndranghetista» (Fonte, Il Giornale 2014).

Successivamente una perizia del giudice appurerà che l’uomo era affetto da disturbi mentali. Tutto questo non servirà a sottrarre dalla tenaglia della giustizia Ambrogio Crespi, seppur in appello, il 23 maggio 2018, la pena verrà ridotta a sei anni. Ora l’uomo, che intanto è diventato papà di un secondo bambino, ha davanti a sé oltre cinque anni di carcere, dovendo sottrarre ai 6 anni definitivi i circa 7 mesi di carcerazione preventiva. Questa decisione ha provocato molto turbamento perché chi conosce Ambrogio Crespi, da sempre sostenitore delle lotte del Partito Radicale, non riesce a credere in questa “ingiustizia”, a partire da suo fratello Luigi: «Con Nessuno Tocchi Caino, mio fratello ha realizzato il film Spes contra spem-Liberi dentro menzionato al Festival di Venezia, per cui tra gli altri, il già Ministro della giustizia Andrea Orlando, Santi Consolo, ex capo del Dap, il procuratore generale di Napoli, Giovanni Melillo, e l’ex direttore del carcere di Opera, oggi a San Vittore, Giacinto Siciliano, hanno affermato che quel film rappresenta un lenzuolo bianco contro le mafie perché capace di destabilizzarne la cultura». Luigi Crespi ha anche aggiunto in un video su Facebook che adesso «avrà inizio un percorso nel quale non solo chiederò la revisione del processo, ma chiederò, sulla base dell’ingiustizia subita, la grazia al Presidente della Repubblica Mattarella». Gli fa eco proprio il Segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia, con cui Ambrogio stava girando il seguito di Spes contra Spem: «È stato condannato un innocente. Umanamente, oltre che giuridicamente, è paradossale che l’autore di questo manifesto della lotta alla mafia, ma anche un capolavoro artistico, politico, umano e civile, sia stato condannato per associazione di stampo mafioso a sei anni di carcere». Sta tutta qui per molti la bizzarria di questa vicenda: come può un uomo impegnato in prima linea per la legalità, per il rispetto dei diritti degli ultimi, che con la sua opera è andato a dare speranza a chi speranza non ha – come i reclusi al fine pena mai – che don Luigi Merola ha definito «esempio di lotta alla criminalità» mentre lavoravano insieme al progetto Terra Mia, film denuncia della criminalità ed alla canzone Ora Basta creata per Noemi, la piccola di soli 4 anni colpita da una pallottola durante un agguato di camorra a piazza Nazionale a Napoli, come può essere proprio lui l’origine di quel male che infetta la parte buona della nostra società?

Cassazione conferma la condanna ad Ambrogio Crespi. Francesca Galici su Il Giornale il 9/3/2021. La Cassazione ha confermato la condanna a sei anni per il regista Ambrogio Crespi, accusato di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore alla Casa della giunta Formigoni, per le regionali del 2010. Voti che, secondo l'accusa, sarebbero arrivati da ambienti vicini alla 'Ndrangheta. Tutto è nato da alcune intercettazioni ma in questi anni il regista ha sempre professato la sua innocenza. L'avvocato Riccardo Olivo, divensore di Crespi, si dice "sconcertato dall'esito del ricorso". Il fratello Luigi è intervenuto sui social: "Condannato perché avrebbe prodotto dei voti per un politico che non ha mai conosciuto insieme a delle persone che non ha mai frequentato nella sua vita. Una persona innocente, con centinaia di testimonianze, con una vita specchiata che è stata travolta dalla viltà, dalla ingiustizia e dalla stupidità di un sistema incapace di correggersi". Dal centrodestra sono arrivati moltissimi messaggi di supporto e sconcerto per la condanna. Tra chi ha commentato la decisione della Cassazione c'è Francesco Storace: "Ambrogio Crespi non merita quella sentenza di condanna. È una persona per bene e nessuno ha il diritto di dipingerlo come un mafioso. Oggi è morto un altro pezzo di giustizia". È intervenuto sulla vicenda anche Stefano Caldoro, capo dell'opposizione di centrodestra in Consiglio regionale della Campania: "Colpito per la condanna di Ambrogio Crespi. Conosco il suo impegno, le sue battaglie, il suo talento. Resto senza parole". Tra i primi a commentare la condanna c'è stato Clemente J Mimun, direttore del Tg5: "Lo conosco da molti anni, non posso credere che sia quello che è stato descritto fin qui. Mi spiace moltissimo per lui, per i suoi bambini, per la sua famiglia. Non ho mai avuto bisogno di vedere che diventava un bravo regista antimafia per avere chiaro che non fosse minimamente colluso con quegli ambienti. Spero che in ambito europeo ci sia la possibilità di riparare a quella che io penso sia un'ingiustizia". Parole d'incredulità anche da parte del giornalista Luca Telese, profondo conoscitore della vicenda giudiziaria, che bolla la colpevolezza di Crespi come "un'ipotesi di fantascienza che non ha né capo né coda. Ero convinto che sarebbe stato assolto, così non è accaduto ed è una notizia che mi lascia scioccato". Luca Telese ha incrociato ilregista in campo professionale e poi ne ha approfondito l'iter giudiziario: "Mentre stava in Albania a curare l'immagine del premier albanese, avrebbe orientato i voti nelle elezioni della periferia milanese, le preferenze dei clan dei calabresi? È una roba un pò di fantascienza, senza contare che Ambrogio non conosceva la persona a cui teoricamente secondo l'accusa doveva portare i voti". A intervenire con un commento sui fatti anche Santi Consolo, magistrato ed ex direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: "Mi dispiace, umanamente, ma allo stato non posso commentare la sentenza perché non ne conosco le motivazioni. Sono semplicemente addolorato, ho conosciuto Crespi, una persona di grande intelligenza, ricca di cultura e sensibilità". Non ha, invece, nessun dubbio Sergio D'Elia, segretario di 'Nessuno tocchi Caino': "Oggi è stato condannato un innocente. Di solito si dice che le sentenze non si commentano. Questa, per la gravità, va immediatamente e chiaramente commentata. Io conosco Ambrogio non solo come uomo, ma soprattutto come autore e regista di “Spes contra spem”, un'opera che un ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha definito “manifesto della lotta alla mafia”".

"Condannato solo perché questi signori parlavano di lui a sua insaputa". Ambrogio Crespi come Tortora, condanna a sei anni per voto di scambio a “persone mai viste”. Redazione su Il Riformista il 9 Marzo 2021. “Oggi, 9 marzo 2021, è stato compiuto l’atto finale di ingiustizia verso un uomo che si chiama Ambrogio Crespi, condannato per associazione esterna perché avrebbe prodotto dei voti per un politico che non ha mai conosciuto insieme a delle persone che non hanno mai frequentato mai la sua vita”. E’ lo sfogo del fratello Luigi dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna a sei anni emessa in Appello per il regista 51enne, sposato e padre di due figli, accusato di aver procurato voti a Domenico Zampetti, assessore alla Casa della Giunta Formigoni, per le regionali del 2010, servendosi di conoscenze in ambienti della ‘ndrangheta. Nel processo che ha portato alla condanna dello stesso Zambetti (7 anni), Ambrogio Crespi è stato chiamato in causa da alcune intercettazioni. Lui si è sempre dichiarato innocente. Numerose le incongruenze emerse nel corso dei vari dibattimenti (in primo grado era stato condannato a 12 anni), che hanno spinto in tanti, compresi i Radicali, a definire la vicenda come il “nuovo caso Tortora“. Duro lo sfogo del fratello Luigi, ex sondaggista di Silvio Berlusconi: “Una persona innocente, con centinaia di testimonianze e con una vitta specchiata, travolta dalla viltà, dalla ingiustizia e dalla stupidità di un sistema capace di correggersi. Condannato solo perché questi signori parlavano di lui a sua insaputa. Questo è quello che è accaduto e che può accadere a chiunque di voi. Ma per noi la battaglia per la verità e per la libertà non è finita, ora chiederemo la revisione del processo“. Sulla vicenda è intervento anche Bobo Craxi che all’Adnkronos ha riferito di ”non commentare la sentenza della Cassazione” ma “associare Ambrogio alla criminalità organizzata è una immagine che non corrisponde alla realtà”. “Lo conosco da molti anni, non posso credere che sia quello che è stato descritto fin qui. Mi spiace moltissimo per lui, per i suoi bambini, per la sua famiglia”. Così Clemente Mimun commenta all’Adnkronos la conferma della condanna dell’amico regista Ambrogio Crespi. “Non ho mai avuto bisogno di vedere che diventava un bravo regista antimafia per avere chiaro che non fosse minimamente colluso con quegli ambienti -dice Mimun- Spero che in ambito europeo ci sia la possibilità di riparare a quella che io penso sia un’ingiustizia”. “Io penso che sia una condanna sbagliata. Non sono un magistrato, ma ho paura che tante volte parta un meccanismo tale per cui chi ne è stato motore non abbia il coraggio di fermare la macchina. Non sarebbe la prima volta”, osserva il giornalista. Che conclude: “Mi dispiace profondamente, sono amico suo e di Luigi (il fratello, ndr) da tanti anni, e quindi sicuramente di parte”. LA SENTENZA – Oltre alle condanne di Zambetti e Crespi, conferme anche per Ciro Simonte (8 anni) e per Eugenio Costantino (4 anni e 4 mesi), quest’ultimo ritenuto referente della cosca Di Grillo-Mancuso con la condanna che si somma in continuazione a una precedente pena di 11 anni, e diventa quindi pari a 15 anni e 5 mesi. La Prima sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Costantino e Simonte, mentre quelli di Zambetti, Crespi e del Procuratore generale sono stati rigettati.  Zambetti è stato processato per aver acquistato dai clan della ‘ndrangheta circa 4mila voti per le amministrative del 2010. Voti pagati 50 euro l’uno per un totale di circa 200mila euro stando alle circa 11mila preferenze ricevute.

Il racconto della moglie del regista. Ambrogio Crespi entra in carcere, le parole della moglie: “Ai bimbi ho detto che il papà è in missione segreta”. Angela Stella su Il Riformista il 12 Marzo 2021. È quasi mezzogiorno quando Ambrogio Crespi varca il cancello del carcere di Opera. La Cassazione lo ha condannato in via definitiva a 6 anni di carcere, per concorso esterno in associazione mafiosa. Relatore della causa il consigliere Alessandro Centonze: un passato negli uffici giudiziari requirenti di Caltanissetta e di Catania, ha fatto parte della Direzione Distrettuale Antimafia. Ambrogio ha lasciato il sole di Roma e la sua vita felice in famiglia per raggiungere una Milano fredda che lo ha accolto con un cielo plumbeo. L’uomo conosce bene quell’istituto di pena: vi aveva scontato già 200 giorni di carcerazione preventiva, di cui 65 in isolamento, e vi era tornato da uomo libero per girare il docu-film «Spes contra Spem – Liberi dentro». Prima di entrare in carcere ha detto: «ero venuto qui per combattere la mafia e ora ci torno da mafioso. Tutto questo è paradossale». Come ci spiega uno dei suoi legali, l’avvocato Marcello Elia, «Ambrogio sarà detenuto in Alta sicurezza. Ora la direzione del carcere e il Dap dovranno decidere quale regime penitenziario applicare tra quelli dell’AS: da questa scelta dipenderanno il numero dei colloqui e delle telefonate a disposizione, per esempio». Le strade che si possono intraprendere, ci spiega il legale, «sono quella della revisione del processo e quella della Cedu: dopo la nota sentenza Contrada ci sono gli spazi per pretendere una interpretazione conforme alla Costituzione del concorso esterno». L’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario a cui verrà sottoposto Crespi non gli consentirebbe alcun beneficio; in realtà, conclude l’avvocato, «quando si scende sotto i 4 anni di reclusione, anche per questo tipo di reato la giurisprudenza non esclude l’affidamento in prova ai servizi sociali. Calcolando la liberazione anticipata, potremmo fare la richiesta tra un anno. Ci sono pochissimi precedenti ma siamo riusciti già ad ottenere questa misura alternativa al carcere per uno dei condannati dell’Operazione Infinito». Ieri nel piazzale antistante il carcere, oltre all’avvocato, con Ambrogio c’erano Elisabetta Zamparutti e Sergio D’Elia di Nessuno Tocchi Caino, suo fratello Luigi, sua cognata e Helene, sua moglie, la madre dei suoi due figli. Quando la raggiungiamo telefonicamente è sul treno di ritorno Milano-Roma, la voce è rotta dalla commozione e dalla tristezza di aver lasciato suo marito in prigione. Si sono sposati nel 2011 e chi li conosce sa quanto siano uniti.

Helene, come avete saputo della decisione?

«Eravamo a casa, agitati ma sereni: lo stesso Procuratore Generale aveva chiesto l’annullamento con rinvio della posizione di Ambrogio. Quindi non ci saremmo mai aspettati quello che poi è accaduto. Ambrogio è un uomo di “giustizia giusta”, contro le mafie, per la legalità; eppure lo hanno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Invece mio marito è il simbolo dell’anti-mafia, è portato sul palmo della mano dai testimoni di giustizia per il lavoro che ha fatto di sensibilizzazione culturale contro la camorra, la ‘ndrangheta. E invece due giorni fa si è scritta una pagina nera nella storia della giustizia italiana e con certezza possiamo dire che la storia di Tortora non ha insegnato nulla a nessuno».

Quindi non vi aspettate questo verdetto?

«Assolutamente no. Per noi la soluzione più logica e ovvia era un annullamento senza rinvio. Ossia l’innocenza: Ambrogio è innocente e non smetterò mai di dirlo. L’altra opzione sarebbe potuta essere l’annullamento con il rinvio ma non avremmo mai pensato che il giorno dopo avrei dovuto accompagnare mio marito in carcere. Per noi è stato uno shock e lo è tuttora mentre parliamo».

Quindi è stato un fulmine a ciel sereno?

«Sì, eravamo convinti che la Cassazione avrebbe messo fine ad una vicenda che io definisco lunare. Sono stati nove anni di calvario ma il vero incubo inizia adesso».

Come sono stati i momenti dopo la sentenza?

«Difficilissimi è dire poco. Il giorno dopo, nel pomeriggio, siamo partiti da Roma. Prima avevo preparato la valigia per Ambrogio, che è piena di rabbia, di sconcerto, di dolore. Non avrei mai immaginato di doverlo fare. Abbiamo trascorso insieme la notte in un albergo e il mattino dopo dritti al carcere di Opera. Ambrogio si è consegnato ma l’ordine di esecuzione non era ancora arrivato, quindi abbiamo dovuto attendere un po’. Poi c’è stato il momento del distacco, dolorosissimo: ci siamo guardati negli occhi e ci siamo promessi l’una con l’altro di restare sempre forti, di superare insieme questo tragico momento con grande determinazione e con tutto l’amore che la nostra grande famiglia potrà darci».

Lei ha anche scritto che: «Non mi piangerò addosso. Sarò una spina nel fianco. Sarò una iena». La disperazione lascerà il posto alla lotta per fare giustizia per Ambrogio?

«Sono determinata a lottare, ma in maniera nonviolenta come ci ha insegnato Marco Pannella, che credeva profondamente in Ambrogio, e come abbiamo visto in questi anni accanto a Nessuno Tocchi Caino. Non posso negare che però in questo momento la mia anima è profondamente ferita. Ambrogio è un papà esemplare, è un marito eccezionale, un uomo straordinario. Come una iena buona combatterò questa ingiustizia in tutte le sedi possibili».

Voi avete due piccoli maschietti. Deve essere stato difficile il distacco.

«L’addio di ieri (mercoledì, ndr) è stato straziante: non lo auguro neanche al mio peggior nemico. È indescrivibile. I bambini sono usciti di casa con i miei nipoti per andare al parco per consentire a noi di fare la valigia e andare via. Luca, il più grande, ha guardato negli occhi il papà e gli ha detto: «devi partire lo so, e so anche che non sappiamo quando torni». Ho voluto postare la foto di quella separazione di un padre da un figlio affinché rimanesse impressa nella memoria di tutti. Quella foto è il simbolo della malagiustizia. Di un sistema fallato, malato».

I vostri figli sanno che il papà è in carcere?

«No, loro non sanno nulla. Ho raccontato loro che il papà è come se fosse un agente segreto in missione in una base lontana. E appena potrà ci farà delle telefonate, raccontandoci delle sue avventure da infiltrato».

Non sa ancora quando potrà rivedere suo marito?

«No, non so nulla al momento. Ma sono convinta che dal punto di vista umano Ambrogio non sarà solo. Le persone dentro e fuori lo tuteleranno. Poi Opera è il luogo dove Ambrogio con il docu-film Spes Contra Spem ha portato il cambiamento, insieme a Nessuno Tocchi Caino, dove lui ha dato speranza ed è stato speranza per tanti detenuti che quella speranza l’avevano persa. Adesso quel carcere dovrà cullare Ambrogio: io mi auguro che possa essere il più “confortevole” possibile».

Vuole aggiungere qualcosa?

«Nonostante quello che ci accadendo, io mi sento una donna fortunata ad aver incontrato nella mia vita un partner come Ambrogio, l’uomo che ogni donna dovrebbe avere al proprio fianco. Mio marito è una persona gentile, buona, attento alle esigenze della propria compagna, sempre disponibile ad ascoltarti, un grandissimo lavoratore, un genitore modello. Ed è per tutto questo che io non riesco a comprendere come abbiano potuto condannarlo: penso che qualcuno più in alto di noi abbia deciso che la straordinarietà di Ambrogio fosse estesa anche nei luoghi più bui. Lui rappresenta una benedizione per chi lo incontra: forse questo che sta vivendo sarà una benedizione per qualcun altro».

La foto del saluto ai figli prima di costituirsi "simbolo di malagiustizia". Caso Crespi, il grido della moglie ai giudici: “Pronta ad aiutarvi per evitare che domani ci sia un altro Ambrogio”. Redazione su Il Riformista l'11 Marzo 2021. “Questa foto deve restare impressa nella memoria di tutti. Questa foto è il simbolo della malagiustizia. Di un sistema fallato, malato”. E’ il duro sfogo sui social di Helene Pacitto, moglie del regista Ambrogio Crespi, 51 anni, che questa mattina si costituirà “da uomo innocente” nel carcere di Opera a Milano dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna in Appello a sei anni di reclusione, perché accusato di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore alla Casa della giunta Formigoni, per le regionali del 2010, servendosi di conoscenze in ambienti della ‘ndrangheta. “Da uomo di giustizia giusta, contro le mafie, per la legalità, a condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, 416 bis c.p.” prosegue la moglie che pubblica la foto del marito mentre saluta i due figlioletti prima di andare in carcere. “Oggi si scrive una pagina nera nella storia della Giustizia Italiana e con certezza possiamo dire che la storia di Tortora non ha insegnato nulla a nessuno. Questa foto, questa immagine, mi auguro che finisca sotto gli occhi di chi è veramente incatenato in un sistema marcio. State commettendo i peggiori reati, quelli che hanno a che fare con la vostra anima, con la vostra coscienza, con la vostra immagine riflessa nello specchio” aggiunge addolorata e allo stesso tempo arrabbiata. “Guardatevi, chiedetevi se siete delle brave persone. Fatevi domande. Cercate risposte. Sappiate che io sono pronta ad aiutarvi a capire gli errori che avete commesso per evitare che domani ci sia un altro Ambrogio Crespi che deve salutare per un tempo infinito i propri bambini e che viene lasciato ai cancelli di un carcere da una moglie, un fratello, una cognata e due nipoti. Imparate dai vostri errori. Diveniate speranza” conclude. Duro anche il sondaggista Luigi Crespi, fratello di Ambrogio: “Condannato per associazione esterna perché avrebbe prodotto dei voti per un politico che non ha mai conosciuto insieme a delle persone che non hanno mai frequentato mai la sua vita. Sono determinato e motivato – aggiunge – chiederemo la grazia al presidente della Repubblica”. La moglie Helene ha anche pubblicato la foto della valigia preparata prima di andare in carcere, annunciando che d’ora in avanti inizierà anche una battaglia social: “Non si può chiudere la vita di un uomo in una valigia. Non si può impacchettare e lasciare dentro a una galera senza un motivo, dico uno, che sia valido e ragionevole. Ho deciso quindi che tutta la mia indignazione verso questo sistema verrà messa online, e che questa battaglia la farò a testa alta perché ad abbassarla non saremo di certo noi. Documenterò passo dopo passo lo schifo che è stato fatto verso un uomo non solo innocente, ma totalmente estraneo ad ogni fatto di cui vi lavate bocca da 10 anni. Non mi piangerò addosso. Sarò una spina nel fianco. Sarò una iena” conclude.

Ambrogio Crespi, fratello del sondaggista di Berlusconi: regista anti-mafia, condannato per mafia. Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. Francesco Storace, dalle colonne del Tempo, racconta l'odissea giudiziaria di Ambrogio Crespi, fratello del sondaggista e regista di qualità "che le opere migliori le ha dedicate proprio alla lotta a Cosa Nostra", scrive Storace. Si trova nel carcere di Opera, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.  Domani una programmazione speciale, dedicata al suo caso, dalle ore 10 alle 18 in diretta dal sito Radio Radicale.it e su Radio Radi cale FM (dalle 12/13.30 e 15.30/17). Crespi, infatti, è stato condannato il 9 marzo scorso a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo aver scontato già quasi un anno di carcerazione preventiva. La maratona sarà "l'occasione per dar voce a chi ha conosciuto l'uomo Ambrogio e, per questo, condivide il senso di una battaglia che coglie l'insensatezza della esecuzione di una pena inutile che nei confronti di Ambrogio Crespi rischia di risolversi in un trattamento degradante e contrario al senso di umanità", scrive Storace. L'ex senatore elenca poi i dubbi giudiziari che hanno portato alla maratona. "La pena si fonda su alcuni elementi che forse avrebbero dovuto essere accertati con maggior rigore". 1. Le telefonate intercettate sono del 2013. Ma i fatti contestati - il voto di scambio - si riferivano alle regionali lombarde del 2010. Non c'è mai la voce di Crespi, ma quelle di persone che parlano di lui tanto tempo dopo. 2. La figura del suo principale accusatore che ha ritrattato in udienza, ma siccome considerato soggetto instabile si è deciso che era inaffidabile. 3. Ambrogio Crespi non aveva mai conosciuto il politico (l'ex assessore regionale Domenico Zambetti) a cui avrebbe portato voti. Si sono conosciuti solo quando Crespi è entrato per la prima volta nel carcere di Opera (Milano) per la carcerazione preventiva. Sono ancora altre le discrepanze raccontate da Storace che porta a supporto anche testimonianze della società civile, come quella di Clemente J. Mimun, direttore del Tg5: "Non ho mai avuto bisogno di vedere che diventava un bravo regista antimafia per avere chiaro che non fosse minimamente colluso con quegli ambienti. Spero che in ambito europeo ci sia la possibilità di riparare a quella che io penso sia un'ingiustizia. Io penso che sia una condanna sbagliata. Non sono un magistrato, ma ho paura che tante volte parta un meccanismo tale per cui chi ne è stato motore non abbia il coraggio di fermare la macchina. Non sarebbe la prima volta", racconta Mimun. 

Il caso del regista. Assoluzione o grazie per Ambrogio Crespi, un uomo che ha aiutato a riabilitare tante persone. Andrea Nicolosi su Il Riformista il 26 Marzo 2021. L’idea di un Comitato Per Ambrogio Crespi è germogliata naturalmente, dall’attività di Nessuno Tocchi Caino, la notte del 9 marzo 2021, quando non si dormiva, per la condanna in Cassazione di Ambrogio Crespi, a 6 anni di reclusione per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Il Comitato è nato dalla ferma convinzione che Ambrogio Crespi sia innocente. Al di fuori del processo, l’incompatibilità tra Ambrogio e il reato che gli viene attribuito è sancita dalla sua vita, dalle sue opere cinematografiche, dalla opinione di chi lo conosce persona per bene, sensibile, generoso, pacifico, contro ogni violenza e, ancor più, contro le violenze delle organizzazioni criminali, alle quali ha opposto la forza della sua arte, la sua ferma condanna, la sua lotta culturale a viso aperto, a rischio della sicurezza e della propria vita. Ho conosciuto per primo, tra le opere di Ambrogio, il capolavoro artistico di Spes Contra Spem – Liberi Dentro, manifesto della lotta alla mafia, cominciamento di rivoluzione culturale e giuridica, che testimonia realisticamente, senza finzioni né sofisticazioni, il percorso di maturazione interiore e rieducazione al senso etico e sociale dei condannati al “fine pena mai” detenuti nel carcere di Opera. Un capolavoro artistico che ha contribuito senz’altro alla fioritura della sentenza Viola contro Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo, la sentenza che ha ribadito il divieto inderogabile di trattamenti inumani e degradanti e riconquistato ai condannati all’ergastolo senza speranza il diritto alla speranza. Qualche giorno fa, Gaetano Puzzangaro, uno dei protagonisti di Spes Contra Spem, ha incontrato la voce di Ambrogio, detenuto nello stesso carcere di Opera, in una cella nei pressi della sua. Chissà quale tuffo al cuore, quale commozione a sentire l’uomo che si era piegato sulle sue sofferenze di detenuto senza speranza, riuscendo a farla emergere una speranza, nei lievi bagliori di bellezza che cominciavano a sbucare, come timidi fiori di campo, dalle “macerie della sua esistenza”. Così lui stesso ha definito la sua vita dopo l’omicidio del giudice beato Rosario Livatino, per il quale oggi prega e con il quale oggi parla. Chissà quale senso di separazione interiore a vedere uno Stato, l’Italia, che – dopo aver rinunciato, in nome dell’emergenza, alla dignità del condannato al carcere ostativo ed a valorizzarne i segni reali di cambiamento – incarcera un uomo che ha contribuito così fortemente a riabilitare la speranza nella risocializzazione sua e dei condannati come lui. Chissà cosa avrà provato Gaetano Puzzangaro a vedere uno Stato che cade nel gigantesco errore e misfatto di divenire Caino (come lo è stato lui del beato Livatino) di un innocente Abele, di processare e condannare Ambrogio Crespi. A vedere uno Stato eseguire una pena – che ai sensi della Costituzione dovrebbe essere volta alla riabilitazione – nei confronti di una persona come Ambrogio che ha riabilitato persone e non richiede di essere riabilitata. Ho conosciuto l’uomo Ambrogio, la sera della pronuncia della Cassazione. Un uomo oppresso dal dolore ma che teneva alta la sua grande dignità e si diceva grato, infinitamente grato, per la solidarietà che riceveva in quel momento così drammatico. Ambrogio era incredulo, stupefatto, smarrito per la condanna ma bisognoso di voler capire, di sperare, di poter credere ancora nella giustizia: “…perché, perché?!…Non capisco perché!?”, continuava a chiedere con una voce rotta dal pianto, senza mai proferire parole di squalifica o sdegno verso i giudici, nonostante si sentisse ingiustamente offeso, tradito, pugnalato. La verità è che questa drammatica storia non riguarda solo Ambrogio e la sua famiglia ma ciascuno di noi: a ogni innocente può capitare lo stesso destino infausto. La condanna di Ambrogio è una ferita sociale – proprio come quella di “Enzo Tortora, una ferita italiana” – trasversale, che mina i principi del giusto processo e la certezza del diritto e può pericolosamente rompere la fiducia collettiva nelle istituzioni e nella giustizia. Insinuare una insicurezza sociale che smarrisce e paralizza. Il Comitato per Ambrogio Crespi ha lo scopo di coltivare la speranza e ripristinare la verità. Di collaborare con Ambrogio, i suoi legali, la sua famiglia per far riemergere la sua innocenza, con tutti i mezzi possibili contemplati dall’ordinamento giuridico, per ottenere una pronuncia di assoluzione o la grazia del Presidente della Repubblica.

Ravvisa, per altro verso, la necessità di aprire un pacifico e approfondito dibattito collettivo che miri alle riforme della Giustizia strumentali a ripristinare in via più sostanziale lo stato di diritto, una giustizia più giusta, informata al senso di umanità, protesa al rispetto del valore universale della dignità umana. La necessità è posta dal senso di considerazione e tutela dei tanti Ambrogio Crespi che scontano condanne carcerarie in via preventiva o definitiva e che, sconosciuti ai più, non hanno alcun comitato che li sostenga, alcuna cassa di risonanza che faccia risuonare il silenzioso lamento di un innocente.

Il reato che non c’è. Concorso esterno, il reato che i Pm usano quando non sanno come incolpare i politici (che non sono mafiosi). Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Due sono i messaggi di politica giudiziaria che si possono trarre dalla sentenza con cui la prima sezione della corte di cassazione ha confermato le condanne dell’ex assessore della Regione Lombardia Mimmo Zambetti e del regista Ambrogio Crespi. Il primo messaggio è una sorta di sigillo a un asse virtuale Boccassini-Gratteri, cioè la Milano-Catanzaro che giudica l’insediamento delle cosche calabresi al nord finalizzato a fare affari con la complicità di uomini delle istituzioni e della società civile. E questo è il secondo messaggio politico-giudiziario: l’uso del reato fluido, del reato che non c’è, l’uso del concorso esterno in associazione mafiosa, per colpire quella famosa zona grigia, il terzo livello politico cui non credeva Giovanni Falcone, cui non credono molti giuristi e in parte anche la stessa Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Il processo nasce in Lombardia una decina di anni fa con l’arresto dell’assessore regionale Mimmo Zambetti, fatto che determinerà conseguenze politiche disastrose, con la Lega pronta a indossare gli abiti dell’antimafia e la caduta dell’ultima giunta di Roberto Formigoni. Le indagini della procura di Milano e della responsabile della Dda Ilda Boccassini, con l’uso abbondante di intercettazioni ambientali, punta a dimostrare che, attraverso il voto di scambio tra l’assessore Zambetti e alcuni personaggi ritenuti contigui ad ambienti calabresi “sospetti”, l’esponente del pdl avrebbe incrementato il proprio successo alle elezioni regionali del 2010 con 4.000 voti (degli 11.00 totali) comprati. Ambrogio Crespi lo avrebbe aiutato nella campagna elettorale. In che modo non si sa, visto che non risulta i due si siano mai incontrati né conosciuti. Prima di finire in galera. La Dda alza subito di parecchio il tiro, mettendo insieme un banale pagamento in nero di rimborsi spesa a sostenitori elettorali, e un’altra inchiesta che riguardava detenzione di armi, sequestri di persona ed estorsioni. La mafia appiccicata alla campagna elettorale. Collegamenti artificiosi, come il coinvolgimento di Alfredo Celeste, sindaco del Comune di Sedriano, che diventerà il primo Comune lombardo sciolto per mafia. Peccato però che due anni dopo Celeste sia stato assolto con la formula più ampia (“perché il fatto non sussiste”) dall’accusa che aveva portato il ministro dell’interno Angelino Alfano a una decisione così drammatica. Tutto l’impianto accusatorio di questo processo arrivato ormai alla sentenza di terzo grado è fondato su quei soldi, 30.000 euro e poi altri 20.000, che Zambetti avrebbe dato come rimborsi elettorali a persone che erano “contigue” ad altre. Soggetti che lo avevano anche minacciato a un certo punto, dicendo tra loro al telefono “lo abbiamo in pugno” e riducendolo in lacrime, terrorizzato dalla paura che qualcuno facesse del male ai suoi nipotini. Una vittima, altro che “esterno”! Certo, avrebbe dovuto andare a denunciare tutto dai carabinieri, come ha ricordato ieri nel suo blog Gianfranco Rotondi, suo vecchio amico, ammettendo anche la violazione della legge elettorale sui soldi. Mafioso? Esterno? Sette anni e sei mesi di carcere. Per non parlare poi della posizione di Ambrogio Crespi, il cui nome viene fatto in alcune telefonate. E che è stato persino costretto a commissionare una ricerca al professor Roberto D’Alimonte per dimostrare come nel suo quartiere e nelle zone in cui lui era più conosciuto e avrebbe potuto fornire un aiuto elettorale, il risultato di Zambetti fosse stato proprio modesto. Un’indagine che forse sarebbe spettata alla magistratura, non all’imputato. Mafioso? Esterno? Sei anni di carcere. Incomprensibile verdetto, visto anche che il procuratore generale aveva chiesto l’annullamento del reato. Ma il concorso esterno in associazione mafiosa, cioè la fusione degli articoli 110 (concorso) e 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) è sempre più l’unico strumento a disposizione di chi non sa che pesci prendere nei confronti degli esponenti politici. Quelli di cui si sa che non sono mafiosi, come sicuramente non è e non è mai stato Mimmo Zambetti. Possiamo giurarlo, tutti noi che lo conosciamo. E lasciamo perdere Ambrogio Crespi, che in questa storia non c’entra proprio niente e che è giustamente difeso da tante persone che conoscono lui e la sua attività culturale. Due vittime dell’”esterno”. È dal 1987, da una prima sentenza della Cassazione, che si è creato il reato fluido, il reato che non c’è. Chiamato a sostituire, con la forza del reato associativo, la vecchia accusa di favoreggiamento, inadatta per pestare con forza con intercettazioni e custodia cautelare. Ma da quel primo provvedimento, molte furono le sentenze della stessa cassazione che negavano si potesse applicare il concorso proprio ai reati associativi. Se è vero che nel 1994 la “sentenza Demitry” delle Sezioni Unite sembrerebbe aver messo la parola fine agli scettici, è altrettanto vero che non è facile dimostrare che l’indagato per concorso esterno in associazione mafiosa abbia dato “un concreto specifico consapevole e volontario contributo” alle cosche. Cioè bisogna prima di tutto avere la consapevolezza di trovarsi davanti a un mafioso. E poi ci vuole anche la certezza della volontà consapevole di aiutare l’attività della mafia. La strada è ancora lunga. Il caso Contrada e il caso Dell’Utri insegnano.

Bobo Craxi: “Conosco Ambrogio Crespi, un uomo innocente”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2021. In merito alla vicenda che vede il regista Ambrogio Crespi in un presunto coinvolgimento con l’ndrangheta, è intervenuto Bobo Craxi. “Conosco Ambrogio da molto tempo, lui e la sua famiglia. So come vive ed ha vissuto a Milano ed a Roma. Ora, come sempre, è un appassionato professionista della macchina da presa e si è speso per importanti e significative iniziative culturali e politiche nel segno di una rinnovata sensibilità garantista. Ho offerto al Tribunale di Milano la mia testimonianza di aver conosciuto un ragazzo appassionato di arte e di politica e non un collaterale servitore di improbabili cosche“. Secondo l’ex sottosegretario agli affari esteri del secondo governo Prodi “Kafka di fronte al Caso di Ambrogio sarebbe impallidito. Martedì rischia grosso, la conferma della sua condanna. Che sarebbe la conferma, se ce ne fosse bisogno, che la Giustizia Italiana è malata e come il Covid contagia mortalmente i cittadini nel nome dei quali si esprime e sentenzia. Comunque vadano le cose io so che Ambrogio Crespi è un uomo innocente. Un uomo giusto. Queste le ragioni del mio appello ad una Giustizia che sia capace di fotografare la realtà, come fa Crespi, e di non creare universi paralleli che non esistono“. Conclude Bobo Craxi.

Don Merola: “Ambrogio Crespi esempio di lotta alla criminalità”. Redazione su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Don Luigi Merola, conosciuto per la sua battaglia contro la camorra, in un intervento sui social ha dichiarato: “Ho conosciuto Ambrogio Crespi quasi due anni fa quando è venuto a Napoli e ha voluto conoscere la nostra realtà e dare così voce alle nostre creature, sui fatti. Non ho dubbi sulla sua innocenza”. Dopo ben 8 anni di attesa Ambrogio Crespi, saprà l’esito finale della sentenza di assoluzione. Il 9 marzo, infatti, la Suprema Corte di Cassazione si pronuncerà sul presunto coinvolgimento di Crespi con l’ndrangheta. Merola ha lavorato con Crespi al progetto ‘Terra Mia’, film denuncia della criminalità ed alla canzone "Ora Basta" creata per Noemi, la piccola di soli 4 anni colpita da una pallottola durante un agguato di camorra a piazza Nazionale a Napoli. Nell’intervento su Facebook Don Merola ha raccontato i momenti passati con Crespi: “Dopo l’incontro iniziò un percorso. Ho voluto partecipare al docufilm ‘Terra Mia’, una denuncia della ndrangheta e lì ho apprezzato il suo coraggio nel diffondere il seme della legalità. Si combattano le mafie formando i bambini, questa sua frase è nello statuto della Fondazione ‘A voce de creature’ e nella pellicola ha trovato una sua dimensione. Con lo stesso spirito e pensando ai più piccoli immaginammo la canzone ‘Ora Basta’. In effetti, è sembrato che con Crespi ci conoscessimo da una vita. Come prete ho potuto costatare che mi ero imbattuto in un uomo vero e sincero, ha messo a disposizione la sua professionalità per far conoscere le mie creature”. Don Luigi conclude: “Spero, in attesa della sentenza che la giustizia vera esista anche sulla terra e che a breve Ambrogio potrà avere ciò che merita. Le accuse assurde in questi anni sono state per lui la forza di gridare ancora una volta che la mafia è una montagna di merda”.

Benedetto Zoccola su Ambrogio Crespi: “È un uomo per bene, una persona speciale”. Redazione su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. “Ho conosciuto Ambrogio Crespi quando mi ha contattato per raccontare la mia storia nel docufilm Terra Mia. Insieme siamo andati a San Luca (RC), luogo iconico della ‘ndrangheta, una terra che ha visto nascere le più sanguinose lotte tra faide calabresi. In quella occasione ho potuto approfondire la sua conoscenza; ho colto la sua sensibilità, la sua umanità, la sua fragilità, ho potuto vederlo emozionarsi difronte ad alcune storie e racconti. Doti che appartengono solo a persone speciali”. Queste le parole di Benedetto Zoccola, testimone di giustizia, vicesindaco di Aversa e consigliere comunale di San Luca apparse oggi sul suo profilo Facebook a supporto di Ambrogio Crespi che attende da ormai 8 anni la sentenza di assoluzione relativa ad un presunto coinvolgimento con l’ndrangheta e che il prossimo 9 marzo sarà proprio la Suprema Corte di Cassazione ad esprimersi. “Un uomo che fa parte di un sistema criminale ha il sangue freddo. Ambrogio è l’opposto, ed io la criminalità organizzata l’ho vista negli occhi, so bene di cosa parlo. Non potrò mai dimenticare quando, durante le riprese del docufilm, siamo entrati nella chiesa di San Luca ed ho incrociato lo sguardo commosso di Ambrogio nel vedere alcune madri che avevano perso i loro figli nella strage di Duisburg. Se fosse stato un uomo ‘diverso’ tutto ciò non sarebbe accaduto, non avrebbe mai potuto accendere una telecamera in queste terre e avrebbe pagato con delle conseguenze inimmaginabili un eventuale disonore – prosegue Zoccola – Ambrogio Crespi è un padre di famiglia e nella vita poteva decidere di occuparsi di qualunque cosa vista la sua professione, invece ha scelto di dedicarsi alla legalità, di stare a fianco alla giustizia, di andare contro ogni tipo di mafia e di incoraggiare le giovani future generazioni ad intraprendere il cammino giusto sfatando il mito del criminale. Questo è Ambrogio e tra noi è nato un rapporto di grande amicizia; ha continuato a stare al mio fianco, se avessi avuto il minimo dubbio sulla sua persona lo avrei immediatamente allontanato come è mia usanza fare quando percepisco delle situazioni sbagliate”. “È importante ed indispensabile – conclude Benedetto Zoccola – ora riconoscere e ripristinare la verità già il prossimo 9 Marzo! Una brava persona non può continuare a vivere in questa maniera perché certe situazioni ti logorano dentro!”.

·        Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Anna Giorgi per ilgiorno.it il 29 novembre 2021. Nella vicenda giudiziaria di Alberto Genovese, l’imprenditore digitale, guru delle startup, finito in carcere più di un anno fa, con l’accusa di avere stuprato una 19enne per venti ore, c’è anche una costola economica. Il pm Paolo Filippini aveva chiesto il sequestro dei beni dell’imprenditore, 4.3 milioni di euro. L’istanza, rigettata in un primo momento dal giudice Tommaso Perna, era stata avanzata specificamente nel filone sulle movimentazioni finanziarie dell’ex bocconiano, difeso dai legali Luigi Isolabella e Davide Ferrari. I reati fiscali su cui hanno lavorato i pm riguardano, da un lato, redditi da lavoro che Genovese avrebbe dichiarato come redditi da capitale e riferiti al suo ruolo dell’epoca in Facile.it Holdco Limited. Dall’altro lato, a Genovese è stata contestata pure una evasione sulla liquidazione di alcune partecipazioni in Facile.it (società di cui fu fondatore) realizzata, secondo i pm, attraverso lo schermo di una delle sue società, la holding Auliv, su cui erano confluite le stesse partecipazioni. Dopo i giudici del Riesame, ieri, anche la Cassazione ha confermato, invece, il sequestro di 4,3 milioni di euro a carico dell’imprenditore. La parte di indagine che ha al centro i due casi di violenza sessuale, per i quali la procura milanese ha già chiesto il processo, è all’udienza preliminare. I pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini, con l’aggiunto Letizia Mannella, avevano chiesto il processo nei confronti dell’imprenditore del web con l’accusa di aver violentato, dopo averle rese incoscienti con un mix di droghe, due modelle: una, 18 anni, durante una festa organizzata il 10 ottobre dell’anno scorso nel suo attico con vista sul Duomo e battezzato "Terrazza Sentimento", l’altra, 23 anni, sua ospite in una villa di lusso a Ibiza nel luglio precedente. Lo scorso 2 novembre, davanti al gup Chiara Valori, si è aperta l’udienza preliminare aggiornata al prossimo 28 gennaio. Il lungo rinvio si è reso necessario non solo per consentire a Genovese di decidere se scegliere il giudizio in abbreviato, ma anche, come hanno chiesto i difensori Luigi Isolabella e Davide Ferrari, per valutare la proposta risarcitoria di circa un milione e mezzo di euro avanzata dalla 18enne, tramite il suo legale, per le terribili sofferenze causate da quella tragica nottata dalla quale la giovane è uscita in stato di profondo choc e con gli effetti della sindrome da stress post traumatico. La ragazza che dopo essersi liberata di Genovse, fuggi seminuda in strada, con addosso solo un lenzuolo insanguinato ha lesioni fisiche permanenti, hanno stabilito i periti, nella richiesta di risarcimento.

Dagospia il 16 novembre 2021. «Io sono un porco pedofilo» scriveva nella chat Alberto Genovese riferendosi al desiderio di avere rapporti sessuali con ragazze dai 16 ai 20 anni. La vicenda di "terrazza sentimento" esplode l'11 ottobre 2020 quando una giovane di diciotto anni, dopo quasi ventiquattr' ore di violenze, riesce a fuggire dall'attico di Genovese a Milano in zona Duomo e a fermare una volante della polizia. In seguito era spuntata la seconda accusa, quella di aver abusato - stavolta insieme alla fidanzata Sarah Borruso, anche lei imputata - di una modella 23enne a Ibiza, nella residenza "Villa Lolita", dopo averla resa incosciente con cocaina e ketamina. Sesso e droga in feste super esclusive a Milano aprono a uno spaccato, ai più, sconosciuto di un mondo della notte capace di trasformarsi con inaudita violenza. Giorgina Sparkling in quel mondo lavorava come ragazza immagine, lo conosce bene avendolo frequentato e di nulla si era accorta se non si situazioni che esistevano nelle feste di tutto il mondo. «Tutto sembrava normale» racconta ma, dopo quella scoperta, non riesce più a lavorare nelle feste esclusive «ho attacchi di panico». La sua intervista ci fa comprendere qualcosa in più sul perché alcune cose sono accadute e su come il mondo dei social network possa diventare una prigione della personalità dei giovani. 

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 16 novembre 2021. I giudizi, che spesso sono pregiudizi, vengono dati sempre in modo affrettato da persone che non ci conosco, che non conoscono il nostro passato ed il perché dei nostri errori, ma che si sentono in dovere di rappresentare il loro pensiero. Oscar Wilde diceva che nessuno ha il diritto di giudicare, perché ognuno di noi può solo giudicare sè stesso, in base al suo percorso di vita, alle sofferenze subite e alle vittorie conquistate. "Solo io posso giudicarmi. Io so il mio passato, io so il motivo delle mie scelte, io so quello che ho dentro. Io so quanto ho sofferto, io so quanto posso essere forte e fragile, io e nessun altro."  Così in questo anno in cui si è svelato il mondo delle feste milanesi per colpa del "caso Genovese", un nugolo di persone ha rappresentato il proprio giudizio morale su chi frequentava la orami celeberrima "Terrazza sentimento". Giorgina è una di queste persone. «Ho frequentato Terrazza Sentimento e non mi sono mai accorta di nulla. Le feste di Alberto Genovese erano delle belle occasioni per guadagnare dei soldi ed incontrare delle persone interessanti», dice. 

In che modo guadagnava dei soldi?

«Facevo la ragazza immagine e mi chiamavano per stare nella festa per qualche ora. A Terrazza sentimento ho incontrato tante persone famose del mondo dello spettacolo, dello sport ed altro. Certo non erano feste frequentate da persone normali». 

Cosa intende per persone normali, Giorgina?

«Intendo che c'era una selezione a priori che veniva fatta da chi le preparava. Da Alberto Genovese c'erano belle ragazze e persone famose». 

Lei non ha mai visto i famosi vassoi con sopra la droga?

«Assolutamente no. Personalmente non ho mai visto vassoi di droga e gente che si faceva davanti ai miei occhi . Che poi ci fosse della droga e chine faceva uso lo potevo immaginare perché è così in ogni festa». 

Lei mi vuole dire che nelle feste milanesi gira droga?

«Guardi non solo nelle feste milanesi ma in tutto il mondo. Quando vivevo a Miami si sapeva che girava droga e si faceva sesso. Così in ogni festa della "Milano bene"».

E lei ne faceva uso?

«Io non mi drogo, ma sapevo che c'era gente che lo faceva». 

E per quanto riguarda il sesso?

«Vede, anche qui, un conto è sapere che nelle stanze di Terrazza sentimento c'era gente che si appartava e faceva sesso, un conto è avere scoperto quello che Alberto Genovese ha fatto a quella povera ragazza». 

Lei come ha reagito a questa notizia ?

«Io sono terrorizzata. Da quella sera non ho più accettato di andare a feste come ragazza immagine». 

Perché?

«Per me andare alle feste era un lavoro. Ballavo, mi facevo conoscere, stavo un paio d'ore e andavo via. Quello che è accaduto ha aperto uno spaccato di violenza che non mi sarei mai aspettata. Mi sono detta che la stessa cosa, essere drogata e violentata, poteva accadere a me. Mi creda per me è stato un sacrificio economico importante ma non riesco più, per ora, a frequentare quelle feste e determinate persone». 

Di chi parla?

«Non mi faccia dire i nomi perché, mi creda, i soldi comprano ogni cosa ed io ho anche paura». 

Lei quanto guadagnava?

«Trecento euro a serata per fare la ragazza immagine». 

E come venivate reclutate?

«Dipende dalle feste». 

Mi può spiegare?

«Per molte feste esisteva una chat dove una persona indicava le caratteristiche della ragazza immagine: altezza, numero di follower corporatura, colore dei capelli e così via... Ma queste cose non accadevano per Alberto Genovese» 

E come accadeva il "reclutamento” nelle feste di Genovese?

«Attraverso una agenzia di cui Genovese, penso, fosse socio». 

E l’amico di Genovese, il signor Leali, lei lo ha conosciuto?

«Certo. Faceva un po’ quello inavvicinabile, che non se la tira. Qualche sera fa ero a cena con un mio amico e l’ho incontrato». 

Vi siete salutati?

«L’ho guardato ma lui mi fissava con aria scocciata. Sinceramente non so cosa io possa avere fatto a lui». 

Giorgina, lei ha sempre fatto la ragazza immagine?

«le verrà magari da sorridere, ma io sono diplomata al liceo in psicopedagogia e didattica. Ho lavorato per anni in una società che si chiamava “Solidarietà e lavoro” e mi occupavo di persone con diverse abilità, con portatori di handicap. Devo dire che sono stati anni davvero belli e formativi». 

E come mai ha abbandonato quella professione?

«Ho una storia faticosa e particolare…» 

La voce di Giorgina in arte Giorgina Sparkling, cambia di tono. Si capisce che stiamo entrando in un mondo personale, fatto di dolore e solitudine: 

Mi dica Giorgina ...

«Mio papà mi ha abbandonata da piccola e sono cresciuta con la mia mamma, ora in pensione, che faceva l'operaia e che si è sempre sacrificata per crescermi e farmi studiare».

Ma suo padre l'ha riconosciuta?

«Alla fine sì ma non si è mai interessato a me in alcun modo, né economico né morale. Sono stata io ad un certo punto della mia vita a volerlo conoscere». 

E come è stato incontrare suo padre?

«È andata male. Siamo persone diverse ed il suo abbandono mi ha fatto profondamente male. Soffro di crisi di panico e mi manca la fiducia nel genere maschile; posso dire che soffro della sindrome dell'abbandono». 

E non ha mai pensato di farsi aiutare?

«Certo e l'ho anche fatto. Ho anche sofferto di anoressia ma oggi, alla luce di quello che ho capito dalla vicenda di Terrazza sentimento, ho voglia di cambiare registro ed affidarmi anche ad un "life coach" che riesca a farmi passare le paure che da troppo tempo mi attanagliano». 

Così è entrata nel mondo dello showbiz?

«Mi sono fatta notare con il mio topless da Rocco Papaleo nella trasmissione "Maledetti amici miei". Quando ho mostrato il seno nudo sono svenuti tutti. Avevo fatto la coniglietta di Playboy e inventato la "Sexy colf"». 

Cosa è la sexy colf?

«La realizzazione di un sogno erotico per molto uomini. Andavo nelle case delle persone e facevo le pulizie in lingerie o vestita come desideravano. Mi creda, ho avuto molto successo».

Non dubito Giorgina. Ma dal fare le pulizie c'era qualcuno che voleva spingersi oltre?

«A me non è mai accaduto. Ero molto chiara all'inizio del rapporto di lavoro e dicevo che si poteva guardare ma non toccare. Ho perso tante occasioni ma la chiarezza mi è servita per non avere problemi di sorta».

Ed adesso qual è il suo progetto?

«Sto studiando recitazione con Pierluigi Arcidiacono, ma nutro sempre la speranza di andare all'Isola dei Famosi». 

Tornando a Terrazza sentimento, e visto il suo diploma in psicopedagogia, com' è lo spaccato delle ragazze di oggi che frequentavano le feste di Genovese?

«Sono ragazze che vogliono fotografarsi con la Chanel e farsi dei bei viaggi. In tutto questo bisogno di apparire il mondo "social network" ha le responsabilità».

Quali?

«Di amplificare un mondo del "vorrei essere" e non dell'essere». 

E che consiglio darebbe, oggi, a loro?

«Di essere capaci di dire di no. La libertà non vuol dire disponibilità a tutto».

Da "liberoquotidiano.it" il 4 novembre 2021. A Storie italiane, in onda su Rai Uno e condotto da Eleonora Daniele, si affronta il caso Genovese dopo lo scandalo emerso nel corso delle feste dell'imprenditore milanese tutte a base di droga e alcol. Secondo l'accusa erano coinvolte anche delle minorenni. La conduttrice ospita una persona della security e una delle partecipanti a quelle feste. L'addetto alla sicurezza ricorda: "C'erano diverse stanze private, ma ne ricordo una in particolare dove entrava solo chi diceva lui e chi autorizzava lui. Molte delle persone che entravano erano molto giovani, alcune sembravano anche minorenni. Non so con certezza cosa potesse succedere però in quelle stanze. Le feste si facevano di media 1 o 2 volte al mese e che avevano costi molto elevati, vista la partecipazione anche di chef stellati. Io non sospettavo quello che c'era dietro, mi sembravano feste come se ne fanno tante", ha spiegato. Dopo l'addetto alla security ecco anche l'intervista ad una delle partecipanti delle feste di Genovese che racconta che per le feste dell'imprenditore c'erano diverse chat: "Una era proprio per le sue feste, in cui si chiedeva la presenza di ragazze immagine, giovani che avrebbero dovuto prendere parte alla festa per divertire, sorridere ed essere spigliate per un cachet di 200-300 euro. Non mi hanno mai offerto droga e non ho mai visto nulla di sospetto, ma confermo la presenza di molte persone famose e della Milano bene", conclude.

Da corriere.it il 2 novembre 2021. La difesa di Alberto Genovese sta valutando se risarcire la vittima del presunto stupro che l’imprenditore del web avrebbe commesso tra il 10 e l’11 ottobre 2020 nell’attico in centro a Milano noto come «Terrazza sentimento». È quanto emerge dall’udienza preliminare in cui il 44enne è imputato per violenza sessuale e cessione di stupefacenti per l’episodio dell’ottobre 2020 e di un altro precedente ai danni di un’altra ragazza nel luglio 2020 a Villa Lolita, sull’isola di Ibiza. Da quanto appreso con la seconda vittima non vi sarebbe al momento alcuna interlocuzione con al centro una proposta risarcitoria. Nell’udienza odierna davanti al gup Chiara Valori si sono costituite e sono state ammesse come parte civile le due giovani parti offese e anche l’associazione nazionale D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza). Il procedimento è stato aggiornato al prossimo 28 gennaio quando Genovese, difeso dai legali Luigi Isolabella e Davide Ferrari, dovrà sciogliere la riserva se essere giudicato con il rito abbreviato o con quello ordinario.

L’avvocato della 18enne

«La mia assistita non sta ancora bene, ha subito danni importanti sia fisici che psicologici, valutati da un medico molto stimato, danni sia patrimoniali che non patrimoniali», ha chiarito l’avvocato Luigi Liguori, legale della giovane che sarebbe stata violentata quando aveva da poco compiuto 18 anni. Fino all’udienza del 28 gennaio i difensori dell’ex «mago» delle start up digitali avranno la possibilità di proseguire le trattative con quelli della ragazza per arrivare ad un risarcimento (quantificato nell’atto di costituzione come parte civile per centinaia di migliaia di euro). «La difesa deve valutare se c’è la possibilità di aderire alle richieste», ha spiegato l’avvocato Liguori. Mentre la possibilità di versare una somma anche all’altra ragazza pare sfumata perché le trattative si sarebbero subito interrotte.

L’interrogatorio di Alberto Genovese

Dopo la chiusura a luglio dell’inchiesta, coordinata dall’aggiunto Mannella e dai pm Stagnaro e Filippini e condotta dalla Squadra mobile, Genovese è stato interrogato l’8 ottobre: ha sostenuto, come già in altri interrogatori, di avere agito sotto l’effetto di droga, di cui era «schiavo» e di non avere mai percepito «dissenso» da parte delle giovani che erano altrettanto «alterate». L’imprenditore dalla fine di luglio si trova ai domiciliari in una struttura in provincia di Varese per disintossicarsi dalla cocaina. Era finito in carcere il 6 novembre 2020.

Alberto Genovese, "l’ho ammazzata": confessione-choc della cugina, la notte dell'orrore. Libero Quotidiano il 31 ottobre 2021. Si torna a parlare di Alberto Genovese, in attesa di martedì, giorno in cui si celebrerà la prima udienza del processo per violenza sessuale. Se ne torna a parlare perché trapela quanto detto agli investigatori durante gli interrogatori, in cui parla anche della sua dipendenza dalla droga, di come sia cominciata cinque anni fa e di come sia poi tutto precipitato a tempo record. E dai verbali emergono anche le parole della cugina del manager, Giorgia B., figlia della sorella della madre di Genovese, oggi 38enne. Giorgia è sempre stata vicinissima ad Alberto, che la aveva coinvolta in tutte le sue attività, tanto da darle una quota e un lavoro in una delle sue start-up. E in un verbale dello scorso 7 aprile, rivelato da Repubblica, si legge: "Siamo come fratelli. Mi ha confidato di avere tante donne. Moltissime gli ronzavano attorno. So che lui faceva molti regali ed era molto generoso. Ricordo in particolare una borsa di Chanel. Mi aveva detto di averla regalata a una ragazza dopo un rapporto violento, forte.. e mi disse che io non avrei voluto avere un regalo di quel genere a quel prezzo.. qualche sua fidanzata si è auto-fatta dei regali, usando le carte di credito di mio cugino". Una testimonianza drammatica, quella di Giorgia. Sulla notte del 10 ottobre, quella delle venti ore di violenza contro una 18enne, la cugina rivela: "Mi ha detto di essersi reso conto di averle fatto male. Ha cominciato a dirmi quello che le aveva fatto, ma io l'ho interrotto subito. Ricordo che eravamo a pranzo in un castello (...) a un certo punto hanno messo un lento e io mi sono commossa, perché era da tanto - gli ho detto - che mancavano occasioni del genere. Alberto mi ha risposto: Bello tutto, ma lo sai che io mi voglio drogare e andare a letto con le tipe". Prima di allora, di altre ragazze, "mi aveva detto cose tipo l'ho uccisa, l'ho ammazzata", conclude la cugina.

Alberto Genovese ai pm: "Cinque anni fa il mio inizio con la cocaina". I racconti alla cugina delle violenze alle ragazze. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 31 ottobre 2021. L'imprenditore accusato di aver violentato due ragazze a Milano e Ibiza interrogato dopo la chiusura indagini. Martedì prima udienza del processo per la costituzione delle parti civili. "La prima riga", cinque anni fa. Alberto Genovese ricorda esattamente quando ha incontrato per la prima volta la cocaina. Una spirale che ricostruisce dopo oltre otto mesi in carcere a San Vittore, a quasi un anno dall'arresto, accusato di stupri violenti e uso strabordante di polvere bianca e Ghb, con cui rendeva incoscienti e senza difese le sue vittime. Fa il nome di un'amica, la sua iniziazione alla droga. "Nell'agosto 2016, la C. mi fa fare la mia prima riga...e da lì è stato un crescendo, da un uso di tipo anestetizzante a un uso di tipo sostanzialmente annullante". Una dipendenza sempre più stretta - racconta l'8 ottobre scorso alla pm Rosaria Stagnaro, che lo interroga insieme agli investigatori della squadra mobile di Milano - una deriva che lo porta sempre più lontano dall'altro Genovese - se di altra persona si può parlare quando le accuse sono così pesanti -, l'imprenditore geniale diventato in pochi anni milionario con le sue intuizioni di successo. Da quel mondo alle aule del tribunale: martedì davanti al gup Chiara Valori la prima udienza, in ci si limiterà alla individuazione delle parti civili. Genovese parla delle feste alla Terrazza Sentimento, il suo attico a pochi passi dal Duomo di Milano, e ricostruisce (questa ricordiamo è la sua versione) quello che avveniva. "I miei erano droga party, le ragazze venivano per la droga. Erano ragazze che facevano largo uso di sostanze da tempo, che non hanno avuto la fortuna di incontrare qualcuno che le tirasse fuori...". Di loro dice ancora, sempre nella ricostruzione di un uomo accusato di violenza sessuale, che oggi "probabilmente continuano a fare uso abbondante di droga, e la cosa chiaramente mi dispiace...". Sia a Milano che a Villa Lolita, a Ibiza, gli invitati si abbeveravano al fiume di polvere bianca messa a disposizione dal padrone di casa. "Solo pochi di loro partecipavano aggiungendo, ma era più un gesto simbolico per non apparire come scrocconi, che non una vera volontà di contribuire. Tutti gli invitati ne facevano uso". Genovese aveva una sola preoccupazione. "Che non ci fossero mai persone presenti alle feste che non fossero avvezze alle droghe, mi sentivo in forte imbarazzo a essere sotto l'effetto laddove ci fossero persone che, invece, erano sane. Era una situazione che mi creava disagio, e quel disagio veniva amplificato dalla droga e diventava panico. Quindi mi accertavo sempre che tutte le persone fossero bene intrise in quel mondo, ora fortunatamente lontano", dice alla pm, dopo aver iniziato il percorso di riabilitazione. Chi vede trasformare Alberto Genovese, è Giorgia B. figlia della sorella della madre dell'imprenditore, oggi 38 enne, più che cugina è l'ombra di Genovese, che la coinvolge nelle sue attività, tanto da darle una quota e un lavoro in una delle sue start-up. "Siamo come fratelli - mette a verbale in procura lo scorso 7 aprile -. Mi ha confidato di avere tante donne. Moltissime gli ronzavano attorno. So che lui faceva molti regali ed era molto generoso. Ricordo in particolare una borsa di Chanel. Mi aveva detto di averla regalata a una ragazza dopo un rapporto violento, forte e mi disse che io non avrei voluto avere un regalo di quel genere a quel prezzo. qualche sua fidanzata si è auto-fatta dei regali, usando le carte di credito di mio cugino". Genovese racconta a Giorgia della notte del 10 ottobre, le venti ore di violenza a una giovane appena diciottenne, tenuta chiusa nella camera da letto durante una festa nel suo attico. "Mi ha detto di essersi reso conto di averle fatto male. Ha cominciato a dirmi quello che le aveva fatto, ma io l'ho interrotto subito. Ricordo che eravamo a pranzo in un castello (...) a un certo punto hanno messo un lento e io mi sono commossa, perché era da tanto - gli ho detto - che mancavano occasioni del genere. Alberto mi ha risposto: 'Bello tutto, ma lo sai che io mi voglio drogare e andare a letto con le tipe'". Prima di allora, di altre ragazze, "mi aveva detto cose tipo 'l'ho uccisa', 'l'ho ammazzata'". Eppure, Genovese era sempre circondato da giovani, sostiene ancora la sua cugina. "Tornavano sempre, per cui deduco che andasse loro bene cosi...gli si buttavano ai piedi, facevano a gara tra loro per andare insieme a lui...ero molto stupito della naturalezza con cui le ragazze gli si offrissero". Giorgia ricorda anche la violenza a Ibiza, su una ventitreenne. "Sono venuti due del gruppo a chiedere acqua e zucchero per una persona che stava male". Quando Giorgia chiede cosa fosse successo, "mio cugino mi ha risposto che andava tutto bene. Durante quella vacanza consumavano droghe in grande quantità. Frequentando Alberto nel tempo ho cominciato a riconoscere alcuni segnali che indicavano il consumo delle sostanze e i loro effetti su di lui".

Il racconto di Alberto Genovese delle violenze ai pm: «Io ho un range 16/20, in Italia è legale, tecnicamente». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. C’è un prima e c’è un dopo nella vita di Alberto Genovese: il confine lo traccia lui stesso con la droga, la valanga di droga che, dopo una cocente delusione d’amore, lo avrebbe fatto precipitare nella ricerca di donne giovanissime, anche minorenni, disposte a condividere, almeno così dice, il doloroso piacere del sesso estremo. Lucido, razionale, l’uomo diventato milionario con le startup ai pm milanesi che lo interrogano una ventina di giorni fa ammette solo ciò che non può non ammettere, ma in definitiva nega di aver drogato e violentato brutalmente almeno due ragazze attirate nelle sue splendide residenze dalle feste a base di droga, quella stessa sotto la quale adesso vorrebbe seppellire le pesantissime accuse che un anno fa lo hanno portato in carcere. Nel primo interrogatorio successivo all’arresto del 6 novembre aveva pianto chiudendosi in silenzi attoniti. Dopo un anno senza droga e due mesi ai domiciliari in una clinica pubblica per tossicodipendenti, Genovese sembra tornato pienamente padrone di quella intelligenza che ha fatto di lui un Re Mida del web e che ora lo muove con abilità tra le pieghe delle accuse. È stato lui stesso con i suoi legali, gli avvocati Luigi Isolabella e Davide Ferrari, a chiedere di essere sentito nuovamente ai pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini e all’aggiunto Letizia Mannella che avevano già chiuso l’inchiesta e si preparavano, come poi hanno fatto, a chiedere il suo rinvio a giudizio. È l’8 ottobre. Genovese ammette che prediligeva ragazze molto giovani, altrettanto magre e pronte a drogarsi. «Io sono un porco pedofilo», scrive il 28 agosto 2020 nella chat tra maschi che i magistrati gli contestano. «Io ho un range 16/20, in Italia è legale, tecnicamente», spiega dimostrando agli amici di aver studiato la legge che, se «non sei un suo parente o un prof», consente rapporti con una minorenne consenziente che ha compiuto 16 anni: «Nel 2018 ho fatto tre sedicenni». Nelle sue feste a Terrazza sentimento, splendido attico con vista sul Duomo di Milano, e a Villa Lolita ad Ibiza la droga scorreva a fiumi. «Le ragazze venivano apposta per drogarsi» mentre lui viaggiava in «un universo in cui tutto era permeato dalla droga. Io ero arrivato addirittura a pensare di non poter stare con una ragazza che non fosse drogata». L’accusa dice che era l’uomo a drogarle per poi abusare di loro a suo piacimento. Come la giovane di 18 anni che l’11 ottobre 2020, dopo quasi 24 ore di violenze è riuscita a fuggire seminuda e a fermare una volante della Polizia facendolo arrestare un mese dopo. Quando i magistrati gli chiedono cosa ricorda, il 44enne spesso si rifugia dietro la coca che tirava senza ritegno da tre giorni e che gli annebbiava la mente. Ma non manca di ricordare che la sera prima in camera da letto ci andarono «volontariamente, consensualmente» per «fare sesso e assumere sostanze», che la ragazza aveva voluto la Ketamina per entrare in un «mondo colorato e fatato» e aveva preteso soldi per fare sesso estremo. Lei ai pm ha dichiarato in lacrime di essere stata drogata inconsapevolmente, di non ricordare nulla, di essersi resa conto di ciò che aveva subito solo mesi dopo dagli atti dell’inchiesta, come i video delle telecamere disseminate nell’attico che hanno impietosamente registrato le manovre sadiche e le sue urla di dolore. L’imprenditore mette a verbale di essere riuscito a guardare quei video «soltanto parzialmente» perché, ora che non è più schiavo della droga, gli provocano «attacchi di panico», «un moto di repulsione, di ansia, di sofferenza», «schifo e disgusto». La sua versione è che si trattò di un «incidente» dovuto al fatto che non avevano concordato una parola d’ordine che interrompesse il rapporto estremo, ma c’è da chiedersi quale lucidità possano avere due strafatti di droga. Versione analoga per la 23enne che avrebbe violentato ad Ibiza con la sua fidanzata Sarah Borruso (imputata) e che, dice Genovese, era «assolutamente e completamente consapevole di quello che stava facendo», aveva preso più droghe e voleva soldi per fare sesso, ma non esclude che questa richiesta possa essere il frutto di una allucinazione. Insiste sull’origine della sua tragedia: ha iniziato con la cocaina ad agosto 2016 dopo due anni di alcol seguiti alla separazione dalla donna con cui aveva convissuto sette anni progettando di avere figli. Fino ad allora, la sua era «una vita piena, viva, dedicata al lavoro, con affetti sinceri» e clamorosi successi imprenditoriali da centinaia di milioni: «Ero felice». «Quando mi ha lasciato è finito tutto», «poi ho trovato la medicina e quando ho trovato la medicina è stata una liberazione perché non pensavo più a niente. È stata l’anestesia della mia vita». Da una riga passa a «farsi i panetti per annullarsi completamente» in un «vortice in cui ho perso ogni forma di umanità». Anche verso le donne, dicono le indagini della Squadra mobile. Come un’altra vittima (imputazione stralciata) di cui chattava: «La metto a dieta, la tengo un po’ come fidanzata principale, non parla, non sporca, si fa fare qualsiasi cosa». Consolava le donne con costosissime borse Chanel. «Mi sono allontanato dalle persone che erano i miei amici storici, sani», afferma amareggiato, per circondarsi di chi lo usava «per il tenore di vita che offrivo, per i regali, per le cene, per le vacanze, per tutto quello che era il contorno intorno a me», come le molte ragazze, almeno 200, che temeva volessero solo «farsi mettere incinte». Tutti «sono spariti un secondo dopo» l’arresto.

Da ilgiorno.it il 18 ottobre 2021. E' già diventata un caso politico l'ennesima uscita "spericolata" di Vittorio Feltri, direttore editoriale di Libero e da pochi giorni capogruppo di Fratelli d'Italia in consiglio comunale a Milano, dove - ha già fatto sapere - non si farà vedere molto. Ma ben più grave è il contenuto del tweet pubblicato oggi in rete dal giornalista bergamasco in merito al caso di Alberto Genovese. "Siamo d'accordo - ha scritto Feltri -  bisogna condannare Genovese se ha stuprato. Però un pizzico di ammirazione egli lo merita: ha s..... una ragazza per 20 ore. Il mio record è 6 minuti lordi». Il tweet è rapidamente scomparso ma qualcuno ha fatto in tempo a immortalarlo via screenshot e ripubblicarlo tanto che il topic #Feltri è diventato tra le tendenze di Twitter. Mezzora dopo la sparizione del tweet contestato ne è comparso uno nuovo: "Il senso dell'umorismo medio su Twitter è pari a quello di una lumaca bollita". Da ricordare che ieri la Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per Genovese, l'imprenditore del web accusato di presunte violenze sessuali ai danni di una 18enne il 10 ottobre 2020 a Milano nel suo attico di lusso 'Terrazza sentimento" e di una 23enne il 10 luglio del 2020 a Ibiza, sempre dopo averla resa incosciente con mix di droghe, tra cui cocaina e ketamina. La richiesta di processo riguarda anche la sua ex fidanzata, indagata in concorso per i presunti abusi avvenuti nell'isola spagnola. "A Meloni donna e madre cristiana chiediamo di allontanare il suo capolista dalle nostre istituzioni”, scrive il consigliere lombardo Nicola Di Marco del M5s. «Questo non è folclore, non è una battuta. Queste parole - afferma - sono feccia. Queste parole sono la voce di Fratelli d'Italia a Milano. Per il decoro delle nostre istituzioni ci auguriamo che Vittorio Feltri lasci la politica e ogni attività pubblica. Chiediamo che Giorgia Meloni, che è una donna, che è una mamma, che è cristiana, prenda immediatamente posizione e allontani il suo capolista dal Consiglio Comunale».

TERRAZZA SENTIMENTO. LA PROCURA DI MILANO CHIEDE IL PROCESSO PER ALBERTO GENOVESE PER DUE CASI DI VIOLENZA SESSUALE. Il Corriere del Giorno il 14 Ottobre 2021. La richiesta di giudizio firma dal procuratore aggiunto di Milano Letizia Mannella e dei pm Paolo Filippini e Rosaria Stagnaro. Analoga richiesta di rinvio a giudizio è stata presentata anche nei confronti di Sarah Borruso l’ex fidanzata di Genovese. La procura di Milano ha notificato oggi la richiesta di rinvio a giudizio per il manager 44enne Alberto Genovese, fondatore delle società Facile.it e Prima Assicurazioni, per rispondere delle gravi accuse per due casi di presunta violenza sessuale, che Genovese avrebbe commesso a Milano, il 10 novembre dell’anno scorso durante una festa a “Terrazza Sentimento” ed a Ibiza lo scorso 10 luglio scorso, ai danni di due ragazze stordite con mix di droghe. La richiesta di giudizio porta la firma del procuratore aggiunto di Milano Letizia Mannella e dei pubblici ministeri Paolo Filippini e Rosaria Stagnaro una settimana dopo l’interrogatorio a cui l’imprenditore si era sottoposto dopo aver ricevuto a luglio l’avviso di chiusura delle indagini preliminari. Una richiesta di rinvio a giudizio è stata presentata anche nei confronti di Sarah Borruso l’ex fidanzata di Genovese, co-indagata per violenza sessuale di gruppo per l’episodio ai danni di una 23enne che i due avrebbero commesso a ‘Villa Lolita’ sull’isola delle Baleari. Genovese, difeso dai legali Luigi Isolabella e Davide Ferrari, e Borruso, difesa dall’avvocato Gianmaria Palminteri, potranno chiedere entro 15 giorni di essere ammessi al giudizio abbreviato. Genovese si è sempre difeso dalle accuse sostenendo che si sarebbe trattato di rapporti consenzienti seppure ‘estremi‘ con uso di cocaina e ketamina, mentre per gli inquirenti le ragazze erano state drogate a tal punto da essere incoscienti subendo rapporti sessuali non desiderati. Il manager deve rispondere delle accuse di violenza sessuale aggravata, detenzione e cessione di stupefacenti e lesioni per il caso del 10 ottobre (Terrazza Sentimento) dell’anno scorso quando l’al termine di un festino nel suo attico di lusso avrebbe abusato per ore di una 18enne, che lo ha denunciato facendo scattare le indagini della squadra Mobile, venendo arrestato il 6 novembre 2020. Inoltre Alberto Genovese dovrà rispondere dell’accusa di aver stuprato a Ibiza il 10 luglio 2020, ma questa volta insieme alla fidanzata Sarah Borruso, una modella di 23 anni, facendole assumere un mix esplosivo di cocaina e ketamina. Anche per questa vicenda l’imprenditore ha ricevuto lo scorso febbraio una seconda ordinanza di custodia cautelare, che però non ha coinvolto l’ex fidanzata. Genovese ha anche subito un sequestro di 4,3 milioni per presunti reati fiscali. La Procura di Milano ha invece stralciato dal procedimento le contestazioni relative su dei presunti abusi denunciati da altre due ragazze, per i quali il gip Tommaso Perna, non ritenendo credibili le loro versioni, in vista di una probabile richiesta di archiviazione aveva negato l’arresto chiesto dai pm. Per Genovese si prevede un processo complicato lungo. Da alcuni mesi si trova agli arresti domiciliari ricoverato in una clinica pubblica specializzata nel recupero dei tossicodipendenti, mentre i magistrati proseguono le indagini su altre due presunte violenze sessuali e sulle ipotizzate violazioni fiscali che l’imprenditore avrebbe commesso nella gestione delle sue società.

