Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’AMBIENTE

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lo Street Food.

Il Cibo cura e guarisce o fa male.

… senza glutine.

I Cibi Light.

La Semenza.

La filiera corta degli agricoltori contro la fame ed il sottosviluppo.

L’agricoltura biodinamica.

Le prese per il culo.

La Dieta del Sesso.

Il Cioccolato.

Il Cibo che ingrassa.

Il Cibo che inquina.

Il Panettone.

La Colomba Pasquale.

Ogm sì o no?

La battaglia alimentare.

L'Antispreco.

La Scadenza…

Il Microonde.

Come si mangia.

I Cachi.

La Mela.

La Ciliegia.

Il Pompelmo.

La Malva.

Le Patate.

Il Peperone.

I Fagiolini.

Il Riso.

La Pasta.

Il Tortellino.

Il Pane.

La Pizza.

Il Sale.

L’Olio.

Il Salame.

Il Lardo.

La Porchetta.

Il Formaggio.

L’Acqua.

Il Vino. 

L’Alcool.

Il Bitter.

Il Caffè.

La Coca Cola.

Le Uova.

La Carne.

Il Pesce.

Il frutto proibito: i Datteri di mare.

La Dieta Mediterranea.

Eataly.

Slow Food.

La dieta alternativa: Gli insetti commestibili.

Il Veganesimo.

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Pastorizia.

L’Estinzione.

A tutela degli animali.

Capodanno letale per gli animali.

Comandano loro.

I Cloni.

Le Scimmie.

I Cani.

I Gatti.

Topi o Scoiattoli?

Le Api.

Gli Uccelli.

Le Zanzare.

I Cavalli.

Gli Elefanti.

Il Tonno.

Le Balene.

Cazzi animali.

Sesto senso e telepatia.

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Evento naturale…

A proposito di Rigopiano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Santo protettore.

Un Ministero per la Transizione ecologica.

La Mobilità Green.

Gretinismo ed inquinamento.

La Decrescita felice e l’ambientalismo catastrofico.

I Disinquinatori.

Gli Inquinatori.

La Finanza sostenibile. 

La Risorsa economica della Natura.

La Risorsa dell’acqua. Fogne e scarichi fuori controllo.

Gli Oceani.

Le Alluvioni razziste: in Germania è colpa del clima impazzito; in Italia è colpa del dissesto idrogeologico.

La Green Economy. La Risorsa dei Rifiuti.

La Dannosità dei rifiuti.

Il martirio territoriale.

La Xylella.

Il Risparmio energetico.

Le fonti rinnovabili.

Il Corpo elettrico.

Il costo della transizione ecologica.

Paura Atomica.

Quelli…anti…

 

 

 

 

L’AMBIENTE

SECONDA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Santo protettore.

San Patrizio, da dove viene la festa che fa il mondo verde? Chiara Pizzimenti su Vanityfair.it il 17/3/2021. 122 milioni di persone solo negli Usa festeggiano San Patrizio, il patrono d’Irlanda, con fiumi di birra e vestiti verdi, quest’anno con anche il fiume a Chicago che torna a colorarsi di verde dopo la pausa per pandemia del 2020. Lo stesso faranno milioni di persone nel resto del mondo, a partire dall’Irlanda e Italia compresa. Il 17 Marzo, St Patrick’s Day, ha superato i confini dell’isola. Di verde si vestono oggi il principe William e Kate negli impegni ufficiali e molti luoghi e monumenti al mondo con l’iniziativa #GlobalGreening si illuminano dello stesso colore.

SAN PATRIZIO. Maewyin Succat è il vero nome del santo missionario che prese poi quello di Patrizio. Aveva origini scozzesi il vescovo nato nel 385 che portò il cattolicesimo in Irlanda. Aveva 16 anni quando fu rapito dai pirati e venduto come schiavo al sovrano di quella che è ora l’Irlanda del Nord. Dopo 6 anni la fuga e il ritorno alla chiesa cristiana prima come diacono poi come vescovo. Morì nel 461, il 17 marzo in cui lo si festeggia.

IL NOME DELLA FESTA. In italiano è la Festa di San Patrizio, in inglese Saint Patrick’s Day, ma anche più semplicemente St. Paddy’s Day o solo Paddy’s Day, in gaelico Lá ’le Pádraig o Lá Fhéile Pádraig.

IL VERDE. È vero che la campagna irlandese è verde, ma in origine il colore associato al santo era il blu. Il verde è stato associato all’Irlanda dagli indipendentisti nell’Ottocento.

I LUOGHI DELLA FESTA. Nella Repubblica d’Irlanda è festa nazionale, ma ci sono festeggiamenti anche nell’Irlanda del Nord, in Canada, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia e Nuova Zelanda. È patrono anche della Nigeria, dell’isola di Montserrat e degli ingegneri.

La parata per le strade della città è la tradizione di San Patrizio (ovviamente cancellate a causa della pandemia). La più importante al mondo è quella di Dublino, seguita da Montreal, che ha un trifoglio nella propria bandiera, e poi da quelle degli Stati Uniti a New York, Boston, già dal 1700, di entrambe le città è patrono, e Chicago dove ci sono le più grandi comunità di immigrati irlandesi. La festa di San Patrizio è nata prima dal lato americano dell’Atlantico che da quello europeo. Gli immigrati irlandesi (quasi 35 milioni di americani hanno origine irlandese) cominciarono a festeggiarlo già dal 1700 per mantenere vive le loro radici e mostrare il proprio orgoglio. La prima parata è datata 17 marzo 1762 quando i soldati inglesi che servivano per l’esercito britannico marciarono a New York.

IL RESTO DEL MONDO. Dove non c’è una parata, c’è comunque un riferimento all’Irlanda a partire dal colore verde nei vestiti come negli addobbi e dal trifoglio. Verdi sono diventati negli anni anche Montmartre a Parigi, la Sidney Opera House e le Cascate del Reno a Zurigo. E ancora le fontane di Washington, il Cristo Redentore a Rio de Janeiro. Sono oltre 440 i monumenti e i siti in tutto il mondo che quest’anno si illuminano di verde. Italia ci sono la Torre di Pisa, la Colonna Traiana e la Fontana dell’Acqua Paola di Roma, l’Unicredit Tower di Milano, Castel Thun in Val di Non e il Palazzo Merlato di Procida, capitale italiana della cultura 2022. Tra le novità internazionali a diventare verdi ci sono una cassetta delle lettere in cima alla Øretoppen Mountain in Norvegia, 350 km sopra il Circolo Polare Artico, la fontana più grande del mondo, The Palm Fountain a Dubai il Pacific Park sul molo di Santa Monica in California e il Sekenani Gate nella Riserva Nazionale di Maasai Mara in Kenya.

BIRRA. In suo onore si versano litri di birra, 6 milioni in una giornata gridando sláinte, salute, per festeggiare anche la deroga all’astensione quaresimale nel giorno del santo. Si usano anche metri di stoffa, verde ovviamente, in tutto il mondo.

·        Un Ministero per la Transizione ecologica.

Roberto Cingolani: «Possiamo diventare una potenza energetica, vento e sole sono il nostro petrolio». Stefano Liberti e Christian Raimo su L'Espresso il 17 settembre 2021. È il ministro più discusso del governo Draghi. Da lui passano i 68,6 miliardi di euro dei fondi europei. Ecco come intende spenderli. «Per l’italia non c’è l’opzione nucleare. Per noi l’eolico e il fotovoltaico servono a evitare bollette stratosferiche».

«Io la transizione ecologica la posso solo spiegare, poi deve essere chiaro che si tratta di un cambio di paradigma in cui ci dobbiamo impegnare tutti». Tecnico prestato alla politica, Roberto Cingolani è da mesi al centro della ribalta mediatica. Perché da lui dipende quella transizione ecologica che dà il nome al suo nuovo ministero e a cui il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dedica la non indifferente somma di 68,6 miliardi di euro. 

Partiamo da una domanda che ci facciamo tutti. A che punto siamo con la transizione ecologica?

«La transizione ecologica è un processo globale in cui l’Europa può avere un ruolo di leadership. Siamo quelli più avanti di tutti; partiamo da un livello superiore a quello degli altri continenti, sia da un punto di vista della circolarità che da quello energetico. L’obiettivo indicato dalla Commissione europea, riduzione al 2030 delle emissioni del 55 per cento rispetto al 1990, testimonia la volontà europea di attivare un processo di de-carbonizzazione serio e rapido. Poi, certo, i modelli sono diversi da Paese a Paese: la Germania sta potenziando il gas perché ha un sistema manifatturiero che non può andare solo a rinnovabili, ma fa carbon capture per compensare. La Francia produce energia nucleare, con costi elevati dal punto di vista della manutenzione ma con vantaggi in termini di produzione. I Paesi dell’est sono molto legati al carbone e avranno maggiori difficoltà. Noi in Italia stiamo messi meglio: abbiamo una buona tradizione sulla circolarità. Dal punto di vista della produzione energetica, abbiamo fatto un piano che è sicuramente il più ambizioso di tutti: prevediamo di aumentare la capacità di rinnovabile di 70 gigawatt nei prossimi 9 anni». 

Un programma ambizioso che si scontra con una realtà poco incoraggiante. L’Italia è ferma allo 0,8 per cento di incremento annuale…

«Abbiamo una burocrazia pesantissima. Se per avere un permesso devi aspettare mille giorni, non investi. Perciò il governo ha lavorato sul decreto semplificazioni, per snellire l’iter autorizzativo e potenziare la commissione che fa la valutazione d’impatto ambientale. Vedremo se queste nuove regole più agili funzionano, ma l’obiettivo prioritario è aumentare la nostra capacità di costruire impianti». 

Al momento però non si sa bene dove mettere questi impianti. Non sarà il caso di fare una mappatura?

«Siamo qui da solo sette mesi. Come prima cosa, abbiamo dovuto aggiornare il nostro piano sulle rinnovabili; il precedente aveva dei target di de-carbonizzazione al 40 per cento. Ora le Regioni devono identificare gli spazi; la mappa esisterà. L’altra cosa che non c’è, ma a breve la renderemo pubblica, è una road map delle aste con tempi e obiettivi chiari. Occorre dire che le ultime aste sono andate deserte. Abbiamo aperto aste per 2 gigawatt e ottenuto proposte per 0,45, l’ultima addirittura 0,20. I player non mancano; manca la sicurezza temporale dell’investimento. Basta fare il confronto con quello che accade altrove: la Spagna apre per 3 gigawatt e ha nove volte l’offerta. Noi apriamo a 2 gigawatt e ci arriva un decimo. Questo aspetto contiamo di risolverlo con la semplificazione». 

Lei è finito su tutti i giornali recentemente per le sue affermazioni sul nucleare, che sembrano indicare una scarsa propensione allo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile…

«Ho semplicemente detto che la Francia sta studiando la quarta generazione di reattori, quelli non radioattivi, e ha chiesto all’Europa di considerarli verdi. Ma voglio chiarire: il nucleare da noi al momento non è un’opzione. Noi puntiamo sulle rinnovabili, soprattutto fotovoltaico ed eolico. Anche perché da questo punto di vista in Italia abbiamo una fortuna: nel XXI secolo siamo come le nazioni ricche che prima avevano il petrolio. Con il più alto irraggiamento per metro quadro in zona ricca, siamo gli Emirati Arabi del futuro. L’attuale aumento del prezzo del gas ci sta indicando che questa è l’unica strada: se non vogliamo avere bollette energetiche stratosferiche, dobbiamo sfruttare questa potenzialità, superando le resistenze e anche con soluzioni innovative». 

A cosa si riferisce?

«Penso al fotovoltaico nelle dighe foranee, ai pannelli solari e alle pale eoliche in mare aperto. Se hai 400 km di mare piatto, metti un’isola di pannelli lunga 1 km e larga 100 metri, con un impatto che non è così rilevante. Certo, questi impianti costano di più, ma si deve trovare un equilibrio fra tutela del paesaggio ed efficienza energetica. Altro aspetto su cui puntiamo: il potenziamento delle comunità energetiche, soprattutto nei borghi e nei piccoli centri, dove le condizioni sono più favorevoli. Lo stesso discorso vale per l’agro-fotovoltaico». 

Su questo punto esiste un dibattito acceso. Se si mettono a terra pannelli solari, si riduce la superficie coltivabile…

«Il nostro modello di agro-voltaico, di cui ho già parlato con le principali organizzazioni di settore, è verticale e non prevede la messa a terra dei pannelli. I pannelli sono rialzati e permettono di coltivare al di sotto. Senza toccare un centimetro di terreno, il sistema rende l’azienda agricola autonoma dal punto di vista energetico: metti l’agro-voltaico verticale sui campi coltivati, copri con i pannelli i tetti dei capannoni degli allevamenti. Poi c’è in programma di riciclare le deiezioni animali e le biomasse leggere per fare il biogas in house. Su questo c’è un ingente investimento nel Pnrr». 

Il problema è che comunque il suolo agricolo risulta più redditizio producendo energia che coltivando. Come si fa a evitare le speculazioni?

«Questo è un patto sociale. Ci dobbiamo fidare l’uno dell’altro. Io credo che gli investitori facciano questi impianti perché anche loro hanno dei figli che oggi hanno dieci anni e nel 2050 ne avranno quaranta. Se comincio a dubitare di qualunque manovra, qui non si muoverà nulla. Rispetto ai terreni abbiamo aree da bonificare e utilizzare. Io ho fatto tutto quello che è in mio potere, stilando il più grosso piano di rinnovabili di tutto il continente. Ora vediamo chi ci crede sul serio. Se escono fuori tutti quelli che dicono: sì bellissimo, però facciamolo da un’altra parte, occorrerà una riflessione». 

Che tipo di riflessione?

«È opportuno che questa discussione non diventi ideologica: i 70 gigawatt non sono negoziabili. Ci servono per arrivare al 2030 con 70 per cento di energia elettrica da fonti rinnovabili. Se non lo facciamo, buchiamo gli obiettivi dell’accordo di Parigi: continueremo ad alimentare tutto quello che avremo elettrificato, dalle automobili alle fornaci, con energia prodotta da combustibili fossili. Quindi dobbiamo aumentare le rinnovabili e assicurarne la continuità. Per questo abbiamo previsto nel Pnrr un investimento di 4.5 miliardi di euro per la smart grid, una rete che permette di gestire un energy mix dove diventa preponderante il ruolo delle fonti di energia che non sono continue, come eolico e fotovoltaico. Se non lo avessimo fatto, l’incremento di rinnovabili sarebbe stato velleitario». 

Perché se è così urgente passare alle rinnovabili, le centrali a carbone che devono chiudere nel 2025 saranno convertite a gas, un altro combustibile fossile?

«È una questione di numeri e di tempistiche. Sul carbone siamo tutti d’accordo che vada chiuso. Ma in alcuni posti la transizione non può prescindere dal gas per una questione di potenza da garantire. Passando da carbone a gas noi tagliamo il 30 per cento di CO2; da gas a elettricità verde tagliamo il 100 per cento. È ovvio che l’ideale sarebbe fare il doppio salto e passare da carbone a elettricità verde. Siccome però dobbiamo installare 70 gigawatt in 9 anni queste considerazioni sono solo quantitative e cambiano da luogo a luogo. Il problema è globale ma la soluzione è locale. In ogni posto, devi vedere come fare la transizione». 

A proposito di contesti locali, c’è una forte resistenza in Sardegna al piano di metanizzazione. Il timore è che convertendo a gas le centrali a carbone si rallenterà un processo di rinnovabile vera. Perché non fare il doppio salto in Sardegna, dove le condizioni ambientali sono favorevoli?

«La proposta che è stata fatta dall’ad di Enel Francesco Starace è quella di fare una massiccia operazione con circa 2 gigawatt di rinnovabile in Sardegna e rendere la regione autonoma da quel punto di vista. Ne sto discutendo con tutte le parti: la Regione, i distretti industriali, Terna, Enel. Bisogna capire se, in base al consumo attuale, si riesce a fornire ai sardi sufficiente energia per mandare avanti le macchine, le città, le industrie e garantire la crescita prevista in tempo reale. Altrimenti bisognerà andare per gradi». 

I dati del 2021 parlano già di un aumento tendenziale di richiesta di energia e di emissioni post-Covid-19. Sembrano due processi contraddittori: da una parte si de-carbonizza, dall’altra il mondo diventa sempre più affamato di energia…

«L’Italia in questo momento ha consumi elettrici di 300 terawatt/ora all’anno. Durante il Covid siamo scesi a 290, prima eravamo a 320. Se noi pensiamo a un futuro radioso, con una crescita del 5 per cento, arriveremo a 360 terawatt/ora. Quando ho calcolato i 70 gigawatt di rinnovabili, l’ho fatto sull’ultimo anno di riferimento Covid-19 escluso. Se però cresciamo del 5 per cento all’anno, cosa che mi auguro, fra cinque anni i miei conti si saranno dimostrati insufficienti. Avremo settori industriali che pompano di più. La gente comprerà più automobili: se saranno tutte elettriche, le dovremo caricare e lo dovremo fare con energia rinnovabile. In fisica questo si chiama calcolo auto-consistente. Io faccio un calcolo, poi siccome mi variano le condizioni lo devo aggiornare. Nel momento in cui faccio questo conto, si deve capire che se sto crescendo occorre un’altra pala eolica. Oppure mi toccherà bruciare più gas, ma se brucio più gas esco dall’accordo di Parigi. Se a un certo punto mi dicono “No alle pale eoliche qui, no al fotovoltaico qui”, se si sviluppa la sindrome nimby (Not in my backyard, ndr), allora dobbiamo smettere di crescere. Oppure dobbiamo comprare energia al confine, magari prodotta da una centrale nucleare, pagandola di più». 