Da ansa.it l'8 ottobre 2021. Ha detto di avere agito sotto l'effetto di droga, di cui era "schiavo" e di non avere mai percepito "particolare dissenso" da parte delle giovani con cui faceva sesso e che erano altrettanto alterate. Non è cambiata la linea difensiva, nell'interrogatorio reso oggi pomeriggio davanti ai pm, di Alberto Genovese, l'imprenditore del web che nel luglio 2020 si è visto notificare un avviso di chiusura delle indagini in vista della richiesta di rinvio a giudizio con l'accusa di aver stuprato una 18enne nel suo appartamento di lusso in pieno centro a Milano e una 23enne a Ibiza. Violenze commesse tra l'estate e l'autunno dell'anno scorso e in entrambi i casi dopo aver reso incoscienti, con un mix di droghe, le due giovani vittime. L'imprenditore, che da due mesi si trova ai domiciliari in una struttura in provincia di Varese per disintossicarsi, era finito in carcere il 6 novembre dell'anno scorso. I pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini, con l'aggiunto Letizia Mannella, potrebbero ora avanzare la richiesta di rinvio a giudizio anche se l'imprenditore potrebbe scegliere di essere giudicato con rito abbreviato, che consente lo sconto di un terzo della pena.

Matteo Cassol per mowmag.com il 6 agosto 2021. Accusato di aver prima drogato e poi violentato almeno due donne, Alberto Genovese ha lasciato San Vittore dopo nemmeno nove mesi ed è passato agli arresti domiciliari in una clinica privata. L'ordinanza di scarcerazione di Alberto Genovese, che MOW ha visionato, è datata 27 luglio, ma a quanto pare l’imprenditore è stato scarcerato solo stamattina ed è arrivato oggi nella comunità terapeutica Cres di Cuveglio, in provincia di Varese, preferita dai magistrati alla clinica milanese Le Betulle in quanto più lontana dal capoluogo lombardo, dove si era sviluppata la vicenda. Nell’ordinanza si legge che “all’epoca del fermo l’indagato si trovava in stato di alterazione psicologica dovuta allo smodato consumo di stupefacenti, mentre oggi egli si è disintossicato”. Le esigenze cautelari si ritengono attenuate in relazione al pericolo di fuga considerando che Genovese “ha acconsentito a sottoporsi a forme di controllo quali l’applicazione del braccialetto elettronico” e che “è in procinto di devolvere l’intero patrimonio in un trust”. In clinica Genovese “potrà proseguire il percorso di recupero dalla tossicodipendenza avviato in regime inframurario e in accordo con le indicazioni e le prescrizioni del SerD”. La creazione del trust è stata prevista per farci confluire il patrimonio integrale dell’indagato, con la finalità di devolvere “la gestione del proprio patrimonio separandosi cosi in termini oggettivi dalle proprie disponibilità e dal controllo delle stesse… garantendo comunque il pagamento delle spese di giustizia inerenti tali procedimenti, eventuali risarcimenti dei anni dovuti alle P.O. (persone offese, ndr) nonché il pagamento di qualsiasi debito d'imposta e/o sanzioni amministrative”. Nell’ordinanza è contenuto pure un passaggio in cui si dice che “è innegabile che l'attenzione mediatica di cui il presente procedimento è stato oggetto, nel bene e nel male, ha permesso di disvelare un sistema patologico di relazioni interpersonali, fortemente alterato dall’uso smodato di sostanze stupefacenti, talvolta volontario e talaltro indotto, che aveva la sua genesi all'interno degli eventi organizzati dall'indagato, nei quali il Genovese, nella connivenza generale dei partecipanti agli eventi stessi, selezionava le proprie vittime”. L'avvocato Ivano Chiesa, difensore di due delle presunte vittime, sentito in merito da MOW commenta: “Ribadisco quello che ho già detto, appenderò questa ordinanza in studio come linea guida a cui rifarmi per tutti i casi che avrò di persone che con reati meno gravi e con gli stessi problemi si tossicodipendenza non ottengono gli arresti domiciliari, tantomeno con il braccialetto elettronico, tantomeno in comunità, dopo dozzine di istanze”. L’avvocato di Genovese, Luigi Isolabella, intervistato da Telelombardia, dice invece che “lui vuole affrontare il percorso di uscita dalla droga e sta facendo di tutto per farlo. Si rende conto della drammaticità della droga, delle conseguenze della droga. È determinato a uscirne. Cosa che ha già iniziato a fare e adesso lo faremo in modo più profondo". L’imprenditore, 44 anni, era stato arrestato il 6 novembre scorso nell'inchiesta della squadra mobile di Milano, coordinata dall'aggiunto Letizia Mannella e dai pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini. Per lui – secondo quanto riporta l’Ansa – “ si avvicina la richiesta di processo per presunti abusi nei confronti di una 18enne il 10 ottobre scorso a Milano dopo un «festino» nell'attico di lusso «Terrazza sentimento», a due passi dal Duomo, e di una 23enne il 10 luglio 2020 a «Villa Lolita» a Ibiza, sempre dopo averla resa incosciente con mix di cocaina, ketamina e mdma”. “Sta bene – ha aggiunto Isolabella riguardo al suo assistito, con il quale lo si vede colloquiare in alcune delle foto – . Affronteremo il processo, affronteremo le carte, affronteremo la sostanza. La salute in questo momento è buona. Sicuramente deve recuperare tanto. Il percorso di recupero è fondamentale. Adesso vedremo quanto durerà”. Molti si chiedono se sia giusto che una persona accusata di reati così gravi (per quanto non ancora condannata) possa lasciare il carcere dopo nemmeno nove mesi per una comunità sul lago con vari comfort. Qualcosa di evidentemente precluso a molti altri magari condannati per reati di minore entità, se è vero che, come riporta l'associazione Antigone, l'affollamento delle carceri oggi supera il 113%, e dall'inizio dell'anno ci sono stati 18 suicidi. 

Da corriere.it il 27 luglio 2021. Alberto Genovese lascia il carcere di San Vittore. Dopo quasi nove mesi, l’imprenditore del web passa in regime di arresti domiciliari in una clinica privata specializzata nella diagnosi e cura dei disturbi psichiatrici e delle dipendenze. Per evitare il rischio di fuga Genovese avrà anche un braccialetto elettronico. Lo ha deciso con un’ordinanza il gip di Milano Tommaso Perna accogliendo l’istanza degli avvocati Luigi Isolabella e Davide Ferrari, legali del 43enne che si trovava in custodia cautelare in carcere dallo scorso 7 novembre per due presunti episodi di violenza sessuale commessi a Ibiza ai danni di una 23enne (10 luglio 2020) e nel suo attico in centro a Milano nei confronti di una 18enne (10-11 ottobre 2020). A Genovese, imprenditore fondatore di diverse start up digitali, vengono contestati i reati di violenza sessuale aggravata, anche di gruppo, lesioni personali e detenzione e cessione di sostanze stupefacenti. Il Tribunale del Riesame aveva accolto il ricorso della Procura su un sequestro per reati fiscali, bocciato dal gip, di 4,3 milioni di euro a carico del plurimilionario «mago del web», ma ora la parola passerà alla Cassazione. Nelle prossime settimane sarà depositata la relazione di un perito, nominato dal gip su istanza della difesa, che sta analizzando gli audio delle telecamere interne di «Terrazza sentimento», perché la difesa ha chiesto di verificare se in quel «festino» di ottobre la ragazza possa aver espresso un consenso.

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 30 luglio 2021. Il sadico stupratore Alberto Genovese (non è solo un’accusa: ci sono le prove video) ha lasciato il carcere ed è agli arresti ospedalieri per seguire un «percorso di disintossicazione dalla cocaina». Ci risiamo con questa cazzata della disintossicazione da cocaina, che non esiste, come sanno i medici e come dovrebbero sapere i giudici: la cocaina non dà dipendenza fisica, ma solo psichica; non esiste una cura intesa come «disintossicazione», per smettere basta smettere, punto, anche se il cosiddetto «down» depressivo che ne segue- ansia, confusione, apatia e aggressività - piacevole non è. Ma dura poco, e Genovese l'ha già sicuramente assorbito in galera. A paragone, dànno molta più dipendenza l'alcol o la semplice nicotina (per non parlare di altre droghe pesanti) perché entrano in circolo e quindi l'assuefazione è prettamente fisica. Il cocainomane, invece, pensa banalmente che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che assume cocaina, e lo stesso cocainomane, una volta che ha smesso, pensa che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che non la assume più: è questa la dipendenza. Quindi dicano che il carcere si deve scontare dopo un processo, che Genovese ha garantito il pagamento dei risarcimenti, delle spese di giustizia, delle sanzioni, delle tasse evase e soprattutto che dovrà tenere un braccialetto elettronico in attesa del processo: ce lo faremo bastare.

Da "Posta e risposta" di Francesco Merlo - "la Repubblica" il 30 luglio 2021.  

Caro Merlo, Alberto Genovese, quello di Terrazza sentimento, uscirà dal carcere per farsi curare in una clinica specializzata per le tossicodipendenze. Non so se anche gli altri tossicodipendenti reclusi possano usufruire dello stesso privilegio. Inoltre, le chiedo: il soggiorno nella clinica sarà pagato dallo Stato o sarà a carico di Genovese?

Margherita Smeraldi - Venezia

Risposta di Francesco Merlo

La cura non è un privilegio, ma un diritto. E vale per tutti, anche per Genovese, che dopo 9 mesi a San Vittore, andrà ai domiciliari, non in una clinica di lusso, ma in una struttura pubblica, la comunità Crest di Cuveglio. Concluse le indagini, il processo per stupro è vicino e non c'è ragione di continuare a curare in carcere, vale a dire molto male, una tossicodipendenza. E però io nelle sue righe leggo, cara Smeraldi, il brutto sentire comune che vorrebbe far morire in cella ("buttate via la chiave"), e prima del processo, chi è accusato di delitti orribili. È una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada con la riflessione e con l'aiuto della civiltà diffusa: in Italia non è facile. La forza della Giustizia è il distacco: ha sempre bisogno di una distanza e mai deve confondersi con la rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto.

Da "lastampa.it" il 10 luglio 2021. A otto mesi dall’arresto, la procura di Milano ha chiuso il primo capitolo dell’inchiesta su Alberto Maria Genovese. Quello sulle due brutali violenze sessuali che l’ex mago delle startup avrebbe commesso ai danni di altrettante giovanissime ospiti delle sue feste. Il primo caso accertato dagli investigatori risale alla notte del 10 ottobre e, il 6 novembre, ha portato in carcere l’imprenditore. La vittima è una modella 18enne stuprata nella camera padronale dopo un esclusivo festino a base di droga a “Terrazza sentimento”, il suo superattico con vista sul Duomo di Milano. Mentre sulla porta era stato piazzato un buttafuori, per l’accusa, Genovese avrebbe ripetutamente abusato della ragazza, a cui avrebbe più volte “somministrato” stupefacenti fino a ridurla “in stato di semincoscienza”. E non si sarebbe fermato neanche quando lei, esausta, lo avrebbe “implorato di smetterla”, tanto da farla finire in ospedale con lesioni che i medici hanno giudicato guaribili in 25 giorni. Il secondo è un episodio di violenza sessuale di gruppo che Genovese avrebbe commesso a Ibiza in concorso con la fidanzata dell’epoca, Sarah Borruso (anche lei indagata). I fatti risalgono al luglio dello scorso anno, durante una vacanza che il 44enne aveva offerto agli amici a “Villa Lolita”. La presunta vittima in questo caso è una 23enne che si è presentata in Questura mentre le indagini erano già in corso. Nel provvedimento, i pm Letizia Mannella, Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini contestano a Genovese anche la droga (cocaina, ketamina, mdma) che in più occasioni avrebbe “ceduto e somministrato” alle sue “prede” e che i poliziotti della squadra mobile, diretti da Marco Calì, hanno sequestrato nella sua cassaforte. Restano aperti due tronconi d’indagine: quello più ampio sulla droga che circolava a fiumi veniva servita sui piatti nel corso dei party patinati e l’ultimo, sui soldi, che vede il 44enne indagato per reati fiscali. 

“TERRAZZA SENTIMENTO”. LA PROCURA DI MILANO CHIUDE L’INDAGINE SULLE VIOLENZE SESSUALI. L’IMPRENDITORE ALBERTO GENOVESE VERSO IL PROCESSO. Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2021. Sono state chiuse le indagini nei confronti di Alberto Genovese, l’imprenditore arrestato lo scorso novembre a Milano con l’accusa di aver abusato di due ragazze di 18 e 23 anni durante due feste a base di alcool e droghe. La Procura di Milano chiederà il rinvio a giudizio per Genovese che si avvicina ormai al processo. La Procura di Milano ha concluso le indagini nei confronti dell’imprenditore Alberto Genovese fondatore dei siti web Facile.it e della compagna assicuratrice Prima.it, in attesa della richiesta di processo nei suoi confronti a seguito delle presunte violenze sessuali ai danni di una 18enne il 10 ottobre scorso a Milano nel suo attico di lusso “Terrazza sentimento” e di una 23enne il 10 luglio 2020 in una villa nell’isola di Ibiza in Spagna, dopo averla resa incosciente con mix di droghe. La chiusura delle indagini si riferisce alle imputazioni di violenza sessuale aggravata, detenzione e cessione di stupefacenti e lesioni per la vicenda del 10 ottobre quando l’ex fondatore di Facile.it e di Prima.it, quando al termine di un festino nel suo attico di lusso con vista sul Duomo e piscina, avrebbe abusato per ore di una 18enne, che poi lo ha denunciato facendo scattare le indagini della squadra Mobile, coordinate dall’aggiunto Letizia Mannella e dai pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini. Arrestato il 6 novembre Genovese risponde dell’accusa di aver stuprato, stavolta assieme alla fidanzata Sarah Borruso ma lei non è stata arrestata, una modella di 23 anni a Ibiza il 10 luglio, sempre dopo averle fatto assumere un `cocktail´ di cocaina e ketamina. Per questa vicenda ha ricevuto una seconda ordinanza cautelare a febbraio. Genovese attualmente si trova detenuto nel carcere di San Vittore. Per due volte i suoi avvocati hanno chiesto la revoca della misura cautelare ritenendola incompatibile con le sue condizioni di salute mentale e fisica. L’imprenditore infatti soffre di diverse problematiche legate alla tossicodipendenza. I suoi legali sostengono che, pur essendo sottoposto a una terapia farmacologia, non avesse mai avuto una diagnosi. Ma il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, Tommaso Perna, ha però respinto la richiesta basando la sua decisione sulla perizia elaborata dal direttore del Dipartimento salute mentale dell’Asl di Torino che non riteneva le condizioni di salute Genovese incompatibili con il carcere. A maggio il gip Perna, che aveva firmato le due ordinanze a carico dell’imprenditore Genovese, aveva respinto la richiesta di giudizio immediato e ora è arrivata la chiusura indagini che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio (seguirà l’udienza preliminare). A questo non è escluso che Genovese opti per il giudizio con rito abbreviato, che gli consentirebbe uno sconto di un terzo sulla pena ed un processo a porte chiuse. Il giudice delle indagini preliminari aveva respinto una richiesta di sequestro di 4,3 milioni per reati fiscali contestati ad Alberto Genovese, in un filone di indagine sulle sue movimentazioni finanziarie, ma la Procura di Milano ha fatto ricorso al Tribunale Riesame. Entro di luglio, poi, potrebbe essere depositata la perizia fonica, richiesta dalla difesa, sugli audio delle telecamere interne dell’abitazione. La Procura di Milano ha stralciato, invece, le contestazioni su presunti abusi denunciati da altre due ragazze e per i quali il gip Tommaso Perna, non ritenendo credibili le loro versioni, aveva negato l’arresto chiesto dai pm. Per questi episodi, a seguito di ulteriori necessarie valutazioni, si potrebbe arrivare ad una richiesta di archiviazione.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 24 maggio 2021. Dopo la Milano da bere, la Milano da stuprare. Quanta nostalgia, a quarant' anni di distanza, per una città dove l'illusione di sentirsi qualcuno era affidata al rito fatuo dell'apparenza, alla rucola e alla chiacchiera da foyer. Spazzata via - insieme alla classe politica che ne era l'espressione - la generazione spensierata di rampanti che ne era l'ossatura e la linfa vitale, nella ex capitale morale fiorisce una generazione di ricchi senza volto nè radici nè rappresentanza, miracolati da una economia impalpabile che non richiede conoscenze specifiche ma solo intuizioni fulminee. Sanno che la catastrofe può essere repentina quanto lo è stato il successo. E allora c'è poco da stupirsi se affidano le prove del proprio ego fuori controllo all'unico, immortale strumento di affermazione del maschio dominante: il controllo assoluto sulla donna, brutale, sbrigativo. Non serve essere affascinanti, non serve nemmeno quel po' di chiacchiera da cinepanettone che portava le serate degli anni Ottanta ad approdare sul materasso. Basta la chimica. La cocaina di Alberto Genovese, le benzodiazepine di Antonio Di Fazio, scorciatoie a poco prezzo per saltare a piè pari quel minimo sindacale di corteggiamento dall'esito incerto e approdare direttamente allo stupro puro e semplice. Apparire non serve, anzi questi rituali di sopraffazione si esaltano nei loft blindati come catacombe, unico occhio presente la videocamera destinata a replicare in eterno quei pochi o tanti minuti di dominio totale. Apparire non serve perchè non c'è nulla da mostrare, neanche l'abbronzatura da lettino del seduttore, neanche i muscoli fittizi da palestra. I Genovese, i Di Fazio, sono pallidi e smilzi, non subiscono il feticcio del benessere fisico. Sono inciampati per caso in montagne di soldi ma sanno che anche il denaro come strumento di seduzione ha fatto il suo tempo, nell'arena metropolitana si muove una generazione di donne che si è liberata di quella soggezione davanti al quattrino che un tot di loro mamme si portava appresso. E allora l'unica strada è lo stupro a forza di pillole, l'oggetto reso incosciente, pronto ad essere trascinato nel vuoto infinito che i signori della clic economy portano con sè.

Diritto di difesa. Il processo ad Alberto Genovese e l’ingiustizia italiana da talk show. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24/2/2021. Quello di Alberto Genovese – lo schifoso, il mostro, il riccastro tossicodipendente accusato di aver fatto non si sa più quante violenze a non si sa più quante giovani donne – è il caso dell’ingiustizia italiana. Lo affermo con piena convinzione, senza nessun intento polemico, con tutta la gravità necessaria, senza nessun fine provocatorio. Inutile precisare che non è l’unico, né il più grave: ma è quello che denuncia in modo esemplare ciò che non va nella nostra giustizia e nel diffuso modo di intenderne la funzione. Quello di Genovese è il caso dell’ingiustizia italiana perché dal momento dell’arresto, e senza sosta ormai da mesi, l’opinione pubblica è educata all’idea (anzi alla pratica) che la responsabilità della commissione di un delitto consenta ai giornali e alle televisioni, agli esperti di non si sa che cosa e agli psicologi prime time, ai criminologi da palco e ai tenutari dei talk, di sottoporre a giudizio la vita di una persona e di farla a pezzi indugiando pornograficamente e con insopportabile moralismo sui vizi del criminale: il tutto, con il risibile dettaglio che quella responsabilità è ancora da dimostrare e dovrebbe trovare sede di accertamento nel processo dove c’è quest’altra cosa trascurabile che è il diritto di difesa. Ma dice: «Ci sono i filmati!». E cioè: non parlarmi di presunzione di innocenza e di diritto al contraddittorio, perché qui ci sono prove a strafottere. Sul presupposto, dunque, che le garanzie di difesa costituiscano una specie di noioso presidio che la società deve tollerare quando ancora non si sa bene se uno è colpevole, ma devono essere accantonate senza tante storie quando, appunto come in questo caso, «ci sono le prove». Ma di nuovo: il principio che un fatto non è provato finché non è accertato in un processo, evidentemente, costituisce un altro trascurabile dettaglio. Com’è un dettaglio il fatto che in un sistema civile la prova di una responsabilità non autorizza a coprire l’imputato di piume e catrame e a offrirlo allo sputo della società indignata. Ma sopratutto è questo a fare del caso di Alberto Genovese l’esempio dell’ingiustizia italiana: la legittimazione dell’idea – e purtroppo, ancora, della pratica – che la giustizia sia lo strumento per correggere le propensioni aberranti della società immorale e corrotta, con la sentenza chiamata dal popolo a pronunciarsi non sulle ipotizzate responsabilità dell’indagato, ma sulla droga che fa male, sulle dissolutezze della vita festaiola, sul ripristino dei valori di papà e mamma da riaffermarsi nel dispositivo che darà tanti anni di carcere al milionario. Sarà impopolare ricordarlo, ma il cosiddetto Stato di diritto dovrebbe tutelare anche – forse innanzitutto – i diritti dei colpevoli; e dovrebbe tutelarli anche – forse innanzitutto – dalla società che si pretende migliore pretendendo di giudicarli. Perché c’è caso che una sentenza sia ingiusta anche quando l’imputato la merita: ed è il caso della sentenza già scritta. È il caso della sentenza che, senza processo, è già stata scritta contro Alberto Genovese.

Gianmarco Aimi per "mowmag.com" il 28 maggio 2021. Da genio delle startup a stupratore seriale. Da multimilionario invidiato e osannato a tossico fuori di testa del quale rinnegare la conoscenza. È la parabola di Alberto Genovese, imprenditore arrestato lo scorso novembre con l'accusa di violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e spaccio di droga per la notte tra il 10 e l'11 ottobre scorso su una diciottenne alla Terrazza Sentimento, il suo attico di lusso a pochi passi dal Duomo, e per la violenza a una ventitreenne durante una vacanza a Ibiza, lo scorso luglio. Oggi, 28 maggio 2021, festeggia 44 anni e sarà un compleanno amaro per l’ex fondatore di aziende sul web di successo (e molto redditizie), al quale il gip ha negato il trasferimento da San Vittore alla casa di cura considerata ancora «non idonea ad evitare una fuga». Ma chi lo conosce bene si dice certo che ormai, dopo tanti mesi dietro le sbarre e un percorso di disintossicazione, abbiamo capito le sue colpe. Parliamo di una delle sue amiche più vicine da prima che lui diventasse noto alle cronache. La chiameremo Alessia. Alessia preferisce rimanere anonima, prima di ora non aveva mai parlato e non è mai uscita né nelle trasmissioni né sui giornali. Ma lei c'era anni fa e c'è stata anche durante e dopo la caduta di un genio della tecnologia che la droga ha trasformato in un mostro.

Chi era l’Alberto Genovese, che hai conosciuto quando ancora non dava segni di squilibrio dovuto alle droghe?

Era una persona buona, fondamentalmente. Super socievole. Sempre disponibile per qualunque tipo di cena, pranzi o feste. Gli piaceva essere in compagnia e non stare mai da solo e amava far star bene gli altri, visto che aveva le possibilità economiche di farlo.

Lo consideri un amico o solo una conoscenza?

Un amico vero. Perché parlavamo di tutto, anche dei miei problemi. Mi ascoltava, mi dava consigli a livello umano, sennò non lo avrei definito un amico ma soltanto uno a cui scroccavo le cene.

Quando hai iniziato ad avere dei sospetti sulla sua doppia vita?

Dopo il primo lockdown. Quando è arrivato a Ibiza e l’ho raggiunto si è chiuso per tre giorni in camera con Sara (l’ex fidanzata, nda). Non ci stava più con il cervello. Prima ci scrivevamo sempre, anche nell’ultimo periodo mi diceva “appena arrivi ci vediamo” e poi non si è fatto vedere tre giorni per rimanere chiuso in camera. Mi sono fatta delle domande e mi sono risposta: così non va bene.

Quando Genovese è stato arrestato te lo aspettavi?

Speravo che non fosse per una situazione così grave. Anche se la notizia era già circolata tra noi amici, perché Milano è piccola. Però in qualche modo andava fermato, sarebbe stato meglio non così. Ma purtroppo…

Era circondato dalle persone sbagliate?

Alberto si circondava di chi voleva, però non aveva al fianco solo fuori di testa ma anche gente per bene, solo che era arrivato a un livello di onnipotenza incredibile, non ascoltava più nessuno.

Qual era la cosa più incredibile che gli hai visto fare?

Negli ultimi tempi aveva la fissa di portare Terrazza Sentimento nel mondo. Voleva farlo diventare un brand. Aveva acquistato una villa a Ibiza e un due appartamenti in centro che sarebbero diventati un locale. E voleva esportarlo anche a Londra. A noi aveva regalato le magliette e le scarpe brandizzate Terrazza Sentimento.

La droga quanto era importante a quelle feste?

Io andavo per mio piacere. Ma per tante altre che arrivavano dopo era fondamentale. Con il lockdown si è ingigantito tutto, perché la gente pur di fare serata in assenza di locali provava di tutto per partecipare a quegli eventi. Figurati in una terrazza in centro a Milano con piscina. Si è creato un pessimo giro proprio in quel periodo. A terrazza Sentimento c’era una festa a settimana e quindi andavano tutti lì. Prima le feste erano molto più tranquille.

Daniele Leali ha detto su Alberto Genovese: «É stato rovinato dalla droga, alle feste c’erano ragazze arriviste». Sei d’accordo?

Milano è una città di arrivisti, ha scoperto l’acqua calda. Ma questo non giustifica nulla. Non si è perso per le escort o per la droga, ma perché non è stato abbastanza forte per gestire tutto.

Hai conosciuto anche le ragazze che lo hanno accusato. Che idea ti sei fatta?

So che avevano i rapporti con lui già da prima. Rapporti borderline, per cui già prima qualcosa non andava. Probabile che a un certo punto, anche a causa della droga, gli si sia spento il cervello e le abbia violentate, però non sono io che posso dirlo. Ho conosciuto queste ragazze, mi hanno raccontato le loro storie e le ho percepite sincere. Ma non è stato l’episodio di una sera. E poi..

E poi?

Guarda, le ragazze che lo hanno accusato sono più di una e io le ho conosciute praticamente tutte. Con una di loro è nato un rapporto di amicizia che continua ancora adesso, è una ragazza splendida, su di lei sono pronta a giurare. Ma su qualcun'altra ho forti dubbi. Non sto dicendo che non siano state violentate, ripeto, questo non posso dirlo, ma è certo che sono sempre state alla ricerca di soldi facili sfruttando la loro bellezza e la loro faccia tosta. Andate a vedere per esempio dove sono adesso. Una di loro è a Dubai. A fare cosa secondo voi? È vero che i comportamenti ambigui non giustificano una violenza, questo è chiaro, ma è altrettanto vero che in alcuni casi c'è una certa predisposizione a superare il limite per soldi e vantaggi sociali. E se sei disposta a superare il limite devi stare molto attenta, perché entri in una zona pericolosa. Di questo devi essere consapevole, anche se hai 20 anni.

Tu quanti anni hai?

Pochi di più. E io con Alberto non mi sono mai trovata in situazione difficili da gestire. Mai.

Ora la difesa sostiene che è diventato un «mostro» a causa della droga. Pensi sia solo a causa di quella?

Sicuramente la droga ha influito tantissimo. Ti cambia la personalità. Dai primi anni in cui ci frequentavamo, che gli piaceva far festa e al massimo rimaneva un’ora in camera è arrivato a chiudersi per giorni. Da una ragazza ne portava due, poi chissà… faceva cose sempre più folli.

Per il gip, che ha respinto l’affidamento a una struttura esterna, c’è ancora il rischio di reiterazione del reato o di fuga. Pensi che sia possibile, per come lo hai conosciuto?

Non credo, perché non è uno scemo. È successa questa cosa perché se la è cercata, ma è una persona intelligente. Dopo i primi mesi in carcere, che per lui sarà stata una mazzata, credo abbia capito tutte le stupidaggini che ha fatto. Sono sicura che abbia intrapreso un lavoro su sé stesso e non penso che lui creda di aver ragione, rispetto alle giustificazioni che aveva dato inizialmente.

Oggi è il giorno del suo compleanno, che cosa gli diresti se potessi averlo davanti?

Mi farebbe molto piacere potergli parlare, ho voglia di sentirlo. Anche solo una chiamata al telefono. Gli direi che deve solo aspettare che la giustizia faccia il suo corso pensando prima di tutto a lui, a tutto quello che ha costruito e che è riuscito a distruggere da solo con le sue mani. Ma da lì ripartire, soprattutto a livello umano.

Saresti pronta a essergli ancora amica, nonostante tutto?

Come amica ovviamente sì, ma ripeto, dovrebbe fare un bel lavoro su sé stesso. Comunque sarei assolutamente pronta a stargli vicino in quel percorso.

Caso Genovese, consegnato in Questura il materiale relativo al servizio sulla tentata vendita delle immagini di quella notte. Le Iene News il 25 febbraio 2021. Dopo essere stati contattati dalla Squadra mobile, Stefano Corti ha consegnato alla Questura di Milano il materiale relativo al servizio sul tentativo di vendita delle immagini della notte che riguarderebbero il presunto stupro della prima ragazza che ha denunciato Alberto Genovese. Stefano Corti è appena uscito dalla Questura di Milano dopo aver consegnato il materiale relativo al servizio su Alberto Genovese andato in onda martedì scorso. “Siamo stati contattati dalla Squadra mobile che si sta occupando del caso”, dice la Iena fuori dalla Questura. “Ci hanno contattato dopo il servizio sul tentativo di vendita del materiale video del presunto stupro subito dalla prima ragazza che ha denunciato Genovese”. Nell’ultima puntata vi abbiamo raccontato infatti della mail che abbiamo ricevuto in seguito al nostro primo servizio sull’imprenditore denunciato da alcune ragazze per violenza sessuale e ora in carcere. “Sono in possesso di diverse informazioni e immagini che riguardano il caso, nello specifico relativo alla notte tra il 10 e l’11 ottobre”, si legge nella mail proveniente da un indirizzo di posta elettronica criptato. In allegato venivano inviate due immagini che riguarderebbero la camera da letto di Genovese la notte in cui lui avrebbe violentato la ragazza che l’ha denunciato per prima. Abbiamo risposto fingendoci interessati e Stefano Corti ha incontrato queste persone. Ed è proprio il contenuto di questa conversazione e la mail ricevuta che abbiamo messo a completa disposizione dell’Autorità giudiziaria. “Noi ovviamente abbiamo collaborato, abbiamo consegnato il materiale che avevamo”, continua Stefano Corti. “Ora gli inquirenti cercheranno di capire chi sono queste persone e soprattutto dove hanno preso il materiale video che è secretato”. Stefano Corti, come vi abbiamo raccontato nell’ultimo servizio, ha incontrato le persone che ci hanno contattato. “Non abbiamo chiamato solo te”, ha detto uno dei due interlocutori alla Iena. “Abbiamo mandato una mail a Le Iene, una mail a Giletti, una mail a Quarto Grado. Ci hanno risposto tutti. Non abbiamo dato poi il materiale a nessuno. Abbiamo le riprese della camera padronale che è la camera di Alberto, del soggiorno, della nascosta e degli ospiti”. Così abbiamo chiesto loro come facessero ad avere questo materiale, che, ricordiamo, è secretato. “Non ce l'ha mandato né la difesa né l’accusa, se è questo che pensavi”, ci ha risposto l’interlocutore. “Noi per capire davvero che cosa era successo quella sera ci abbiamo messo un bel po’. Nel senso che comunque devi mettere insieme tutte le camere”, ci ha detto uno dei due. E quando la Iena ha chiesto se fosse possibile avere qualcosa, la risposta è stata: “non facciamo niente per niente”. “E tu cosa vorresti per questa cosa qua?”, ha chiesto la Iena. “Allora, la nostra idea è ovviamente tirare fuori qualcosa da questa storia da metterci in tasca”, ha detto uno dei due interlocutori. “Noi vorremmo non sentire altre campane, per quello che siamo venuti da te”, ha aggiunto l’altra persona. “Ce li hanno già chiesti e non abbiamo risposto a nessuno”. “Vi hanno già proposto dei soldi?”, ha chiesto Corti. “Ci hanno già proposto dei soldi sì. Trentamila”. A Le Iene non abbiamo mai comprato nulla. Oltretutto si tratterebbe di oggetto di possibili reati. Ora gli inquirenti faranno i dovuti accertamenti. Vi terremo aggiornati. 

Le Iene, Alberto Genovese: chi cerca di vendere le immagini terrificanti delle violenze, un video-shock. Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. Alle Iene, dopo la puntata in cui mandano in onda il servizio sull'imprenditore Alberto Genovese, denunciato per violenza sessuale da alcune ragazze e ora in carcere,  è arrivata una mail da un indirizzo di posta elettronica criptato in cui si legge: "Sono in possesso di diverse informazioni e immagini che riguardano il caso". Stefano Corti ha finto di essere interessato e ha incontrato queste persone. L'inviato delle Iene, prima di recarsi all'appuntamento, ha chiamato i due avvocati, dell'accusa e della difesa, e li ha avvisati di quanto successo. Loro hanno risposto di non saperne nulla di quelle immagini. Quindi l'incontro. Si tratta di un uomo e di una donna che chiedono dei soldi "da mettersi in tasca" in cambio delle immagini riprese nella casa di Genovese. I due specificano che non sono stati mandati né dall'accusa né dalla difesa. "Abbiamo lavorato due mesi su queste immagini, sono quattro camere. Abbiamo tanto materiale, abbiamo messo insieme tutto", aggiungono mentre mostrano le "prove" di quanto sostengono di avere. "Le immagini sono cruente, non so nemmeno se le puoi usare", dice la donna all'inviato delle Iene. "Ci sono le scene in cui lei è legata, non sono belle, forse non potrai mandarle in onda". Interviene anche l'uomo, che specifica: "Non facciamo niente per niente". Corti finge quindi di volere una clip da mostrare al suo capo. La donna gli mostra diversi video. "Vogliamo fidarci di voi, non abbiamo risposto ad altre richieste. Ci hanno offerto 30mila euro", aggiunge. Il video delle Iene si chiude qui. Stefano Corti sottolinea che "alle Iene non abbiamo mai pagato nulla". Quindi Corti risente gli avvocati dell'accusa e della difesa. Entrambi sottolineano la gravità del fatto, parlano di reati, di ricettazione. C'è un'inchiesta in corso e c'è il segreto istruttorio. Quelle immagini non possono e non devono essere mandate in onda. 

Caso Genovese: qualcuno ha cercato di venderci le immagini di quella notte. Le Iene News il 23 febbraio 2021. “Sono in possesso di diverse informazioni e immagini che riguardano il caso, nello specifico relativo alla notte tra il 10 e l’11 ottobre”. Così ci hanno scritto, da un indirizzo di posta elettronica criptato, dopo il primo servizio di Stefano Corti sul caso Alberto Genovese. La Iena, fingendosi interessata, è andata a incontrare queste persone. Mercoledì scorso, il giorno dopo aver mandato in onda il servizio sull’imprenditore Alberto Genovese, denunciato per violenza sessuale da alcune ragazze e ora in carcere, ci arriva una mail da un indirizzo di posta elettronica criptato. “Sono in possesso di diverse informazioni e immagini che riguardano il caso, nello specifico relativo alla notte tra il 10 e l’11 ottobre”, si legge nella mail. In allegato vengono inviate due immagini che riguarderebbero la camera da letto di Genovese la notte in cui lui avrebbe violentato la ragazza che l’ha denunciato per prima. Così noi rispondiamo fingendoci interessati. Ma prima di incontrare queste persone, Stefano Corti chiama proprio l’avvocato che sta difendendo quella ragazza, Luigi Liguori, spiegandogli che alcune persone sostengono di avere le immagini di quella notte. “Non può essere”, risponde l’avvocato. E allora informiamo anche l’avvocato che difende Alberto Genovese, Luigi Isolabella: “Lo dica alla Procura perché è interessante capire chi agisce in questo modo”, ci risponde. Stefano Corti va a incontrare chi ci ha scritto la mail. “Non abbiamo chiamato solo te”, dice alla Iena una delle due persone. “Abbiamo mandato una mail a Le Iene, una mail a Giletti, una mail a Quarto Grado. Ci hanno risposto tutti. Non abbiamo dato poi il materiale a nessuno. Abbiamo le riprese della camera padronale che è la camera di Alberto, del soggiorno, della nascosta e degli ospiti”, continua. Così chiediamo loro come fanno ad avere questo materiale. “Non ce l'ha mandato né la difesa né l’accusa, se è questo che pensavi”, ci risponde l’interlocutore. Così chiediamo come mai abbiano deciso di contattare i media. “Perché la gestione della storia com’è in questo momento secondo noi non corrisponde…”. E continua: “Senza secondo noi… oggettivamente non corrisponde alla realtà. La Procura ha lavorato le immagini per un giorno e mezzo… Noi…”. “Due mesi e passa”, conclude l’altra persona. “Abbiamo lavorato tutte le 23 ore, sono 4 camere….”, ci dicono. “Quelle immagini che girano in tv sono davvero poca roba. Nessuno ha nulla”. “Adesso puoi capire quanto materiale abbiamo”, continuano. “Noi per capire davvero che cosa era successo quella sera ci abbiamo messo un bel po’. Nel senso che comunque devi mettere insieme tutte le camere”, ci dice uno dei due. “Ci sono le scene in cui è legata e oggettivamente da vedere non sono belle e non so neanche se le puoi mandare in Tv”. La Iena chiede se riuscirebbe ad avere qualcosa. “Non facciamo niente per niente”, dice a questo punto l’altra persona. “Ecco l’inizio. Sono le 22:30, di là c’è ancora la festa”. “E qua gli dà anche i soldi?” chiede la Iena. “No, subito dopo. Cioè, dopo un’oretta”. “E tu cosa vorresti per questa cosa qua?”, chiede la Iena. “Allora, la nostra idea è ovviamente tirare fuori qualcosa da questa storia da metterci in tasca”, dice uno dei due interlocutori. “Noi vorremmo non sentire altre campane, per quello che siamo venuti da te”, dice l’altra persona. “Ce li hanno già chiesti e non abbiamo risposto a nessuno”. “Vi hanno già proposto dei soldi?”, chiede Corti. “Ci hanno già proposto dei soldi sì. Trentamila”. A Le Iene non abbiamo mai comprato nulla. Oltretutto si tratterebbe di oggetto di possibili reati. Stefano Corti informa l’avvocato Liguori, difensore della vittima, che “effettivamente avevano le immagini della casa di Alberto Genovese. Quindi ci stavamo chiedendo, non è che ce li avete mandati voi?”. “Io non ho mai fatto una cosa del genere in vita mia”, dice l’avvocato della vittima, “e non lo farò mai”. “Ma ci mancherebbe altro”, ci risponde l’avvocato di Alberto Genovese, Isolabella. “Noi il processo lo facciamo in aula. Sono anche coperte dal segreto istruttorio. Quindi da una parte c'è chi lo sta violando in modo molto grossolano e grave, dall'altra è ricettazione”. “Ci deve essere un'inchiesta su questo. È gravissimo!”, conclude l’avvocato. La registrazione della conversazione con chi ha inviato la mail è a completa disposizione dell'Autorità Giudiziaria ove ritenesse necessario svolgere degli approfondimenti. 

La difesa di Genovese sporge denuncia dopo che qualcuno ha tentato di venderci le immagini di quella notte. Chi è stato?.

Le Iene News il 26 febbraio 2021. Dopo il nostro servizio sul tentativo da parte di due persone di venderci le immagini relative alla notte tra il 10 e l’11 ottobre, i legali dell’imprenditore sporgono denuncia in Procura. La difesa di Alberto Genovese avrebbe sporto denuncia dopo che vi abbiamo raccontato che due persone hanno tentato di venderci le immagini che riguarderebbero la camera da letto di Genovese la notte in cui lui avrebbe violentato la ragazza che ha fatto partire la prima denuncia. Nell’ultimo servizio dedicato al caso di Alberto Genovese, denunciato da alcune ragazze per violenza sessuale e ora in carcere, vi abbiamo infatti raccontato di essere stati contattati da un indirizzo di posta elettronica criptato. “Sono in possesso di diverse informazioni e immagini che riguardano il caso, nello specifico relativo alla notte tra il 10 e l’11 ottobre”, era scritto nella mail. Abbiamo risposto fingendoci interessati e Stefano Corti ha incontrato queste persone. Ieri la Iena si è recata in Questura per consegnare il materiale relativo alla conversazione avuta con loro. “Non abbiamo chiamato solo te”, ha detto uno dei due interlocutori alla Iena. “Abbiamo mandato una mail a Le Iene, una mail a Giletti, una mail a Quarto Grado. Ci hanno risposto tutti. Non abbiamo dato poi il materiale a nessuno. Abbiamo le riprese della camera padronale che è la camera di Alberto, del soggiorno, della nascosta e degli ospiti”. Abbiamo chiesto loro come facessero ad avere questo materiale, che è secretato, e ci hanno risposto: “non ce l'ha mandato né la difesa né l’accusa, se è questo che pensavi”. E quando la Iena ha chiesto se fosse possibile avere qualcosa, la risposta è stata: “non facciamo niente per niente”. “La nostra idea è ovviamente tirare fuori qualcosa da questa storia da metterci in tasca”, ha detto uno dei due interlocutori. “Ce li hanno già chiesti e non abbiamo risposto a nessuno”, hanno detto, “ci hanno già proposto dei soldi. Trentamila”. A Le Iene non abbiamo mai comprato nulla. Oltretutto si tratterebbe di oggetto di possibili reati. Dopo la messa in onda del servizio siamo stati contattati dalla Squadra mobile che si sta occupando del caso e abbiamo appunto consegnato il materiale relativo al servizio. Intanto, come riporta La Stampa, i legali di Genovese avrebbero sporto denuncia presso la procura di Milano dopo che due persone ci hanno contattato per provare a venderci i video del presunto stupro. Chi sono? E perché hanno quel materiale?

Caso Genovese, chi ha tentato di venderci le immagini di quella notte? Indagate due persone. Le Iene News il 3 marzo 2021. Due collaboratori di una società che ha effettuato una consulenza per conto della difesa di Alberto Genovese sono indagati per appropriazione indebita qualificata. Sono stati loro a tentare di venderci i filmati della notte del presunto stupro? Sono indagati per appropriazione indebita qualificata due collaboratori di una società che ha effettuato una consulenza per conto della difesa di Alberto Genovese sui filmati delle telecamere di “Terrazza Sentimento”. Sono stati loro a tentare di venderci le immagini che riguarderebbero il presunto stupro della notte tra il 10 e l’11 ottobre? Come vi abbiamo raccontato nell’ultimo servizio dedicato al caso dell’imprenditore Alberto Genovese, accusato di violenza sessuale ai danni di due ragazze e oggi in carcere, dopo il primo servizio siamo stati contattati da un indirizzo di posta elettronica criptato.  “Sono in possesso di diverse informazioni e immagini che riguardano il caso, nello specifico relativo alla notte tra il 10 e l’11 ottobre”, era scritto nella mail. Abbiamo risposto fingendoci interessati e Stefano Corti ha incontrato queste persone, che ci hanno raccontato di aver contattato anche altre trasmissioni televisive. “Abbiamo le riprese della camera padronale, che è la camera di Alberto, del soggiorno, della nascosta e degli ospiti”, hanno detto alla Iena. E quando la Iena ha chiesto se fosse possibile avere qualcosa, la risposta è stata: “non facciamo niente per niente”. “La nostra idea è ovviamente tirare fuori qualcosa da questa storia da metterci in tasca”, ha detto uno dei due interlocutori. “Ce li hanno già chiesti e non abbiamo risposto a nessuno”, hanno detto, “ci hanno già proposto dei soldi. Trentamila”. A Le Iene non abbiamo mai comprato nulla. Oltretutto si tratterebbe di oggetto di possibili reati. Nei giorni scorsi Stefano Corti si è recato in Questura per consegnare il materiale relativo alla conversazione avuta con loro. A tentare di venderci le immagini potrebbero essere stati i due tecnici ora indagati e denunciati dai difensori di Genovese. Come riporta l’Ansa, il fascicolo sulla tentata vendita è stato aperto nei giorni scorsi dall’aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro, già titolari dell'inchiesta sui presunti abusi contestati all'imprenditore. Nell’indagine, appunto, erano stati acquisiti i filmati delle telecamere interne della casa di Genovese, compresi quelli relativi alla notte tra il 10 e l’11 ottobre. Intanto proseguono le indagini della Procura su altri due presunti abusi ai danni di due giovani. Si cercano ulteriori elementi sui casi, che non sono stati ritenuti provati dal gip Tommaso Perna nella seconda ordinanza a carico dell’imprenditore. 

Alberto Genovese e «Terrazza Sentimento»: tornano le ombre su Milano. Marco Missiroli su Il Corriere della Sera il 5/2/2021. Un imprenditore diventato milionario che organizza feste con droga e ragazze bellissime. Poi il grido di una di loro squarcia la notte: dopo 20 ore di violenze, fugge e denuncia. Milano ritrova un cuore oscuro. Trentasei anni dopo e a solo 300 metri dai luoghi dove negli anni 80 l’aspirante modella Terry Broome prese una pistola e fece fuoco. Città bianca, città oscura. Quando Alberto Genovese apre le porte del suo appartamento per una festa, il 10 ottobre 2020, il cielo di Milano è oltre il crepuscolo. Sono passate le 20.30 e tutto di questa metropoli sta per compiersi. La vitalità, la leggerezza brutale, l’opacità degli uomini e delle loro leggi ballerine dopo il traffico del giorno. A due passi dal Duomo, nella terrazza di Genovese chiamata Sentimento, va in scena il teatro di un capoluogo da bere che non c’è più e che c’è ancora. Il risveglio di un’epoca è nel grido di una ragazza di diciotto anni che uscirà da quell’appartamento in stato di choc venti ore dopo esserci entrata: fermerà la polizia e si farà portare al pronto soccorso della clinica Mangiagalli dove verrà dimessa tre giorni dopo con una prognosi di un mese. Il passo successivo è la denuncia contro Genovese che porterà a capi di imputazione per stupro, tortura, sequestro di persona, cessione di stupefacenti e lesioni. I fatti sono all’ordine della magistratura, le ferite mai del tutto. Per la presunta vittima rimane il fardello di un dopo-Cristo: la diciottenne è un’altra rispetto a qualche ora prima. Racconta di aver assunto droghe, racconta di essersi trovata in camera con Genovese sotto prevaricazione, racconta di una violenza incessante. Da qui, da questa Milano d’ombre che diventa pece, si consuma una giovinezza. La città ha guardato, la città è testimone.Marco Missiroli, scrittore. Nato nel 1981 è autore di Atti osceni in luogo privato e Fedeltà, finalista al Premio Strega 2019.

Il cuore della terra: dal Nepentha a Piazza Santa Maria Beltrade Milano vede. Gli occhi sono quelli degli Ottanta quando con l’imbrunire qualcosa rischiava sempre di sprigionarsi: la city da bere, le anime inquiete da sfamare. Per Genovese e la sua terrazza il Duomo è a due passi, come nel delitto del 26 giugno 1984, quando Terry Broome, un’aspirante modella americana ventiseienne, uccide con una pistola calibro 38 Francesco D’Alessio. Il finale potrebbe essere certamente diverso, non il midollo di questa città elettrica che sembra allacciare destini e luoghi. Il Nepentha, per esempio, locale notturno in piazza Diaz dove Broome comincia quella serata maledetta. Vicinissimo c’è Piazza Santa Maria Beltrade, indirizzo di casa di Alberto Genovese e del suo attico e superattico. Trecento metri e trentasei anni di distanza. E lo stesso «cuore della terra»: così Scott Fitzgerald chiamò l’incantesimo dei quartieri nell’emanare un preciso codice emotivo. Vale anche per le fondamenta sotto la cattedrale di Milano, cerchia eterea e viscerale dell’urbe, che resse terremoti controversi e genera energie sacre e profane. Osmosi, coincidenze, sostanze fitzgeraldiane: eppure qualcosa è in continua frizione in questo punto centralissimo della mappa dove gli affari pullulano di giorno e si scaricano di notte, allo stesso modo di un carnevale che riverbera virulenze sopite. Denaro e malpotere, ascese e decadenza. Alberto Genovese, che fece fortuna grazie all’invettiva imprenditoriale riversata sulla new economy e si ritrovò con più di un pugno di dollari e una noia cronica da gestire. Il curriculum ci dice che è laureato in economia aziendale alla Bocconi, un master alla Harvard Business School, circa duecento milioni tra guadagni e richieste di nuovi investimenti. Su questa identità professionale, dopo l’ipotetico crimine, la stampa ha eretto intorno al suo nome epiteti di gloria pregressa («mago delle startup», «genio», «businessman di successo»), come se un lustro passato lo giustificasse. Invece dopo la vendita anni prima di Facile.it, creatura che gli fruttò la ricchezza, comincia il periodo del vuoto e delle abbuffate. Quarantuno anni e fino a centocinquantamila euro spesi per una festa. L’altro Alberto Genovese.

Pippa, pippa: il corpo sull’altare dell’esaltazione Nell’interrogatorio che seguì la notte infernale di ottobre, Genovese ammise che non usava un computer per lavoro da quando mise in tasca il gruzzolo e si espose al baratro. Quale baratro? Ibiza, Formentera, feste, aerei privati, l’appartamento in Santa Maria Beltrade che elesse a quartier generale del suo girotondo. E la droga, lo stesso carburante che fu l’esclamativo delle nottate di Piazza Diaz decenni prima nella Milano da bere. Sulla Terrazza Sentimento le testimonianze rivelano di piatti con tre tipi stupefacenti: cocaina, metanfetamina e la 2CB, bamba rosa da quattromila euro al grammo, offerta come arachidi tra musica e balli. Si parla anche di ketamina e soprattutto di Ghb, il farmaco «dello stupro» che se assunto a dosi elevate cancella la memoria e rende inerme la persona all’assalto del carnefice. Secondo gli inquirenti Genovese in quelle venti ore abusò della ragazza somministrando ripetutamente droghe fino a renderla una «bambola di pezza». Al risveglio, in uno dei bagni della casa, lei si sarebbe ritrovata livida e scaraventata in un oblio sospettoso. Cosa mi è successo? Cosa mi è stato fatto? I segni sul corpo sono cicatrici, assieme agli sprazzi di coscienza che riportano l’incubo a galla. La ragazza ha lembi di memoria in cui rivede Genovese sopra di lei, i polsi bloccati. Droga e altra droga. Il gip scriverà che «Genovese ha agito prescindendo dal consenso della vittima, palesemente non cosciente per circa metà delle 24 ore trascorse con lui, tanto da sembrare in alcuni frangenti un corpo privo di vita, spostato, rimosso, posizionato, adagiato, rivoltato, abusato». L’altare dell’esaltazione, per stordire sé stessi e innescare la prevaricazione: ragazze giovanissime, condotte al piano di sotto nella camera da letto vegliata da un buttafuori? «Pippa, pippa», è stata l’esortazione di Genovese alla ragazza nella violenza, secondo la testimonianza che scoperchiò il vaso di Pandora. Era una delle ossessioni di Francesco D’Alessio, il playboy ricchissimo che perseguiterà Broome prima di essere ammazzato dalla modella stessa all’alba di quel 26 giugno. La polvere bianca nutre i rampolli, un circolo sfrontato che regala duecentomila lire di dose a chi non può permetterselo, alimentando l’opacità della notte.Alberto Genovese con una delle giovanissime ospiti delle sue feste che si svolgevano tra Milano e Ibiza.

Cortesie per gli ospiti (e i 5 colpi che spaccarono la Milano da bere). Camicie sbottonate, balli scatenati, mani ai cocktail. E quel moto a luogo spasmodico: le notti 80 erano lo spostamento eterno da un luogo all’altro, spiriti convulsi, carichi, dal Nepentha agli altri locali di Diaz, e poi Moscova e Brera, i bar di Porta Venezia, fino all’ultimo lido: gli appartamenti raggiunti all’alba. Si finiva a casa di qualcuno che apriva un rifugio per chiudere in dolcezza lo sfarzo. Sesso, un’ultima vertigine, poi accoccolarsi sui divani. Quasi mezzo secolo dopo rimangono gli attici: lassù, vista Duomo. Ma nessuno spostamento: qui si apre la serata e qui si chiude. Solo rendez-vous selezionati e organizzati, anche all’ultimo. Come se la città non seguisse più le scorribande nelle sue strade. Genovese invita e lo fa anche attraverso i fidati che inviano messaggi a ragazze e vip, belle presenze e aure rassicuranti. Dal momento che presenziava quel personaggio tutto sembrava garantito e ci si poteva divertire: è il pensiero che dichiarò la diciottenne. Il 10 ottobre entrò alla festa assieme ad altre due amiche già abituate a scintillii simili. Ma quella sera pare che da subito Genovese cominci a seguire le tre donne insistentemente. La stessa ossessione che segnò i frangenti dell’epilogo di Francesco D’Alessio: Broome non gli si era concessa e lui non si dava pace. Diventò sfrontato, fuori controllo, macerò nel livore finché al Nepentha avviene una prima resa dei conti. Lei è con il fidanzato, lui la segue in bagno e tenta ancora un affronto. Terry riesce a divincolarsi e continua la notte da un locale all’altro, finché sottrae la Smith&Wesson al fidanzato e si dirige in casa di D’Alessio in Corso Magenta. È già prima mattina, suona il campanello, si fa aprire per intimargli di smettere di tormentarla una volta per tutte. Forse si versano dell’altro bourbon, altra coca. Poi la colluttazione e i cinque colpi di pistola. L’epilogo di una trama che inizia mesi indietro, allo stesso modo della vicenda Genovese, iniziata già prima di quella festa di ottobre.

Le pupille al cielo di Giacobbe nell’attesa dell’abisso. A un certo punto Hemingway disse che bisognava rovistare nei verbi per trovare la voce di un’epoca: saziare è il paradigma di Milano che cuce gli Ottanta a noi, due ere slegate dalle rivoluzioni che una città si è guadagnata. Lo spirito europeo, l’Expo, sindaci competenti, l’accoglienza a un’integrazione culturale preziosa. Ma il cuore della terra non si estingue mai e rivela la voracità dell’affamarsi, e della combustione. Giorni dopo l’arresto di Genovese cominciano le dichiarazioni dei vicini di casa dell’ex imprenditore. Tutti confessano di essere stati angosciati per quell’ultimo piano che teneva svegli: ciascuno di loro ha sopportato, ha allertato le forze dell’ordine, qualcuno ha parlato con Genovese che in un primo momento si è dimostrato gentile e poi ha smesso di rispondere al telefono. Ma il dettaglio che cerchiamo è in una coppia che abita qualche appartamento sotto e che al tempo aspettava un bambino: sono in pena per l’imprevedibilità di quei festini. L’effetto arriva sempre nel tardo pomeriggio, quando percepiscono l’attesa di sapere se ci sarà un bagordo dell’ex imprenditore e dei suoi amici. L’unico modo per capirlo è rientrare a casa, dopo il lavoro, e alzare gli occhi verso l’attico con il terrore di vedere tutte le luci accese. Quel segnale. Le pupille sollevate alla Terrazza Sentimento: una città che attende l’abisso. Milano vede, di nuovo. Riconosce l’umanità che la rimpolpa di epoca in epoca. Quelle luminarie accese per una festa e il terrore che scende su chi le osserva. Sentirsi in lotta contro qualcuno che impone da un ultimo piano. Il volume troppo alto, il vociare, il trambusto, lottare contro una vitalità illegittima che corre lungo i muri. È un corpo a corpo che spinge a conoscere una parte di noi stessi a cui non eravamo pronti. Come il Giacobbe biblico che in una notte come tante si alza dal suo giaciglio e ha il sentore di raggiungere il fiume con tutto ciò che possiede. Non sa perché ma è conscio che deve farlo. Si mette in cammino con la famiglia e quando arriva al fiume chiede a mogli e figli di passare sull’altra sponda. Lui rimane al di qua, perché percepisce qualcosa che riguarda solo sé. Aspetta finché non compare una creatura che lo costringe al combattimento. È un lottare durissimo, con la creatura che non riesce a sopraffarlo ma soltanto a ferirlo all’anca. Giacobbe zoppica e quello è il segno di essersi spinto oltre. Il fiume lo veglia in una sorte di battesimo, prima che la notte si esaurisca, ribattezzandolo dolorosamente in una nuova anima. La città nella città, un regno chiamato Sentimento Demoni e lotte. Non ci sarà solo la denuncia della diciottenne. Ne verranno fuori altre. Ma in quel primo grido di Piazza Santa Maria Beltrade risiede un’immagine che ha la voce di tutte: le videocamere di sorveglianza mostrerebbero la ragazza che esce dall’appartamento con vestiti non suoi, una sola scarpa. Si racconta che Genovese le lanciò qualcosa dalla finestra quando lei era già in strada, forse la scarpa mancante, forse cento euro per sfregio. In quel momento la ragazza potrebbe essere già vittima da ore, presto lo diventerà una seconda volta per insinuazioni che le piomberanno addosso: se ha accettato la droga, è chiaro che si è messa in una situazione compromettente. Se era in una data situazione, non poteva non sapere. Se frequentava certe feste, non si deve stupire del risultato. Esattamente quel tipo di allusione: se una donna va in giro a correre al parco alle sei della sera in pantaloncini è normale che si esponga. Gravissimo. La violenza così finisce per non essere più violenza. E si va in una logica ancora più inaccettabile: la vittima, pur essendo vittima, non ha calcolato il rischio. Non ha calcolato che esistono realtà, come lassù in Beltrade, con leggi proprie e silenti. Città nelle città. Lassù, nel regno di Genovese, dove una terrazza è chiamata Sentimento. Un inno alla felicità, all’ebrezza, alle passioni. Alla libertà. E libertà sembra essere il grande imperativo da difendere rispetto al fuori. Ignorare le proteste dei vicini, modificare l’ultima parte della scalinata condominiale per ottenere una zona delimitata di accesso, installare un circuito di videosorveglianza interno. L’arma a doppio taglio di questa storia. Dopo quella notte di ottobre, Genovese tentò di far sparire le immagini delle diciannove telecamere puntate su ogni angolo dell’abitazione. Saranno recuperate e acquisite dagli inquirenti. Temeva i movimenti, i moti a luogo, la mappa personale che riperimetrava la sua città privata. Terry Broome nella sua notte disegnò un’area tra Piazza Diaz e Brera e Corso Magenta, Alberto Genovese siglerà direzioni brevi dal superattico all’attico con la zona di casa privata. Quanti metri percorsi? Una decina al massimo? Dieci metri per la possibile discesa agli inferi. E per un epilogo.Alberto Genovese con un gruppo di amici davanti al suo aereo privato.

Testimoni e “prostitute” nel walzer delle allusioni. L’epilogo: nel 1984 fu un salotto per Terry Broome e un omicidio, nel 2020 potrebbe essere una camera da letto a casa Genovese e uno stupro. C’è anche un coro di presenze intorno su cui gli inquirenti vegliano o hanno vegliato. Nel caso di Terry Broome mancarono i testimoni oculari: l’aspirante modella prese la Smith&Wesson dal fidanzato e si diresse in Corso Magenta. Quando entrò nella scena del delitto D’Alessio è in compagnia del proprietario di casa, Carlo Cabassi, e di una modella americana arrivata da poco in Italia, Laurie Marie Roiko. Nessuno di loro vide. Ascoltarono gli spari, ma non videro. Per Genovese la lista è al vaglio: c’era un buttafuori che vigilava la stanza da letto dove l’ex imprenditore portò la ragazza. C’era un cerchio magico che mandava inviti e gestiva il carnevale. C’era stata Sarah Borruso, compagna di Genovese: non quella notte, ma in altri due casi di denuncia di stupro rivolte contro il fidanzato. Lei dichiara che era Genovese a chiederle rapporti a tre, sesso estremo e droghe, facendola trovare «nelle situazioni». La causa era la personalità fortissima dell’uomo, secondo Borruso, e un ricatto d’amore per cui il suo Alberto la minacciava di tornare con la ex fidanzata che lo assecondava meglio. L’amore, insomma. Il circolo vizioso delle passioni e un carrozzone che lascia Milano in base alle stagioni. D’estate il regno è Ibiza, dove Genovese e Borruso gozzovigliavano e dove c’è un nuovo capo di imputazione per violenza su una ventitreenne. La ragazza che ha esposto denuncia era con Genovese e Sarah nella villa affittata. Borruso respinge le accuse dicendo che la ragazza sapeva di passare giorni di divertimento a drogarsi con la coppia. Tutti erano pienamente consenzienti, tutti, sempre, a parte Genovese che una volta arrestato per Terrazza Sentimento ammise di essere dipendente dalla droga e che non si rendeva conto di quello che stava facendo. Si domandò come mai nessuno l’avesse mai portato da un medico, lui che soffriva di «allucinazioni uditive», di «confusione nel ricordare». Imboccò la strada dell’autogiustificazione, aggiungendo di essere stato circondato da persone interessate solo alla sua fortuna e da «prostitute» «Prostitute» è il suono dell’allusione, ancora una volta, verso le vittime. Verso una loro presunta responsabilità, nel tentativo di finire nei paraggi delle parti lese. Basta questo per spostare l’inclinazione di un meccanismo narrativo? Davvero basterebbe insinuare, per esempio, che la diciottenne di quella festa di ottobre potrebbe essere stata una escort, e che tutto sarebbe avvenuto per soldi? È il ribaltamento che tentò Harvey Weinstein quando disse che le sue vittime soffrivano di memorie nebulose e inaffidabili rispetto alla verità. Meschinità da abuser, e manipolazione del linguaggio. Tanto per essere chiari, oggi: stupro significa stupro, abuser significa abuser, violenza significa violenza, survivor significa survivor.

La Milano dei demoni, e della giustizia futura. Terry Broome subì davvero ripetute insistenze da D’Alessio. Ebbe una parte di opinione pubblica dalla sua parte e attenuanti in fase processuale, fu condannata a dodici anni di carcere in appello. In Terrazza Sentimento il copione potrebbe avere avuto una sola direzione: Genovese riversa l’ultimo sé stesso – droga, camera da letto, buttafuori, venti ore di accanimento su un’innocente –, e niente altro. Nell’attesa del verdetto finale. Attese di verdetti: Alberto Genovese è a San Vittore. Intanto fioccano nuove rivelazioni, la trentina di conti correnti esteri a cui attingeva, altre cinque ragazze che si aggiungono alla denuncia della diciottenne, la ferita allargata di quest’ultima per una ulteriore macchina del fango subita («Con tutto quello che sta venendo fuori, mi chiedo se quella sera non sarebbe stato meglio tornare a casa in silenzio»). Altro si accumulerà in questa lotta dove Milano è l’altra ferita. Perché una città è sempre le sue vittime. E la futura giustizia. Allora vale la pena evocare Shirley Jackson, scrittrice amatissima per romanzi e racconti dove gli esseri umani si erodono tra loro, avvolti da luoghi che ne assorbono la tragedia. Jackson è celebre per dare alla normalità un’incombenza di pericolo, lasciando le donne e gli uomini al cospetto della loro natura. Diceva che il segreto di una storia nera è sempre nei luoghi luminosi in cui è immersa. Case, villaggi, piazze, stanze, rifugi in cui protagonisti credono di sottrarsi ai loro demoni. «Ma un demone cova sempre», ripeteva Jackson. Quanto covava il demone di Alberto Genovese prima della notte di ottobre, a terrazza Sentimento. Come covava. In lui, e in questa Milano bianca e di nuovo oscura.

Massimiliano Peggio per "La Stampa" il 17 marzo 2021. «Per il crack faresti qualsiasi cosa. Ti toglie ogni freno. Basta prenderlo una volta e ne diventi dipendente per sempre. Io non volevo prostituirmi, ma alla fine ci sono rimasto invischiato, perché vuoi la droga, non ne puoi fare a meno, e fai di tutto per averla. Sono arrivati anche a portarmi il crack a casa, o in ospedale, mentre ero ricoverato, pur di non lasciarmi andare. Ero diventato il loro gioco erotico». Ricatti sessuali, droga, festini in case di lusso nel centro di Torino. Pusher che «segnalano» a facoltosi imprenditori giovani alla deriva, disposti a prostituirsi in cambio di dosi di crack. «Se vai in quelle case trovi droga a volontà». Un mondo sommerso che raggiunge altre terrazze, che ricordano quella milanese dell'imprenditore Alberto Genovese, accusato di aver stuprato una diciottenne durante un party. Cambia però il contesto della città, Torino. Ci sono ragazzi giovanissimi, tossicodipendenti adescati in strada, con un passaparola tra spacciatori che prenderebbero compensi per ogni segnalazione. Così si sarebbero organizzati incontri omosessuali, festini per pochi invitati, anche durante i periodi di lockdown dello scorso anno. Fotografie con bottiglie di Champagne, piatti e cofanetti pieni di droga. A svelare questo mondo di violenze all'inviato delle Iene Luigi Pelazza e alla Stampa è un venticinquenne torinese, Paolo. Nei giorni scorsi, dopo essere stato intervistato, ha presentato un'articolata denuncia ai carabinieri ed è entrato in una comunità di recupero. «Voglio ricostruirmi una vita» ha detto. In questa storia, nel ruolo di predatori sessuali, ci sarebbero due imprenditori, di cui uno già incappato anni fa in una vicenda processuale per sfruttamento della prostituzione. Già allora era stato accusato di organizzare festini di questo genere, in un'altra terrazza sfarzosa del centro, adescando ragazzi con la trappola della droga. Un amico dei due uomini, finito nel mirino della Iena Pelazza, inseguito per le vie delle città, durante alcune di queste serate private avrebbe usato la droga dello stupro. Paolo, in un paio di occasioni, avrebbe perso conoscenza, dopo aver bevuto. «Sì, in alcune circostanze è stato usato il Ghb, la droga dello stupro. L'ho visto con i miei occhi». Usato per poter stordire, per inibire la volontà delle vittime e ottenere così rapporti completi. «Non ero il solo ragazzo a frequentare quelle case. È stato uno spacciatore marocchino a dirmi che un suo amico gli aveva chiesto di procurargli tossicodipendenti disposti ad avere rapporti omosessuali in cambio di droga. Lui mi ha dato l'indirizzo di uno dei due imprenditori». Tra le righe del suo racconto, emerge anche un mistero. La morte di un trentacinquenne colto da malore probabilmente durante un festino. L'episodio risale al 3 aprile del 2020, nel pieno della prima ondata di pandemia di Covid. L'uomo è stato soccorso nell'abitazione di uno dei due imprenditori. Ricoverato all'ospedale Maria Vittoria in codice giallo, è morto il giorno seguente. «Quella morte - spiega Paolo - è avvolta nel mistero. Tanti ne parlano nell'ambiente, anche se non sarà facile scoprire la verità, perché la salma è stata cremata. Probabilmente ai suoi familiari è stata raccontata una storia differente».

Massimiliano Peggio per "La Stampa" il 18 marzo 2021. «Volevano farmi del male. Forse gambizzarmi, perché ho cercato di portare in salvo Paolo, strapparlo da un giro di predatori sessuali, dai loro festini privati, dalle loro belle case in centro con sale cinema, terrazze sulla città e tavolini pieni di crack». Un'altra denuncia, agli atti dei carabinieri, ripercorre i segreti e le presunte perversioni violente dei due amici imprenditori torinesi che accoglierebbero nelle loro abitazioni giovani sbandati, tossicodipendenti, offrendo fiumi di droga in cambio di prestazioni sessuali. Festini in cui sarebbero state utilizzate anche sostanza medicinali, note come droghe dello stupro. E dove, a causa di un malore, lo scorso aprile sarebbe morto un uomo di 35 anni. Un episodio avvolto nel mistero. «Queste persone vanno in cerca di giovani con problemi economici, dipendenti dal crack, che non possono permettersi di comprare le dosi. Sono i pusher a portarli in quelle case. Anch'io ci sono stato. Le ho viste con i miei occhi. Ho filmato gli interni. Ho visto la droga, ho assistito agli approcci sessuali, e il via vai di spacciatori». Questa la testimonianza di Luca, un amico di Paolo, il giovane di 25 anni che nei giorni scorsi, prima di presentare formale denuncia ai carabinieri, ha raccontato la sua storia all'inviato delle Iene Luigi Pelazza e alla Stampa. «È stato Paolo a chiedermi aiuto, un giorno, mentre si trovava in uno di quegli alloggi. L'ho raggiunto e ho scoperto quel mondo. Entrando in una stanza, ho subito visto un tavolino con la droga. C'era una bottiglia per fumare il crack. Il padrone di casa è arrivato e si è spogliato. Ero allibito. Sono uscito, invitando Paolo a seguirmi. Il giorno dopo l'ho sentito al telefono, gli ho detto che non poteva continuare a fare quella vita. E che il crack l'avrebbe ucciso». Ma Paolo ha continuato per mesi a frequentare quegli alloggi, di proprietà di due ricchi imprenditori, uno dei quali già finito nel mirino della procura per una vicenda analoga. Qualche anno fa aveva patteggiato una pena per favoreggiamento della prostituzione. Adescava giovani di strada in cambio di rapporti omosessuali. Sullo sfondo piatti colmi di cocaina. Luca, nella sua denuncia, ha spiegato ai carabinieri di aver frequentato anche la seconda abitazione, una sorta di «Terrazza Sentimento» in stile torinese, dove i pusher sarebbero di casa. «Ogni volta che finiva la droga, bastava chiamare lo spacciatore di turno e la consegna era assicurata. Li ho visti arrivare in taxi, anche durante il periodo di lockdown. Uno di questi andava in giro con la moglie incinta per giustificare le uscite in caso di controlli». Paolo, il ragazzo torinese che ha svelato questo mondo sommerso di ricatti sessuali, era «assuefatto». Così lo descrive il suo amico, ripercorrendo a ritroso i mesi scorsi. Un viaggio nell'abisso di una Torino bene solo in apparenza. «Un amico dei due imprenditori, un uomo che partecipava spesso ai festini - aggiunge Luca - lo ha perseguitato anche quando lui è tornato a casa e mentre era in ospedale. Non voleva lasciarlo andare. È stato quell'uomo a dirmi che mi avrebbe gambizzato». Ora Paolo è in una comunità. «Ho denunciato per raccontare la violenza di quegli incontri - dice -. L'omosessualità non c'entra nulla».

Droga per comprare il corpo dei giovani nella “Torino bene”? Le Iene News il 19 marzo 2021. Torniamo nel capoluogo piemontese dopo il reportage sul triangolo del crack. Luigi Pelazza ci racconta una storia terribile, questa volta dalla “Torino bene”. Parte dal racconto di un ragazzo su un ricco imprenditore che avrebbe indotto diversi giovani a prostituirsi in cambio di droga. Non sarebbe il solo, ci sarebbe un vero giro di festini e c’entrerebbe anche il Ghb, la “droga dello stupro”. In questo viaggio nell’orrore ci sarebbe anche una persona morta in circostanze non chiare. Luigi Pelazza ci fa conoscere un’altra terribile realtà nel capoluogo piemontese, dopo il servizio sul “triangolo del crack”. Questa volta ci troviamo nella “Torino bene”, quella del potere dei soldi. Partiamo da un ricco imprenditore che offrirebbe ad alcuni ragazzi sempre crack, la “cocaina da fumare” in cambio di prostituzione e della partecipazione a festini a base di droga e sesso. Non sarebbe il solo ricco torinese coinvolto e in un giro di festini sarebbe stato usato anche il Ghb, la cosiddetta “droga dello stupro”. Ci sarebbero addirittura anche una persona morta in circostanze non chiare e “spedizioni punitive” contro chi parla troppo, “da gambizzare”. Si tratta di accuse gravissime, se confermate. A sostenerle è un ragazzo: dopo essere stato in questo giro racconta la sua versione alla Iena, che ci guida nel viaggio nell'orrore che vedete qui sopra e alla fine va a cercare di incontrare anche il primo imprenditore.

DAGOREPORT il 16 febbraio 2021. A marzo, alla Scala, andrà in scena la “Mahagonny-Songspiel”, ovvero una cantata scenica che poi divenne un’opera epica intitolata “Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny”, ovvero “Ascesa e caduta della città di Mahagonny” di Kurt Weill e Bertolt Brecht andata in scena a Lipsia nel 1930 e alla Scala una sola volta, il 29 febbraio 1964 con regia di Strehler. Ma come mai Dagospia si occupa di una cosa così colta e strampalata? Perché basta sostituire il nome “Stadt Mahagonny” con “Terrazza Sentimento”, anzi “Sentimentilandia” (ovvero Terra del sentimento, come voleva farla diventare Alberto Genovese) e ci si accorge che, se si studiasse ancora storia della cultura, tutto era già stato scritto. L’opera lirica ha sempre già parlato di noi. I trattati utopistici sulle città ideali sono sempre finalizzati a progettare una città che ha come fine il bene comune. La storia di Mahagonny è, invece, l’esatto contrario: la costruzione di una utopia negativa, di una terra definita “città-rete per pesci incauti” nella quale tutto è permesso grazie al denaro: cibo/sesso/violenza/alcool e droga. Sentimentilandia di Genovese stava diventando anch’essa una Mahagonny come quella immaginata da Brecht, una “città-rete per pesci incauti”, una città-terrazza (che doveva raddoppiare) che faceva rete con le dependance di Mykonos, Ibiza ecc ecc, raggiunte in uno spazio privato (il volo privato). L’inizio dell’opera vede i protagonisti elaborare l’idea di una città-trappola (“Netzestadt”) che si chiamerà Mahagonny e che servirà per attirare “incauti pesci” da tutto il mondo (“Eine Woche ist hier: Sieben Tage ohne Arbeit”). Il merito nella costruzione di questa terra-città non può che essere il Male, che serpeggia nel mondo degli uomini ricchi. La voce dell’esistenza di questa nuova incredibile città si diffonde rapidamente attraverso le voci degli amici dei fondatori. Tra le prime persone a giungervi c’è un gruppo di giovani ragazze “in cerca di denari e ragazzi facili”: tra loro vi è Jenny. Orchestrati da una specie di fidanzata-maitresse, Begbick (che assegna a chiunque arrivi – purché locupletato - una ragazza), il ricco Jim sceglie Jenny. Nella notte di Mahagonny ci si ingozza di cibo e sesso fino allo svenimento e alla morte; Begbick accompagna gli uomini dalle ragazze compiacenti (“Geld allein macht nicht sinnlich”), si beve whisky e, tra i fumi, si danza su un biliardo immaginando di essere su un battello con cui veleggiare in gruppo verso l’Alaska (dove si potrebbero fare altre Mahagonny). Ma poi non ci si ricorda granché. Finisce che Jim viene arrestato e imprigionato. Durante un processo farsa, con avvocati ridicoli, ciascuno cerca di “comprare” la propria innocenza. Ma a Jim non riesce e viene addirittura condannato a morte. Mahagonny (ormai in preda al delirio e alle fiamme) è il vero inferno nel quale “nessuno” ha saputo rinunciare al proprio egoismo.

Da "il Messaggero" il 20 aprile 2021. No al sequestro preventivo dei beni di Alberto Genovese. La Procura di Milano aveva chiesto di congelare di oltre 4,3 milioni di euro sui beni dell' imprenditore del web accusato di evasione fiscale, ma l' istanza è stata respinta dal gip Tommaso Perna, che non ha accolto le ipotesi d' accusa. Genovese intanto si trova in carcere dal 6 novembre per le violenze sessuali, avvenute a Milano e a Ibiza, su due ragazze, che avrebbe prima stordito con un mix di droghe. La richiesta di sequestro, invece, era stata avanzata nell' ambito delle indagini, già avviate aperto da mesi, sulle movimentazioni finanziarie dell' ex mago delle start up. L'istanza di sequestro è stata la conseguenza di una presunta evasione su redditi da lavoro, riferiti al ruolo di Genovese in Facile.it Holdco Limited, entrate che l' imprenditore avrebbe dichiarato, invece, come redditi da capitale. Questo capitolo riguarda, in particolare, strumenti finanziari warrant' (convertibili in azioni) e gli accertamenti si basano anche su alcune e-mail acquisite nelle indagini. Dall' altro lato, l' imprenditore è stato accusato pure per una presunta evasione (3,7 milioni contestati dall' Agenzia delle Entrate, ma con cifra poi ridotta dagli inquirenti) sulla liquidazione di alcune partecipazioni in Facile.it, realizzata, secondo i pm, attraverso lo schermo di una delle sue società, la holding Auliv, nella quale erano confluite le stesse partecipazioni. Su questo fronte gli investigatori della Finanza hanno analizzato alcune chat dalle quali sarebbe emerso, per l' accusa, che l' ex bocconiano aveva creato la società per motivi di risparmio fiscale. Nel 2018, poi, risulta che Genovese avrebbe dichiarato soltanto circa 30mila euro lordi. Il giudice, tuttavia, ha bocciato su tutta la linea la richiesta di sequestro perché l' imprenditore non avrebbe usato strumenti per evadere il fisco e, in particolare, la sua holding avrebbe detenuto regolarmente quelle partecipazioni finanziarie. La Procura ora avrà la possibilità di ricorrere al Riesame. Lo scorso gennaio si era saputo che nell' inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dai pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini, era stata aperta anche una tranche sul patrimonio dell' imprenditore e sui suoi movimenti finanziari. E che Genovese era stato iscritto per l' ipotesi di «trasferimento fraudolento di valori», ossia la cosiddetta intestazione fittizia di beni. Genovese è in carcere da oltre 5 mesi è in corso una perizia disposte dal gip su richiesta della difesa: una sulla compatibilità di Genovese col carcere per il suo stato di salute, legato alla tossicodipendenza.

Genovese dalla cella: “Sono solo un indagato, presto uscirò da qui”. Sandro De Riccardis su la Repubblica il 15 gennaio 2021. L'imprenditore è accusato di stupro di una ragazza e ha altre cinque denunce. "Sto bene e non ho paura del virus, sto attento a evitare il contagio". La nuova vita di Alberto Genovese è una cella al quarto piano del carcere di San Vittore, venti metri quadrati divisi con altri cinque detenuti, due letti a castello e due singoli, il suo da solo vicino alla finestra. Dall’alba del 7 novembre, quando è stato arrestato dalla squadra mobile, il suo grande attico su due piani e piscina da 15mila euro al metro quadrato è chiuso. Sotto sequestro. E da allora la sua vita è qui, chiusa tra le quattro mura della cella e le poche ore d’aria, ora che anche l’attività sportiva in carcere è sospesa per l’emergenza sanitaria. Dopo i primi giorni in cui sentiva il peso opprimente dell’astinenza da cocaina, le giornate in carcere sono progressivamente migliorate. E ora l’imprenditore delle startup, il genio bocconiano capace di creare dal nulla una fortuna imprenditoriale da centinaia di milioni di euro, appare sereno. «Sto bene, mi trattano bene. Non ho paura per il virus, cerchiamo di evitare ogni rischio di contagio» dice al consigliere regionale che ieri mattina ha deciso di varcare la soglia di San Vittore e fargli visita. Felpa sportiva e pantaloni di tuta grigi, sneakers ai piedi, Genovese non dice nulla sull’inchiesta che l’ha travolto, anche se sa che se ne parla molto fuori. In cella la tv è accesa su un canale di musica americana, sui fornelli bolle una pentola che riempie l’ambiente di odori. Con gli altri detenuti, l’ex bocconiano sta preparando il pranzo. Il clima è rilassato, Genovese sembra in forma. Si dice convinto che i suoi giorni in carcere finiranno presto. «Penso che durerà poco per me qui, ci si prende una grande responsabilità quando si decide di applicare la carcerazione preventiva» dice, sottolineando di essere in carcere solo da indagato. Appare in uno stato fisico e psicologico molto diverso da quello che lui stesso ha descritto durante gli interrogatori. «È stata una spirale che mi ha messo sempre più in difficoltà – aveva detto ai magistrati dopo l’arresto -. Ogni volta che mi drogo ho allucinazioni e faccio casino, faccio cose di cui non ho il controllo, spero di non aver fatto cose illegali e spero di non farle. Non ho la percezione del limite esatto tra legalità e illegalità quando sono drogato». Eppure fino all’esplosione dello scandalo, Genovese era considerato nella comunità finanziaria un imprenditore di successo, un mago capace di fare milioni da un’idea. Da allora però la sua posizione si è di molto aggravata. Alle accuse per lo stupro e il sequestro di oltre ventiquattrore di una diciottenne, tra il 10 e l’11 ottobre scorso, altre cinque ragazze hanno denunciato violenze. Episodi su cui il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il pm Rosaria Stagnaro stanno portando avanti tutte le verifiche possibili. Insieme agli investigatori della squadra mobile, guidata dal dirigente Marco Calì, hanno sentito quasi duecento testimoni delle feste a base di stupefacenti a Milano e delle vacanze di gruppo all’estero. Per come sono stati raccontati o ricostruiti dai video sequestrati, i sei casi di presunte violenze sembrano ripercorrere tutti la stessa dinamica. Con l’uso di droghe che rendono incoscienti le vittime, lasciandole al risveglio con dolori su tutto il corpo e la sensazione di essere state violate. Nei «ricordi molto confusi» messi a verbale sulla notte con la diciottenne durante il party alla “Terrazza sentimento”, Genovese aveva parlato di soldi da corrispondere alla ragazza. Insinuazioni che la giovane ha subito smentito. «La parte dei soldi non è vera. Non ci siamo mai accordati» ha scritto in un messaggio whatsapp al suo legale, l’avvocato Luigi Liguori. E anche nelle ore di video delle telecamere della camera da letto, che documentano integralmente lo stupro, non c’è traccia di dialoghi sul denaro.

Da Telelombardia il 28 gennaio 2021. “Alberto Genovese ha l'attico al sesto piano, sesto e settimo ed era in trattativa per comprare un attico di fianco. Prezzo di questo attico circa tre milioni di euro, lui voleva fare tipo da Terrazza Sentimento a Sentimentolandia. Da quel che sappiamo noi vicini quell’attico è in vendita e Genovese ha già lasciato 500 mila euro di caparra. So che doveva rogitare entro febbraio, ma non è possibile visto che si trova in carcere. Su questo attico da tre milioni di euro è circolato qualcosa su Instagram, poi però è stato cancellato tutto. Noi vicini abbiamo salvato tutto, uno in particolare era traumatizzato per le continue feste di Genovese. Questa persona che ha salvato l'immagine prima che venisse cancellata, appena la vide online scrisse una mail agli altri condomini. Chiese se sapevamo qualcosa di questa "Sentimentolandia", ma anche se ci risultasse qualcosa sull'acquisto da parte di Genovese di un'altra casa nello stesso condominio. La foto (il rendering che mostreremo ndr) mostra una sorta di progetto, una piantina. E dopo che è successo questo casino sono venuti alcuni agenti immobiliari che stavano cercando di rigirare questo attico ad altri acquirenti”.

GUARDIA DI FINANZA ED ANTITRUST ISPEZIONANO FACILE.IT E PRIMA.IT SOCIETA’ FONDATE DA ALBERTO GENOVESE.

Il Corriere del Giorno il 16 Febbraio 2021. Secondo l’Autorità le condotte ingannevoli potrebbero riguardare l’attività di comparazione nei settori del credito al consumo e delle polizze RCAuto. I funzionari dell’Agcm hanno eseguito oggi ispezioni nelle sedi di Facile.it S.p.A., Facile.it Broker di Assicurazioni S.p.A. e Prima Assicurazioni S.p.A., con l’ausilio del Nucleo speciale Antitrust della Guardia di Finanza. Alberto Genovese il manager attualmente in carcere per le note violenze sessuali a delle ragazze durante le sue feste a base di sesso e droghe sull’ormai famosa Terrazza Sentimento di Milano e nelle lussuose ville affittate a Formentera in Spagna , è il fondatore e principale azionista di Prima Assicurazioni con il 55,31%. La società assicurativa specializzata nelle polizze online vende anche tramite il sito Facile.it, azienda leader nella comparazione di assicurazioni, mutui, prestiti, tariffe energia, telefonia e conti correnti fondata da Genovese e poi ceduta nel 2014 al fondo Oakley e nel 2018 al fondo Eqt VIII.  Genovese sarebbe uscito dall’azionariato dalla società Facile.it, mentre dalla seconda no. Nel 2014 Alberto Genovese ha fondato  Prima Assicurazioni, agenzia assicurativa specializzata nella vendita di polizze online. Genovese è il principale azionista del gruppo con una partecipazione del 58,31%  la Alberto Genovese Technologies spa, dopo essersi dimesso dalla carica di amministratore delegato e presidente subito dopo l’arresto, lasciando la gestione nelle mani di George Ottathycal Kuruvilla. Nell’azionariato di Prima Assicurazioni sono presenti colossi del mondo finanziario come Blackstone e Goldman Sachs, che nel 2018 hanno partecipato a un maxi-round di investimento di 100 milioni di euro per la startup. Dalle visure camerali risulta che Prima Assicurazioni registra una perdita d’esercizio nel 2019 di 14,34 milioni a fronte di ricavi per 26,4 milioni. Facile.it, azienda online leader nella comparazione di assicurazioni, mutui, prestiti, tariffe energia, telefonia e conti correnti è stata fondata da Alberto Genovese nel 2010. Nel 2014 Facile.it viene venduta al fondo inglese Oakley per 100 milioni di euro mentre nel 2018 viene ceduta al fondo svedese Eqt VIII per 400-450 milioni di euro. Un’ associazione di consumatori aveva presentato nei mesi scorsi degli esposti all’Ivass e all’Antitrust in quanto Genovese in questi anni è rimasto membro del Consiglio di advisor di Eqt VIII. I consumatori hanno quindi segnalato il rischio di un trattamento di favore per Prima Assicurazioni da parte di Facile.it. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato nei giorni scorsi un procedimento istruttorio per presunte pratiche commerciali scorrette nei confronti delle società Facile.it S.p.A., Facile.it Broker di Assicurazioni S.p.A. e Facile.it Mediazione Creditizia S.p.A. Per accertare queste condotte, i funzionari dell’Autorità Antitrust con l’ausilio del Nucleo Speciale Antitrust della Guardia di Finanza nei giorni scorsi hanno eseguito ispezioni nelle sedi di Facile.it S.p.A., di Facile.it Broker di Assicurazioni S.p.A. e di Prima Assicurazioni S.p.A. Secondo l’Antitrust, le società potrebbero avere attuato due distinte pratiche commerciali scorrette, violando il Codice del Consumo, nello svolgimento dell’attività di comparazione sul sito Facile.it. Si tratta, in primo luogo, di una presunta condotta ingannevole, legata sia ai prestiti personali sia alle polizze RCAuto, in quanto le informazioni fornite al consumatore non indicherebbero o indicherebbero in maniera fuorviante elementi importanti per effettuare una scelta consapevole: ad esempio, le condizioni economiche dei finanziamenti pubblicizzati nel sito comparatore, la probabilità di approvazione della eventuale richiesta di prestito, i criteri e le modalità di comparazione e di definizione della classifica delle offerte messe a confronto. Per quanto riguarda le polizze RC Auto, per alcuni prodotti non verrebbe indicato che si tratta di polizze basate sul sistema del risarcimento in forma indiretta, caratterizzate da un servizio in fase di liquidazione dei danni meno efficiente. Facile.it, inoltre, favorirebbe i prodotti di Prima Assicurazioni S.p.A. a discapito degli altri intermediari assicurativi. In secondo luogo, secondo l’Autorità, potrebbero essere potenzialmente aggressive le procedure volte a sollecitare il consumatore all’acquisto anche di una polizza assicurativa inizialmente prospettata come facoltativa o di specifici prestiti in una fase in cui il consumatore non ha ancora deciso quale prodotto scegliere. L’istruttoria dell’ Antitrust dovrebbe concludersi nel giro di cinque mesi, quindi prima della fine dell’estate. Queste le repliche delle due società coinvolte dalle ispezioni dell’Antitrust che hanno così replicato . “L’operato di Facile.it si basa sulla totale trasparenza e tutela del consumatore — scrive l’azienda —. La nostra missione è di fornire ai clienti uno strumento di comparazione che possa aiutarli a risparmiare sulle principali voci di spesa familiare; impegno che portiamo avanti da anni nel pieno rispetto delle normative vigenti e delle regolamentazioni delle autorità. L’azienda collabora con le autorità ed è sicura che gli accertamenti porteranno presto al chiarimento della posizione di Facile.it”. “Prima Assicurazioni ha prestato la propria piena collaborazione e si è messa immediatamente a disposizione degli organi preposti” scrive Prima Assicurazioni in un comunicato diffuso nella serata del 9 febbraio scorso , affermando di “avere sempre operato nel pieno rispetto della normativa applicabile“.

Mario Gerevini per Sette – Corriere della Sera il 6 febbraio 2021. I verbi sono coniugati al passato e c’è una ragione: è già stata emessa una sentenza. Lontano dai riflettori, nel chiuso di un ufficio, meno di un mese dopo il suo arresto. E’ un atto notarile che di fatto trasforma il tocco magico del principe delle startup nel timbro della vergogna. Vediamo come ci si arriva. Il 20 novembre si riunisce alle 7 del mattino un’assemblea della «Alberto Genovese Technologies spa», la cassaforte dell’imprenditore creata a fine 2019. Controlla oltre il 50% di Prima Assicurazioni per un valore a spanne di 150 milioni. La sede è in piazza Santa Maria Beltrade, proprio lì dove c’è Terrazza Sentimento. L’assemblea, in audio-conferenza, revoca Genovese dalla carica e prende atto che gli altri due consiglieri hanno spedito lettere di dimissioni. La «Alberto Genovese Technologies» ha due soci: la svizzera Alej Holding che possiede l’80% e due finanziarie lussemburghesi di Teodoro D’Ambrosio, trentottenne residente a Montecarlo. Tutto fa pensare che Alej sia riconducibile a Genovese anche se lui non compare mentre tra i gestori c’è un professionista di Varese che lavora a Lugano e una lituana del team di «F Trust ag», un family office elvetico che offre servizi in svariati paradisi fiscali. Annotiamoci dunque che una parte del patrimonio del re delle startup sta lì dentro. I magistrati, intanto, hanno messo nel mirino una trentina di conti correnti e le sue attività estere. Dunque la lituana-svizzera Toma Preidyte indica, per conto di Alej, due nuovi nomi nel board della «Alberto Genovese» solo che il commercialista e l’avvocato già ufficialmente designati poi rinunciano. Le poltrone scottano. Passano i giorni e alla fine assume la presidenza “tecnica” un avvocato civilista dalla solida esperienza societaria: Paolo Pecorella. Ma c’è un problema. Chi farebbe affari oggi con una società che si chiama «Alberto Genovese Technologies»? Ecco perché il 2 dicembre nell’ufficio del notaio Giovanni Ricci di Milano, rappresentanti dei soci e amministratori convergono via audio per un’assemblea straordinaria con un’unica decisione da prendere: cancellare il nome «Alberto Genovese» dalla sua società. E così quello che una volta era un marchio di garanzia, un acceleratore di business, viene sostituito dall’ anonimo «First Technologies Holding». E’ il de profundis di una storia iniziata 25 anni fa quando Genovese si iscrive alla Bocconi e lascia Napoli. Dopo la laurea lavora 5 anni nella consulenza da McKinsey e Bain, poi tre anni in eBay. E’ l’epoca in cui Facebook (nata nel 2004) chiude il suo primo bilancio in utile (2009) e debutta in Borsa (2012). Nel 2008 «ho avuto – ha raccontato lui stesso – la prima idea di un comparatore di assicurazioni». E’ l’embrione di Facile.it che vende nel 2014 per 100 milioni e subito dopo fonda Prima Assicurazioni con i partner storici George Ottathycal e Teodoro D’Ambrosio. Un successo tanto che nel 2018 due pezzi da novanta della finanza mondiale, Blackstone e Goldman Sachs, investono 100 milioni. Oggi Pri ma ha un milione di clienti assicurati in Italia e un piano lanciato a settembre per sbarcare in Spagna, Germania e Gran Bretagna. Il bilancio (2019) è ancora quello di un’azienda in fase di lancio (25 milioni di fatturato e 14 di perdita) ma già a metà 2020 le perdite calano a 2,9 milioni. Fine della storia La reazione alle notizie su Genovese è stata rapida: revoca di tutte le deleghe (era presidente e amministratore delegato), passate pari pari al cofondatore Ottathycal. Blackstone (26,8%) e Goldman Sachs (14,4%) hanno favorito la rottura immediata del cordone ombelicale. E in un animato consiglio di amministrazione nella notte tra il 12 e il 13 novembre c’era all’ordine del giorno anche la «Nomina di uno studio legale esterno indipendente con competenza in materia di diritto penale per condurre un’indagine interna in merito alla condotta del Ceo (ovvero Genovese, ndr) nella gestione della società, volta anche alla ricerca di prove di eventuali illeciti». Genovese insomma è «indagato» anche dalla sua società. Intanto sul mercato si dice che Prima potrebbe presto trovare un nuovo socio di riferimento. Per Genovese vorrebbe dire portarsi a casa, nella First Technologies, almeno 150 milioni che poi magari serviranno per eventuali risarcimenti. Ma è questa, potenzialmente, la riserva di patrimonio dell’imprenditore-predatore. Al lordo di altre più piccole iniziative e dell’ancora misterioso «tesoro» svizzero, custodito nel cantone di Zug dal team, quasi tutto al femminile, di F Trust.

Mario Consani e Anna Giorgi per ilgiorno.it il 6 febbraio 2021. Svizzera e Lussemburgo, Cipro e Isole Cayman, un attico in centro a Milano, una villa a Ibiza, una affittata nella greca Mykonos e un’altra a Formentera. Viaggiano per mezzo mondo gli interessi economico finanziari di Alberto Genovese, il 43enne mago della startup ora in carcere con l’accusa di aver drogato e stuprato per venti ore, durante una delle sue feste, una giovane modella, forse anche le altre sei che hanno sporto denuncia. Oltre all’inchiesta principale sulle violenze, che da novembre lo tiene in cella a San Vittore, i magistrati hanno avviato su di lui anche un secondo filone di indagini che riguarda per l’appunto gli affari, nonostante i suoi redditi dichiarati negli ultimi anni, secondo gli investigatori sembrino più quelli di un dipendente ben retribuito che non quelli di un magnate dal portafoglio ingombrante. Genovese dunque è indagato anche per intestazione fittizia di beni proprio in relazione ad alcune società a lui riferibili e secondo la Procura “schermate” all’estero. Iscrizione finalizzata ad accertamenti che riguardano presunti profili di frode fiscale e riciclaggio, ma che per ora si è concretizzata solo nell’avvio del lento e complesso compito di accertamento affidato agli uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza. Solo in un secondo momento il pm Paolo Filippini, che coordina questo filone finanziario della inchiesta, tirerà le somme e deciderà se avviare le rogatorie all’estero verso gli stati interessati. La maggior parte della trentina di conti correnti sui quali Genovese ha operato negli ultimi anni, stando agli investigatori, sarebbe comunque in Italia. E al momento, nessuna contestazione specifica è stata ancora rivolta all’imprenditore. Inventore e fondatore di “Facile.it“, colosso nel campo delle assicurazioni, che però vendette nel 2014 per oltre 150 milioni, nel mondo assicurativo digitale Genovese è rimasto fondando “Prima assicurazioni“, che ha guidato fino al momento dell’arresto. Secondo le indagini, “Prima“ appartiene al gruppo svizzero Alej Holding ag, con sede a Finstersee, Cantone Zugo. Le sue quote sono distribuite tra 15 soci, ma la maggioranza del 58,31% è in capo ad Alberto Genovese technologies spa. Quest’ultima società, nata solo due anni fa a Milano, vede Genovese presidente del cda e come soci figurano Agh sa, che ha sede in Lussemburgo, la stessa Alej Holding Ag e Tda industries Gmbh, di diritto svizzero ma controllata da Zanjero Limited con sede a Nicosia, Cipro. Questo però, è solo il nucleo forte degli affari di Genovese, che poi mantiene direttamente o indirettamente partecipazioni in società impegnate in attività diverse, tutte controllate da ex soci, amici o parenti, tutte con sede legale in Italia, per lo più a Milano. E poi, in questo oceano di denaro, di azioni, di case e di coca, ci sono anche 18 milioni ancora da decifrare, fatti arrivare tre anni fa da Genovese – con bonifici a firma di due notai milanesi – a due società con sedi una a Cipro e l’altra alle isole Cayman.

Caso Genovese, in vendita la Ferrari "Sentimento" e la Lamborghini. Nuovo acquirente per l'attico bis dell'imprenditore arrestato per stupro. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 12 febbraio 2021. I giudici hanno autorizzato l'imprenditore a mettere in vendita le sue auto di lusso e ha far subentrare un nuovo compratore nell'operazione di acquisto dell'appartamento da 170 metri quadri adiacente al suo dove voleva realizzare "Sentimentolandia". Ora che sui social sono stati rimossi i video di lui al volante, con il rombo del motore che invade via Torino, anche di quella Ferrari con il logo "Sentimento" sulla fiancata, resterà solo il ricordo. Dopo l'arresto dello scorso 7 novembre per lo stupro della diciottenne durante la festa nel suo superattico, Alberto Genovese ha dovuto fare i conti con la nuova vita da detenuto e con quella interrotta fuori. Per questo i suoi avvocati, Luigi Isolabella e Davide Ferrari, hanno presentato diverse istanze al gip Tommaso Perna per chiedere la nomina di un procuratore per il loro assistito. Un notaio dotato di procura speciale, per poter compiere alcune operazioni specifiche, e di procura generale per la gestione delle quote nelle sue società. Il magistrato ha considerato legittime le richieste e ha autorizzato la nomina del professionista. L'imprenditore ha pensato innanzitutto alle sue auto. Due fiammanti fuoriserie. La "Ferrari sentimento di Genovese", com'era conosciuta dai suoi amici, e una Lamborghini. Dopo l'ingresso a San Vittore ha deciso di alienarle, e le due vetture di lusso sono state al centro di una richiesta di procura all'autorità giudiziaria, che ha autorizzato l'operazione.

La fine di Sentimentolandia. Nella sua cella da venti metri quadrati condivisa con altri cinque detenuti, Genovese ha capito che anche uno dei suoi più ambiziosi e un folli progetti sarebbe saltato: quello di realizzare nel cuore di Milano, in un palazzo che ospita studi professionali e inquilini molto riservati, un paradiso del divertimento, una location ancora più esclusiva e ricercata di Terrazza Sentimento: Sentimentolandia. Il progetto prevedeva l'acquisto dell'attico adiacente a quello di sua proprietà, al sesto piano, da 170 metri quadrati. Un immobile da tre milioni di euro che avrebbe raddoppiato lo spazio per feste e incontri. Prima dell'estate era stato firmato il preliminare di vendita, con il versamento di una caparra da 500 mila euro, e l'operazione si sarebbe dovuta perfezionare a febbraio. L'inchiesta dell'aggiunto Letizia Mannella e dei pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini ha travolto anche questo progetto. Per evitare di perdere l'anticipo, a Genovese è subentrato nell'acquisto un altro imprenditore interessato all'immobile. Se la squadra mobile, diretta dal dirigente Marco Calì, indaga sul filone degli stupri denunciati da sei ragazze e sullo spaccio di droga, il Nucleo di polizia economica della Guardia di Finanza dovrà verificare anche le ultime operazioni immobiliari e le altre movimentazioni finanziarie, per capire se siano da ricondurre alle operazioni sospette segnalate di recente dall'Antiriciclaggio di Banca d'Italia.

L'addio alle società. Genovese ha infine potuto conferire una procura generale proprio per gestire le quote e le cariche societarie che ancora conserva. Dopo l'esplosione dello scandalo, ha perso le deleghe in Prima Assicurazioni (da lui fondata dopo la cessione di Facile.it) e il suo nome è scomparso pure dalla società di cui resta ancora il principale azionista: un passaggio da Alberto Genovese Technologies a First Technologies, che serve per evitare che lo stigma dello scandalo influisca su reputazione e fatturato. E mentre aumentano i soggetti che si dicono pronti ad agire contro di lui in sede civile per danno di immagine, sarà ancora un notaio a gestire eventuali passaggi di quote o revoche di cariche. Già prima dell'arresto, a molte di queste Genovese aveva già rinunciato. Lo scorso maggio, per esempio, smette di essere amministratore unico in Abiby (piattaforma on line di prodotti di cosmetica, di cui è proprietario al 50 per cento) e viene affiancato da un altro amministratore, il fondatore della start-up Mario Parteli, munito di "tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione". Un mese dopo, Genovese "rassegna le proprie dimissioni", come si legge in uno stringato verbale di assemblea, anche da Jobtech, agenzia digitale per la ricerca di lavoro, finanziata da lui stesso. Nella start-up è sostituito dallo storico amico e socio Paolo Andreozzi. Qualche mese prima, il 14 ottobre 2019, l'ex bocconiano lascia anche G2 (servizi tecnologici, di cui ha il 50 per cento), in un'assemblea in cui è collegato solo telefonicamente. La terribile violenza di ottobre non si era ancora consumata, ma erano forse questi i primi segnali che qualcosa lo stava allontanando definitivamente dalle sue creature imprenditoriali.

Genovese, non solo droga e violenze. Inchiesta sull’origine della sua ricchezza. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 13 gennaio 2021. Si vuole capire se la galassia di società a lui riconducibili potesse costituire un’architettura per evadere il fisco. Non solo la droga, il sequestro di persona e lo stupro di una diciottenne durante una festa alla "Terrazza sentimento", e le altre cinque denunce arrivate da altrettante presunte vittime di violenza. Alberto Genovese, il mago delle start-up fondatore di Facile.it (che ha lasciato nel 2014 con un exit da 100 milioni) è iscritto nel registro degli indagati anche per fittizia intestazione di beni. Nelle ultime settimane all'aggiunto Letizia Mannella e al pm Rosaria Stagnaro, che indagano sulle violenze alla "Terrazza sentimento" e nelle vacanze a Ibiza e Mykonos, si era aggiunto anche il pm Paolo Filippini, che fa parte del dipartimento dei reati economici della procura. Ma l'iscrizione di Genovese per un'ipotesi di reato economico non è recente: risale ai giorni successivi al fermo d'urgenza del 7 novembre scorso, quando ai magistrati era già apparso chiaro che oltre alla terribile violenza della notte tra il 10 e 11 ottobre, registrata dalle telecamere della camera da letto nell'attico vicino al Duomo di Milano, e a quelle emerse successivamente, bisognava fare chiarezza anche sul dedalo di società e start-up nelle quale l'imprenditore compare in vari ruoli. L'iscrizione per intestazione fittizia è a scopo esplorativo, e serve a verificare eventuali profili di evasione fiscale o riciclaggio da parte del 44enne bocconiano. L'imprenditore, in carcere da più di tre mesi, conserva tuttora quote societarie a volte di maggioranza (come in Prima.it, da lui fondata e dove ha lasciato ogni carica), a volte di minoranza, oltre a cariche da consigliere nelle varie governance. Ruoli in parte ridotti proprio nei mesi precedenti all'arresto. Una galassia di aziende - dall'intermediazione nelle polizze assicurative alla vendita online di auto, dal portale degli affitti a quello per il reclutamento di hostess, da una società attiva nel turismo a un'altra che si occupa di concerti - spesso di proprietà di amici o vecchi compagni di università di Genovese, anche partecipate da società off-shore. Così accade per esempio per Prima.it, dove Genovese è titolare del 58% delle quote attraverso la Alberto Genovese Technologics, a sua volta controllata da entità svizzere e lussemburghesi, mentre un altro 30% del capitale della società assicurativa porta in Regno Unito, Svizzera e Lussemburgo. In questo contesto va analizzata anche la "Segnalazione di operazione sospetta" confluita in un'informativa del Nucleo di polizia economico tributaria della Gdf di Milano, agli atti dell'inchiesta sulla Lombardia Film Commission, dove si segnala un trasferimento di diciotto milioni verso società a Cipro e alle isole Cayman. Il sospetto degli inquirenti, che sono solo all'inizio degli accertamenti, è che l'imprenditore possa aver usato dei prestanome per celare la reale proprietà delle società, che potrebbero essere a lui riconducibili. Ipotesi che sta approfondendo la finanza dopo aver ricevuto dalla squadra mobile, diretta da Marco Calì, un'enorme mole di documentazione sequestrata nei pc e nei telefoni. Con l'Agenzia delle Entrate si lavora per verificare se i redditi denunciati negli anni da Genovese siano compatibili con il suo altissimo tenore di vita. E con le spese faranoiche a cui era abituato, come i party da 150mila euro a serata.

(ANSA il 28 febbraio 2021) Alberto Genovese, l'imprenditore del web in carcere dal 6 novembre, ha negato di aver violentato la modella 23enne a Ibiza a luglio, così come aveva fatto dopo l'arresto per il caso della 18enne. Interrogato dal gip, dopo la seconda ordinanza di custodia cautelare, a quanto si è saputo, il 43enne ha sostenuto che la modella, così come le altre ragazze che partecipavano ai suoi festini a base di droga e andavano nella sua stanza, lo facevano consapevolmente. E avrebbe spiegato quel "sistema" in cui lui metteva a disposizione "tutto", compresa gran parte della cocaina che, comunque, di solito portavano gli uomini.

Da ilmessaggero.it l'1 marzo 2021. Alberto Genovese, l'imprenditore del web in carcere dal 6 novembre, ha negato di aver violentato la modella 23enne a Ibiza a luglio, così come aveva fatto dopo l'arresto per il caso della 18enne. Interrogato dal gip, dopo la seconda ordinanza di custodia cautelare, a quanto si è saputo, il 43enne ha sostenuto che la modella, così come le altre ragazze che partecipavano ai suoi festini a base di droga e andavano nella sua stanza, lo facevano consapevolmente. E avrebbe spiegato quel «sistema» in cui lui metteva a disposizione «tutto», compresa gran parte della cocaina che, comunque, di solito portavano gli uomini. Genovese dal carcere di San Vittore, dunque, anche oggi non ha ammesso le violenze, interrogato per circa un'ora alla presenza in videoconferenza, oltre che del gip Tommaso Perna, anche del pm Rosaria Stagnaro e dei legali Luigi Isolabella e Davide Ferrari. È accusato nella seconda ordinanza di aver abusato, assieme alla fidanzata (indagata), della 23enne a 'Villa Lolità, sua residenza di vacanza nell'isola spagnola, dopo averle ceduto massicce dosi di cocaina e ketamina. E avrebbe sostenuto, in pratica, che lei, con cui per un periodo, a suo dire, aveva avuto anche una relazione, era consenziente e che i lividi che aveva sul corpo erano dovuti al fatto che la ragazza era talmente «fatta» che lui e la fidanzata avevano dovuto tenerla ferma perché si dimenava, ma non per abusare di lei. Nell'interrogatorio di oggi l'imprenditore avrebbe anche descritto il mondo della droga, precisando che si riforniva in particolare da due persone, e il «sistema» delle feste. Ha fornito anche i nomi di coloro che gli vendevano la cocaina, persone, a suo dire, capaci di «farti arrivare» cocaina e altro «ovunque tu sia in qualsiasi parte del mondo». Ai festini, comunque, ha aggiunto, erano gli uomini di solito a portare le droghe e lui ne metteva a disposizione gran parte e le donne partecipavano perché sapevano che c'era la droga. Tra l'altro, a quanto si è saputo, Genovese avrebbe anche spiegato che c'erano feste e «ambienti» in cui le persone attorno a lui non si drogavano e questi due mondi erano «incomunicabili» tra loro. Dunque, chi sceglieva di andare ai festini a base di droga, secondo la sua versione, ne era ben consapevole. Ha detto al gip anche che lui «sta male» in carcere e di recente, infatti, la difesa ha chiesto i domiciliari in una clinica per la disintossicazione. Istanza, però, bocciata. La difesa ora valuterà se fare o meno ricorso al Riesame contro la secondo ordinanza. Degli altri capi di imputazione, per i quali i pm hanno chiesto l'arresto ma il gip l'ha negato, Genovese, a domanda specifica, non ha voluto parlare perché ha ritenuto soddisfacenti le valutazioni del giudice.

(ANSA il 29 aprile 2021) Agcom ha adottato una delibera di richiamo nei confronti de La7 per il programma Non è l'Arena in merito al caso Alberto Genovese. L'Autorità chiede "il rigoroso rispetto dei principi sanciti nel Testo unico e nei provvedimenti dell'Autorità a tutela di una informazione imparziale e di una corretta modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari e dell'immagine della donna". Agcom ritiene che "sotto il profilo della continenza, la trattazione del medesimo argomento in ben 12 puntate del programma con spazi di durata compresa tra i 50 e gli 80 minuti, denuncia un'attenzione sproporzionata al fatto di attualità".

Giletti: «Hanno tentato di vendermi immagini dello stupro». Intanto il giornalista e conduttore Massimo Giletti ha anticipato questa mattina, in diretta su RTL 102.5 all'interno di NON STOP NEWS, una notizia che poi approfondirà in serata nel corso della sua trasmissione Non è l’Arena. «Ci siamo recati presso un ufficio di un commissariato di Roma e abbiamo fatto una denuncia perché qualcuno ha tentato di venderci le immagini dello stupro della giovane modella milanese stuprata da Alberto Genovese, noi ovviamente non abbiamo fatto nessuna trattativa, ma io ho deciso in autonomia di andare a denunciare per capire chi si nasconde dietro a questa cosa che io trovo ignobile e indegna, di dire che la ragazza era consenziente, stanno succedendo cose anomale al limite della giustizia».

Salvatore Garzillo per fanpage.it il 15 marzo 2021. Tutti sapevano che in piazza Santa Maria Beltrade, almeno un paio di volte al mese, c’era un gran viavai di ragazze. Per tassisti e autisti privati era una manna dal cielo. Abbiamo incontrato uno di loro, Simone, un ncc (noleggio con conducente) che ha lavorato per Alberto Genovese diverse volte e conosce bene le dinamiche di quelle serate. Compresa la discrezione che bisogna mantenere quando la persona che sale in auto non è in perfette condizioni. "Alcune delle ragazze che ho accompagnato da Genovese le ho riviste in televisione come vittime – racconta a Fanpage.it – Nella vita di tutti i giorni era un professionista esemplare, mai avrei pensato che potesse fare una cosa del genere". Per Simone la ormai nota Terrazza Sentimento era la casa di un uomo molto ricco ma, di fatto, la considerava un locale come un altro. “Io fondamentalmente portavo le ragazze lì. A volte mi chiamava una sua assistente, qualcuno del suo staff o direttamente lui. Diceva ‘c’è qui una ragazza che alle 2 deve andare dal punto x al punto y'. E io eseguivo. Era un lavoro normale. Anche se le persone che caricavo in auto erano un po’ alticce o alterate da qualche sostanza mi sembrava nell’ordine naturale di feste di un certo tipo". Alberto Genovese è in carcere dallo scorso novembre, quando la Squadra mobile di Milano lo ha arrestato su ordine della procura per aver drogato e violentato una modella 18enne nel corso di una festa nel suo attico in piazza Santa Maria Beltrade, a pochi passi dal Duomo. Da allora è stato travolto da una valanga di denunce, alcune delle quali ritenute infondate dai pubblici ministeri. "Le ragazze finivano di ballare nelle discoteche e andavano da lui a passare l’ultima parte della serata – continua Simone – Al mattino Genovese mi richiamava e passavo a prenderle. Tutto qui. Se mi fossi accorto di qualcosa sarei sicuramente intervenuto". Il rammarico dell’autista è di non aver dato peso a segnali che ora ritiene avrebbe potuto notare. "Ovviamente quando vedi flotte di modelle e personaggi più o meno famosi che frequentano assiduamente la stessa Terrazza ti fai qualche domanda ma non avrei mai potuto immaginare. Solo quando è scoppiata la notizia ho collegato i puntini. Guardando i talk show ho visto ragazze che ho accompagnato in quella casa diverse volte. Questo devo ammettere che mi ha turbato".

Genovese: "Quelle ragazze d'accordo col mio sistema". Otto donne accusano il manager di violenza. Lui si difende: "Chi si drogava era consenziente". Nino Materi - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. La linea difensiva di Alberto Genovese corre su due fronti: il primo si fonda sull'«incapacità» di essere pienamente cosciente delle proprie azioni violente; il secondo si basa sulla «capacità» delle sue vittime di comprendere di essere all'interno di un «sistema» (a base di droga e sesso) che le ragazze erano «libere di accettare o meno». Un combinato disposto che i legali di Genovese auspicano possa portare, in sede processuale, all'alleggerimento dei molteplici capi di imputazione (violenza sessuale, lesioni, sequestro di persona e spaccio) che gravano sul 43enne manager milanese in carcere dal 6 novembre dopo la denuncia di una 18enne rimasta in balìa dell'uomo per un giorno intero. In occasione della convalida di quel fermo il gip definì la personalità del fondatore milionario della start-up Facile.it (ceduta nel 2014) «altamente pericolosa» con un «assoluto disprezzo per il valore della vita umana, soprattutto di quella delle donne», da lui trattare alla stregua di «bambole di pezza». Nell'episodio riguardante la 18enne Genovese avrebbe agito, sempre secondo la motivazione del gip, «prescindendo dal consenso della vittima, palesemente incosciente per circa la metà delle 24 ore trascorse con lui». Successivamente alla denuncia della 18enne altre ragazze hanno sostenuto (in due casi perfino attraverso la copertina di un giornale) di aver subito un analogo trattamento. Stupri che sarebbero avvenuti non solo in Italia durante i party milanesi ospitati sulla famigerata «terrazza sentimento», ma anche durante periodi di vacanze all'estero. Come nel caso della modella 23enne che sostiene di essere stata violentata in una villa a Ibiza, episodio per il quale Genovese è stato due giorni fa nuovamente interrogato dal gip dopo la seconda ordinanza di custodia cautelare. Il manager ha negato lo stupro, ricordando che la modella, al pari delle altre ragazze partecipanti ai festini, andavano nella sua stanza «consapevolmente»: un «sistema» in cui il l'imprenditore «metteva a disposizione tutto», compresa la droga. Il manager, esattamente come nel caso della 18enne da cui è partita l'inchiesta, è accusato aver abusato della 23enne dopo averle ceduto «massicce dosi di cocaina e ketamina». «Ai festini - ha spiegato Genovese - erano due pusher di solito a portare le droghe che io mettevo a disposizione degli invitati. E le donne partecipavano perché sapevano che c'era la cocaina». L'imprenditore ha precisato come esistessero anche «feste in cui gli invitati non si drogavano» e che «questi due mondi erano incomunicabili tra loro»; come dire: chi sceglieva di andare ai party a base di droga, sapeva a cosa andava incontro. E questo valeva pure per le ragazze, che però non potevano certo immaginare che dalle «sniffate» si sarebbe passati alle torture. La difesa è tornata a chiedere per Genovese i domiciliari in una clinica «per la disintossicazione», ma l'istanza è stata bocciata. Il 43enne resta quindi in carcere. Unico punto a suo favore: il gip ha rigettato gli altri capi di imputazione per i quali i pm avevano chiesto l'arresto in relazione alle denunce di altre sette ragazze.

Giuseppe Guastella per corriere.it il 27 febbraio 2021. Molto giovani e belle, preferibilmente magre e senza forme eccessivamente evidenti, ma soprattutto sempre pronte a drogarsi: dovevano essere solo così le ragazze ammesse a Terrazza sentimento. Per trovarle tra social e discoteche, e poi portarsele a letto volenti o nolenti, Alberto Genovese ha messo in piedi una vera e propria struttura che non lasciava nulla all’improvvisazione, in cui ciascuno dei suoi uomini aveva un ruolo preciso, esattamente come nelle sue startup di successo che ha venduto a peso d’oro. Dopo quattro mesi di indagini della squadra mobile della Polizia, coordinate dal pm milanese Rosaria Stagnaro e dall’aggiunto Letizia Mannella, dalle carte d’inchiesta emerge come l’imprenditore 43 enne applicasse le sue riconosciute capacità manageriali alle feste e alle vacanze da sogno che impegnavano la sua vita dopo che, a partire dal 2015, si era allontanato dalla gestione operativa delle sue società ed era finito nel tunnel della cocaina che consumava in grande quantità. Subito dopo l’arresto del 6 novembre, molte voci dicevano che tutti nella corte dei miracoli che circondava Genovese e gozzovigliava alle sue spalle sapevano perfettamente che drogava e poi violentava bestialmente le ragazze nella sua camera da letto dalla porta sbarrata e sorvegliata da un bodyguad. Ora, però, il quadro descritto dai detective guidati da Marco Calì appare più articolato e comprende una struttura con un «modello operativo», «efficace ed organizzato» che negli ultimi anni è stato applicato «maniera seriale» con ciascuna ragazza. Il modello funzionava così: le ragazze «venivano individuate e contattate» sui social o di persona dai collaboratori di Genovese, Alessandro Paghini e poi Daniele Leali (indagato per spaccio di droga), e selezionate «secondo caratteristiche fisiche costanti» e, prima di tutto, se amavano drogarsi. Perché «Alberto Genovese prediligeva circondarsi di persone» che dividessero con lui la droga che lui stesso pagava. Dopo averle valutate in foto, se corrispondevano «al suo gusto estetico», i loro nomi venivano inseriti nelle liste degli invitati ai quali era concesso di accedere all’attico e superattico a due passi dal Duomo di Milano oppure di partecipare, senza spendere un euro, alle sontuose vacanze ad Ibiza o a Mikonos. Le ragazze facevano la fila per essere invitate nelle splendide magioni, sia perché avevano la possibilità di incontrare personaggi famosi ed imprenditori di successo, sia perché c’era da bere e mangiare bene, buona musica e droga a volontà. Ad un certo punto, Alberto Genovese invitava una di loro a farsi una striscia in camera da letto dove, quasi sempre, si finiva a fare sesso. C’era chi accettava il rapporto sessuale estremo, ma anche chi, sostiene l’accusa, veniva resa incosciente con un tipo di droga in grado di vincere ogni sua resistenza.  I pm Mannella e Stagnaro dicono che ci sono stati casi in cui era la fidanzata di Genovese Sarah Borruso a convincere la <prescelta> con un pretesto, come quello di un consiglio su un abito da mettere. Poi arrivava Genovese che, come al solito, offriva un’altra striscia e chiudeva la porta alle sue spalle. Javier Verastegui Melgarejo, il peruviano factotum e autista della Lamborghini di Genovese, era l’ombra del suo datore di lavoro. Organizzava operativamente le feste più importanti, quelle con almeno 50 persone che sono state la disperazione dei vicini, costretti a notti insonni dalla musica a volume impossibile e dagli schiamazzi. «Ricevevo una lista di persone autorizzate da Daniele Leali. Prima della festa mi occupavo di rifornire le bevande, rendere la casa accessibile agli ospiti, e contattare lo staff (…). Genovese si preoccupava principalmente che la casa fosse accogliente e che lo staff avesse le caratteristiche di quello di un vero club». Faceva lo stesso a Villa Lolita di Ibizia, teatro, per l’accusa, di alcune violenze sessuali e dove «tutto era completamente a carico di Genovese che ha pagato a tutti ogni cosa, perfino le sigarette». L’uomo aggiunge di aver visto sia a Milano che in Spagna «più volte dei piatti con la droga in polvere che venivano portati dentro casa da Alberto o da altri amici di Alberto come Daniele Leali». Come funzionava la lista delle ragazze? «Come in qualsiasi discoteca. Le donne, quando si può, si fanno sempre entrare, purché siano molto belle», risponde il factotum che dichiara di non aver mai visto Genovese «aggredire una ragazza, anche perché lui ha sempre rapporti molto aperti», con le sue fidanzate, nel senso che lui può tradirle o imporre rapporti sessuali a tre con un’altra donna. Per Genovese la giovane età delle ospiti era un dogma. Lo conferma Alessandro Paghini: «Diceva che una donna dopo i 24 anni è vecchia. Quindi le ragazze dovevano essere giovani, sempre che avessero almeno 18 anni, e che fossero disponibili ad usare sostanze stupefacenti. È successo anche che io gli abbia inviato delle foto perché preferiva vederle». Come detto, dovevano drogarsi. «Cercavo di essere sicuro che non fossero completamente lontane dall’uso delle droghe, perché sapevo che per Alberto era una caratteristica importante». Con loro, infatti, si chiudeva «in stanza anche per due o tre giorni e alternava sempre droga e sesso, droga e sesso. Alberto ha sempre sostenuto che tutti dovevano fare lo stesso uso di droga che faceva lui. Dovevano raggiungere il suo stesso stato. Lui a volte non usciva dalla stanza finché noi non eravamo già alterati dalle droghe e molto vicini al suo stato. E così immagino facesse anche con le ragazze». Solo che, per la Polizia e la procura di Milano, almeno sei di loro sono state ferocemente violentate. Per Paghini Genovese era un uomo “malato nella testa”, che vive “una situazione malata”, scrive in un messaggio. «La verità – dice ad una delle ragazze - è che se si va a casa di Alberto e non c’è Alberto ci divertiamo cento volte di più. Cioè una volta che lui si chiude in stanza e gli abbiamo dato in pasto il pesce quotidiano, la tipa giusta…bon…per quelle ore ti diverti, poi quando torna su lui è tutto finito….>.

Alberto Genovese, a Ibiza tutti sapevano dello stupro di Villa Lolita ma sono rimasti in silenzio. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 27 febbraio 2021. La seconda violenza, che per il gip Tommaso Perna è provata e per la quale l'imprenditore sarà interrogato domenica, avvenuta nella notte tra il 9 e il 10 luglio circolava nella sua cerchia di amici e conoscenti ma nessuno ha parlato finchè non è stata denunciata quella a Terrazza Sentimento dello scorso ottobre. A Ibiza tutti sapevano. Lo scorso luglio la storia della ragazza "che è stata male", che "l'hanno tirata fuori piena di sangue", passa di bocca in bocca. Non ne parlano solo quelli che erano presenti alla festa a Villa Lolita e vedono la ventitreenne uscire dalla stanza di Alberto Genovese piena di lividi, sporca di sangue, barcollante e con lo sguardo nel vuoto, completamente intontita dalla droga. La storia supera i recinti della villa e circola nella cerchia di amici e conoscenti dell'imprenditore. Nella villa presa in affitto da Genovese sono ospiti la fidanzata Sarah, il suo amico Daniele Leali con la compagna, la cugina Giorgia, il pr Alessandro Paghini, e tanti altri ospiti che arrivano e ripartono dall'Italia. "Tutto era completamente a carico di Genovese - racconta il suo autista personale, che sull'isola seguiva la costruzione di un'altra villa - lui ha pagato a tutti ogni cosa, perfino le sigarette". E' qui che, nella notte tra il 9 e il 10 luglio scorso, si consuma la violenza sessuale, la seconda (prima di quella del 11 ottobre alla Terrazza Sentimento) che per il gip Tommaso Perna è provata (sui quanto accaduto a Villa Lolita Genovese sarà interrogato domenica). La prima ad avere la sensazione che tutti fossero a conoscenza di quanto accaduto è la vittima stessa. "Secondo me tutti gli ospiti della casa sapevano cosa era accaduto tranne io. Ricordo solo che ad un certo punto Sarah è venuta da me dicendomi 'scusa mi dispiace'. Ha usato solo quelle parole senza specificare per cosa si stesse scusando ed io non ho fatto domande, ero in una bolla". Lentamente la giovane capisce, ricollega i dolori alla notte nella stanza di Alberto, dov'era presente anche la fidanzata Sarah, indagata anche lei per violenza sessuale. La sera del 12 luglio la giovane si sente meglio e con un'amica (che poi denuncerà Genovese per un altro stupro, non considerato provato) incontra in giro per Ibiza un ragazzo di Milano. "Anche lui era presente alla festa, ma era andato via abbastanza presto. Ci ha detto: 'Avete visto che cosa è successo? É stata male una ragazza da Alberto e l'hanno tirata fuori piena di sangue'. Noi abbiamo detto, mentendo, che non ne sapevamo nulla, che non eravamo noi. Lui ha risposto: 'Lo spero!'". Pochi giorni dopo, incontrano in un ristorante dell'isola Piergiorgio Borriello, il fratello del calciatore Marco, agente immobiliare a Ibiza. "Era seduto in un altro tavolo, a un certo punto è venuto verso il bagno dov'ero io e mi ha abbracciata. lo non capivo come mai avesse fatto questo gesto, poi lui mi ha detto: 'Queste sono delle brutte persone che pagheranno', ed ha aggiunto che mi avevano fatto del male ma che io non me lo ricordavo perché ero sotto shock. Mi ha detto che quelle persone facevano schifo. Ero sconvolta nell'aver capito che la voce si era sparsa così repentinamente senza che io ne avessi mai parlato". Eppure è stata necessaria la violenza alla Terrazza Sentimento, perché la storia venisse denunciata ai pm Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro. Solo allora, i ricordi dei presenti sono riaffiorati. "Ho visto una volta quella ragazza stare male per droga - mette a verbale Paghini davanti alla squadra mobile, diretta da Marco Calì -. Ho visto la ragazza che veniva portata fuori da Alberto che la sorreggeva. Io sono andato di corsa in cucina ed ho chiesto allo chef di prepararmi acqua e zucchero, o limone. Ho avuto paura che fosse andata in overdose, ho pensato al peggio. Mi ricordo di aver detto ad Alberto che non avrei mai più voluto vedere una scena del genere. Sarah era turbata dal fatto che Genovese non dimostrasse la stessa preoccupazione, come se non fosse accaduto nulla di così grave. Alberto a me aveva detto che non avrebbe voluto neanche lui assistere a scene così brutte. Mi ha detto che “si era preso male” a vedere la ragazza in quel modo".

ANNA GIORGI per ilgiorno.it il 3 aprile 2021. Che cosa è il “chemsex"? Letteralmente "sesso chimico", è l’aumento  della pulsione sessuale portata all’estrema conseguenza attraverso un mix di droghe. Per avere questi effetti si usa prevalentemente chetamina tagliata con altre sostanze stupefacenti. Gli effetti collaterali dell’eccitazione prolungata fino ad oltre venti ore, ovvero della “droga che fa venire voglia di sesso" sono molti. La pratica sarebbe stata spesso usata da Alberto Genovese. Chi ne fa uso infatti, durante l’eccitazione non riesce a controllare le proprie azioni, perché spiegano gli esperti, chi la assume subisce una sorta di straniamento del corpo e dell’identità. O meglio, chi l’ha provata ed è in cura racconta che il corpo si "desensibilizza", ci si dimentica di bere, mangiare, perché nella mente il corpo non esiste più. Quindi  può avere effetti molto gravi sulle condotte, tra questi effetti c’è anche la  possibilità di commettere violenze sessuali nei confronti di uomini e donne. Non c’è più distinzione tra generi nel sesso, e peggio, si possono commettere atti anche criminali, addirittura arrivare ad uccidere sotto l’effetto di questa droga. Spesso i festini a base di chemsex  sono chiamati “kill out“. Un caso che fece clamore fu l’omicidio di Luca Varani: i due assassini che persero la testa, avevano usato il "chem". In un contesto di delirio lo avevano  preso a coltellate e martellate, ma lentamente: avevano voluto provocargli una lenta e dolorosa agonia prima di pulire l’appartamento tenendo il corpo per un intero giorno, fino alla fine degli effetti della droga.

Alberto Genovese, così organizzava «le feste e gli stupri. Era una struttura organizzata». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 27/2/2021. Molto giovani e belle, preferibilmente magre e senza forme eccessivamente evidenti, ma soprattutto sempre pronte a drogarsi: dovevano essere solo così le ragazze ammesse a Terrazza sentimento. . Per trovarle tra social e discoteche, e poi portarsele a letto volenti o nolenti, Alberto Genovese ha messo in piedi una vera e propria struttura che non lasciava nulla all’improvvisazione, in cui ciascuno dei suoi uomini aveva un ruolo preciso, esattamente come nelle sue startup di successo che ha venduto a peso d’oro. Dopo quattro mesi di indagini della squadra mobile della Polizia, coordinate dal pm milanese Rosaria Stagnaro e dall’aggiunto Letizia Mannella, dalle carte d’inchiesta emerge come l’imprenditore 43 enne applicasse le sue riconosciute capacità manageriali alle feste e alle vacanze da sogno che impegnavano la sua vita dopo che, a partire dal 2015, si era allontanato dalla gestione operativa delle sue società ed era finito nel tunnel della cocaina che consumava in grande quantità. Subito dopo l’arresto del 6 novembre, molte voci dicevano che tutti nella corte dei miracoli che circondava Genovese e gozzovigliava alle sue spalle sapevano perfettamente che drogava e poi violentava bestialmente le ragazze nella sua camera da letto dalla porta sbarrata e sorvegliata da un bodyguad. Ora, però, il quadro descritto dai detective guidati da Marco Calì appare più articolato e comprende una struttura con un «modello operativo», «efficace ed organizzato» che negli ultimi anni è stato applicato «maniera seriale» con ciascuna ragazza. Il modello funzionava così: le ragazze «venivano individuate e contattate» sui social o di persona dai collaboratori di Genovese, Alessandro Paghini e poi Daniele Leali (indagato per spaccio di droga), e selezionate «secondo caratteristiche fisiche costanti» e, prima di tutto, se amavano drogarsi. Perché «Alberto Genovese prediligeva circondarsi di persone» che dividessero con lui la droga che lui stesso pagava. Dopo averle valutate in foto, se corrispondevano «al suo gusto estetico», i loro nomi venivano inseriti nelle liste degli invitati ai quali era concesso di accedere all’attico e superattico a due passi dal Duomo di Milano oppure di partecipare, senza spendere un euro, alle sontuose vacanze ad Ibiza o a Mikonos. Le ragazze facevano la fila per essere invitate nelle splendide magioni, sia perché avevano la possibilità di incontrare personaggi famosi ed imprenditori di successo, sia perché c’era da bere e mangiare bene, buona musica e droga a volontà. Ad un certo punto, Alberto Genovese invitava una di loro a farsi una striscia in camera da letto dove, quasi sempre, si finiva a fare sesso. C’era chi accettava il rapporto sessuale estremo, ma anche chi, sostiene l’accusa, veniva resa incosciente con un tipo di droga in grado di vincere ogni sua resistenza. I pm Mannella e Stagnaro dicono che ci sono stati casi in cui era la fidanzata di Genovese Sarah Borruso a convincere la <prescelta> con un pretesto, come quello di un consiglio su un abito da mettere. Poi arrivava Genovese che, come al solito, offriva un’altra striscia e chiudeva la porta alle sue spalle. Javier Verastegui Melgarejo, il peruviano factotum e autista della Lamborghini di Genovese, era l’ombra del suo datore di lavoro. Organizzava operativamente le feste più importanti, quelle con almeno 50 persone che sono state la disperazione dei vicini, costretti a notti insonni dalla musica a volume impossibile e dagli schiamazzi. «Ricevevo una lista di persone autorizzate da Daniele Leali. Prima della festa mi occupavo di rifornire le bevande, rendere la casa accessibile agli ospiti, e contattare lo staff (…). Genovese si preoccupava principalmente che la casa fosse accogliente e che lo staff avesse le caratteristiche di quello di un vero club». Faceva lo stesso a Villa Lolita di Ibizia, teatro, per l’accusa, di alcune violenze sessuali e dove «tutto era completamente a carico di Genovese che ha pagato a tutti ogni cosa, perfino le sigarette». L’uomo aggiunge di aver visto sia a Milano che in Spagna «più volte dei piatti con la droga in polvere che venivano portati dentro casa da Alberto o da altri amici di Alberto come Daniele Leali». Come funzionava la lista delle ragazze? «Come in qualsiasi discoteca. Le donne, quando si può, si fanno sempre entrare, purché siano molto belle», risponde il factotum che dichiara di non aver mai visto Genovese «aggredire una ragazza, anche perché lui ha sempre rapporti molto aperti», con le sue fidanzate, nel senso che lui può tradirle o imporre rapporti sessuali a tre con un’altra donna. Per Genovese la giovane età delle ospiti era un dogma. Lo conferma Alessandro Paghini: «Diceva che una donna dopo i 24 anni è vecchia. Quindi le ragazze dovevano essere giovani, sempre che avessero almeno 18 anni, e che fossero disponibili ad usare sostanze stupefacenti. È successo anche che io gli abbia inviato delle foto perché preferiva vederle». Come detto, dovevano drogarsi. «Cercavo di essere sicuro che non fossero completamente lontane dall’uso delle droghe, perché sapevo che per Alberto era una caratteristica importante». Con loro, infatti, si chiudeva «in stanza anche per due o tre giorni e alternava sempre droga e sesso, droga e sesso. Alberto ha sempre sostenuto che tutti dovevano fare lo stesso uso di droga che faceva lui. Dovevano raggiungere il suo stesso stato. Lui a volte non usciva dalla stanza finché noi non eravamo già alterati dalle droghe e molto vicini al suo stato. E così immagino facesse anche con le ragazze». Solo che, per la Polizia e la procura di Milano, almeno sei di loro sono state ferocemente violentate. Per Paghini Genovese era un uomo “malato nella testa”, che vive “una situazione malata”, scrive in un messaggio. «La verità – dice ad una delle ragazze - è che se si va a casa di Alberto e non c’è Alberto ci divertiamo cento volte di più. Cioè una volta che lui si chiude in stanza e gli abbiamo dato in pasto il pesce quotidiano, la tipa giusta…bon…per quelle ore ti diverti, poi quando torna su lui è tutto finito….>.

Monica Serra per “La Stampa” il 26 febbraio 2021. «Io delle volte mi sento un po' una m Ogni tanto mi vengono dei momenti di senso di colpa per cui prendo in considerazione di essere un animale Del tipo che se una fa certe cose non è perché le piace ma perché l' ho talmente manipolata da farle credere che lo sta facendo per sua scelta». È il 10 aprile e Alberto Maria Genovese confessa in chat a un amico i suoi sensi di colpa per la «condotta sessuale tenuta con le donne». Parole che dimostrano, scrive il gip Tommaso Perna «un preoccupante maschilismo e un carattere prevaricatore, connotato da totale mancanza di rispetto verso il genere femminile». Il giudice ha rigettato la richiesta di arresti domiciliari avanzata dalla difesa per permettere al 43enne di curare la sua tossicodipendenza, e firmato un nuovo ordine di cattura contro di lui. Come nel caso della diciottenne per cui è stato arrestato il 6 novembre, l' ex mago delle startup è stato accusato di aver stuprato, stavolta con la fidanzata Sarah Borruso, una modella di 23 anni in vacanza a Ibiza, il 10 luglio, sempre dopo averla stordita con un mix di droghe. Ma il gip ha negato l' arresto per altri sei episodi di abusi tentati e consumati ricostruiti dai pm Letizia Mannella, Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini che sarebbero «ancora da approfondire». A denunciarli sono state le due giovanissime assistite dall' avvocato Ivano Chiesa, che hanno rinunciato all' anonimato per raccontare la loro storia a una rivista e in tv. A differenza delle altre due ragazze, la 23enne «dopo i fatti di Ibiza, ha immediatamente interrotto i rapporti con Genovese», lasciando anche "Villa Lolita", l' abitazione che il 43enne aveva «generosamente offerto a tutti i suoi ospiti». «L' unica cosa che ricordo è una sorta di stato allucinogeno, in cui tentavo di alzarmi da un divano o altro, ma ricadevo sempre in posizione seduta», ha raccontato la 23enne alla Squadra mobile, diretta da Marco Calì, ancor prima dell' arresto di Genovese. E nonostante la fidanzata del 43enne Sarah Borruso neghi le accuse, a confermarle ci sono, per il gip, altri sei ospiti delle feste. «Quando ne abbiamo parlato al telefono mi ha detto che Genovese l' aveva drogata fino al midollo», ha spiegato un' amica della ragazza. «Ho avuto paura che fosse andata in overdose», ha riferito un organizzatore del party, dicendo anche che la 23enne era stata «usata» come «un sacco di patate». Per l' accusa la giovane sarebbe stata costretta a subire «atti sessuali». Poi sarebbe stata «accompagnata fuori dalla stanza sorretta a braccia», perché «incapace di reggersi in piedi e sanguinante». Tante le testimonianze raccolte dagli investigatori che denotano il "modus operandi" e il carattere di Genovese. Per esempio a selezionare le ospiti che frequentavano le sue feste sarebbe stato un pr. «Alberto diceva che una donna dopo i 24 anni è vecchia - ha raccontato ai pm -. Le ragazze dovevano essere giovanissime e disponibili a usare sostanze stupefacenti». Non sono state invece ritenute credibili dal giudice le parole delle altre due presunte vittime che hanno denunciato Genovese. Erano in tutto cinque gli episodi che riguardavano una delle due, tra il marzo 2019 e l' ottobre 2020 a Milano. La ragazza però avrebbe intrattenuto una relazione di un anno e mezzo con l' imprenditore e per il gip non sarebbe stata incosciente. A mettere in dubbio le sue accuse ci sarebbero state, tra l' altro, anche le immagini raccolte dalle diciannove telecamere a circuito chiuso del superattico con vista sul Duomo.

Alberto Genovese, parla la fidanzata Sarah Borruso: «Lo assecondavo con droga e ragazze perché innamorata». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 18/1/2021. La fidanzata dell’imprenditore è accusata insieme a lui di due violenze. «Gli abusi a Ibiza? Incontrai la 23enne, dissi che mi dispiaceva per quello che era successo. Subivo le scelte di Alberto, minacciava di lasciarmi». Quando il pm le chiede se è «stupita» di essere accusata di aver partecipato attivamente non ad una, ma a due delle violenze sessuali di cui è ritenuto responsabile (con altre quattro) colui che sembra ancora essere il suo fidanzato, Sarah Borruso ammette con gravità: «Certamente un po’ sì. Ho capito di dover chiarire il mio ruolo nella vita di Alberto Genovese». Perché se si sapeva che la donna 25enne era accusata di aver avuto un ruolo partecipe nella violenza di una ragazza di 23 anni, che ha denunciato di essere convinta di essere stata drogata e stuprata nella «Villa Lolita» che il re delle startup aveva affittato l’estate scorsa ad Ibiza, ora le carte dell’indagine dicono che per il pm Rosaria Stagnaro e per l’aggiunto Letizia Mannella a questa prima imputazione vanno aggiunti anche gli abusi subiti da una 28 enne di un paese dell’Est Europa. Questa violenza è emersa dalle immagini estratte dalla Squadra mobile di Milano, diretta da Marco Calì, dai video delle 19 telecamere di sorveglianza sequestrati nell’attico e superattico a due passi dal Duomo teatro delle feste a base di droga e sesso di «Terrazza sentimento». Immagini che certificano la violenza selvaggia a una modella di appena 18 anniche a Genovese è costata l’arresto. Come negli altri casi, anche in questo la «contraria volontà» della vittima sarebbe stata superata facendole assumere della droga costringendola così «a subire atti sessuali». Il sesso a tre, meglio se estremo, sembrava essere la pratica preferita da Alberto Genovese. Sarah Borruso dichiara di essersi adattata suo malgrado e solo per amore. «I rapporti a tre erano una scelta di Alberto. A me non piacevano in particolar modo», dice nell’interrogatorio del 21 dicembre, difesa dall’avvocato Gianmaria Palminteri. «Li assecondavo ed assecondavo i suoi desideri sessuali. Non era una cosa che partiva da me. Non c’era complicità prima del fatto, cioè non c’era un accordo su chi dovesse stare con noi... io mi trovavo nelle situazioni». Lei soggiaceva alla volontà del suo uomo: «Mi sono trovata in situazioni a tre, non mi è mai capitato che io dicessi “questa mi piace” e che poi la invitassi in camera per quello. A volte era lui che iniziava il rapporto con una ragazza e poi mi chiamava, con un messaggio, perché li raggiungessi». Il pm la incalza: «Ha mai detto ad Alberto che questa cosa non le piaceva?». «No — risponde — perché lui aveva una personalità più forte. Io ero disposta ad assecondarlo perché ero innamorata ed avevo paura di perderlo. Spesso mi minacciava che avrebbe voluto ritornare con (...) la sua ragazza precedente, che lo assecondava di più. Ho dovuto mettere da parte la mia personalità e di questo mi dispiaccio». Il verbale dà un’idea piuttosto precisa di cosa accadeva alle Baleari nelle altre case di Genovese, un uomo finito nell’abisso della cocaina dopo i milioni fatti con le startup. Borruso spiega che la ragazza fu ospitata con un’amica a «Villa Lolita» perché «erano di bella presenza, simpatiche e poi facevano entrambe uso di droghe, motivo per cui gli invitati venivano anche scelti, perché così Alberto di sentiva maggiormente a suo agio». Stavano giornate intere a drogarsi e a ballare: «Dal nostro arrivo sull’isola non abbiamo dormito per quattro giorni consecutivi, consumando droghe e festeggiando» senza «la percezione del tempo che passava». A pagare tutto, droga compresa, era il ricco imprenditore. Nessuna violenza sulla ragazza di 23 anni, assicura Borruso, perché questa era consenziente al sesso e voleva la droga, che la fece stare male. La giovane ha detto di essersi svegliata senza ricordarsi nulla, ma con la sensazione di aver fatto sesso e con segni ai polsi e alle gambe. Quando il giorno dopo la rivide in spiaggia, non le chiese scusa, come invece la 23enne ha dichiarato, ma che «mi dispiaceva per quello che era successo, cioè che era stata male». Della ragazza dell’ Est che sarebbe stata violentata a Milano ricorda poco: «L’ ho vista — dice — solo due o tre volte a casa di Alberto. Non ho ricordi precisi. Sicuramente ci siamo trovati in camera io, lei e Alberto. Io ho avuto la percezione che lei fosse attratta da me e questo mi ha colpito». Una situazione «ambigua». Genovese è stato arrestato dopo la violenza alla modella di 18 anni che, sostiene, fosse una escort. Dopo quel rapporto, che secondo lui fu consensuale, mandò 8.000 euro tramite l’amico Daniele Leali. Questi ritenne, però, di non consegnare il denaro alla giovane. Borruso ha affermato di non drogarsi più. «Devo dire che già prima dei fatti che hanno coinvolto Genovese avevo deciso di smettere e questo è stato motivo di litigio con lui». Ora «ho una percezione della vita molto diversa da quella che avevo fino a un paio di mesi fa e conduco una vita sana e regolare». In un lungo e sofferto interrogatorio, Genovese afferma che solo da quando è a San Vittore ha capito di avere problemi con la droga, che non vuole nuocere più «alle donne né alla collettività» e che la droga gli provocava allucinazioni. Prima dell’arresto «nessuno mi ha portato da un medico. Perché?». Tempo fa, ad esempio, si convinse che qualcuno avesse rotto a Sarah le dita di mani e piedi: «Sono stati giorni di indicibile sofferenza. Ho pensato che questa sofferenza fosse stata cagionata a Sarah perché aveva scelto di stare con me e lasciare i suoi amici». La donna aveva in realtà solo «cambiato le unghie semipermanenti».