Non sarà il caso di ridurre il consumo di energia?

«Abbiamo un solo pianeta. Però abbiamo nel mondo un miliardo di persone che non ha elettricità e tre miliardi che non hanno accesso a combustibili puliti per cucinare. Io programmo tutta la mia transizione sui paesi del G20, faccio grandi proclami in cui dico che sto salvando il pianeta. Però di fatto sto condannando a morte quei 3 miliardi lì, a cui do due possibilità: rimanete nel Medioevo perché appena crescete emettete CO2 oppure emigrate e io vi metto i muri, vi faccio affondare nel Mediterraneo perché se venite da me producete CO2 e così non può andare». 

Qual è la soluzione?

«Occorre un cambio di modello sociale, che richiede tempi più lunghi. Abbiamo troppi telefonini, troppo streaming, solo questo fa il 4 per cento di emissioni di CO2. Siamo disposti a rinunciarci? Abbiamo tutti due automobili. Siamo pronti a rinunciare a una? Bisognerà impostare un dibattito che per la sua natura complessa non può avere risultati immediati. Per tornare al nostro contesto italiano, una cosa che abbiamo fatto subito è confermare il superbonus per l’efficientamento energetico. Solo le perdite energetiche degli edifici residenziali producono il 22 per cento della CO2 in Italia». 

Perché avete scelto di finanziare a pioggia il superbonus sugli edifici privati, quasi 14 miliardi, e destinare appena 1,21 miliardi per gli edifici pubblici, come scuole, tribunali, carceri? Non sarebbe stato più logico rinnovare tutti gli edifici pubblici e dare uno stimolo ai privati con un incentivo più basso?

«Si tratta di un provvedimento promosso dal precedente governo che abbiamo deciso di confermare. Io penso che il 110 per cento sia troppo. È l’unico caso in cui fai i lavori e quasi ci guadagni. Poi, sono d’accordo, va investito di più sugli edifici pubblici. Ma bisogna anche considerare che la termodinamica delle dispersioni è soprattutto serale, quando aumenta l’illuminazione e il riscaldamento». 

Finora abbiamo parlato di riduzione delle emissioni, cioè di mitigazione del cambiamento climatico. L’Italia ha un problema forse più urgente. I nostri territori sono sfiancati dagli effetti del riscaldamento globale: grandinate, tempeste, ondate di calore. Non bisogna anche mettere in campo un serio piano di adattamento?

«I dati delle Nazioni Unite mostrano che negli ultimi dieci anni gli eventi climatici estremi riconducibili all’incremento della temperatura sono costati 1.200 miliardi di dollari e hanno fatto 400mila morti. Contro questa catastrofe, gli strumenti convenzionali non sono più sufficienti. Bisognerà usare modelli matematici avanzati, sensoristica, intelligenza artificiale. La cosa che ho fortemente voluto è un piano di monitoraggio globale che utilizzi immagini infrarosse, multi-spettrali e al satellite, combinate alle immagini date da droni e da sensori a terra. La “sensory features” lega tutto insieme, lo mette in un cloud con macchine di ultima generazione e permette di fare previsione in tempo reale di quello che succede. A questo va sommato un investimento di 20 miliardi che noi facciamo nel Pnrr sul dissesto idrogeologico, le perdite di risorse idriche, la salvaguardia delle coste». 

Non pensa che nell’opinione pubblica il tema del cambiamento climatico sia straordinariamente sottovalutato rispetto alla gravità della situazione?

«Sicuramente. I bambini che oggi hanno 6 anni nel 2050 ne avranno 36 e non possiamo immaginare un futuro in cui l’agricoltura non produce più perché le terre sono disidratate e l’Italia è un deserto. O che le vacanze andranno fatte nel mar Baltico perché la temperatura media al Sud sarà 52 gradi. Guardate la stampa internazionale. Oggi la California brucia più carbone perché non riesce a tenere in piedi i condizionatori. La Germania ha ripreso a pompare gas per alimentare la propria manifattura. Gli Stati Uniti hanno aumentato la produzione di petrolio e compensano con la carbon capture. Noi in Italia faremo sforzi enormi per arrivare al 70 per cento di rinnovabili senza compromessi. Per una nazione come la nostra, che ha il 160 per cento di debito pubblico e l’11 per cento di deficit, questo rappresenta un impegno notevole». 

Un altro tema su cui sembriamo essere tutti d’accordo a parole, ma siamo molto indietro sono i rifiuti.

«Sui rifiuti l’Europa ha dato delle indicazioni molto chiare. Dobbiamo aumentare la differenziata e arrivare all’80 per cento di raccolta del rifiuto. L’obiettivo finale è riciclare il 65 per cento dei rifiuti e ridurre le discariche al 10 per cento. Abbiamo messo nel piano più di 2 miliardi per realizzare 50 nuovi impianti per l’economia circolare». 

La questione è dove fare gli impianti. Prendiamo Roma come esempio. Il Tmb Salario, l’impianto andato a fuoco nel 2018: mesi prima l’Arpa aveva certificato che da quell’impianto usciva un rifiuto più sporco di quello che entrava. Qual è la possibilità di far cambiare idea ai cittadini che non si fidano e di fare rigenerazione urbana?

«La sindrome nimby a mio parere ha una sola ragione di esistere: la ripetuta disonestà che i cittadini hanno visto negli ultimi decenni, tanto da sviluppare una sfiducia a priori nei confronti delle istituzioni. Bene la cittadella, ma bisogna creare una cultura della rigenerazione urbana spiegandone la portata e i vantaggi per i cittadini. E al contempo bisogna decidere con cura dove si possono fare gli impianti e farli bene».

Sandro Iacometti per "Libero quotidiano" il 2 agosto 2021. «La transizione ecologica non è un pranzo di gala», «se la facciamo solo noi sarà un bagno di sangue», «le bollette resteranno alte a lungo», «la Ferrari chiude». Sono solo alcune delle dichiarazioni shock con cui negli ultimi mesi il ministro Roberto Cingolani, fisico prestato alla politica, ex manager di Leonardo, senza troppi peli sulla lingua, ha lasciato di stucco gli ecologisti radical -chic che scambiano la rivoluzione verde per un pic-nic senza posate usa e getta. 

A febbraio era l'idolo degli ambientalisti ora è diventato il loro incubo.

«Non si tratta di essere né idoli né incubi per nessuno, ma di lavorare per affrontare, e possibilmente risolvere, problemi.  La verità è che abbiamo una sfida epocale di fronte a noi. Ciò significa che dobbiamo cambiare direzione, e una "transizione ecologica" implica che dobbiamo riconsiderare le nostre abitudini e il nostro rapporto con l'ambiente, la mobilità, la manifattura, l'utilizzo delle risorse naturali. Dobbiamo farlo in fretta - gli accordi di Parigi sottoscritti anche dall'Italia impongono risultati a 10 e 30 anni - e non dobbiamo né vogliamo lasciare indietro nessuno, altrimenti non andremo da nessuna parte. Come è possibile non rendersi conto che queste trasformazioni avranno dei costi da sopportare?» 

L'ambientalismo da salotto, tanti slogan e poco realismo, oltre che per le nostre tasche è dannoso anche per il clima?

«Ogni tipo di ideologismo è dannoso. Resto esterrefatto quando sento ancora negare il dramma del cambiamento climatico, oppure, all'opposto, quando si richiama la necessità delle energie rinnovabili e della decarbonizzazione, ma solo se gli impianti si installano da un'altra parte e se le bollette non salgono». 

L'Italia produce l'1% delle emissioni, perché fare tanti sacrifici?

«L'Italia produce l'1% dell'anidride carbonica totale, l'Europa circa il 9%. E' vero che è una parte marginale, ma al di là del fatto che abbiamo responsabilità storiche (l'Europa ha emesso il 22% della Co2 cumulata) le emissioni e i loro effetti non si fermano ai confini degli Stati, riguardano tutti. Noi siamo un continente di riferimento a livello mondiale e abbiamo un ruolo guida. Dobbiamo dare l'esempio e convincere gli altri paesi a condividere questa sfida, altrimenti i nostri sforzi risulteranno vani e non possiamo permettercerlo». 

E se non li convinciamo?

«Se tutti i paesi del mondo non contribuiranno convintamente agli obiettivi della decarbonizzazione nei tempi giusti, l'Italia e l'Europa potrebbero subire oltre al danno di un ambiente che continuerà a degradare anche la beffa di aver messo a dura prova il proprio sistema sociale e industriale nel tentativo di invertire la rotta del cambiamento climatico, imponendo costi importanti ai cittadini e alla forza lavoro del sistema economico. Non possiamo morire di inquinamento, ma neanche di disoccupazione». 

Tutti vogliono difendere l’ambiente, ma pochi sono disposti a pagarne il prezzo.

«Il mondo è squassato da diseguaglianze enormi. Ci sono paesi dove la gente ha ben meno di 1500 calorie pro-capite al giorno, dove si muore per l'inquinamento dentro casa perché manca l'accesso a fonti di energia pulita per cucinare. Questo fa capire come la difesa dell'ambiente sia percepita in modo diverso a seconda delle circostanze specifiche di ciascun paese». 

Come se ne esce?

«I paesi in via di sviluppo reclamano la loro opportunità di crescere come l'abbiamo avuta noi, inquinando per decenni, e soprattutto non dispongono delle stesse nostre risorse. Ci sono quindi divisioni di natura geopolitica a complicare il quadro, ed anche queste necessiteranno di sforzi economici da parte dei paesi più ricchi per ridurre le disuguaglianze planetarie. Anche questo è un costo da mettere in conto per la transizione ecologica». 

Al G20 grande risultato, ma piccolo passo verso la condivisione dei costi.

«Il G20 ha trovato accordi su tutti i punti dell'agenda, rimandando ai capi di Stato solo la decisione sulla data del "phase out" del carbone e sugli investimenti e incentivi alla produzione di energia da fonti fossili di alcuni grandi Paesi. In ogni caso tutti hanno confermato di aderire agli accordi di Parigi, un risultato impensabile solo poco tempo fa. Inoltre tutti hanno convenuto sulla necessità di aumentare il supporto finanziario ai paesi vulnerabili. Ne discuteremo ancora, ma si tratta di un ottimo passo in avanti. Adesso il banco di prova sarà passare dagli accordi internazionali di alto livello alla loro attuazione». 

Il "Fit for 55" europeo è un suicidio?

«No, è una proposta estremamente ambiziosa, che giustamente fissa l'asticella degli obiettivi molto in alto, sapendo che poi dovranno esserci passaggi parlamentari nazionali e una sintesi a livello europeo». 

Ripartono gli ecoincentivi, ma l'Ue vuole tassare i carburanti e mettere al bando dal 2035 i motori a combustione interna.

«Sulla necessità che i motori a combustione interna e i carburanti fossili vadano superati siamo tutti d'accordo. Il problema è farlo in un arco di tempo corretto, che consenta di rispettare gli accordi di Parigi senza lasciare tantissime famiglie senza lavoro e nello stesso tempo facendo crescere l'offerta e le infrastrutture necessarie ad una mobilità verde alternativa». 

Come salviamo la Ferrari?

«Non scherziamo, la Ferrari continuerà ad essere il top mondiale. La Motor Valley ha risorse tecniche, inventive, umane e infrastrutturali che le consenti ranno comunque di rimanere un riferimento a livello mondiale. Ma per una conversione di questa portata anche a loro servono regole accettabili e i giusti tempi». 

Come si esce dalla trappola dei permessi di Co2? L'ad dell'Eni Descalzi dice che gli energivori chiuderanno.

«La questione rientra nel confronto in corso a livello europeo, che occuperà i prossimi mesi. A costo di essere noioso, ripeto che il tempo non è una variabile indipendente. Però sappiamo anche che dobbiamo decarbonizzare e che dobbiamo studiare le strategie più sostenibili per arrivare al risultato, riducendo al massimo l'impatto sociale e lavorativo. Questo richiede ricerca, sviluppo, nuove idee e investimenti sulla formazione dei lavoratori. Se fosse facile l'avremmo già fatto, ma abbiamo tutto per farlo e farlo bene. Le grandi aziende si stanno muovendo in questa direzione». 

Chi comprerà l'acciaio verde dell'Ilva?

«Tutti dovranno comprarlo, perché la domanda di acciaio è in crescita, e in futuro l'acciaio e qualsiasi altro prodotto dovranno avere un impatto ambientale basso e certificato. Ovvio che la difficoltà sta nella concorrenza "ambientalmente sleale" e negli accordi internazionali che dovranno compensare il minor costo dei prodotti "ambientalmente" più dannosi. L'Ue al riguardo ha una sua proposta, quella della carbon border tax, e anche gli Usa ci stanno riflettendo. E' chiaro che se non si troverà un sistema di regolazione internazionale condiviso la competitività dei prodotti verdi verrà messa a dura prova e questo sarebbe un problema non solo per la transizione ecologica ma anche per il Paese». 

Città più inquinate d'Europa: tra le prime 10, 4 sono italiane. Ecco come inquinare meno. Le Iene News il 22 giugno 2021. Secondo la classifica pubblicata dall’Agenzia Europea dell’ambiente, tra le 10 città più inquinate d’Europa nel periodo 2019-2020 ben quattro sono italiane: Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza. Con la nostra Nadia Toffa vi avevamo dato tanti piccoli consigli per inquinare meno: ognuno può fare la propria parte. Pagella davvero non lodevole per l’Italia quella che arriva dall’Agenzia Europea dell’ambiente. Nella graduatoria delle 10 città più inquinate d’Europa, ben quattro sono italiane: Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza, tutte nella Pianura Padana. Il rapporto prende in considerazione la concentrazione di polveri sottili misurate tra il 2019 e il 2020 e classifica le città sulla base dei livelli medi di particolato fine (PM2,5). Dai dati, raccolti in 323 città, emerge che in 127 città i livelli di particolato fine nel periodo di riferimento erano inferiori ai limiti fissati dall’Oms, che ha indicato 10 microgrammi di PM2,5 ogni metro cubo d’aria come soglia consentita. La qualità dell’aria è considerata molto scarsa quando a lungo termine i livelli di PM2,5 sono pari o superiori a 25 microgrammi per metro cubo. Ma veniamo alla classifica. Cremona occupa il secondo posto, dietro solo alla città di Nowy Sacz, in Polonia. La seconda città italiana che compare nella classifica è Vicenza. Per quanto riguarda le città europee più pulite, le prime tre sono state Umeå (Svezia), Tampere (Finlandia) e Funchal (Portogallo). Del problema dell’inquinamento in Italia vi avevamo parlato già nel 2018 con la nostra Nadia. Abbiamo intervistato Simone Molteni, ingegnere che da anni si occupa di sostenibilità. “Noi abbiamo un impatto ambientale enorme senza accorgercene”, ci ha detto. Tanti piccoli gesti quotidiani, infatti, possono avere un impatto sull’ambiente di cui magari non siamo neppure consapevoli. Un esempio? Mangiando una ciliegia fuori stagione, si spiega nel servizio che potete vedere qui sopra, si inquina 100 volte di più che a mangiare una mela di stagione. Per fare un paragone, 1 Kg di ciliege che arriva dall’altra parte del mondo per soddisfare un nostro sfizio, inquina in termini di Co2 come prendere la propria auto e fare la tratta Milano-Bologna. Nadia Toffa, con l’aiuto di due ingegneri specializzati, ci ha raccontato tanti piccoli consigli per inquinare meno senza nessuno sforzo: dalla frutta che scegliamo durante l’anno al riscaldamento e raffreddamento eccessivo degli ambienti fino allo spreco alimentare e i trasporti. Ognuno può fare la propria parte.  

DA tgcom24.mediaset.it il 22 giugno 2021. Tra le dieci città più inquinate d'Europa, quattro sono nel Nord Italia. La qualità dell'aria a Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza - tutte situate nella Pianura Padana - è classificata come "molto scarsa". Peggio solo altri quattro comuni della Polonia, penalizzati però dalla vicinanza a bacini minerari carboniferi. Lo dice la graduatoria dell’Agenzia Europea dell’ambiente (Aea). La mappa dell'inquinamento coinvolge 323 città europee, classificando la loro qualità dell'aria.  E prende in considerazione la concentrazione di polveri sottili misurate tra il 2019 e il 2020. La soglia limite consentita, prevista dall' Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è di 10 microgrammi di pm 2,5 per ogni metro cubo d’aria. A superarla sarebbero cinque comuni, tra cui i quattro italiani. "Sebbene negli ultimi dieci anni si sia registrato un netto miglioramento della qualità dell’aria in Europa - si legge nel report dell'Agenzia dell'ambiente - dall’ultima valutazione annuale effettuata in tale ambito si evince che nel 2018 l’esposizione al particolato fine ha causato circa 417 000 morti premature in 41 paesi europei". I numeri sembrano quindi preoccupanti. Ma, secondo l'Unione Europea, per considerare la qualità dell’aria insalubre occorrono dati a lungo termine: la concentrazione di polveri sottili deve essere stabilmente superiore ai 25 microgrammi per metro cubo. Promosse invece alcune città scandinave, tra cui Uppsala e Stoccolma (in Svezia), Trondheim e Bergen (in Norvegia) e Tampere in Finlandia. Ma anche Tallin, Narva e Tatu (tutte in Estonia), la portoghese Funchal e inaspettatamente la spagnola Salamanca. La classifica indica però i siti da tenere d'occhio per il livello medio di particolato. Tra cui, le polacche Novy Sacsz  (27,31) e Zgierz (25,15), Cremona (25,86), Vicenza (25,58) e la croata Slavonski Brod (25,75). Compaiono però nell'elenco delle dieci peggiori anche Cracovia, Piotrkow e Zory (sempre in Polonia), Veliko (in Bulgaria) e infine Brescia e Pavia. Preoccupano anche Milano (20,13) e Roma (12,94). Pesa sulla pagella dell'Italia l'inquinamento nel Nord e la scarsità delle misure messe in campo per combatterlo. Solo il 10 novembre 2020, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha condannato il governo la violazione, tra il 2008 e il 2017 violato i limiti di qualità dell’aria "in maniera sistematica e continuata".

Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato Italiano: “Inerte sull’emergenza climatica”. Giampiero Casoni il 06/06/2021 su Notizie.it. Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato Italiano: “Inerte sull’emergenza climatica e fermo solo a sterili e ambiziose dichiarazioni”. Con essa ci sono più di 200 attori-ricorrenti, soggetti fisici e giuridici, associazioni, comitati e cittadini. Terreno di scontro è il Diritto Civile e convenuto è lo Stato Italiano, che non avrebbe messo in campo alcuna iniziativa concreta e fattuale per contrastare il cambiamento climatico. 

Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato: obiettivi e finalità. Marica Di Pierri ha spiegato finalità e polpa giudiziaria dell’azione, presentata ufficialmente nella Giornata mondiale dell’ambiente, a Fanpage.it: “La causa ha l’obiettivo di spingere lo Stato a fare di più per contrastare l’emergenza climatica, chiediamo al giudice civile di dichiarare che l’Italia è inadempiente dal punto di vista climatico, ha responsabilità per la sua inerzia nel raggiungere l’obiettivo sottoscritto a Parigi”. Ma quali sono le direttrici in punto di diritto, a tener conto che una rivendicazione etica (spingere lo Stato è concetto molto didascalico, la legge ingiunge) è una cosa ma una istanza giudiziaria è un’altra? Il ricorso chiede “di condannare l’Italia ad abbattere le emissioni di tre volte rispetto ai target attuale. L’obiettivo attuale, al 2030, è più o meno del 36%: la richiesta che noi facciamo è una riduzione del 92%”. 

Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato Italiano: il calcolo effettuato. Su quali basi sia stata definita quantitativamente la richiesta è sempre la Di Pierri a spiegarlo: “Questo obiettivo discende da un calcolo, basato sulle evidenze scientifiche e poi da un report commissionato a un centro di ricerca climatico, Climate Analytics, a cui abbiamo chiesto di verificare i trend emissivi e di fare dei calcoli basandosi sulle metodologie consolidate rispetto al criterio di equità, considerando sia le responsabilità storiche dell’Italia che le capacità tecnologiche e finanziarie attuali”. Portare a casa il risultato è difficile, ma i ricorrenti hanno voluto che a fare massa critica andassero “per tabulas” anche “le emissioni che l’Italia produce all’estero, pensiamo ai fronti estrattivi di Eni per esempio”. 

Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato: ragioni giuridiche e stimolo sociale. Un risultato complesso e a lungo termine dunque, ma anche un target più a breve tempo, quale? Quello pubblicistico che mentre un concetto si definisce in diritto, si afferma e radica nel tessuto e nelle condotte sociali. “Spesso un’azione giudiziaria ha anche un impatto extra-giudiziale, nelle more delle decisioni della giustizia si assiste a una maggior ambizione da parte degli Stati. Oltre alla risposta del giudice speriamo che lo Stato agisca spinto dalla pressione dell’azione legale, speriamo che lo Stato voglia decidere di agire prima, aumentando i suoi obiettivi”. 

Ambiente, prima causa contro lo Stato Italiano: i precedenti all’estero. E i precedenti non mancano: “Nel nostro continente ci sono stati diversi casi vittoriosi, come il caso Urgenda in Olanda: ha vinto tutti i gradi di giudizio con la condanna nel 2019 dello Stato olandese ad aumentare le ambizioni di riduzione, ha dovuto rivedere i suoi obiettivi”. E ancora: “Ad aprile la Corte costituzionale tedesca ha emesso una sentenza storica: le politiche del governo tedesco, molto più ambiziose di quelle italiane, sono state ritenute non sufficienti. Il governo dovrà in effetti aumentare gli obiettivi”.

Ambiente, prima causa contro lo Stato che “fa solo dichiarazioni ambiziose”. Il sunto della faccenda è che i ricorrenti vedono solo molto fumo negli occhi da parte dell’Italia, anche con l’esecutivo in carica, il governo Draghi: “Siamo fermi a dichiarazioni ambiziose, alle quali non conseguono azioni altrettanto ambiziose. C’è stato un gran parlare della centralità della transizione, ma al momento non si hanno notizie né dell’annunciato aumento delle ambizioni di emissioni né dell’eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi annunciata”.

«La rivoluzione ambientale? Tanti annunci e pochi fatti». Avanti adagio sulla decarbonizzazione, agricoltura e zootecnia trascurati. Per associazioni ed esperti gli obiettivi della transizione ecologica sono lontani. Stefano Liberti su L'Espresso il 25 maggio 2021. La premessa ha la solennità degli annunci storici. «Serve una radicale transizione ecologica verso la completa neutralità climatica e lo sviluppo ambientale sostenibile per mitigare le minacce a sistemi naturali e umani». Così si legge nelle prime righe della missione numero 2, dedicata alla cosiddetta rivoluzione verde, del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che il governo italiano ha inviato alla Commissione Europea il 30 aprile scorso. Un impegno che fa seguito all’istituzione del ministero della Transizione ecologica guidato dallo scienziato Roberto Cingolani, con delega alle politiche ambientali ed energetiche. Tutti segnali che paiono indicare la volontà di un drastico cambio di rotta e di una revisione complessiva del modello di sviluppo. Ma la transizione ecologica prospettata dal piano è davvero così radicale come viene annunciata? La completa neutralità climatica e lo sviluppo sostenibile sono effettivamente gli architravi di quella strategia per l’ammodernamento del Paese descritta dal premier Mario Draghi nell’introduzione al Pnrr? «Si sta evocando una rivoluzione che nei fatti non avverrà», taglia corto Matteo Leonardi, co-fondatore di Ecco, think tank dedicato al cambiamento climatico e alla transizione energetica. L’analisi delle misure presenti nel piano sembra in effetti contraddire la direzione indicata nel preambolo. «I circa 78 miliardi contrassegnati come azioni per il clima non sono distribuiti in modo da innescare processi virtuosi di innovazione. Manca una visione forte per la de-carbonizzazione, sia sulle fonti di energia rinnovabile che sulla mobilità sostenibile. Senza parlare dell’efficienza energetica degli edifici, in cui si è deciso di confermare il super-bonus del 110 per cento per i privati ma si sono tagliati i fondi per l’efficientamento degli edifici pubblici». L’Unione Europea ha recentemente rivisto al rialzo i propri traguardi di de-carbonizzazione, stabilendo un decremento del 55 per cento delle emissioni clima-alteranti al 2030 rispetto ai livelli del 1990 e un azzeramento totale al 2050. L’Italia non ha una road map chiara per raggiungere questi obiettivi. Le azioni previste nel Piano di ripresa e resilienza indicano la mancanza di una prospettiva strategica, capace di puntare su quei settori che altrove sono considerati cruciali per guidare la transizione. Prendiamo le fonti di energia rinnovabile: «L’Italia dovrebbe incrementare di 6 Gigawatt all’anno la potenza rinnovabile, ma nel Pnrr si prevedono risorse per 4,2 Gigawatt complessivi per i cinque anni del piano. Con queste premesse difficilmente riusciremo a stare al passo con la strategia di lungo termine europea», dice ancora Leonardi. Mai come in questo caso vale il detto che l’erba del vicino è sempre più verde: in Germania, una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe ha bocciato la legge sul clima definendola troppo vaga sugli impegni assunti per la de-carbonizzazione e ha spinto alla fine il governo a darsi obiettivi più ambiziosi di quelli europei, con un taglio delle emissioni del 65 per cento al 2030 e la neutralità climatica al 2045, cinque anni prima rispetto al resto del continente. La Spagna ha appena approvato una legge sul clima che blocca con effetto immediato nuovi permessi di esplorazione e produzione dei combustibili fossili e prevede di portare al 2030 le fonti rinnovabili al 74 per cento del fabbisogno elettrico nazionale. L’Italia invece punta a sostituire le centrali a carbone con impianti a gas, che è un altro combustibile fossile; non investe sul trasporto elettrico e non si interroga minimamente sull’impatto ambientale delle proprie produzioni industriali. «Nella missione 1 del Pnrr, quella dedicata all’industria, la parola clima non compare», fa notare ancora Leonardi. «Si parla di digitalizzazione, innovazione ed internazionalizzazione, senza porre l’efficienza energetica e le tecnologie per il clima come una variabile di questo processo». Altro elemento trascurato dal piano è il peso che un certo modello di produzione agro-alimentare può avere sull’ambiente. «Il comparto agricolo è il grande assente dalla transizione verde», sottolinea Federico Ferrario, responsabile della campagna agricoltura sostenibile di Greenpeace Italia. A fine aprile, l’associazione ambientalista ha affisso alcune targhe sostitutive per rinominare i ministeri più coinvolti nel Pnrr. Così il ministero della Transizione ecologica è stato ribattezzato «ministero della finzione ecologica», quello delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili, guidato da Enrico Giovannini il «ministero dei treni persi e dell’immobilità elettrica», il ministero dello Sviluppo economico è diventato il «ministero dello sviluppo che distrugge il pianeta». E quello dell’agricoltura il «ministero degli allevamenti intensivi e di altre attività inquinanti». Secondo Greenpeace, Il Pnrr contraddice completamente i dettami del green new deal e della strategia «farm to fork» dell’Unione europea. «È stupefacente», sottolinea ancora Ferrario, «che non vi sia nessun investimento per incrementare la superficie agricola dedicata all’agricoltura biologica, di cui noi siamo leader europei, o di investimenti in agro-ecologia per ridurre gli impatti del settore agricolo e creare valore aggiunto alle produzioni nazionali». Altro aspetto su cui Greenpeace punta il dito è quello relativo agli allevamenti intensivi. «Non c’è il minimo accenno alla revisione di un sistema che produce a livello globale il 14,5 per cento delle emissioni, contribuisce alla formazione di polveri sottili soprattutto in Pianura Padana e favorisce lo sviluppo dell’antibiotico-resistenza». Dal punto di vista dell’associazione ambientalista, le risorse del Pnrr potevano essere usate adeguatamente per accompagnare gli allevatori verso un modello che prevedesse una riduzione dei capi allevati e una diminuzione dell’impatto ambientale e climatico. «Invece si è scelto il business as usual, perpetuando un sistema che produce carne a basso costo e alimenta un futuro ad alto rischio». L’unica novità che viene avanzata dal piano quando si parla di zootecnica è un finanziamento importante (1,1 miliardi di euro) per costruire pannelli solari sui capannoni degli allevamenti. «Misura condivisibile che però da sola indica la non volontà di rivedere un modello di produzione che compromette pesantemente gli eco-sistemi», conclude Ferrario. In termini di adattamento, il Pnrr riconosce che «l’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici e, in particolare, all’aumento delle ondate di calore e delle siccità». Per fronteggiare la scarsità idrica è prevista la creazione di un sistema di invasi e bacini per la raccolta dell’acqua con uno stanziamento complessivo di 1,8 miliardi di euro. «Sicuramente è importante un ammodernamento delle infrastrutture idriche, che sono vetuste», sottolinea il climatologo Giulio Boccaletti, autore del libro “Water: a biography”, una storia mondiale dell’acqua che uscirà in inglese a settembre. «Ma bisogna rivedere anche i modi di produrre. L’Italia è molto più esposta di altri Paesi ai mutamenti climatici e deve affrettarsi perché è chiaro che alcune aree del Paese avranno un clima sempre più simile a quello nordafricano e alcune coltivazioni in prospettiva dovranno cambiare. Il problema è che l’Italia al momento non programma il futuro: non ha nemmeno un coordinamento nazionale climatologico che si preoccupi di dire come gestiremo i cambiamenti ambientali tra quindici anni». Una mancanza di visione che costituisce una pesante zavorra per il sistema Paese e che appare tanto più sorprendente nel momento in cui siamo presidenti di turno del G20 e co-organizzatori della Cop 26, la Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite che si terrà a Glasgow a novembre. Nella sua recente visita nel nostro Paese John Kerry, inviato speciale degli Stati Uniti per il clima, ha affermato: «L’Italia ha una grande opportunità di leadership nel lavorare sul tema dei cambiamenti climatici e gli Stati Uniti sono pronti ad aiutarla. Il vostro successo sarà il successo di tutti noi». Più che uno stimolo a un’azione condivisa è suonato a molti come un’esortazione a fare di più e più in fretta.

(ANSA il 21 aprile 2021) - "Il problema delle emissioni climalteranti è chiaro, ma non è chiaro il sacrificio che ognuno deve fare. Tutti vogliono essere verdi, ma poi non vogliono la pala eolica davanti a casa, o vogliono continuare a usare i social che producono tante emissioni. Tutti vogliono le rinnovabili, ma poi nessuno le vuole davvero. L'emergenza climatica richiede sacrificio, ci dobbiamo mettere tutti qualcosa". Lo ha detto il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, a un webinar dell'ANSA sull'idrogeno.

Recovery Plan, la grande bufala della "svolta green". Non solo riceveremo gran parte dei soldi del Recovery Plan dovendo seguire stringenti condizionalità, ma rischiamo anche di spendere soldi a debito avvantaggiando le economie di altri Paesi. Roberto Vivaldelli - Lun, 05/04/2021 - su Il Giornale. La commissione europea spiega che il Recovery Plan - NextGenerationEU vale 750 miliardi di euro, ed è necessario per riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus per creare un'Europa post Covid-19 "più verde, digitale, resiliente e adeguata alle sfide presenti e future". La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha annunciato che il 37% dei fondi sarà destinato alle politiche verdi e che il 30% del fondo sarà finanziato attraverso "green bonds", ossia obbligazioni sul mercato per progetti benefici per l’ambiente. Su un binario parallelo viaggia il Green deal europeo che porterà l'Europa, come ha sottolineato il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, ad affrontare "l’emergenza climatica e la trasformazione verso un futuro più sostenibile" tenendo conto della "dimensione sociale e della lotta contro le disuguaglianze". Tanto rumore per nulla, o quasi. Siamo dinanzi a un classico esempio di Greenwashing, ossia quella strategia di comunicazione che spesso le aziende - in questo caso l'Unione europea - usano con estrema disinvoltura per farsi belli, con richiami ambientali e sostenibili, ma che poi non si traduce nella realtà con risultati reali e tangibili. Accusa peraltro non nuova e mossa già in passato, nei confronti dell'Unione europea e in particolare verso il Green Deal da parte di Yanis Varoufakis e David Adler sul Guardian. Senza contare che lo stesso Wolfgang Munchau, sul Financial Times, spiegava lo scorso settembre che l'obiettivo del 37% destinato alle politiche "green" annunciato da Von der Leyen non era assolutamente realistico: "Sarebbe meglio avere un obiettivo più basso ma più onesto per la spesa verde e consentire variazioni tra i Paesi. L'Italia, ad esempio, ha un fabbisogno molto maggiore di spesa per le infrastrutture di trasporto" osservava.

Ecco chi avvantaggia la presunta "svolta green" europea. Ma la cosa più grave, come nota Gianluigi Paragone su IlTempo, è che se parliamo di Recovery Plan e di NextGenerationU, ci riferiamo perlopiù a soldi che riceveremo in prestito e che non solo dovremo restituire per avvantaggiare poi le economie di altri Paesi, ma che saremo costretti a impiegare secondo i più stringenti diktat europei e seguendo dunque una road map precisa. "In nome di questa ecosostenibilità tesa a uno spostamento verso l'elettrico e verso l'idrogeno dicono: all'Italia arriveranno tanti soldi da spendere" osserva Paragone. "Certo, soldi da spendere a debito per favorire le economie degli altri. Tedeschi, cinesi in testa, perché saranno loro a venderci l'elettrico. A cominciare dall'automotive, che per la Germania è prima fonte del Pii. Riassunto: a noi i debiti dei prestiti, agli altri soprattutto gli asiatici - i profitti". Bell'affare, no? L'importante è riempirsi la bocca di ecologismo posticcio. Che la "svolta green" sia una colossale presa in giro, d'altronde, lo sostengono anche gli attivisti "gretini" di Fridays for Future, che sul loro sito web bocciano senza appello il Recovery Plan: "Inserire la parola green nel Recovery Plan non significa agire per il clima. Non ci importa quante volte la ripetete. Ciò che ci importa è vedere degli obiettivi chiari, e che vengano raggiunti. D’altronde, quando noi studenti facciamo un esame, non ci viene chiesto quante ore abbiamo passato sui libri, ma di dimostrare che abbiamo raggiunto dei risultati e appreso gli argomenti" affermano. Insomma, la tanto chiaccherata svolta green europea, oltre a essere di facciata, rischia innanzitutto di rivelarsi una colossale fregatura per l'Italia.