Caso Genovese, non basta l’anonimato a proteggere le vittime. Lorenzo Di Palma su Notizie.it il 27/01/2021. È davvero un bene per queste ragazze così provate, spezzate, rivivere in uno studio televisivo il trauma, essere al centro dell’attenzione tra i personaggi di un set drammatico? Da settimane su La7 a Non è l’Arena va in onda una sorta di “processo” ad Alberto Genovese, l’imprenditore in carcere da ottobre con l’accusa di aver stuprato una ragazza nel suo attico milanese. Un episodio non isolato: altre ventenni hanno denunciato di aver subìto violenza da lui dopo essere state drogate con sostanze che a dosi elevate stordiscono fino a rendere incoscienti e incapaci di ricordare. Nella trasmissione del 24 gennaio erano presenti due delle ragazze che accusano Genovese. Due “bambine”: così le hanno definite più volte il conduttore Massimo Giletti, l’avvocato difensore e Nunzia De Girolamo, sia per descrivere agli spettatori il profilo delle vittime, la cui identità è stata ovviamente celata, sia per rimarcare la gravità, l’orrore di una violenza ancora più subdola perché esercitata da una persona grande nei confronti di una più piccola, in un contesto di presunta amicizia, di sconsiderata fiducia, di dipendenza totale. Le testimonianze hanno rivelato in pieno gli effetti devastanti dell’esperienza vissuta, l’impossibilità, ancora, di dissociarsi da quel giro che le ha mentalmente soggiogate: una delle ragazze ha confessato, piangendo, di provare sentimenti per Genovese. La brutalità di quest’uomo le ha colpite a tradimento privandole per sempre di quella leggerezza che non è incoscienza, ma come sosteneva Cicerone, è il “bene prezioso dell’età che sorge”. Giletti, commosso, ha parlato di “vite spezzate”. Ha anche chiarito, ieri, forse per spegnere le numerose polemiche suscitate dal programma, che si è soffermato così a lungo sulla vicenda per un nobile fine: mostrare il lato oscuro di certi ambienti vip, le insidie nascoste, e neanche tanto, visto che la droga era servita tranquillamente nei piatti, in alcune ville super panoramiche di Milano, Ibiza, Mykonos. Il succo è: state attenti ragazzi, può capitare e non sapete neanche come, che vi ritroviate all’improvviso in questo mondo di lusso che prima sbirciavate con un po’ di invidia sui social, che vi ci portano addirittura col Jet privato alla festa, pur di avervi lì con loro. Di chi stiamo parlando? Di Genovese, ma non solo di lui, mostri odierni che con la stessa forza distruttiva di Scilla e Cariddi prima ammaliano i giovani, li afferrano e poi li divorano. Parlarne perché non accada più, va bene. Ma c’è una domanda da fare a Giletti: perché nelle settimane precedenti ha dato voce e attenzione mediatica agli amici di Genovese che con le loro mezze frasi, insinuazioni, allusioni hanno disegnato ritratti poco edificanti delle vittime, perché indulgere sui particolari più pruriginosi della vicenda, di relazioni promiscue, di un mondo triste e squallido dedito principalmente allo sballo? È un valore aggiunto per l’informazione seria? C’è un’altra domanda per la brava e illuminante psicoterapeuta Stefania Andreoli: è sicura che per il bene di altri giovani, sia stato proprio un bene per queste ragazze così provate, spezzate, rivivere in uno studio televisivo il trauma, essere al centro dell’attenzione tra i personaggi di un set drammatico, come lo ha chiamato Giletti? Anche se in questo caso nessuno le ha costrette, non è bastato l’anonimato a proteggerle.

“Caro Giletti, i processi non si fanno in Tv ma nelle aule di tribunale”. Valentina Stella su Il Dubbio il 9 Febbraio 2021. Luca Andrea Brezigar (Camere penali): “Il quarto potere ha preso il sopravvento. Ne è un esempio la trasmissione condotta da Massimo Giletti Non è l’arena. L’incredibile distorsione qui è rappresentata dall’ascoltare in quella arena i testimoni del fatto. In altri casi è addirittura capitato che venissero sentiti prima di andare a colloquio con il pubblico ministero”. Al centro della cronaca nera attualmente c’è il caso di Alberto Genovese, noto imprenditore arrestato a Milano con l’accusa di aver violentato una ragazza di 18 anni durante un festino. Benché siamo ancora nelle fasi iniziali delle indagini, è iniziato già il processo mediatico: nel frattempo si sono aggiunte altre presunte vittime e tutte vanno addirittura in tv a raccontare le presunte violenze. Usiamo “presunte” perché, ca va sans dire, il processo non è nemmeno iniziato. Ne discutiamo con l’avvocato Luca Andrea Brezigar co-responsabile, insieme al giornalista Alessandro Barbano, dell’Osservatorio informazione giudiziaria, Media e processo penale dell’Unione Camere Penali.

Avvocato, che idea si è fatto della narrazione mediatica del caso Genovese?

«Il quarto potere, soprattutto in questo periodo di Covid in cui siamo chiusi a casa costretti quasi davanti alla tv e ai social, ha preso il sopravvento. Ne è un esempio la trasmissione condotta da Massimo Giletti Non è l’arena, che in realtà si è trasformata in un’arena vera e propria. L’incredibile distorsione qui è rappresentata dall’ascoltare in quella arena i testimoni del fatto. In altri casi è addirittura capitato che venissero sentiti prima di andare a colloquio con il pubblico ministero. Questo modo di agire significa affossare il processo: non va dimenticato che la prova si forma nel dibattimento, non in uno studio televisivo».

Avvocato attenzione perché potremmo essere accusati di fare victim blaming, ossia colpevolizzare le vittime.

«Ma assolutamente no, non è questo il caso. Semplicemente credo fortemente da avvocato nel rispetto delle regole del giusto processo e qui ci troviamo dinanzi ad una chiara violazione. Anche perché mentre le due presunte vittime di Alberto Genovese raccontavano la loro storia nella puntata dell’8 febbraio, è comparsa la scritta “Parlano le ragazze violentate da Genovese”, come se già fosse stata emessa una sentenza definitiva. Purtroppo siamo abituati a certi tipi di titolazioni. In questi caso dovrebbe arrivare in soccorso un codice deontologico comune che riguardi i giornalisti e tutti gli operatori coinvolti nel circuito mediatico. Bisogna aggiungere che quando si parla di reati sessuali, c’è la predisposizione a dare comunque ragione alla vittima. Sarà il giusto processo a determinare come si sono svolti gli accadimenti. Io ovviamente non posso entrare nel merito del caso Genovese. Posso dire che se con le riforme richieste dall’Europa introduciamo nel codice tutele per il soggetto debole, è chiaro che esso diviene meritevole di una maggiore garanzia. Ciò significa che il processo deve svolgersi con particolari cautele ma anche evitare che lo stesso soggetto debole sia sottoposto a delle pressioni o distorca la propria versione, raccontando qualcosa che crede di aver vissuto. Ricordate il presunto stupro consumato nel 2019 nella circumvesuviana di San Giorgio a Cremano? Una ragazza aveva accusato di violenza brutale di gruppo quattro ragazzi ma poi grazie alle telecamere si scoprì che non era vero nulla. Soggetto debole non significa necessariamente soggetto credibile».

La verginità cognitiva del giudice può essere inficiata da queste trasmissioni?

«I giudici sanno che non devono lasciarsi influenzare, hanno gli strumenti per resistere all’impatto del processo mediatico. Poi ci sono processi di grande rilevanza pubblica, dove si formano dei veri schieramenti di opinione, e dove molti cercano di costituirsi parti civili: tutto ciò potrebbe minare la serenità del dibattimento. Più parti civili significa più rapporti con la stampa. Posso dunque immaginare un giudice soffocato da questo tipo di situazione».

Come si può coniugare la libertà di stampa con il rispetto dei diritti degli indagati/imputati?

«Come Osservatorio stiamo lavorando a delle soluzioni che vadano ad implementare il quadro già esistente. È chiaro che il processo mediatico esiste e non lo si può far sparire; è altrettanto vero che le distorsioni del processo mediatico si possono limitare. C’è una difficile convivenza tra la necessità di segretezza della giustizia penale e l’inviolabile diritto all’informazione. Sul segreto istruttorio noi abbiamo un impianto normativo che fa un po’ acqua da tutte le parti: se lei istiga un pubblico ufficiale per avere una notizia viola il segreto, se invece la notizia gliela passano dalla Procura è tutto lecito. Poi c’è il problema della pubblicazione degli atti non coperti da segreto istruttorio, come l’ordinanza di custodia cautelare: è una pubblicazione che inquina il processo. Dovrebbe essere reso pubblico solo l’esito non tutta l’ordinanza come se fosse un inserto da distribuire in edicola. Tornando al caso Genovese e guardando proprio la trasmissione di Giletti, come Osservatorio stiamo osservando che i pubblici ministeri non stanno facendo quello che potrebbero fare: ossia vietare al testimone, come previsto dal nostro codice, di andare a riferire in televisione quello che già hanno dichiarato nelle sedi opportune».

Lorenzo Di Palma, nato a Napoli nel ‘68, laureato in Scienze Politiche, è giornalista professionista da oltre 20 anni. È stato freelance, “abusivo” e dipendente. Pubblicista e professionista. Collaboratore e caporedattore. In mensili, settimanali, quotidiani e siti web. Per pubblicazioni specializzate e generaliste. Per l’editore più grande d’Italia e per service piccolissimi. Si è occupato di cronaca, tecnologia, Tv, lifestyle, spettacoli, cultura, economia, motori, sanità, design, arte, pubblica amministrazione e dirige una rivista dedicata alla “Cultura del Colore”. Tifa sempre per il Napoli, ma vive e lavora a Milano perché gli piace “il clima, la gente…”

Genovese, ragazza lituana racconta di essere stata stuprata nel 2018. Le Iene News il 16 febbraio 2021. Stefano Corti si mette sulle tracce di una ragazza lituana che racconta di aver subito violenza sessuale da parte dell’imprenditore Alberto Genovese nel 2018 a Ibiza. Con l’aiuto di Kristina, un’altra modella che sarebbe stata presente durante quella vacanza, riusciamo a parlare con lei. È l’11 ottobre 2020 quando una ragazza di 18 anni esce da un palazzo nel pieno centro di Milano e viene soccorsa da alcuni agenti di polizia. Nell’immediatezza dice di essere vittima di violenza sessuale. È l’inizio del “caso Alberto Genovese” e degli stupri di cui accusato da sei ragazze che lo hanno denunciato. Tutte violenze che sarebbero avvenute tra maggio e ottobre 2020. Ma la storia che vi raccontiamo con Stefano Corti risalirebbe al 2018. Dopo la prima ragazza 18enne, altre cinque donne hanno sporto denuncia contro l’imprenditore. Una vicenda in cui si parla anche di feste e cocaina, che sarebbe stata presente a fiumi nei party sia a Milano che a Ibiza. Ed è proprio attraverso l’abuso di cocaina e l’utilizzo della droga dello stupro che, secondo gli inquirenti, l’imprenditore avrebbe prima adescato e poi violentato le vittime. Ma quante sono le vittime di cui l’imprenditore avrebbe abusato? Stefano Corti si è messo sulle tracce di una ragazza che racconta di essere stata stuprata da Alberto Genovese nel 2018 a Ibiza. A parlarci per la prima volta di questa vicenda è Kristina, un’altra ragazza, di origini russe, che vive a Milano e conoscerebbe molto bene l’imprenditore. Questa è ovviamente la loro versione, l'accertamento dei fatti spetta alla magistratura. Kristina sarebbe testimone diretta di un avvenimento che sarebbe successo due anni fa ad Ibiza. “Nel 2018, fine giugno inizio luglio prendiamo il suo jet privato. Eravamo 4 ragazze, un modellaro e Genovese. Il modellaro ha portato tre ragazze: due lituane e una ragazza russa”. Secondo il racconto di Kristina, dopo una serata a ballare, i ragazzi e le ragazze tornano a casa e si buttano in piscina. “Dopo un po’ questa ragazza lituana mi ha chiesto "ma chi è che paga tutto?". Io ho indicato Alberto Genovese. Tempo un’ora lui decide di andare in camera sua”. Secondo il racconto di Kristina, la ragazza e Genovese sarebbero spariti per tutta la giornata. “Il secondo giorno questa ragazza non c’era e se non sbaglio non ho visto neanche Alberto”, sostiene Kristina, che prosegue nella sua versione e racconta che il terzo giorno mentre gli altri sarebbero partiti per Formentera, lei sarebbe rimasta nella villa a Ibiza, senza sapere che c’era anche la ragazza lituana.  Solo il quarto girono, quando gli altri sono tornati da Formentera, l’altra ragazza lituana si sarebbe accorta di lei. “La sua coinquilina è venuta da noi e fa: guarda sta malissimo. Per favore aiutatemi. Non ho mai visto una cosa del genere e spero di non vederla mai più. Abbiamo iniziato a scuoterla, l’abbiamo sciacquata noi, l’abbiamo vestita noi, camminava  a gambe divaricate. Appena si è un po’ ripresa le abbiamo detto se le serviva l’ambulanza e lei ha detto che non voleva. Non ha mai più parlato”. Stefano Corti, assieme a Kristina, è andato in Lituania e si è messo sulle tracce della ragazza, che non ha mai denunciato l’imprenditore. La giovane lituana ci ha raccontato cosa sarebbe successo quella notte, confermando l’esperienza drammatica che avrebbe vissuto in quei giorni. “Alberto mi disse, ‘ok andiamo nella mia stanza’ e io gli ho detto ‘no, non voglio’, perché davvero non mi piaceva. Poi lui mi ha come spinta, ma in modo gentile. Ma dopo siamo stati insieme in quella camera e c’era un piatto con così tanta cocaina. Io non volevo usarla e lui mi voleva convincere, si stava arrabbiando con me. E ho pensato: “se non lo faccio mi dà un pugno”. Ero molto spaventata perché mi guardava con gli occhi sbarrati”. Ma è dopo la cocaina che sarebbe iniziato il calvario della ragazza lituana. “A un certo punto mi ha costretto a fargli del sesso orale. Non riuscivo nemmeno a respirare quando mi ha costretto a mettere il suo…. Gli dicevo "basta, basta, basta" e non si fermava. Poi quando non eravamo molto fatti mi ha detto "scusami", era tutto uno "scusami non riuscivo a sentirti". Ma ero così arrabbiata con lui che gli ho detto "sono quasi morta stasera con te"”. Dopo di che, continua a raccontare la ragazza lituana, “lui ha fatto una pausa per prendere altra droga”. “Io ho provato a respirare ma non avevo nemmeno le forze per scendere dal letto  e scappare via”. La giovane racconta che ci sarebbe stata anche penetrazione. “È stato disgustoso”, continua la ragazza. “Non riuscivo a camminare mi facevano male le ossa. Quando sono tornata a Milano sono andata in ospedale e davvero ho creduto stessi per morire. È stato così imbarazzante, mi sono sentita così in colpa. Sono andata con lui in quella camera. Psicologicamente ero a terra. Non riuscivo a pensarci e non riuscivo più a dormire quando ci pensavo. È veramente una storia di merda”. 

Da video.corriere.it l'8 febbraio 2021. Hanno denunciato Alberto Genovese, il "re" delle startup arrestato per violenza sessuale su una 18enne, a inizio gennaio, si sono fatte intervistare in tv per raccontare la loro storia, ma senza mai farsi riprendere in volto: adesso invece Martina Facchini e Ylenia Demeo, che sono assistite dall’avvocato Ivano Chiesa, hanno deciso di uscire pubblicamente allo scoperto. «Ho impressa la sua faccia mentre rideva e godeva del fatto che piangessi» è uno dei passaggi del racconto di una delle ragazze a Non è l’Arena su La7.

Giuseppe Guastella per corriere.it il 2 marzo 2021. Giorno e notte a drogarsi ininterrottamente: la vacanza ad Ibiza è stata «il mese dello sfascio», programmato e cercato da Alberto Genovese e dai suoi ospiti tossici e non paganti. Ma a luglio 2020 Villa Lolita è stata anche teatro del secondo stupro con pesanti violenze, per il quale il milionario mago delle startup è rinchiuso in carcere. «Nessuno stupro, lei era consenziente», afferma l’imprenditore. Anche nella splendida villa sull’isola spagnola era operativa l’organizzazione allestita dal dottore in economia aziendale e master in business administration alla Bocconi, che aveva gestito e venduto con successo le sue società attive nel web prima di finire a San Vittore per violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e cessione di droga nei confronti due modelle, una di 18 anni (a Milano) e l’altra di 23 (ad Ibiza). La villa era «divisa in due da una scalinata», dichiara Genovese al giudice per le indagini preliminari di Milano Tommaso Perna, che lo interroga domenica in carcere dopo la notifica del secondo arresto, quello per la violenza ad Ibiza. «Da una parte c’erano una quindicina di ospiti che usavano droghe, dall’altra quelli che non si drogavano. Ero io a pagare la droga, ma non ero il solo». La portavano, sostiene, anche gli ospiti per conto loro. «Sono gli uomini a portare la droga e a buttarla sul piatto dove tutti possono prendere. Essendo tutti drogati, sanno riconoscere le sostanze tra di loro», afferma, per sostenere che lui non può aver ingannato le vittime (anche loro tossiche) dando loro una droga diversa per poterne abusare dopo che avevano perso il controllo. La modella 18enne ha dichiarato che nell’attico a pochi metri dal Duomo di Milano, poco prima della violenza del 10 ottobre per la quale è stato arrestato un mese dopo, Genovese le aveva fatto bere champagne da una bottiglia «con un cavetto legato al collo», aggiungendo di sospettare che nel vino ci fosse la sostanza che subito dopo le ha fatto perdere il controllo. Infatti, in uno dei video delle telecamere di sorveglianza di Terrazza Sentimento, sequestrati dagli agenti della Squadra mobile guidati da Marco Calì nell’inchiesta dei pm milanesi Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro, si vede Genovese mostrare a tutti una bottiglia: «La alzo e faccio vedere che c’è un nastro bianco per far capire che si tratta di Md-Ma (ecstasy, ndr)», si giustifica il 43enne. Che non esclude che qualcun altro possa avere aggiunto droga portata da fuori: «Qualunque persona facoltosa che veniva condivideva la droga che portava, ma mai con l’obiettivo di fare del male a qualcuno». La droga veniva separata in piatti diversi a seconda del tipo, in modo che ciascuno potesse scegliere quella che preferiva. C’erano anche cocaina, ketamina e 2cb. «Quello di Ibiza era programmato come “il mese dello sfascio”», racconta Genovese. «Ho consumato una quantità enorme di alcol e stupefacente, tanto che appena arrivati siamo stati svegli per quattro giorni consecutivi». Si erano portati dietro dall’Italia perfino lo spacciatore Sam, uno che «era in grado di far arrivare droga in qualsiasi posto del mondo» e dal quale si rifornivano un po’ tutti nella «corte dei miracoli» che ruotava attorno ad Alberto Genovese, sfruttandolo. Ma si rifornivano anche da un pusher locale. La sera della violenza, che per Genovese non sarebbe stata tale, ma che Procura e Gip definiscono come uno stupro feroce in base alle dichiarazioni della 23enne e a molte altre testimonianze e prove, la ragazza era tanto «marcia», nel senso che aveva assunto così tanta droga, da non capire più nulla. È il 10 luglio. Alla festa «c’erano solo persone drogate», precisa Genovese, che per 24 ore consecutive ballano, bevono e usano stupefacenti. Tra queste anche la modella di 23 anni che, sempre secondo i racconti di Genovese, era stata a Terrazza Sentimento a Milano nella primavera del 2020, facendo il bagno nuda nella piscina all’ottavo piano e drogandosi con lui e Sarah Borruso, la fidanzata di Genovese. Ad un certo punto, la modella 23enne e Sarah, accusata di aver partecipato ad almeno due violenze, avrebbero cominciato, a quanto racconta Genovese, a «flirtare e a toccarsi». Lui a quel punto le avrebbe portate in camera. «Ci siamo messi a letto ed abbiamo avuto un rapporto sessuale», dice. Ad un certo punto, però, la ragazza si sarebbe sentita male cominciando a vomitare. Secondo l’accusa, invece, dopo essere stata drogata con una sostanza che l’aveva resa incosciente, la 23enne è stata abusata per ore fino al giorno successivo, quando Genovese e Borruso l’hanno fatta uscire dalla camera da letto sorreggendola a braccia. Le sue condizioni erano così pietose che ha dormito per quasi tre giorni interi. «In queste feste, che le persone si sentano male è quasi uno standard», dichiara Genovese. Normalmente, aggiunge, chi sta così vomita e poi dorme a lungo. Invece, sempre a suo dire, la ragazza avrebbe cominciato ad agitarsi istericamente, dimenandosi come se fosse in preda ad una crisi epilettica, mentre loro tentavano di tenerla ferma affinché non si ferisse da sola. Questo per dare una spiegazione ai lividi e ai graffi che la ragazza si è ritrovata sul corpo, che per l’accusa sono i segni delle violenze. «Se fosse stata da sola, si sarebbe fatta molto più male», sostiene l’uomo. «Ho lasciato che Sarah l’aiutasse, ma quando ho visto che lei non riusciva a fare niente, l’abbiamo aiutata ad uscire dalla stanza fino alla piscina facendola stendere su un lettino». Il giorno dopo, la ragazza, ferita e sotto choc, scappa dalla villa per tornare in Italia. Secondo Genovese, invece, se ne sarebbe andata perché si era «offesa» per non essere stata invitata ad una cena pagata da lui al Nobu, famoso ristorante giapponese di Ibiza. «Per le ragazze come lei – dichiara al gip Perna - cenare da Nobu è importante per poter postare (sui social, ndr) che ci si trova lì». La 23enne non era tra gli ospiti, sostiene l’uomo, perché quel giorno sarebbe dovuta andare via comunque, in quanto l’imprenditore attendeva l’arrivo della madre e, sempre secondo la sua versione, voleva che «restassero nella villa solo le persone più presentabili» e a lui vicine.

La tentata vendita dei video alle tv. Sono indagati per appropriazione indebita qualificata i due collaboratori di una società che ha effettuato una consulenza sui filmati delle telecamere a circuito chiuso dell'attico «Terrazza Sentimento» per conto della difesa di Genovese. I due tecnici avrebbero tentato di vendere i video dell'appartamento milanese a diversi media, tra cui il programma di Massimo Giletti «Non è l’Arena» e «Le Iene», chiedendo anche 30mila euro. Le «offerte» sono state rifiutate. Il fascicolo sulla tentata vendita delle immagini era stata aperto nei giorni scorsi dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro, già titolari dell'inchiesta sui presunti abusi contestati all'imprenditore. Indagine nella quale, appunto, erano stati acquisiti i filmati delle telecamere interne dell'attico, compresi quelli delle presunta violenza ai danni della 18enne tra il 10 e l'11 ottobre scorso.

Azzurra Barbuto per "Libero quotidiano" il 2 marzo 2021. Centoventi chilogrammi di peso per un metro e novanta di altezza. Simone Bonino, 40 anni, è un bestione. Questo aspetto animalesco non va d' accordo con la sua faccia, che è quella tipica del bravo ragazzo, dai modi gentili, egli appare addirittura timido. Alberto Genovese, circa un anno e mezzo addietro, aveva scelto proprio quest' uomo come sua guardia del corpo. A metterli in contatto erano stati dei conoscenti in comune, i quali a Simone comunicarono che un imprenditore, appunto Genovese, «aveva avuto dei problemi con un gruppo di albanesi e quindi necessitava di qualcuno che si occupasse della sua sicurezza», questo ci riferisce Bonino.

Problemi di che tipo? Si trattava di questioni di droga?

«Non ne ho idea. Genovese non me ne parlò mai».

Come ebbe inizio questo rapporto di lavoro?

«La prima volta che fui ingaggiato Genovese mi chiese di sorvegliare la sua abitazione per tutto il giorno perché aveva molta paura».

Paura di cosa?

«Non me lo spiegò. Io mi feci subito un' idea: mi sembrava un individuo estremamente fragile».

Quindi ritieni che i suoi timori potessero essere infondate manie?

«Non lo so. Comunque non si sono mai presentate situazioni di pericolo».

Potresti descrivere meglio Genovese?

«L' ho sempre considerato una persona di cuore, generoso con tutti, attento ai desideri e ai bisogni di amici e amiche, persino premuroso nei loro confronti. Il classico partenopeo».

È mai stato aggressivo con le ragazze o con altri soggetti?

«Mai, almeno quando io ero presente. Ad eccezione di una sera, lo scorso settembre, durante una festa nel suo attico. Avevo lasciato la portafinestra un pochino aperta, quindi usciva la musica, allora Alberto si arrabbiò con me, sottolineando che mi pagava perché facessi il mio dovere. Non me la presi. Queste cose sul lavoro possono succedere, ci vuole tanta pazienza. Inoltre, da quando si era lasciato con la fidanzata Sara, Alberto era diverso, cioè triste, cupo».

Genovese aveva un atteggiamento da maschilista?

«Assolutamente no. Semmai era molto protettivo e attento verso le donne».

E le donne come erano nei confronti di Genovese? Ne erano spaventate?

«Assolutamente no. Le ragazze erano felici di partecipare ai suoi party, ridevano, si divertivano, si spogliavano e si lanciavano in piscina. Lui gli forniva ciabatte, asciugamani, vestiti. Tutto».

La famosa sera di quello che sembra essere stato uno stupro tu eri lì presente, proprio davanti alla porta della stanza in cui si sarebbe consumata la violenza. La giovane aveva il telefonino con lei? Inoltre, ti sembrava tesa, in difficoltà, poco lucida, succube dell' imprenditore? Ti prego di essere onesto e preciso.

«La ragazza non aveva il telefonino quando, intorno alle ore 22.30, è entrata nella stanza, poiché i cellulari venivano lasciati all' ingresso. Preciso che questo non avveniva sempre, ma soltanto nelle ultime feste dato che Genovese temeva che, se gli ospiti avessero tenuto lo smartphone, avrebbero documentato in tempo reale gli assembramenti che avvenivano in casa sua e avrebbe avuto rogne. Tutti dovevano lasciare il telefono. Pure Belen una sera se ne è separata, lamentandosi del fatto che se il figlio avesse voluto sentirla lei non avrebbe potuto rispondergli. La ragazza mi è apparsa molto tranquilla. Mi ha salutato con un sorriso entrando in camera. Genovese era dietro di lei, quindi lei non era sorretta né costretta».

È possibile che la ragazza abbia recuperato il suo cellulare dopo che tu sei andato via, ossia dopo le 2 di notte?

«Certo, non posso escluderlo».

La porta della camera da letto era stata chiusa a chiave?

«Assolutamente no. Neppure quella di ingresso».

Sei rimasto davanti a quella porta dalle 22 alle 2. Hai udito urla, lamenti?

«No. Se avessi sentito rumori di questo tipo, mi sarei precipitato in camera. Il silenzio era assoluto».

Perché eri stato posto a presidio di quell' uscio?

«Perché in quell' area della casa c' erano oggetti di valore. Semplicemente controllavo l' accesso».

Cosa pensi del fatto che una delle ragazze che ha denunciato Genovese per stupro viveva in casa sua, lo frequentava assiduamente da mesi, ha dichiarato di volergli bene e girava con le carte di credito di lui pure dopo il suo arresto?

«Penso che se il Gip l' ha dichiarata "non attendibile" un motivo ci sarà. Penso pure che Genovese sia stato molto sfruttato, tuttavia non se ne rendeva conto».

Insomma, la bestia di via Torino era un tipo addirittura ingenuo?

«Sì».

Perché dici che Fabrizio Corona, attualmente agli arresti domiciliari, ti ha ingannato e truffato?

«Mi ha chiamato il 19 novembre scorso presentandosi come "il re di Milano" e ha insistito perché facessi una intervista per il programma di Massimo Giletti Non è l' arena. Ho accettato di incontrarlo a casa sua, però ho puntualizzato che sarebbe stato presente anche il mio avvocato, cosa che lo ha lasciato contrariato. Dopo un' attesa di due ore dentro il ristorante sito sotto la sua abitazione, finalmente Corona comunica a me e al mio legale che possiamo salire a casa, dove giriamo una intervista pattuendo un compenso di 1500 euro che non ho mai ricevuto, nonostante abbia presentato la fattura. Non solo, l' intervista è stata mandata in onda da Massimo Giletti senza la mia autorizzazione. Non ho firmato alcuna liberatoria né a Corona né a Giletti, infatti agirò per vie legali nei loro confronti».

Ma cosa c' entra Corona con Giletti?

«A quanto ho capito collaborano nell' ambito del caso Genovese. Corona mi ha girato questi messaggi tra lui e Giletti». (Simone ci mostra lo stralcio di una chat tra Corona e Giletti. Quest' ultimo chiede a Corona suggerimenti sui soggetti da invitare in tv).

È vero che hai già querelato Giletti e perché?

«Ho denunciato Giletti per diffamazione in quanto, quando ero ospite nel suo programma, ha insinuato che Genovese abbia comprato il mio silenzio con i suoi soldi facendomi passare per un venduto e un disonesto».

Da "lastampa.it" il 10 febbraio 2021. La Procura di Milano ha segnalato al Tribunale di Sorveglianza per eventuali valutazioni il comportamento di Fabrizio Corona, che sta scontando il suo cumulo pene in detenzione domiciliare, perché si starebbe occupando in queste ultime settimane di due delle presunte vittime che hanno denunciato Alberto Genovese, l'imprenditore del web finito in carcere a novembre per aver stordito con droghe e stuprato una 18enne. A quanto si è saputo, dopo una comunicazione da parte della polizia il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il pm Rosaria Stagnaro - titolari delle indagini condotte dalla Squadra Mobile e dalla Guardia di finanza, assieme anche al pm Paolo Filippini - hanno segnalato alla Sorveglianza, competente nelle valutazioni e decisioni, alcune condotte dell'ex “re dei paparazzi”. Corona, a suo dire, si occuperebbe "professionalmente" delle due ragazze, Ylenia Demeo e Martina Facchini, che nei giorni scorsi hanno rinunciato all'anonimato per raccontare i presunti abusi subiti e sono state intervistate e fotografate da alcuni media. Ragazze che sono assistite dall'avvocato Ivano Chiesa, storico legale di Corona e che di recente ha fatto sapere che non c'è alcuna "regia occulta" dell'ex "fotografo dei vip" sulle due giovani. L'ex agente fotografico «lavora per Athena - ha detto - che fornisce contributi giornalistici, e quindi fa il suo mestiere». Per Corona, intanto, è fissata da tempo un'udienza davanti alla Sorveglianza per il 17 febbraio. I giudici dovranno decidere se l'ex "re dei paparazzi" dovrà tornare in carcere o se per lui potrà proseguire il "differimento pena", concesso in via provvisoria per la sua "patologia psichiatrica" e che, a inizio dicembre 2019, lo aveva fatto passare da San Vittore ad un istituto di cura e poi a casa in detenzione domiciliare. Anche le ultime segnalazioni potrebbero essere valutate in relazione al rispetto delle prescrizioni da parte di Corona, con la Procura generale chiamata ad esprimere un suo parere.

Caso Genovese, spunta l'ombra di Corona: "È l'agente delle due vittime". L'ex re dei paparazzi è finito nella vicenda per aver assunto il ruolo di agente di due modelle presunte vittime di Genovese. Le due ragazze sono seguite dallo storico avvocato di Corona, Ivano Chiesa. Novella Toloni, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Il nome di Fabrizio Corona entra nel fascicolo del caso Genovese, l'imprenditore arrestato a novembre per aver stuprato una 18enne dopo averla drogata con un mix di sostanze stupefacenti. L'ex re dei paparazzi, agli arresti domiciliari dal dicembre 2019, si starebbe occupando di due delle presunte vittime che hanno denunciato per violenza sessuale Alberto Genovese e la Procura di Milano lo ha segnalato al tribunale di sorveglianza. Il coinvolgimento di Fabrizio Corona in questa seconda fase del caso Genovese è sotto accertamento dopo una segnalazione della polizia. Il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il pubblico ministero Rosaria Stagnaro - titolari delle indagini condotte dalla Squadra Mobile di Milano - hanno segnalato al tribunale di Sorveglianza alcuni comportamenti sospetti di Corona che, da qualche settimana, è vicino a Ylenia Demeo e Martina Facchini. Le due giovani, che hanno denunciato Genovese per violenze - sono state protagoniste di interviste in tv e sono seguite legalmente dallo storico avvocato di Corona, Ivano Chiesa. È proprio quest'ultimo a fare chiarezza sul coinvolgimento di Fabrizio Corona nella vicenda: "Fabrizio Corona fa il suo lavoro: si occupa delle ragazze professionalmente". L'ex re dei paparazzi, che recentemente si è ravvicinato a Asia Argento, sarebbe dunque l'agente delle due ragazze, come ha spiegato Ivano Chiesa al quotidiano la Stampa: "Sono allibito dalle polemiche. Corona lavora per Atena, che è un'agenzia che fornisce contenuti giornalistici. Le ragazze sono vittime e sono state fatte passare da escort: vanno in tv a difendersi. Fabrizio le ha solo aiutate a farlo". Ylenia e Martina sono state infatti intervistate due giorni fa da Massimo Giletti su La7, la stessa trasmissione dove Fabrizio Corona negli ultimi mesi è stato spesso protagonista. La segnalazione alla Sorveglianza di Fabrizio Corona mette ora l'ex fotografo in una situazione scomoda. Non tanto nel caso Genovese quanto per le sue vicende giudiziarie. Mercoledì prossimo, infatti, è attesa la sentenza che potrebbe rinnovare o revocare i domiciliari a Fabrizio Corona. Per poter continuare a scontare la pena fuori dal carcere, i giudici hanno imposto a Corona una serie di regole (tra le quali non partecipare a trasmissioni televisive o radiofoniche, né utilizzare i social) che avrebbe già trasgredito. La sua esposizione nel caso Genovese e le sue apparizioni sul web e in tv potrebbero farlo tornare in carcere?

Monica Serra per "la Stampa" l'11 febbraio 2021. «Fabrizio Corona fa il suo lavoro: si occupa delle ragazze professionalmente». In questo caso si tratta delle due presunte vittime di Alberto Maria Genovese finite sulla copertina di un settimanale e in televisione per raccontare la loro storia. A confermarlo è il legale dell' ex re dei paparazzi, Ivano Chiesa. Lo stesso che assiste le due giovanissime che, caso raro, hanno deciso di uscire allo scoperto per denunciare gli abusi che avrebbero subito nella camera padronale di "Terrazza sentimento". «Sono allibito dalle polemiche», dice il legale. «Corona lavora per Atena, che è un' agenzia che fornisce contenuti giornalistici. Le ragazze sono vittime e sono state fatte passare da escort: vanno in tv a difendersi. Fabrizio le ha solo aiutate a farlo». Una decisione che però rischia di danneggiare le due ventenni e di ritorcersi contro di loro nel caso in cui si arrivi a un processo. «Ma non diciamo fesserie: queste indagini al novantanove per cento si chiuderanno con un abbreviato», ribatte Chiesa. Nel frattempo, però, tutto questo "attivismo" di Corona è finito anche nel mirino della Squadra Mobile che indaga su Genovese, accusato di aver violentato e sequestrato una diciottenne nel corso di una festa a base di droga nel suo superattico con vista Duomo. Gli investigatori hanno infatti mandato due segnalazioni al Tribunale di sorveglianza che mercoledì prossimo dovrà decidere il destino dell' ex re delle nottate milanesi, per ora ai domiciliari per una serie di condanne per estorsione, bancarotta, reati fiscali. Una misura decisa «provvisoriamente» al posto del carcere, per permettere a Corona di curarsi dalle sue patologie. Ma per continuare a trascorrere la pena a casa, l' incontenibile ex paparazzo deve rispettare una serie di prescrizioni stabilite dai giudici su richiesta del sostituto procuratore generale Antonio Lamanna. Non può, per esempio, frequentare pregiudicati; da novembre non può più partecipare a trasmissioni televisive o radiofoniche, né utilizzare i social. Cosa, quest' ultima, che in realtà continua a fare quotidianamente. Proprio la violazione delle regole è al centro delle due informative che i poliziotti, diretti da Marco Calì, hanno presentato alla Sorveglianza, anche in vista dell' udienza del 17 febbraio in cui i giudici decideranno se Corona deve tornare in prigione. Tutta questa esposizione, che con la "gestione" delle due giovani ha moltiplicato l' attenzione nei suoi confronti, rischia insomma di ritorcersi contro Fabrizio Corona. Vanno avanti, intanto, le indagini su Genovese in prigione dal 6 novembre scorso. A partire dai filmati delle diciannove telecamere del suo superattico, dalle centinaia di testimonianze raccolte, dalle chat, dalle foto, dal contenuto dei cellulari sequestrati, i poliziotti hanno individuato altri presunti casi di violenza. Le ragazze sono state tutte identificate e ascoltate dai pm Mannella, Stagnaro e Filippini, che ora vogliono vederci chiaro anche sui soldi e sulle attività del 43enne, così ricco da potersi permettere case di lusso nel centro di Milano, festini anche da 150mila euro ed esclusive vacanze all' estero su jet privati offerte agli amici. Accertamenti affidati al Nucleo di polizia economico finanziaria della gdf che sta ricostruendo anche i flussi di denaro all' estero. E su cui ora ha aperto un' inchiesta pure l' Antitrust, per presunte pratiche commerciali scorrette.

Giuseppe Guastella per corriere.it l'8 febbraio 2021. Ci mettono faccia, nome e cognome due delle sei donne che hanno denunciato di essere state drogate e violentate da Alberto Genovese nelle feste a base di stupefacenti tra il magnifico attico a due passi dal Duomo di Milano e «Villa Lolita» ad Ibiza. Ylenia Demeo, 20 anni, barese, modella ed ex fidanzata del re delle startup, e Martina Facchini, milanese di 22 anni, studentessa, escono allo scoperto pubblicamente per rivendicare il diritto/dovere di denunciare, ma anche per difendersi da chi sui social e in tv descrive le vittime di Genovese come escort a caccia della notorietà e dei soldi di un uomo ricco. Ciò che emerge conferma la descrizione di un violentatore sadico e seriale. In interviste a Moreno Pisto di Mow (Men on wheels, magazine online che si rivolge agli «uomini veloci») e a Non è l’Arena di Massimo Giletti su La7, anche le due giovani dichiarano di non ricordare nulla e di essersi rese conto di essere state drogate e stuprate solo dopo che Genovese è stato arrestato il 6 novembre per la violenza selvaggia ad una modella di 18 anni filmata dalle telecamere di sorveglianza di «Terrazza sentimento». Ho iniziato a realizzare che anche a me era successa la stessa cosa perché, dopo aver frequentato Genovese, mi ero svegliata con dei buchi temporali e dei dolori atroci addosso», racconta, riferendosi a due episodi, uno negli stessi giorni ad Ibiza, l’altro a Milano due mesi prima. «Tutti sapevano quello che accadeva, ma tutti lo temevano perché era potente e offriva tutto e tutti», dichiara Ylenia confermando ciò che molti testimoni hanno dichiarato ai poliziotti diretti da Marco Calì. Lei ha denunciato di essere stata violentata ferocemente a Milano il 9 ottobre, la sera prima della modella di 18 anni che farà finire Genovese a San Vittore. Ricorda solo dei flash e il dolore forte: «Piangevo e gridavo e lui rideva, a lui piaceva vedermi piangere ed urlare. Godeva. Sono scappata», racconta piangendo a Non è l’Arena. Sia Ylenia che Martina confermano quello che Genovese ha messo a verbale in carcere con i pm Rosaria Stagnaro e Letizia Mannella: «Ho fatto cose quando ero drogato che non mi sarei mai sognato di fare normalmente», «mi spaventa il fatto che il mio cervello sia al fondo delle sue capacità». «Di base era bravissimo, buffo, intelligente, ti prendeva con la testa», ma «si trasformava quando non dormiva per due, tre giorni, strafatto di cocaina, si incupiva e delirava», dice Martina. E aggiunge: «Pensavo, ok Alberto è un po’ feticista, gli piace giocare (durante il sesso, ndr) con le corde, legare», ma prima non collegava questo «con i miei buchi temporali nelle notti passate con lui». Conferma che Genovese diceva di avere allucinazioni: «Era paranoico, ingigantiva tutto, sentiva rumori strani, passi che si avvicinavano o voci che gli dicevano che era una persona cattiva. Poi si fermava e aggiungeva: “Sì, io sono una bestia”». «Parlate di più, denunciate situazioni al limite» esortano rivolte alle vittime di stupro. «Cosa che io ho fatto quando era ormai troppo tardi», ammette Martina, che a Giletti aggiunge: «Non abbiamo nulla da nascondere». Le fa eco Ylenia: «Vogliamo difenderci perché non abbiamo nessuna colpa», perché «quello che è successo a me può succedere ad altre ragazze», ma la notorietà «non ci interessa, anzi abbiamo dovuto riflettere» prima di venire sotto i riflettori. Martina ed Ylenia ora vivono nella stessa casa. Sono assistite dall’avvocato Ivano Chiesa, penalista milanese, difensore storico di Fabrizio Corona. L’ex re dei paparazzi, che è in detenzione domiciliare, si occupa delle due giovani donne «professionalmente». Il che ha sollevato qualche perplessità, subito sedata da Chiesa: «Ho letto e sentito in tv e sui giornali insinuazioni varie sul fatto che dietro le ragazze ci sarebbe una regia occulta di Fabrizio Corona. Non è vero. Corona lavora per Athena che fornisce contributi giornalistici, e quindi fa il suo mestiere».

Caso Genovese, parla a Le Iene una ragazza lituana: “Io, stuprata nel 2018”. Le Iene News il 15 febbraio 2021. “Ero molto spaventata perché mi guardava con gli occhi sbarrati”. Parla a Le Iene una ragazza lituana che racconta di aver subito violenza sessuale da parte dell’imprenditore Alberto Genovese nel 2018. Il servizio di Stefano Corti in onda martedì 16 febbraio su Italia1. Quante sono le ragazze che avrebbero subito violenza sessuale da parte dell’imprenditore Alberto Genovese? E a quando risalirebbero i primi episodi? Le testimonianze che stanno emergendo attorno a questa triste vicenda risalirebbero a un periodo che va da maggio a ottobre 2020. Nel servizio di Stefano Corti in onda martedì 16 febbraio approfondiremo il caso Alberto Genovese, con la testimonianza inedita di una ragazza che racconta di aver subito violenza da parte dell’imprenditore nel 2018. Questa è ovviamente la sua versione, l'accertamento dei fatti spetta alla magistratura. È l’11 ottobre 2020 quando una ragazza di 18 anni esce da un palazzo nel pieno centro di Milano e viene soccorsa da alcuni agenti di polizia. Nell’immediatezza dice di essere vittima di violenza sessuale. È l’inizio del caso Alberto Genovese e delle violenze sessuali che l’imprenditore avrebbe fatto su delle ragazze durante alcuni festini. Dopo la 18enne, altre cinque donne sporgeranno denuncia contro Genovese, che ora si trova detenuto nel carcere di San Vittore. Una vicenda che parla anche di feste e cocaina, che sarebbe sarebbe stata presente a fiumi nei party sia a Milano che a Ibiza. Ed è proprio attraverso l’abuso di cocaina e l’utilizzo della droga dello stupro che, secondo gli inquirenti, l’imprenditore avrebbe prima adescato e poi violentato le vittime. Ma quante sono veramente le vittime di cui Genovese avrebbe abusato? Stefano Corti si mette sulle tracce di una ragazza che racconta di essere stata stuprata da Alberto Genovese nel 2018 a Ibiza. A parlarci per la prima volta di questa vicenda è Kristina, un’altra ragazza di origini russe che vive a Milano e conoscerebbe molto bene l’imprenditore. “Nel 2018, a fine giugno inizio luglio, prendiamo il suo jet privato”, racconta Kristina alla Iena. “Eravamo quattro ragazze, un modellaro e Genovese. Il modellaro ha portato tre ragazze: due lituane e una ragazza russa”. Secondo il racconto di Kristina, dopo una serata a ballare, i ragazzi e le ragazze tornano a casa e si buttano in piscina. “Dopo un po’ questa ragazza lituana mi ha chiesto ‘ma chi è che paga tutto?’. Io ho indicato Alberto Genovese. Tempo un’ora lui decide di andare in camera sua”. Kristina prosegue nella sua versione e racconta di non aver visto né la ragazza lituana né Alberto il giorno seguente. Poi, mentre gli altri partono per Formentera, Kristina sarebbe rimasta nella villa a Ibiza, senza sapere che, in camera, c’era ancora la ragazza lituana. Solo al quarto giorno, quando gli altri sarebbero tornati da Formentera, si sarebbe accorta di lei. “Non ho mai visto una cosa del genere”, racconta Kristina riferendosi alle condizioni della ragazza lituana. “Abbiamo iniziato a scuoterla, l’abbiamo sciacquata, camminava a gambe divaricate. Appena si è un po’ ripresa abbiamo detto che le serviva l’ambulanza, ma lei ha detto che non voleva. Non ha mai più parlato, neanche una parola, zero”. Stefano Corti, assieme a Kristina, è andato in Lituania e si è messo sulle tracce della ragazza, che non ha mai denunciato l’imprenditore. La giovane lituana ci ha raccontato cosa sarebbe successo quella notte, confermando l’esperienza drammatica che avrebbe vissuto in quei giorni. “Alberto mi disse di andare nella sua stanza”, racconta la ragazza lituana. “Io gli ho detto ‘no, non voglio’, perché davvero non mi piaceva. Poi lui mi ha come spinta, ma in modo gentile. Dopo siamo stati insieme in quella camera. C'era un piatto con così tanta cocaina. Io non volevo usarla e lui mi voleva convincere. Si stava arrabbiando con me e ho pensato: ‘se non lo faccio mi dà un pugno’. Ero molto spaventata perché mi guardava con gli occhi sbarrati”. "Dopo mi stava costringendo a fargli un pompino", prosegue la ragazza nella sua versione. "Non riuscivo nemmeno a respirare quando mi ha costretto a mettere il suo... immagina cosa. E gli dicevo 'basta, basta, basta', ma non si fermava". "Mio Dio è stato disgustoso", continua la giovane lituana. "Non riuscivo a camminare, mi facevano sempre male le ossa". Martedì 16 febbraio Le Iene il racconto della giovane nel servizio sul caso di Alberto Genovese. Vi aspettiamo dalle 21.10 su Italia1. 

Non è l'Arena, le due vittime di Alberto Genovese in studio da Giletti senza censura: "Come gli piaceva vederci", orrore puro. Libero Quotidiano l'08 febbraio 2021. "Ho impressa la sua faccia mentre rideva e godeva del fatto che io urlassi e piangessi": inizia così - a Non è l'Arena su La7 - il racconto choc di Ylenia, una delle vittime di Alberto Genovese, l'imprenditore in carcere a Milano con l'accusa di violenza sessuale. L'uomo avrebbe commesso diversi stupri nel suo attico vista Duomo, chiamato Terrazza Sentimento, dove di solito organizzava festini con la droga. Ylenia e Martina, due delle ragazze che accusano Genovese, hanno mostrato per la prima volta la loro faccia in televisione, da Massimo Giletti, raccontando la loro versione dei fatti. "Avere notorietà per ciò che ci è successo non ci interessa, anzi abbiamo dovuto rifletterci su molto. Per venire qua ci vuole grande coraggio", ha spiegato Martina. "Immagino Alberto su di me, a lui piaceva vedermi piangere e urlare - ha continuato poi Ylenia -. Lui mi passava il piatto con la droga e mi diceva sempre che era cocaina, ma in realtà era un'altra sostanza perché io non ricordo niente". Le due ragazze hanno spesso fatto fatica a trattenere le lacrime in studio. "Ho un ricordo molto nitido di quello che è accaduto - ha detto Martina a proposito della serata in cui sarebbe stata abusata da Alberto Genovese - All'inizio eravamo in quattro: io, Alberto, una mia amica e un altro ragazzo dell'entourage, poi siamo rimasti solo io e Genovese. Abbiamo continuato a drogarci". Stando al racconto della giovane, lui avrebbe insistito per darle altra droga e di fronte al suo rifiuto, l'avrebbe forzata: "A un certo punto lui mi offre un'altra botta, io gli dico di no perché ero già un sacco fuori. Lui insiste e allora io faccio finta, ma lui si arrabbia e mi dice di non prenderlo in giro. A quel punto è venuto vicino a me, io ero sdraiata, e mi ha passato la mano con qualche sostanza sotto il naso e da quel momento io non ricordo più niente", ha spiegato piangendo. "Noi non assumevamo spontaneamente ketamina, cocaina sì, ma non la ketamina", ha aggiunto Ylenia.

Non è l'Arena, Massimo Giletti sconvolto dalle ragazze vittime di Genovese: "Vi deve entrare nella mente". Libero Quotidiano l'08 febbraio 2021. "Ci vuole coraggio": Martina, una delle presunte vittime di violenza sessuale dell'imprenditore Alberto Genovese, ha spiegato - insieme a un'altra delle vittime, Ylenia - quanto sia stato difficile decidere se mostrare il volto in tv. Ecco perché al termine della puntata de Non è l'Arena, Massimo Giletti ha voluto ringraziare le sue giovani ospiti, che hanno avuto la forza di raccontare quanto successo: "Spero che questo momento entri nella testa di chi continua a dire delle falsità, vorrei davvero che questo sguardo entri proprio nella mente di chi continua ad andare in giro a dire cose che non possono stare né in cielo né in terra". Anche l'avvocato delle due ragazze è intervenuto per  spiegare i motivi che hanno spinto le sue assistite a prendere coraggio e mostrare la vera identità pubblicamente: "Io ho sentito delle cose che mi fanno arrabbiare tantissimo, soprattutto gli opinionisti moraleggianti sulla tv di Stato. Ho letto su varie riviste commenti incredibili, e poi ci si chiede come mai queste ragazze vanno in televisione. Ho sentito parlare di regie occulte, adesso chi insinua cose del genere verrà querelato". "Quello che è successo in quelle stanze è qualcosa di veramente orribile - ha continuato poi il padrone di casa -. Portare delle ragazze anche consenzienti, come ha detto Ylenia che in fondo si riteneva quasi una sua fidanzata, per poi farle diventare delle bambole di pezza, delle donne oggetto, di cui avere il totale possesso, distruggerle psichicamente approfittando della giovane età, questo non deve essere dimenticato".

Non è l'Arena, la dottoressa Andreoli e gli stupri di Alberto Genovese: "Deriva necrofiliaca". Libero Quotidiano l'08 febbraio 2021. Due delle vittime di Alberto Genovese, Ylenia e Martina, ci hanno messo la faccia e hanno deciso di raccontare i presunti stupri subiti dall'imprenditore nello studio di Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7. A un certo punto il conduttore si è chiesto cosa potesse spingere Genovese a ridurre le sue vittime come delle bambole di pezza, così come emerso dalle indagini. E la risposta della psicoterapeuta Stefania Andreoli è stata agghiacciante: "Ci troviamo molto oltre il margine della normalità". "Non si tratta solo di aver un rapporto sessuale con una ragazza, magari anche sovrastandola o assoggettandola, credo che questo sia il segnale di una deriva necrofiliaca, per cui quello che veniva cercato era il rapporto sessuale con l'altro nemmeno più vivo, nemmeno più responsivo. Probabilmente perché c'era la volontà di manifestare disprezzo verso la vita dell'altro, forse in particolare verso le donne", ha continuato la dottoressa. La storia delle ragazze che hanno denunciato Alberto Genovese è ormai nota a tutti. Ma spesso sui social non mancano commenti di disprezzo nei loro confronti. C'è chi addirittura scrive che se lo sarebbero meritato. Quando Massimo Giletti chiede a Martina e Ylenia come questo le faccia sentire, le due non riescono a trattenere le lacrime. "Chiunque non sappia empatizzare con questa emozione dovrebbe porsi un grosso dilemma sulla propria salute psichica. Se c'è qualcuno da casa che non capisce cosa provino queste ragazze, deve andare di corsa a farsi visitare da uno bravo", ha detto la psicoterapeuta ospite della trasmissione.

Da mowmag.com il 7 febbraio 2021. Le guardi mentre non ci pensano e ridono, scherzano, fanno battute dopo aver ascoltato un vocale di un loro amico. Sono ragazze felici. Spensierate. Lo sembrano, in realtà. Perché sono due delle ragazze che accusano Alberto Genovese, che agli inquirenti hanno raccontato gli stupri e le violenze subite dall’imprenditore e che, per questo, sono state addirittura additate, giudicate e spesso offese. Ylenia e Martina. Sono le prime che ci mettono la faccia, che escono a viso scoperto, prima qui su MOW e stasera a Non è l’Arena su La7, e che dimostrano una cosa: questa storia, questa brutta storia, sarebbe potuta succedere a chiunque. Anche a te che leggi. Anche a te che giudichi. A tua sorella, a tua figlia. Anche a te che dici: io i miei figli li controllo, li chiamo continuamente. Anche a te che pensi: a me no, non sarebbe potuto succedere perché non andrei mai a infilarmi in una situazione del genere frequentando feste dove la droga viene servita nei piatti. Ebbene, anche loro pensavano così. Anche loro sono state attente. Anche loro hanno genitori presenti, che le hanno cresciute con una educazione severa. Anche loro hanno fratelli con cui si confidano, gruppi di amici che non c’entrano niente con quei party e quei giri. Non sono escort. Non sono ragazzine pronte a tutto, Ylenia e Martina sono ragazze normalissime che per una serie di leggerezze, di errori di valutazione si sono ritrovate nel posto sbagliato nel momento sbagliato. In questa storia, sul banco degli imputati, non c’è solo Genovese. C’è un sistema, una parte di Milano, e poi, come si spinge a dire Martina, «ci sono la mia ingenuità e la mia curiosità». Ingenuità e curiosità. Ma Martina ha 22 anni e se non si può essere ingenui e curiosi a 22 anni, quando è possibile esserlo? Con loro non abbiamo potuto evitare di parlare della violenza che hanno subito, delle conseguenze, ma questi argomenti li hanno affrontati già nella trasmissione di Giletti, due settimane fa, di schiena e con delle parrucche a coprirle. Quello che ci interessa di più è scoprire chi sono, da dove vengono, la loro infanzia, la loro adolescenza, quali sono le tappe che le hanno portate in camera di Alberto Genovese, a Ibiza o nella Terrazza Sentimento, perché hanno deciso di mostrare il loro volto e dove hanno trovato il coraggio per farlo.

Ylenia e Martina: chi sono. Ylenia Demeo ha 20 anni, bionda, alta 1,85, di Bari. Ha una camicia bianca, un filo di trucco, un jeans e Nike fluo ai piedi. Fa la modella di professione da quando ne ha 17, ha un fratello più grande di otto anni. I suoi genitori l’hanno chiamata Ylenia in onore della figlia scomparsa di Al Bano e Romina. Lei, al contrario di Martina, con Genovese ha avuto una vera relazione. Martina Facchini invece è a nata a Milano, ha il padre pugliese e la madre cinese, di Wenzhou: «Mio padre è di Bari come Ylenia, i miei si sono incontrati a Milano, mia madre si era trasferita in Europa con sua sorella». Anche lei indossa una camicia bianca, una collanina. Studia allo Ied di Milano. Le intervistiamo insieme. E durante l’intervista piangono diverse volte, ma trovano anche la forza di sdrammatizzare e ridere per cose futili.

Cominciamo dall’inizio. Cominciamo da chi siete.

Y: «Sono stata una bambina felice, spensierata, il rapporto con i miei è sempre stato molto bello, ci vogliamo bene, mio padre mi ha sempre coinvolto nell’azienda di famiglia. Poi a 16 anni mi sono un po’ ribellata, e appoggiata da mia madre a 17 ho fatto il concorso per entrare nell’agenzia Elite Model e sono stata scelta. Così mi sono trasferita a Milano».

M: «I miei invece sono separati quando avevo 12-13 anni, da allora non ho più avuto un buon rapporto con mio padre, ora è pensionato. Mia mamma è la persona per cui darei la mia vita, ha fatto di tutto per me, lavora con mio fratello nella loro azienda».

C’è un momento della vostra infanzia che vi è rimasto nel cuore?

M: «Il mio primo ricordo. Stavo temporeggiando sulla terrazza di casa in attesa di andare a scuola. Ero su un’altalena, sono caduta e mi sono fatta male, ho ancora la cicatrice sotto il mento. Ho tuttora in testa le immagini di mio padre preoccupatissimo che mi fa sdraiare dietro in macchina e mi porta in ospedale». 

Y: «Per me il momento più bello riguarda l'adolescenza, quando sono entrata in Elite: non avevo mai viaggiato, mio padre è sempre stato molto possessivo e venire a Milano ha significato tanto per me: la mia libertà, la mia occasione per crescere».

M: «Io sono cresciuta con una madre molto severa, per lei l'istruzione viene prima di ogni cosa. Ho praticato sei anni danza classica, tre di ginnastica artistica, suono l'arpa cinese. Ho passato tre anni in collegio in Cina, perché mia mamma voleva che imparassi le basi della lingua, una scelta di cui la ringrazio ancora. E adesso parlo 5 lingue: italiano, inglese, cinese, spagnolo e francese».

Scherza Ylenia, forzando la cadenza pugliese: «Io parlo il barese! E so fare molto bene le orecchiette, le lasagne, la parmigiana».

Il primo bacio?

Ylenia ride… «Alle elementari, a stampo, quello vero a 15 anni!».

M: «È imbarazzante! Io passavo le mie estati in Costa Azzurra e c'era questo ragazzo più grande di me, di Brescia, una sera mi ha portato sulle rocce a guardare le stelle, mi ha regalato un braccialetto e poi ha aggiunto: “Ti posso baciare?”. Ma dai, non si chiede! Così gli ho dato solo un bacio a stampo e dopo una settimana l'ho lasciato».

Che studi hai fatto?

M: «Ragioneria, ma volevo fare l’artistico. Però, appena mi sono trasferita a Milano, due anni fa, mi sono iscritta allo Ied, design della comunicazione».

Qual è il vostro sogno?

M: «Io voglio diventare un'art director, mi ci vedo tantissimo a realizzare le campagne».

Y: «Per questo fatto di Genovese mi sono dovuta fermare con i servizi di moda, non sto facendo più casting, devo recuperare la fiducia della mia agenzia, del mio booker, spero di potermi riaffermare in questo campo».

Aspetta un attimo. Tu sei la vittima. Perché dici che devi recuperare la fiducia della tua agenzia?

Y: «Li ho delusi molto, perché quando stavo con Alberto ero irreperibile h24, non rispondevo al telefono, ero inaffidabile».

L'incontro e le notti con Genovese. Adesso Ylenia e Martina si fidano una dell’altra, sono diventate molto amiche, si proteggono a vicenda. Per raccontare della loro amicizia non si può non parlare di Alberto Genovese, perché è stato lui il trait d’union. Il percorso che le ha portate da lui è quello che hanno già raccontato: le discoteche, un pr che propone di andare a finire la serata a casa di un amico, quell’amico era Genovese.

Ylenia: «Ci siamo conosciute a casa da Alberto, ma non ci eravamo parlate molto perché io non sono una che fa amicizia facilmente».

Martina: «Io invece sono più espansiva, poi siamo state tutte e due a Ibiza e adesso in pratica viviamo insieme».

Ibiza, attenzione. In una delle ville di Genovese delle feste sotto accusa. Qui avviene uno degli episodi di cui tanto si è parlato in questi mesi. Una ragazza si chiude in stanza con Genovese e la fidanzata Sarah Borruso e ne esce alle dieci di mattina in stato confusionale, non riusciva nemmeno a camminare. La ragazza era un’amica di Martina.

Martina: «Quando l’ho vista ho cominciato a piangere anche io, mi sono spaventata. Ed è stato lì che ho iniziato a realizzare che anche a me era successa la stessa cosa, perché, dopo aver frequentato Genovese, mi ero svegliata con dei buchi temporali e dei dolori atroci addosso».

Ylenia: «Quella sera avevo visto che Alberto era già aggressivo, mi prendeva i fianchi e mi stringeva, mi faceva male, quindi sono andata in camera, mi sono chiusa e poi la mattina alle 10 sono andata a fare colazione. E poco dopo ho visto Daniele Leali, l’amico di Genovese, che consolava Martina».

Facciamo un passo indietro, però. Come si concilia la genuinità di due ragazze normali con contesti del genere?

Ylenia: «Si concilia perché Alberto Genovese un mostro lo diventava. Di base era bravissimo, buffo, intelligente, ti prendeva con la testa. Stavo a casa sua, ci dormivo, ci pranzavo e cenavo. Si trasformava quando non dormiva per due, tre giorni, strafatto di cocaina, si incupiva e delirava».

Tu a Non è l’Arena hai dichiarato di volergli ancora bene, di non odiarlo.

Y: «Io l’ho conosciuto nel 2019 e già allora dopo qualche rapporto sessuale mi risvegliavo con dei segni sul corpo, dei graffi, ma io mai ho pensato a uno stupro, e avevo ricordi confusi. Poi, visto che Alberto non mi interessava, mi sono allontanata, ma a fine 2019 mi ha richiamato per andare con lui a Londra e a maggio abbiamo ripreso i rapporti, lui però era fidanzato e quindi erano occasioni sporadiche».

Tu ti drogavi?

Y: «Facevo uso di cocaina e basta, ma è successo poche volte».

E poi?

Y: «Siamo stati a Ibiza, a luglio, dove è successa quell’episodio».

Interviene Martina: «Ripeto, vedendo la mia amica mi sono detta: “Aspetta, qualcosa non va, ma non avevo realizzato fino in fondo. Lì per lì ho solo provato rabbia potentissima, volevo urlare».

Y: «Perché tu non pensi mai che puoi essere vittima di uno stupro, in camera con lui sono sempre entrata consenziente».

M: «Anch’io mai avrei pensato di aver subito uno stupro. Ma a Ibiza ho deciso di rompere i rapporti con Alberto».

Tu Martina quante volte ci sei stata a letto?

M: «Mai in maniera consenziente. Io mi sono resa conto, ma solo dopo, di essere stata violentata due volte. La prima a fine maggio, a Milano, la seconda a Ibiza». 

Ma già questa promiscuità non vi risultava strana?

Y: «Ma noi non sapevamo una dell’altra».

M: «Io neanche, perché la promiscuità non era palese. Alberto era lì con la sua fidanzata e io ero molto vicina a un altro ragazzo dell’entourage, mi sentivo al sicuro con lui vicino ed era sempre lui che mi diceva: “Stai attenta perché lui è un tipo estremo”. E poi mi ha detto quella frase che è già venuta fuori: “Prima o poi ci scapperà il morto”».

Y: «Questo fa intendere che tutti sapevano. Io sono testimone di una volta in cui Daniele Leali, due giorni prima dell’arresto, dice ad Alberto: “Oh fra’, mi raccomando stai tranquillo, dormi perché sei fuori, datti una calmata”. Alberto all'inizio diceva: “Sì fra’, va bene, hai ragione sto esagerando” però poi comunque perdeva la testa. Tutti sapevano quello che accadeva, ma tutti lo temevano perché era potente e offriva tutto e tutti».

M: «Quando mi diceva quelle frasi io pensavo, ok Alberto è un po' feticista, gli piace  giocare con le corde, legare… Ma non collegavo queste sue raccomandazioni con i miei buchi temporali nelle notti passate con lui. Le mie amiche mi dicevano: “Marti, figurati se non ti ricordi che hai avuto un rapporto, anche se ti eri fatta qualche botta di cocaina”. Invece, vedendo la mia amica in quelle condizioni, sono cominciati a balenarmi dei flash. E mi è tornata in mente una frase che Alberto mi aveva detto qualche giorno prima».

Racconta.

M: «Una sera che eravamo ad Ibiza siamo rimasti noi due a chiacchierare sul divano, continuava a dire: “Sono una bestia, sono una bestia”».

Come hai reagito?

M: «Sono rimasta zitta, in imbarazzo, non sapevo se credergli o meno. Anche perché era in una di quelle fasi in cui non capivo se riuscisse a distinguere la realtà dall’immaginazione».

Spiegatevi meglio.

M: «Dopo giorni e giorni che si drogava cambiava, lo vedevi dallo sguardo, e aveva le allucinazioni».

Y: «Diceva: “Shhh, le senti le voci? Oppure era convinto di capire cosa pensava tramite il mio respiro e si arrabbiava perché sosteneva che non gli stessi dicendo la verità».

M: «Era paranoico, ingigantiva tutto, sentiva rumori strani, passi che si avvicinavano o voci che gli dicevano che era una persona cattiva. Poi si fermava e aggiungeva: “Sì, io sono una bestia”».

A Ibiza si lascia con Sara, che lo tradisce con un suo amico…

Y: «Ne parlava spesso, non capiva come fosse possibile che una donna potesse tradirlo. E dopo un po’, tornati da Ibiza, continua a cercarmi. Alla fine cedo e vado a Mykonos con lui. Qui passiamo una vacanza bellissima, normalissima, non succede niente».

Ma perché non ti sei allontanata?

Y: «Perché non ero consapevole fino in fondo di quello che mi stava succedendo e delle altre ragazze non ho saputo niente fino all'arresto, quindi mai avrei immaginato una storia di tali dimensioni. Ma a ottobre, poco tempo prima che succedesse il casino che poi ha scatenato tutto il caso, io subisco la violenza che ricordo».

Vuoi raccontarla?

Y: «Ho solo dei flash, ma sono flash più lunghi: ricordo il dolore che provavo e adesso che ne riparlo è come se lo risentissi. Piangevo e gridavo e lui rideva, a lui piaceva sentirmi piangere…». Gli occhi di Ylenia diventano lucidi.

Ma per arrivare a non farvi ricordare niente qual era il suo modus operandi?

Y: «Noi non sappiamo nei dettagli come lui ci stordisse. Lo suppongo…».

M: «Io, sforzandomi, mi sono ricordata un momento…».

Quale?

M: «La prima volta che è successo il mio ultimo ricordo buono è che ero sdraiata sul letto, sballata sicuramente dalla cocaina, con lui che mi fa: “Dai, fatti un’altra botta”. Gli rispondo: “Albi, sono già molto fuori, sto bene così”.

“Dai, su” insisteva lui. Allora ho fatto finta di tirare ma lui se n’è accorto e si è incazzato, quasi offeso: “Guarda che non mi devi prendere in giro”. Io negavo, lui continuava. E a un certo punto ha preso qualcosa e con un dito me l’ha passato sotto il naso. Ho cercato di pulirmi ma non è bastato. Da lì in poi blackout. Non mi ricordo più niente».

La vita adesso («Non drogarsi più»). Quando è scoppiato il caso su tutti i giornali Martina contatta Ylenia: «A me non piace mostrare le mie debolezze, io non lo avevo detto a nessuno quello che avevo visto, sentito e provato, ma quando ho capito che lei era nella mia stessa situazione l’ho cercata». Ylenia: «E nel conforto ci siamo trovate, la nostra amicizia è l’unica cosa bella che ci ha lasciato questa storia».

Le altre quattro ragazze che lo accusano le conoscete?

M: «Conosciamo la protagonista che ha fatto scoppiare il caso, poi ci siamo noi e c’è la mia amica di Ibiza. Le altre due non sappiamo chi siano».

Adesso chi vi sta vicino?

M: «Stiamo tra di noi, Elisa Rivoira (l’ex amica di Genovese che adesso le assiste come una sorella maggiore) e pochi intimi».

I vostri genitori?

Y: «I miei hanno saputo tutto. O meglio, l’ha saputo mia madre, mio padre lo ha scoperto due settimane fa, ha 70 anni e una mentalità antica, quindi dirgli che frequentavo un uomo di più di 40 anni e che avevo subito uno stupro è stata dura. Ancora oggi lo vorrebbe menare. Anche perché, quando frequentavo Alberto, a mia madre ne avevo parlato. Lei, seguendomi su Instagram, era riuscita anche a mettersi in contatto con l’entourage di Genovese, vedendo le persone che taggavo e che erano con me nelle mie storie. Mi controllava, vedeva quello che facevo. Infatti si preoccupava, perché sparivo per giorni e giorni. Mia zia è riuscita a contattare anche il driver, non so come abbia fatto, che le aveva passato il numero dell’assistente di Genovese».

M: «I miei e mia madre in particolare ancora non lo sanno». Martina comincia a piangere. «La mia paura è deludere mia madre, farle scoprire quel lato mio che lei non conosceva, quello che si è lasciato andare. Io non voglio che lei pensi di avere buttato via tutti gli sforzi che ha fatto per crescermi».

Perché vi siete drogate?

Y: «La prima volta ero in discoteca, ero stra ubriaca, mi veniva da vomitare. Un ragazzo mi ha detto: “Vuoi un aiuto?”, ho detto sì. E lui: “Non fare niente, respira”, io ho respirato e boom, ho sniffato».

M: «Io non fumavo, non mi facevo le canne, la mia prima discoteca l'ho frequentata un anno fa a Milano, per capirsi. Il ragazzo che mi ha offerto il primo tiro è stato un professore della mia università, di lui mi fidavo e non c'è voluto tanto per convincermi, ma lui poi non ci ha provato con me, sia chiaro».

E poi?

Y: «E poi la droga a Milano è ovunque, in tanti sniffano, ma per fortuna nessuno è come Alberto».

M: «Dopo la prima volta, che era a maggio di due anni fa, ho fatto tutta l'estate senza toccare niente, non ne vedevo il motivo, poi a ottobre 2019, ritornata a Milano, oltre al mio gruppo di amici universitari, tutti ragazzi puliti, mi sono inserita in un altro che faceva vita mondana, là l'ho riprovata ed è iniziato un periodo che se me la offrivano ne usufruivo ma sempre senza esagerare. A me non piace nemmeno ubriacarmi, ma mi ha fregato la curiosità».

In che senso?

M: «Sono una persona responsabile, ma la curiosità mi ha spinto a capire che sensazioni potevo trovare trasgredendo, anche per questo ho accettato di andare a Ibiza. La mia, la nostra, è stata proprio ingenuità, perché ci siamo trovate alla scoperta di un mondo che non conoscevamo. E prima di conoscere Alberto capitava molto raramente di sniffare».

Y: «Quando tu, da ingenua, vieni catapultata in un mondo come quello di Milano, è veramente facile cadere in errore. Prima mi divertivo senza fare uso di cocaina. È vero che la prima volta l’ho provata senza Alberto ma è da quando ho cominciato a vederlo che ho iniziato a esagerare».

Dopo quello che avete vissuto cosa direste alle ragazze che si drogano?

M: «Che non bisogna drogarsi, mai. Che la droga è il male di tutto. Perché tu pensi di conoscerti, di essere una persona forte, capace di non farti prendere dalla dipendenza, ma non è così. Quello che ho imparato è che bisogna lavorare su sé stesse, capirsi nel profondo».

Y: «È il mio stesso pensiero».

La risposta alle accuse. Ingenuità. Sembra questa la parola chiave. Per questo anche l’avvocato che le assiste, Ivano Chiesa, ha deciso di difenderle: «Mi sono reso conto che sarebbe potuto succedere anche a mia figlia». Dice Martina: «Sì, può succedere a chiunque. È la convinzione che a te una cosa così non ti possa capitare che ti fotte». Ylenia: «La parola stupro non era proprio nel nostro vocabolario».

Eppure sono state molte donne ad attaccarvi. Vi hanno detto: “Andavate a drogarvi a casa di un milionario. Cosa vi aspettavate?”.

M: «Di divertirci, tutto qua».

Y: «All’inizio io non sapevo nemmeno chi fosse Alberto, che lavoro facesse, si vedeva che era agiato ma non mi interessava quello, mi interessava la leggerezza, il frequentare gente divertente, più grande».

M: «Io non ho mai percepito un centesimo da lui, zero, Genovese a me non ha dato mai niente».

Avete mai pensato di trovare un lavoro grazie a lui, di avere una raccomandazione?

Y: «No, anzi… La mia agenzia ha perso fiducia in me proprio perché quando stavo con lui non rispondevo al telefono e ho tralasciato tantissime opportunità. Davo retta a lui che mi diceva che la donna non deve andare all’università e non deve lavorare».

M: «Anche con me faceva certi discorsi, che la donna è stupida e anche se è intelligente non si deve applicare e non deve lavorare. Mi faceva: “Tu a 24 anni ti trovi uno che ti mantiene, a 27 fai una famiglia, così hai il futuro garantito, perché una donna a 27 anni è da buttare”. Io mi infuriavo, sono cresciuta con mia madre che mi ha sempre ripetuto: “Martina, mi raccomando, non devi mai dipendere da nessuno, devi essere una donna forte, hai le tue capacità, le tue abilità, realizzati».

E la sua fidanzata?

M: «Alberto diceva che si era innamorato della Sara perché lei sopportava i suoi atteggiamenti che ci provava con tutte anche davanti a lei, convincendola a fare anche giochi a tre. Quando c’era lei e lui cercava di toccarmi, io lo scansavo, mi sentivo proprio male».

Vi hanno detto che siete ragazze senza educazione né punti di riferimento…

M: «Non c'entra niente, ho sentito dire: chissà dove erano i genitori? Mia mamma mica mi chiama alle 3 di notte per chiedermi dove sono! Non vivendo insieme come può controllarmi 24 ore su 24? Eppure è super presente».

Quante volte vi sentite con i vostri genitori?

M: «Tutti i giorni».

Y: «Mia mamma mi chiama 5-6 volte al giorno e come spiegavo, dopo due giorni che non mi sentiva, ha cominciato a cercare tutti gli amici che menzionavo su Instagram».

Vi hanno detto: "Queste ragazze non fanno niente dalla mattina alla sera, cercano la vita facile, sono delle escort".

M: «È quello che mi ha fatto più male, io studio, mi sono creata da sola, non mi mantiene nessuno, quando ho cominciato a studiare a Milano mia mamma mi ha detto che avrei potuto fare la pendolare senza alcun problema e che se volevo vivere da sola mi dovevo mantenere. Per un anno ho studiato e lavorato come cassiera, tornando a casa tardi dopo la chiusura».

Y: «Sentirci dare delle escort è assurdo, noi siamo lontanissime da quel mondo».

Vi hanno detto che avete un uso dei social provocatorio…

M: «Guarda qui». Prendono il telefono, aprono i loro account Instagram: nessuna foto provocatoria, nessun atteggiamento mal interpretabile. Sono solo i profili di una studentessa e di una modella.

Troppi uomini e troppe donne vi accusano, ma nessuno vi ha chiesto chi siete. Cosa leggete o guardate?

M: «Io da romanticona amo quei classiconi americani alla Bridget Jones, Notting Hill, Laguna Blu. Ultimamente mi sono fissata con Wes Anderson».

Y: «Mi piacciono molto i romanzi, nell'ultimo periodo sono onnivora di serie tv».

Vi piacerebbe finire in televisione? Tipo all’Isola dei Famosi?

M: «Non è assolutamente il mio, per questo motivo è stato difficile accettare tutto ciò, non voglio che la gente pensi che io stia marciando su sto fatto per avere un po' di notorietà. La mia aspirazione non è andare in televisione o ridicolizzarmi davanti a tutti quanti. Anche perché mia mamma mi darebbe una bella bastonata».

Y: «Non mi piace il trash».

Quando in tv vi hanno definite bambine avete pianto…

M: «Sì, perché mi sono resa conto di non esserlo più e che ho ancora tanto da imparare».

Y: «Ho pianto perché a 18 anni sono stata catapultata a Milano senza avere avuto una formazione e sono dovuta crescere troppo in fretta, e ho sbagliato, sono caduta nel peccato». Piange…

Quali sono i vostri valori?

M: «La libertà, l’educazione, l’amore».

Y: «La famiglia, il coraggio, l’indipendenza e una mentalità aperta che rispetti i valori e il lavoro altrui».

Qual è la vostra giornata tipo?

M: «Molto tranquilla, sto facendo la tesi sul design e la storia di Luxottica».

Y: «Divano, Netflix, tele, una sigaretta, caffè, divano di nuovo, e poi avvocato, questura, basta».

Perché metterci la faccia. Cosa rimarrà di questa vicenda a livello processuale è ancora troppo presto per dirlo, ma cosa questa vicenda abbia lasciato dentro le ragazze è chiaro. Martina si rivolge ad Ylenia: «Sono molto cambiata». Ylenia continua: «Tutti siamo cambiati non abbiamo più voglia di divertirci, abbiamo paura con chi uscire e con chi parlare». «Io sono tornata un po’ quella di prima» chiarisce Martina.

«A 16, 17 anni ero fidanzata, facevo viaggi on the road, facevo surf, mi svegliavo presto. Nell’ultimo anno sono diventata meno seria, mi sono un po' lasciata andare, per fortuna il mio percorso universitario non ne ha risentito più di tanto; adesso voglio finirlo».

Con gli uomini come è cambiato il vostro rapporto?

M: «Su Instagram non rispondo a nessuno che non conosco. Nella vita reale tuto questo mi ha reso molto più egoista, nel senso che se una persona non mi piace divento maleducata».

Y: «Non so più se mi posso fidare o no di una persona. Io prima ero veramente una ragazza spensierata che pensava che la vita non mi avrebbe mai fatto del male. Non sto più vedendo nessuno se non le quattro persone di cui ho parlato prima».

Avete avuto un’altra storia d’amore dopo la vicenda?

Y: «Io sono inavvicinabile. Ogni volta che ho un uomo davanti penso che potrebbe essere al posto di Alberto».

M: «Sì, adesso mi sto frequentando con una persona che già conoscevo, perché non riesco ad aprirmi e conoscere gente nuova, ma sono anche molto stressata da questa situazione».

Perché?

M: «Perché lui non sa niente. Lui è un uomo che non si droga, sa che io ho conosciuto quel giro là e gli ha dato molto fastidio. Infatti devo dire che è anche per merito suo che che mi sono allontanata. E ho paura che quando glielo dirò non mi parlerà più». Piange ancora.

Vi siete più drogate?

M: «Adesso non mi faccio più, zero».

Y: «Neanche io».

Riuscite a dormire?

Y: «Vorrei cominciare un percorso terapeutico perché la notte è un inferno, non riesco a dormire. Chiudo gli occhi e ho la faccia di Alberto impressa davanti a me, a volte mi vengono dei flashback. E quando mi addormento faccio sogni confusi, rivivo momenti delle feste in cui stavo esagerando. Ma, è incredibile, spesso provo anche molto dispiacere per lui, ne soffro».

M: «Io ho dei crolli nervosi, mi sono resa conto che il male esiste. Mia mamma mi diceva sempre: “Tu sei troppo buona”. Ora non riesco a fidarmi di nessuno fino in fondo, nemmeno di Ylenia per esempio. E questa cosa mi fa impazzire. Quindi sì, vorrei andare in terapia».

Perché avete deciso di mostrare la vostra faccia?

Y: «Anche se mi fa male, io seguo ogni giorno tutte le notizie che escono sul caso Genovese e vedo cosa scrive la gente sui social. Voglio difendermi da questi attacchi. Io non sono una escort, i miei genitori lo sanno, per me la gente può pensare quello che vuole. Ma voglio avere la possibilità di difendermi, non voglio nascondermi. Perché penso sul serio che quello che è successo a me può succedere a qualche altra ragazza».

M: «Io ho più paura, soprattutto perché non voglio che la gente provi pietà, che mi dica: “Mi dispiace per quello che ti è successo”». Si emoziona…

Che consiglio vi ha dato l'avvocato Chiesa?

Y: «Lui ci ha sempre detto che i nostri genitori sono le persone che ci saranno sempre accanto e di affidarci a loro, sono le uniche persone che ti diranno sempre la verità e che non ci potranno mai fare del male».

Quindi Martina, come farai ad avvertire tuo padre che non senti da un po’?

M: «Un altro mio motivo di ansia è questo, dovrò trovare la forza di dirglielo. Non voglio che lo venga a sapere in televisione. E poi devo spiegarlo a mia madre». Piange ancora…

Se Alberto Genovese fosse qui davanti cosa gli direste?

M: «Lo ringrazierei, in modo sarcastico naturalmente. Per colpa sua sono entrata in un buco nero, ho iniziato ad esagerare, ma questo esagerare mi ha dato la nausea. Alberto mi ha aperto gli occhi sul fatto che abbiamo frequentato un mondo malato, io non sono così non sono questa qui. Ora ne ho la certezza».

Y: «Di ripigliarsi, di riprendere la sua vita in mano, perché aveva tutto per godersi la vita, di curarsi e di circondarsi di persone sincere, non di cagnolini, come faceva prima, i suoi amici erano tutti comprati».

Mandate un messaggio alle altre donne.

M: «Parlate di più, denunciate situazioni al limite, sono cose sotto gli occhi di tutti. E fidatevi del vostro istinto, cosa che io ho fatto quando era ormai troppo tardi».

Y: «Di divertirsi ma con la testa, tenendosi sempre molto distanti da situazioni ambigue».

Vi siete mai sentite in colpa?

M: «Sì, ne ho parlato con un mio amico e me ne sono vergognata. E questa sensazione mi perseguita ancora adesso. Mi vergogno per il fatto di non sapere cosa mi è successo fino in fondo, di aver perso i sensi, di essere stata stuprata. Io non voglio che la gente provi pietà per me assolutamente».

Y: «Io no, non mi sento in colpa».

Qualcuno vi ha riconosciuto a Non è l’Arena anche se eravate di spalle?

M: «Solamente un amico. Mi ha scritto due settimane fa e mi ha detto: “Ti abbraccio forte mi manchi tanto, ti ho visto in televisione e ti ho riconosciuta dalla voce”».

Y: «Chi doveva saperlo già lo sapeva, non ho nascosto niente a nessuno».

I tuoi genitori, Ylenia, che ti hanno detto?

Y: «Io sono due giorni che non parlo con i miei genitori perché vogliono farmi tornare in Puglia ma per me tornare in Puglia è darla vinta a chi mi ha fatto male». Comincia a piangere.

Tuo fratello?

Y: «È d'accordo con loro».

Dove trovi la forza per essere così coraggiosa?

Y: «Perché è una cosa giusta, io non mi vergogno di quello che mi è successo, non l'ho deciso io, non l'ha deciso nessuno, è capitato, e ora devo andare avanti».

M: «Non ci dobbiamo nascondere, non ci dobbiamo vergognare di niente. Chi si deve vergognare, chi si deve nascondere, in questa storia, sono altri».

Se poteste tornare indietro?

M: «Non avrei frequentato quel giro di persone che mi ha portato da Alberto. Sarei rimasta con i miei amici dell’università».

Y: «Troppo facile dirlo adesso, io sono una ragazza che voleva solo andarsi a divertire».

Caso Genovese, rubato lo smartphone a una vittima: parla l’avvocato Ivano Chiesa. Francesco Leone su Notizie.it il 27/01/2021. L’avvocato Chiesa a Notizie.it: "Non posso rispondere né per si né per no. Quand'anche fosse, non credo che glielo abbiano rubato su commissione, però oh sono qua!". Una fonte confidenziale, la notizia di un telefono sottratto a una delle vittime e la mancata smentita del suo legale. Tre elementi che ci confermano quanto appreso da un informatore: nella settimana dall’11 al 17 gennaio, lo smartphone di una delle sei ragazze che hanno denunciato Alberto Genovese per violenza sessuale è stato rubato in circostanze ancora da chiarire. Non si esclude che all’interno del telefono ci fossero testimonianze utili quantomeno a dimostrare la natura del rapporto tra la ragazza e il celebre imprenditore digitale travolto dagli scandali milanesi di Terrazza Sentimento. Il principe del foro meneghino, Ivano Chiesa, legale della ventenne interpellato da Notizie.it ha chiarito “Su questo non vi rispondo perché non posso”- alludendo al fatto che ci possano essere indagini in corso -“Non posso rispondervi nè per si nè per no. Non penso assolutamente che Genovese abbia dei favoreggiatori“- ha spiegato l’avvocato in relazione all’ipotesi che l’imputato possa essersi servito di complici per un eventuale depistaggio -“Quand’anche fosse, non credo che glielo abbiano rubato su commissione. Questo è il concetto: io non penso, però oh sono qua!”- chiosa il legale della ragazza, che pur escludendo un furto comandato, data la sua lunga esperienza in intricate vicende giudiziarie, sa bene che in questi casi niente può essere dato per scontato. “Quando le ragazze mi hanno raccontato la vicenda, mi hanno colpito al cuore. Sono due bambine, io prima di essere un penalista, sono un uomo, un padre. Dopo la loro testimonianza non ho avuto dubbi che ci fossero estremi per la violenza sessuale” inizia così il racconto dell’avvocato Chiesa sulla nascita della sua scelta di assistere le due ragazze che hanno denunciato Genovese. “Il messaggio che deve arrivare a casa”- continua Chiesa -“È attente bambine, dietro al bello, alla bella festa, ai bei ragazzi, i soldi che girano, lo champagne e le belle serate, di dietro magari c’è il lato oscuro della forza. Non dovete avere paura di denunciare“. L’avvocato ha poi sottolineato l’importanza che sta assumendo sempre di più la protezione delle sue clienti in relazione al polverone mediatico che si sta abbattendo sulle vittime di Genovese, bocciando la “tesi ignobile per cui: te la sei andata a cercare, quindi te la meriti” e chiarendo che il cosiddetto ritardo della denuncia delle sue assistite è stato frutto anche della paura “Le ragazze hanno timore i trovarsi in una situazione, poi mi chiedono: come mai si sono fatte vive in ritardo? Ma vedi un po’ tu”. Sulla figura di Genovese, Chiesa ha chiarito: “Per come la vedo io, quest’uomo non è un criminale, è uno che quando fa uso di sostanze stupefacenti probabilmente perde completamente il controllo di sè. Quell’uomo è da curare più che da condannare, anche se ovviamente è giusto che subisca la pena che si merita“. Il legale ha specificato che le sue assistite erano già state sentite dall’autorità giudiziaria ancor prima di sporgere denuncia, da qui l’ipotesi che le due fossero state convocate come possibili testimoni e/o come probabili vittime. Il modus operandi delle violenze perpetrate nei confronti delle giovani pare sia stato ricorrente. “(Le ragazze ndr.) Non ricordavano bene cosa era accaduto, perché essendogli stata propinata una sostanza stupefacente, ripeto somministrata, contro la loro volontà o incoscientemente, una sostanza che le ha completamente obnubilate, non si ricordavano. Poi con i flashback e ascoltando quello che ha raccontato la prima ragazza e vedendo quello che hanno detto in televisione gli è venuto in mente“. L’ormai certa presenza di materiale video utile a testimoniare lo stupro della prima ragazza che ha denunciato gli abusi subiti a Milano, unitamente al fatto che queste altre due ragazze siano state sentite dagli inquirenti prima ancora di denunciare Genovese lasciano presupporre che, come nel primo caso, anche in questa vicenda ci siano delle video testimonianze degli stupri. A tal proposito Chiesa ha spiegato “Io non lo so con certezza (che ci siano dei video ndr.) perché non sono il pubblico ministero. Però per ragionevolezza direi di si”.

Francesco Leone. Giornalista e videoreporter. Laureato in Comunicazione presso l'Università degli studi di Milano, con corso specialistico post laurea in Scenari Internazionali della Criminalità Organizzata. Dal 2018 si occupa di inchieste, servizi e video reportage negli ambiti di cronaca e politica.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'1 febbraio 2021. «Temevo che mi avrebbe uccisa»: a quasi quattro mesi dalla sera in cui seminuda è fuggita da Terrazza Sentimento e ha denunciato alla prima Volante della Polizia che passava di essere stata violentata da Alberto Genovese, Francesca (nome di fantasia) torna a puntare il dito contro il re delle startup in un' intensa intervista a Non è l' Arena di Massimo Giletti su La7. L' accusa di stupro nei confronti di Genovese parte dalle immagini delle 19 telecamere dell' abitazione nei pressi del Duomo di Milano, dove si tenevano feste a base di alcol e droga. All' ipotesi di reato iniziale, il pm Rosaria Stagnaro e l' aggiunto Letizia Mannella hanno poi aggiunto altre 5 violenze ad altrettante giovani donne ricostruite dai poliziotti della Mobile guidati da Marco Calì. Anche Francesca si drogava. «Non sono una tossicodipendente», «ne faccio uso sporadicamente», ripete in tv. Quella sera, era il 10 ottobre, «Alberto mi ha puntata», dice. Le versò lo champagne di una bottiglia che solo lui poteva prendere e che aveva un «cavo dell' iPhone legato intorno», particolare riferito alla Polizia. Lei sospetta che contenesse la droga dello stupro. La violenza, documentata dai video, si protrasse fino alla sera dopo. Ogni volta che la ragazza si riprendeva, il 43 enne la drogava di nuovo per violentarla. Talvolta Francesca sembrava cosciente, come quando lo implorava di smettere e di liberarla. Interrogato a San Vittore, Genovese ha dichiarato che la modella era consenziente, che gli chiese 3.000 euro per fare sesso estremo e che lui gliene propose altri 500 «se si fosse fatta legare» e se avesse urlato. «Ricordo di essere andata a farmi una doccia, ma ero completamente fatta. Non ero lucida», racconta al giornalista. Quando tornò in sé, ricordava solo qualche flash. Credeva di aver avuto un incubo. «Sono felice. È una fortuna», dice a Giletti. Tentò di chiamare un taxi, ma Genovese l' aggredì: «Mi ha presa per i capelli, mi ha trascinata con violenza per la stanza e mi ha lanciata sul pavimento. Ho avuto paura di morire». Chiamò un' amica, e non la Polizia perché temeva la reazione dell' uomo. Nei giorni successivi, Daniele Leali, amico di Genovese, la contattò. Leali ha dichiarato che non sapeva della violenza e che fu Genovese, «dispiaciuto», a chiedergli «di dirle di fare incontrare i rispettivi avvocati». Ai pm Genovese ha aggiunto di aver dato all' amico 8.000 euro per la modella. «Su consiglio dei legali non lo feci», ha precisato Leali. «Ha cercato di comprarmi», accusa Francesca. Leali non parlò di soldi. «Mi ha proposto un accordo tra le due parti per addolcire la mia denuncia (... ), gli ho detto che avrei parlato con il mio avvocato e che ci avrei pensato, ma non sapevo ancora cosa era successo».

La vittima di Alberto Genovese: «La notte con lui, temevo mi avrebbe uccisa». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera l'1/2/2021. A «Non è l’Arena» parla la 18enne vittima di violenza a Terrazza Sentimento: «Stordita dalla droga». «Temevo che mi avrebbe uccisa»: a quasi quattro mesi dalla sera in cui seminuda è fuggita da Terrazza Sentimento e ha denunciato alla prima Volante della Polizia che passava di essere stata violentata da Alberto Genovese, Francesca (nome di fantasia) torna a puntare il dito contro il re delle startup in un’intensa intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti su La7. L’accusa di stupro nei confronti di Genovese parte dalle immagini delle 19 telecamere dell’abitazione nei pressi del Duomo di Milano, dove si tenevano feste a base di alcol e droga. All’ipotesi di reato iniziale, il pm Rosaria Stagnaro e l’aggiunto Letizia Mannella hanno poi aggiunto altre 5 violenze ad altrettante giovani donne ricostruite dai poliziotti della Mobile guidati da Marco Calì. Anche Francesca si drogava. «Non sono una tossicodipendente», «ne faccio uso sporadicamente», ripete in tv. Quella sera, era il 10 ottobre, «Alberto mi ha puntata», dice. Le versò lo champagne di una bottiglia che solo lui poteva prendere e che aveva un «cavo dell’iPhone legato intorno», particolare riferito alla Polizia.

Lei sospetta che contenesse la droga dello stupro. La violenza, documentata dai video, si protrasse fino alla sera dopo. Ogni volta che la ragazza si riprendeva, il 43 enne la drogava di nuovo per violentarla. Talvolta Francesca sembrava cosciente, come quando lo implorava di smettere e di liberarla. Interrogato a San Vittore, Genovese ha dichiarato che la modella era consenziente, che gli chiese 3.000 euro per fare sesso estremo e che lui gliene propose altri 500 «se si fosse fatta legare» e se avesse urlato. «Ricordo di essere andata a farmi una doccia, ma ero completamente fatta. Non ero lucida», racconta al giornalista. Quando tornò in sé, ricordava solo qualche flash. Credeva di aver avuto un incubo. «Sono felice. È una fortuna», dice a Giletti. Tentò di chiamare un taxi, ma Genovese l’aggredì: «Mi ha presa per i capelli, mi ha trascinata con violenza per la stanza e mi ha lanciata sul pavimento. Ho avuto paura di morire». Chiamò un’amica, e non la Polizia perché temeva la reazione dell’uomo. Nei giorni successivi, Daniele Leali, amico di Genovese, la contattò. Leali ha dichiarato che non sapeva della violenza e che fu Genovese, «dispiaciuto», a chiedergli «di dirle di fare incontrare i rispettivi avvocati». Ai pm Genovese ha aggiunto di aver dato all’amico 8.000 euro per la modella. «Su consiglio dei legali non lo feci», ha precisato Leali. «Ha cercato di comprarmi», accusa Francesca. Leali non parlò di soldi. «Mi ha proposto un accordo tra le due parti per addolcire la mia denuncia (...), gli ho detto che avrei parlato con il mio avvocato e che ci avrei pensato, ma non sapevo ancora cosa era successo».

Non è l'arena, Massimo Giletti sconvolto: "Lei sta dicendo che una minorenne...". Giulia Napolitano, la bomba sulla ragazza violentata da Alberto Genovese. Libero Quotidiano il 18 gennaio 2021. "Sta dicendo una cosa molto grave...". Massimo Giletti sconcertato a Non è l'Arena, su La7. Si parla ancora del caso di Alberto Genovese e in studio torna Giulia Napolitano, una modella che ha partecipato a vari "festini estremi" e ha incontrato più volte la ragazza 18enne che per prima ha denunciato l'imprenditore per violenza sessuale. "L'ho incontrata in Sardegna, si spacciava due anni fa per maggiorenne a una festa dove aveva un ruolo diverso dal mio", spiega la modella, che aveva partecipato a un pranzo con uomini facoltosi, "tra cui un arabo", ma solo come donna immagine. "Sembrava una conoscente molto stretta della signora che aveva organizzato l'evento. Alla fine del pranzo, dopo aver parlato e bevuto, chi non era lì solo per fare la ragazza immagine si è appartata nelle camere da letto con gli uomini". Giletti sgrana gli occhi: "Lei sta dicendo che una minorenne... Si assume la responsabilità di quello che dice, lei domani probabilmente sarà chiamata in Procura". "Assolutamente sì, non mi drogo, non ho clienti e non sono ricattabile". 

Non è l'arena, Massimo Giletti ferma tutto: "Adesso dite così, bravi". Cala il gelo in studio. Libero Quotidiano il 18 gennaio 2021. "Adesso dite così, bravi". Massimo Giletti fa calare il gelo in studio a Non è l'Arena. Il confronto tra Daniele Leali, amico di Alberto Genovese, e la modella Giulia Napolitano, una delle testimoni dei "festini estremi" delle notti milanesi, trascende. La ragazza immagine racconta di essere stata a Terrazza Sentimento, l'attico dell'imprenditore in cui sarebbe andata in scena la prima violenza sessuale su cui sta indagando la Procura milanese. Leali e la sua compagna chiedono il giorno esatto, la Napolitano rifiuta di dirlo. "All'inizio dello scorso inverno". A quel punto Leali la attacca frontalmente: "Io ho l'sms, a un mio amico con cui lei faceva sesso lei ha chiesto 250 euro per andare a casa sua". Di fronte al tentativo di screditarla, la Napolitano risponde per le rime: "Lei con me scende i toni, mi ha dato della poco di buono su Instagram e deve baciare la terra perché non l'ho diffidata. Deve portare tutto". "Sì porto anche il mio amico", risponde Leali. A questo punto interviene Giletti: "Vi chiedo la cortesia, non voglio fare quello che succede in altri programmi, vi prego di riportare tutto al punto che ci interessa, ognuno poi risponderà di quello che fa nella propria vita".

Gisella Desiderato per “Novella 2000” il 17 maggio 2021. Lui è Daniele Leali, fidanzato da 12 anni con Marilisa. Non vip, ma finito su tutti i giornali, spesso in tv in quanto considerato «braccio destro» di Genovese, genio delle start up, fondatore di Facile.it e Prima Assicurazioni, arrestato il 6 novembre con l’accusa di violenza e sequestro di una diciottenne durante la festa del 10 ottobre, nella sua casa di Milano. Quella con la “Terrazza Sentimento”, vista Duomo, su cui si sarebbero consumati feroci rapporti sessuali. Da allora altre cinque ragazze accusano Genovese di violenza. Daniele è sospettato (ora che scriviamo non indagato) di aver distribuito droga alla festa. Ad accusarlo una ragazza: «C’erano due piatti per tutti. Li ha portati Daniele Leali: in uno c’era 2CB, coca rosa, nell’altro Calvin Klein, chetamina e cocaina».

Daniele, dopo quella festa è partito per Bali. Molti pensavano fosse fuggito.

«Da Dicembre sono in Italia. Era un viaggio di lavoro già programmato. Dopo l’arresto di Genovese, i dettagli, li ho saputi quando ero a Bali, subito mi sono offerto di collaborare, sarei tornato prima se i pm mi avessero convocato. A oggi non l’hanno fatto. Non ho avvisi di garanzia, per fare chiarezza il mio avvocato Sabino Di Sibio ha presentato la “richiesta 335”, si chiama così. Ha chiesto ai magistrati se ci sono indagini su di me, se entro tre mesi non rispondono (scadono a marzo, ndr), sono estraneo».  

Lei è vocalist e titolare di un locale a Formentera e di un ristorante a Boracay, nelle Filippine.

«Nasco vent’anni fa come vocalist, poi sono passato a organizzare party, da dieci anni sono titolare del Tipic, discoteca di Formentera, e del Beach Club, ristorante nelle Filippine. In Italia ho un format di hip hop reggaeton, organizzo spettacoli nei locali italiani. Tutto bene fino al 26 febbraio, poi col Covid lo stop. Mi sono trovato senza entrate».

Finito il primo lockdown, cosa ha fatto?

«A giugno sono andato a Formentera con Alberto, sembrava che i locali riaprissero, ma a metà luglio hanno deciso di lasciarli chiusi. Alberto aveva preso una casa per stare due mesi in vacanza, uno a Formentera, uno a Ibiza. Io gli dico che sarei tornato in Italia. Lui: “Non preoccuparti, mi fa piacere se rimani con me tutta l’estate. A livello economico ti aiuto io”».

Cioè, Genovese ha pagato tutto?

«Ha pagato gli extra: alloggi, affitto, jet privati per spostarsi, spese importanti. Alla quotidianità mia, pensavo con le mie risorse. Così abbiamo trascorso l’estate tra Formentera e Ibiza fino ad agosto. Ero con Marilisa, lui con Sara, e c’erano una quindicina di persone con cui uscivamo, ogni tanto si univano altri. Facevamo feste, andavamo in barca».

Deve essere molto legato a Genovese.

«È socio del Tipic di Formentera, ne ha rilevato delle quote nel 2014. È così che l’ho conosciuto, me l’ha presentato un amico comune».

Il 2014 era l’anno in cui Genovese vendeva Facile.it incassando cento milioni. Diventava milionario in un istante. Un periodo euforico per lui.

«Era in una fase di svolta. Fino ad allora era il tipo che lavorava 18-20 ore al giorno, solo fatica e genialità. Poi a 35 anni gli è scattata la voglia di godersi la vita. Ha pensato di investire nei locali notturni, non come business, ma come occasione per “vivere” un po’».     

In effetti dopo il 2014, Alberto fonda Prima Assicurazioni, agenzia digitale di polizze Rc auto, nel 2018 riceve un investimento di 100 milioni di euro da Goldman Sachs e Blackstone. Nel 2019 ha oltre 130 milioni di premi, a luglio 2020 supera i 900 mila clienti. In pratica, con Prima Assicurazione fa soldi, col locale di Formentera si diverte.

«Sì, a Formentera ha fatto un investimento minimo, era un modo per godersi il tempo libero, veniva, conosceva gente, pranzava fuori. Io lavoravo tutto l’anno, gestivo tutto, nei primi quattro anni e mezzo non lo vedevo tanto».

Quando siete diventati amici.

«Da Natale 2019, abbiamo fatto una bella cena insieme, io ero con Marilisa, lui con Sara, con cui era fidanzato».

Sara, ora nota come l’ex di Genovese, sono ex da agosto, indagata per concorso nelle violenze e cessione di droga. Una ragazza ha detto che Sara era presente, la notte a Ibiza, quando avrebbe subito la presunta violenza. Lei c’era?

«Sì. Dopo cena, ho visto Alberto e Sara che si allontanavano verso l’abitazione di Alberto con questa ragazza che poi ha denunciato. Ho rivisto la ragazza l’indomani mattina, tutti e tre uscivano dalla camera di Alberto. La ragazza è tornata a dormire nella sua stanza».

Ha avuto sentore che si fosse consumata una violenza?

«No, ho pensato a una notte di sesso estremo e droghe. Credo che Alberto e quella ragazza avessero passato una serata anche a Milano. Ad Alberto piaceva legare, mettere manette. La mattina successiva ho visto che quella ragazza aveva lividi, ecchimosi, ma non si lamentava. Anzi, una serata successiva si è lamentata perché non l’abbiamo invitata a cena, per il Covid non c’era posto, voleva esserci. Mi è sembrato strano sapere, poi, che ha denunciato Alberto».

Ha mai saputo se Genovese pagava le donne con cui faceva sesso?

«Lui mi ha sempre detto che non gli piaceva pagare le donne, non so se dicesse la verità. Ma a me non piaceva parlare di questo, non ne ho più parlato. Né di questo, né di altri “vizi”. Mai ricevuto foto o video hard inviati ad altri».

Secondo lei Genovese è cambiato nel tempo?

«Dall’estate, ho visto che stava abusando di droga. Fino a giugno era ok. Dopo ho percepito del pericolo. Spariva per due giorni, si chiudeva in stanza. Gli dicevo: “Alberto devi darti una controllata. Da amico ti consiglio di andarci più piano, questa non è una bella vita”».

Sara, la fidanzata, gli diceva le stesse cose?

«Mi sembrava travolta anche lei».

A fine agosto tornate in Italia: cosa succede?

«Alberto a maggio aveva aperto il Prima Cafè a Milano, per pubblicizzare la sua attività. Sapendo che sono disponibile a lavorare, mi fa parlare col suo socio di Prima Assicurazioni. Né io né lui volevamo parlare di soldi, tra amici è imbarazzante. Col socio siglo l’accordo: un contratto a tempo indeterminato di consulenza come pr del Prima Cafè».

Quanto la pagano?

«4700 al mese, più 2000 di benefit per beverage&food. Programmiamo l’inaugurazione il 17 settembre. Il locale inizia a rodare prima, il gestore mi riconosce una percentuale sui profitti. Alberto mi dice che vuole aprire 30 locali nel mondo, sono contento, ho un progetto di espansione di lavoro».

Intanto sulla Terrazza Sentimento si svolgevano le feste di Genovese.

«Era diventata una location cool, attrattiva. Ho iniziato a ricevere telefonate di gente che voleva fare lì feste di laurea. Rispondevo: “No, è una casa privata”. Il giro si è allargato».

Lei portava gente alle feste. Anche a quella del 10 ottobre. Veniva pagato?

«No. Era divertimento. Lui, per organizzarle, aveva una chat con due assistenti. Il mio ruolo era marginale, per le ultime tre ho redatto liste cartacee».

Dicono che ci fossero vip e professionisti, per esempio notai importanti.

«Sì, è vero».

I telefonini si potevano portare?

«Fino a giugno, quando abbiamo fatto la chiusura di Terrazza Sentimento. Il 28 o 29 giugno con lo show cooking di Cracco. Festa bellissima. Il giorno dopo siamo partiti per Formentera».

Dopo l’estate cosa è cambiato?

«Alla festa di ottobre Alberto ha voluto cambiare orari. Anziché iniziare alle 19-20 e finire alle 5 di mattina, ha deciso di iniziare le feste alle 12, e farle terminare alle 24. Anche per evitare lamentele dei vicini (tra cui, Roberto Bolle, che si è lamentato del chiasso, ndr)».

È cambiato anche che i cellulari dovevano essere lasciati all’ingresso.

«Rimanevano sempre a disposizione, chiunque poteva andare all’ingresso e usarli lì. Questa idea è nata a Ibiza quando i locali erano chiusi, le persone si vedevano a casa, per la geolocalizzazione rischiavano di essere rintracciabili, spegnevano i cellulari. Poi, una festa senza cellulari è più bella, la gente parla senza stare attaccata a uno schermo».

Alla festa di ottobre ha visto droga?

«Nelle ultime due feste ho visto due piatti in un angolo della casa».

Una ragazza ha detto che alla festa di ottobre lei serviva piatti con la droga rosa. È vero? 

«No, non servivo niente. Ho visto due piatti, in un angolo, con della droga. Erano a disposizione di chiunque».

Si è mai chiesto da dove venisse la droga?

«Non so da dove venisse. Presumo se ne occupasse lui personalmente».

Ha detto di essere stato l’ultimo ad andare via da quella festa.

«Sì, era più o meno mezzanotte e mezza. Alberto non lo vedevo,  era nella sua stanza. Lo avviso con un messaggio, mi risponde “ok”. Il giorno dopo non sento nessuno. Il giorno dopo ancora mi chiama un amico: “Ma cosa è successo alla festa? Una ragazza è in ospedale”. Non ne sapevo nulla. Dopo qualche giorno vedo Alberto, aveva avuto la casa sotto sequestro, lo vedo dispiaciuto, conoscendo il suo stile di vita, penso alla droga, non alla violenza. Penso abbia superato i limiti nei suoi giochi erotici».

Poi i racconti sono confusi. Secondo le ricostruzioni, Genovese sarebbe stato una ventina d’ore chiuso nella stanza con una diciottenne che, dopo essere fuggita, ha fermato la prima volante della Polizia per strada, dicendo di essere stata prima drogata, poi stuprata. Nella borsa della ragazza sono stati trovati 3.500 euro pare bruciati da Genovese, che le aveva chiesto la carta d’identità per assicurarsi che fosse maggiorenne, ma lei gli ha dato solo il codice fiscale. Cosa pensa delle ragazze che partecipavano alle feste?

«Sono sempre stato liberale. Mai additato nessuno per lo stile di vita. Da buono, non ho mai visto del marcio, che però sto vedendo ora in queste ragazze. Molte sono arriviste, darebbero l’anima al diavolo pur di avere benefici economici, una bella vacanza costosa. A 18 anni avevo un orario di rientro. Non capisco come possa una ragazza stare fuori di casa tanto tempo senza essere seguita dalla famiglia».

Sta giustificando Genovese?

«No. Se c’è stata violenza, è giusto che Alberto paghi, capirò che ha una doppia personalità. Ma oggi c’è un’indagine in corso, aspettiamo gli esiti».

Si rimprovera qualcosa?

«Avrei voluto farlo desistere da questo stile di vita estremo. Forse, se avessi insistito di più quando gli dicevo di calmarsi... non era facile, lui ha continuato».

Cosa prevede per il suo lavoro?

«Sono fermo. Spero in un progetto a Bali. Al ristorante mi hanno detto che la mia immagine si è sporcata. Il locale di Formenterà probabilmente fallirà, Alberto non credeva più in quel business, voleva virare su cose “diurne”, “facciamo Beach club, non discoteche”, diceva. E il contratto di pr con Prima Cafè mi è stato disdetto il 10 novembre. Sono senza niente. Devo reinventarmi».

Ha rotto l’amicizia con Alberto?

«L’amicizia da parte mia non finisce. Alberto può aver avuto problemi da uomo. Ma è il genio europeo dell’on line, se ha sbagliato, appena potrò, gli farò la predica, rimarrò distante dai suoi errori. Ma l’amicizia e il livello lavorativo rimangono».

Giuseppe Fumagalli per “Oggi” il 20 gennaio 2021. Daniele Leali, amico e socio di Alberto Genovese, milionario della new economy finito in galera per aver drogato e stuprato per 24 ore una ragazza di 18 anni, sembra fatto di gomma. Più gli vai addosso e più ti rimbalza. È allenato. Da due mesi è sotto il tiro incrociato di chi lo indica come il gran cerimoniere di Terrazza Sentimento, incaricato di allietare le feste nell’attico milanese del suo anfitrione, procurandogli droga e ragazze su cui scatenare le sue perversioni. O come un gran furbo che appena ha sentito aria di manette è fuggito a Bali, in Indonesia. Sono accuse pesanti e Leali le prende di petto. Va in tv, accetta l’uno contro tutti, si fa intervistare, fa imbestialire uomini e, soprattutto, donne, ribatte colpo su colpo tutte le accuse e quando non può ribatterle, prova a schivarle. Accomodato su un divano accanto alla fidanzata Marilisa Loisi, in un loft che sembra uscito da una rivista d’arredamento, consegna anche a Oggi la sua autoassoluzione: «Ho la coscienza pulita», dice.

Alcune ragazze l’hanno vista girare porgendo piatti di droga.

«Balle. La droga c’era, ma era di Alberto, era lui che se la procurava ed era lui a un certo punto della serata che la metteva a disposizione di tutti».

 Ne prendeva anche lei?

«No».

Come no?

«Questo è un aspetto delicato e certe cose le dirò ai magistrati».

È già stato interrogato dai magistrati?

«Al momento no. I giornali dicono che sono indagato. In realtà non ho ricevuto avvisi di garanzia e anche in tribunale non risulta nulla».

 Se le suonano il campanello di casa a cosa pensa: un pacco di Amazon o i Carabinieri?

«Ansie non ne ho. Vengano pure i Carabinieri. So di essere a posto».

Era al corrente delle perversioni di Genovese?

«So che amava il sesso estremo».

È vero che inviava agli amici i video delle sue “imprese”?

«Di certo non li inviava a me. Una volta m’ha mostrato un filmato sul suo cellulare. Uno schifo. Gli ho detto di fermarsi, mi veniva il voltastomaco. Vuole che racconti?».

Sorvoliamo.

«Meglio. Anche perché a monte di tutto c’è la droga. Certe cose da sano non le puoi neanche concepire. Quando ti strafai di cocaina e alcol non ci sei più con la testa».

Non poteva dirgli di cambiare abitudini?

«Non so quante volte l’ho fatto. “Scusa fratello, hai ragione”, mi rispondeva. Ai primi di ottobre m’aveva avvicinato la madre. Mi chiese aiuto per suo figlio, non lo vedeva più presente. Allargai le braccia. “Se non riesce lei che è la mamma…”, risposi».

Ha letto gli atti con la ricostruzione dello stupro?

«Lettura orripilante. Al di là di ogni immaginazione».

Lei forse avrebbe potuto immaginare, non crede?

«Come potevo? La ragazza era finita in ospedale, la Procura aveva aperto un’inchiesta, la casa era sotto sequestro e abbiamo pensato che Alberto si fosse spinto un po’ troppo in là. Ma tutti, vittima compresa, abbiamo scoperto quel che era successo dopo che i Pm sono riusciti a vedere i filmati».

Prima dell’arresto di Alberto lei se n’è andato a Bali. Fuga?

«No, un’altra leggenda. Sono partito per incontrare un italiano che sta a Shanghai, mio socio in un resort a Boracay, nelle Filippine. Volevamo aprire anche a Bali, ma visto il polverone, abbiamo deciso di lasciar perdere. In ogni caso non mi sembra d’aver avuto l’atteggiamento del fuggitivo. Ho risposto a chi mi chiamava, ho fatto collegamenti tv e il 19 dicembre sono tornato. In frontiera mi hanno bloccato: “Abbiamo una notifica per lei”. Dopo due ore mi hanno detto che potevo andare perché non c’era nulla».

Dagli atti risulta che Alberto abbia cercato di cancellare i video. Nel mese intercorso tra la festa e l’arresto, non le diceva di essere preoccupato?

«No e non lo dava nemmeno a vedere. Il giorno del suo arresto doveva fare un trapianto di capelli, poi voleva sparire dalla circolazione per non farsi vedere con bende e cerotti sulla testa. Gli avevo proposto di venire con me e Marilisa a Bali. Ma lui preferiva Zanzibar. L’avevo accompagnato in questura per rinnovare il passaporto e quel passaggio deve aver fatto pensare a un piano di fuga. Subito dopo è scattato l’arresto. Del resto, se davvero sono successe certe cose...».

Perché “se”? È tutto filmato, dubbi non ce ne sono.

«Il resoconto degli inquirenti è sconvolgente. Non condivido la ricostruzione dei media. Vogliono far passare la storia di Cappuccetto Rosso finita tra le grinfie del lupo mannaro».

Non è così?

«Spero solo che i Pm vadano a vedere chi sono le vittime o presunte tali».

Presunte mica tanto. Il medico legale che ha visitato la ragazza seviziata da Genovese dice di non aver mai visto nulla di simile.

«Ribadisco il concetto. Alberto deve pagare. Però, se l’inchiesta non si ferma tra le quattro mura della stanza da letto e qualcuno ha voglia di guardarsi attorno ci sono tante cose interessanti da scoprire sulla vita milanese. Potrebbero essere utili a prevenire altre storie come questa».

Se è per questo l’inchiesta s’è già allargata e a denunciare Genovese si sono aggiunte altre cinque ragazze.

«Appunto. Quando c’era da andare con Alberto su un jet o in un beach club a bere champagne andava bene, adesso è diventato un mostro. Fino a ieri condividevano le sue perversioni, vivevano in casa sua, usavano la sua carta di credito e oggi, di colpo, si accorgono di aver subito violenza e di aver diritto a un risarcimento».

Vedremo... Secondo lei come può un uomo che dalla vita ha avuto tutto, finire bruciato in un fuoco fatuo di orge e droga?

«Materia per psicologi. La deriva è iniziata quattro anni fa quando ha smesso di lavorare. Voleva riscattare il suo passato, i 25 anni che lui diceva persi, segregato davanti a un computer. Voleva prendersi una rivincita, godersi la vita. Avvicinarsi alla droga e alle donne, avendo a disposizione tanto tempo e danaro in quantità illimitata, è stato per lui letale».

Chi è per lei Genovese? Un socio o un amico?

«Tutti e due. Ci siamo conosciuti sei anni fa quando lui è entrato in società nel Tipic, il mio locale di Formentera. Sentivo una gran fiducia da parte sua, ma io lavoravo estate e inverno e non abbiamo mai avuto il tempo per frequentarci. Col Covid tutte le mie attività si sono fermate, abbiamo cominciato a vederci più spesso ed è nata un’amicizia».

Feste su feste.

«No facevamo anche progetti. Lui metteva soldi e idee, io le capacità manageriali. Mi sentivo in un percorso importante. Dovevamo aprire una catena di locali in giro per il mondo, partire con un resort alle Baleari... si è fermato tutto. Sono a casa con Marilisa, mia compagna da dodici anni. Non faccio niente e aspetto tempi migliori».

Gisella Desiderato per Novella 2000 il 14 gennaio 2021. Lui è Daniele Leali, fidanzato da 12 anni con Marilisa. Non vip, ma finito su tutti i giornali, spesso in tv in quanto considerato «braccio destro» di Genovese, genio delle start up, fondatore di Facile.it e Prima Assicurazioni, arrestato il 6 novembre con l’accusa di violenza e sequestro di una diciottenne durante la festa del 10 ottobre, nella sua casa di Milano. Quella con la “Terrazza Sentimento”, vista Duomo, su cui si sarebbero consumati feroci rapporti sessuali. Da allora altre cinque ragazze accusano Genovese di violenza. Daniele è sospettato (ora che scriviamo non indagato) di aver distribuito droga alla festa. Ad accusarlo una ragazza: «C’erano due piatti per tutti. Li ha portati Daniele Leali: in uno c’era 2CB, coca rosa, nell’altro Calvin Klein, chetamina e cocaina».

Daniele, dopo quella festa è partito per Bali. Molti pensavano fosse fuggito.

«Da Dicembre sono in Italia. Era un viaggio di lavoro già programmato. Dopo l’arresto di Genovese, i dettagli, li ho saputi quando ero a Bali, subito mi sono offerto di collaborare, sarei tornato prima se i pm mi avessero convocato. A oggi non l’hanno fatto. Non ho avvisi di garanzia, per fare chiarezza il mio avvocato Sabino Di Sibio ha presentato la “richiesta 335”, si chiama così. Ha chiesto ai magistrati se ci sono indagini su di me, se entro tre mesi non rispondono (scadono a marzo, ndr), sono estraneo».  

Lei è vocalist e titolare di un locale a Formentera e di un ristorante a Boracay, nelle Filippine.

«Nasco vent’anni fa come vocalist, poi sono passato a organizzare party, da dieci anni sono titolare del Tipic, discoteca di Fomentara, e del Beach Club, ristorante nelle Filippine. In Italia ho un format di hip hop reggaeton, organizzo spettacoli nei locali italiani. Tutto bene fino al 26 febbraio, poi col Covid lo stop. Mi sono trovato senza entrate».

Finito il primo lockdown, cosa ha fatto?

«A giugno sono andato a Formentera con Alberto, sembrava che i locali riaprissero, ma a metà luglio hanno deciso di lasciarli chiusi. Alberto aveva preso una casa per stare due mesi in vacanza, uno a Formentera, uno a Ibiza. Io gli dico che sarei tornato in Italia. Lui: “Non preoccuparti, mi fa piacere se rimani con me tutta l’estate. A livello economico ti aiuto io”».

Cioè, Genovese ha pagato tutto?

«Ha pagato gli extra: alloggi, affitto, jet privati per spostarsi, spese importanti. Alla quotidianità mia, pensavo con le mie risorse. Così abbiamo trascorso l’estate tra Formentera e Ibiza fino ad agosto. Ero con Marilisa, lui con Sara, e c’erano una quindicina di persone con cui uscivamo, ogni tanto si univano altri. Facevamo feste, andavamo in barca».

Deve essere molto legato a Genovese.

«È socio del Tipic di Formentera, ne ha rilevato delle quote nel 2014. È così che l’ho conosciuto, me l’ha presentato un amico comune».

Il 2014 era l’anno in cui Genovese vendeva Facile.it incassando cento milioni. Diventava milionario in un istante. Un periodo euforico per lui.

«Era in una fase di svolta. Fino ad allora era il tipo che lavorava 18-20 ore al giorno, solo fatica e genialità. Poi a 35 anni gli è scattata la voglia di godersi la vita. Ha pensato di investire nei locali notturni, non come business, ma come occasione per “vivere” un po’». 

In effetti dopo il 2014, Alberto fonda Prima Assicurazioni, agenzia digitale di polizze Rc auto, nel 2018 riceve un investimento di 100 milioni di euro da Goldman Sachs e Blackstone. Nel 2019 ha oltre 130 milioni di premi, a luglio 2020 supera i 900 mila clienti. In pratica, con Prima Assicurazione fa soldi, col locale di Formentera si diverte.

«Sì, a Formentera ha fatto un investimento minimo, era un modo per godersi il tempo libero, veniva, conosceva gente, pranzava fuori. Io lavoravo tutto l’anno, gestivo tutto, nei primi quattro anni e mezzo non lo vedevo tanto».

Quando siete diventati amici.

«Da Natale 2019, abbiamo fatto una bella cena insieme, io ero con Marilisa, lui con Sara, con cui era fidanzato».

Sara, ora nota come l’ex di Genovese, sono ex da agosto, indagata per concorso nelle violenze e cessione di droga. Una ragazza ha detto che Sara era presente, la notte a Ibiza, quando avrebbe subito la presunta violenza. Lei c’era?

«Sì. Dopo cena, ho visto Alberto e Sara che si allontanavano verso l’abitazione di Alberto con questa ragazza che poi ha denunciato. Ho rivisto la ragazza l’indomani mattina, tutti e tre uscivano dalla camera di Alberto. La ragazza è tornata a dormire nella sua stanza».

Ha avuto sentore che si fosse consumata una violenza?

«No, ho pensato a una notte di sesso estremo e droghe. Credo che Alberto e quella ragazza avessero passato una serata anche a Milano. Ad Alberto piaceva legare, mettere manette. La mattina successiva ho visto che quella ragazza aveva lividi, ecchimosi, ma non si lamentava. Anzi, una serata successiva si è lamentata perché non l’abbiamo invitata a cena, per il Covid non c’era posto, voleva esserci. Mi è sembrato strano sapere, poi, che ha denunciato Alberto».

Ha mai saputo se Genovese pagava le donne con cui faceva sesso?

«Lui mi ha sempre detto che non gli piaceva pagare le donne, non so se dicesse la verità. Ma a me non piaceva parlare di questo, non ne ho più parlato. Né di questo, né di altri “vizi”. Mai ricevuto foto o video hard inviati ad altri».

Secondo lei Genovese è cambiato nel tempo?

«Dall’estate, ho visto che stava abusando di droga. Fino a giugno era ok. Dopo ho percepito del pericolo. Spariva per due giorni, si chiudeva in stanza. Gli dicevo: “Alberto devi darti una controllata. Da amico ti consiglio di andarci più piano, questa non è una bella vita”».

Sara, la fidanzata, gli diceva le stesse cose?

«Mi sembrava travolta anche lei».

A fine agosto tornate in Italia: cosa succede?

«Alberto a maggio aveva aperto il Prima Cafè a Milano, per pubblicizzare la sua attività. Sapendo che sono disponibile a lavorare, mi fa parlare col suo socio di Prima Assicurazioni. Né io né lui volevamo parlare di soldi, tra amici è imbarazzante. Col socio siglo l’accordo: un contratto a tempo indeterminato di consulenza come pr del Prima Cafè».

Quanto la pagano?

«4700 al mese, più 2000 di benefit per beverage&food. Programmiamo l’inaugurazione il 17 settembre. Il locale inizia a rodare prima, il gestore mi riconosce una percentuale sui profitti. Alberto mi dice che vuole aprire 30 locali nel mondo, sono contento, ho un progetto di espansione di lavoro».

Intanto sulla Terrazza Sentimento si svolgevano le feste di Genovese.

«Era diventata una location cool, attrattiva. Ho iniziato a ricevere telefonate di gente che voleva fare lì feste di laurea. Rispondevo: “No, è una casa privata”. Il giro si è allargato».

Lei portava gente alle feste. Anche a quella del 10 ottobre. Veniva pagato?

«No. Era divertimento. Lui, per organizzarle, aveva una chat con due assistenti. Il mio ruolo era marginale, per le ultime tre ho redatto liste cartacee».

Dicono che ci fossero vip e professionisti, per esempio notai importanti.

«Sì, è vero».

I telefonini si potevano portare?

«Fino a giugno, quando abbiamo fatto la chiusura di Terrazza Sentimento. Il 28 o 29 giugno con lo show cooking di Cracco. Festa bellissima. Il giorno dopo siamo partiti per Formentera».

Dopo l’estate cosa è cambiato?

«Alla festa di ottobre Alberto ha voluto cambiare orari. Anziché iniziare alle 19-20 e finire alle 5 di mattina, ha deciso di iniziare le feste alle 12, e farle terminare alle 24. Anche per evitare lamentele dei vicini (tra cui, Roberto Bolle, che si è lamentato del chiasso, ndr)».

È cambiato anche che i cellulari dovevano essere lasciati all’ingresso.

«Rimanevano sempre a disposizione, chiunque poteva andare all’ingresso e usarli lì. Questa idea è nata a Ibiza quando i locali erano chiusi, le persone si vedevano a casa, per la geolocalizzazione rischiavano di essere rintracciabili, spegnevano i cellulari. Poi, una festa senza cellulari è più bella, la gente parla senza stare attaccata a uno schermo».

Alla festa di ottobre ha visto droga?

«Nelle ultime due feste ho visto due piatti in un angolo della casa».

Una ragazza ha detto che alla festa di ottobre lei serviva piatti con la droga rosa. È vero? 

«No, non servivo niente. Ho visto due piatti, in un angolo, con della droga. Erano a disposizione di chiunque».

Si è mai chiesto da dove venisse la droga?

«Non so da dove venisse. Presumo se ne occupasse lui personalmente».

Ha detto di essere stato l’ultimo ad andare via da quella festa.

«Sì, era più o meno mezzanotte e mezza. Alberto non lo vedevo,  era nella sua stanza. Lo avviso con un messaggio, mi risponde “ok”. Il giorno dopo non sento nessuno. Il giorno dopo ancora mi chiama un amico: “Ma cosa è successo alla festa? Una ragazza è in ospedale”.

Non ne sapevo nulla. Dopo qualche giorno vedo Alberto, aveva avuto la casa sotto sequestro, lo vedo dispiaciuto, conoscendo il suo stile di vita, penso alla droga, non alla violenza. Penso abbia superato i limiti nei suoi giochi erotici».

Poi i racconti sono confusi. Secondo le ricostruzioni, Genovese sarebbe stato una ventina d’ore chiuso nella stanza con una diciottenne che, dopo essere fuggita, ha fermato la prima volante della Polizia per strada, dicendo di essere stata prima drogata, poi stuprata.

Nella borsa della ragazza sono stati trovati 3.500 euro pare bruciati da Genovese, che le aveva chiesto la carta d’identità per assicurarsi che fosse maggiorenne, ma lei gli ha dato solo il codice fiscale. Cosa pensa delle ragazze che partecipavano alle feste?

«Sono sempre stato liberale. Mai additato nessuno per lo stile di vita. Da buono, non ho mai visto del marcio, che però sto vedendo ora in queste ragazze. Molte sono arriviste, darebbero l’anima al diavolo pur di avere benefici economici, una bella vacanza costosa. A 18 anni avevo un orario di rientro. Non capisco come possa una ragazza stare fuori di casa tanto tempo senza essere seguita dalla famiglia».

Sta giustificando Genovese?

«No. Se c’è stata violenza, è giusto che Alberto paghi, capirò che ha una doppia personalità. Ma oggi c’è un’indagine in corso, aspettiamo gli esiti».

Si rimprovera qualcosa?

«Avrei voluto farlo desistere da questo stile di vita estremo. Forse, se avessi insistito di più quando gli dicevo di calmarsi... non era facile, lui ha continuato».

Cosa prevede per il suo lavoro?

«Sono fermo. Spero in un progetto a Bali. Al ristorante mi hanno detto che la mia immagine si è sporcata. Il locale di Formenterà probabilmente fallirà, Alberto non credeva più in quel business, voleva virare su cose “diurne”, “facciamo Beach club, non discoteche”, diceva. E il contratto di pr con Prima Cafè mi è stato disdetto il 10 novembre. Sono senza niente. Devo reinventarmi».

Ha rotto l’amicizia con Alberto?

«L’amicizia da parte mia non finisce. Alberto può aver avuto problemi da uomo. Ma è il genio europeo dell’on line, se ha sbagliato, appena potrò, gli farò la predica, rimarrò distante dai suoi errori. Ma l’amicizia e il livello lavorativo rimangono».

Caso Genovese, due vittime raccontano le violenze: "Anche noi stuprate alle feste a Terrazza Sentimento". La Repubblica il 25 gennaio 2021. Le rivelazioni di due ragazze che già hanno presentato denuncia in procura nell'intervista a La7 durante la trasmissione "Non è l'Arena" di Massimo Giletti. Una settimana prima di essere arrestato per le violenze a una modella di 18 anni, Alberto Genovese avrebbe abusato anche di una ragazza di ventidue anni: una denuncia già formalizzata davanti ai pm di Milano che si occupano dell'inchiesta sulle violenze nell'appartamento milanese dell'imprenditore e che adesso diventa anche una confessione tv: "Anche io sono stata vittima delle violenze nella stanza da letto di Genovese. Ho capito di essere stata violentata perchè, lo scorso ottobre e anche all'inizio di novembre, ho avuto forti dolori dopo i rapporti con lui. Quando ho saputo della diciottenne violentata, ho capito che è successo anche a me. Ho avuto di nuovo la percezione del dolore che provavo". La vittima ha spiegato che frequentava già da settembre Genovese, dopo la fine della relazione con la sua ex Sarah. "Mi ero affezionata molto a lui - ha detto ieri in tv - e tuttora gli voglio bene. Quando Alberto non è sotto l'effetto delle droghe è una brava persona". Il racconto della ventiduenne, durante una intervista con Massimo Giletti ieri sera nel programma "Non è l'Arena" su La7, è una delle sei denunce su cui lavora la procura. Anche un'altra ragazza, ventenne, ha confermato ieri di aver presentato denuncia nei confronti dell'imprenditore, fondatore del sito Facile.it, dopo aver appreso dell'altra violenza subita dalla diciottenne. Tutte le violenze si sarebbero consumate nella stanza da letto di "Terrazza Sentimento". Anche le due giovani, come altri testimoni a partire dalla prima vittima, hanno raccontato che nell'attico la cocaina girava nei piatti ed era a disposizione di tutti gli ospiti che ne facevano uso come in una "sorta di self service". Sulle nuove denunce stanno indagando i giudici della Procura di Milano.

 (ANSA il 4 gennaio 2021) - Aumenta il numero delle ragazze che hanno denunciato Alberto Genovese, l'imprenditore del web finito in carcere il 6 novembre per aver stordito con un mix di droghe e per aver stuprato una 18enne ospite ad uno dei festini nel suo attico di lusso a Milano. Da quanto si è saputo, infatti, oltre al caso degli abusi nei confronti della 18enne e alle altre tre denunce già note, altre due giovani hanno presentato denuncia in Procura e sono già state ascoltate nell'inchiesta condotta dalla Squadra Mobile e coordinata dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro. Sarebbero, dunque, almeno sei in totale i presunti episodi di violenza sessuale e cessione di droga su cui inquirenti e investigatori stanno indagando, cercando anche riscontri ai racconti messi a verbale dalle ragazze che hanno sporto denunce nei giorni scorsi. Il cosiddetto "mago" delle start up digitali, dunque, si ritrova indagato, proprio a seguito delle varie querele delle ragazze, per diversi episodi, oltre ai presunti abusi del 10 ottobre scorso per i quali è rinchiuso a San Vittore da novembre. Due nuove denunce erano state presentate già a metà dicembre da altrettante giovani, che hanno partecipato alle sue feste a base di cocaina e che sono assistite dall'avvocato Ivano Chiesa, legale storico di Fabrizio Corona. Denunce che hanno portato, come automatismo per le verifiche, all'iscrizione nel registro degli indagati di Genovese anche per quei presunti abusi che, secondo il racconto delle giovani, sarebbero avvenuti tra Milano, Ibiza e Mykonos e sempre dopo il consumo di droghe offerte dall'imprenditore. Un'altra giovane di 23 anni in precedenza aveva parlato di ciò che le sarebbe successo la scorsa estate a Ibiza: "Da quando sono entrata in camera ed ho tirato una striscia di stupefacente di colore rosa che io pensavo fosse 2CB, non ricordo più nulla (...) L'unica cosa che ricordo è una sorta di stato allucinogeno". Per questo episodio è indagata per concorso in violenza sessuale anche l'ex fidanzata di Genovese, la quale interrogata dai pm ha respinto le accuse. Altre due denunce, infine, sono state depositate in Procura nei giorni scorsi e le ragazze sono già state sentite a verbale. Simili tra loro i racconti delle giovani e tutti da approfondire cercando riscontri. Mentre in corso ci sono indagini anche sul fronte patrimoniale e finanziario di Genovese (per verificare pure eventuali profili di violazioni fiscali e di presunto riciclaggio), accertamenti collegati a quelli sul presunto giro di droga per le feste. Nell'inchiesta il presunto “braccio destro” dell'imprenditore, Daniele Leali, è indagato per spaccio di droga.

Da liberoquotidiano.it l'11 gennaio 2021. La ragazza che ha accusato di violenza sessuale Alberto Genovese "porterà delle cicatrici permanenti su tutto il corpo, avrà il marchio di Genovese per tutta la vita. Si vede nei video che la droga le viene somministrata da tutte le parti...". Ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena, l'ex legale della 18enne Saverio Macrì si chiede perché l'amico dell'imprenditore Daniele Leali "non prenda il distacco da questo criminale schifoso". Poi getta una luce sinistra sulla scelta della vittima di cambiare il suo staff di avvocati: "Sono suoi amici e presunti migliori amici, una corte dei miracoli che non fanno gli interessi della ragazza, ma perseguono solo interessi economici". "Lei mi sta dicendo che si potrebbe arrivare a un accordo con Genovese?", chiede Giletti sconcertato. "Assolutamente sì, quando secondo me si poteva arrivare a una condanna esemplare".

Da liberoquotidiano.it l'11 gennaio 2021. A Non è l'arena su La7 dettagli sconcertanti dalla notte del presunto stupro di Alberto Genovese a Ibiza, ai danni di una ragazza ospite della villa insieme ad altri amici. Con loro due, nella camera da letto in cui secondo l'accusa si è consumata la violenza sessuale la scorsa estate, c'era anche Sara, la fidanzata dell'imprenditore. E Massimo Giletti in studio legge la testimonianza fornita dalla compagna di Genovese: "Con M. e Alberto abbiamo ballato, poi siamo finiti sul letto dove ci siamo toccati. Poi ci sono stati dei rapporti orali sia da parte mia che di M. verso Alberto". Quindi la corsa verso la depravazione: "C'è stato un primo rapporto vag***e tra M. e Alberto. Lei gli ha detto che aveva le mestruazioni, ma ad Alberto non dava fastidio. Io ricordo tutto, la ragazza era attiva e partecipava". Poi Genovese e la fidanzata hanno consumato un rapporto "mentre l'altra ragazza assumeva un'altra sostanza. Ha cominciato ad agitarsi, diceva che stava male, siamo andate in bagno ma ha vomitato, era pallida, sudava". 

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 25 gennaio 2021. A fine ottobre, una settimana prima di essere arrestato per le violenze terribili a una modella di 18 anni avvenute tra il 10 e l' 11 dello stesso mese, nella stanza da letto di «Terrazza sentimento» Alberto Genovese avrebbe violentato un' altra ragazza di 20 anni. A rivelarlo è la giovane in una drammatica intervistata in esclusiva con Massimo Giletti a «Non è l' Arena» su La 7 alla quale ha partecipato anche una studentessa di 22 anni, la quale, a sua volta, ha denunciato di essere stata stuprata al pm milanese Rosaria Stagnaro e all' aggiunto Letizia Mannella che ora accusano il re delle startup di sei violenze, secondo lo stesso copione. Le due giovani, assistite dall' avvocato Ivano Chiesa, hanno detto di essersi decise a presentarsi solo a dicembre agli inquirenti dopo che è emersa la prima violenza denunciata immediatamente dalla vittima, perché «non si erano rese conto di cosa fosse successo». La ragazza di 20 anni, anche lei modella, ha dichiarato di aver sospettato di essere stata stuprata perché provava forti dolori. I video delle 19 telecamere di sorveglianza dell' attico e superattico con piscina a due passi dal Duomo, sequestrati dai poliziotti della Squadra Mobile diretti da Marco Calì, confermano le violenze selvagge. «Spero che tutto questo possa servire» alle altre donne violentate, ha detto. Anche le due giovani, come altri testimoni a partire dalla prima vittima, hanno raccontato che nell' attico la cocaina girava nei piatti ed era a disposizione di tutti gli ospiti che ne facevano uso come in una «sorta di self service». «Non si percepiva alcun pericolo», hanno aggiunto. Una a luglio era presente a «Villa Lolita» di Ibiza, teatro di un altro stupro. Rispondendo a Giletti, questa ha detto che non aveva capito quanto fosse accaduto, ma di aver visto in che condizioni era la vittima, portata a braccia e in stato confusionale fuori dalla camera in cui aveva avuto rapporti, anche in quel caso dopo essere stata drogata, con Genovese e con la fidanzata di questi, Sarah Borruso (accusata di concorso in violenza sessuale). «Mi sono spaventata», «stava sulle gambe a fatica» e «mi sono arrabbiata». Cosa era accaduto «me l' ha raccontato lei il giorno dopo», «abbiamo pianto» e ci siamo sfogate a vicenda», ha riferito. Nonostante la denuncia, però, alla domanda se prova qualcosa nei confronti del 43 enne napoletano con il quale sembrava fosse nata una relazione, la 20enne ha risposto: lui era «una persona bravissima» che, però, si trasformava quando si drogava. «Innamorata non riesco a dire». «Tuttora gli voglio bene».

La ragazza che per prima ha denunciato Genovese: «Così ora provano a screditarmi». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 21/1/2021. La diciottenne vittima dell'imprenditore è presa di mira in Rete: «È un incubo. Mai stata una escort». La violenza nei video delle telecamere. Più tenta di schivare notizie e immagini che possono ricacciarla indietro nel tempo e nello spazio, più Francesca ripiomba in quello che chiama «il mio incubo» in casa di Alberto Genovese. È l’effetto ridondante della Rete che amplifica ogni cosa, come le «accuse» di essere una escort che si è inventata tutto perché vuole i milioni del mago delle startup, dimenticando che ci sono ore e ore di video delle 19 telecamere installate nell’appartamento che, secondo l’accusa, certificano didascalicamente la brutalità della violenza che ha subito e che hanno portato il 43enne a San Vittore. «Ho la sensazione di dovermi continuamente difendere. Potrebbe essere un’occasione valida per affrontare il tema della violenza sessuale, invece c’è chi si scaglia contro di me» dice, scossa, la modella diciottenne. Come per molti ragazzi, anche per Francesca (il nome è di fantasia) è impossibile stare lontana da internet, dai social network. Da quando la sera dell’11 ottobre è riuscita a fuggire seminuda dalla splendida magione di Genovese a due passi dal Duomo di Milano, ha fermato una Volante dalla polizia e ha immediatamente denunciato di essere stata violentata, la psicologa che la sta aiutando a gestire il trauma le consiglia di stare lontana da tutto ciò che possa ricondurla alle ore in cui è stata preda di Genovese che l’aveva drogata e la usava come «una bambola di pezza», ha scritto il gip Tommaso Perna. Lei dice di provarci, ma ogni volta che in tv o in Rete qualcuno aggiunge qualcosa di inedito al suo «incubo», immediatamente c’è un amico o un’amica che le gira tutto, senza rendersi conto di versare sale sulle ferite ancora troppo fresche. Le hanno detto, ad esempio, che a Non è l’Arena di Massimo Giletti su La7 Daniele Leali, l’amico e organizzatore delle feste di Genovese indagato per spaccio di droga, ha raccontato che c’è un testimone che dice che quando aveva 17 anni lei si prostituiva con facoltosi imprenditori estorcendo, in un caso, denaro e usando una carta di credito. «Non è giusto che tutti parlino di me raccontando cose false, gettando m... È molto pericoloso», dice nello studio milanese del suo legale, l’avvocato Luigi Liguori. «Non sono mai stata una escort. Non ho mai estorto denaro a nessuno. Se ho avuto le carte di credito è perché avevo il consenso della persona. Di questa vicenda ho già detto tutto alla Polizia». Gli uomini della Mobile di Milano, guidati da Marco Calì, hanno già approfondito questa storia sulla quale, però, i legali di Genovese avrebbero raccolto materiale e testimonianze facendo indagini difensive. In tv si è presentata anche una giovane donna, Giulia Napolitano, la quale, mentre Giletti l’ammoniva ad assumersi la responsabilità di quello che stava dicendo, ha raccontato di aver incontrato nell’estate 2018 Francesca, che allora aveva quindi 16 anni, che «si spacciava per maggiorenne» in una festa in Sardegna, alla fine della quale la stessa Francesca si sarebbe «appartata» con un uomo. La modella 18enne ha un sorriso sarcastico: «Non la conosco, non so chi sia. Quell’estate sono stata con i miei genitori in Croazia. Ho decine di foto. In Sardegna sono andata la prima volta l’anno scorso con due amici, c’era anche la mamma di uno di loro». L’avvocato Liguori ha querelato tutti per diffamazione. E poi c’è Genovese il quale, nell’inchiesta dei pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini, coordinata dall’aggiunto Letizia Mannella, ha messo a verbale che, dopo aver assunto cocaina insieme (come ha detto la stessa ragazza) e dopo un primo rapporto sessuale consenziente, Francesca gli avrebbe proposto: «Dammi 3.000 euro e puoi fare quello che vuoi». Genovese avrebbe accettato per fare sesso estremo. La ragazza replica: «Non avevo alcuna volontà di stare con lui. Io e l’amica con la quale ero andata alla festa a Terrazza sentimento volevamo andare via subito. Lui ci stava addosso insistente, ci dava fastidio. Poi sono stata drogata da Genovese e mi sono trovata in camera da letto. Se avessi voluto soldi, non sarei andata via lasciando lì tutto, vestiti compresi, e non avrei fermato la Polizia per strada». Per un attimo, Francesca sembra pentita: «Con tutto quello che sta venendo fuori, mi chiedo se quella sera non sarebbe stato meglio tornare a casa in silenzio ». Ma si riprende presto: «Io ho denunciato perché è quello che bisognava fare, anche per le altre donne che si trovano nella mia condizione». 

Feste con coca e stupri. Salgono a sei le ragazze che accusano Genovese. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 4 gennaio 2021. Altre due denunce negli ultimi giorni. Da Milano a Ibiza sentiti cento testimoni. Dopo la diciottenne sequestrata e violentata per quasi ventiquattrore alla “Terrazza sentimento”, dopo la ventitreenne che ha denunciato un episodio simile a Ibiza, e dopo le altre due ragazze che hanno raccontato di altre violenze tra Milano e Mykonos, arrivano in procura altre due denunce contro Alberto Genovese. Ora sono sei le ragazze che chiamano in causa l’imprenditore delle start-up, in carcere dal 6 novembre accusato di sequestro, stupro e spaccio per la notte tra il 10 e l’11 ottobre scorso nel suo attico di lusso. Per trovare riscontri sui racconti delle ragazze, gli investigatori della squadra mobile di Milano, diretta da Marco Calì, hanno sentito oltre cento testimoni, tra ragazzine giovanissime invitate ai party a base di cocaina, modelle, pierre, amiche, amici, soci ed ex soci di Genovese. Se il primo caso di stupro è cristallizzato nelle registrazioni delle telecamere del sistema di videosorveglianza dell’attico, l’aggiunto Letizia Mannella e il pm Rosaria Stagnaro intendono verificare e trovare riscontri su tutti gli altri casi. La giovane che ha denunciato lo stupro nella vacanza tra l’1 e il 12 luglio scorso a Ibiza, ha fornito un racconto del tutto simile a quello della diciottenne sequestrata al party di ottobre, pur non conoscendo né lei né i dettagli dell’aggressione subita. «Da quando sono entrata in camera ed ho tirato una striscia di stupefacente di colore rosa che io pensavo fosse 2CB, non ricordo più nulla — aveva messo a verbale la ragazza parlando della sua esperienza in Spagna —. Al mattino, ho notato che avevo addosso la stessa gonnellina e lo stesso top di seta della sera prima che comunque era strappato, ma non avevo più né il reggiseno, né le scarpe. Avevo un sacco di lividi sulle gambe e un forte dolore ai polsi, non riuscivo neanche a ruotarli». Anche nei racconti di altre due giovani ci sono elementi che combaciano con quanto raccolto dagli investigatori. «Ma i casi che verranno portati a processo — è la strada che intende percorrere la procura — saranno solo quelli che supereranno ogni incertezza probatoria». Va avanti anche l’indagine finanziaria sulle società e il patrimonio di Genovese. Dopo aver venduto nel 2014 la sua creatura, Facile.it, l’imprenditore incassò cento milioni, movimentati e investiti in nuove avventure imprenditoriali. In questo nuovo filone d’indagine, coordinato dal pm Paolo Filippini, il Nucleo di polizia economico finanziario della Gdf di Milano ha ricevuto dalla squadra mobile un ingente mole di materiale. Documentazione contabile e societaria contenuta negli hardware sequestrati, selezionata sulla base di una trentina di parole chiave fornite dai finanzieri. L’indagine — che intende verificare profili di violazioni fiscali o eventuali casi di riciclaggio — si prospetta lunga. E comprenderà anche l’approfondimento delle “Segnalazioni di operazioni sospette” arrivate in procura. Quelle sui prelievi in contanti di decine di migliaia di euro, ma soprattutto quella allegata dalla Gdf agli atti dell’inchiesta sulla “Lombardia Film commission” e i revisori contabili della Lega. Un documento in cui Genovese compare a proposito della movimentazione di 18 milioni tra i notai Angelo Busani e Mauro Grandi, protagonisti di numerose operazioni finanziarie legate alla Lega. Ed è ancora lunga anche l’analisi del materiale video e audio sequestrato nell’appartamento di Genovese. Un lavoro complicato anche dal tentativo dell’imprenditore di cancellare l’intera memoria delle telecamere, poco prima dell’arresto. E l’analisi non finirà prima della metà di febbraio.