Transizione ecologica: chi la paga? Firstonline.info il 18/3/2021. Rendere la nostra economia più sostenibile e salvaguardare il pianeta dal riscaldamento globale sono due sfide collegate e irrinunciabili, soprattutto adesso che il Covid ha rallentato le catene di produzione, mettendo in crisi le imprese ma allo stesso tempo offrendo un’opportunità imperdibile di rinnovamento. La decarbonizzazione, quanto delle imprese quanto soprattutto della supply chain, cioè della filiera di fornitura, ha un costo: in parte questo viene assorbito dalle aziende stesse con gli investimenti, in parte viene coperto da finanziamenti pubblici (il Recovery Fund è lì anche per questo), ma in parte ricadrà sui consumatori, cioè su tutti noi. A quantificare questo aspetto molto spesso sottovalutato della transizione ecologica è il report “Net-Zero Challenge: The Supply Chain Opportunity” realizzato da Boston Consulting Group per il World Economic Forum: gli ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione comportano un aumento dei prezzi sui consumatori che viene stimato fra l’1 e il 4%. Una sorta di inflazione aggiuntiva, che tuttavia il Boston Consulting Group ritiene dal suo punto di vista “relativamente contenuta, tale da non pregiudicare la competitività dell’impresa”. Anche perché, sostiene sempre il BCG, gli strumenti per azzerare le emissioni delle catene di produzione sono già in gran parte disponibili per le imprese “che, con un’adeguata strategia, possono superare gli ostacoli (aumento dei costi, inerzia dei governi, concorrenza sleale di rivali inquinanti, mancanza di dati affidabili) per trasformarli persino in vantaggio competitivo”. “L’opportunità che ci viene offerta di "ricreare" il mondo post pandemia è assolutamente da non perdere”, commenta Laura Alice Villani, Managing Director e Partner di BCG e responsabile per la practice Energy in Italia. “Le grandi aziende possono diventarne protagoniste, sostenendo i propri fornitori in questa fase”. E’ noto infatti gli impianti delle grandi aziende e l’energia per alimentarli hanno un peso significativo sulla quantità di CO2 immessa nell’ambiente, ma tutto il resto delle emissioni è frutto dell’attività del loro fornitori. Per il BCG insomma le soluzioni a favore dell’ambiente sono sostenibili anche economicamente, quanto meno in larga parte. La decarbonizzazione totale infatti potrebbe ricadere molto di più sui consumatori, ma lo studio spiega che “il 40% delle emissioni potrebbe essere abbattuto con misure che consentono addirittura risparmi o che comportano un dispendio inferiore ai 10 euro per tonnellata di Co2 eliminata. L’onere salirebbe invece fra i 10 e i 100 euro a tonnellata per un’ulteriore riduzione del 40%, a causa del costo delle tecnologie che però potrebbe rapidamente scendere in caso di adozione su ampia scala”. Secondo il lavoro del BCG, le materie prime e i componenti rappresentano in definitiva una quota modesta del prezzo finale di un bene: per fare un paio di esempi, circa il 10% di un’auto, fra il 10 e il 20% di un paio di scarpe da tennis. Ecco perché l’impatto finale sui prezzi al consumatore di una sufficiente decarbonizzazione sarebbe appunto tra l’1 e il 4%. Questo aumento è davvero così basso e digeribile dalla maggior parte dei consumatori globali? Il Boston Consulting Group su questo sembra ottimista e nel presentare il proprio lavoro sostiene che “anzi, sempre più consumatori sono disposti a pagare di più pur di avere un prodotto sostenibile, dalla culla alla tomba”. Quel prezzo da pagare in più è dunque attribuibile alla decarbonizzazione anche e soprattutto delle filiere di fornitura: lo studio individua quelle ad oggi meno sostenibili e sono le cosiddette big eights, cioè le 8 supply chain che da sole sono responsabili del 50% delle emissioni globali. Si tratta delle catene del Food, delle costruzioni, della moda, dei beni di largo consumo, dell’elettronica, dell’auto, degli uffici e del trasporto merci. “Le barriere alla decarbonizzazione delle catene produttive – spiega ancora Villani – non sono soltanto di natura economica, ma anche informativa. Considerato che, al momento, le multinazionali fanno fatica a conoscere l’identità di tutte le migliaia di fornitori e subfornitori sparsi per il globo, diventa ancora più difficile per queste avere piena contezza delle emissioni di ognuno”. Il Boston Consulting ha così pensato ad una lista di suggerimenti per una strategia vincente su questo preciso fronte:

1.     Stabilire una linea di contenimento delle emissioni e assicurare trasparenza sui dati condivisi con i fornitori;

2.     Disegnare obiettivi complessivi di riduzione;

3.     Rivisitare i prodotti secondo criteri di sostenibilità;

4.     Disegnare la catena di valore riconsiderando le fonti di approvvigionamento anche dal punto di vista geografico;

5.     Integrare le metriche delle emissioni negli standard di approvvigionamento e monitorare le prestazioni;

6.     Lavorare con i fornitori per lavorare alla diminuzione delle loro emissioni;

7.     Impegnarsi in iniziative di settore per essere aggiornati sulle best practice e le certificazioni;

8.     Aumentare i “gruppi di acquisto” per ampliare gli impegni dal lato della domanda;

9.     Inserire una governance a basse emissioni, coordinare gli incentivi interni e responsabilizzare l’organizzazione.

Cambiamento climatico, danni per 12 miliardi l'anno. Il nuovo piano Ue. Le Iene News il 25 febbraio 2021. I danni causati da fenomeni climatici estremi provocano perdite nei paesi dell’Unione europea pari a 12 miliardi di euro all’anno. La Commissione europea ha varato un nuovo piano strategico per aiutare i paesi membri ad adattarsi al cambiamento climatico. Di questa emergenza vi avevamo parlato già nel 2018 con la nostra Nadia Toffa. I danni causati da fenomeni climatici estremi provocano perdite nei paesi dell’Unione europea per 12 miliardi di euro all’anno. E il dato potrebbe peggiorare, arrivando fino a 170 miliardi di perdite, se la temperatura salisse di tre gradi rispetto ai livelli pre-industrali. E non ci sono solo le perdite economiche. I fenomeni estremi sono sempre più letali: come si legge sull’Ansa, un evento come l’ondata di caldo del 2019 ha causato 2.500 morti in Europa. La Commisione europea ha varato un nuovo piano strategico per aiutare i paesi membri ad adattarsi al cambiamento climatico. L’Unione promuoverà un osservatorio sul clima e la salute per valutare al meglio i rischi climatici e i pericoli sanitari. Lavorerà inoltre con i paesi attraverso incentivi per l’adattamento al rischio. "Non esiste alcun vaccino contro la crisi climatica, ma possiamo ancora combatterla e prepararci ai suoi effetti inevitabili, che si fanno già sentire sia all’interno che all’esterno dell’Unione europea”, ha detto a Bruxelles Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo responsabile per il Green Deal europeo. “La nuova strategia di adattamento ai cambiamenti climatici ci consente di accelerare e approfondire i preparativi. Se ci prepariamo oggi, possiamo ancora costruire un domani resiliente ai cambiamenti climatici”. Proprio al tema del cambiamento climatico era dedicato il servizio del 2018 della nostra Nadia Toffa, che potete vedere qui sopra. “Da quando si studiano i cambiamenti climatici si è predetto che gli eventi estremi sarebbero stati ancora più estremi”, ha detto alla Iena Simone Molteni, direttore scientifico di LifeGate e ingegnere esperto in sostenibilità. “Quello che stiamo vedendo sono ad esempio uragani in cui in quattro ore viene rilasciata l’acqua che sarebbe dovuta cadere in quattro mesi. Ogni tifone, ogni tempesta che vediamo sta diventando più forte. Quanto più noi abbiamo una Terra calda quanta più energia questi eventi estremi avranno da rilasciare”. “Ogni volta che bruciamo dei combustibili fossili, e questo lo facciamo ad esempio quando usiamo la macchina o quando accendiamo la luce, genera emissioni di gas a effetto serra”, ha detto Molteni. “Rispetto a un’epoca preindustrale la terra in media si è riscaldata già di un grado. “L’importante è trovare un equilibro in cui ci sentiamo degni di rimanere come specie sulla terra”. Molteni ci aveva raccontato come ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare qualcosa: “Usare i mezzi pubblici, non riscaldare la propria casa d’inverno a 25 gradi, scegliere di utilizzare energie rinnovabili. Tutti questi sono comportamenti che valgono almeno quanto i comportamenti dei governi”. 

Aria nuova. L’Italia non riesce a sfruttare l’energia eolica come potrebbe. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 20 Novembre 2021. L’elettricità prodotta dal vento sarà un tassello fondamentale nel percorso verso la decarbonizzazione, ma c’è ancora un grosso potenziale non valorizzato: si potrebbe produrre più del doppio rispetto ad oggi, ma i problemi burocratici e la lentezza nella realizzazione dei parchi offshore frenano i nuovi progetti. Dieci turbine alte 100 metri piantate nella rada esterna del porto di Taranto, dieci rotori da 126 metri di diametro in grado di produrre 30 MW di energia verde, un risparmio di 730mila tonnellate di CO2 in 25 anni. Beleolico dovrebbe diventare operativo già nei primi mesi del 2022 e sarà il primo parco eolico offshore del Mediterraneo. L’energia prodotta la largo delle coste tarantine «rappresenta una pietra miliare nel mondo delle rinnovabili, un segnale fondamentale per la transizione energetica in Italia», dice Andrea Porchera, responsabile delle relazioni istituzionali di Renexia, l’azienda che sta curando il progetto. «La realizzazione di questo campo eolico è la dimostrazione che un nuovo approccio, sostenibile ed efficace, alla produzione di energia è possibile. Siamo i primi a realizzarlo nel Mar Mediterraneo e da questo punto di vista ci poniamo come first mover e confidiamo che il nostro esempio contribuisca a incentivare la produzione di energia pulita grazie alle nuove tecnologie offshore». L’eolico, come le altre rinnovabili, giocherà un ruolo fondamentale nel percorso verso la decarbonizzazione. Ma al momento pesa ancora troppo poco sulla produzione totale di elettricità. I dati Terna mostrano che la potenza eolica installata in Italia al 30 giugno 2021 è di quasi 11 GW, cioè poco più del 7,5% della produzione nazionale, con circa il 90% degli impianti eolici concentrato nel Sud e nelle isole (per motivi legati alla produttività dei siti, cioè al vento a disposizione). «Nei piani che l’Italia ha inviato a Bruxelles per indicare il suo percorso verso la decarbonizzazione, la produzione di energia dall’eolico dovrebbe raddoppiare da qui al 2030, fino ai 20 GW: si tratta di aggiungere 1GW ogni anno», dice a Linkiesta Simone Togni, presidente dell’Associazione nazionale energia del vento (Anev, riunisce oltre 2mila soggetti tra produttori e operatori dell’energia elettrica ricavata da fonti eoliche). In realtà i traguardi previsti dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima sono già stati ritoccati: la riduzione della metà delle emissioni al 2030 è stata aumentata al -55%, quindi l’aumento di produzione dovrebbe essere ancora più rapida. Ma l’attuale ritmo di crescita non permetterà di raggiungere gli obiettivi, dal momento che dal 2019 è stato installato appena 1 GW e oggi abbiamo appena 3 GW in più rispetto al 2012. «In termini di risorse, spazio e tecnologia, il potenziale per raggiungere gli obiettivi ci sarebbe», dice Togni. «I nostri studi – prosegue – dimostrano che l’Italia potrebbe arrivare a produrre fino a 26 GW dall’eolico a terra, a cui va aggiunto un potenziale tra i 5 e i 10 GW dall’eolico offshore che non è presente nelle analisi perché sta diventando una realtà solo adesso, almeno per noi». Ma non sempre chi vuole investire nelle rinnovabili ha un percorso facile davanti a sé. Da anni i panorami tagliati dalle pale eoliche agitano i comitati del no, che frenano la spinta ambientalista di chi vuole puntare sull’eolico, o il fotovoltaico – cioè in fonti di energia che hanno bisogno di molto spazio, e inevitabilmente modificano l’aspetto di un territorio. Le aziende dell’eolico, però, hanno un giudizio unanime su quale sia l’ostacolo numero uno ai loro progetti: il ministero della Cultura e le Soprintendenze. Nel 70% dei casi il rallentamento per l’installazione degli impianti fotovoltaici e di energia eolica è causato dalle Soprintendenze. E i vincoli paesaggistici, al momento, tengono in stallo 3 GW di impianti rinnovabili anche se hanno la Valutazione di impatto ambientale favorevole. «Normalmente ci vogliono quattro anni e nove mesi, di media, per l’approvazione dei progetti sull’eolico», dice il presidente dell’Anev Simone Togni. È la burocrazia italiana che funziona come un buco nero e fa sparire le cose che vi finiscono nei paraggi. «La stessa Soprintendenza spesso suggerisce di fare ricorso al Tar, perché poi tanto il ricorso si vince. Solo che il ricorso dura 4 anni, a cui vanno sommati i tempi necessari per ottenere l’autorizzazione: significa che al momento di costruire un parco eolico la tecnologia scelta è già vecchia», spiega Togni. Ecco dunque che l’offshore può diventare una soluzione in grado di cambiare la prospettiva della produzione di energia pulita: il primo vantaggio riguarda proprio l’occupazione del suolo. O meglio, il suolo che non viene occupato. Anche per questo motivo a giugno il ministero per la Transizione ecologica ha dato il via libera per la presentazione dei progetti offshore e in poco tempo ha ricevuto 39 manifestazioni di interesse. I progetti sono localizzati perlopiù al Sud, nel basso Adriatico dal lato della Puglia, nello Ionio, nel Canale di Sicilia e attorno alla punta meridionale della Sardegna; poi c’è un nucleo di sette proposte collocata tra Sardegna e Toscana; un altro al largo dell’Emilia-Romagna. «In mare aperto – dice Andrea Porchera di Renexia – ci sono venti più forti e costanti che consentono di utilizzare turbine più potenti e quindi generare energia in maniera più efficiente. L’impiego di tecnologie innovative, inoltre, consente la creazione di una filiera industriale nazionale, capace di porsi all’avanguardia anche a livello mondiale, con indubbi vantaggi per il nostro sistema imprenditoriale e per la creazione di manodopera altamente qualificata». A proposito di tecnologie innovative, in Italia dovrebbe nascere anche il primo parco eolico offshore galleggiante – in gergo si usa il termine floating – nel Canale di Sicilia. È un altro progetto guidato da Renexia, che sta usando questa tecnologia anche al largo delle coste americane. «Il progetto Med Wind rappresenta il primo parco offshore galleggiante di grandi dimensioni, avrà 190 turbine. La tecnologia floating viene riconosciuta da tutti gli esperti a livello mondiale come una tecnologia game changer, capace di rivoluzionare radicalmente il settore delle rinnovabili», dice Porchera. Una volta a regime, l’energia generata da Med Wind, per una potenza pari a circa 2,8 GW, contribuirà all’equivalente spegnimento di tre centrali clima alteranti e all’abbattimento del costo della bolletta per i siciliani di circa 100 milioni l’anno. La tecnologia offshore galleggiante incontra, inoltre, il favore delle principali associazioni ambientaliste perché rappresenta un’alternativa efficiente e sostenibile per la produzione di energia green. Le strutture fisse sono possibili fino a una certa profondità (30 metri circa), quindi devono stare vicino alla costa. E intralciano altre attività, come la pesca, il turismo, la navigazione da diporto. Le soluzioni galleggianti possono stare più lontane, così non solo possono sfruttare venti più forti, ma sono anche meno visibili da terra: questo limita le proteste dei detrattori delle pale eoliche installate a terra. Ovviamente anche i progetti offshore presentano delle criticità. Intanto richiedono tempi di progettazione particolarmente lunghi, con complesse fasi di rilevazioni e analisi marine per l’installazione di impianti che occupano aree grandi anche centinaia di chilometri quadrati. E la manutenzione richiede apparecchiature specifiche, materiali anticorrosione e altre attenzioni. Poi c’è la parte strettamente tecnologica, che riguarda soprattutto i progetti galleggianti più distanti dalla costa: maggiore è lo spazio da coprire con i cavi e maggiore sarà l’elettricità dispersa nel tragitto. «La criticità principale è quella relativa alla connessione alla rete», spiegano dall’Anev. «Impianti eolici offshore a distanze significative dalle coste – concludono – sono impianti di grandi dimensioni: se quelli onshore producono circa 30-40 MW ognuno, un parco offshore floating dovrebbe produrre quasi dieci volte tanto. In questo caso la qualità della connessione a terra fa la differenza nell’efficienza produttiva di un impianto: per questo è fondamentale anche che lo Stato investa per potenziare la rete elettrica nazionale». Non a caso, Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede una spesa di 23,78 miliardi di euro per il settore delle rinnovabili, divisa in vari ambiti di intervento. Tra questi c’è anche il potenziamento e la digitalizzazione delle infrastrutture di rete: l’obiettivo è migliorare affidabilità, sicurezza e flessibilità del sistema energetico nazionale, aumentando la produzione di rinnovabili. Forse non sarà decisivo, ma è di sicuro un primo passo per favorire gli investimenti nel settore. 