Giuseppe Guastella per corriere.it il 5 gennaio 2021. Potrebbero esserci altre due vittime di Alberto Genovese. Salgono così a cinque le giovani donne che avrebbero subito violenze prima di quella che a novembre ha portato all’arresto il mago delle startup e che ha visto vittima una giovane modella di 18 anni. La quale ora, con profonda amarezza, dice: «Le ragazze che hanno avuto la mia stessa esperienza e non hanno detto niente hanno, seppure in piccola parte, colpa anche loro per quello che mi è successo». È stato l’esame di ore ed ore di immagini registrate per mesi dall’impianto di sorveglianza dell’attico milanese teatro delle feroci violenze a permettere agli investigatori della squadra mobile di Milano di identificare e rintracciare le due ultime donne, anche loro giovani e belle, tra le decine di frequentatori della splendida residenza a due passi dal Duomo. Nelle memorie delle 19 telecamere installate in ogni angolo di «Terrazza sentimento» e sequestrate dagli investigatori sono archiviati molti rapporti sessuali, anche estremi. Alcuni sembrano ricalcare il feroce copione di quello subito dalla ragazza di 18 anni dopo che era stata stordita con la droga, come sostengono il pm Rosaria Stagnano e l’aggiunto Letizia Mannella. Solo una delle ultime due donne individuate sembra essersi resa conto di essere stata stuprata, ma nessuna ha presentato una querela formale contro Genovese, anche se non è escluso che i magistrati possano muoversi autonomamente se dovessero ipotizzare reati per i quali si può procedere d’ufficio. Genovese, 43 anni, è stato arrestato il 6 novembre scorso, circa un mese dopo la violenza alla modella di 18 anni. Che risale alla notte tra il 10 e l’11 ottobre, quando la ragazza, seminuda e in stato di choc, uscì dall’appartamento e fermò in strada una volante della Polizia denunciando subito di essere stata stuprata. Nei giorni successivi, la notizia di quello che era accaduto si diffuse tra i frequentatori di «Terrazza sentimento» e arrivò ad una 23enne che in estate era stata ospite dell’imprenditore a Ibiza. La giovane si presentò spontaneamente ai pm denunciando di essere stata violentata in Spagna alla presenza della fidanzata di Alberto Genovese la quale, per questo, è stata indagata per concorso negli abusi. A metà dicembre, un mese dopo l’arresto, altre due donne hanno querelato Genovese dichiarando di essere state anche loro vittime di uno stupro. «Denunciarlo adesso che è già in prigione non so a cosa possa giovare», dichiara la modella di 18 anni, secondo la quale ora «le denunce non cambiano molto. Prima avrebbero cambiato tutto» perché «avrebbero potuto evitare che capitasse di nuovo, e non l’hanno fatto»

Sandro De Riccardis per la Repubblica il 10 gennaio 2021. È stata una delle presenze più assidue al fianco di Alberto Genovese, da un anno fa fino all' arresto di novembre per lo stupro e il sequestro di una diciottenne nel suo super attico di lusso. Modella, venti anni, alta, bionda, molto bella, è stata protagonista di una storia parallela con Genovese nello stesso periodo in cui l'imprenditore delle start-up si lasciava e poi ritornava con Sarah, la fidanzata finita indagata con lui per violenza sessuale. Dopo essere stata sentita - da testimone - una prima volta in questura dagli investigatori della squadra mobile, diretta da Marco Calì, la ragazza ha presentato denuncia contro Genovese prima di Natale, e ieri è comparsa in procura. Dov' è rimasta per oltre tre ore davanti al procuratore aggiunto Letizia Mannella e al pm Paolo Filippini, titolare dell' inchiesta insieme all' altro pm Rosaria Stagnaro. «Non ho denunciato prima per vergogna e anche per paura - avrebbe detto la ragazza agli inquirenti -. Sono stata drogata e violentata anch' io, ma ho avuto timore di mettermi contro una persona che mi sembrava molto potente. Ho pensato che denunciare sarebbe stato inutile». In questo secondo esame davanti agli investigatori è stato chiesto alla ragazza di ripercorrere il suo racconto, precisando dettagli su quasi un anno di frequentazione con Genovese, sulle feste a base di cocaina nel super attico a pochi passi dal Duomo di Milano, quella "Terrazza sentimento" diventata tristemente nota dopo lo stupro della diciottenne nella notte tra il 10 e l' 11 ottobre scorso. Ma la ragazza ha parlato anche di una vacanza con Genovese a Mykonos a metà settembre e di altri viaggi. Soprattutto, è stata chiamata a chiarire i momenti più dolorosi della sua esperienza con l' imprenditore, quelle violenze a cui non ha potuto opporsi perché era in uno stato di incoscienza. Anche lei ha infatti raccontato, come le altre vittime, di essere stata drogata con sostanze che l' hanno sprofondata in uno stato di incoscienza prima di aver subito rapporti sessuali violenti a cui non ha potuto opporsi. Episodi consumati tutti a Milano, nell' abitazione dell' imprenditore. Per gli investigatori, il caso ricostruito ieri è il più delicato tra i sei denunciati dalle ragazze. Quello del 10 ottobre scorso che ha dato il via all' indagine è cristallizzato nei video delle telecamere a circuito chiuso della stessa camera da letto di Genovese. Un secondo caso a Ibiza, nella vacanza tra il primo e il 12 luglio, ha modalità molto simili a quello di ottobre, ed è considerato attendibile perché raccontato prima che quest' ultimo venisse reso pubblico, da una ventitreenne che non conosceva l' altra vittima. Le altre denunce hanno trovato riscontri nei video ma anche nella corposa corrispondenza telematica sequestrata a Genovese o fornita dalle vittime. Ed è per questo che gli inquirenti hanno voluto risentire la giovane e precisare ancora meglio il confine tra atti consenzienti e altri dai quali non ha potuto difendersi.

Giuseppe Guastella per corriere.it il 13 gennaio 2021. La confusione si alterna alla lucidità nell’interrogatorio di Alberto Genovese davanti ai pm milanesi che lo accusano di aver drogato e violentato una modella di 18 anni nel suo attico a due passi dal Duomo di Milano. È il 18 novembre, a 12 giorni dall’arresto il mago del web diventato milionario con le startup racconta di come si è rovinato la vita con la droga, quella che gli fa sentire le «voci» nel cervello e gli ha fatto fare cose «che non mi sarei mai sognato di fare». Alla prima violenza indagini e denunce ne aggiungeranno altre cinque.

«Non nuocerò alle donne». «Penso che questo processo mi possa dare la possibilità di dimostrare che non nuocerò più alle donne e alla collettività», dichiara riflettendo sulla corte dei miracoli che lo ha assecondato per anni e che ora sospetta fosse attratta più dal suo denaro che dalla sua amicizia, come le ragazze che andavano a «Terrazza sentimento» e che è convinto «fossero tutte prostitute», a partire dalla modella 18enne. «Non capisco se ci fosse una sorta di macchina succhia-soldi intorno a me e questa cosa mi fa stare male».

Interrogatorio fiume. Nelle cinque ore e mezza di domande e risposte i suoi avvocati (Luigi Isolabella e Davide Ferrari) chiedono un rinvio per le cattive condizioni dell’imprenditore dovute al carcere e all’astinenza. Lui, pur cedendo talvolta alla disperazione, continuerà a rispondere ai pm Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro come «dimostrazione di buona volontà», ma chiedendo «pazienza e comprensione» perché «il mio è il cervello di un tossicodipendente» e «sono tormentato dall’incapacità di distinguere la realtà dalla finzione». Le «allucinazioni uditive» lo tormentano da un anno e mezzo. Le sente «attraverso il respiro o il battito cardiaco, o da una mano che passa sulla stoffa, dai condotti dell’aria condizionata, dal rumore del movimento delle suole delle scarpe sul pavimento». Non si è mai rivolto a un medico. Solo in carcere ha capito che potrebbe essere legato alla cocaina.

«Ho iniziato a pippare». C’è un prima e un dopo nella sua vita. Il confine è l’agosto del 2015, quando «ho cominciato a pippare». Due anni dopo smette di lavorare. Di fronte ai pm che vogliono approfondire quello che è accaduto a casa sua tra il 10 e l’11 ottobre, le dichiarazioni di Genovese sembrano più razionali. Dice di avere «ricordi molto confusi», ma rivede loro due a letto che si drogano durante un amplesso con momenti di tenerezza. L’accusa, basandosi su una ventina di ore di video che dettagliano lo stupro, sostiene che Genovese avrebbe stordito la ragazza con una droga diversa da quella presa da lui, abusando di lei anche quando lo implorava di smettere. Ricostruzione opposta quella dell’imprenditore il quale dice che la modella gli avrebbe proposto: «Dammi 3.000 (euro, ndr) e puoi fare tutto quello che vuoi». Questo lo aveva reso felicissimo al punto da chiamarla la sua «idola»: «Ho preso i soldi dal comodino e glieli ho contati. Lei è andata in bagno, credo a contarli. Ricordo che è tornata dal bagno nuda e con la borsetta mi ha detto “eh, eh”. Allora sono andato nello studio, ho preso un’altra manciata di soldi, forse una mazzetta intera di 10.000». «Lei si è stupita dicendomi “figuriamoci se non hai mai pagato una prima”. Io cerco di illudermi che non ci sia una correlazione diretta tra il fatto che faccio loro dei regali e il fatto che stanno con me», spiega. Le propone altri 500 euro «se si fosse fatta legare» e se avesse urlato, «ma non tanto da essere sentita dal condominio». Di questi colloqui e movimenti al momento non c’è riscontro negli atti dell’accusa.

«Ero terrorizzato, era minorenne». Con il passare delle ore, sorgono in lui dubbi sull’età della ragazza perché teme sia minorenne. Rovista nella sua borsetta senza trovare certezze tra i documenti di identità. «Ero terrorizzato perché avevo fatto sesso con una prostituta minorenne», dichiara. Per questo «ho bruciato i soldi con un cannello da cucina». Dice di aver invitato la modella ad andare via. È l’inizio di quella che definisce la sua «tragedia». Quando nei giorni successivi viene a sapere che la modella è maggiorenne, inizialmente si stente «sollevato». Per darle ciò che le deve, manda alla ragazza 8.000 euro tramite Leali. «Uno dei ricordi più dolorosi per me in carcere è stato sentire da Daniele di stare tranquillo, che tutto era a posto, che i soldi non li aveva voluti, che anzi sarebbe venuta in vacanza assieme a noi, che tutto era risolto». Invece la ragazza lo aveva denunciato appena uscita da Terrazza sentimento a una volante della polizia fermata in strada. Genovese dice che quella era la «punizione» per non aver pagato.

UN LETTORE CI SCRIVE: “GIUNTI ALLA MILIONESIMA VOLTA IN CUI UN TRIBUNALINO TELEVISIVO O GIORNALISTICO CONDANNA IL SIG. GENOVESE ALBERTO PER STUPRO, AVREMMO DIECI DOMANDE DA PORRE ALLA VITTIMA INTERVISTATA. Dagospia l'1 febbraio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Giunti alla milionesima volta in cui un tribunalino televisivo o giornalistico ci spiega e condanna il sig. Genovese Alberto per stupro (abbiamo capito!!!) con tanto di avvocati e “periti” di parte (solo una, ovviamente), di deposizione delle vittime (o presunte tali, spetta ai magistrati), dopo che ci ha ripetuto che i medici non hanno mai visto nulla di così “efferato” (per loro urge uno stage nei luoghi di guerra), sommessamente ricordando che saremmo ancora nel Paese di Cesare Beccaria e che il reo – un uomo chiaramente precipitato nell’abisso - andrebbe recuperato evitando di usare perennemente il tono del “buttate la chiave” contro l’“orco”. Quindi, al solo fine di comprendere il fenomeno sociale dei comportamenti giovanili nelle notti milanesi - non si mette in dubbio il “reato”, non si fa quello che le maestrine di una “pesudoscienza” (K.R.Popper) definiscono  “vittimizzazione secondaria” – avremmo dieci domande da porre alla vittima intervistata e alle altre presunte vittime che nessun giornalista sembra si senta di porre per non infrangere il muro del conformismo dilagante:

1) Che scuola fa o ha fatto la ragazza vittima? Perché ha, eventualmente, lasciato la scuola? Si rendono conto ragazze come queste che non sanno nemmeno parlare italiano (verbi coniugati in maniera sbagliata e non distinguono la differenza tra la parola “onere” e “onori”. Dicono: “Ci viene offerta la droga per fare gli oneri di casa”)?

2) Che lavoro fa e con quali guadagni? Come si mantiene questa ragazza? Guadagna abbastanza per il suo tenore di vita?

3) Dove vive e con chi? Che rapporti ha con la propria famiglia? Deve riferire a qualcuno quando non rientra a casa di notte? A chi? Dove aveva in previsione di dormire quella notte?

4) Con quali soldi acquista la droga quando “vuole divertirsi”, oppure se la fa sempre regalare? E se è così, e va in casa di “persone più vecchie” (ha detto così la ragazza), dove si trova droga gratuitamente, pensa che la droga le venga data in cambio di qualcosa o liberamente?

5) Se uno vuol stare con degli amici, immaginiamo amici reali e conosciuti da più di un minuto, perché va a casa di un uomo adulto?

Non bastava mettersi veramente d’accordo tra amici e trovarsi a casa propria (sempre, per altro, che ciò non fosse regolare per il Dpcm in atto)?

6) La ragazza paga o ha mai pagato le tasse? Sa che dalle tasse che un cittadino versa una quota (circa lo 0,4% del Pil ) viene usata per combattere la droga? Il fatto che il consumo di modica quantità sia stato depenalizzato non significa che lo Stato italiano abbia liberalizzato il consumo delle droghe. Lo Stato è impegnato contro la diffusione della droga che ha un costo sociale altissimo. Lo sanno queste ragazze?

7) La ragazza sa che quando uno le offre della droga questi sta commettendo un reato e che, di fronte a un reato un buon cittadino chiama la polizia e se ne va? Ovvero, si chiama la polizia non solo quando si è vittime di un reato, ma anche quando osserviamo il consumarsi di un reato. Se vedo un furto in gioielleria chiama i carabinieri non va davanti alla gioielleria sperando che cada un anellino dal sacco dei malviventi! Quest’ultimo atteggiamento, infatti, favorisce la diffusione del reato: se nessuno assumesse droga non ci sarebbe il narcotraffico!

8) Non è lesiva dell’immagine del nostro Paese e della città di Milano continuare a ripetere che in tutte le feste “fighe”, “ricche” ecc. ecc. circoli droga? Nelle feste dove vanno e cercano di andare queste ragazze circolerà droga! Nelle case e ai ricevimenti di persone più locupletate e qualificate di Genovese non ne circola alcuna droga! Si può dire a queste ragazze che “far festa” non è la finalità dell’agire umano e “far festa” non vuol dire drogarsi per godere “di più” e andare fuori di testa?

9) Tre giorni dopo l’accaduto stava per uscire dall’ospedale (con i traumi gravissimi riscontrati dai “sanitari”), come dichiarato dalla vittima, o era a un’altra festa come dichiarato dal sig.Leali? O entrambe le cose (ma i sanitari non hanno dato un periodo di convalescenza atto anche a stabilire l’eventuale gravità penale delle lesioni)?

10) Le dichiarazioni rilasciate da persona straniera, che ha riferito di aver contattato con la sua compagna la ragazza vittima di Genovese sul sito Tinder circa un anno prima dell’accaduto in esame (quando risulterebbe ancora minorenne) e che lei ha accettato di incontrarli più volte  in cambio di soldi (per parlare), che in sua assenza si è impossessata illecitamente di denaro e della carta di credito usandola per proprio interesse corrisponde al vero oppure no?

Tutte queste risposte nulla cambiano sull’episodio al vaglio della magistratura ma, giunti alla milionesima volta in cui un tribunalino televisivo o giornalistico ci spiega (!) le cose, ecco, forse, sarebbero utili per capire quali siano effettivamente i comportamenti di queste giovani ragazze in rapporto alla società, ovvero famiglia, scuola, lavoro, amicizie… onde rendere possibile alla società valutare eventuali interventi – di carattere generale – per il sostegno dei giovani oppure consentire al Legislatore di introdurre nuove norme di controllo e anche tutela, se a diciotto anni non si è sufficientemente maturi, come pare evidente.

Un cittadino

Mai dire...prostituzione. Giulia Sorrentino per "Libero quotidiano" il 12 gennaio 2021. Se dici Dubai i sinonimi sono ricchezza, bella vita, spensieratezza. Sotto l'occhio del ciclone in questo momento perché non sono rispettate minimamente le regole per il Covid, non è così rigida come si racconta anche sotto altri aspetti. Ma cosa si cela dietro quella patina di dorata perfezione? Basta aprire i social per qualche istante per capire che tenore di vita hanno determinate persone che poco silenziosamente si aggirano per le strade di Dubai. Tra pernottamenti in hotel super stellati e dotati di ogni confort però non è così brillante come può sembrare. Sono molti gli italiani che si recano lì per sviluppare il proprio business. Ma come si diventa imprenditori a Dubai? Grazie a Luca Valori, imprenditore di 26 anni che vive a Dubai da circa un anno, apriamo il vaso di Pandora che gli emiri tentano di tenere chiuso affinché i fari non vengano accesi su scandali tramite dichiarazioni compromettenti.

Come mai hai deciso di andare a Dubai?

«Io sono andato a Dubai per un discorso fiscale e perché chi era lì mi raccontava che fosse una città super tranquilla, con una vita spettacolare, dove avrei potuto svolgere il mio lavoro di consulenza e Drop shipping (ovvero prendere dei prodotti puliti dalla Cina e rivenderli sul mercato mondiale tramite internet). L'Italia per quanto riguarda la tassazione ammazza l'imprenditoria, li non è così. Dubai era raccontato come se fosse il paradiso, ed è questa l'immagine che circola sui social, tant'è che la maggior parte delle persone ha questa visione di quel luogo».

Cosa hai trovato?

«Ho notato che lì è pieno di italiani, che in massa stanno arrivando e che si distinguono in due categorie: quelli che scelgono Dubai per aprire le loro società mantenendo la residenza fiscale in Italia, e sono molti, nonostante ciò sia del tutto illegale, e quelli che invece partono dall'Italia per prendere la residenza a Dubai».

E come funziona lì per iniziare l'attività? È così semplice?

«Vanno lì, aprono la società pagando circa 15.000 euro e la società assume il proprietario della società stessa come amministratore e quindi hai il permesso di diventare residente. Tutto ciò richiede circa un mese. Per prendere la residenza e trasferire completamente il tutto dall'Italia serve anche un contratto d'affitto annuo.

Che incremento hai avuto a livello economico?

«Circa il 100% perché la tassazione sui prodotti venduti all'estero a Dubai è pari a zero. Ma se vendi qualcosa sul territorio paghi solo il 5% di IVA. Quindi tendenzialmente si va lì per vendere all'estero avendo questo tipo di agevolazione economica».

E da parte dell'Italia che tipo di controllo c'è? Ammesso che ci sia.

«Nessuno. Fai solo l'iscrizione all'AIRE (italiani residenti all'estero) e basta. Ma ora è un fenomeno diffusissimo, c'è una quantità esorbitante di italiani che si sta riversando lì, ed è il motivo per cui io me ne voglio andare, oltre al fatto che la gran parte della popolazione (di cui tantissimi sono provenienti dal Pakistan) è per la maggiore sottopagata e sfruttata».

Spiegati meglio, cosa c'è di Dubai che non ti torna?

«Sono ancora residente lì, ma sto valutando la mia dipartita perché ho visto la quantità di gente che arrivava ma soprattutto la tipologia di vita che vogliono e non mi appartiene, perché per quanto riguarda le ragazze non rispecchia i miei valori, diciamo che sicuramente a Dubai è impossibile trovare l'amore».

In base ad altre testimonianze, l'amore vero difficilmente si trova a Dubai, perché pare che ci sia un tasso di prostituzione elevatissimo, nonostante la prostituzione sia un reato che li viene punito con almeno quattro anni di reclusione, fenomeno che riguarda soprattutto ragazze che arrivano dall'Italia e dall'est Europa con quell'obiettivo perché sanno che di lavoro ne trovano molto. Dati shoccanti, perché sembra che il cachet di ciascuna possa arrivare anche a 15mila euro a sera quando si trova l'uomo giusto che ne voglia scegliere più di una con le quali festeggiare una serata in compagnia. Che la solitudine fosse il male del secolo si sapeva, ma non pensavamo fino a questo punto. E se vi dicessimo che la paga media di un tassista o muratore è di circa duecento euro mensili? La classe media è un'utopia e le ragazze a pagamento pare che siano parte dell'alta società, date le cifre che riescono a raggiungere. Inizialmente si può cadere in fallo, pensare che ci si trovi difronte ad una ragazza qualunque, perché l'approccio ovviamente è quello dei più classici, ma mentre si sorseggia un drink arriva secca la frase "sono duemila dirham l'ora" (circa duecento euro) con una nonchalance ed un sorriso disarmanti. Questa la paga media, l'ora, che consente loro di avere il tenore di vita che poi sciorinano su Instagram, con calici di champagne e una macchina di lusso affittata (in cash, perché non è controllato il denaro contante, bensì ben accetto) giusto il tempo di uno scatto che le rende agli occhi dei followers modelli da seguire. Ragazze ben vestite, talvolta con orologi al polso da centomila euro che vanno e vengono dal bancone del bar di lusso, che passano dalla camera 33 a quella 36 in una sola serata, e ciò quando il lavoro è poco. Locali in cui la percentuale di uomini si aggira intorno al 30% mentre le donne sono appunto circa il 70%. Ma questa è la Dubai che a noi non è concesso vedere, perché le autorità sono severissime verso chi risiede lì e s' azzarda a rivelare i segreti del sottobosco degli Emirati, tanto che non consentono il giornalismo d'inchiesta, impedendo l'utilizzo di telecamere per riprendere fatti rilevanti di cronaca e non solo. Quindi diciamolo chiaramente, non è tutto oro quel che luccica, soprattutto se è consentita una prostituzione a livelli così elevati, una prostituzione non legalizzata, condannata ardentemente nei palazzi, ma adulata nei salotti in cui il velo si dissolve diventando perizoma.

Da liberoquotidiano.it il 4 gennaio 2021. Scintille in diretta su Rai 2, nel corso del programma Ore 14, dove Alda D'Eusanio e l'avvocato Anna Bernardini De Pace hanno fatto scintille parlando del caso-Alberto Genovese. Ad aprire le danze è stata la Bernardini De Pace: "Se ci sono ragazze che per divertirsi fanno sesso in cambio o di droga è ovvio che poi c'è chi se ne approfitta", ha affermato. Parole che però non sono piaciute alla D'Eusanio, che ha replicato a brutto muso: "La droga ti rende vittima, incosciente e illogica sono molto meravigliata e sconvolta dalle parole dell’avvocato". Insomma, i toni si sono subito alzati. A tempo record. Tanto che il conduttore, Milo Infante, è stato costretto ad intervenire per riportare sotto controllo la situazione: "Calma ragazze". E calma in studio fu...

Alba Parietti e i "festini milanesi": "Milano non è questa, la verità sulle ragazze e la cocaina". Giulia Sorrentino su Libero Quotidiano l'1 gennaio 2021.

Alba Parietti, parliamo del caso Alberto Genovese, e so che non sei d’accordo sull’associare le sue feste alle normali feste milanesi, giusto?  

"Si parla di feste dove a quanto pare  circolava liberamente droga, associandole a personaggi del mondo dello spettacolo, della cultura. Scindiamo le due cose. Ci sono a Milano molte feste di quel tipo senza arrivare a determinati epiloghi. Ci sono molti tipi di situazioni: una che è quella in questione che valuterà la magistratura, perché sono loro che se ne occupano e sarà la giustizia a valutare. Esempi appunto sono le feste come quelle di Genovese o quelle di Villa inferno a Bologna che sono feste in cui circolava liberamente droga, a cui sono associati personaggi del mondo dello spettacolo che probabilmente sono usati anche dagli organizzatori delle serate per illudere i partecipanti che ci sia qualcosa da condividere di molto figo. Viceversa, io frequento la Milano di notte da quarant’anni e francamente non mi è mai capitato di trovarmi in queste situazioni, perché laddove ho percepito che ci fosse un utilizzo di determinate sostanze ho evitato di tornare nello stesso luogo per la seconda volta, ma questo soprattutto quando ero molto giovane. Ad oggi trovo persone del mondo dello spettacolo,della cultura, della politica e sono queste le feste a cui tutti vorrebbero partecipare, ma i bagni lì sono sempre liberi e verso mezzanotte dopo aver chiacchierato amabilmente ognuno torna a casa propria e non c’è della droga o altro che possa essere considerato non ammesso dalla legge. E ci sono anche molte feste di persone normali che si divertono tantissimo". 

Quindi stai puntualizzando che Milano non è quella dei festini di droga ma è altro.  

"Sì, Milano non può essere rappresentata da queste situazioni che sono assolutamente estreme ed inaccettabili. Quando si vuole far passare Milano per quella che si trova in quell’ambiente si offendono i milanesi. Milano è fatta anche e soprattutto di gente che si alza alle 7 del mattino per andare a lavorare, e che organizza feste o normalissime cene senza che ci siano componenti scomode o terze. Questo è un punto che va chiarito". 

Sia io che l’avvocato Bernardini De Pace abbiamo fatto leva sul fatto che la droga non è un elemento banale, anzi, è centrale.  

"Si, quando si parla di queste feste si parla spesso dell’utilizzo della droga come normalità. La droga ed il suo utilizzo non sono consentiti dalla legge, ma non demonizzandola si fa passare il messaggio che sia normale, come si fa passare per tranquillo il fatto che le ragazze si recano a queste feste anche per la cocaina. Se io avessi una figlia o un figlio che frequenta questi luoghi non sarei molto tranquilla di aver ben svolto il mio ruolo di genitore". 

Tu hai fatto molte battaglie al fianco delle donne. Ma credi che la figura femminile vada difesa a prescindere?  

"Credo che vada difesa da un lato perché in questa sub cultura in cui ci troviamo è la figura più fragile. Detto questo però va detto che le donne vanno difese se non hanno gli strumenti per valutare e decidere liberamente che scelte fare, se non sono nelle condizioni per fare ciò, ed in questo caso vanno aiutate e protette. Nei confronti delle donne in generale il problema sono le donne che non difendono a sufficienza la proprie identità di donne autonome e scelgono la strada più facile che è quella dell’essere dietro la scia dell’uomo potente e ricco, ma non  è questa la strada giusta, sperando così di poter trovare una sistemazione sociale ed un lavoro, ma è il modo peggiore. Una donna prima di tutto ce la deve fare con le proprie forze e tentare di costruirsi un’identità attraverso lo studio, il lavoro, le passioni. Un’identità forte che prescinda dall’uomo che le accompagnerà nella vita, ed in quel modo sarà in grado di fare delle scelte da donna libera. Libera di non essere coinvolta in situazioni inaccettabili e di accettare compromessi". 

E come si diventa o si è una donna libera ed emancipata?  

"Le donne devono capire che se voglio essere libere e rispettate devono assumere dei comportamenti che non diano a nessuno la possibilità di mancare loro di rispetto. Dev’essere una lotta individuale seria".

Mentre Genovese è in galera in tv processano la sua vita. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. “Ferma restando la presunzione di innocenza”. Se fosse una cosa vera anziché una vuota clausola di stile non dovrebbe essere anteposta al reportage che fa il processo ancor prima che cominci quello nella sede dovuta, e cioè in aula di giustizia, con le garanzie di difesa di cui fino a prova contraria sarebbe ancora titolare l’imputato. Un’ipocrisia formalista fa reiterare quella formula – “presunto innocente” – salvo poi inscenare nello studio televisivo il procedimento popolare con la testimone che racconta il tentato stupro, l’avvocata esperta di stupro che spiega alle ragazze di non fidarsi dell’orco, il giornalista che perlustra la vita privata dello stupratore (ops, presunto stupratore), il conduttore che raccoglie e ripropone le vociferazioni sul fatto che gli stupri sono due, forse tre, magari cinque perché il presunto innocente di uno è in realtà il probabile colpevole di una serie e via così, con le chat che narrano l’infamia delle serate aguzzine, le foto hard condivise dal mostro coi suoi amici, i vassoi pieni di bamba e le ville a Ibiza e i jet privati e le feste da mezzo milione di euro a denunciare il quadro di oltraggiosa dissolutezza in cui si svolgeva quell’abitualità criminale. A questa persona – l’ormai famigerato Alberto Genovese – si imputa di aver commesso gravissimi delitti. È in prigione e per una volta, probabilmente, va bene così, nel senso che quando si discute di comportamenti così pericolosamente offensivi è opportuno che chi è sospettato di averne tenuti sia messo in condizione di non nuocere ulteriormente. Ma c’è un motivo, anche solo uno – di informazione, di salvaguardia pubblica, di tutela sociale, di protezione delle vittime, insomma qualsiasi – che renda non dico nemmeno necessaria, ma anche solo giustificata l’attenzione inquirente dei giornali e della televisione sulla vita di quella persona? Su ciò che di illecito ha commesso deve intervenire la magistratura, e su ciò che non è illecito non dovrebbe intervenire nessuno. Perché è bene intendersi: il principio secondo cui si è presunti innocenti non serve tanto a proteggere l’ipotesi che uno sia innocente, serve piuttosto a garantire che l’accertamento della colpa, che contraddice quella presunzione, avvenga secondo diritto. E secondo diritto c’è speranza che possa avvenire in tribunale, ma c’è certezza che non avviene sui giornali. Dice: ma i giornali fanno il loro lavoro e la giustizia fa il suo. Che è vero, ma è un lavoro improprio e tutt’altro che obbligato, salva la balla dei cittadini che hanno diritto di essere informati. Informati su cosa, infatti? Sulla detestabilità del profilo psicologico dello stupratore? Sull’entità (a questo si è arrivati) delle lacerazioni genitali inflitte alla poveretta? A me hanno ucciso una persona cara, mia compagna per tanti anni. L’assassino l’ha soffocata con un cuscino, e l’hanno trovata piena di lividi e ustioni, perché quello aveva tentato di bruciarne il cadavere. Non fu utile a nessuno – e di nessun conforto a me – apprendere dai giornali le notizie sui particolari della sua vita e leggere i racconti delle sue presunte immoralità. Avrei voluto per lui un processo equo, il processo che non ha avuto perché si è impiccato prima.

Francesco Merlo per la Repubblica il 29 dicembre 2020. La notizia dello stupro è diventata stupro della notizia l' 8 novembre, quando lo stupratore Alberto Genovese è stato per la prima volta interrogato dal giudice nel carcere di Milano. Da quel momento, dunque da quasi due mesi, il racconto delle violenze sessuali si sta ogni giorno arricchendo di dettagli morbosi e compiaciuti sempre accompagnati da un esibito sdegno morale e da un finto stupore pruriginoso. È come se l' immaginario collettivo del Paese fosse degenerato ed è difficile capire chi sta diffondendo tutti questi particolari, forse inseguendo una strategia processuale o forse solo per il piacere di offrire scene di depravazione o magari per entrambe le cose. Sappiamo che lo stupratore aveva filmato tutte le sue imprese e che le parti processuali che hanno accesso ai file sequestrati sono i pubblici ministeri, i carabinieri e gli avvocati. Il codice penale permette di «diffondere la sintesi degli atti di indagine se noti all' indagato» e non esiste l' abuso di cronaca. Dunque non sarebbe reato ammorbare il paese con queste minuziose narrazioni di ferocia tra lenzuola, federe e asciugamani, l' analisi dei referti clinici che mettono a confronto i lividi su 18 diverse parti del corpo, le sapienti expertise su corde, fruste e manette, i dibattiti sulle differenze tra cocaina e chetamina, la droga dello sballo e quella dello stupro. Chiusa in casa dal Covid, l' Italia senza cinema e teatri è diventata platea di uno spettacolo pornografico che viene ogni giorno messo in scena sempre spacciando per diritto di cronaca l' ingrandimento delle mille sevizie e sempre con l' alibi dell' indignazione. Trionfa, a latere, il sociologismo d'accatto sui "segreti" di Milano e sulla deboscia dei ricchi che ovviamente sarebbero mostri pervertiti perché sono ricchi. Persino una bella terrazza con vista sul Duomo, ribattezzata nientemeno la "terrazza sentimento", sta producendo una nuova mappatura delle terrazze del vizio milanese che, molto più delle periferie, racconterebbero il degrado morale della città, battendo in simbologia del peccato le vecchie terrazze romane della Dolce vita, archiviate come roba da educande. E ovviamente i dibattiti televisivi si infiammano, scavano con furore sullo scempio del corpo, eccedono e insistono sulla spregiudicatezza della vittima spacciandola per concorso di colpa nello stupro: si processano in tv soprattutto la stuprata e la sua moralità. Purtroppo non è inutile dire che una ragazza maggiorenne ha il diritto anche di vendersi se le pare senza correre il rischio dello stupro in un mondo nel quale tutti vendono se stessi, la propria intelligenza, la propria onestà, le proprie idee nello spettacolo, nella televisione, nell' arte, nell' editoria, nelle università e nella politica, senza per questo venire stuprati. Neppure i raccontatori e i commentatori meritano di essere stuprati perché si fanno pagare per frugare ed esibire tutta questa violenza sessuale all' occhio psicotico della bavosa morbosità collettiva.

Alberto Genovese e la violenza a Ibiza: "Una ragazza camminava a gambe divaricate, dormiva tra gli escrementi". Libero Quotidiano il 15 dicembre 2020. "Camminava a gambe divaricate". Dettagli sconcertanti su Alberto Genovese e le violenze ai suoi festini "estremi". Una ragazza che vi ha partecipato per due anni, Kristina, ha fornito la sua versione dei fatti in studio da Barbara D'Urso a Live Non è la D'Urso. "Ho conosciuto Genovese - ha raccontato - quando avevo 18 anni, per caso, un ragazzo mi ha detto 'Andiamo in piscina' e sono finita da lui. Era giorno, verso sera si è movimentata la situazione e sono arrivate altre persone. Nel pomeriggio ha provato ad approcciarmi, io l’ho respinto mentre circolava alcol e droga". "Sono andata via, ma siamo rimasti in contatto. Ho partecipato a una decina, forse una ventina di feste. Lui nei party era sempre molto fisico: si avvicinava a tutte le ragazze, ci ballava in modo provocante però tutti lo accettavano perché era lui che offriva. Aveva una specie di Sindrome da sceicco, non c’erano altri uomini se non alcuni amici e il suo braccio destro". L'imprenditore è in carcere con l'accusa di aver violentato due ragazze, una 18enne nel suo attico milanese vista Duomo in ottobre e un'altra giovane a Ibiza, la scorsa estate. Proprio a quanto accaduto a Ibiza fa riferimento Kristina: "Ho preso il suo aereo molte volte per andare a Ibiza. Una di queste eravamo quattro ragazze (di cui tre modelle), un ragazzo e appunto Alberto Genovese. Una di loro, che veniva dalla Lituania, ha cominciato a provarci con lui. Dopo poche ore si sono chiusi in camera e non li abbiamo visti per tre giorni". Quando la festa è finita e gli altri invitati se ne sono andati, "noi l’abbiamo poi ritrovata in una camera, a letto, addormentata nuda fra i suoi escrementi. Non so cosa sia successo, posso supporre. L’hanno messa sotto la doccia, dov’è rimasta per un’ora. Non ha voluto un'ambulanza, forse perché aveva assunto droghe. Ha smesso di parlare, camminava a gambe divaricate, una scena che non posso dimenticare. Noi stupidamente pensavamo che fosse colpa sua, perché reduce dall’uso di sostanze stupefacenti. Oggi capisco che forse abbiamo sbagliato a giudicare". 

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2020. Alberto Genovese è un 43enne di origini napoletane che ha studiato alla Bocconi e poi è rimasto a Milano, dove ha fatto fortuna e si è trapiantato i capelli. A noi interessa che nella notte tra il 10 e l' 11 ottobre ha violentato e seviziato una diciottenne, Michela, dopo averla drogata: questo durante una delle sue drogatissime feste sulla «terrazza sentimento» del suo attico con piscina in Piazza Maria Beltrade, sesto e settimo piano, con vista sul Duomo di Milano. A essere «socialmente pericolosa», per uno come Genovese e i suoi amici, in concreto era lei, la vittima e la sua normalità del bene: anche se non veniva dalla Luna e poteva sembrare un' aspirante modella alle prese con uno che aveva un'agenzia di modelle (hostess.it, dove lavorano 15 diciottenni) e che alle feste di Genovese detto Bebo - dove almeno tre generi di droga erano gratuiti ed esibiti sopra piatti neri - c'era già stata altre due volte, a giugno e a settembre, ma questo significa poco, molto poco. La magistratura non è tenuta a osservazioni sociologiche, deve solo incasellare i comportamenti e le consuetudini nella vincolante lettera della Legge, laddove uno stupro è uno stupro se la stuprata decide di denunciarlo (lo stupro è un fatto, ma può diventare un'opinione) diversamente magari da altre ragazze che non l'avrebbero denunciato - o meglio, l' hanno denunciato solo ora - perché a suo tempo l' avrebbero contestualizzato in un baccanale dionisiaco, dove loro non si sarebbero sentite delle stuprate, e lui, mai e poi mai, si sarebbe sentito uno stupratore. Secondo i magistrati Genovese era lucidissimo. Ed era lucidissimo, parentesi, anche Ciro Grillo (figlio di) rinviato a giudizio per stupro in Sardegna. Nel caso di Genovese, l'acme del dionisiaco - volgarmente parlando - si è tradotto in violenza sessuale, sequestro di persona, cessione di droga alias spaccio, lesioni gravi più un modesto disturbo della quiete pubblica. Ecco perché Genovese è in custodia cautelare e, davanti ai magistrati, piange, si dispera e spiega di essere dipendente dalla cocaina, e che «ogni volta ho allucinazioni e non ho più la percezione del limite tra legalità e illegalità, ho bisogno di essere curato, anche se mi sento una persona intimamente sana». Parentesi tecnica, non chiara nemmeno a tanti magistrati: la cocaina non dà dipendenza fisica, ma solo psichica; non esiste una cura intesa come «disintossicazione» da cocaina (tipo quella malamente descritta per Fabrizio Corona) e per smettere basta smettere, punto, anche se il cosiddetto «down» depressivo che ora perseguita Genovese - la crisi psicologica di astinenza - è terribile, e può durare giorni o mesi o anni. Il cocainomane, prima, pensa che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che assume cocaina; il cocainomane, dopo, pensa che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che non la assume più. Smettere di essere socialmente pericoloso, per uno come Alberto Genovese, significa rinunciare a essere Alberto Genovese per com'era 24 ore su 24, sospeso - qui spiegare è complicato - tra stati di alterazione ma anche di lucidità assolute, anzi decisamente moltiplicate dalle droghe. Ma la magistratura non gestisce neppure un centro di recupero tossicologico: vaglia le prove. Cocaina e Ketamina. Ecstasy (mdma) e cosiddetta cocaina rosada. Per spiegarle servirebbe un trattato. La cocaina è un eccitante che rende megalomani e prepotentemente lucidi. La ketamina è un anestetico che favorisce allucinazioni e «stati di emersione» (enteogeni) ritenuti anche estatici e spirituali: le due droghe vanno a braccetto, e infatti a Genovese ne hanno trovate paccate in cassaforte, assieme ad ecstasy, a 40mila euro e alle manette usate nello stupro; sono le stesse droghe ripetutamente rifilate alla 18enne e, in teoria, a tutta la massa stordita presente alle feste. L'Ecstasy aumenta la socialità, l' empatia e la voglia di sesso. La cocaina rosada (rosa) è sintetica e non c'entra niente con la cocaina, e, secondo le dosi, rende allucinati, fisicamente molto consapevoli e vogliosi d'allegria. Nell' insieme, si insegue un modello bifronte tra la spiritualità di Ghandi e il decisionismo di Hitler, entrambi ben disposti a togliersi le mutande. A dosi appropriate e collaudate si diventa Alberto Genovese, a dosi massicce e ininterrotte si diventa stuprabili. Infine: Genovese ha raccontato ai magistrati che assumeva 3 o 4 grammi di cocaina al giorno; è soggettivo, ma la maggior parte dei cocainomani che si fanno così tanto dopo un paio d'anni sono sdentati, hanno il naso schiacciato e un buco sul palato, e non potrebbero gestire cariche direttive in varie società. Diciamo che alle feste di Genovese si scopava parecchio, e tutto poteva ridursi a una gigantesca circonvenzione di incapaci oppure di capaci, secondo sfumature che la magistratura ritiene degne di nota. È vero che per partecipare alle sue feste c' erano delle autentiche liste d' attesa. È vero che uno stupro è uno stupro, ma è anche vero che chi va al mulino s' infarina. Lo status di stuprata e di puttanella possono anche convivere, e non ci riferiamo alla 18enne - anzi - ma ad altre decisamente sì. «Era noto che Genovese organizzasse feste dove veniva offerta droga agli invitati», ha detto una testimone, «e dove lui abusava sessualmente di ragazze». Era noto. A chi? Modelle, modelline, presunte influencer, prostitute al bisogno (diffusissime a Milano: basta una ricca mancia o un regalo, altrimenti fa niente, ma poi non le vedi più) e, ancora, altre sotto-categorie che faremmo fatica a declinare al maschile, perché è una società maschilista, ma neppure questo ora ci interessa: anche perché, in genere, a essere stuprate sono le donne. Non sono gli uomini a essere imbottiti anche forzatamente di droghe, legati ai polsi sul letto e alle caviglie con una cravatta stretta alla gola annodata alla spalliera, e un cuscino premuto sul viso per lunghissime manciate di secondi, sfiniti da una violenza sessuale anche dopo che il tuo corpo ha la rigidità e il calore di una salma, incosciente per 18 ore filate: è ciò che accadde alla ragazza, ora in cura da una psichiatra dopo che un medico della Clinica Mangiagalli - una donna - riscontrò che era stata imbottita di cocaina e ketamina, sì, e poi era stata violentata e seviziata in un modo che raramente a quel medico era capitato di vedere. La sera del 10 ottobre la festa pompava di brutto: che poi le feste erano di vario tipo, c'erano quelle riservate a una trentina di persone oppure dei mezzi bordelli di gente. La ragazza, con un' amica, si presentò all' ingresso del palazzo verso le 20 e 30, dove un buttafuori sudamericano controllava gli invitati mentre la festa proseguiva già da ore: non è vero che ritiravano i cellulari, sarebbe stato ingestibile, s' invitava banalmente a non fotografare. Un' altra sua amica era alla festa da metà pomeriggio e l'aveva invitata il dj Daniele Leali detto Danny, poi additato come procuratore di ragazze e già socio di Genovese in qualche attività. La 18enne salì con l'ascensore, che richiedeva un codice, sino all'attico e superattico: questa volta era quasi una cosa riservata, venti persone o poco più, non c'era la musica a palla messa da dj ben pagati, il catering a cura di Carlo Cracco come in settembre, e neanche fiumi di champagne Perrier -Jouet (pessimo, vinoso, 35 euro) pieno di ketamina. C' era la solita scritta al neon rossa («Sentimento») che conduceva alla terrazza con piscina d' angolo, a sfioro. Chiaro che il boss non organizzava tutto da solo: c' era chi gli procurava la droga, chi invitava le ragazze anche fuori Milano, tipo a Ibiza nella «villa Lolita» sempre di Genovese (8 camere) o al club «Tipic» di Formentera dell' amico Danny, dove pure arrivavano un sacco di ragazze ed era tutto pagato. In quelle serate c' era sempre qualcuno che faceva da palo mentre Genovese o altri si chiudevano da qualche parte: una teste ha raccontato che a Formentera si ripeteva lo schema: «Mi invitarono a continuare a pippare nella stanza del capo da quando sono entrata in camera e ho tirato una striscia rosa non ricordo più nulla al risveglio il mio top era strappato e non avevo più reggiseno né scarpe, avevo le gambe piene di lividi e un gran male ai polsi». Ma quella, di serata, quella del 10 ottobre, non poggia solo su racconti o su perizie corporee: le telecamere interne hanno filmato tutto, quella e altre cinque feste. Il padrone di casa, ovviamente strafatto, appena vide Michela se ne invaghì subito, se ne disse innamorato, le propose un viaggio, non la mollò più, fece di tutto, le impose altra droga (piovve sul bagnato: lei ne aveva già presa) e morale: alle 22 e 30 i due erano già in camera, e c'era anche qualche spettatore. Erano in camera anche alle una e 40, ora in cui il casino della festa - 10 interventi in 5 anni - fece comparire all'ingresso dei poliziotti chiamati dal vicino di casa, il ballerino Roberto Bolle. Il domestico e buttafuori sudamericano, Javier, disse loro che il signor Alberto non era in casa, che non era alla sua festa. Poco dopo, l'amica con cui era venuta cominciò a cercare Michela, ma la camera era off-limits da ore, e alle 2.00 l'amica se ne andò. Michela però era in camera, e ogni tanto cercava di messaggiare col telefono per chiedere aiuto. Genovese, secondo il racconto, la guardava piangere e urlare e poi si mise a fotografarla nuda e insanguinata, in posizioni oscene, prendendole dei soldi dalla borsetta ai quali diede fuoco davanti a lei, così, per mortificarla, prima di aprire una bottiglia di vino. La ragazza tornò cosciente solo verso le 22 dell'11 ottobre, quando fu cacciata fuori semi-svestita e con una scarpa sola. Una volante della Polizia la trovò così. «Nella mia percezione», ha detto Genovese in una dichiarazione spontanea, «io stavo trascorrendo una serata bellissima con la mia amata Voglio smettere di drogarmi e voglio farlo con dei professionisti la mia vita per l'ottanta per cento è sana, sono una persona a posto, che non farebbe mai del male. Voi avete scavato solo nella parte cattiva della mia vita, ma per il resto sono una brava persona». Ma non c'è nessun resto, da quanto inteso. Tra i legali di Genovese c'è Luigi Isolabella, già difensore dell'ex consigliere comunale Paolo Massari il quale, a margine di uno stupro giudicato tale, ha pure dichiarato di essere malato e che voleva essere curato: dopodiché, dopo un'udienza rigorosamente a porte chiuse, ha patteggiato. «Io non parlo con i giornalisti» ha detto l'avvocato Isolabella allo scrivente, che gli aveva fatto notare come una giustizia patteggiata e a porte chiuse (cioè sottratta al pubblico, nel senso che ancor oggi non è noto come siano andate le cose nel caso Massari) forse aveva contribuito a piallare lo status di un'avvocatura ormai piegata da pubblici ministeri dati in partenza per vincenti. Ma nel caso di Genovese sembra veramente difficile che si possa mirare a un patteggiamento a porte chiuse. A metà ottobre la procura ha aperto ufficialmente un' indagine. Venivano ascoltati molti testimoni, varie ragazze sono accorse spontaneamente (topi che lasciano la festa che affonda) e la voce ha preso a circolare. Genovese ha detto alla madre che sarebbe partito per Amsterdam e poi per il Sudamerica col suo jet; il 6 novembre è andato all' ufficio passaporti per rinnovare il documento ed ecco concretizzato il pericolo di fuga: arrestato. Tutte le società in cui aveva delle cariche hanno preso le distanze formali e informali. Il dj Daniele Leali, definito braccio destro di Genovese e ritenuto suo procuratore di droghe, l' 11 novembre è partito per Bali. Facile.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 24 dicembre 2020. Se fosse solo un' indagine per stupro, si sarebbe già chiusa con un giudizio immediato: anche perché la violenza di Alberto Maria Genovese contro una vittima diciottenne è stata filmata da 19 telecamere per 20 ore totali di registrazione ciascuna, forse un record mondiale. Invece c' è tutta una certa Milano al vaglio degli inquirenti: perché un tempo, una trentina di anni fa, la cocaina era sì intesa come «droga dei ricchi», ma oggi le cose sono cambiate. La cocaina è ovunque, venduta anche a dosi minimali a cocainomani che interagiscono con noi, perché la prende il chirurgo, il pilota, l' investitore dei nostri soldi, la maestra dei nostri figli, magari i nostri figli. Ma la droga dei ricchi esiste ancora, ed è un' industria che interviene secondo format di consumo consolidati: ci si veste in un certo modo, si ha una certa auto, si appartiene a un certo ambiente e si hanno certe sostanze da consumare. Il mercato della droga è in grado di incidere sulle scelte di vita: e i consumatori, persone informate, in virtù di questo imprinting si illudono di aver fatto una scelta. Ma la droga di cui si parla in questa indagine non si trova dal piccolo pusher dei giardinetti, ed è evidente che, se i magistrati hanno impiegato un mese per arrestare Genovese, o a indagare altri, è perché volevano seguirne i movimenti, individuare consumi e quantità ben più impressionanti. Se fosse solo un' indagine per stupro, poi, parleremmo solo di un atto sessuale non condiviso dalla volontà di due soggetti: invece è stata una feroce somma di meticolose torture, orrende sevizie con modalità e strumenti già predisposti in una stanza «padronale» adibita allo scopo. Scendere nei raccapriccianti particolari equivarrebbe a infierire sulla vittima, e lo sarebbe anche il riportare lo spaventoso resoconto della clinica Mangiagalli di Milano: laddove il medico legale, dopo una perizia sulla diciottenne, ha tenuto a dichiarare che «riguardo alle lesioni, posso dire che, nonostante io lavori qui da diverso tempo, non mi era mai capitato di vedere qualcosa di così cruento».Noi ci ossequiamo ovviamente alla legge sulla privacy: ma il trasgredirla, per una volta, non sarebbe morbosità, sarebbe l' unico modo di far intendere l' evidente differenza tra una violenza «semplice» (si fa per dire) e una tortura dolosa che implica malvagità; la differenza, ossia, tra un impossibile raptus e un qualcosa che invece è stato perpetrato con studiata lucidità per circa venti ore, e questo con una crudeltà che nessuna droga al mondo può crearti dal nulla, se non ce l' hai celata nelle viscere. Tuttavia c' è chi sta lavorando per ridimensionare e banalizzare il caso Genovese, perché il potere dei soldi può questo e altro. Ma per comprenderlo tocca ricominciare da quel giorno d' autunno.

Sabato 10 ottobre, mattina. Lei ha compiuto 18 anni in aprile ed è una giovane modella italiana che lavora in un' agenzia di Milano, e si chiama A. In mattinata chiama l' amica D., altra modella, e le dice che alla festa di Genovese verrà anche lei: poi magari andranno assieme all' altra festa di compleanno fissata per le 23. C' era un' autentica lista d' attesa, per i «party privati» di Alberto Genovese: un uomo passato, in un giorno, dall' avere 100mila euro ad avere cento milioni. D. era stata invitata da Daniele Leali, detto Danny, suo grande amico e organizzatore della Milano notturna, poi additato come procuratore di ragazze più che altro perché aveva moltissime conoscenze: raccoglieva le adesioni in una chat di sedici amici e a questa organizzazione non era estranea l' ex fidanzata di Genovese, Sarah Borruso, poi indagata per complicità in altre violenze. Lei però quella sera non c' era, era da sua madre. Aveva bisticciato con Alberto.

Ore 16. D. è al festino già dal pomeriggio e con lei c' è un' amica. La festa è perlopiù nell' attico all' ultimo piano, dove c' è la piscina a sfioro e la «terrazza sentimento» con tanto di scritta in neon rosso. Genovese, per ben due volte, invita D. al piano di sotto (dove c' è la camera da letto) a tirare una riga di cocaina. L' aveva già fatto con altre, non estendeva l' invito agli uomini. «Ma con me non ci fu problema», ha raccontato D., che pure, tramite la sua amica, aveva saputo «che girano voci su Genovese si dice che lui e la sua ex fidanzata, Sarah, erano soliti drogare le ragazze alle loro feste private, per poi violentarle». L' amica le aveva detto che, secondo le voci che circolavano, Genovese si portava le ragazze in camera per indurle a prendere involontariamente la droga dello stupro (Ghb) per poi abusarne personalmente o farlo fare ad altri. La stessa amica però le aveva raccomandato solo di stare attenta, di stare vicino a Daniele Leali: «Il mio pensiero», dirà D., «è che se una ragazza accetta di andare con Genovese lo faccia per soldi, ma è una mia supposizione».

Ore 20.30. La festa prosegue quando in Piazza Beltrade arriva anche la diciottenne A. assieme a M., altra modella. Si presentano all' ingresso del palazzo dove un buttafuori controlla gli invitati. I cellulari in effetti vengono ritirati. La 18enne A. ed M. salgono con l' ascensore, che richiede un codice, sino all' attico e superattico: questa volta è una cosa più riservata, non c' era il catering a cura di Carlo Cracco come in settembre, o i fiumi di pessimo champagne Perrier-Jouet che all' occorrenza Genovese allungava con ketamina o Ghb se prendeva di mira una singola ragazza: la quale, in pratica, era forzata a bere a canna. C' erano, vicino al bar interno, dei piatti a disposizione. In uno c' era cocaina, ketamina e 2cb. Brevemente: la cocaina è un eccitante che rende megalomani e prepotentemente lucidi. La ketamina è un anestetico che ben si accompagna alla cocaina, neutralizzando l' ansia e l' iper-eccitazione, e che da sola può stenderti e renderti completamente passiva; si può sciogliere facilmente in liquidi. La cocaina rosada 2cb (rosa) è sintetica e non c' entra niente con la cocaina, e, secondo dosaggio, rende allucinati, molto consapevoli e piuttosto allegri; costa un botto, 500 euro al grammo. In ogni caso la diciottenne A., con l' amica M., sniffa cocaina e 2cb come aveva fatto altre volte. Le ragazze, soprattutto le modelle, spesso amano drogarsi soprattutto se è gratis. Un' altra modella straniera, amica di Genovese, ha raccontato: «C' erano due piatti a disposizione per tutti, li portava Daniele Leali vicino al bar. In uno c' era la cosiddetta Kalvin Klein, ketamina mischiata con cocaina. Ho visto sniffare tutti quelli che conoscevo».

Ore 22 circa. La diciottenne A., l' amica M. più un' altra decidono che s' è fatta una certa e potrebbero anche andarsene all' altra festa. Ma Genovese non ne vuole sapere. Qui comincia a far di tutto «in maniera ossessiva» per trattenere A. Genovese, che s' è preso una fissa per A., se ne dice innamorato, le propone un viaggio, non la molla più. A un certo punto escono sul terrazzo a fumare: lui, A. e M. Bevono un drink. Genovese comincia a offrirle cocaina che in realtà è solo ketamina (l' anestetico) e le telecamere mostrano un piatto da cui lui non attinge. Si sente anche la voce di lui: «Ketamina la migliore del mondo». Lei tira con una cannuccia. A un certo punto M. si allontana, perché vuole telefonare agli amici del compleanno e dir loro che ritarderanno alla festa. Poco più tardi torna sul terrazzo, ma l' amica non c' è più, e neanche Genovese. È da qui che la diciottenne non ricorda praticamente più nulla. Non ricorda, per dire, di essere entrata nella stanza da letto al piano di sotto. È molto probabile che sul terrazzo il suo prossimo torturatore le abbia dato del Ghb, la famosa «droga dello stupro» (non l' unica) che quella sera non fa certo parte delle sostanze offerte a tutti. Ha il nome commerciale di Alcover e ha lo stesso effetto dell' alcol, ma moltiplicato (viene usato nelle terapie per l' alcolismo) e a quanto pare, a certe dosi, ti rende inconsapevole, voglioso di sesso e poi, per qualche ora, non ti fa ricordare più nulla; è indistinguibile quando disciolto in soft drink o alcolici vari. In pratica impedisce la fissazione del ricordo e anche la sua rielaborazione. Le telecamere la inquadrano che comincia a rallentarsi, lei è in camera - il bodyguard sorveglia la porta, da fuori - e resiste ai primi tentativi di toccarla e spogliarla, ma le reazioni sfumano, sta scivolando in uno stato di incoscienza. Dirà di aver avuto la percezione che ci fossero altre persone, ma c' era solo Genovese. Ballano per pochi secondi, poi si spostano sul letto, lei tenta di opporsi e rivestirsi, ma è qui che comincia - l' espressione è nell' ordinanza d' arresto - «il calvario». Il quale non è sostanzialmente riportabile, se non nella sua insistenza ossessiva e maniacale, nella sua pervicacia, durata, cattiveria, ausilio di una non citabile attrezzatura di tortura. Il Ghb l' ha stesa, ha cancellato il presente e il prossimo futuro: la ketamina, spacciata per cocaina e fatta assumere anche a forza coi metodi più osceni, la metterà in uno stato di narcosi e neutralizzerà il dolore che lui le infliggerà per ore.

Ore 22.30. L' amica D. scende verso la camera da letto («ricordo di aver avuto una brutta sensazione») ma il bodyguard la blocca. Lei gli dice che l' amica deve venire via con lei, ma la risposta è che non è possibile disturbarli. Anche un' ora dopo il buttafuori è irremovibile.

Ore 23.58. Scambio di messaggi tra Danny Leali e Genovese: «Albi? Andiamo via tutti. Che vuoi fare?». Risposta: «Io scopo con questa». Leali: «Andiamo allora. Spento tutto».

Ore 00.22 di domenica 11 ottobre. La casa si svuota e anche le due amiche, D. e M., vanno alla loro festa di compleanno. È rimasto il buttafuori, l' assistente e i camerieri che stanno pulendo. Poco più tardi, all' altra festa, D. si dice preoccupata, ma M. sdrammatizza e dice che la ragazza sa il fatto suo.

Ore 01.40. Lei in realtà non percepisce neanche la realtà. È come paralizzata. Genovese la muove come un manichino, e, come farà per una ventina di ore totali, la droga regolarmente e continuamente. È come una bambola di pezza. Sul comodino sinistro c' è la ketamina che lui le somministra con forza e sadismo, da un piatto più scuro sniffa solo lui.

Ore 02.34. Sul lenzuolo cominciano e vedersi macchie di sangue. Lui prosegue. Ogni volta che lei emette un impercettibile lamento lui la droga, seviziandola. La fotografa col cellulare in pose umilianti. Poi ricomincia, fa danni strazianti, non smette né lo farà, s' inventa nuovi strumenti di tortura. Non ha limiti.

Ore 07.01. Lei tenta di alzarsi ma non riesce a stare in piedi, ogni volta si rispegne, meglio, la rispegne lui. E continua, sempre più cruento, impazzito, insaziabile, morboso, malato. Quando lei sembra vagamente riaversi, lui prende delle manette e le lega mani e piedi, e con una cravatta la blocca allo spigolo del letto. Lui le preme un cuscino sulla faccia per otto secondi. Poi si inginocchia accanto a lei e la guarda. Scatta altre foto mortificanti. Lei implora, ma, per lui, è come se non esistesse. Poi lei comincia a gridare dal dolore.

Ore 16.00. Le toglie le manette, ormai è pomeriggio. Genovese rientra nella stanza, apre le finestre e le dice «devi andare via». È irritato, mima anche delle percosse. Lei cerca di rivestirsi per andarsene, ma, dopo che si è infilata dei pantaloni, lui la rispoglia. E ricomincia.

Ore 17.00. Lei rinviene, ed è il primo momento di cui, dopo ore, avrà memoria. Il letto è di nuovo sporco di sangue. Di lì in poi cercherà di andarsene, ma impiegherà cinque ore. Perché lui è un mostro: e nessun risarcimento milionario prima del processo, nessun diabolico cambio di avvocato, nessuna cedevolezza psicologica di lei - che non ha rinnegato l' uso di droghe, ma ha rifiutato il ricovero per curarsi - impediranno di dimostrare che mostro resta. 

Alberto Genovese, la ricostruzione di Filippo Facci: ecco perché la sua vittima ha cambiato avvocati e strategia. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 28 dicembre 2020. A Milano, nell'attico di Piazza Beltrade, sono quasi le sei del mattino di domenica 11 ottobre, e c'è una modella diciottenne reduce da venti ore di violenze, torture e sevizie praticate con modi e strumenti che la legge e la pietà impediscono di dettagliare. Alberto Maria Genovese, «un ultra milionario che doveva essere servito e riverito da tutti» (definizione del suo amico Danny Leali) l'ha straziata con insistenza ossessiva ma anche con metodo sperimentato: durante la festa, dopo che lei si era già drogata di suo (cocaina, ketamina e cosiddetta coca rosa a disposizione di tutti) lui l'ha ingabbiata con Ghb, un farmaco che fisicamente l'ha resa una bambola incosciente che non avrà memoria di quel che ha subito; poi l'ha mantenuta assente per ore infinite con altri fiumi di ketamina (spacciata per cocaina) che è un anestetico per animali che le ha indotto a forza coi metodi più osceni, in modo da lasciarla inanime e non farla gridare per il dolore inflitto ininterrottamente. Questa ragazza si chiama A. e di quei momenti ha solo dei flash, ma ci sono 19 telecamere interne che hanno ripreso le 20 ore di calvario: quindi gli attrezzi di tortura, le fotografie in pose oscene, le manette ai polsi e alle caviglie, la cravatta al collo, e un senso di totale smarrimento man mano che lei riprendeva senno.

Ore 18.00. Genovese la trascina per i capelli sino alla camera degli ospiti. Entrano. Lui le porta altra droga su un piatto. Lei accenna un rifiuto mentre la realtà torna sgradevolmente vivida e percepisce che le è stato fatto qualcosa di orribile. Lui, non inquadrato, le mette 3500 euro nella borsa, come un compenso, però le chiede un documento per sapere se è maggiorenne. Litigano surrealmente, lei comunque non ha documenti, ha solo un codice fiscale. Lui allora prende i 3500 euro e li mette in una pentola, poi li brucia con un cannello per dolci, bevendo un vino appena stappato. Lei più tardi riesce a recuperare il suo telefono e parla con qualcuno, probabilmente l'amica M., a cui messaggia di trovarsi in una situazione «pericolosissima»: se non si fosse rifatta viva, scrive, M. doveva chiamare la polizia. Chiede dei vestiti, non può uscire scalza, Genovese rifiuta e la spinge ancora verso la stanza padronale, mentre lei piange, dice che sta male. Vorrebbe darle altra ketamina. Lei chiede pietà. Si vede lei che cerca di recuperare qualche abito, che chiede a Genovese se ha visto la sua borsa, vuole sapere dov' è l'uscita: «Stai là. Stai là. Stai là»; «mi apri?»; «stai là»; «la porta?»; «stai là»; «la porta, devo uscire, devo uscire, no, devo uscire subito, in questo momento, chiamo la polizia Mi fai, per favore, mi fai, per favore, uscire?»; «Questa è la tua stanza. La tua stanza. La tua stanza». A. manda un altro messaggio a M. alle 21.25. Poco più tardi trova l'uscita, sposta un pesante tendaggio e giunge all'ascensore dove schiaccia a caso tutti i tasti. Riesce a scendere, lui non la segue. Sono le 21.45. Ad attenderla c'è M. e l'amico D., altro personaggetto di una Milano effimera. A. indossa vestiti non suoi e ha una scarpa sola. L'ultima immagine di Genovese è lui che le lancia giù l'altra scarpa e una banconota da cento euro. L'amico ferma una volante della Polizia.

Ore 23.00. Viene ricoverata alla clinica Mangiagalli, dove resterà per tre giorni. La documentazione medica, non riportabile, elenca danni in 18 zone del corpo. Ci sono dettagli che raccontano la storia da soli. Il laboratorio di analisi del Politecnico confermerà l'assunzione di tutte le droghe citate, con in più dei cannabinoidi (hashish) e anfetamina. La modella ha già detto di essersi drogata alla festa, dapprima volontariamente, e di farlo quando capita. Una delle domande, oggi, anche guardando i suoi profili social, è se abbia mai smesso di farlo.

12 ottobre. La Polizia bussa a casa di Genovese per un primo sopralluogo. Genovese, detto in gergo, sclèra subito. Chiama i suoi avvocati, prende tempo, alle 8.59 telefona al gestore dei server delle telecamere interne e gli dice di cancellare le immagini «perché aveva fatto una festa ed avevano esagerato». Il gestore contatta un tecnico e gli dice di procedere. Alle 9.29 Genovese richiama, ansioso, perentorio: «Pialla quelle registrazioni, adesso la camera padronale, entrambe le telecamere», il cancellato dev' essere «non recuperabile». Intanto sono arrivati gli avvocati e la polizia scientifica, che ha visto le telecamere. Altro messaggio di Genovese al gestore, ore 10.16: «Una cosa permanente». La cancellazione è stata fatta, ma da remoto: quindi gli hard disk saranno recuperabili. L'attico viene posto sotto sequestro.

13 ottobre. Gli inquirenti terminano la perquisizione e recuperano anche lenzuola, federe e asciugamani. Intanto A. viene dimessa con una prognosi di 28 giorni. L'indagine è già partita d'ufficio, ma lei presenta querela. La sua percussiva cerchia di amici - che non la lascerà sola un momento, mai - arriva al giovane avvocato Saverio Macrì (classe 1988) che conosce per varie ragioni. Il padre è un conosciuto «dentista dei vip», inoltre Saverio difese l'ex Miss Italia Carlotta Maggiorana e possiede quote di un locale riaperto sei anni prima, il «55 Milano» (ex Royalto) oltre a essere un ex calciatore professionista che però è riuscito a laurearsi a pieni voti. Lavora nello studio del più navigato 50enne Luca Procaccini, che si è fatto le ossa con l'ex presidente della Camera Penale di Milano. Il primo incontro tra la vittima e i legali è una tragedia: una parola e un pianto, un'altra parola e un pianto. Le dicono di prendersi il suo tempo, di non sentirsi obbligata a firmare con loro. Lei si ripresenta l'indomani e, anzitutto, dice che vorrebbe una «pena esemplare». E loro non aspettavano altro. Ma la priorità va a lei: contattano subito un team di psichiatri forensi più una nota criminologa (vera, non televisiva) che presto dirà: «È il caso più provante e inimmaginabile che io abbia affrontato. La strada del recupero sarà molto lunga». Anche gli altri specialisti parlano di «trauma spaventoso».

Dopo qualche giorno, Danny Leali incontra Genovese che riferisce del casino e dell'appartamento sequestrato: ma non entra nei dettagli. Leali sapeva che la ragazza era finita in ospedale, e immaginava che magari si fossero drogati in una notte di sesso estremo. I due si incontrano ancora, giorni dopo, e Genovese chiede di contattare A. per favorire un incontro tra gli avvocati, e aggiunge di riferire - sì - che era innamorato di lei. In effetti, in data imprecisata, ci sarà uno scambio di messaggi vocali tra Leali e la ragazza. Lui dirà che aveva solo un ruolo di organizzatore della Milano notturna, e che certo, c'era la droga, la prendevano tutti, lui però non era certo uno spacciatore o un procuratore di ragazze. Lei parrà credergli, poi gli dirà, piangendo: «Ho paura di chiunque, ho paura di mia madre, di qualsiasi persona». Il luogo comune che «tutti usassero cocaina», a Milano, sarà sempre contestato dall'avvocato Macrì: «Io ho quote in locali notturni, sono giovane, ho fatto il calciatore, sono stato anche a Ibiza, ho conosciuto anche Leali, eppure non ci crederete: ma io la coca non l'ho neanche mai vista. Mai». «È sbagliato», sottolinea, «dire che tutti sapevano o la usavano». «Una cosa che mi ha dato dei dubbi», dirà invece Leali in un'intervista, «è che dopo aver lasciato l'ospedale lei era già di nuovo per locali e feste». La ragazza negherà, ma è indubbio che nei giorni successivi lei posterà delle foto forse inadatte - diciamo - e sarà presente sui social: è lì che apprende, legge, soprattutto non si capacita che una parte dell'opinione pubblica giudichi, e dica che l'ambiente era quello che era, che chi va al mulino s' infarina. I legali glielo dicono: chiudi i profili social, lascia perdere, devi curarti. Ma lei è incazzata, chiede ai legali di andare in tv a difenderla. Loro ci vanno. «La mia cliente è una bambina di 18 anni», dirà Macrì, «e ha una personalità non ancora strutturata».

15 ottobre. In procura si presenta una teste giovanissima, M., che in luglio era stata ospite di Genovese a Ibiza, a «villa Lolita», dove turnavano un sacco di ragazze ed era tutto pagato. Racconta di feste, droghe gratuite sinché «mi invitarono a continuare a pippare nella stanza del capo da quando sono entrata in camera e ho tirato una striscia rosa, non ricordo più nulla al risveglio il mio top era strappato e non avevo più reggiseno né scarpe, avevo le gambe piene di lividi e un gran male ai polsi». Lo stesso schema. «Danny Leali ci aveva messo in guardia sul comportamento di Genovese, dicendo che faceva cose strane, girava voce che mettesse roba nei bicchieri», mi disse pure che «Alberto esagera, ma che io non ero una bambinetta sprovveduta, e pertanto non mi sarei dovuta mettere in una situazione in cui non volevo stare Tra le voci c'era che Genovese mettesse cocaina o ketamina analmente alle ragazze, in modo da stordirle immediatamente». I filmati delle telecamere sono a disposizione dei magistrati.

5 novembre. L'attico di Genovese viene perquisito minuziosamente: trovano fascette per legare, palette per colpire o sculacciare, molte fruste, manette, vibratori di tutte dimensioni, cravatte da usare come corde. In cassaforte ci sono 20 grammi di cocaina, 8,4 grammi di coca rosa (da soli costerebbero 4200 euro) più una fiala con scritto «Cookies gusto gorilla blue» (che sarebbe un hashish con elevato principio attivo) che contiene un liquido trasparente: è il Ghb, la cosiddetta droga dello stupro.

6 novembre. Genovese, per telefono, dice alla madre che sarebbe partito per Amsterdam e poi per il Sudamerica col suo jet privato. Nello stesso giorno sollecita il rilascio del suo passaporto e cerca di capire se abbiano sequestrato anche quello della sua fidanzata o ex fidanzata, Sarah Borruso. Si prospetta un classico pericolo di fuga. Quel giorno stesso viene arrestato per violenza sessuale, sequestro di persona, cessione di droga alias spaccio, lesioni gravi e disturbo della quiete pubblica. I suoi legali, con certo senso dell'umorismo, sosterranno che l'indagato non voleva fuggire, e che a provarlo c'era che quel giorno aveva un appuntamento per un operazione di trapianto dei capelli. Davanti ai magistrati, Genovese piange, si dispera e spiega di essere dipendente dalla cocaina: «Ogni volta ho allucinazioni e non ho più la percezione del limite tra legalità e illegalità, ho bisogno di essere curato, anche se mi sento una persona intimamente sana». Parentesi tecnica: la cocaina non dà dipendenza fisica, ma solo psichica; non esiste una cura intesa come «disintossicazione» da cocaina.

28 novembre. I legali di lei, per tutto il mese, si sono ammazzati di comparsate televisive. Venerdì, il 27, A. ha voluto incontrarli personalmente per ringraziarli di tutto quello che stavano facendo, anche se lei in apparenza non ha cambiato il suo stile di vita. Ma sabato 28, in un ristorante del centro, c'è uno strano pranzo. E' un pranzo vero, nonostante il lockdown lo proibisca: e ci sono, oltre alle ostriche, anche la ragazza - sempre scortata da qualche amico/autista - e persone variamente legate a Genovese e all'avvocato milanese Luigi Liguori.

29 novembre. L'avvocato Macrì sta per andare in onda su La7, in un talkshow serale, ma riceve una chiamata dalla ragazza: «Vorrei che non andassi in onda, che non si parlasse più di me». Ora vuole tenere un profilo basso: il contrario di quanto aveva detto in precedenza. Forse è cambiato qualcosa.

30 novembre, lunedì. L'avvocato Macrì, ignaro di pranzi o altro, accompagna la ragazza da un medico legale in Toscana, che la trova in condizioni da ricovero. Al ritorno, lei va dall'avvocato Luigi Liguori e lo nomina avvocato principale: gli altri due rimarranno sostituti d'udienza. La ragazza fa anche una rapida chiamata a Luca Procaccini per avvertirlo: ma lui, proprio in quel momento, sta vivendo una tragedia - sua moglie è grave in ospedale - e neanche capisce, non realizza.

1° dicembre. L'avvocato Macrì, sempre ignaro, accompagna la ragazza in una clinica di Parma dove dovrebbero curarla e allontanarla dal famoso stile di vita (che poi sarebbero le droghe) ma lei in clinica resiste tre ore in tutto. Chiama Macrì, e gli dice di tornare subito a riprenderla, e che sennò sarebbero venuti altri.

2 e 3 dicembre. Macrì apprende dai giornali del nuovo avvocato ufficiale, Liguori. Procaccini telefona a Liguori che incappa in una serie di gaffe e probabili scorrettezze. Non ha avvertito i colleghi del cambio. Non si è sincerato che fossero stati pagati. Inoltre, con loro, al telefono, s' inventa di essere «avvocato di famiglia» ma è subito smentito dal padre della ragazza. Procaccini e Macrì prendono tempo: non hanno ancora idea se Liguori abbia una strategia, né quale.

4 dicembre. La trasmissione Quarto Grado (Mediaset) parla del pranzo del sabato precedente. I due legali trasaliscono. E' un pranzo in cui c'era la ragazza con delle persone legate a Genovese e all'avvocato Liguori. 5 dicembre. I due, con un rumoroso comunicato, si dimettono dall'incarico assieme a tutto il team medico. Scoppia un moderato casino mediatico, con l'avvocato Liguori che del pranzo non vuole saperne: «La ragazza si è presentata da me spontaneamente». Ci credono tutti.

14 dicembre. Durante una trasmissione del mattino, dopo che l'avvocato Liguori ha tacciato di «inesperienza» il collega Macrì, l'avvocato Anna Bernardini De Pace si lascia andare: «Ci sono due linee difensive che possono riguardare qualsiasi crimine: una è trattare il risarcimento prima del processo, un'altra è trattarlo dopo. Non c'entra l'esperienza: chi cerca un risarcimento prima, in genere, vuole andare in difesa del criminale, chi invece lo vuole dopo cerca la massima sanzione per il crimine. È chiaro che un criminale ricco, la vittima, cerca di risarcirla prima».

15 dicembre. La ragazza, regolarmente accompagnata, rilascia un'intervista al Corriere della Sera nello studio di Luigi Liguori: «Volevo un professionista esperto e stimato. Non ci sono trattative per un risarcimento vorrei che la gente parlasse meno di tutto questo». E' la nuova linea.

17 dicembre. "Libero" incontra gli ex legali della ragazza, Procaccini e Macrì. «Noi abbiamo tentato un percorso terapeutico, ma lei non era contenta. Prima ha chiesto che ci battessimo per una pena esemplare, poi d'un tratto il cambio d'avvocato e il silenzio-stampa, interrotto solo perché le nostre dimissioni hanno fatto casino. Noi volevamo andare a processo e basta: Genovese è uno che non ha neanche chiesto scusa, dovevamo metterci a dialogare con lui? Forse qualcuno ha pensato che un punto d'accordo, con noi, sarebbe stato più difficile, o impossibile. Un risarcimento preventivo, ricordiamo, determina il diritto ad uno sconto di pena considerevole: poi ci sono le attenuanti, le esimenti eccetera». Procaccini e Macrì, alla fine, non sono stati neanche pagati: hanno anticipato tutte le spese, anche per le cure rifiutate. Eppure lo sanno che il denaro muove tutto. E sanno che, forse, andrà così anche questa volta. 

Non è l'Arena, la modella Giulia Napolitano a casa di Alberto Genovese: "Cosa ho visto, in una sola ora". Libero Quotidiano il 14 dicembre 2020. "Un'ora a casa di Alberto Genovese". La modella Giulia Napolitano, ospite di Non è l'Arena su La7, ammette di aver conosciuto l'imprenditore finito nella polvere con l'accusa di aver violentato una 18enne durante una festa nel suo attico milanese vista Duomo, Terrazza Sentimento, lo scorso ottobre. "Ero a Milano da un'amica, che faceva la escort - rivela la 21enne siciliana, che nega con forza di essersi mai prostituita o aver assunto droghe -. Dopo avermi ospitato per 10 giorni mi ha pregato di accompagnarla a una festa privata. Io ho capito di che ambiente parliamo, sapevo che non era Gardaland". L'amica cercava solo la droga: "Testuali parole. Mi ha detto: sai come sono, mi piace divertirmi, stiamo solo un'ora e andiamo via". "E lì c'era la droga?", domanda Giletti. "Sì, nei piatti". "Allora questo ribalta la versione che aveva fornito lei - chiede Giletti a Daniele Leali, in collegamento -, aveva sempre negato la presenza di questi piatti con la droga". E l'amico di Genovese, da Bali, è in evidente imbarazzo.

Non è l'Arena, "andavano alle feste di Genovese per Belen e lo champagne": testimonianza pesante dai festini. su Libero Quotidiano il 21 dicembre 2020. Massimo Giletti si è occupato ancora una volta del caso di Alberto Genovese a Non è l’Arena, la trasmissione andata in onda domenica 20 dicembre su La7. Il giornalista ha dato spazio anche a Marilisa Loisi, la fidanzata di Daniele Leali che ha evidenziato come tutti quei personaggi, anche famosi, che prima facevano a gara per poter andare ai super festini di Genovese ora sono spariti. “Prima tutti lo conoscevano e volevano partecipare alle sue feste, oggi si nascondono”. Ma non è tutto, perché la Loisi ha rilasciato delle dichiarazioni destinate a far discutere, tirando in mezzo anche Belen Rodriguez: “Per quelle ragazze lo scopo era andare alle feste perché c’erano Belen e lo champagne. Io non andavo lì per quello, andavo per passare una giornata, per bere, mangiare e ballare, mentre lo scopo di quelle ragazze era diverso”. 

Pietro Senaldi sul caso Alberto Genovese: "A frequentare cocainomani sadici si rischia lo stupro". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2020. Dopo le polemiche sullo stupro del milionario Genovese, l'ambiente legato ai suoi festini, l'abuso di droga e il ruolo delle vittima, una modella appena diciottenne, nel suo martirio, abbiamo chiesto a uno dei nostri migliori giornalisti, Filippo Facci, di seguire la vicenda. L'obiettivo è fare chiarezza su una storia di cui in troppi parlano per sentito dire, sapendo poco o nulla. Ne è uscito il ritratto di una Milano da sniffare, dove la cocaina è il prezzo che chi se lo può permettere paga per circondarsi di giovanissime attratte dalla polvere bianca più che da altro. Ne è uscito anche il ritratto di un mostro e della sua corte, complice e depravata, indifferenti l'uno e l'altra alla sorte della vittima di turno, abbandonata pure dalle compagne di lavoro e abitudini. Il racconto di Facci è spoglio, né morboso né esibizionista, anche se il materiale lo avrebbe consentito. Lo scopo dell'inchiesta è fotografare il vizio che ha alimentato lo stupro della giovane. Libero non vuol processare la vittima, solo evitare che ce ne siano altre. Per farlo, a nostro avviso, la strada non può limitarsi a inchiodare l'autore delle violenze ai suoi reati; bisogna allargare lo sguardo. La ragazza non se l'è cercata, anche perché finire oggetto di sevizie efferate come quelle che ha subito non era cosa prevedibile da nessuno. Ma l'ambiente e l'abuso di cocaina hanno giocato un ruolo decisivo, e questo va detto. Quando invitiamo le ragazze a stare alla larga dai droga party non intendiamo né colpevolizzare le vittime delle violenze né tantomeno giustificare gli stupratori. Solo mettere in guardia e invitare le giovani donne a fuggire da certe compagnie, perché chi frequenta giri pericolosi rischia di farsi male. Non basta dire che è sbagliato stuprare per evitare gli stupri. Responsabilizzare le potenziali donne abusate non significa attribuire loro la responsabilità dei crimini altrui. La ragazza è andata incontro a un destino terribile che non si è cercata ma che le sarebbe stato risparmiato se non fosse entrata nell'appartamento di Genovese. Dire che una donna ha diritto di drogarsi senza essere abusata è un'ovvietà che non la aiuta. Affermare che se frequenta dei cocainomani sadici rischia lo stupro può salvare lei e altre ragazze. 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 24 novembre 2020. Su Alberto Genovese, napoletano trapiantatosi a Milano e qui arricchitosi smodatamente dopo gli studi bocconiani, ha già scritto abbondantemente il nostro ottimo Filippo Facci, pertanto non ho molto da aggiungere. Posso solo fare una chiosa, visto che della vicenda non si smette più di parlare, come fosse una novità che i drogati vanno fuori di testa e ne combinano di ogni colore. Il signorino di cui trattiamo consumava cocaina a strafottere e spesso la sera, per vincere la noia, organizzava nel proprio lussuoso attico dei festini con amici e soprattutto amiche che si concludevano con grandi performance gastrosessuali. Questo stile di vita notturna è abituale, tipico di chi, stremato dalla routine, cerca svaghi oltre la legalità, il lecito. Capisco che Genovese, facoltoso oltre il limite della normalità, spingesse abitualmente l'acceleratore sulla strada del piacere. Nessuno lo condannerebbe per queste disgressioni, tantomeno io che sono uomo di mondo. Ciò che fa schifo nella sua condotta è l'abuso della micidiale polverina bianca, notoriamente devastante sul cervello di chi ce l'ha piccolo e poco funzionante. Va da sé che drogarsi allontana dalla realtà e favorisce comportamenti riprovevoli e addirittura criminali. Ma è altrettanto vero che chi si incammina sulle piste di coca perde la coscienza e la capacità di autogestirsi. Rimane un mistero. Genovese, il quale nella vita aveva ottenuto qualsiasi soddisfazione non solo finanziaria, che bisogno aveva di ricorrere agli stupefacenti per campare agiatamente? Certo, gli piacevano le donne e non credo faticasse a procurarsene in quantità. Che necessità aveva di ricorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane, dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico. Personalmente ho constatato che si fa fatica a scoparne una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta. Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nella abitazione del nostro "eroe" del menga. Prima osservazione. Dopo che hai penetrato la fanciulla non sei soddisfatto? Nossignori. Vai avanti a farlo fino all' alba. Ammazza che forza. Sei un uomo o un riccio? Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito al massimo fumavo una sigaretta, poi dormivo delle grosse. D'accordo che Genovese era carburato dalla coca, ma la cosa non giustifica tanto accanimento sulla passera. Quanto alla povera Michela, mi domando: entrando nella camera da letto dell' abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele? Tanto più che Alberto godeva della fama di mandrillo. Sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui. Che adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni, perché sarà condannato. Gli auguriamo almeno di disintossicarsi in carcere. Alla sua vittima concediamo le attenuanti generiche, ai suoi genitori tiriamo le orecchie.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 26 novembre 2020. Ieri Piero Sansonetti, direttore del Riformista e giornalista che non ha nulla da spartire con il conformismo imperante, ha scritto una pagina capolavoro per dimostrare che sono un coglione, avendo pubblicato su Libero un articolo nel quale condannavo, ovviamente, Alberto Genovese e sostenevo che la sua vittima, ragazza di 18 anni, si era comunque comportata ingenuamente. Il che non significa niente di strano, bensì riflette la realtà. Sansonetti afferma che in caso di stupro l'unico colpevole è lo stupratore. In sostanza scopre l'acqua calda. Infatti chiunque abbia annusato un manuale di diritto sa che la responsabilità penale è personale. Quindi l'unico a dover essere incriminato per le violenze sulla fanciulla è Genovese, il quale per compiere le sue prodezze si carburava con la coca che distribuiva a mani larghe anche ai suoi ospiti, probabilmente pure alla giovane donna di cui ha abusato. E qui il mio caro e stimato collega Piero cade in errore. Non è vero che l'uso di droga non incida quando si commette un qualsivoglia reato. Tanto è vero che se fai una rapina sotto l' effetto di stupefacente ciò non costituisce un' esimente, al contrario è una aggravante. D' altronde se guidi l' automobile quando sei un po' brillo e la polizia ti becca sei fritto, ti ritirano addirittura la patente. Una signorina maggiorenne certe cose le deve tenere a mente nel momento in cui decide di vivere come le garba. Pertanto, allorché ha scelto di essere ospitata per ben tre volte nell' attico del danaroso imprenditore, era a conoscenza, presumo, che costui non fosse un boy scout. Ella entrando poi in camera da letto sottobraccio all' anfitrione forse immaginava di ricevere certe richieste. Di sicuro non sospettava di essere stuprata, però quando sei sotto le grinfie di un tossico può succedere di tutto. Io non ho messo in croce la donzella, ma, se fossi stato suo padre e avessi avuto notizia che lei si sarebbe recata a casa di un drogato fottuto, avrei tentato di impedirglielo. Non ha senso dire che il mio ragionamento sia ottocentesco. Semplicemente sono consapevole che una diciottenne è attratta dalle novità e non ne valuta i rischi. Io ho avuto quattro figli, tre femmine e un maschio. Statisticamente ci stava che almeno uno fosse una testa di cazzo, invece mi è andata bene. Ma assicuro a Piero che io ho vigilato nonostante fossi impegnato in un lavoro senza orario. Non deploro la succube di Genovese, tuttavia non le posso assegnare la medaglia d' oro alla prudenza.

Alberto Genovese, Dagospia: "Ma è Natalia Aspesi o Vittorio Feltri?", frasi "scomode" sulla ragazzina. Libero Quotidiano il 15 dicembre 2020. Natalia Aspesi ha espresso sostanzialmente lo stesso concetto di Vittorio Feltri sull’orrendo caso che riguarda Alberto Genovese, con la differenza che nessuno è accorso a insultarla. La giornalista ha risposto a una lettera inviata al Venerdì di Repubblica da un papà milanese, che ha raccontato una conversazione con la figlia 17enne che sogna di fare la modella: “Siamo passati per via Torino e le ho mostrato il brutto palazzine dove quel criminale faceva le sue feste e drogava e stuprava le ragazzine. E lei serenamente mi ha detto, lo so, una compagna di liceo aveva invitato anche me, ma io non sono stupida, quella gente è orribile e non ne ho bisogno. Perché ho voi. Mi sono commosso e comincio a capire che posso fidarmi di lei”. La Aspesi ha risposto sostenendo che la ragazza ha detto la cosa giusta: “Sa difendersi ‘perché ho voi’. Perché è stata educata in un certo modo, perché con voi parla e si confida, perché ha fiducia in voi, perché si sente protetta da voi”. Mentre per chi si è lasciata ammaliare da Genovese è tutta un’altra storia: “È difficile credere che quelle feste fossero tipo famiglia, e chi ci andava regolarmente, anche cosiddetti vip del nulla, non sapessero dei vassoi di droga, dei letti disponibili. Lo sapevano e ne approfittavano. Nessuno si stupiva. Quella ragazzina, oso dire almeno imprudente, o molto sola, e chissà con quali sogni irrealizzabili e bisogno, ha pagato per l’irresponsabilità di troppi”. 

Dal “Venerdì di Repubblica” il 14 dicembre 2020.

Lettera di un papà milanese: Mia figlia Serena ha 17 anni ed è molto molto bella: è anche brava, studiosa, ci ascolta; ma è una ragazza d'oggi e sogna di fare la modella. Rispetta la nostra contrarietà ma dice sempre che quando sarà maggiorenne, l'anno prossimo, ci proverà. Domenica mattina siamo passati (distanziati, con maschera) per via Torino, che cominciava ad affollarsi per il primo giorno di shopping, e le ho mostrato il brutto palazzone dove quel criminale di Genovese faceva le sue feste e drogava e stuprava le ragazzine. E lei serenamente mi ha detto, lo so, una compagna di liceo aveva invitato anche me, ma io non sono stupida, quella gente è orribile e io non ne ho bisogno. Perché ho voi. Mi sono commosso e comincio a capire che posso fidarmi di lei. Papà milanese

Risposta di Natalia Aspesi: Mi accorgo che sto diventando noiosa e moralista e se condivido il disprezzo dell'informazione per questo individuo che giustamente sua figlia definisce orribile e la pena per la giovane vittima, sarei più cauta nel giudicare il tutto, diciamolo pure, meno ipocrita. Sua figlia ha detto la cosa giusta: sa difendersi "perché ho voi". Perché è stata educata in un certo modo, perché con voi parla e si confida, perché ha fiducia in voi, perché si sente protetta da voi. Una mia amica mi dice che nel palazzo dove ha lo studio d'avvocato, c'è una agenzie di modelle, almeno così si definisce, e a lei capita di incontrare ragazze e ragazzi, spesso accompagnati da un adulto, la madre o chissà chi, che vanno a farsi vedere e a lasciare il loro recapito. Sono i lavori ambiti di oggi, che richiedono solo giovinezza e un corpo, e non c'è bisogno di studiare, di pensare al futuro. Non li difende nessuno. È difficile credere che quelle feste del Genovese fossero tipo famiglia, e chi ci andava regolarmente, anche cosiddetti vip del nulla, non sapessero dei vassoi di droga, dei letti disponibili. Lo sapevano e ne approfittavano. Nessuno si stupiva. Quella ragazzina, oso dire almeno imprudente, o molto sola, e chissà con quali sogni irrealizzabili e bisogni, ha pagato per l'irresponsabilità di troppi. Un video sul sito del giornale lo dimostra. C'è in giro troppa gente vile e vuota.

·        Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.

Antonio Di Fazio, l'imprenditore in carcere per violenza sessuale indagato anche per bancarotta: dichiarata fallita la sua srl farmaceutica. La Repubblica il 23 agosto 2021. La nuova contestazione emerge dopo che nei giorni scorsi, su richiesta della Procura di Milano, è stata dichiarata fallita, per debiti erariali e previdenziali da oltre mezzo milione di euro. E' indagato anche per bancarotta fraudolenta l'imprenditore farmaceutico Antonio Di Fazio, in carcere da maggio per aver violentato, nel suo appartamento di lusso in centro a Milano, una studentessa di 21 anni, dopo averla resa incosciente con una dose massiccia di tranquillanti per poi fotografarla, e accusato pure di altre violenze con lo stesso schema. La nuova contestazione emerge dopo che nei giorni scorsi, su richiesta della Procura di Milano, è stata dichiarata fallita, per debiti erariali e previdenziali da oltre mezzo milione di euro, la Industria Farmaceutica Italiana srl, di cui Di Fazio risultava amministratore di fatto. Ai primi di agosto, a seguito delle indagini coordinate dall'aggiunto Letizia Mannella e dai pm Alessia Menegazzo e Pasquale Addesso e condotte dai carabinieri, Di Fazio è stato mandato a processo con rito immediato per gli abusi ai danni della 21enne attirata nell'appartamento col pretesto di uno stage formativo alla Global Farma, società creata dal manager lo scorso aprile e, secondo gli accertamenti, nata 'dalle ceneri' della Ifai, fallita a fine luglio. Il processo sulle violenze si aprirà il 16 novembre (a settembre Di Fazio avrà tempo per chiedere il rito abbreviato) e riguarda solo il caso della studentessa che si era trovata a casa di Di Fazio il 27 marzo scorso totalmente priva di forze e completamente stordita. Secondo le indagini, ci sarebbero altre 4 vittime, che avrebbero subito abusi con lo stesso schema, a cui si aggiunge pure l'ex moglie dell'imprenditore che sarebbe stata oggetto di maltrattamenti e di un tentato omicidio. Su tutti questi episodi sono ancora in corso gli accertamenti e si stanno approfondendo sospetti legami dell'imprenditore con ambienti della criminalità organizzata calabrese. Nel frattempo in un altro filone di indagine Di Fazio è accusato di bancarotta per il crac della Ifai che avrebbe avuto anche debiti non onorati con enti pubblici. Tra gli episodi una presunta mancata consegna di mascherine per un valore di circa 200mila euro ad un'azienda sanitaria piemontese. L'amministratrice formale della Ifai, presunta "testa di legno", nei mesi scorsi aveva denunciato Di Fazio. Nella sentenza di fallimento i giudici (presidente Sergio Rossetti) scrivono che la società "non ha depositato i bilanci dei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento" e mettono in luce l'esistenza di un "ingente debito erariale".

Cristina Bassi per "il Giornale" il 3 agosto 2021. La Procura di Milano ha chiesto il giudizio immediato nei confronti dell'imprenditore farmaceutico Antonio Di Fazio, in carcere dallo scorso maggio con l'accusa di aver violentato nella propria casa una studentessa di 21 anni cui aveva prima fatto assumere dosi massicce di benzodiazepine. E poi, quando lei era priva di coscienza, di averla fotografata senza abiti. La giovane, conoscente della famiglia dell'imprenditore, era stata attirata nel lussuoso appartamento in centro con il pretesto di uno stage formativo in una delle aziende di Di Fazio, la Global Farma. In casa in quel momento c'erano anche il figlio e l'anziana madre dell'uomo, che non si sarebbero accorti di nulla. La richiesta di processo immediato, che comporterebbe l'assenza di udienza preliminare, deve ora essere vagliata dal gip Chiara Valori. Uno dei requisiti per tale istanza, avanzata dal pm Alessia Menegazzo e dal procuratore aggiunto Letizia Mannella, è la «evidenza della prova». Il giudice può accogliere, entro cinque giorni, e disporre il processo fissando una data di almeno trenta giorni posteriore al decreto. Oppure può rigettare la richiesta della Procura. Se accoglie, l'indagato ha la possibilità di chiedere il rito abbreviato o il patteggiamento. L'istanza dei pm riguarda solamente il caso della studentessa della Bocconi che si era trovata a casa di Di Fazio il 27 marzo e che lo ha denunciato. Secondo le indagini tuttavia, ci sarebbero altre quattro vittime dell'uomo, cui si aggiungerebbe l'ex moglie che sarebbe stata anche lei maltrattata, drogata e avrebbe subito violenza. Su questi episodi sono ancora in corso accertamenti. Nel frattempo gli approfondimenti economici sul patrimonio e sulle aziende di Di Fazio, filone questo affidato al pm Pasquale Addesso, hanno portato alla richiesta di dichiarare fallita un'altra delle società del 50enne, l'Industria farmaceutica italiana srl. L'imprenditore in cella inoltre, si è saputo, ha di recente fatto richiesta attraverso i propri legali di detenzione domiciliare. Ma il gip non l'ha accettata. In relazione ai fatti di marzo Di Fazio è accusato di violenza sessuale aggravata, sequestro di persona e lesioni personali aggravate. Ad arrestarlo sono stati i carabinieri del Nucleo operativo della compagnia Milano Porta Monforte. Il carattere seriale dei suoi reati, che avrebbe commesso a danno di diverse giovani, e l'esistenza di uno schema criminale sono stati dedotti prima di tutto dalle 54 fotografie di donne in stato di incoscienza e nude da subito trovate nel suo telefonino. Lo ha sottolineato il gip Valori nell'ordinanza di custodia, definendolo un «moderno Barbablù». Dopo l'arresto si sono fatte avanti in Procura altre presunte vittime. Nel momento in cui l'imprenditore ha saputo di essere sotto indagine, ha fatto un tentativo di quello che gli inquirenti considerano un depistaggio. Ha denunciato la 21enne per calunnia, raccontando che lei lo voleva incastrare perché le aveva rifiutato un dono in denaro. Ma questa versione dei fatti è da subito stata valutata come non plausibile dallo stesso gip. Di Fazio si trova quindi ancora a San Vittore e tra circa un mese potrebbe affrontare il processo.

(ANSA il 22 maggio 2021) I carabinieri della Compagnia Milano Porta Monforte hanno eseguito una ordinanza di custodia cautelare in carcere per violenza sessuale aggravata, sequestro di persona e lesioni personali aggravate nei confronti di un 50enne, amministratore unico di una nota azienda farmaceutica milanese. Le indagini sono partite dalla denuncia di una studentessa universitaria di 21 anni che aveva raccontato di essere stata invitata ad un incontro di lavoro tra imprenditori per uno stage e di aver perso completamente i sensi dopo aver bevuto un caffè. Si era risvegliata a casa stordita e con addosso i vestiti indossati la sera precedente. Le indagini dei militari sono state coordinate dal Dipartimento "Tutela della famiglia, dei minori e di altri soggetti deboli" della Procura di Milano, in particolare dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo. Nel corso della perquisizione in casa dell'uomo erano state trovate, nascoste in una nicchia a scomparsa della cucina, due confezioni di "Bromazepam", un ansiolitico della famiglia delle benzodiazepine. I carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia Porta Monforte in collaborazione con quelli del Nucleo Investigativo di Milano, hanno accertato, grazie all'analisi dei tabulati telefonici, delle immagini estrapolate dagli impianti di videosorveglianza e dei dati gps registrati dallo smartwatch della ragazza e con accertamenti su vari telefoni e computer utilizzati dall'imprenditore, che l'uomo il 26 marzo dopo aver invitato la vittima a una finta riunione di lavoro, le aveva somministrato, mescolandola con un caffè e un succo d'arancia, un'elevata dose di benzodiazepine, provocandole un'intossicazione con avvelenamento. Questo, spiegano i militari, "per privarla della libertà personale, trattenendola presso la propria abitazione contro la sua volontà fino al mattino seguente, porla in uno stato di incapacità di volere e di agire per abusarne e fotografarla". L'uomo, preoccupato dall'esito della perquisizione e dalle indagini aveva addirittura tentato di crearsi un alibi, consigliando familiari e amici a rendere dichiarazioni compiacenti e accusando la studentessa e la sua famiglia di tentare un'estorsione ai suoi danni. Sono in corso altri accertamenti per identificare altre donne che, in passato, potrebbero aver subito abusi sessuali da parte dell'indagato con lo stesso modus operandi. Per questo, i carabinieri invitano coloro che abbiano incontrato l'imprenditore, accusando poi uno stato d'incoscienza, a contattare immediatamente i carabinieri della Compagnia Milano Porta Monforte.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 24 maggio 2021. Dopo la Milano da bere, la Milano da stuprare. Quanta nostalgia, a quarant' anni di distanza, per una città dove l'illusione di sentirsi qualcuno era affidata al rito fatuo dell'apparenza, alla rucola e alla chiacchiera da foyer. Spazzata via - insieme alla classe politica che ne era l'espressione - la generazione spensierata di rampanti che ne era l'ossatura e la linfa vitale, nella ex capitale morale fiorisce una generazione di ricchi senza volto nè radici nè rappresentanza, miracolati da una economia impalpabile che non richiede conoscenze specifiche ma solo intuizioni fulminee. Sanno che la catastrofe può essere repentina quanto lo è stato il successo. E allora c'è poco da stupirsi se affidano le prove del proprio ego fuori controllo all'unico, immortale strumento di affermazione del maschio dominante: il controllo assoluto sulla donna, brutale, sbrigativo. Non serve essere affascinanti, non serve nemmeno quel po' di chiacchiera da cinepanettone che portava le serate degli anni Ottanta ad approdare sul materasso. Basta la chimica. La cocaina di Alberto Genovese, le benzodiazepine di Antonio Di Fazio, scorciatoie a poco prezzo per saltare a piè pari quel minimo sindacale di corteggiamento dall'esito incerto e approdare direttamente allo stupro puro e semplice. Apparire non serve, anzi questi rituali di sopraffazione si esaltano nei loft blindati come catacombe, unico occhio presente la videocamera destinata a replicare in eterno quei pochi o tanti minuti di dominio totale. Apparire non serve perchè non c'è nulla da mostrare, neanche l'abbronzatura da lettino del seduttore, neanche i muscoli fittizi da palestra. I Genovese, i Di Fazio, sono pallidi e smilzi, non subiscono il feticcio del benessere fisico. Sono inciampati per caso in montagne di soldi ma sanno che anche il denaro come strumento di seduzione ha fatto il suo tempo, nell'arena metropolitana si muove una generazione di donne che si è liberata di quella soggezione davanti al quattrino che un tot di loro mamme si portava appresso. E allora l'unica strada è lo stupro a forza di pillole, l'oggetto reso incosciente, pronto ad essere trascinato nel vuoto infinito che i signori della clic economy portano con sè.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 22 maggio 2021. È accusato di aver narcotizzato e abusato di una studentessa di 21 anni che lo aveva contattato per uno stage universitario. Per questo Antonio Di Fazio, classe 1971, amministratore unico della Global Farma, facoltoso imprenditore del settore farmaceutico milanese, è stato arrestato dai carabinieri. Le accuse sono di sequestro di persona, lesioni aggravate e violenza sessuale aggravata. Dalle indagini sarebbero emersi altri casi di violenza ai danni di diverse donne. Gli inquirenti lanciano un appello a tutte le potenziali vittime dell’imprenditore a mettersi in contatto con i carabinieri della compagnia Porta Monforte di viale Umbria. Il sospetto è infatti che Di Fazio utilizzasse la stessa tecnica per «agganciare» le ragazze e abusare di loro dopo averle narcotizzate con massicce dosi di benzodiazepine. L’indagine è partita il 28 marzo quando la 21enne, studentessa bocconiana, ha denunciato ai militari guidati dal capitano Silvio Maria Ponzio, di essere stata abusata dal 50enne. La giovane ha detto di essere stata invitata a un incontro tra imprenditori del settore farmaceutico finalizzato a uno stage formativo nella sua azienda e di aver perso completamente i sensi dopo aver bevuto un caffè. La vittima poi si sarebbe risvegliata a casa propria ancora stordita e con addosso i vestiti indossati la sera precedente. Nei giorni seguenti gli investigatori hanno perquisito la casa del 50enne e hanno trovato nascosta in una nicchia a scomparsa della cucina due confezioni di «Bromazepam», un ansiolitico che contiene benzodiazepine. Le indagini, coordinante dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo, hanno poi ricostruito quanto accaduto quella notte attraverso le immagini delle telecamere e il gps dello smartwatch indossato dalla ragazza. Ma anche sui vari telefoni e pc sequestrati al 50enne dove sarebbero state trovate le tracce anche delle altre, numerose, violenze. L’imprenditore dopo aver invitato la vittima a casa, secondo le indagini, l’avrebbe drogata con le benzodiazepine versate nel caffè e in un succo d’arancia. Una volta incosciente l’avrebbe spogliata, avrebbe abusato di lei e fotografata. Un incubo durato per diverse ore. Quando ha scoperto che la giovane lo aveva denunciato ai carabinieri ha cercato di crearsi alibi grazie alle testimonianze false di alcuni amici e famigliari. Ma soprattutto Di Fazio ha cercato di far ricadere la colpa sulla giovane vittima e sulla sua famiglia accusandole di un tentativo di estorsione.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 22 maggio 2021. Antonio e Antonello. Due nomi, un solo uomo. Antonello è l’uomo premuroso fotografato accanto all’anziana madre che vive con lui nel lussuoso appartamento vicino al parco Sempione. Antonio è invece un imprenditore rampante, amante delle belle macchine, dei viaggi, dei locali più esclusivi. E che si spacciava per agente dei servizi segreti con tanto di pistola giocattolo, fondina, tesserino del ministero dell’Interno e lampeggiante blu in macchina. Vicende per le quali era stato più volte denunciato negli anni. Dietro al loro volto c’era sempre lui, Antonio Di Fazio, 50 anni compiuti ad aprile, originario di Cuggiono e fondatore e proprietario della ditta farmaceutica Global Farma. Azienda che nei mesi scorsi aveva anche ricevuto un appalto dalla Regione Lombardia in materia di forniture di dispositivi di protezione anti-Covid. Da venerdì è chiuso nel carcere di San Vittore con l’accusa di violenza sessuale, lesioni aggravate (avvelenamento da psicofarmaci) e sequestro di persona. Qualche giorno dopo la denuncia della 21enne studentessa bocconiana nei suoi confronti, la sua casa era stata perquisita dai carabinieri della compagnia Monforte guidati dal capitano Silvio Maria Ponzio, e in quell’occasione erano state sequestrate due boccette di benzodiazepine dentro a uno scomparto della cucina. Una era ormai a metà. A quel punto Di Fazio cerca di screditare la ragazza dicendo di essere stato vittima di una estorsione: «Mi ha chiesto 500 mila euro». Versione che racconta agli amici e ai familiari, e poi mette per iscritto in una denuncia per calunnia nei confronti della 21enne. Di Fazio, nel racconto degli inquirenti, emerge come una persona molto facoltosa, di grandi relazioni, ma anche di enormi millanterie. A cominciare dallo spacciarsi per agente segreto, per poi raccontare in giro di amicizie nell’alta società e interessi all’estero in realtà non reali. Come quando si spaccia per «Alto commissario per l’emergenza Covid», con la scusa di avere fatto una fornitura per la Regione.

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2021. Alle 22.20 il fidanzato della vittima riceve uno strano messaggio WhatsApp: «Sono da amici». Ad accompagnarlo c’è un’immagine dove la ragazza è «ritratta con gli occhi quasi chiusi all’interno dell’appartamento dell’imprenditore Di Fazio». Quattro ore prima (alle 19.38) il ragazzo le aveva mandato un messaggio vocale. La vittima dirà ai carabinieri di essere certa di non averlo mai ascoltato. Per gli investigatori a sentire quel messaggio e ad inviare la risposta sarà invece il 50enne Antonio Di Fazio perché la sua vittima in quel momento è incosciente. Non è neppure in grado di muoversi mentre lui la spoglia e le scatta fotografie con il cellulare. Nel suo sangue, due giorni dopo la violenza, i medici del Soccorso violenza sessuale della Mangiagalli troveranno un quantitativo abnorme di benzodiazepine: 900 milligrammi per litro, quattro volte il dosaggio giornaliero. Quantità da «avvelenamento» secondo gli inquirenti. Ha un solo ricordo, la ventunenne studentessa bocconiana fuorisede: «Credo mi abbia fatto mangiare sushi. Era di fianco a me. Mi sono ripresa un attimo, ho sentito l’elastico dei pantaloni che scivolava sulle gambe. Ho visto il suo braccio, aveva un Rolex al polso. La sua mano mi toccava una coscia. Gli ho detto di riportarmi a casa». Il resto è un lungo blackout che terminerà solo il giorno dopo (27 marzo 2021) quando il fidanzato riesce a entrare nell’appartamento che la ragazza condivide con un’amica e a svegliarla. È pomeriggio quando arrivano al Policlinico e la 21enne racconta ai medici di essere stata violentata. Con il passare delle ore affiorano i ricordi. A mezzanotte e mezza, mentre la fidanzata è ancora sotto osservazione, il suo ragazzo si presenta ai carabinieri. Dice di aver trovato la 21enne stordita, che lei ha raccontato di essere stata abusata la sera precedente dall’uomo con cui aveva fissato un appuntamento per discutere uno stage universitario in azienda. Alle 3.30 di notte la giovane viene dimessa e inizia il suo racconto davanti agli inquirenti. Verrà sentita più volte. Descrive minuziosamente l’appartamento di 210 metri quadrati dove vive Di Fazio vicino al parco Sempione. Consegna anche i tracciati del suo smart-watch che ha annotato suoi i movimenti durante la giornata. Da mezzanotte all’una del mattino risultano solo 86 passi. Quelli che, secondo gli investigatori, sono necessari per uscire dal lussuoso appartamento e raggiungere il garage dove Di Fazio la carica sull’Audi Q3 per riaccompagnarla a casa. Nelle ore precedenti l’applicazione aveva registrato solo una manciata di movimenti. Segnale, per la Procura, dello stato di incoscienza. La ragazza conosce l’imprenditore perché lui e la famiglia frequentano da anni l’albergo dei genitori al Sud. L’anno scorso il 50enne viene a sapere che la giovane studierà alla Bocconi. «Mi aveva parlato della possibilità di fare uno stage nella sua azienda a Milano», la Global Farma di via Mario Pagano. Di Fazio la contatta una prima volta a dicembre, le chiede via messaggio se si trova a Milano. Nessuna risposta. Ci riprova il 18 marzo: «Gli ho detto che ero ancora in Sicilia». Il 22 marzo la fa contattare dalla sorella: «Chiama Anto che ti fa vedere l’azienda come eravamo d’accordo, no?». Il 26 marzo la vittima scrive al 50enne: «Ciao Antonello ti aspetto per le 17 o un po’ prima». Lui le risponde immediatamente: «Arrivo per le 17 in quanto gli altri manager arriveranno per le 18». L’imprenditore dice che le presenterà i dirigenti di una nota azienda farmaceutica per farglieli conoscere. All’ora prestabilita va a prenderla a casa con il suo autista. Vanno prima in via Pagano dove le mostra gli uffici (vuoti), poi Di Fazio «libera» il guidatore e dice che l’appuntamento con i manager è spostato nel suo appartamento. «Eppure non aveva ricevuto alcuna chiamata, mi era sembrata una circostanza strana». La 21enne è riluttante: «Mi sono sentita un po’ a disagio». Poi quando arrivano a casa lui le offre un caffé: «Ho subito iniziato a sentirmi molto debole. Mi si è offuscata la vista, pensavo fosse un calo di zuccheri e ho chiesto qualcosa da mangiare». Lui va in cucina e torna con un succo d’arancia e alcune pizzette: «Ho bevuto e ho subito perso i sensi».

"Drogata e stuprata": chi è il manager che si fingeva 007. Francesca Galici il 22 Maggio 2021 su Il Giornale. Si scava nel passato di Antonio Di Fazio dopo la violenza sulla studentessa 21enne, narcotizzata e fotografata nuda, ed emerge una doppia vita. Antonio Di Fazio si trova ora rinchiuso in carcere a San Vittore con un'ordinanza di custodia cautelare per violenza sessuale, lesioni aggravate e sequestro di persona. Antonio o Antonello, due nomi per una stessa persona, apparentemente di ottima condotta. Si faceva fotografare in atteggiamenti premurosi insieme a sua madre, che abitava con lui in un bell'appartamento su corso Sempione a Milano. È amante delle belle auto, dei viaggi e dei locali più alla moda ma aveva anche dei tesserini falsi che attestavano la sua appartenenza ai servizi segreti e alla Guardia di Finanza. Quasi una doppia vita per Antonio Di Fazio, che stando a fonti investigative sarebbe già stato condannato in passato perché, per evitare controlli stradali, era solito esibire i tesserini contraffatti, oltre ad una pistola giocattolo e al lampeggiante blu delle auto di servizio, che teneva in macchina. Antonio Di Fazio millantava anche importanti conoscenze nell'alta società e pre raccontasse in giro di avere interessi d'affari all'estero che, però, si sono rivelati inesistenti. E si sarebbe anche spacciato per "alto commissario per l’emergenza Covid", perché avrebbe effettuato una fornitura per la Regione. Sui social non mancano foto con macchine di lusso, yacht e tutto quanto potesse servire a ostentare un tenore di vita molto alto. Dopo la denuncia della studentessa di 21 anni della Bocconi, che da quanto si è saputo conosceva l'imprenditore da anni per via di un'amicizia decennale con i suoi genitori, gli inquirenti hanno perquisito la sua casa e trovato due confezioni di benzodiazepine in uno scomparto della cucina, di cui uno a metà. Dopo la richiesta di aiuto alle forze dell'ordine, i militari hanno iniziato le indagini e scoperto l'orrore della violenza. Come un "moderno Barbablu", come lo definisce il gip, Antonio Di Fazio cacciava giovani e belle ragazze in cerca di stage e opportunità lavorative nell'azienda farmaceutica per abusarne, dopo averle narcotizzate, e poi fotografarle per documentare il "trofeo conquistato". Il materiale rinvenuto nei suoi dispositivi mobili, foto e altri media, "dimostrano un'evidente serialità nelle condotte, ripetute in almeno quattro occasioni negli ultimi sei mesi". Global Farma, società farmaceutica della quale Antonio Di Fazio è amministratore unico, con un comunicato ha dichiarato che "a seguito di notizie inerenti gravi episodi di carattere personale, non attinenti la società, ha deciso con effetto immediato la revoca dell'organo amministrativo e convoca l'assemblea straordinaria dei soci per la nomina del nuovo consiglio di amministrazione, a tutela dell'azienda e per garantire la continuità operativa".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Il manager accusato di aver narcotizzato e violentato una studentessa. Chi è Antonio Di Fazio, l’imprenditore dalla "doppia vita" arrestato per violenza sessuale. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Maggio 2021. Originario di Cuggiono, fondatore e amministratore unico della ditta farmaceutica Global Farma, secondo gli inquirenti milanesi Antonio Di Fazio non è solo un imprenditore rampante: il 50enne è rinchiuso da venerdì nel carcere di San Vittore con l’accusa di violenza sessuale, lesioni aggravate (avvelenamento da psicofarmaci) e sequestro di persona. L’inchiesta che ha portato all’arresto di Di Fazio ha provocato un polverone nel capoluogo lombardo. L’imprenditore lo scorso 28 marzo è stato denunciato da una studentessa universitaria 21enne, che ha raccontato ai carabinieri di essere stata invitata ad un incontro di lavoro tra imprenditori del settore farmaceutico finalizzato ad uno stage formativo presso un’azienda e di aver perso completamente i sensi dopo aver bevuto un caffè. La ragazza ha raccontato di essersi risvegliata presso la propria abitazione, ancora stordita e con addosso i vestiti indossati la sera precedente. La perquisizione domiciliare eseguita dopo qualche giorno presso l’abitazione di Di Fazio ha permesso di rinvenire in una nicchia a scomparsa della cucina due confezioni di Bromazepam, un ansiolitico della famiglia delle benzodiazepine. Gli approfondimenti hanno permesso di accertare che l’uomo il 26 marzo aveva somministrato alla ragazza un’elevata dose di benzodiazepine per porla in uno stato di incapacità di volere e di agire per abusarne e fotografarla. Come evidenziato dai carabinieri, il manager preoccupato dall’esito della perquisizione e dalle indagini in corso ha anche tentato di crearsi un alibi, non solo inducendo i propri familiari e amici a rendere dichiarazioni compiacenti, ma anche accusando la studentessa e la sua famiglia di un tentativo di estorsione ai suoi danni al solo fine di affinare la propria strategia difensiva. “Mi ha chiesto 500 mila euro”, avrebbe detto Di Fazio ad amici e familiari, mettendo poi le accuse su ‘carta’ in una denuncia contro la studentessa. Dalle indagini condotte dai carabinieri sarebbero emersi almeno altri quattro casi di violenza ai danni di diverse donne, con gli inquirenti che hanno lanciato un appello alle potenziali vittime del manager a mettersi in contatto con i carabinieri della compagnia Porta Monforte di viale Umbria. Un personaggio che, come racconta il Corriere della Sera, è amante dei viaggi, dei locali esclusivi, delle belle macchine. Ma i dettagli strani non sono questi: Di Fazio si sarebbe spacciato per agente dei servizi segreti “con tanto di pistola giocattolo, fondina, tesserino del ministero dell’Interno e lampeggiante blu in macchina”, o da "Alto commissario per l’emergenza Covid", con la scusa di aver fatto una fornitura per la Regione Lombardia. Come appreso da fonti investigative da Lapresse, inoltre, l’imprenditore sarebbe stato già condannato in passato proprio perché, per evitare controlli stradali, era solito esibire i tesserini contraffatti, oltre ad una pistola giocattolo e al lampeggiante blu delle auto di servizio, che teneva in macchina. Una vera e propria "doppia vita", con tanto di due nomi: da una parte Antonello, l’uomo che si fa fotografare con la madre anziana, che vive con lui in un appartamento di lusso nei pressi di parco Sempione; dall’altra Antonio, il manager finito in carcere accusati di reati gravissimi.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Estratto dell'articolo di Federica Zaniboni per “Libero quotidiano” il 23 maggio 2021. (…) Ma le prove più raccapriccianti sono quelle rinvenute nel telefono e nel computer dell'uomo, dove custodiva la sua collezione digitale di ragazze narcotizzate e violentate. Sono comparse le fotografie di altre quattro vittime, ritratte senza vestiti e prive di sensi, spesso immortalate anche mentre lui le toccava. Immagini che il 50enne ha scattato - tra la fine del 2019 e il marzo di quest' anno - senza nessun altro scopo a parte quello di appagare le sue perverse fantasie. Nel periodo delle indagini, l'imprenditore provvede immediatamente a crearsi un alibi, iniziando a raccontare ad amici e parenti che la 21enne lo sta ricattando per una grossa somma di denaro che servirebbe ad aiutare la famiglia in difficoltà economica. D'altra parte inventare storie è una delle sue specialità: dice di avere il titolo di "commissario Covid" - carica del tutto inesistente - e millanta conoscenze con imprenditori internazionali. Attraverso la perquisizione della casa, inoltre, emergono altri aspetti bizzarri della vita dell'uomo: possiede una pistola a pallini, un tesserino del ministero dell'Interno e un lampeggiante della polizia. (…)

Da leggo.it il 23 maggio 2021. «Non ho mai voluto fare del male a Diana in alcun modo e non credo che l'abbiamo fatto»: parlando con il Sunday Times l'ex giornalista della Bbc Martin Bashir - che secondo un'inchiesta indipendente avrebbe usato l'inganno per ottenere una contestata intervista con Diana Spencer nel 1995 - difende il proprio operato. «Abbiamo fatto tutto come voleva lei - afferma - dalla tempistica nell'avvisare il palazzo, alla messa in onda, al contenuto. Io e la mia famiglia l'amavamo». Bashir si è anche rivolto ai principi William e Harry dicendosi «profondamente dispiaciuto». Nei giorni scorsi William aveva detto che le azioni di Bashir e l'intervista avevano dato «un contributo importante» alla fine della relazione tra i suoi genitori e «avuto un peso significativo sulla sua paura, paranoia e isolamento» negli ultimi anni della principessa. Le dichiarazioni di Bashir arrivano dopo che l'ex direttore generale della Bbc, Lord Hall - in carica ai tempi dell'intervista a Diana - si è dimesso ieri da presidente della National Gallery dopo essere stato pesantemente criticato dall'inchiesta.

Milano, imprenditore farmaceutico arrestato per stupro: la denuncia di altre tre vittime. Ilaria Minucci il 23/05/2021 su Notizie.it. Milano, imprenditore farmaceutico arrestato per stupro: la denuncia di altre tre vittime. L’imprenditore farmaceutico arrestato per stupro a Milano è stato accusato del medesimo reato da altre tre ragazze che appaiono in alcune foto dall’uomo. L’imprenditore Antonio di Fazio, attivo nel settore farmaceutico e posto in stato di fermo dallo scorso venerdì dopo essere stato accusato di violenza sessuale da una ragazza di 21 anni, è stato denunciato per il medesimo reato da altre treragazze. Nella giornata di venerdì 21 maggio, l’imprenditore farmaceutico Antonio Di Fazio è stato arrestato per aver stuprato una studentessa della Bocconi di 21 anni presso la sua abitazione di Milano, dopo averle fatto ingerire una dose massiccia di tranquillanti. L’uomo ha, poi, abusato della ragazza priva di sensi e, durante la violenza, le ha anche scattato una serie di foto, accuratamente conservate sul suo smartphone. La vicenda ha generato particolare scalpore, ottenendo vasta risonanza da parte dei media. La diffusione della notizia, quindi, ha portato altre vittime di Antonio Di Fazio a contattare le forze dell’ordine e raccontare la propria drammatica esperienza. Sinora, sono state tre le ragazze che hanno denunciato abusi subiti da parte dell’uomo. Sulla base delle prime indiscrezioni trapelate a proposito della comparsa di nuove vittime, pare che le giovani che hanno denunciato l’imprenditore farmaceutico per violenza sessuale siano al momento tre e che esse figurino in alcune delle foto contenute nel cellulare, attualmente sotto sequestro dell’accusato. Le ragazze, inoltre, verranno ascoltate dai pm diMilano nel corso delle prossime ore. A proposito dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emanata nei confronti del manager, invece, il gip Chiara Valori ha sottolineato che nello smartphone di Antonio Di Fazio sono state rinvenute circa 54 fotografie di altre ragazze “dello stesso tenore” di quelle fatte alla studentessa 21enne, “scattate dall’ottobre 2020”. La galleria hard posseduta dall’uomo, inoltre, è stata definita dal gip come “sconvolgente”. L’indagine aperta in seguito alla denuncia sporta dalla studentessa della Bocconi è coordinata dal pm Alessia Menegazzo e dal procuratore aggiunto Letizia Mannella. La ragazza, secondo quanto rivelato, si era recata nell’appartamento milanese di Antonio Di Fazio lo scorso 27 marzo, per partecipare a un incontro al fine di ottenere uno stage o un lavoro presso l’azienda Global Farma, della quale l’uomo risulta amministratore unico. Una volta raggiunta l’abitazione, tuttavia, la ragazza si sarebbe ritrovata da sola con l’imprenditore, sentendosi presto priva di forze e stordita dopo aver bevuto un caffè corretto con una dose ingente di Bromazepam. L’uomo verrà interrogato dal giudice nel pomeriggio di lunedì 24 maggio per raccontare la propria versione dei fatti, in merito alla vicenda raccontata dalla ragazza e a proposito dei suoi reati.

Di Fazio, si indaga su "rete" di complici: "abusi per anni". Interrogato non risponde. Ascoltate altre tre ragazze: non denunciarono perché minacciate. Ilaria Carra su La Repubblica il 24 maggio 2021. Oltre alle 54 immagini conservate nel telefonino riconducibili a quattro donne diverse, trovate altre foto su altri dispositivi informatici sequestrati al manager. Si indaga su una presunta "rete" di complici, che potrebbero averlo aiutato anche a contattare le ragazze, nel caso di Antonio Di Fazio, l'imprenditore arrestato tre giorni fa a Milano per aver narcotizzato e violentato una studentessa 21enne. Già più di una decina di giovani avrebbero contattato gli investigatori e dalle analisi del suo 'archivio fotografico' emerge che presunti abusi risalirebbero a diversi anni addietro. Oggi tre ragazze hanno confermato, sentite per 8 ore, il "modus operandi" di Di Fazio che passava attraverso offerte di lavoro. Avrebbero anche detto di aver avuto "paura" a denunciare perché anche "minacciate". Si è avvalso della facoltà di non rispondere durante l'interrogatorio di garanzia l'imprenditore farmaceutico Antonio Di Fazio, in carcere da tre giorni per aver violentato, nel suo appartamento di lusso in centro a Milano, una studentessa di 21 anni, dopo averla resa incosciente con una dose massiccia di tranquillanti, per poi fotografarla. E dopo averla attirata col pretesto di uno stage formativo. Nell'ufficio del gip Chiara Valori al settimo piano del Palazzo di Giustizia di Milano erano presenti l'avvocato Rocco Romellano, l'aggiunto Letizia Mannella e il pm Alessia Menegazzo, oltre al giudice che ha firmato l'ordinanza d'arresto per violenza sessuale, sequestro di persona e lesioni. Di Fazio, invece, era collegato in videoconferenza dal carcere di San Vittore. Non c'è solo la vittima che ha denunciato. Altre foto, altri scatti di donne incoscienti e ritratte semi-nude, prive di sensi, inermi: si allarga ancora il numero delle potenziali vittime di Antonio Di Fazio. Oltre alle 54 immagini rintracciate in un primo momento nel cellulare dell'uomo durante la perquisizione del 5 aprile che sono riconducibili a quattro donne diverse tra di loro, su altri dispositivi informatici sequestrati al 50enne sarebbero state trovate altre fotografie dello stesso tenore. I carabinieri, coordinati dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo, sono al lavoro per riuscire ad identificare le ragazze. Che potrebbero essere dunque più di quattro e che ora, ricorrendo alle fotografie trovate, potrebbero essere identificate. Intanto oggi sono state sentite in Procura dagli inquirenti tre ragazze, giovani studentesse anche loro, che hanno già contatto gli investigatori e si sono dette pronte a denunciare. Tra queste c'è anche l'ex fidanzata di Di Fazio, che dopo il suo arresto si è fatta avanti con i militari.

La denuncia della studentessa. La denuncia della studentessa bocconiana risale allo scorso 28 marzo, due giorni dopo la serata che "ha scosso la mia vita". Agganciata con la scusa di uno stage universitario nella sua azienda, la Global Farma srl, Di Fazio le ha offerto un caffè e un succo d'arancia imbottiti di benzodiazepine tanto da far svenire la giovane, "una sensazione mai sentita prima". Un principio di avvelenamento, visto che nel suo sangue il giorno dopo alla Mangiagalli è stato trovato il quadruplo del dosaggio massimo consentito di ansiolitici. La ragazza si è svegliata la mattina seguente, stordita e vestita come la sera prima. Ed è andata prima all'ospedale e poi a denunciare: gli investigatori hanno da subito ritenuto molto credibile la sua versione, poi corroborata dagli elementi raccolti nel corso dell'indagine. Altre donne, vedendo le foto ritrovate, potrebbero aver subito gli stessi abusi. L'uomo, che ha maldestramente tentato di far ricadere la colpa sulla ragazza, è a San Vittore con l'accusa di violenza sessuale, sequestro di persona e lesioni aggravate. Gli investigatori ritengono che la sua tesi difensiva non sia per nulla credibile.

Il suo legale: "E' confuso, non sta bene". Alla fine dell'interrogatorio di garanzia l'avvocato Rocco Romellano, difensore di Di Fazio, ha detto sul suo cliente: "E' molto confuso e provato, non sta bene, io l'ho sempre conosciuto come una persona cordiale, onesta e tranquilla, poi non posso sapere se avesse una doppia vita, non è mai trapelato nulla a riguardo. Allo stato non siamo entrati nel merito delle accuse, che sono piuttosto gravi, approfondiremo e vedremo se chiedere un interrogatorio", ha detto il legale a proposito della scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere.

(ANSA il 24 maggio 2021) Ha scelto di rimanere in silenzio davanti al gip Antonio Di Fazio, l'imprenditore farmaceutico in carcere da tre giorni con l'accusa di aver violentato, nel suo appartamento in centro a Milano, una studentessa di 21 anni, dopo averla resa incosciente con una dose massiccia di tranquillanti, per poi fotografarla.

(ANSA il 24 maggio 2021) "E' molto confuso e provato, non sta bene, io l'ho sempre conosciuto come una persona cordiale, onesta e tranquilla, poi non posso sapere se avesse una doppia vita, non è mai trapelato nulla a riguardo". Così l'avvocato Rocco Romellano, parlando coi cronisti, ha descritto Antonio Di Fazio, l'imprenditore arrestato venerdì scorso per aver stordito con tranquillanti e violentato una studentessa di 21 anni. "Allo stato non siamo entrati nel merito delle accuse, che sono piuttosto gravi, approfondiremo e vedremo se chiedere un interrogatorio", ha detto il legale a proposito della scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Monica Serra per "la Stampa" il 25 maggio 2021. Le vittime sono molte. E Antonio Di Fazio non agiva da solo. Ci sarebbe tutta una «rete» di collaboratori e complici che, più o meno consapevolmente, si agitava attorno al «moderno Barbablù» finito in carcere con l'accusa di violenza sessuale aggravata, lesioni e sequestro di persona. E, quel che è peggio, c' è il timore che non fosse l'unico «collezionista" seriale di "donne trofeo». Di certo per i magistrati lui era pericoloso, molto pericoloso. Seppur all' apparenza un millantatore, per anni, tra pistole giocattolo, lampeggianti delle forze di polizia e finti tesserini dei servizi segreti, è riuscito a terrorizzare le sue vittime, tutte giovanissime. Magari anche grazie ad alcune amicizie legate alla criminalità, su cui ora indagano i carabinieri. Nessuna delle giovani, tra la paura e le benzodiazepine in grado di offuscare i ricordi degli abusi, in passato aveva osato denunciarlo. Una storia dell'orrore che non si sa da quanto tempo vada avanti. Perché gli accertamenti in corso su cellulari e computer del cinquantenne stanno portando alla luce immagini terribili e inquietanti di ragazze senza un nome. Di cui, in alcune foto, non si vede neanche il volto. Abusi brutali su corpi inermi, di giovani narcotizzate e violate, spesso proprio nell'appartamento di 210 metri quadrati in zona Sempione che il cinquantenne divideva con l'anziana madre. Come le prime tre ragazze che, dopo aver risposto all' appello dei pm, ieri sono state sentite fino alle otto sera al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano. Jeans, maglietta, scarpe da tennis: tutte ventenni, studentesse universitarie, dalla faccia pulita che hanno fatto fatica anche a parlare, a raccontare. Tutte «adescate» dall' imprenditore cinquantenne seguendo un modus operandi sempre uguale, con l'offerta di opportunità di lavoro o di stage. Proprio come la studentessa di 21 anni della Bocconi che, la sera del 26 marzo, è stata «avvelenata» con le benzodiazepine, fotografata e abusata. E si è risvegliata il giorno dopo a casa sua talmente stordita da non ricordare, all' inizio, che cosa le fosse capitato. Profili simili tra loro. Giovani donne che in più di un caso sarebbero state contattate attraverso i profili social da collaboratori di Di Fazio con offerte di tirocinio, possibilità di un futuro che, subito, si sono trasformate in un incubo. E che ieri sono state costrette a rivedersi in quegli scatti «sconvolgenti» che Di Fazio ha conservato per anni, criptati sulle memorie del suo computer. Se nel tempo li abbia tenuti per sé o scambiati con altri, le indagini condotte dai carabinieri di Porta Monforte, e ora anche del Nucleo investigativo del Comando provinciale, non sono ancora riusciti a stabilirlo. Ma il fronte dell'inchiesta coordinata dal pm Alessia Menegazzo e dall' aggiunto Letizia Mannella si sta allargando sempre di più. E le chiamate ai carabinieri col passare delle ore si stanno moltiplicando. Anche se in diversi casi le ragazze si vergognerebbero al punto da non trovare la forza di parlare, di spiegare. Tra l'altro, il ritmo a cui stanno viaggiando le indagini dimostra che, a breve, potrebbero arrivare altri colpi di scena. Davanti a così gravi accuse, il cinquantenne interrogato nel pomeriggio dal giudice Chiara Valori si è avvalso della facoltà di non rispondere. Significative anche le parole del suo difensore, l' avvocato Rocco Romellano, che ora potrebbe puntare a una perizia psichiatrica. Di Fazio, ha spiegato, «non sta bene, è molto confuso e provato. Personalmente, l' ho sempre conosciuto come una persona cordiale, onesta e tranquilla. Ma non posso sapere se avesse una doppia vita». Del resto «le accuse contro di lui sono molto gravi».

Cesare Giuzzi per corriere.it il 24 maggio 2021. Ci sarebbero altre immagini di presunte vittime di violenza oltre alle 54 fotografie trovate dagli investigatori nel cellulare dell'imprenditore Antonio Di Fazio, arrestato per aver narcotizzato e violentato una 21enne studentessa bocconiana. È la convinzione degli investigatori che stanno proseguendo gli accertamenti sui due telefoni e sul pc sequestrati all' ex patron della azienda Global farma. Ieri tre ragazze hanno contattato i carabinieri della compagnia Porta Monforte e oggi verranno sentite dagli inquirenti. L' imprenditore sarà interrogato dal gip oggi pomeriggio a San Vittore per l' interrogatorio di garanzia. E sul suo passato spuntano ombre e amicizie pericolose. La vittima intanto chiede silenzio e rispetto: «Sto cercando di tenere in mano la mia vita. Non voglio compromettere le indagini, perseguiremo la giustizia nelle vie tradizionali». Nelle indagini, coordinate dall' aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo, sono emerse finora immagini che ritraggono quattro diverse ragazze in stato di incoscienza e vittime di violenza. Sono tre, finora, le ragazze che hanno contattato i carabinieri chiedendo di essere sentite dicendo di essere state vittime di abusi. I militari stanno cercando di ricostruire i movimenti di Di Fazio attraverso le celle dei telefoni e i tabulati in corrispondenza dei momenti in cui le immagini sono state scattate. Le foto, dove le vittime sono riprese senza vestiti e prive di sensi, sono scattate negli ultimi sei mesi nel lussuoso appartamento vicino al Parco Sempione dove l' imprenditore viveva con la madre 83enne. E identico tenore avrebbero diverse fotografie trovate sui supporti informatici sequestrati al 50enne. Per questo gli inquirenti del pool che si occupa di violenze sessuali stanno verificando anche denunce di sospette violenze del passato presentate da donne che hanno detto di essere state «narcotizzate» e abusate. Si lavora anche per chiarire come Antonio Di Fazio si sia procurato le due confezioni di gocce di «Bromazepam della Ratiopharm da 2.5 mg» trovate in un armadietto della cucina e usate per drogare la 21enne che ha perso i sensi dopo aver bevuto un caffè e un bicchiere di succo d' arancia. Interrogata il 10 aprile, la sorella dell' imprenditore, medico, ha raccontato di aver prescritto lei i farmaci all' anziana madre. Il medico curante, infatti, ha detto che l' ultima ricetta risaliva a cinque anni fa. «Mia madre assume Bromazepam per le sue condizioni di salute. Lo prescrivo personalmente». In un cassetto della camera da letto dell' anziana sono state trovate altre tre boccette. Gli investigatori vogliono capire se Di Fazio utilizzasse le ricette per procurarsi gli psicofarmaci. La testimonianza della sorella è ritenuta «lacunosa» e «non attendibile». Ha infatti avallato con gli investigatori la tesi secondo cui il fratello fosse vittima di una estorsione da 500 mila euro da parte della 21enne. Circostanza smentita dalle indagini. L' abitazione milanese della donna (non indagata) è stata perquisita dagli investigatori. I carabinieri, guidati dal capitano Silvio Maria Ponzio, ipotizzano che Di Fazio si servisse di un amico per «reclutare» le giovani vittime. Alcune ragazze sarebbero state agganciate attraverso uno dei due profili Instagram del 50enne, dove dava l' immagine di un imprenditore rampante amante di viaggi, yacht e auto di lusso. Ma si sospetta che si servisse anche di qualcuno ben introdotto nello scintillante mondo della movida milanese. Dal passato spuntano invece ombre e amicizie in ambienti criminali. Il 50enne era stato indagato e intercettato nel 2009 dalla Dda in un' inchiesta sulla famiglia 'ndranghetista Valle. Il suo testimone di nozze era infatti Riccardo Cusenza, braccio destro di Fortunato Valle, e con il capoclan avrebbe cercato di imbastire affari immobiliari. Di Fazio ha partecipato a un incontro nella Masseria di Cisliano (Milano), quartiere generale del clan. Alla fine era risultato vittima di un prestito ad usura di 40 mila euro, restituito un mese dopo con una maggiorazione di 8 mila euro. All' epoca Di Fazio risultava dipendente delle due società immobiliari di famiglia e viveva con i genitori in un piccolo alloggio nel periferico quartiere di Bruzzano. Nel 2011 sentito in aula aveva raccontato del forte indebitamento delle società e delle difficilissime condizioni economiche. Dieci anni dopo, però, sembra travolto dalla fortuna: guida Bentley, fattura 8 milioni e vive in una lussuosa casa di 210 metri quadrati.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 24 maggio 2021. Quest' ennesima mattanza di corpi violati si poteva evitare. E c' è poco da meravigliarsi se i telefonini di Barbablu, al secolo Antonio Di Fazio, il ricco violentatore seriale che narcotizza le vittime per poi palpeggiarle e fotografarle, sfornano gli scatti di altre vittime. In tutto, nell' ordine di cattura il giudice Chiara Valori indica 54 foto riconducibili a quattro vittime, una nel 2019, le altre negli anni successivi, ma sarebbero molte di più. Oggi tre ragazze si faranno avanti in procura e solo lì si capirà se sono tra le ritratte nei telefonini o altre. Ma questa storia va avanti da più tempo e a più riprese erano emersi gli atteggiamenti quantomeno borderline di questo imprenditore farmaceutico, classe 1971, che vede nel suo passato almeno dal 2009 le prime segnalazioni, le prime denunce vuoi per stalking o per sequestro di persona. Indagini poi archiviate per mille motivi ma che adesso potrebbero venire rivitalizzate in una prospettiva tale da indurre il procuratore aggiunto Maria Letizia Mannella ad allargare il fronte dell'inchiesta. Per stagliare un primo orizzonte bisognerebbe bussare a un ingresso secondario dell'ambasciata americana di via Veneto a Roma, dal quale si accede ai discreti uffici dell' archivio: in un' annotazione informativa ormai ingiallita, risalente al decennio scorso, si fa riferimento proprio a lui. Gli americani inciampano su Di Fazio dopo il suo rocambolesco rapporto con una cittadina di Chicago di origini italiane, iniziato con il classico «due cuori e una capanna» e matrimonio, ma in sei mesi precipitato in incubo, sfociando in separazione e reciproche querele. La signora aveva denunciato il marito per stalking e persino sequestro di persona, ma l'imprenditore era riuscito a riequilibrare i ruoli, perché mentre la donna si medicava in ospedale, era corso a denunciarla a sua volta, sostenendo di esser stato da lei aggredito a colpi di spray al peperoncino. Di Fazio respingeva ogni accusa ma negli Usa l'ex moglie, forte del padre avvocato di Chicago, aveva raccolto ampi sostegni. Partirono anche raccolte di fondi per tutelare la connazionale che voleva portare l'imprenditore farmaceutico in un'aula di giustizia. Il giudice archiviò entrambe le posizioni. Insomma, uno scontro senza esclusione di colpi, dal quale emerge però un aspetto certamente interessante: ritroviamo infatti un' inattesa analogia con la dinamica giudiziaria dell' ultimo episodio al vaglio ora degli inquirenti. Infatti, la giovane studentessa bocconiana di 21 anni, appena dopo aver denunciato gli abusi sessuali è stata denunciata da Di Fazio per un’improbabile estorsione, pur di delegittimarla. Ma non è stato creduto. Del resto, Di Fazio non ha mai avuto alcuna particolare considerazione del gentil sesso e le scelte estreme hanno sempre caratterizzato la sua esistenza. L' aveva capito anche una sua ex fidanzata quando si era ritrovata pedinata da un investigatore privato, che tra l'altro le aveva piazzato numerose microspie in casa per ascoltarne ogni respiro. L' imprenditore temeva che la donna lo tradisse e per questo aveva arruolato un'agenzia di investigazioni che controllava tutti i movimenti con telecamere collocate nell' appartamento. Anche questo era un campanello d' allarme rimasto inascoltato. Sono passati 12 anni da quell' episodio ma l'idea sul mondo femminile è sempre la stessa. Lo capisce bene anche e proprio l'ultima vittima quando si ritrova nella casa dell'aguzzino di via Tamburrini, la sera di venerdì 26 marzo. Di Fazio vuole impressionarla con il suo tenore di vita, le auto di lusso, il grande appartamento dietro al parco Sempione. «Eh vedi, i soldi... i soldi... a voi donne interessano solo gli uomini con il denaro», le dice tronfio, in una curiosa inversione psicologica dove attribuisce agli altri quello che forse pensa lui stesso. Lei strabuzza gli occhi, incredula: «Ma guardi - gli risponde - il mio ragazzo non è certo ricco, anzi, ha origini umili ma assai oneste e dignitose e se lo amo non è certo per i soldi». Ed è un dettaglio che rimane impresso nella mente di Di Fazio per giorni e giorni, almeno fino al 5 aprile, quindi dopo la denuncia, quando conversando con la propria fidanzata al telefono, cerca di ridimensionare le accuse e riferendosi al fidanzato della vittima lo liquida con disprezzo, come un «pecoraro senza soldi». Un brutto incubo che vedrà farsi avanti diverse vittime. Di oggi, di ieri e di anni fa. Donne che magari non avuto il coraggio di denunciare. «Sono sconvolta per chi ho incontrato - afferma la studentessa di 21 anni - ma sono anche fiduciosa nei magistrati e negli inquirenti, stanno lavorando con grande attenzione». Poi, un sorriso dolce e ferito, saluta e torna a studiare.

Gianluigi Nuzzi per "La Stampa" il 25 maggio 2021. La domanda che si ripete nei corridoi delle caserme e della procura: quante sono le vittime? I carabinieri di Milano stanno esaminando vecchie inchieste che avevano coinvolto Antonio Di Fazio per capire se la pratica di narcotizzare la ragazza scelta, per abusare di lei, abbia già precedenti nell'altalenante passato di questo imprenditore farmaceutico. E così gli inquirenti hanno fatto un autentico balzo sulla sedia quando hanno scoperto la presenza di benzodiazepine nel sangue di una donna che temeva di esser stata prima drogata dal Di Fazio e poi abusata. La vicenda, risalente al 2012, era stata poi archiviata ma viene ora riletta per capire se esistono analogie e punti in comune con quanto accaduto alla studentessa Chiara di 21 anni (il nome è di fantasia) che con la sua denuncia ha mandato Di Fazio dietro le sbarre. Un provvedimento forse persino temuto dall'imprenditore visto che emergono nuovi dettagli sugli ultimi suoi giorni di libertà. In particolare, proprio nel giorno in cui il pubblico ministero iniziava a scrivere la richiesta di misura cautelare contro Di Fazio, l'uomo aveva cercato di rinnovare in fretta il proprio passaporto per andare all'estero. Aveva capito che certe certezze stavano franando, voleva scappare? Seguiamo il calendario che si fa sempre più incalzante: la ragazza lo denuncia il 28 marzo, il 5 aprile viene perquisita l'abitazione, il 15 il figlio minorenne viene sentito in modalità protetta, e, ancora, vengono portati via il 20 aprile i cellulari contenenti 54 foto compromettenti di possibili altri abusi. E, appunto la data fatidica: in procura si preparano le carte per mandare Di Fazio dietro le sbarre e lui chiede all'ex moglie la firma per rinnovare il proprio passaporto, atto indispensabile visto che i due sono separati e hanno l'affidamento congiunto del loro unico figlio. Tra l'altro non è una richiesta avanzata con i classici tempi, perché Di Fazio sollecita più volte la controparte, sottolineando le urgenti necessità lavorative. Il fatto che il vecchio documento scadesse il 25 maggio e che lui ne avesse già bisogno di uno nuovo, fa pensare che l'uomo volesse recarsi in un paese non tanto nel breve raggio ma magari dove alla frontiera chiedono per entrare un passaporto a lunga validità. Né può sfuggire che questa richiesta segue di qualche tempo lo sfogo telefonico di Di Fazio con la fidanzata alla quale ripeteva: "Questo casino qua finisce quando Antonello (ossia se stesso) molla sto c. di paese, vende tutte le aziende e vado a stare in un paese dove almeno la legge è uguale per tutti!... La combatto sì però io intanto me ne vado () io me ne vado! Se lo tengano loro 'sto paese del c.!". Ormai le maglie erano quasi chiuse, Di Fazio era intercettato da tempo, le benzodiazipine, conosciute tra le medicine dei genitori negli anni passati e ora micidiali alleate, lo avevano tradito. La quantità infilata nel caffè e nel succo di frutta della sua vittima oltre a intossicarla, privarla della capacità di capire quanto stesse accadendo, rischiava persino di ucciderla. I dosaggi infatti erano tripli rispetto a quello massimo indicato nel bugiardino. Questa tragedia poteva scivolare in una disgrazia ancora peggiore. Per dieci giorni Chiara intontita non riusciva nemmeno a camminare. Ma la sua forza, la sua determinazione, gli affetti del fidanzato e della famiglia l'hanno sorretta. Con una forza ammirabile: «Voglio continuare a studiare - ripete agli amici - non permetterò mai che questa storia mi impedisca di sostenere gli esami prefissati, tanto da cambiare la mia vita». Chissà se e quando conoscerà anche le altre presunte vittime di questo molestatore seriale, di chi solo oggi unendo il suo volto allo stato catatonico vissuto teme di essere un'altra preda caduta nella trappola. O, ancora peggio, di chi è stato in silenzio per paura o per vergogna. O, infine, chi come l'ex moglie che ha rotto il matrimonio dopo soli tre mesi dalla nascita del figlio, non venne creduta, in quella guerra giudiziaria tra querele, denunce e controquerele. Esattamente come accaduto anche a Chiara che Di Fazio aveva denunciato per tentata estorsione pur di inquinare le indagini. Senza essere però, questa volta, lui creduto.