L'idrogeno che viene dal mare, a che punto è la ricerca. Pietro Mecarozzi su La Repubblica il 18 ottobre 2021. Impianto per la produzione di idrogeno a Fort McMurray, Alberta, Canada. Getty. Le nuove tecnologie hanno aperto la strada a un'applicazione dalle potenzialità pressoché illimitate: l'uso dell'acqua salata per l'elettrolisi, fino a poco impossibile per problemi di corrosione degli impianti. La hydrogen economy ha una nuova arma a disposizione: la produzione di idrogeno dall'acqua marina e dal sole. Fino a qualche anno fa le tecnologie di elettrolisi venivano pensate solamente con l'acqua dolce, dal momento che il sale marino è in grado di danneggiare parti chiave dell'impianto. Adesso però le nuove tecnologie hanno aperto la strada a un'applicazione dalle potenzialità pressoché illimitate.

Gb, produrre idrogeno utilizzando l'energia eolica in eccesso. Enrico Franceschini su La Repubblica il 23 febbraio 2021. Il progetto Dolphyn mira a equipaggiare le turbine eoliche dislocate in mare con apparecchiature per desalinizzazare l'acqua marina ed elettrolizzatori per separare ossigeno e idrogeno dalla risultante acqua non salina. Come risolvere l'impegno globale a ridurre a zero le emissioni nocive entro il 2050, che verrà ribadito nel novembre prossimo da un summit dell'Onu a Glasgow sul cambiamento climatico? Parafrasando Bob Dylan, si dice nel Regno Unito e altrove, la risposta potrebbe essere nel vento. Il 2020 è stato un anno da record per l'industria dell'energia eolica britannica: in certi giorni, come il 26 agosto scorso, le pale ruotanti sospinte dalla brezza hanno prodotto il 60 per cento del fabbisogno energetico nazionale. Al punto che talvolta le cosiddette "fabbriche del vento" creano più elettricità di quanta ne serva al Paese, come è successo durante il primo lockdown provocato dalla pandemia, la primavera passata, quando la domanda di energia è calata insieme all'attività produttiva. Ma l'eccesso di energia, in questi casi, potrebbe essere usato per qualcos'altro: per la produzione di idrogeno. Un gas che ha zero emissioni nocive e secondo molti esperti rappresenta una delle migliori fonti di energia rinnovabile per il futuro del pianeta. "Quello che puntiamo a fare è generare idrogeno direttamente dalle fabbriche del vento offshore", ovvero al largo delle coste britanniche, dice alla Bbc Stephen Matthews, direttore di Erm, una società di consulenza per lo sviluppo di industrie sostenibili. Denominato Dolphyn, il progetto mira a equipaggiare le turbine eoliche dislocate in mare con apparecchiature per la desalinizzazione per rimuovere il sale dall'acqua marina ed elettrolizzatori per separare ossigeno e idrogeno dalla risultante acqua non salina. L'idea di utilizzare energia eolica in eccesso per produrre idrogeno ha suscitato grande interesse a Londra, perché il governo di Boris Johnson vuole essere uno dei leader mondiali nella transizione a un'economia in difesa dell'ambiente nei prossimi trent'anni e punta a conquistare una posizione di primo piano nel campo dell'idrogeno, non per nulla soprannominato l'oro verde per il potenziale che rappresenta. Con la possibilità di usarlo come carburante per trasporti, industria e riscaldamento, l'idrogeno alimenta grandi speranze in tutto il mondo. Ma affinché ciò avvenga occorre che la sua produzione aumenti considerevolmente nei prossimi decenni. L'iniziativa della Erm, riconosce il suo direttore, è solo ai primi passi, avendo sviluppato un prototipo da applicare alle turbine a vento con una capacità di circa 10 megawatt, ma non ancora costruito. L'ipotesi è sia basato in Scozia, lungo le cui coste sorgono enormi fabbriche del vento, con l'intenzione di iniziare la produzione di idrogeno nel 2024-2025. Il progetto Dolphyn non è l'unico in questa corsa verso il riutilizzo dell'energia eolica: Siemens Energy, Tractebel e Nephtune Energy sono altre aziende impegnate nella medesima direzione, in Germania, Olanda e Gran Bretagna, riporta la Bbc. Il dibattito è anche sul modo più efficiente per generare idrogeno, se direttamente in mare o riportando l'energia a terra con appositi cavi sottomarini. La spesa per installare turbine in mare è in costante declino e la tecnologia per elettrolizzatori su larga scala sta diventando sempre più disponibile: perciò vari esperti, come il professor James Carton dell'università di Dublino, ritengono che il momento sia propizio. Restano tuttavia ancora ostacoli da superare. Altri studiosi sottolineano che serve un decennio di sviluppo tecnologico prima che questo nuovo sistema possa avere un ampio impatto. La vera questione, commenta il professor John Gluyas della Durham University, è se sarà una tecnica vantaggiosa dal punto di vista dei costi: la sua previsione è che sarà probabilmente necessario un misto di diverse tecnologie per fare sì che un paese raggiunga il sospirato obiettivo di zero emissioni nocive e di un'energia completamente pulita. 

Così Francia e Spagna stanno affrontando la transizione ecologica. Federica Bianchi su L'Espresso il 23 febbraio 2021. Due ministre donna, in posizione di vertice nei governi di Macron e Sanchez: così i due paesi europei stanno gestendo la sfida del cambiamento climatico. Ecco punti in comune e differenze. Barbara Pompili e Teresa Ribera. Mentre in Italia la sinistra non riesce a mandare neppure una donna al governo loro sono ai vertici dei rispettivi Paesi. La francese Pompili, ex socialista, è una macroniana della prima ora. La spagnola Ribera, socialista, è vicepremier del governo di Pedro Sanchez. Entrambe guidano il ministero della Transizione ecologica, appena istituito in Italia dal governo Draghi e affidato al fisico Roberto Cingolani. In queste due interviste incrociate raccontano cosa le unisce e cosa le divide: le sfide, le opportunità, le difficoltà, le contraddizioni. Una lezione anche per l’Italia, con cui Pompili e Ribera si dicono pronte e felici di collaborare. Ecologista da sempre, poi responsabile per la biodiversità nel ministero dell’Ecologia del governo socialista di Francois Hollande, Barbara Pompili, 45 anni, è stata una delle sostenitrici della prima ora di Emmanuel Macron. Dallo scorso luglio è a capo del controverso super ministero della Transizione ecologica, la questione centrale del Piano di rilancio europeo. «Il presidente Macron ha posto il ministero della Transizione ecologica in alto nella gerarchia di governo perché ritiene che la transizione sia la porta d’entrata per rilanciare e trasformare l’economia, traghettandola nel nuovo Millennio. È un ministero cerniera tra più settori che vanno dall’energia alla gestione dei rifiuti, dai trasporti alle cura del territorio, e mira a dare nuovo impulso alle misure ecosostenibili. Il perimetro scelto è vasto perché l’ambiente non è solo protezione di spazi naturali ma riguarda tutti i settori della vita. È ora che i ministeri smettano di lavorare ciascuno per conto suo e sviluppino politiche complessive».

Il piano di rilancio francese vale 100 miliardi di cui 30 saranno dedicati alla transizione ecologica: come intendete utilizzarli?

«Li abbiamo ripartiti in diversi capitoli. I più importanti sono il rinnovamento degli edifici pubblici e privati, a cui toccano sette miliardi, perché rappresenta un quarto delle emissioni complessive, la ristrutturazione dei trasporti ferroviari, con 4,7 miliardi, la mobilità quotidiana con 1,7 miliardi, gli aiuti per aiutare a decarbonizzare le imprese con 2,5 miliardi puntati sui prodotti Clima di BpiFrance, la banca pubblica di investimento, e 2,7 miliardi di sostegno ai settori dell’areonautica e dell’automobile».

Nel perseguire la transizione ecologica, a differenza di altri Paesi europei, la Francia è vincolata dalla dipendenza dal nucleare?

«Sul nucleare investiremo 400 milioni di euro in formazione e sicurezza. Come Francia abbiamo una politica energetica pluriannuale che mira a riequilibrare il nostro mix energetico, aumentando l’apporto delle energie rinnovabili, che però sono escluse dal piano di rilancio perché erano già stati destinati al settore sei miliardi di euro solo per quest’anno, oltre a vari sgravi fiscali».

Come si coniuga la rivoluzione tecnologica con quella ecosostenibile?

«Non mi schiero né tra quelli che pensano che la tecnologia salverà il mondo né tra chi non crede che possa aiutare la transizione ecologica. Il digitale comporta meno spostamenti, processi industriali ottimizzati e una migliore gestione dell’acqua nell’agricoltura. Ma anche un impatto ambientale rilevante, concentrato al 75 per cento sulla fabbricazione degli oggetti. Ad esempio per costruire uno smartphone di 100 grammi servono 70 chili di materiale. Il governo ha preso misure per ridurre quest’impronta, obbligando le aziende a vendere i pezzi di ricambio di uno smartphone. Sono a favore di un uso sobrio del digitale».

Il governo ha appena presentato la “legge clima e resilienza”, elaborata a partire dalle richieste della Convenzione cittadina per il clima voluta da Macron l’anno scorso che prevede dodici misure chiave, tra cui il divieto della vendita di veicoli molto inquinanti, il divieto di voli quando esiste un’alternativa in treno su tragitti inferiore alle due ore e mezza e quello d’affitto degli edifici in classe F e G. Ma è già polemica: il governo è accusato di avere tenuto conto di una minima parte delle raccomandazioni. Le misure non porteranno alla riduzione del 55 per cento delle emissioni nel 2030, come stabilito dalla Commissione europea.

«Bisogna smetterla di scoraggiare le persone! Se si spendono 30 miliardi di euro nella transizione ecologica e si fanno anche delle leggi per ridurre l’impronta di Co2 poi non si può vanificare il lavoro fatto dicendo che non serve a nulla. Non si può far perdere le speranze a chi ha perso il lavoro nella centrale a carbone perché chiudere una centrale è come ritirare un milione di veicoli dalle strade. Bisogna convincere tutti che la transizione è importante, farla insieme, anche con gli industriali, e non mettere gli uni contro gli altri. Ho fiducia che con le misure prese in tutti e cinque gli anni di governo riusciremo a rispettare gli impegni».

Lei è sotto attacco in Francia sia nel governo dove è considerata troppo timida nel pubblicizzare le azioni intraprese sia da parte delle opposizioni che la considerano una “palla al piede della transizione ecologica”, per dirla con la definizione di Greenpeace Francia.

«In un momento di estremo cambiamento, verso un ministero che riguarda questioni importanti è normale che si abbiano reazioni molto dure sia da parte di chi non vuole cambiare nulla sia di chi vuole andare sempre più lontano. Ma io non sono al soldo dei gruppi di pressione, agisco per i francesi e devo individuare percorsi che permettano di coinvolgere tutti. La missione che ho in carico è colossale, e si può fare in mille modi. Esistono priorità. Le mie sono la decarbonizzazione dell’economia, che permette di produrre meno gas serra e che vuol dire anche misure pesanti come la chiusura delle centrali a carbone che hanno un impatto forte sui lavoratori, e il cambiamento delle modalità di trasporto, che è compreso nel piano di rilancio francese. Transizione è poi anche resilienza, che si traduce in azioni quali l’abbandono della cementificazione, l’adeguamento degli edifici esistenti e l’adozione di un’economia circolare».

Come concilia le esigenze di chi non vuole perdere le posizioni economiche di vantaggio o semplicemente il posto di lavoro e quelle di chi mira a cambiare tutto per preservare l’ambiente?

«È molto importante riuscire a cambiare la mentalità di tutti perché solo cambiando stile di vita riusciremo ad attuare la transizione. Dobbiamo fare in modo che questa sia vista come un’opportunità. E le cose si stanno muovendo: ci sono misure come quelle a sostegno della ristrutturazione degli edifici che hanno enorme successo: in un anno sono state approvate 200mila ristrutturazioni; le auto elettriche sono sempre più veloci e più diffuse; oltre un milione di persone hanno chiesto il finanziamento per riparare la bicicletta, e poi siamo sommersi dalle richieste di aiuto finanziario da parte di aziende che vogliono decarbonizzare. La mentalità cambia e la cultura si evolve, non bisogna sempre dare retta al brusio mediatico. Basta guardare al Green deal: oggi è così ambizioso ma qualche anno fa sarebbe stato impossibile».

Una politica dei piccoli passi in avanti?

«Il messaggio che voglio far passare è che l’ecologia è positiva per l’economia. Le aziende che non colgono il cambiamento spariranno. Ne usciranno vincitrici quelle che si immaginano attori della transizione e creano nuovo impiego, nuove filiere. Si tratta di una transizione da un vecchio a un nuovo sistema e deve essere anticipata per evitare che in troppi si trovino in difficoltà. Alla fine è questa la missione del ministero: formare e anticipare. L’ecologia è buon senso e prevenzione. Poi, certo, ci sono alcuni territori che dipendono molto dall’industria e che necessitano di attenzioni particolari, e lì occorre lavorare regioni e Stato mano nella mano per convertire i lavoratori e permettere loro di utilizzare le proprie capacità nell’industria dell’avvenire. I territori locali sono critici: è qui che la transizione provoca difficoltà congiunturali ed è dove noi come Stato dobbiamo intervenire».

Qual è il messaggio che lancia al nuovo ministro italiano della Transizione ecologica, Cingolani?

«Dobbiamo cogliere le opportunità esistenti. E sono molto contenta di potere lavorare con il mio omologo italiano: avremo molto in comune quando nei primi sei mesi dell’anno prossimo la Francia presiederà l’Unione europea. Condividiamo i progetti sull’idrogeno, che diventerà sempre più importante, e sulle batterie, che già fanno oggetto del partenariato di Stellantis. Dobbiamo fare un’alleanza per sviluppare la mobilità, ma anche fare fronte comune sulla scena internazionale. L’Italia è a capo del G20 e co-presiederà la futura Convenzione sul clima a Glasgow con il Regno Unito, che sarà un momento fondamentale di incontro, soprattutto ora che gli Usa sono rientrati negli accordi di Parigi. Su questi accordi bisogna trovare una quadra comune e lavorare insieme».

Con la nomina di Teresa Ribera, 51 anni, nota attivista contro i cambiamenti climatici, alla testa del ministero della Transizione ecologica nel 2018, il premier Pedro Sanchez ha posto la Spagna alla guida della transizione ecologica europea.

«Il ministero è il risultato di un accordo trasversale, che riguarda l’energia, l’acqua, l’ambiente e il territorio, che lo rende paragonabile a un ministero dell’Economia, capace di intervenire nella modernizzazione dell’economia e sull’inclusione sociale. La trasformazione del sistema energetico è la trasformazione di un elemento cruciale dell’economia. E poiché va attuata tenendo conto di aspetti ambientali e sociali, il ministero deve avere i mezzi per orientare tutte le altre politiche che riguardano il suolo, le acque, l’aria, l’uso dei prodotti chimici in agricoltura e anche le infrastrutture, nonostante siano competenza di altri ministeri. Da qui la nomina a vicepresidente, che mi pone in una posizione di forza, di primus inter pares, e mi permette di avere un’ampia capacità strategica».

Quali sono gli obiettivi?

«Innanzitutto decarbonizzare l’economia e adattarla agli effetti del cambiamento climatico tramite la costruzione di un’infrastruttura verde e la modernizzazione dell’industria. Il nostro intervento avviene in tre fasi. Si parte con una discussione strategica con cui si definiscono gli obiettivi. Poi si passa al momento della discussione economica, dell’incidenza sociale, delle politiche industriali e del territorio, della responsabilità dei singoli settori. Da questa discussione nascono gli interventi di politica economica settore per settore. Ovviamente il tutto presuppone un budget. Abbiamo stabilito delle risorse in favore del clima e della politica della transizione energetica e stabilito che qualsiasi altro investimento non debba recare danno ai nostro obiettivi. Decarbonizzaione e resilienza devono essere l’elemento irrinunciabile di qualsiasi decisione».

Come intendete utilizzare le risorse del piano di rilancio spagnolo?

«Dei 27 milioni di euro del piano di Rilancio per il 2021, il ministero ne gestirà sette e poi ce ne saranno altri 6-7 per la mobilità sostenibile. Tutto il resto deve essere compatibile con l’ambiente. Abbiamo unito la componente verde e quella digitale. Ad esempio, nell’ambito della “renovation wave” (ndr: l’iniziativa della Commissione europea per ammodernare gli edifici) abbiamo lanciato un programma non solo per rendere edifici pubblici e privati efficienti da un punto di vista energetico ma anche compatibili con il lavoro a distanza, grazie alla digitalizzazione. È un elemento fondamentale per la coesione territoriale: la Spagna rurale che perde abitanti da anni deve essere recuperata con abitazioni di qualità e con la connessione digitale. Poi abbiamo elaborato un grosso piano per ristrutturare l’ecosistema, l’efficienza delle acque, le zone umide, il suolo contaminato e le zone costiere, dove l’urbanizzazione è stata eccessiva, e ora è problematica, ma dove la discussione è complessa perché legata al settore del turismo».

Come coniugare queste esigenze diverse senza creare conflitto?

«Occorre dialogo, e noi mediterranei già dialoghiamo molto. Ma ora dobbiamo farlo più che mai. Per abbracciarla, i cittadini si devono sentire protagonisti della transizione e il governo deve scendere assolutamente al livello locale. Le faccio un esempio: attorno e sulle centrali termiche si è vissuto per generazioni. Se le chiudiamo dobbiamo offrire delle alternative di prossimità, e non possono essere Roma o Madrid a decidere. Devono offrire le risorse ma spetta ai cittadini e alle imprese trovare le alternative. Non è facile perché spesso i giovani non riescono a immaginarsi un futuro diverso, influenzati da genitori che non vogliono cambiare».