"Drogate e sequestrate per settimane": i racconti dell'orrore. Valentina Dardari il 25 Maggio 2021 su Il Giornale. Questo è il racconto choc di altre due giovani durante le audizioni negli uffici della Procura. Due ragazze, secondo quanto hanno raccontato davanti ai pubblici ministeri, sarebbero state abusate per "giorni" o anche "settimane" dall’imprenditore farmaceutico Antonio Di Fazio. L’uomo si trova rinchiuso in carcere a Milano dallo scorso venerdì ed è accusato di aver prima narcotizzato e subito dopo violentato una giovane studentessa di 21 anni.

Le ragazze abusate per settimane. Sono tre le ragazze che si sono fatte avanti dopo l’appello lanciato dagli inquirenti, in occasione dell'arresto dell'imprenditore 50enne, e due di queste, durante le loro rispettive audizioni negli uffici della procura, avrebbero raccontato di essere state appunto abusate dall'indagato per giorni, se non addirittura per settimane, "quasi due mesi". Secondo quanto emerso dai verbali delle due presunte vittime, nella giornata di ieri si è presentata anche una terza giovane, e tutte avrebbero descritto particolari degli di un "film dell’orrore". I loro racconti avrebbero già dei riscontri dei carabinieri che stanno indagando sulla vicenda, coordinati dall'aggiunto Letizia Mannella e il pubblico ministero Alessia Menegazzo.

Sempre lo stesso schema. L’amministratore unico della Global Farma avrebbe usato sempre lo stesso "modus operandi" per irretire le sue vittime: prima convinceva le ragazze, tutte studentesse, ad andare nel suo appartamento sito in centro a Milano, promettendo loro uno stage nella sua azienda farmaceutica, in seguito le narcotizzava aggiungendo nei caffè e nelle bevande grosse quantità di benzodiazepine, e infine approfittava del loro stato di incoscienza per abusarne sessualmente e fotografarle nude. Proseguono intanto gli approfondimenti dei militari della compagnia Porta Monforte, guidati dal capitano Silvia Maria Ponzio, sui tanti complici, familiari e conoscenti, che avrebbe aiutato Di Fazio a conoscere le sue potenziali vittime, tutte giovani e belle studentesse in cerca di una opportunità di tirocinio formativo o di lavoro. Secondo gli ultimi accertamenti, sarebbero almeno quattro le ventenni entrate in contatto con il 50enne. Ma il numero potrebbe aumentare nei prossimi giorni. Infatti, sembra che da sabato scorso siano giunte alla stazione dell'Arma della compagnia Porta Monforte, una decina di telefonate di altre possibili vittime dell’orco. Sarà compito degli investigatori fare verifiche nei prossimi giorni per accertarne o meno la veridicità. Molte avrebbero detto di non essersi fatte avanti prima perché avevano paura di possibili ritorsioni o minacce. Tutto potrebbe aver avuto inizio prima dell’ottobre 2020. Alcune fotografie che sono state trovate nei dispositivi elettronici appartenenti a Di Fazio, che raffigurano ragazze mezze svestite e addormentate, risalirebbero a diversi anni fa. Con le ultime testimonianze sembra che le vittime venissero abusate per giorni, o anche settimane. Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il gip Chiara Valori aveva scritto: "Evidente serialità delle condotte".

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Antonello Di Fazio, le pressioni sull'ex moglie per il passaporto e il sospetto: chi ha coperto il manager-stupratore. Libero Quotidiano il 25 maggio 2021. La stagista bocconiana di 21 anni non sarebbe l'unica vittima di Antonio Di Fazio, l'imprenditore milanese finito in carcere con l'accusa di violenza sessuale aggravata, lesioni e sequestro di persona. Ci sarebbe addirittura una "rete" di suoi complici e collaboratori che - più o meno consapevolmente - lo avrebbero aiutato, contattando giovani donne attraverso i social per offrire loro delle opportunità di tirocinio, poi trasformatesi in incubo. A quanto pare, nessuna delle altre presunte vittime avrebbe mai osato denunciarlo in passato. Intanto gli accertamenti in corso su cellulari e computer dell'imprenditore cinquantenne - come spiega La Stampa - stanno portando alla luce immagini terribili di ragazze senza un nome. Il modus operandi sarebbe stato sempre lo stesso: i farmaci, poi la violenza e le foto. Pare, inoltre, che dopo le prime perquisizioni e i primi sequestri, Di Fazio volesse tentare la fuga. Come riporta Gianluigi Nuzzi in un retroscena, a seguito della denuncia della 21enne e dell'avvio delle indagini, l'uomo avrebbe cercato di rinnovare in fretta il proprio passaporto per andare all'estero. Dunque, nei suoi ultimi giorni di libertà prima dell'arresto, avrebbe fatto di tutto per fuggire. Queste sarebbero state le tappe: il 28 marzo arriva la denuncia della ragazza, il 5 aprile viene perquisita l'abitazione di Di Fazio, il 15 viene sentito il figlio minorenne dell'uomo in modalità protetta e il 20 aprile vengono sequestrati i suoi cellulari contenenti 54 foto compromettenti di possibili altri abusi. E così, mentre in Procura si preparano le carte per mandare Di Fazio in carcere, lui - come svela il retroscena de La Stampa - chiede all'ex moglie la firma per il rinnovo del passaporto, atto indispensabile visto che i due sono separati e hanno l'affidamento congiunto del loro unico figlio. Da alcune intercettazioni telefoniche, inoltre, emerge che Di Fazio in una conversazione con la fidanzata avrebbe detto: "Questo casino qua finisce quando Antonello (se stesso, ndr) molla sto caz** di Paese, vende tutte le aziende e vado a stare in un Paese dove almeno la legge è uguale per tutti!".

Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera" il 26 maggio 2021. Sei violenze accertate. Cinque donne narcotizzate, violentate, finite nell'album delle «prede» di Barbablù. Una, giovanissima, non s'è ancora presentata agli investigatori che però l'hanno individuata e nelle prossime ore sarà ascoltata in Procura dai magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo. Sono le vittime di Antonio Di Fazio, l'imprenditore 50enne dalla doppia vita oggi accusato di essere uno stupratore seriale. Un elenco che nelle prossime ore potrebbe crescere fino a raddoppiare. Forse triplicare. Perché le prime violenze, tutte usando psicofarmaci per stordire e rendere inermi le ragazze, risalirebbero addirittura a una decina di anni fa. Poi ci sono le suggestioni: la presenza di centinaia di immagini di ragazze abusate, l'emergere di una rete di «reclutatori» e complici, la consapevolezza di un modus operandi così collaudato da far pensare che dietro all'ex patron della Global Farma, ci sia in realtà qualcosa di ancora più sconvolgente. La Procura ha aperto un nuovo filone, affidato al pm Pasquale Addesso, con indagini patrimoniali. Negli ultimi mesi sono stati registrati movimenti bancari sospetti. Una segnalazione arrivata dall'organismo della Banca d'Italia che si occupa di riciclaggio è finita all'interno del fascicolo e apre scenari ancora più complessi. Il tutto sommato alle amicizie pericolose dell'imprenditore. Dieci anni fa era «sul lastrico» per sua stessa ammissione, con le società di famiglia (Coimi, Thecno farm e Thecno gest) travolte dai debiti. Da qui la richiesta di un prestito a uomini del clan Valle della 'ndrangheta. Nella Thecno gest, chiusa nel 2017, oltre a madre, padre e sorella, compariva un 55enne pregiudicato arrestato nel 2014 per un grande traffico di droga. Poi gli affari milionari con la Global Farma aperta in piena pandemia nell'aprile 2020. Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano e della compagnia Porta Monforte scavano nelle chat, nei tabulati telefonici, nelle memorie informatiche a ritmo continuo. E ad ogni passo si scende sempre più giù verso gli inferi in un'indagine partita dalla denuncia di una 21enne studentessa narcotizzata e violentata una sera di fine marzo e diventata ormai un'inchiesta su un maniaco seriale. Le ragazze «agganciate» da Di Fazio non partecipavano a feste tra jet set e cocaina. Lui sceglieva soprattutto studentesse fuorisede lontane dalle famiglie, in cerca di un posto di lavoro o di uno stage universitario. «Giovani normali, alle prese con la difficoltà di vivere in una grande città come Milano, costrette dalle necessità a fidarsi di un imprenditore stimato e conosciuto in un settore importante come quello della farmaceutica», spiegano gli inquirenti. Lui invece approfittava di queste fragilità e le «schiacciava», dominandole nelle sue violenze, minacciandole poi, quando stordite e senza memoria ma terrorizzate, lasciavano il suo appartamento. «Abbiamo avuto negli anni diverse denunce di giovani donne narcotizzate e che si sono risvegliate con il sospetto d'essere state abusate - dicono i magistrati -. In queste storie potrebbero esserci altre vittime». Le due studentesse interrogate in Procura lunedì hanno raccontato di essere state in balia dell'imprenditore anche per settimane intere. Venivano narcotizzate e abusate, poi risvegliate ma tenute in uno stato quasi catatonico con benzodiazepine sciolte nel caffè, nel succo di frutta, nel the o in una tisana. Una giovane, l'ultima che ha frequentato Di Fazio, ha detto che tutto era iniziato quattro settimane prima e di aver trascorso l'ultima chiusa nel suo appartamento con continui abusi. L'incontro con la promessa di un posto di lavoro nella sua azienda. L'ha messa in salvo la sorella che da giorni non riusciva a mettersi in contatto con lei. Una volta libera non ha avuto il coraggio di denunciare anche di fronte a un referto medico che ha certificato massicce dosi di Bromazepam: «Mi minacciava con una pistola». Era la riproduzione di una Glock sequestrata dai carabinieri insieme a un falso tesserino del Sisde. Tra le donne che hanno denunciato Di Fazio c'è anche l'ex moglie americana. La donna nel 2014, nel pieno della causa di divorzio, ha segnalato l'ex marito per maltrattamenti e sequestro. Ha raccontato una storia che oggi appare sovrapponibile a quella della 21enne bocconiana: narcotizzata e tenuta segregata in casa. La sua denuncia era stata archiviata. Venerdì sarà riascoltata dagli inquirenti.

Di Fazio accusato di altri abusi. Redazione il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Oggi sarà ascoltata l'ex moglie: forse fu la prima vittima. I guai per Antonio Di Fazio aumentano, come il numero delle ragazze che puntano il dito contro l'imprenditore farmaceutico di 50 anni, accusandolo di averle narcotizzate e violentato. Il fondatore della Global Farma, che era stato inizialmente chiamato in causa dalla studentessa bocconiana di 21 anni, ora risulta indagato anche per le violenze sessuali che avrebbe commesso anche ai danni di almeno altre due ragazze. Le 20enni - tutte studentesse e con le quali il fondatore dell'azienda farmaceutica aveva intessuto legami sentimentali - sono state ascoltate in Procura a Milano lunedì scorso per oltre otto ore dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo. Ma il cerchio è destinato ad allargarsi e oltre a loro presto ci potrebbero essere altre giovani pronte a sporgere denuncia. Sono una decina quelle che si sono fatte avanti e hanno contattato i carabinieri della compagnia di Porta Monforte e del Nucleo investigativo di Milano, che stanno scavando nella vita del cinquantenne dalla doppia immagine, quella di figlio amorevole e di rampante imprenditore. E ci sono più di cinquanta foto di ragazze seminude e incoscienti, trovate nei telefoni, nei pc e nei device di Di Fazio che, da quanto è emerso dalle indagini, negli ultimi dieci anni avrebbe messo a punto una routine per avvicinare le sue prede. Il modus operandi era sempre lo stesso. Andava a prendere le ragazze - che nelle settimane precedenti aveva frequentato e con cui aveva stretto un legame - con la sua auto con l'autista, le portava nella sede della sua azienda con la scusa di un colloquio, poi le portava a casa sua e offriva loro qualcosa da bere. Nel caffè, nelle tisane o nei succhi di frutta, però, c'erano forti dosi di benzodiazepine. Le studentesse si risvegliavano intontite e per timore di Di Fazio e delle sue amicizie, non si sa fino a che punto millantate, vicine alla ndrangheta non si attentavano a denunciare. E adesso, proprio scoprendo quanto Di Fazio fosse «pericoloso» - una delle ipotesi è che avesse rapporti anche con esponenti del clan Lampada-Valle - adesso sono ancora più caute nel raccontare di quello che avveniva a casa dell'imprenditore. Oltre alle due ragazze che hanno trovato il coraggio di denunciare, altre giovani donne sono state sentite o verranno ascoltate nei prossimi giorni. Sei sono state identificate finora dai carabinieri tra le tante immagini archiviate e avrebbero individuato anche una settima ragazza a cui cercano di dare un nome. Accanto all'indagine sulle presunte violenze sessuali, il pm Pasquale Addesso della Dda sta indagando sugli aspetti patrimoniali e sulla società di Di Fazio, la Global Farma, fondata nell'aprile del 2020 e arrivata in poco tempo ad avere un importante giro d'affari e ad avere clienti importanti come Regione Lombardia. Oggi le indagini proseguiranno con altri accertamenti e l'audizione di altri testi, tra cui la moglie del manager, che potrebbe essere la sua prima vittima.

Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera" il 27 maggio 2021. Mamma e figlia. La ragazza giovanissima aveva avuto una breve relazione con Antonio Di Fazio, l'imprenditore 50enne a San Vittore con l'accusa di aver narcotizzato e violentato una studentessa 21enne bocconiana. E sospettato di almeno altre cinque violenze sessuali con identico copione. Ieri, accompagnata dalla mamma, è stata sentita per cinque ore dai magistrati. A verbale non ha raccontato di abusi sessuali ma di una lunga vicenda di stalking, atti persecutori e minacce iniziata al termine di quella breve relazione con l'ex patron della farmaceutica Global Farma. «Un incubo» che non aveva mai trovato il coraggio di denunciare. Vessazioni continue, telefonate e intimidazioni. E che, dopo l'arresto di sabato scorso, mamma e figlia hanno deciso di raccontare ai carabinieri. Così oltre alle sospette violenze sessuali, per molte delle quali gli investigatori stanno ancora cercando di identificare le vittime, e le cui immagini «trofeo» sono state trovate nelle memorie informatiche di pc e telefoni, ora si aggiungono le nuove accuse di atti persecutori. Con il passare dei giorni il quadro delle indagini somiglia sempre più a un racconto dell'orrore. Per i magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo c' è il forte sospetto che gli abusi con identico modus operandi siano andati avanti per più di dieci anni. La ex moglie di Di Fazio, che verrà sentita domani, ha denunciato nel 2014 di essere stata drogata e abusata sempre dopo essere stata stordita da massicce dosi di benzodiazepine. All' epoca Di Fazio era soltanto un dipendente delle aziende di famiglia (due immobiliari e una farmaceutica) e a parte alcune sue frequentazioni pericolose (con Fortunato Valle condannato per 'ndrangheta e con un ex socio poi arrestato per droga) e una certa spavalderia nell' uso di finti tesserini del Sisde e lampeggiante blu, non era emerso nulla di più. In realtà già nel 2009, al momento della separazione dei due, la donna aveva parlato di abusi. Le indagini sembrano vicine a un punto di svolta. I carabinieri del Nucleo investigativo, guidati da Antonio Coppola e Michele Miulli, stanno trovando riscontri ai racconti delle prime tre donne già sentite nei tracciati dei cellulari e nelle chat. Si lavora su complici e «reclutatori». C' è anche un secondo filone che punta invece sui soldi, partito da una segnalazione di Bankitalia. In mezzo anche (presunti) rapporti con uomini vicini alle cosche. A fine marzo il socio di Di Fazio nella Global Farma, l'architetto Enrico Asiaghi, aveva trovato tre cartucce da caccia calibro 12 sul vetro della sua Maserati parcheggiata sotto la sede.

«Non ho mai ricevuto minacce, ho pensato a uno scherzo». Il giorno dopo però ne parla con Di Fazio che «allarmatissimo» chiama il 112. Alla polizia ha raccontato di essere vittima di un tentativo di estorsione e di aver ricevuto pesanti minacce. «La mia auto compariva in una foto pubblicata sui suoi profili social, pensavano fosse la sua». Secondo il Fatto quotidiano le minacce sarebbero arrivate da uomini del clan Mancuso della 'ndrangheta. «L' azienda è sana, Di Fazio è stato estromesso dal board.La gestione è sempre stata corretta, non ci sono debiti. I soldi? Ne aveva molti. Pensavo fossero di famiglia. Ma non mi stupirebbe sapere che in realtà erano di qualcun altro...». Quanto alle ragazze Asiaghi dice di averlo visto solo due volte in azienda con giovanissime: «È entrato e andato nel suo ufficio. Stagiste? Non ne abbiamo mai avute né cercate». Il socio ha invece conosciuto l'ultima «fidanzata» del 50enne, una ragazza che ai magistrati ha denunciato di essere stata narcotizzata, abusata e minacciata: «Per quanto ne so io lei lo chiamava spesso, lo controllava e aveva paura che la tradisse. Non ho mai avuto il sospetto di quello che è emerso ora. A volte portavo in ufficio mia figlia, ci penso e mi viene il terrore».

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 28 maggio 2021. È formalmente indagato per altre due violenze sessuali il manager Antonio Di Fazio, arrestato una settimana fa con l'accusa di aver narcotizzato e abusato una 21enne studentessa bocconiana. È il primo passo tecnico nelle indagini della procura che lo sospetta di altri tre abusi e di una serie ancora indefinita nei numeri di violenze a donne giovanissime attirate nella «trappola» con la promessa di stage e lavoro nella sua ormai ex azienda Global farma. Ragazze con le quali l'imprenditore aveva avviato brevi relazioni e che ancora oggi «hanno il terrore» di lui tanto che, secondo i magistrati, «molte hanno paura a presentarsi ai carabinieri per timore di ritorsioni». Ieri è stata sentita dal pm Alessia Menegazzo un'altra vittima di abusi. Oggi sarà ascoltata l'ex moglie che ha raccontato di violenze fin dal 2009. Nel pomeriggio c'è stato un vertice degli investigatori sulla strategia delle indagini tra il capo Francesco Greco, l'aggiunto Letizia Mannella, il comandante provinciale dell'Arma Iacopo Mannucci Benincasa, il comandante del Reparto operativo Michele Miulli e quello del Nucleo investigativo Antonio Coppola. Le indagini su Di Fazio coinvolgono ormai più dipartimenti della procura. C'è la Direzione distrettuale antimafia che sta approfondendo i suoi rapporti di frequentazione con uomini legati alla criminalità organizzata. E ci sono gli accertamenti patrimoniali, affidati al pm Pasquale Addesso, per verificare l'origine dei «notevoli flussi di denaro» di cui disponeva e che non potevano provenire dalla sola Global farma, nata soltanto lo scorso aprile in piena pandemia. L'imprenditore era già sotto la lente degli inquirenti per due vicende fiscali e ora starebbe emergendo uno spaccato di società a lui riconducibili ma intestate a terze persone. Come la «Ifi srl», con sede sempre al civico 38 di via Mario Pagano, farmaceutica intestata a una donna di Corsico. Nata nel 2016 ha un fatturato di 31 milioni, ma secondo le stesse ammissioni della titolare (che aveva un'azienda di pulizie) sarebbe in realtà riconducibile a Di Fazio. Prima dell'arresto la Global farma aveva richiesto l'autorizzazione al ministero della Salute per trattare anche farmaci con sostanze psicotrope, come oppiacei e psicofarmaci. L'iter era ancora in corso ma, come conferma il socio Enrico Asiaghi, era già arrivato il nulla osta dei Nas. La sorella dell'imprenditore, oncologa, secondo il socio, avrebbe detto di poter poi creare un canale di vendita con la clinica nella quale lavora. Gli inquirenti stanno approfondendo le minacce denunciate da Di Fazio il 5 maggio e il ritrovamento di tre bossoli sul vetro della Maserati intestata alla sua azienda e in uso al socio. Il manager, davanti alla polizia, ha ricondotto tutto alla falsa (così è stato accertato) estorsione che avrebbe subito dalla 21enne vittima di violenza. Per gli investigatori la storia dei bossoli potrebbe essere stata utilizzata dal 50enne per imbastire una strategia difensiva dopo che la giovane aveva denunciato la violenza a fine marzo. Il sospetto è che quella misteriosa intimidazione sia una messinscena per sostenere la storia del tentativo di estorsione da parte della famiglia della vittima e far ricadere la colpa sulla ragazza.

L'ex moglie di Di Fazio dieci ore davanti al pm: narcotizzata e abusata. Cristina Bassi il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Il racconto da incubo della donna. Da lei due denunce ignorate. Si indaga su sei casi. Milano. L'inchiesta su Antonio Di Fazio, il manager farmaceutico milanese accusato di violenza sessuale, sequestro e lesioni su una studentessa di 21 anni e indagato per altri due casi di abusi, è destinata senza dubbio ad allargarsi ancora. Su più fronti e nei confronti, è verosimile, di altre persone che avrebbero aiutato o coperto il 50enne. Tuttavia la notizia data venerdì dalla trasmissione Quarto Grado, che ha parlato di due nuovi indagati per l'ipotesi di favoreggiamento vale a dire la sorella di Di Fazio, Maria Rosa, e l'attore e comico Fabrizio Brignolo, è stata smentita dalla Procura: «Non ci sono, allo stato, nuove iscrizioni», hanno riferito gli inquirenti. Il procuratore aggiunto Letizia Mannella, che insieme al pm Alessia Menegazzo coordina le indagini dei carabinieri, venerdì subito dopo la trasmissione ha sottolineato: «Stiamo valutando le varie posizioni, al momento non ci sono altre iscrizioni nel registro degli indagati». Si indaga, insomma, ma non si è chiuso il cerchio. E ieri ha parlato con l'Ansa anche Brignolo: «Io mi sono ritrovato in una situazione più grande di me, posso solo dire che la verità verrà fuori, in questa vicenda io non c'entro niente». C'è stata però in effetti una perquisizione nella casa dell'attore in provincia di Asti nell'ambito dell'inchiesta su Di Fazio. Precisa il suo avvocato, Luca Politto: nei giorni scorsi «è stata fatta una perquisizione nella sua abitazione ma non nella qualità di indagato». Le indagini cercano di capire la natura del rapporto tra Brignolo e il manager arrestato, oltre all'eventuale ruolo del comico nella vicenda finita su tutte le prime pagine. A quanto è emerso finora, i due si conoscono e si sentivano, perché Brignolo si occupava dei profili social di Di Fazio. Intanto venerdì in Procura è stata sentita a lungo la ex moglie dell'imprenditore, una donna italoamericana madre di suo figlio. Dal suo racconto i pm hanno avuto un'altra conferma del fatto che il manager della Global Farma fosse un predatore di donne seriale. Che usava sempre lo stesso schema: un invito a casa, le vittime stordite con massicce dosi di tranquillanti, gli abusi sulle donne rese incapaci di reagire, le foto a sfondo sessuale. Finora le giovani identificate, a parte la ex moglie, sono cinque o sei. Ma la lista delle ragazze finite nella rete sarebbe ancora più lunga. E proprio colei che lo ha sposato nel 2008 e che si separò quasi subito, assistita dall'avvocato Maria Teresa Zampogna, ha messo a verbale di aver sporto negli anni della burrascosa separazione numerose denunce contro il coniuge. Per maltrattamenti e stalking. I pm ora stanno riconsiderando quella vicenda (le indagini allora furono archiviate) alla luce dei nuovi fatti emersi. L'ipotesi di chi indaga è che già allora il 50enne avesse cominciato a mettere in atto il proprio schema di abusi con l'uso di tranquillanti, appunto sulla moglie. La donna infatti ha confermato il modus operandi dell'ex. Il suo è stato «un racconto lungo e doloroso» di maltrattamenti subiti circa dieci anni fa. Sotto la lente sono finiti anche gli atti della lunga e tormentata separazione e della causa per l'affidamento del figlio della coppia, con denunce a accuse incrociate tra i due coniugi. La prima costante che è saltata all'occhio degli inquirenti riguardo al modo di agire del manager indagato è l'uso di benzodiazepine per rendere inermi le donne e per cancellare i loro ricordi. Anche la ex moglie di Di Fazio sarebbe stata tenuta in uno stato di «soggezione» psicologica durata lungo tempo. Cristina Bassi

Da mowmag.com il 30 maggio 2021. Massimo Giletti affronta il caso di Antonio Di Fazio, l’imprenditore arrestato con l’accusa di stupro da parte di 4 vittime, narcotizzate prima di essere violentate. Tra i servizi anche una telefonata alla madre della sua ex fidanzata: "“Dal punto di vista umano non l’avevamo mai visto come un mostro, con noi si è sempre comportato in modo assolutamente corretto. Era molto vicino anche a mio marito”. Sulla figlia: “Non è mai stata minacciata da lui, ma quando l'ha lasciato lui ha cominciato a stalkerarla e ogni volta che andava sotto casa sua la ragazza avvertiva il proprio legale". Di Fazio e l’ex fidanzata si sono lasciati anni fa. È possibile che abbia stuprato le ragazze mentre stava con l’attuale ex? "Non aveva il tempo, era molto impegnato”. Questo però non significa che intenda difenderlo: “Se fosse vero, io dico di prendere le chiavi e buttarle via, perché avrebbe potuto farlo anche a mia figlia" L'anticipazione è che stasera a Non è l’Arena Massimo Giletti tratterà il caso di Antonio Di Fazio, l’imprenditore arrestato con l’accusa di stupro (dopo la denuncia di una ventunenne che sarebbe stata ingannata e sedata e sarebbe solo una tra le tante vittime di queti ultimi dieci anni). Ma come lo tratterà? Uno dei servizi che Non è l'Arena dedicherà a questo caso riguarda un'intervista alla madre dell’ex fidanzata di Antonio Di Fazio, in cui si parla del rapporto dell'imprenditore con sua figlia. Un audio di cui siamo in grado di anticipare il contenuto. Il fulcro del discorso riguarda ovviamente Di Fazio, cinquantenne titolare della Global Farma di Milano che secondo quanto viene riportato potrebbe aver abusato di almeno altre quattro donne. Il sospetto è che l'imprenditore avvicinasse le giovani con la scusa di offrirgli un percorso formativo-lavorativo e, dopo averle narcotizzate con benzodiazepine, approfittasse sessualmente di loro. Ipotesi che comprensibilmente turbano la madre dell’ex partner dell’uomo.  “Noi – dice la donna – frequentavamo la sua casa e lui frequentava la nostra. Lui era molto ossessionato, era innamorato, una ragazza così non l’aveva mai trovata”. La figlia è abituata a presentare sempre le persone che frequenta: “Abbiamo questo rapporto, lei non nasconde nulla”. Il rapporto tra i due si era interrotto nel 2018 per decisione di lei, ma lui a quanto pare non avrebbe mollato, tant’è che si fa riferimento anche ad attività descritte come stalking. Quanto agli eventi che hanno portato all’arresto, la donna riferisce che sua figlia ne è rimasta scioccata e dice di aver appreso della vicenda dalla televisione e successivamente da Internet: “Non l’avevamo mai visto come un mostro, con noi si è sempre comportato (parlo del lato umano) in modo assolutamente corretto”. Il lato professionale imprenditoriale invece avrebbe suscitato subito qualche dubbio, perlomeno alla madre. Sulle circostanziate accuse la signora non si sbilancia, anche perché probabilmente in cuor suo spera che ciò che è emerso si riveli almeno non del tutto vero: “Sarà la giustizia a dirlo, io non lo posso dire. Io non l’ho visto mai sotto questa forma, questo lo posso dire. Assolutamente, sotto questa forma nei confronti di mia figlia io non l’ho mai visto, anche perché io avevo un rapporto telefonico tutti i giorni con mia figlia, mia figlia aveva un rapporto di confidenza amicale, non solo come mamma, per cui io la seguivo ovunque, ma non perché lei è una mammona, anzi, è una ragazza molto molto intelligente, molto matura, è sempre stata matura, molto corretta, molto sensibile, molto umana e molto solidale. Se si è tirata indietro avrà avuto i suoi motivi, perché se stai con una persona che è bugiarda, se stai con un millantatore, ti fai quattro conti e dici se questo un domani dovesse essere mio marito e dovesse essere il padre dei miei figli lo annullo a priori”. Lui però parrebbe non averla presa bene: “Molto probabilmente era talmente ossessionato da questo amore che ha provato e che sono sicura ancora prova nei suoi confronti”. La donna però smentisce il fatto che ci siano state delle minacce: “Mia figlia non è mai stata minacciata da lui, assolutamente, questo non esce dalla bocca di mia figlia assolutamente”. Descrive il comportamento di Di Fazio nei confronti di sua figlia come “un’ossessione d’amore”. Ciononostante, la signora dice che ogni volta che lo vedeva nei pressi di casa la ragazza avvertiva il proprio legale, anche perché non è che Di Fazio abitasse nei dintorni. Di Fazio e l’ex fidanzata si sono lasciati anni fa. A quanto pare a lui verrebbero contestati abusi già dal 2010. È possibile che abbia fatto quelle cose mentre stava con l’attuale ex? La madre della ragazza dice di non poterlo sapere, però ne dubita: “Non aveva assolutamente il tempo per poterlo fare nel periodo in cui era con mia figlia. Non aveva il tempo, assolutamente, questo lo dico perché oltretutto era molto impegnato”. I due, secondo l’ex potenziale suocera, in casa di lui non erano mai da soli: ci sarebbero stati il padre malato (poi morto), la colf e gli infermieri. La signora fatica a capacitarsi di quanto secondo le accuse Di Fazio avrebbe fatto: “Diranno gli psichiatri cos’è. Può succedere di impazzire. Nel momento in cui frequentava mia figlia non era così, era un millantatore, uno a cui piaceva mettersi in mostra, una persona megalomane, aggiungiamoci pure anche questo, però…” Questo non significa tuttavia che la donna intenda difenderlo: “Nel caso fosse veramente vero, io dico di prendere le chiavi e buttarle via, perché avrebbe potuto farlo anche a mia figlia e ancora a tante altre ragazze”. A stridere secondo la donna è anche il fatto che con il proprio padre Di Fazio sarebbe stato una bravissima persona e che avrebbe adorato il proprio figlio, per il quale “avrebbe fatto qualsiasi cosa”. Cose che evidentemente però potrebbero non precludere un’attenzione assai minore (se non nulla) nei confronti del benessere delle ragazze in questione. Quanto al perché l’ex fidanzata si fosse messa con Di Fazio, per la madre sua figlia non guardava assolutamente al lusso, perché non ne aveva bisogno: “Non era la sua escort”. E ancora “Mia figlia non aveva bisogno di andare in giro con la sua macchina, perché a casa sua non mancava nulla. È un personaggio che molto probabilmente l’ha colpita a livello di intelligenza. Non si è innamorata delle cose materiali, perché non ne aveva bisogno. Se poi altre ragazze si sono fatte illudere dalla macchina o dal Rolex tutto d’oro…Ci sono ragazze che si fanno anche illudere da quello e poi succede il patatrac”. Riguardo ai media che parlano della vicenda, la donna sottolinea che sua figlia sta soffrendo ancora, però riconosce che il fatto che la storia venga raccontata può servire da avvertimento per qualche ragazza che magari così può convincersi che non sia il caso di andare a un colloquio a casa di qualcuno invece che in un ambiente lavorativo. 

Cesare Giuzzi per il Corriere della Sera il 30 maggio 2021. Un uomo in doppiopetto scortato da un bodyguard si fa largo tra il pubblico di ragazzi a fine concerto. Raggiunge il palco, poi va verso il camerino. Ha un mazzo con cento rose rosse. Chiede di incontrare la cantante, una cantautrice italiana. Insiste. Lei lo saluta, ringrazia, ma si ritrae. Quello è il quinto concerto in un mese. Sempre la stessa cantante, diventata un'ossessione. Il distinto signore in doppiopetto è Antonio Di Fazio, il 50enne imprenditore arrestato una settimana fa con l'accusa di aver narcotizzato e violentato una 21enne bocconiana. Ieri la sua ex moglie è stata sentita per otto ore dai magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo. Ha raccontato di essere stata drogata con benzodiazepine e abusata fin dal 2009. Le sue denunce per maltrattamenti erano però state archiviate. Un racconto «lungo e doloroso», con molti momenti drammatici: «Non potevo più vivere, mi minacciava». La separazione nel 2012. L'episodio della cantante viene raccontato da chi, tre anni fa, era stato ingaggiato per «curare la sua immagine». Di Fazio lo conosce per caso tramite amici. Qualche mese dopo si fa avanti: «Avrei bisogno della vostra assistenza per le mie aziende». In realtà nei 12 mesi di contratto (10 mila euro al mese) il manager non chiede nulla che abbia a che fare con la comunicazione. «Sapeva che ero in contatto con la cantante. Era ossessionato, ma l'ho scoperto solo più avanti. Riuscì anche a procurarsi attraverso altri canali il suo numero. La cercava di continuo», racconta l'ex collaboratore. «Mi dava appuntamento in locali e lounge bar di hotel esclusivi di Milano. Parlavamo, mi raccontava delle sue attività, della famiglia, sembrava più che cercasse un amico. Non mi ha mai chiesto altro se non di accompagnarlo, appunto, a quei concerti». Un giorno il manager va a prenderlo con l'autista. Destinazione Firenze. «A fine concerto andiamo in un lussuoso albergo. Lui scende dall'auto, prende due suite. Ha pagato con banconote da 500 euro. Disse che era abituato così. Usava quasi sempre contanti». Ora la procura e i carabinieri del Nucleo investigativo stanno indagando sulle sue ricchezze e sui presunti rapporti con uomini della criminalità organizzata. Nei racconti dell'ex curatore d'immagine c'è il profilo di un imprenditore facoltoso, con molte amicizie e diverse ombre. Quei 12 mesi riletti oggi sulla base degli atti dell'indagine (è accusato di almeno tre violenze) mettono i brividi: «Girava con il lampeggiante e una guardia del corpo. Sotto la giacca portava una fondina con una pistola». Forse la riproduzione della Glock sequestrata a casa insieme a un tesserino del ministero dell'Interno. «Diceva che la scorta gli era stata assegnata dalla questura perché aveva ricevuto una busta con proiettili dalla ex moglie con cui aveva una causa di separazione». La stessa circostanza denunciata a fine maggio per contrattaccare alla denuncia di violenza presentata dalla 21enne. «Diceva che la sua famiglia possedeva una clinica a San Marino, dove lavora la sorella. Ci andava una volta a settimana». E poi viaggi in Svizzera e in Calabria dove sosteneva di avere uno yacht. Millanterie? «I soldi non gli mancavano. Aveva una Ferrari. Eppure viveva in casa con i genitori».

Non è l'Arena, intercettata la sorella di Antonio Di Fazio: "Prescritto io benzodiazepine? In quanto medico posso permettermelo". Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Dalle anticipazioni di Non è l’Arena - la trasmissione condotta da Massimo Giletti che va in onda la domenica sera su La7 - emerge che si tratterà in maniera approfondita il caso dell’imprenditore Antonio Di Fazio, arrestato per presunti abusi sessuali dopo la denuncia di una ragazza. Il manager finito in manette a Milano è accusato di aver narcotizzato una giovane studentessa e poi di aver abusato di lei: il giudice delle indagini preliminari lo ha definito un “moderno Barbablù”, che avrebbe somministrato benzodiazepine alla ragazza e anche ad altre presunte vittime, in modo da stordirle e abusare di loro sessualmente. Per il momento c’è la denuncia di una sola delle presunte vittime, ma nel frattempo sono state iscritte nel registro degli indagati altre due persone: si tratta di Fabrizio Brignolo, collaboratore dell’imprenditore, e di Maria Rosalba Di Fazio, sua sorella nonché medico. Di conseguenza l’inviata di Non è l’Arena si è recata a San Marino, dove la sorella del manager lavora come oncologa: secondo gli inquirenti potrebbe essere stata proprio lei a prescrivere le benzodiazepine con le quali Di Fazio avrebbe narcotizzato la ragazza. “Non posso lasciare dichiarazioni. Non posso, non rilascio”, ha ripetuto a mo di mantra Maria Rosalba Di Fazio, intercettata all’uscita del poliambulatorio medico dall’inviata di Non è l’Arena. La quale non ha desistito e ha provato a strappare qualche dichiarazione alla sorella di Di Fazio: “Prescritto da me? Io sono un medico e quindi come tale posso permettermi di prescrivere. Non dico niente, lei può dire tutto quello che vuole, ma certo, anche che narcotizza il mondo intero”. 

"Di Fazio era ossessionato da lei". Spunta il nome della famosa cantante. Luca Sablone il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. L'imprenditore avrebbe partecipato a ben cinque concerti in un solo mese: "La cercava di continuo, una volta raggiunse il camerino con un mazzo di 100 rose". "Sapeva che ero in contatto con la cantante. Era ossessionato, ma l'ho scoperto solo più avanti. Riuscì anche a procurarsi attraverso altri canali il suo numero. La cercava di continuo". A svelare ulteriori dettagli sulla vita di Antonio Di Fazio è un suo ex collaboratore, che al Corriere della Sera ha parlato di appuntamenti in locali e lounge bar di hotel esclusivi di Milano. E ha riferito inoltre una serie di richieste di accompagnarlo ai concerti di una famosa cantante. Addirittura in un solo mese avrebbe partecipato a ben cinque concerti. Nello specifico ci sarebbe un episodio, che ovviamente rientra sempre nel campo dei condizionali, che l'avrebbe visto presentarsi nel camerino con un mazzo di 100 rose rosse. Massimo Giletti, conduttore di Non è l'arena, ha svelato quello che potrebbe essere il possibile nome: stando ai riscontri fatti con le sue fonti, "si tratterebbe di Paola Turci". Ai microfoni della trasmissione in onda su La7 ha parlato il giornalista Francesco Capozza, che conosceva la cantautrice. Da qui sarebbe nata la richiesta di Di Fazio di essere accompagnato ai suoi concerti: "Mi ha chiesto di presentargliela. Si faceva largo tra la folla con questo bodyguard e arriva fin sotto il palco". La seconda volta sempre a Milano, a distanza di neanche una settimana, sarebbe riuscito ad arrivare al camerino dove - secondo Capozza - si sarebbe presentato "con un mazzo di rose rosse". Nel frattempo la procura e i carabinieri del Nucleo investigativo stanno continuando a indagare sulle ricchezze e sui presunti rapporti di Di Fazio con uomini della criminalità organizzata. Alla denuncia di una 21enne è seguito l'arresto da parte dei carabinieri della Compagnia Milano Porta Monforte: così il 50enne è finito nei guai per presunta violenza sessuale aggravata, sequestro di persona e lesioni personali aggravate. Il sospetto è che dietro possano nascondersi dei precedenti anche con diverse ragazze e dunque pure altre donne potrebbero essere state violentate dall'uomo con le stesse modalità: per questo si stanno valutando le fotografie trovate sul cellulare dell'imprenditore. La giovane ha raccontato di essere stata spogliata e poi, non essendo in grado di muoversi, fotografata con il telefonino. A circa 48 ore dalla presunta violenza è stato trovato nel corpo della 21enne un quantitativo esagerato di benzodiazepine: 900 milligrammi per litro, ovvero quattro volte il dosaggio giornaliero. Si farà luce su quel caffè, su quel succo d'arancia e su quelle pizzette offerte alla ragazza. "Ho subito iniziato a sentirmi molto debole. Mi si è offuscata la vista, pensavo fosse un calo di zuccheri e ho chiesto qualcosa da mangiare. Ho bevuto e ho subito perso i sensi", è la versione della 21enne.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura.

Antonio Di Fazio e l'ossessione per Paola Turci: appostamenti in camerino e spese folli. Libero Quotidiano l'1 giugno 2021. Nei giorni scorsi era emersa una presunta ossessione per una famosa cantante italiana da parte di Antonio Di Fazio, finito in manette con l’accusa di aver narcotizzato e abusato sessualmente di una studentessa di 21 della Bocconi, che sarebbe stata adescata con la scusa di uno stage. L’imprenditore farmaceutico di 50 anni è l’unico indagato: in un primo momento si pensava che potesse essere iscritta al registro anche la sorella, oncologa di livello, che avrebbe firmato delle ricette di benzodiazepine, utilizzate da Di Fazio per comprare i farmaci che avrebbe utilizzato per narcotizzare la vittima. O meglio, le vittime, dato che altre due ragazze hanno presentato denuncia: in totale sono sei quelle sospettate di aver subito abusi da parte dell’imprenditore. La procura è al lavoro sulle centinaia di immagini trovate nei telefoni e nei computer di Di Fazio riguardanti le sue presunte vittime. Un altro particolare svelato da Il Giorno riguarda invece la cantante Paola Turci, per la quale l’imprenditore avrebbe avuto un’ossessione “tanto da aver assunto un fantomatico ‘addetto alla comunicazione’, che sarebbe in realtà una persona ben introdotta negli ambienti della musica, al solo scopo di provare ad avere un contatto stretto con la donna”. “L’episodio della cantante - si legge su Il Giorno - viene raccontato direttamente agli investigatori dal giovane che era stato ingaggiato ufficialmente per curare la ‘comunicazione’ di Di Fazio con un compenso di 10mila euro al mese”. A quanto pare si tratterebbe di soldi sprecati, perché non ci sarebbe stato alcun tipo di rapporto fra Di Fazio e Paola Turci. L’imprenditore avrebbe inviato cento rose rosse alla volta, si sarebbe presentato davanti al suo camerino con un bodyguard ingaggiato per l'occasione, ma a quanto pare la cantante non si sarebbe neanche accorta di lui, tanto che non ha mai fatto denuncia. 

Non è l'Arena, Antonello Di Fazio "ossessionato da Paola Turci". Rivelazione sconvolgente: cosa è arrivato a fare (e a pagare). Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. "Di Fazio era ossessionato da una cantante". E quella cantante era Paola Turci. Una storia "complessa" e imbarazzante, spiega Francesco Capozza, ex collaboratore di Antonello Di Fazio, il manager accusato di aver violentato una 21enne a Milano. Il giovane professionista svela a Massimo Giletti in collegamento con Non è l'arena a La7 la passione segreta dell'uomo finito in carcere perché sospettato di essere un maniaco seriale. Capozza era stato assoldato come collaboratore da Di Fazio, 120mila euro per curargli ufficialmente il piano marketing dell'azienda. "Ma l'obiettivo era un altro - rivela il professionista -, arrivare a una cantante". Giletti lo incalza: "Ma era Paola Turci?". E Capozza lo ammette: "Lui sapeva che io la conosceva, e mi ha chiesto di accompagnarlo a un suo concerto e di presentargliela. Si faceva largo con questo bodyguard, presumo tal Patrizio anche lui indagato, che gli faceva largo nella folla e arrivava fin sotto il palco. Io ero un po' imbarazzato, la gente divertita si chiedeva: ma questo chi è? La seconda volta Di Fazio e il suo bodyguard sono arrivati fino nei camerini, con questo mazzo di rose rosse. Lui mi diceva di essere sotto scorta perché aveva ricevuto una busta con pallottole, sospettava che a minacciarlo fosse stata l'ex moglie". "Ma con le donne com'era?", lo incalza Giletti. "Mi sembrava una persona a modo. Girava con una Ferrari a noleggio, una Maserati con autista. C'era una discrepanza tra questa vita agiata e il fatto che vivesse ancora con mamma e papà, che all'epoca era ancora vivo. Le donne? A parte la morbosità per la Turci, non mi era parso un ossessionato".

Da la7.it il 31 maggio 2021. Secondo Francesco Capozza, ex collaboratore del manager accusato di aver violentato una 21enne, Di Fazio era ossessionato dalla cantante Paola Turci: "Al concerto con bodyguard e rose rosse".

Gianluigi Nuzzi per la Stampa il 31 maggio 2021. Per capire la rete di coperture tra criminalità organizzata e parenti che la procura di Milano ipotizza stesa a tutela dell'imprenditore Antonio Di Fazio bisogna tornare alle 6.30 di venerdì mattina, quando gli investigatori hanno bussato alla porta di un decoroso appartamento di Asti per una perquisizione. Ad aprire è stato Fabrizio Brignolo, che sui social si indica come «attore», «comico» e - dettaglio che suscita una certa curiosità -, ambasciatore di un'associazione contro il bullismo. Un episodio che rischiava di passare inosservato se non fosse che nel palazzo adiacente abita un film-maker, giornalista pubblicista, richiamato dall'attività investigativa. Il profilo dell'uomo è ancora da chiarire: il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il sostituto Alessia Menegazzo lo indagano per favoreggiamento per verificare se il professionista è stato o meno uno dei collaboratori del Di Fazio nel reclutamento delle giovani vittime, abusate dopo esser state stordite con benzodiazepine. E che la prospettiva degli inquirenti si stia allargando arriva da un'altra iscrizione nel registro degli indagati disposta nei giorni scorsi, quella della sorella del Di Fazio, Maria Rosa - medico che esercita in una struttura privata a San Marino -, per capire se abbia in qualche modo favorito i depistaggi posti in essere dal fratello. Un'ipotesi che si riconsidera anche dopo quanto affermato dall'ex moglie, che ieri è stata sentita a lungo in procura, e ha raccontato di come proprio la sorella Maria Rosa nel 2014 avrebbe avvallato la tesi dell'aggressione patita dal Di Fazio, stilando un apposito referto medico, messo sempre in dubbio dalla signora italoamericana. La donna chiede, con il difensore Maria Teresa Zampogna, che siano rivitalizzate tutte le dodici denunce presentate contro Di Fazio tra il 2009 e il 2016. La signora è una vittima, forse la prima, di certo quella che ha subito di più, se è vero come racconta di aver vissuto da quando lo ha conosciuto, una vera e propria via Crucis. «Ho sposato Di Fazio nel maggio 2008 per poi partorire nel novembre e separarmi nel giugno del 2009. Da quel momento è iniziato tutto con le prime denunce per molestie telefoniche nel giugno del 2009, stalking e violenza privata il mese dopo, a luglio». E via in un crescendo tra la denuncia di aver creato falsi account per attribuire all'ex moglie volontà estorsive nel 2012 (stesso copione che poi ritroveremo nell'ultimo caso con la vittima bocconiana di 21 anni denunciata per estorsione) e addirittura un tentato omicidio nel maggio del 2014. In quel caso l'ex moglie ha ricordato di esser stata aggredita da Di Fazio per essersi recata ad un appuntamento nel loro appartamento di via Salvemini dove vivevano fino alla separazione. Mentre lei si faceva medicare, con dodici giorni di prognosi refertati, l'uomo la denunciava, forte appunto di un certificato medico firmato dalla sorella Maria Rosa. Un documento in contrasto con quanto refertato al pronto soccorso e assai meno rilevante delle lesioni ritrovate sul corpo della donna. Ma anche qui tutto venne archiviato. Non venne nemmeno disposto un sopralluogo sulla scena del crimine. E ancora, tra il 2014 e il 2016, la signora presentò numerose denunce per stalking, danneggiamento della bici e rapina, per poi vedere allentare la tensione definitivamente con la conclusione della causa di separazione e di affidamento del loro figlio. Ci sarà forse da chiedersi come mai solo oggi la signora viene sentita dai magistrati, visto che finora mai era stata in procura. Certo, è vero che Di Fazio ha fatto di tutto - legalmente - per minare la credibilità della donna, ma se si fosse approfondita la storia sarebbe andata diversamente: sarebbe stato fermato prima? Forse, una spiegazione in questa battaglia di denunce incrociate la offrono i giudici nelle loro prime archiviazioni, quando il gip Fabio Antezza sosteneva che «le dichiarazioni dei soggetti risultano inattendibili e comunque non adeguatamente riscontrate da elementi estrinseci». Insomma, «emerge una forte conflittualità tra i due soggetti () i quali hanno sporto querele l'uno contro l'altro». La questione però è destinata a riaprirsi, visto che gran parte dei reati dell'epoca ancora non sono caduti in prescrizione, a iniziare proprio dal tentato omicidio, capitolo dolorosissimo per la vittima. Ma Mannella è anche interessata alla somministrazione di benzodiazepine per intontire la donna e per fortuna ha ancora il certificato medico del 7 marzo 2012, nel quale si attestava la presenza di numerose benzodiazepine come Diazepam, Nordiazepam, Oxazepam e Temazepam. «È stato il mio ex marito - ha ripetuto la signora in procura -, Di Fazio voleva inibirmi la capacità di reagire». E per l'uomo la lista di reati e vittime si allunga ancora di più.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 31 maggio 2021. Le perle, certo, non mancano: «Venivo speronato durante un'operazione antidroga sull'autostrada Napoli-Canosa da un blindato di narcotrafficanti, riportando gravi protrusioni lombari». Ancora: «Facevo parte del nucleo scorte dopo il corso conseguito presso il centro Nettuno GdF/Polizia di Stato». Il bruto è pazzo e quindi non va giudicato? La difesa di Antonio Di Fazio vuol fare visitare al più presto da uno psichiatra l'imprenditore farmaceutico, finito in carcere con l'accusa di abusi sessuali su una bocconiana di 21 anni e denunciato da altre numerose ragazze che si stanno presentando in procura. L' obiettivo è capire se il manager è lucido o se, al contrario, le sue condizioni mentali sono tali da minare l' azione penale, essendo incapace di intendere e volere. L' avvocato Rocco Romellano ha contattato nel fine settimana diversi professionisti per affidare l' incarico di una scelta difensiva clamorosa. Se infatti si riscontrasse la pazzia del Di Fazio, questo dovrebbe essere curato in strutture specializzate, uscendo quindi dal carcere e sottraendosi al giudizio penale. Ma l' uomo è folle o sano, seppur presunto abusatore seriale, narcotizzatore di ragazze con benzodiazepine, collezionista di foto intime e mutandine delle sue vittime? Per dare una risposta, gli esperti dovranno scandagliare la psiche dell' uomo e ripercorrere l' anamnesi mentale compiuta sul Di Fazio e che ha già interessato numerosi psichiatri chiamati a pronunciarsi sulla sua mente, durante il complesso scambio di denunce tra lui e l' ex moglie. I giudizi dell' epoca non erano certo generosi e riletti oggi suonano come dei campanelli d' allarme rimasti inascoltati. «Un' importante difficoltà nel controllo degli impulsi - si legge nei documenti depositati nei procedimenti-, in particolare nella gestione della rabbia nelle situazioni di intensa sollecitazione emotiva con il rischio di perdita di controllo e di agiti aggressivi». Infatti, sulla mente del Di Fazio già nel 2010 la dottoressa Cristina Carra lo tratteggiava come «infantile, superficiale, che si mostra compiacente, si maschera e enfatizza i racconti con un' adesione stretta al gruppo familiare d' origine, quale gruppo unico». Un profilo improntato alla mistificazione, alla grandiosità di sé senza autocritica alcuna al punto che la Carra rimase all' epoca colpita da «una coloritura di fondo all' insegna dell' artificiosità, anche se esteriormente potrebbe sembrare autentica». E così lo psichiatra Stefano Benzoni a sua volta aveva sottolineato come Di Fazio avesse bisogno di «rappresentare una immagine sostanzialmente falsa di sé» con un «atteggiamento screditante verso la moglie (di allora, ndr)». Scavando nelle relazioni familiari Benzoni concluse evidenziando come «il ruolo materno rischi di essere costantemente minacciato». Cosa che si è poi puntualmente verificata con le reciproche denunce di tentato omicidio presentate dagli ex coniugi e risolte in nulla. Come se non bastasse, anche gli esami psichiatrici seguenti per l' affidamento del figlio, condotti nel 2015 dalla dottoressa Caterina Conti rivelano nella relazione di consulenza ai giudici «una precarietà nella sua capacità di controllo, con rischio di agiti aggressivi, oltre a una tenuta del pensiero non sempre valida». Si ricorda di lui anche lo psichiatra Marco Frongillo al quale nel 2015 venne chiesto un parere pro veritate sul Di Fazio «Sono passati diversi anni - conferma - ma ancora ho ben in mente i suoi racconti di operazioni segrete, di esser stato ferito in servizio quale appartenente alla Guardia di Finanza, quando non era vero. Si mostrava potente, onnipotente, forte, insomma un guerriero. E questo emergeva con forza dai test di Rorschach e dai referti delle visite che esaminai. Insomma un miles gloriosus, che in realtà era un millantatore, espressione di una sottocultura e violenza ma da qui a essere un matto, perdonatemi, ma ce ne corre». Nessun dubbio? «Non emersero psicopatologie di rango tali da inficiare la capacità di intendere e volere». E questa sua costanza nel conservare foto delle vittime e loro indumenti intimi? «Il collezionismo va a rafforzare e amplificare quella sensazione di supremazia di cui ha bisogno. Deve ricorrere all' arma mostrata al figlio, a sbandierare successi inesistenti pur di affermare la propria identità. Quando sfoglia l' album delle vittime, quando riesce a soffermarsi silente sulle foto del suo gregge, si sviluppa un piacere sì momentaneo ma che alimenta quell' identità di cui è carente». E tra le vittime si aggiunge anche una notissima cantautrice italiana: vittima di stalking con il Di Fazio che si presentava all' Ariston di Sanremo, spacciandosi per il fidanzato. Verrà sentita a breve dal procuratore aggiunto Maria Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo che coordinano i carabinieri.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 16 giugno 2021. «Barbablù» è in carcere da quasi un mese. Il «2» di piazza Filangieri dista poco più di un chilometro dalla sua casa con vista sul parco Sempione. Sono milleseicento passi che attraversano i palazzi della borghesia milanese. Le dimore austere di corso Magenta, gli stabili curati di via Aurelio Saffi, le ville neorinascimentali di via XX Settembre dove stavano i Falck, i Donzelli, i Borletti e Silvio Berlusconi. Non c’è luogo, nella Milano dei dané, che sia più lontano dai muri umidi e infestati dalla muffa bianca di salnitro di San Vittore. E oggi la strada così sorprendentemente breve ma che divide mondi distantissimi sembra la metafora di questa storia. Da una parte c’è l’imprenditore Antonio Di Fazio, per gli amici Antonello, 50 anni, partito da Cuggiono nelle campagne del Ticino e diventato manager e imprenditore farmaceutico. Ricco, anzi ricchissimo. Con una casa di 210 metri quadrati affacciata sul parco della Triennale, autista, bodyguard, yacht, tavoli riservati nei più esclusivi ristoranti e lounge bar di Milano. Uno con «amicizie importanti», dalla politica all’imprenditoria, con agganci nei palazzi che contano e all’interno delle istituzioni. Doppiopetto d’ordinanza, cravatta regimental, bottoni d’oro. Finta pistola nella fondina portata sotto giacca. E sulla sua Maserati Ghibli il lampeggiante blu come le auto dei politici: «Diceva di avere la scorta dalla questura perché era stato minacciato e perché era una personalità in vista», racconta un amico. Poi c’è l’altro Di Fazio, quello che il giudice Chiara Valori definisce un «moderno Barbablù», ricordando la fiaba dell’orco ricchissimo che nella stanza segreta uccideva le sue mogli. E questo è l’uomo che, stando alle accuse che gli muovono la procura e i carabinieri, è rinchiuso da 26 giorni nel carcere di San Vittore per aver narcotizzato e violentato una 21enne studentessa della Bocconi lo scorso 26 marzo. E oggi sospettato di altri quattro casi di violenza e sequestro. Compreso quello della ex moglie americana, figlia di un avvocato di Chicago, conosciuta nel 2008, un anno dopo rimasta incinta del figlio oggi 12enne, e dalla quale s’è separato a giugno del 2009 con una turbolenta vicenda giudiziaria che ancora si trascina. Tanto che adesso i magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo hanno riattualizzato le 12 denunce presentate dalla donna, assistita dall’avvocato Maria Teresa Zampogna, nelle quali già descriveva rituali con farmaci narcotizzanti e violenze subite. Storie alle quali, come denuncia il legale, nessuno aveva creduto. O peggio, che nessuno aveva neanche tentato di accertare con i minimi atti d’indagine prima di archiviare tutto come «conflittualità di coppia». Ma nel lato oscuro dell’imprenditore c’è anche una vecchia storia di rapporti con uomini vicini al clan della ‘ndrangheta Valle e di affari con il capofamiglia Fortunato. Storie che emergono dal passato (2009) e che vedono protagonista, invece, un Di Fazio sul lastrico e pieno di debiti con le aziende di famiglia in fortissima difficoltà economica. Tanto da far ipotizzare ai pm dell’Antimafia Ilda Boccassini e Paolo Storari che in realtà non sia una vittima (di un prestito ad usura da 40 mila euro) ma un imprenditore-complice. Alla fine prevale la prima linea e Di Fazio viene anche sentito al processo come testimone. A quasi un mese dal suo arresto sappiamo poco o forse pochissimo di questa storia bifronte. Ufficialmente le uniche contestazioni mosse, come ricorda il suo legale Rocco Romellano, sono ferme al primo episodio di violenza. Una ragazza, amica di famiglia, «agganciata» con la scusa dell’offerta di uno stage nella sua azienda e poi attirata, secondo i magistrati, in una trappola. Stordita con un caffé e un succo di frutta drogati con il Bromazepam e abusata. Una dose così forte che due giorni dopo i medici della Mangiagalli troveranno più di 900 microgrammi per litro di benzodiazepine nel suo sangue. Tre volte la dose massima giornaliera. La ragazza viene accompagnata a casa dall’auto dell’imprenditore. Il suo smart-watch registrerà soltanto gli 86 passi necessari per raggiungere dal portone di casa la sua camera da letto. «Credo mi abbia fatto mangiare sushi. Era di fianco a me. Mi sono ripresa un attimo, ho sentito l’elastico dei pantaloni che scivolava sulle gambe. Ho visto il suo braccio, aveva un Rolex al polso. La sua mano mi toccava una coscia. Gli ho detto di riportarmi a casa». Il resto è un lungo blackout che terminerà solo il giorno dopo (27 marzo) quando il fidanzato citofona all’appartamento che la ragazza condivide con un’amica e riesce a svegliarla. È pomeriggio quando arrivano al Policlinico e la 21enne racconta ai medici di essere stata violentata. Con il passare delle ore affiorano i ricordi. A mezzanotte e mezza, mentre la fidanzata è ancora sotto osservazione, il suo ragazzo si presenta ai carabinieri. Dice di aver trovato la 21enne stordita, che lei ha raccontato di essere stata abusata la sera precedente dall’uomo con cui aveva fissato un appuntamento per discutere uno stage universitario in azienda. Alle 3.30 di notte la giovane viene dimessa e inizia il suo racconto davanti agli inquirenti. Verrà sentita più volte. Agli atti c’è anche un messaggio Whatsapp inviato al fidanzato alle 22.20 del giorno della violenza: «Sono da amici». Ad accompagnarlo c’è un’immagine dove la ragazza è «ritratta con gli occhi quasi chiusi all’interno dell’appartamento dell’imprenditore Di Fazio». Quattro ore prima (alle 19.38) il ragazzo le aveva mandato un messaggio vocale. La vittima dirà ai carabinieri di essere certa di non averlo mai ascoltato. Per gli investigatori a sentire quel messaggio e ad inviare la risposta è stato Di Fazio perché la sua vittima in quel momento era incosciente. Il giorno di Pasquetta i carabinieri della compagnia Porta Monforte perquisiscono l’appartamento dell’imprenditore e trovano in una nicchia nascosta della parete della cucina due boccettini di gocce di Bromazepam della Ratiopharm. Lo stesso farmaco usato per narcotizzare la vittima. L’imprenditore racconta che si tratta di medicine dell’anziana madre che vive con lui e con il figlio. Nel cassetto della camera da letto ci sono vecchie confezioni ormai vuote ma l’ultima prescrizione a firma del medico di famiglia risale al 2018. È la sorella Maria Rosa, oncologa in una piccola clinica di San Marino e dalle controverse teorie in materia di tumori e chemioterapia, a mettere a verbale davanti agli inquirenti che quei farmaci li aveva prescritti personalmente, ma sempre per l’anziana madre che ne faceva un uso quotidiano. Una versione che non convince gli investigatori che infatti al momento dell’arresto del manager perquisiscono anche la casa milanese della sorella, affacciata sulla basilica di Sant’Ambrogio. Quella della dottoressa Di Fazio, non indagata, è un’ombra che aleggia da subito sulle indagini. Perché dal suo cellulare il 22 marzo era partito il primo messaggio con cui l’imprenditore aveva cercato di «agganciare» la 21enne: «Ciao come stai? Chiama Antonio che ti fa vedere l’azienda come eravamo d’accordo, no?». Ma questa è solo la prima parte di questa storia. Il resto, come in un film dell’orrore, emerge quando i carabinieri del Nucleo investigativo estrapolano le immagini conservate nel cellulare dell’imprenditore. Sono 54 fotografie di altre ragazze sconosciute riprese mentre vengono abusate prive di sensi. In realtà le immagini che i tecnici dei carabinieri riescono a estrapolare dalla memoria del telefono sono molte, molte di più. Alcune erano state cancellate, altre conservate nel cloud benché vecchie di più di quattro, cinque anni. Gli investigatori non sanno nulla di quelle ragazze, non un nome, non un dettaglio che possa farle identificare. Le fotografie sono scattate quasi sempre nella casa dell’imprenditore, apparentemente da una sola mano, tutte molto ristrette sui corpi e sulle parti intime delle vittime. Non c’è, almeno così emerge dai primi riscontri, la meticolosità del maniaco, le immagini non vengono archiviate con metodo. Ma durante le perquisizioni i carabinieri trovano nell’appartamento vicino al parco Sempione alcuni oggetti, in particolare biancheria intima, appartenuti alle presunte vittime. Una delle ragazze sentite, e che ha confermato davanti ai pm di essere stata narcotizzata e abusata dall’imprenditore, ha raccontato di essersi risvegliata dopo la violenza senza più gli slip. Le ragazze sono un elemento fondamentale di questa storia. Intanto perché sono le nuove vittime, fino a quel momento sconosciute, di Antonio Di Fazio che ora viene considerato dagli inquirenti uno «stupratore seriale». Poi perché, almeno le quattro che si presentano spontaneamente in procura dopo l’appello lanciato dagli investigatori, aprono un mondo completamente sconosciuto alle indagini. Di Fazio non è più l’imprenditore farmaceutico pieno di soldi e dalle amicizie importanti. Emerge sempre di più la figura di un uomo anche violento, quantomeno a parole, e con oscuri rapporti con il mondo della malavita. Nella famosa perquisizione di Pasquetta i militari trovano nella Maserati di Di Fazio un lampeggiante blu nascosto sotto al sedile del passeggero. Nel baule c’è invece un borsone con diversi contanti e una pistola giocattolo nera senza tappo rosso. In casa gli trovano un tesserino simile a quello dei Servizi segreti e una fondina. Cosa ci fa un imprenditore farmaceutico con quell’armamentario? A guardare la storia giudiziaria di Di Fazio però non c’è da stupirsi. Già nel 2015 era stato denunciato dalle Fiamme gialle perché aveva un certificato di congedo con la dicitura GdF e soprattutto un tesserino del Sisde «grado di comandante». Un tesserino identico gli era già stato sequestrato un anno prima dai carabinieri che lo avevano fermato, ubriaco, durante un controllo. Vicenda per la quale è stato condannato in via definitiva. Mentre nel 2019 sono i vigili di Milano a denunciarlo per il lampeggiante esposto abusivamente sull’auto. Questi episodi sono uno degli aspetti che gli inquirenti stanno approfondendo nella «nuova indagine» sull’imprenditore Di Fazio. Il 50enne, infatti, avrebbe «sottoposto le sue vittime a continue e ripetute minacce» tanto da «terrorizzarle» secondo i magistrati. Motivo per il quale i pm ritengono che ancora dopo l’arresto molte vittime abbiano «fortissimo timore» a farsi avanti. Un aspetto che già è emerso nel caso della 21enne bocconiana: il fidanzato della vittima, infatti, dopo la violenza telefona a Di Fazio che però nega di aver incontrato la ragazza e finge «uno scambio di persona». Poi il ragazzo riceve una telefonata dove un uomo «con accento del Sud» minaccia di «squarciarlo in due» e dice di lasciar stare Di Fazio. I carabinieri ricostruiscono che la chiamata è partita da uno dei due telefoni dell’imprenditore. Non è chiaro però chi abbia realmente parlato in quella telefonata. Tra le vittime che si sono presentate in procura mettendo a verbale gli abusi subiti c’è anche l’ex fidanzata di Di Fazio. L’ultima, quella con cui aveva ancora una relazione in corso a marzo al tempo della violenza alla 21enne. Anche lei ha detto di essere stata narcotizzata e abusata. Un’altra ragazza, con cui l’imprenditore aveva avuto una relazione, s’è presentata insieme alla madre e ha denunciato anche episodi di stalking e molestie. Poi c’è il caso di una ragazza arrivata a palazzo di Giustizia insieme alla sorella: riuscita a fuggire in extremis all’imprenditore. Una vittima ha anche raccontato di essere rimasta «in balia» del 50enne per una settimana intera, sempre stordita con psicofarmaci. Per questo si cerca la rete dei complici: persone che avrebbero aiutato l’imprenditore ad entrare in contatto con le ragazze giovanissime e in cerca di un posto di lavoro. Gli investigatori hanno effettuato decine di perquisizioni in queste settimane. Come al comico piemontese Fabrizio Brignolo, non indagato. «Una vicenda che mette i brividi» dicono i magistrati che hanno fatto risalire i primi episodi di violenza a più di dieci anni fa. Possibile che nessuno abbia denunciato? «Le ragazze venivano minacciate di morte, gli veniva mostrata la pistola. Erano emotivamente e psicologicamente soggiogate», dicono gli inquirenti. L’imprenditore infatti non nasconde le sue amicizie importanti, in alcuni casi si sfocia nell’assoluta millanteria come quando sostiene di essere «collaboratore dell’Alto commissariato Covid-19», figura inesistente nella realtà. La Global farma di Di Fazio aveva però partecipato ad alcune gare di forniture durante i primi mesi della pandemia, anche per la Regione Lombardia: 51 milioni di guanti in nitrile. Il capitolo aziende è uno di quelli oggi al centro di un secondo filone dell’inchiesta affidato al pm Pasquale Addesso e ai carabinieri del Nucleo investigativo guidati dal colonnello Michele Miulli e dal tenente colonnello Antonio Coppola. Non è roba da poco, perché l’indagine vuole chiarire l’origine della «sconfinata» ricchezza dell’imprenditore e i capitali grazie ai quali nel pieno della pandemia, il 17 aprile 2020, è stata aperta la Global farma. Socio di minoranza, con il 10%, è l’architetto Enrico Asiaghi. Una lunga esperienza nell’area manageriale di grandi aziende, Asiaghi torna a svolgere alcuni lavori come architetto e conosce Di Fazio. I due dopo qualche anno decidono di lavorare insieme, Asiaghi mette la parte organizzativa e operativa e Di Fazio i capitali, lo know how e i contatti con il mondo farmaceutico che già ha grazie alle due aziende di famiglia (Thecno farm e Thecno gest). La Global farma ha un capitale sociale di 500 mila euro: da dove arrivano quei soldi? Nel passato di Di Fazio ci sono quei contatti con la criminalità organizzata e il clan Valle. Storia vecchia che però è importante perché in quelle vicende viene analizzata la situazione patrimoniale dell’imprenditore: è praticamente sul lastrico. Abita in via Marchionni, a Bruzzano, insieme alla famiglia. Dieci anni dopo però la fortuna ha improvvisamente baciato il 50enne. Fin qui però si tratta solo di sospetti. Il quadro cambia quando gli investigatori ripescano una segnalazione di operazione sospetta inviata in Procura dalla Banca d’Italia. Riguarda movimenti bancari delle aziende di Di Fazio e anche una società in cui l’imprenditore formalmente neppure compare. Si tratta della Ifai, Industria farmaceutica italiana srl, creata nel 2015 sempre con sede in via Mario Pagano 38 (dove ci sono gli uffici della Global) e amministrata da Rosa Rotondo, una 50enne residente a Corsico. La donna ha come precedenti esperienze imprenditoriali solo un’impresa di pulizie. Ora si sospetta che l’azienda sia al centro di truffe e frodi nelle forniture. «Lui diceva che era sua zia. Che lavorava per lei, ma che la società era sempre di famiglia», racconta oggi il socio Asiaghi. Dopo l’arresto, Di Fazio è stato rimosso dalla Global farma e oggi l’azienda sta nominando un Cda e tentando di restare in piedi salvando la decina di dipendenti. Il 10 giugno Asiaghi s’è presentato in procura per parlare con il procuratore aggiunto Letizia Mannella del futuro della società. Sulla Ifai c’è un faro acceso dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano. Elemento che complica ancora di più il quadro delle indagini. Anche perché la Dda è già stata coinvolta nelle vicende di Di Fazio per un’altra storia. Il 5 maggio Asiaghi trova tre bossoli sul vetro della sua auto parcheggiata in via Mario Pagano. Pensa a uno scherzo. Il giorno dopo ne parla con il socio che sbianca e chiama subito la polizia. Su una foto pubblicata da poco su Instagram, infatti, Di Fazio appare accanto alla vettura del socio. Capisce che quel «pacchetto» è per lui. Nella sua denuncia racconta di essere vittima di estorsione. Ma da chi? Qualcuno parla di uomini del clan Mancuso, ma lui riconduce tutto a un’altra storia. Ed è l’inizio di questa storia. Il 24 aprile, dopo aver capito che la studentessa 21enne lo ha denunciato, Di Fazio si presenta ai carabinieri della stazione Musocco e controdenuncia la giovane per calunnia. Dice che la ragazza e la sua famiglia lo stanno ricattando perché hanno bisogno di 500 mila euro e che hanno agganci con ambienti mafiosi. Così quando ritrova i bossoli racconta alla polizia che potrebbe essere opera della giovane e della sua famiglia. Vicenda così incredibile da far ritenere agli investigatori che possa essere stato lo stesso imprenditore a organizzare il falso atto intimidatorio. Tra gli episodi emersi, anche se non dal punto di vista penale, anche l’ossessione di Di Fazio per la cantautrice Paola Turci. La racconta l’ex titolare di una agenzia di comunicazione al quale il 50enne si rivolge per «curare la sua immagine e quella delle aziende». In realtà ha un solo scopo: conoscere la cantante che è amica dell’esperto di comunicazione. «Abbiamo partecipato anche a quattro concerti in un solo mese. In tutta Italia. Voleva con insistenza il suo numero di telefono. Credo sia anche riuscito a procurarselo. Mi ospitava in alberghi di lusso dopo lo spettacolo, suite esclusive a sue spese e viaggi in macchina con autista». Di Fazio si fa largo tra la folla grazie a un bodyguard e si presenta sotto al palco e in camerino con un mazzo di 100 rose rosse. Chi è davvero Antonello Di Fazio? La risposta a questa domanda tiene insieme tutti i filoni dell’indagine su Barbablù. L’avvocato Romellano non ha presentato alcuna istanza di scarcerazione, davanti al gip l’imprenditore ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. Il legale nega con forza qualsiasi richiesta, anche futura, di perizia psichiatrica. Ma non esclude, nelle prossime settimane, la possibilità che il 50enne venga interrogato dagli inquirenti: «Attendiamo l’evolversi della situazione e delle accuse che per ora sono ferme a un solo caso. Il resto lo abbiamo letto sui giornali». Cosa dice Di Fazio? «L’ho incontrato due volte. Ha qualche problema di salute. È provato ma è certo che le cose siano ben diverse da quelle raccontate dalle indagini. Criminalità organizzata? Lo conosco da diversi anni, non ho mai chiesto da dove arrivino i suoi capitali, ma non ho mai avuto sentore di rapporti con certi ambienti». Come finirà stavolta la fiaba di Barbablù?