Quanto influisce la resistenza al cambiamento sulle azioni del Ministero?

«Chi si oppone alla transizione ecologica è chi non ritiene che esista un’alternativa migliore. Ma non esiste una vera opposizione frontale. Al contrario, grandi e piccole imprese stanno dimostrando un grande interesse, e stanno nascendo anche aziende nuove, ad esempio, intorno all’idrogeno verde. Per il momento i problemi sono posti soprattutto dall’industria petrolifera. Invece quella dell’automobile, che fino a tre anni fa era sul piede di guerra, ora ha compiuto un cambiamento straordinario. Stanno lavorando a nuovi progetti per produrre veicoli elettrici per la classe media e per il trasporto pubblico».

E i cittadini?

«Esiste una componente trasversale, una non astensione ideologica sui valori fondamentali che produce una forte domanda di cambiamento. Manca invece la comprensione reale della complessità del da farsi. Perché non basta porsi degli obiettivi, occorrono delle regole diverse, una fiscalità diversa, la limitazione dell’uso delle risorse, meno produzione e meno consumo. La richiesta di cambiamento sta crescendo velocemente: all’inizio di questi due anni e mezzo ci ritenevamo molto ambiziosi e ora siamo accusati di essere codardi. Al contempo, la domanda di cambiamento convive con conflitti regolari sulle questioni territoriali e sociali».

Cosa vuol dire transizione giusta?

«La chiusura di una centrale deve far scattare meccanismi finanziari specifici. Un esempio: la chiusura di una centrale termica libera grandi volumi d’acqua. Tramite nuove leggi quest’acqua deve rimanere su quel territorio e non essere utilizzata altrove. In tandem con l’elettricità, deve essere messa a disposizione delle aziende che vi si trasferiranno e così si conserveranno i posti di lavoro del luogo. Poi bisogna aiutare i cittadini, soprattutto giovani e donne, ad adattare le proprie competenze a nuove realtà, con un costo che deve ricadere sia sulle aziende, sia sullo Stato».

La crisi della pandemia ha accelerato il processo?

«Per alcuni versi sì, per altri no. Con la pandemia e il Recovery plan sono finalmente arrivati i soldi per la promozione digitale a lungo pianificata ma per cui mancavano le risorse. Invece la crisi ha sottratto soldi al settore dell’auto e ha reso il trasporto pubblico “pericoloso” agli occhi dei cittadini, rallentando la trasformazione della mobilità».

Quali sono le sfide comuni di Spagna e Italia?

«In Italia e in Spagna dobbiamo affrontare le sfide dell’acciaio verde, della mobilità sostenibile nelle città d’arte e della ristrutturazione di un patrimonio urbano antico. La transizione ci offre poi l’opportunità storica di portare insieme a Bruxelles una nuova visione del Sud d’Europa: un Sud che grazie all’abbondanza di acqua, vento, sole, idrogeno verde, offre fonti di energia diverse, grazie a cui fare a meno degli idrocarburi russi. Prima non contavamo molto in Europa sul piano energetico ma adesso potremo giocare un ruolo importante. Ancora un esempio: da un mese il prezzo dell’elettricità in Spagna e Portogallo è ben al di sotto della media europea. Grazie al sole e al vento, l’Europa del Sud sta diventando competitiva e lo saremo ancora di più se non perderemo il treno dell’idrogeno verde che ci permetterà di immagazzinare l’energia rinnovabile. Sta cambiando il paradigma energetico europeo».

Come vede il ministro Cingolani, che proviene dal settore delle tecnologie e dell’innovazione?

«Apprezzo moltissimo il profilo del nuovo ministro italiano, esperto di innovazione, perché faciliterà il consenso degli investitori. La mentalità tecnologica è importante per il business, per l’energia, per l’industria. Deve però tenere conto di due dimensioni chiave, quella sociale e quella territoriale. Se all’interno di un’agenda di cambiamento manca la solidarietà del capitale, la gente non l’appoggerà, penserà che è un cambiamento importante solo per le aziende. L’innovazione deve poi aiutare a recuperare nell’ecosistema l’equilibrio che stavamo perdendo con un eccesso di tecnologia. Il fotovoltaico è in conflitto con un utilizzo agricolo del suolo e l’eolico con la bellezza del paesaggio. Non si deve disprezzare il conflitto, che è reale. Bisogna invece integrare la componente tecnologica con quella sociale e territoriale e prevedere le modalità di sostegno ai cittadini perché la transizione può essere costosa».

Energia eolica, il riscatto dei paesi baltici: Estonia, avanti tutta. Andrea Tarquini su La Repubblica il 25 febbraio 2021. Estonia, Lettonia e Lituania si sono modernizzate in corsa, seguendo strade diverse. Ma tutte devono fare ancora i conti con l'inquinamento di aria, acqua e ambiente. Un'eredita del colonialismo sovietico. Estonia, Lettonia e Lituania sono l'altro volto del "Vento del Nord", anche per quanto riguarda la politica di difesa dell'ambiente e del clima, il passaggio alle rinnovabili, la riduzione delle emissioni. Hanno un grande problema in comune: il pesantissimo retaggio dei decenni di annessione e occupazione sovietica, dalla fine degli anni Trenta alla morte dell'Impero. Non hanno alle spalle un intero prospero e libero dopoguerra postbellico, bensí hanno dovuto costruire ex novo democrazia, società aperta ed economia di mercato. Ma soprattutto, continuano a combattere con i pesantissimi danni all'ecosistema causati sui loro tre territori dalla politica di priorità all'industria pesante sovietica, e dalla tradizione di Mosca di produrre energia sporca o pericolosa (combustibili fossili spesso dei piú inquinanti, nucleare senza sicurezza e controlli) ignorare o considerare secondari i temi ecologici, a cominciare dalla lotta all'inquinamento di ogni genere. Dall'inquinamento delle acque, alle emissioni, alla deforestazione. Estonia, Lettonia e Lituania si sono modernizzate in corsa, con modi diversi, ma la lotta all'intossicazione di aria acqua e ambiente portata dal colonialismo sovietico continua a incidere molto anche come fonte di spesa dei tre bilanci sovrani, riducendo inevitabilmente i fondi a disposizione per le politiche ambientali e climatiche positive, che pure non mancano. La fortuna dei tre paesi è stata l'ingresso in Unione europea e Nato, e nell'Eurozona. Senza la partecipazione alla moneta unica e senza i fondi Ue, l'impegno per l'ambiente sarebbe ben più costoso e disporrebbe di ben meno risorse.In poche parole: la situazione dei tre è caratterizzata da grandi successi, forte volontà di essere al meglio nel mondo libero anche sull'ambiente, forti e lunghi ritardi imposti dall'ex occupante da recuperare in corsa. I paesi baltici comunque partecipano al piano comune con gli altri Stati che si affacciano sul Baltico, - comprese potenze quali Germania e Svezia - per arrivare tutti insieme a installare la capacità produttiva di 93,5 Gigawatt di energia eolica con campi eolici offshore entro il 2025. L'Estonia appare dei tre il paese forse piú avanzato. Anche per il suo alto potenziale nell´economia internettiana e nell´intelligenza artificiale, un know how molto utilizzato dal governo anche nella politica per ambiente e clima. Gli obiettivi principali sono quello già conseguito di consumare energie rinnovabili per il 25 per cento del consumo totale entro il 2025 e di raddoppiare la percentuale, al 50%, entro il 2050. Insieme a una riduzione dell'80% delle emissioni. Anche grazie ai trasporti pubblici gratuiti che riducono l'uso di auto private. Secondo punto importante è stato ed è il risanamento di acqua e foreste. Le acque ora non sono piú avvelenate come sotto il dominio di Mosca, e le foreste naturali coprono il 50% del territorio. Teleskivi, il quartiere hipster della capitale Tallinn, è sede di molti think thanks per la difesa di ambiente e clima in contatto col governo. La vicinanza e gli stretti rapporti economici con Finlandia e Svezia, e la lingua molto affine al finlandese, aiutano a lavorare meglio per l'ecologia. In Lettonia il governo ha lanciato un piano energetico nazionale 2021-2030, ma molti lo giudicano non ambizioso a sufficienza. Prevede l'aumento dell'uso delle rinnovabili sul totale del consumo energetico a tappe al 40% e poi al 50% e a lungo termine al 67%. Bene, dunque, ma non come gli estoni. Discorso simile ma anche migliore rispetto alla Lettonia per la Lituania, nonostante impegno e buona volontà del governo. L'obiettivo di Vilnius è arrivare all'uso di energie rinnovabili come 100% del consumo totale di energia nel 2050. Puntando soprattutto sull'eolico. Mancano però programmi duri contro l'effetto serra. In Lituania si vuole arrivare al consumo di energie rinnovabili al 100% del totale entro il 2050. Ma resta il serio problema sul fronte delle emissioni, in aumento calcolato del 6% di qui al 2030. 

Vento del Nord. I magnifici cinque che guidano la transizione energetica. Andrea Tarquini su La Repubblica il 23/2/2021. Assieme ai Paesi baltici, sono in prima linea per la carbon neutrality puntando su rinnovabili come fonte primaria di energia, trasporto elettrico, limitazione della pesca e conservazione della natura. Ma restano i nodi da sciogliere: emissioni di CO2, nucleare, trivellazioni petrolifere. Auto elettriche favorite come in nessun altro luogo del mondo, primati mondiali per le paole eoliche e uso crescente di fiumi sotterranei o biomassa come fonte di produzione, high tech d'eccellenza votata al futuro green in scommesse come lo sviluppo di tecnologia per creare biocarburanti e idrogeno propulsivo dalle fonti piú diverse, piani di taglio delle emissioni e di neutralità CO2 ai vertici mondiali, costi quel che costi, trasporti pubblici già oggi in maggioranza mossi da energia pulita. E soprattutto soldi a palate per salvare clima e ambiente, in consenso bipartisan, chiunque governi. E per inciso, nella maggioranza dei paesi i premier sono donne e le ministre sono in maggioranza. Eccoci nel Grande Nord all'alba del terzo decennio del secolo. Il Vento del Nord non è solo l'effetto Greta. La giovane, coraggiosa Thunberg dà l'esempio al mondo, ma a casa, al fondo, è l'espressione politicamente creativa piú nota nel mondo del Vento del nord, ma insieme appena la punta dell'iceberg di una scelta radicata in quelle società e in Estonia, Lettonia e Lituania, i tre paesi baltici affrancatisi trentun anni fa dall'inquinatissima Russia che stava crollando, e oggi sempre piú vicini nell'animo a Islanda, Norvegia, Svezia, Danimarca, Finlandia, i magnifici cinque della Comunità nordica. E' questione di sentimenti collettivi e condivisi, come quei valori di solidarietà sociale e vita sana basati sulle idee di contentarsi di quanto si ha e vivere pensando agli altri. Valori chiamati Hygge in danese, Logom in svedese, con altre parole nelle altre belle lingue dei green countries del Nuovo Vento. O altre parole, come Friluftsliv, vita all´aria aperta e nella natura per piú ore possibile, e orari lavorativi corti ma di lavoro produttivo e intenso. Cosí come i nordici amano e ritengono giusto pagare le massime aliquote fiscali del mondo, danno nell'animo dei loro paesi reali - anche nell'emergenza pandemia - top priority all'impegno accelerato, a marce forzate, per la difesa di clima e ambiente. Come, nelle loro saghe, i contadini che piantano alberi destinati a crescere alti e forti solo quando saranno adulti i loro figli e nipoti, e loro non ci saranno piú. Vediamo, paese per paese, obiettivi prioritari, successi, problemi e temi del dibattito.

ISLANDA. La piccola, vitale isola-democrazia artica, indipendente solo dal 1945 (era prima colonia danese) ha cominciato tardi a sviluppare una sensibilità verso clima e ambiente. Anche perché con appena 365 mila abitanti i tradizionali comparti economici portanti della sua economia sono la pesca, in mano a spregiudicati e ricchi armatori, e il turismo che prima della pandemia ogni anno faceva atterrare all'aeroporto di Keflavík in media oltre due milioni di turisti. Con tutto ciò che ne consegue per uso di inquinanti Suv e pullman nelle gite, spreco di plastica e quant'altro. Inoltre l'Islanda è storicamente contraria a quote e limiti nella caccia alle balene e nella pesca agli sgombri e alle aringhe, costi quel che costi per l'equilibrio climatico e ambientale. Eppure grazie a Geyser e vulcani, l'energia che consuma è pulita al 98%. E soprattutto, è cambiato il vento da quando, nel 2017, la 45enne leader dei Verdi di sinistra Katrín Jakobsdóttir, molto sensibile a clima e ambiente (e ovviamente con in mano un dottorato di letteratura criminale, nel paese che conta più scrittori per abitante al mondo) è divenuta primo ministro. La premier islandese fa sul serio, parla chiaro anche quando deve spiegare pericoli e realtà spiacevoli, si fa capire da tutti, come narrano di lei le sue amiche scrittrici quali Yrsa Sigurdárdóttir e Gerdur Kristny, quasi consigliere nell'ombra. Non solo ha lottato con successo contro il coronavirus. Ha imposto obiettivi ambiziosi, verso i traguardi dell'accordo di Parigi e oltre. Carbon neutrality entro il 2040, abolizione totale dei combustibili fossili per i mezzi pubblici nonostante l'Islanda non disponga di ferrovie, riforestazione in corsa perché da secoli l'isola subisce le conseguenze della deforestazione attuata prima dai Vichinghi per costruire i loro Drakkar, le navi-pirata, poi dai danesi. Non a caso l'Istituto internazionale per la difesa dell'Artico è stato recentemente trasferito da Potsdam (la Versailles dei prussiani alle porte di Berlino) ad Akureyri, città sulla costa nord islandese. E il governo appoggia costosi progetti per catturare con enormi ventilatori il CO2 nell'aria e immagazzinarlo sottoterra.

NORVEGIA. Il prospero regno dell'amato re Harald, della regina Sonia e del principe ereditario Haakon sposo alla commoner dal duro passato Mette-Marit è un paradosso. E' il piú importante PetroStato d'Europa, eppure è impegnato a fondo nella corsa alla carbon neutrality, all'addio ai combustibili fossili, e alla riconversione della moderna economia industriale ed esportatrice a fonti sostenibili e rinnovabili. Le lobby petrolifere consevano la loro forza: alla fine dell'anno scorso la Corte costituzionale, offrendo una sgradita sorpresa, ha respinto la causa degli ambientalisti confermando la legalità delle perforazioni petrolifere nelle lontane isole artiche. Ma tutto quel petrolio va all'esportazione, il paese ne consuma sempre di meno, e pur consumando sempre piú energia ne deriva piú dalle rinnovabili che dal greggio: eolico, fotovoltaico, biomassa, e avveniristici sistemi di dighe e turbine che derivano l´energia dai molti fiumi sotterranei, esportando energia pulita persino in Germania. Prima governavano i laburisti di Jens Stoltenberg, adesso da anni è primo ministro la leader conservatrice Erna Solberg, all'inizio era in coalizione coi populisti ora guida un governo di minoranza. Perché su valori chiave, compresi clima e ambiente, Erna Solberg ha detto no alla destra radicale. La sua ministra dell'energia, la giovanissima Tina Bru, è considerata la sua delfina, e chiamata "la futura Angela Merkel del Nord". Tina Bru, come la premier, ha accelerato la riconversione energetica, i petrolieri si consolano con perforazioni lontane ed export. A casa, l'obiettivo del piano di addio al fossile governativo ha uno slogan, "greenhouse society from here to 2030", entro il 2030. Fino ad allora la carbon tax sarà quadruplicata, già oggi la Norvegia è nota per il suo record mondiale per numero di auto elettriche immatricolate per abitante, superiore al numero delle auto a combustione interna. Sono vetture elettriche, in maggioranza Tesla del modello grande, tutte le auto blu della classe politica. Come a Stoccolma, solo taxi elettrici o ibridi hanno il permesso di svolgere servizio da e per gli aeroporti, per chi non sceglie il Flytoget, il treno ad alta velocità mosso da corrente pulita in servizio con pochi minuti di viaggio tra Gardermoen, lo scalo principale, e il centro città con molte fermate. Ferrovie, la metro di Oslo, i grandi traghetti dei fiordi, viaggiano con elettricità pulita o con biofuel, per produrre il quale il governo non lesina fondi. Può anche permettersi il lusso, va detto: il Fondo sovrano pensioni e sanità norvegese è il piú ricco del mondo, è la cassa di guerra della svolta green del regno. E il fondo sovrano ha voluto anche dare l'esempio, disinvestendo in massa dalle società petrolifere e dai titoli di ogni azienda che abbia a che fare con combustibili fossili o produzione di materiali inquinanti, anche la plastica.

SVEZIA. La potenza-guida del Grande Nord non affronta le contraddizioni o difficoltà della pur lodevole Norvegia, ma mostra il coraggio di rispondere a sfide diverse eppure non minori. Settima economia mondiale calcolando il prodotto interno lordo per abitante, il regno delle tre corone è altamente industrializzato, ricava oltre metà del suo Pil dall'export manufatturiero di eccellenza (in percentuale piú della Germania), quindi ha un inevitabile alto consumo di energia. Secondo ma non ultimo, deve consumare energia e porre a rischio l'ambiente anche nell'estrazione delle materie prime di cui dispone in abbondanza, a cominciare dalla gigantesca miniera di minerali di ferro di Kiruna, la piú grande a cielo aperto in Europa se non nel mondo. Eppure da molti anni Stoccolma è ai vertici mondiali nella qualità e serietà della sua politica climatica e ambientale, come dice l'Environment performance index, una delle piú autorevoli fonti mondiali in materia. Da Volvo a Spotify. Serve molta energia per produrre ed esportare ovunque auto premium come le Volvo, autotreni e motori marini Volvo, aerei militari e civili dell'ultima generazione Saab. Serve molta energia anche per la produzione di carta e altri derivati del legno, per la distribuzione dei prodotti che troviamo ormai solo online sul catalogo Ikea o per garantire senza risparmi produttivi o energetici la lotta all'altra emergenza, il pericolo Russia per la sicurezza nazionale. In risposta alle quotidiane minacce, provocazioni militari e violazioni aeronavali delle armate di Putin, la Svezia ha aumentato le sue spese militari del 40%, con leva reintrodotta per donne e uomini. E soprattutto produce quasi tutte le armi a casa: dai supercaccia Saab JAS 39 Gripen in continua evoluzione, alla versione migliorata in loco del tank Leopard 2 tedesco, ritenuta il miglior prodotto del mondo nel campo dei corazzati, fino ai nuovi sottomarini invisibili, a radar e apparati per sorveglianza e cyberwar contro i troll dell'Impero. In minor misura, consumano energia anche colossi globali svedesi quali Skype e Spotify, o il noto marchio Hasselblad cui si devono da decenni le migliori fotocamere professionali del mondo. Rinnovabili al 100% entro il 2040. Non è facile, ma anche con governi deboli (l'incolore premier socialdemocratico Stefan Lofvén guida una coalizione di sinistra di minoranza) la scelta green è irreversibile anche a Stoccolma. Il paese vuole quadruplicare la produzione di energia eolica e aumentare del 100% quella di energia rinnovabile in generale entro il 2040. Già oggi le rinnovabili forniscono oltre il 50% del fabbisogno, il loro ruolo è destinato ad aumentare in corsa con l'addio dolce al nucleare, che con otto moderni e sicuri reattori aveva avuto la parte del leone dagli anni Sessanta all'epoca dello shock mondiale di Cernobyl. L'obiettivo della Svezia iperindustriale è la carbon neutrality entro il 2050. Investono nell'eolico e nel fotovoltaico non solo lo Stato col suo solido bilancio sovrano, bensí anche i giganti dell'economia, compreso Ikea. Un campo in cui il regno è molto avanti è lo sviluppo di carburanti puliti per ogni propulsore. Le future versioni dei Gripen che ogni giorno difendono i cieli dalle visite non richieste dei bombardieri atomici di Putin (i Gripen nelle cui squadriglie il 40% dei piloti sono donne) saranno capaci di sfrecciare a Mach 2 anche con carburanti vegetali. Ferrovie, l'alta velocità aeroporto-capitale e trasporti pubblici urbani, come la bellissima Tunnelbana (la metro di Stoccolma) marciano con energia pulita, la maggioranza degli autobus sono ibridi elettrici o a biofuel. Si lavora insieme ai norvegesi per aerei civili elettrici o a propulsione pulita. Infine ma non ultimo, in una democrazia dove la casa reale è non potere ma simbolo, la principessa ereditaria Victoria e il suo consorte borghese sono in prima linea per clima e ambiente.

DANIMARCA. Copenaghen è da molto tempo la capitale mondiale delle bici, ma l'obiettivo dell'attuale governo della giovane premier socialdemocratica Mette Frederiksen è puntare a convincere i cittadini e le famiglie a usare le bici piú delle automobili. Per produzione di pale eoliche e produzione e consumo di energia eolica la Danimarca è ai vertici mondiali, e costruisce enormi isole artificiali per coordinare la produzione di centinaia di campi eolici offshore. Estesissimi sono anche l'uso della biomassa (come dell'eolico) per produrre energia per l'industria ma anche per il riscaldamento. Un pacchetto di leggi che sembra una versione democratica e libera dei piani quinquennali del socialismo reale impegna le aziende - colossi global players come Lego o Maersk, eccellenze come Bang&Olufsen – a investire e programmare insieme al governo ogni passo possibile per raggiungere il grande obiettivo: l'addio completo a ogni carburante fossile entro il 2050. Il business verde va a vento. Il mondo economico sta al gioco e guadagna. Il numero uno mondiale della produzione di pale eoliche è danese: Vestas wind system, con impianti di produzione non solo nel piccolo regno bensí ovunque: Germania, Italia, UK, Spagna, Svezia, Norvegia, India, Cina, Stati Uniti. La svolta ecologica danese viene da lontano e punta lontano: dal 1980 a oggi il prodotto interno lordo danese è cresciuto del 70%, il consumo di energia è rimasto invariato. "Green business is the most profitable business", è lo slogan tradotto in pratica. E adesso il piano nazionale danese per il passaggio integrale alla produzione di energia green e la difesa dell'ambiente coinvolge anche il ministero della Difesa. Come se non bastassero i costi imposti al regno dalla necessità di non apparire impreparati alle continue minacce e provocazioni russe nella regione, la Difesa danese ha stanziato l'equivalente di centinaia di milioni di euro per dotarsi di una flotta di droni che dovrà sorvegliare in tempo reale la situazione nell'Artico che si scioglie, con focus sulla Groenlandia e sulle isole Faroer. I corpi speciali delle forze armate danesi inoltre pattuglieranno sistematicamente i territori artici con battaglioni dotati di motoslitte e slitte trainate da cani.

FINLANDIA. Con 5 milioni e mezzo di abitanti, una crescita economica (dati pre-pandemia) solida ma meno robusta di quelle di Svezia, Norvegia e Danimarca e maggiori problemi sociali rispetto agli altri paesi nordici, la Finlandia è pur tuttavia tra i paesi all'avanguardia nella svolta green. Cominciò a elaborare la sua strategia negli anni Settanta sull'onda lunga della prima crisi petrolifera. Ora tale strategia è tradotta e definita in un piano governativo a lungo termine, reso ancor piú severo dal nuovo governo a guida femminile della 34enne premier socialdemocratica Sanna Marin e con le cinque leader dei partiti della coalizione (socialdemocratici centristi verdi partito della minoranza svedese e sinistra eco-radicale) al comando negli altrettanti ministeri-chiave. Helsinki guarda al nucelare. La Finlandia punta alla carbon neutrality entro il 2035, e a ridurre le emissioni di almeno l'87,5% nel 2050 rispetto ai livelli del 1990. Attualmente il 40% del fabbisogno energetico è fornito dalle energie rinnovabili: eolico, biomassa, fotovoltaico. L´avanzato livello delle eccellenze high tech dell´economia finlandese (elettronica, internet, telecomunicazioni, intelligenza artificiale) aiuta l´applicazione del piano. Per tagliare ulteriormente l'uso di combustibili fossili e la dipendenza da gas e petrolio russo, Helsinki utilizza ancora il nucleare, pur non senza dubbi e riserve perché la pur modernissima centrale atomica di Olkiluoto (costruita con l'ultima tecnologia francese di atomo civile) ha lamentato alcuni problemi, sebbene mai pericolosi. Più biocarburanti ed elettrico, meno auto private. Il piano finlandese per la svolta green si basa anche su altri quattro pilastri. Il primo è la sempre piú diffusa utilizzazione di biocarburanti per i motori a combustione interna, sia per le auto private sia per i veicoli da trasporto e i mezzi pubblici. Il secondo è l'aumento dell'uso di energia pulita per tutti i trasporti pubblici. Il terzo è l'obiettivo dichiarato ma non ancora quantificato con cifre precise di ridurre al massimo possibile il numero di auto private circolanti, oltre a favorire quelle elettriche o ibride rispetto alle convenzionali. Il quarto è l'intenzione dichiarata di porre, se possibile dal 2030, un tetto al consumo nazionale totale di energia: non dovrà oltrepassare i 290 Terawatt orari. Infine ma non ultimo, Helsinki si impegna per la difesa del suo patrimonio naturale (foreste e laghi) e dell'habitat della ricca fauna finlandese, specie le renne minacciate come anche in Svezia e Norvegia dal riscaldamento del clima e dalla riduzione delle superfici a disposizione per pascolo e transumanza. Il consumo alimentare di carne di renna e di orso è tuttavia legale, poiché le due specie non sono ritenute a rischio di estinzione sul territorio finnico.

Finalmente la politica parla di transizione ecologica: perché l’Italia è già (troppo) in ritardo. Il passaggio a un’economia più sostenibile è il primo punto del nuovo governo, e il 37 per cento dei fondi del Recovery Plan servono a questo. Ma il nostro Paese al ritmo attuale mancherà gli obiettivi europei. Stefano Liberti su La Repubblica l'11 febbraio 2021. La strada l’ha indicata chiaramente il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nominando un inviato speciale per il clima, nell’autorevolissima persona dell’ex segretario di stato John Kerry, ha fatto seguire alle parole della campagna elettorale i fatti. Nel “climate plan” da 1.700 miliardi di dollari che dovrà essere supervisionato proprio da Kerry, si prevede tra le altre cose il raggiungimento della totale neutralità climatica per il 2050 e il superamento dell’utilizzo di combustibili fossili nel settore elettrico già nel 2035. Che detto dagli Stati Uniti, primo produttore al mondo di petrolio, non è poco. Anche l’Unione europea nel suo Green New Deal ha indicato l’orizzonte del 2050 per raggiungere la neutralità climatica, prevedendo per il 2030 una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. La transizione ecologica e il contrasto alla crisi climatica sono tra le priorità dei governi in diversi paesi europei. In Germania, la cancelliera Angela Merkel - soprannominata “klimakanzlerin” per la sua attenzione al tema - ha lanciato un programma di de-carbonizzazione estremamente ambizioso. In Francia e in Spagna è stato istituito un ministero per la transizione ecologica. In Italia siamo ancora parecchio indietro: la questione ha difficoltà a trovare spazio nel dibattito pubblico. Compare nelle agende delle principali forze politiche in modo episodico, sempre in posizione ancillare rispetto a quelli che sono considerati temi più stringenti. Per questo la proposta del fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo di istituire anche da noi un super-ministero simile a quelli francese e spagnolo, che governi le politiche ambientali ed energetiche, ha avuto il merito di mettere la questione al centro delle discussioni alla vigilia della nascita del nuovo governo presieduto da Mario Draghi. Quanto il tema della transizione ecologica dominerà l’azione del prossimo esecutivo? Quanto si sceglierà di utilizzare i fondi del Next Generation-Eu per disegnare effettivamente un nuovo modello di sviluppo, basato su de-carbonizzazione, economia circolare, mobilità sostenibile e cura dell’ambiente? I fondi europei - 209 miliardi di euro, di cui il 37 per cento vincolati a “progetti green” - rappresentano da questo punto di vista un’opportunità unica per recuperare il terreno perduto. Se nell’ultima bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da presentare a Bruxelles una parte cospicua di risorse (67,5 miliardi di euro) è destinata alla transizione verde, come prevedono i vincoli europei, nel documento sembra mancare una visione sistemica, che dia un reale indirizzo alle politiche da realizzare. Manca, come fa notare il Forum disuguaglianze e diversità che fa a capo all’ex ministro Fabrizio Barca, un’indicazione di obiettivi da raggiungere e una misurazione degli impatti. «Nella sua bozza attuale, il Piano non usa il linguaggio dei risultati attesi, l’unico che interessa non solo l’Unione europea ma anche le persone comuni, impegnate a ricostruire le proprie vite nei tempi difficili che ci troviamo a vivere», sottolinea Barca. I tempi che viviamo - con la duplice crisi pandemica e climatica in pieno svolgimento, quella sociale ed economica alle porte - imporrebbero scelte radicali. La transizione ecologica dovrebbe tradursi in un ripensamento delle modalità di produzione dell’energia, della mobilità, del sistema agricolo e industriale, del modo in cui sono organizzate le nostre città. Richiederebbe un approccio olistico, visionario e ambizioso, che sappia guardare al mondo del futuro. «Purtroppo per ora la politica non ha colto la profondità della sfida che abbiamo di fronte. Il Next Generation-Eu è stato interpretato come una grande legge di bilancio pagata dall’Europa e non per quello che in realtà è: un piano volto a promuovere un cambiamento strutturale delle società secondo linee guida ben precise», rincara Edo Ronchi, ex ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. «Il pilastro principale di queste linee guida è proprio la transizione ecologica, a cui nella bozza del piano italiano sono destinate risorse tutto sommato limitate e in buona parte per progetti pre-esistenti», continua Ronchi. A ben guardare, esclusi i progetti già in essere, alla cosiddetta rivoluzione verde sono dedicati 6 miliardi l’anno. «Una cifra», sottolinea ancora l’ex ministro, «del tutto insufficiente per raggiungere l’ambizioso target di riduzione delle emissioni indicato dalla Commissione europea». Uno degli ambiti cruciali per la futura de-carbonizzazione è quello energetico, ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili. All’attuale ritmo di crescita delle fonti rinnovabili difficilmente raggiungeremo i nuovi obiettivi fissati dall’Ue. «L’anno scorso i Paesi Bassi hanno installato impianti fotovoltaici per una potenza di 2.9 Gigawatt, circa quattro volte di più di quanto si è fatto in Italia. Il fatto che un paese infinitamente più piccolo e meno soleggiato del nostro ci sorpassi in modo così vistoso è un segno inequivocabile del nostro ritardo», analizza Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola. «C’è un problema di farraginosità nel sistema nei permessi. Se per avere l’autorizzazione per un piccolo parco eolico devi attendere cinque anni, hai già sforato gli orizzonti temporali fissati dal Next Generation-Eu». Oltretutto, la tanto decantata rivoluzione energetica viene sistematicamente contraddetta dal mantenimento di politiche anacronistiche, come i sussidi ai combustibili fossili - che, secondo quanto calcolato in un recente rapporto di Legambiente, ammontano complessivamente a 35,7 miliardi di euro tra sussidi diretti e indiretti. Una cifra astronomica, che pregiudica investimenti in altri settori e difende rendite di posizione di aziende inquinanti. Anche sulla mobilità sostenibile c’è molta strada da fare. Dopo il piccolo Lussemburgo, l’Italia è seconda in Europa per densità di auto private. Secondo uno studio Eurostat, nel nostro paese circolano quasi 40 milioni di autoveicoli, per la precisione 646 ogni 1000 abitanti (compresi i bambini). Per ridurre questo numero esorbitante, si dovrebbe puntare su mobilità dolce, sharing e trasporto pubblico. Invece, nell’ultima legge di bilancio si è scelto di sussidiare nuovamente con fondi statali (circa 700 milioni di euro per l’anno in corso) l’acquisto di nuove autovetture. Se da una parte favorisce lo svecchiamento del parco auto con veicoli meno inquinanti, la misura esacerba quello che rimane il principale problema della nostre città: la congestione. «Per la mobilità urbana sostenibile sono stati previsti 760 milioni di euro l’anno, che dovrebbero servire per un numero elevato di misure (le piste ciclabili, il rinnovo della flotta autobus, le tranvie, i treni e i trasporti navali regionali) con quasi nulla sul tema cruciale della sharing mobility», analizza ancora Ronchi. La scarsa sensibilità ecologica della classe politica si rispecchia insomma in una serie di misure contraddittorie e, per quanto riguarda il Pnrr, in un elenco di progetti poco articolati che in larga parte non sembrano frutto di una visione d’insieme ma quasi una forzatura imposta dall’Europa. «Per un vero cambiamento, bisognerebbe far passare il messaggio che l’ambiente non è una materia di nicchia, ma una questione strategica per la buona società e pure per l’economia», sostiene Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Una convinzione che in realtà innerva già da tempo una parte non marginale del mondo produttivo. Se la politica ci sente poco da questo orecchio, sono molte le imprese in sintonia con l’aria del tempo. Nel settore agricolo, l’Italia ha raggiunto ragguardevoli traguardi nella diminuzione nell’uso di pesticidi e nell’abbattimento delle emissioni. Nel settore industriale, tanti sono gli esempi di aziende grandi e piccole che hanno fatto della sostenibilità una bandiera. «Negli ultimi 5 anni, 432mila imprese hanno investito in prodotti e tecnologie green. L’Italia è una super-potenza dell’economia circolare: è il paese europeo con la più alta percentuale di riciclo di rifiuti. È una propensione che fa parte del nostro Dna di paese tradizionalmente manifatturiero ma privo di materie prime», sottolinea ancora Realacci. «Questi record andrebbero messi a sistema, valorizzati e incentivati». Saprà la politica cogliere l’occasione? Riuscirà il governo Draghi a guidare il paese attraverso l’attuale contesto di crisi e promuovere una transizione ecologica seria, in linea con gli obiettivi europei e con le tendenze globali? L’Italia ha fino al 30 aprile per presentare a Bruxelles il nuovo Pnrr. A novembre si terrà a Glasgow la Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, di cui il nostro paese è co-organizzatore. Il tempo stringe e il momento delle scelte radicali sembra non più rinviabile.

Paolo Baroni per “la Stampa” il 12 febbraio 2021. L' idea non è nuova: già nel 2018 il portavoce dell' Alleanza per lo sviluppo sostenibile, l' ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, in un saggio pubblicato da Laterza intitolato «L' Utopia Sostenibile», proponeva di creare un ministero per la Transizione ecologica. E non a caso oggi Giovannini è dato in pole position per guidare questo nuovo dicastero, il classico coniglio tirato fuori dal cilindro da Draghi giusto in tempo per tenere bene agganciati i 5 Stelle e che a tutti gli effetti rappresenta la vera novità del nuovo governo che si sta formando. Non solo questa operazione segna un netto salto di qualità delle politiche di governo ma metterà a disposizione del nuovo ministro una potenza di fuoco notevole, sia in termini di competenze che di risorse. Ai 68-70 miliardi stanziati col Recovery plan, posto che Bruxelles raccomanda di investire non meno del 37% delle risorse nelle politiche green, vanno infatti aggiunti altri 19 miliardi di sussidi «ambientalmente dannosi» che ora si conta di cancellare e reimpiegare meglio.

Il modello francese. Nel suo saggio, oggi quanto mai attuale, Giovannini proponeva di «ripensare la distribuzione delle competenze dei diversi ministeri alla luce del "modello" dello sviluppo sostenibile» richiamando esplicitamente la scelta fatta dalla Francia, dove «il ministero dell' Ambiente è stato trasformato in ministero della Transizione Ecologica e Inclusiva, con competenze anche nei campi dell' energia, della prevenzione dei rischi, della tecnologia e della sicurezza tecnologica, dei trasporti e della navigazione, della gestione delle risorse rare». Un altro modello a cui ispirarsi è quello spagnolo, dove il «vecchio» ministero dell' Ambiente è diventato ministero della Transizione ecologica e della Sfida demografica, con competenze che vanno dalla lotta al cambiamento climatico alla prevenzione delle contaminazioni, dalla protezione del patrimonio naturale allo spopolamento dei territori.

Gli accorpamenti. Nel nostro caso si tratterebbe di accorpare al ministero dell' Ambiente le competenze nel campo dell' energia che oggi fanno riferimento al ministero dello Sviluppo, e volendo aggiungervi le competenze sui trasporti in capo al Mit e le politiche forestali che oggi sono sotto il Mipaf. Ma non si esclude nemmeno la possibilità di fondere Ambiente e Sviluppo e creare per davvero un nuovo superministero. La formula finale, come tutte le altre alchimie di governo, ce l' ha in testa però solo Draghi e per ora se la tiene ben stretta. Di certo non si parte da zero perché già oggi all' Ambiente c' è un Dipartimento per la transizione ecologica, mentre da inizio anno il Comitato per la programmazione economica si è evoluto nel nuovo Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile, col preciso scopo di assicurare un migliore orientamento degli investimenti pubblici agli obiettivi dell' Agenda 2030. Il primo obiettivo del nuovo dicastero sarà allineare il nostro Recovery plan al Green new deal europeo che di qui al 2030 punta a ridurre del 55% le emissioni di gas serra con programmi che spazieranno dall' agricoltura sostenibile all' economia circolare, dalle energie rinnovabili a idrogeno e mobilità sostenibile, dall' efficienza energetica degli edifici alla tutela di territorio e risorse idriche. «Un ministero della transizione ecologica alla francese - ha spiegato la vicepresidente della Commissione Ambiente della Camera Rossella Muroni - aiuterà a coniugare il rispetto dell' ambiente con lo sviluppo sostenibile, a tenere insieme programmazione, investimenti pubblici, politiche di sviluppo, lavoro di qualità e tutela degli ecosistemi ed ad affrontare con una visione complessiva e competenze trasversali tutte le questioni ambientali aperte, a cominciare dalla crisi climatica». In pratica la «rivoluzione verde» interesserà tutti i settori produttivi, la manifattura, la meccanica e l' acciaio. «Per noi - sostiene la responsabile ambiente del Pd Chiara Braga - l' emblema è il rilancio dell' ex Ilva di Taranto dove accanto al rilancio della produzione e del lavoro è necessario gestire le ricadute ambientali e sulla salute dei cittadini».

Applausi e critiche. Dopo l' annuncio arrivato mercoledì al termine dell' incontro del premier incaricato con Wwf, Legambiente e Italia nostra, tutto il mondo ambientalista ha festeggiato. Qualcuno ha però avanzato anche dubbi sull' efficacia dell' operazione, come il presidente dei costruttori dell' Ance Gabriele Buia «molto preoccupato» per la creazione di un superministero. «È un sforzo titanico - ha spiegato - e conoscendo i tempi con cui si muovono i nostri ministeri avrei paura ad unificare così tante competenze. Immaginatevi la bolgia».

Diodato Pirone per "Il Messaggero" l'11 febbraio 2021. Un feticcio. O un drappo rosso. Supercazzola o cosa seria? Un'idea valida per alcuni, molto meno per altri, spuntata sul palcoscenico politico con l'obiettivo evidente di spingere una parte del popolo dei 5Stelle a inghiottire il rospo Draghi. Comunque sia, il progetto di istituire un ministero della Transizione Ecologica ieri è montato come la panna. Legittimato persino dal meno ecologico dei partiti, la Lega di Salvini («Potremmo essere d'accordo anche se non basta emulare la Spagna», ha dichiarato Paolo Arrigoni, responsabile Energia del Carroccio) nonostante al momento nessuno sia in grado di stabilire cosa sia e soprattutto cosa farà questo nuovo ministero. Nelle ultime 24 ore sono persino spuntati due possibili ministri per il nuovo dicastero. C'è chi ha fatto girare il nome di Walter Ganapini, fra i fondatori di Legambiente, con una enorme esperienza nella gestione delle aziende di raccolta rifiuti (è stato anche presidente dell'Ama nel 1997). A sera è spuntato anche il nome di Catia Bastioli, amministratrice delegata di Novamont, inventrice della cosiddetta chimica verde. La Bastioli è notissima per la fabbricazione dei sacchetti di plastica riciclabile (tecnicamente fatti con un materiale vegetale che si chiama Mater-Bi) che dal 2018 sono obbligatori per la frutta sfusa venduta nei supermercati. I sacchetti riciclabili Novamont, un vanto del made in Italy, sono esportati in tutto il mondo. La Bastioli finì nel tritacarne della polemica politica perché fu nominata da Matteo Renzi alla presidenza di Terna, la società che trasporta l'energia elettrica, ma alcuni mesi dopo fu molto elogiata da Beppe Grillo dopo una visita alla Novamont. Ma quale dovrebbe essere il profilo di questo ministero della Transizione Ecologica? Le scuole di pensiero sono due. I 5Stelle caldeggiano - sia pure a grandi linee - l'idea di accorpare ministero dello Sviluppo, ministero dell'Ambiente e quella parte del ministero delle Infrastrutture che si occupa di Trasporti. I detrattori di questa ipotesi sottolineano che si tratterebbe di far nascere un moloch della spesa pubblica che, oltre a concentrare una quantità di fondi pubblici perlomeno anomala, sommerebbe competenze che con l'ambiente ci azzeccano poco come ad esempio la gestione dei regolamenti del commercio o del profilo giuridico dei trasporti. Per i poco esperti di profili burocratici va detto che già oggi il ministero dello Sviluppo gestisce molti progetti ecologici come quegli degli incentivi per chi riduce i consumi energetici delle abitazioni oppure quello della produzione di idrogeno verde. La seconda ipotesi sulla quale il professor Draghi starebbe lavorando è invece un allargamento delle competenze del ministero dello Sviluppo che avrebbe una missione ecologica mentre il ministero dell'Ambiente manterrebbe l'attuale missione forse con un nuovo nome. A far pendere il bilancino delle probabilità verso questa soluzione c'è il fatto che già nel 2019 il governo Conte presentò un progetto in Parlamento, poi abbandonato per decisione della stessa maggioranza, per trasformare il ministero dell'Ambiente in ministero della Transizione ecologica. Del progetto resta traccia nella struttura del dicastero che prevede tre l'altro un Dipartimento per la transizione ecologica e gli investimenti verdi (DiTEI) articolato nei seguenti quattro uffici di livello dirigenziale: Direzione generale per l'economia circolare (ECi); Direzione generale per il clima, l'energia e l'aria (CLEA); Direzione generale per la crescita sostenibile e la qualità dello sviluppo (CreSS); Direzione generale per il risanamento ambientale (RiA). Sul sito del ministero la missione del Dipartimento è descritta così: «Il Dipartimento esercita le competenze in materia di: politiche per la transizione ecologica e l'economia circolare e la gestione integrata del ciclo dei rifiuti; strategie nazionali di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; mobilità sostenibile; azioni internazionali per il contrasto dei cambiamenti climatici, efficienza energetica, energie rinnovabili, qualità dell'aria, politiche di sviluppo sostenibile a livello nazionale e internazionale, qualità ambientale». Decisamente un super-ministero. O no?

Il dipartimento fantasma (per i 5 Stelle). Ministero della Transizione ecologica, l’ultima trovata di Beppe Grillo che in realtà già c’era (guidata da un altro Grillo). Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Era la richiesta principale del Movimento 5 Stelle, la creazione di un “superministero” della transizione ecologica “come lo hanno in Francia, Spagna, Svizzera, Costarica e altri paesi”, aveva strillato sul suo blog il fondatore e garante Beppe Grillo. E Mario Draghi, l’ex numero della Banca centrale europea incaricato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella di formare un governo di “alto profilo”, è intenzionato a seguire il “consiglio” grillino, come anticipato dalle associazioni ambientaliste ricevute ieri dal presidente incaricato per le consultazioni, con la presidente del WWF Donatella Bianchi che ha anticipato l’intenzione di Draghi di creare nel futuro esecutivo “il ministero della Transizione ecologica”. Una notizia che il Movimento 5 Stelle si è subito intestato come una vittoria e utilizzato in chiave strumentale per dare il via al voto sulla piattaforma Rousseau in merito alla fiducia all’esecutivo dell’ex numero uno dell’Eurotower di Francoforte. Peccato però che questo ministero della Transizione ecologica in Italia ci sia già. Esiste infatti in forma di dipartimento e fa parte del ministero per l’Ambiente guidato da Sergio Costa, ex Generale di brigata dei Carabinieri Forestali entrato in politica proprio con il Movimento 5 Stelle. Il colmo? A guidarlo come dipartimento è un altro Grillo, Mariano. Il dipartimento guidato dal quasi omonimo Grillo si occupa, come si legge dal sito del dipartimento, di “investimenti verdi” e “cura le competenze del Ministero in materia di economia circolare, contrasto ai cambiamenti climatici, efficientemente energetico, miglioramento della qualità dell’aria e sviluppo sostenibile, cooperazione internazionale ambientale, valutazione e autorizzazione ambientale e di risanamento ambientale”. Al di là delle facili ironie sui due Grillo, per ora l’unica certezza sul tema del futuro ministero della Transizione ecologica è l’incertezza: attualmente non solo Draghi non ha confermato la creazione del ministero, ma non è chiaro neanche come potrebbe essere strutturato. Le ipotesi vedono la possibilità di unire i ministeri di Ambiente e Sviluppo Economico, oppure potenziare radicalmente il ministero guidato attualmente da Sergio Costa per fare fronte ai tanti miliardi a disposizione col Next Generation EU. Proprio il piano sul Recovery presentato dal governo Conte prevede di stanziare 67,5 miliardi di euro per l’economia verde e la transizione ecologica, ma è stato pesantemente criticato in questa parte delle stesse associazioni ambientaliste.

Da video.corriere.it il 12 febbraio 2021.  “C’è per tutti quanti noi un elemento di grande consolazione. Abbiamo appreso da Beppe Grillo che si realizzerà il Ministero della transizione ecologica, nulla di meno. Ministero della transizione ecologica. Dunque dovremmo aspettarci questa grande novità in Italia avremo il Ministero alle Galassie che credo sarà affidato a una persona di alto profilo - Giordano Bruno, credo, che sta aspettando a Campo dei fiori da qualche tempo di essere convocato.” Così il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca in un video in diretta su Facebook.

La Transizione ecologica esiste già. È al Ministero e la guida proprio un Grillo. Il Tempo il 10 febbraio 2021. Beppe Grillo vuole creare un Ministero nuovo di zecca da dedicare alla Transizione ecologica. Lo ha detto personalmente al premier incaricato Mario Draghi durante le consultazioni. Un ministero che dovrà essere al centro della svolta ambientalista del Movimento 5 Stelle, uno dei capisaldi su cui Grillo vorrebbe basare l'appoggio al nuovo esecutivo. Ciò che probabilmente Grillo non sa è che il suo nuovo cavallo di battaglia non è affatto una novità. La Transizione ecologica esiste già, ed è un dipartimento del Ministero dell'Ambiente. E chi guida questo dipartimento della Transizione ecologica? Il dirigente, guarda che coincidenza, si chiama proprio Grillo, nome di battesimo Mariano. Il dottore Mariano Grillo si occupa, come si legge dal sito del dipartimento, di "investimenti verdi" e "cura le competenze del Ministero in materia di economia circolare, contrasto ai cambiamenti climatici, efficientemente energetico, miglioramento della qualità dell’aria e sviluppo sostenibile, cooperazione internazionale ambientale, valutazione e autorizzazione ambientale e di risanamento ambientale". Inoltre,  " il Dipartimento esercita (...) le competenze in materia di: politiche per la transizione ecologica e l’economia circolare e la gestione integrata del ciclo dei rifiuti; strategie nazionali di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; mobilità sostenibile; azioni internazionali per il contrasto dei cambiamenti climatici, efficienza energetica, energie rinnovabili, qualità dell’aria, politiche di sviluppo sostenibile a livello nazionale e internazionale, qualità ambientale, valutazione ambientale, rischio rilevante e autorizzazioni ambientali; individuazione e gestione dei siti inquinati; bonifica dei Siti di interesse nazionale e azioni relative alla bonifica dall’amianto, alle terre dei fuochi e ai siti orfani; prevenzione e contrasto del danno ambientale e relativo contenzioso; studi, ricerche, analisi comparate, dati statistici, fiscalità ambientale, proposte per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi". Bastava che Grillo avesse alzato il telefono e avesse chiamato il ministro dell'Ambiente Sergio Costa, il quale tra l'altro è stato scelto proprio dal M5s.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2021. Parlano come se il famigerato e inventato Ministero della «transizione ecologica» dovessero darlo a uno di loro, a un grillino, parlano come se questo ministero dovesse avere una rilevanza rispetto alla missione che Mario Draghi è chiamato a compiere, ma soprattutto parlano come se il ministero parente stretto, quello dell'ambiente, non l'avessero gestito loro sino a ieri: coi meravigliosi risultati a tutti noti. Certo che no, non possiamo ascrivere al macchiettistico ministro Sergio Costa tutti i macro-disastri nazionali che per il grillismo hanno rappresentato un fallimento perfetto rispetto alle velleità sbandierate in campagna elettorale: però - prima ancora di chiedersi verso che cosa si possa ecologicamente transigere, se dicono sempre di no a tutto - qualche catastrofe va menzionata, così, velocemente. I grillini dovevano bloccare ogni trivellazione petrolifera nell'Adriatico e nel 2016 avevano sostenuto il referendum sulle trivelle, costato 300 milioni: poi, dopo non averne bloccata nessuna, il governo ha autorizzato altre tre trivellazioni nel mar Ionio: che in effetti non è l'Adriatico. Tre decreti di fine dicembre 2018 hanno accordato a una compagnia americana trivellazioni per 2.200 km quadrati tra Puglia, Basilicata e Calabria: tutte zone dove i grillini avevano preso consensi facendo gli ecologisti integerrimi, tanto che in tutta la Puglia «No-Triv» presero quasi il 43 per cento. A proposito di Puglia: il famoso Tap, il Gasdotto Trans-Adriatico che attraverserà Grecia e Albania per approdare nella provincia di Lecce, «con il governo a 5 stelle, in due settimane non si farà più» dissero Di Maio e Di Battista. Beh, si farà. A Lecce i grillini avevano conquistato il 67 per cento, poi, dopo il via all'opera, nell'ottobre 2018, un gruppo di militanti bruciò le bandiere del Movimento. Del Tav, per pietà umana, non diremo nulla. Diciamo qualcosina del famoso «Terzo Valico» a cui, secondo i grillini, andava preferito «un potenziamento della linea ferroviaria esistente», disse Di Maio: si farà anche quello, perché «l'analisi costi-benefici ha previsto che il totale dei costi del recesso ammonterebbe a 1 miliardo e 200 milioni di euro, di conseguenza non può che andare avanti». Si farà. E «Taranto senza Ilva, pienamente bonificata»? Con relativa «chiusura delle fonti inquinanti, senza le quali le bonifiche sarebbero inutili»? l'Ilva c'è ancora ed è più forte di prima, mezza statalizzata e bonificata solo dalle inchieste giudiziarie. Ma queste sono sciocchezze da poche decine di miliardi di euro. Veniamo alla «transizione ecologica» in senso stretto (?) e alla famosa economia circolare, la raccolta differenziata, le energie alternative, la direzione verso cui dovremmo transigere (nota: nell'accezione usata, il sostantivo transizione in realtà non accetta coniugazioni) e insomma vediamo che cazzo hanno fatto, oltre al niente. Risposta a sorpresa: niente. Inceneritori, termoutilizzatori o termovalorizzatori, rigassificatori: niente, non li volevano e non li vogliono. L'entourage eco-giustizialista, capitanato da Sergio Costa, ha escluso ogni lontana ipotesi di termovalorizzatore anche quando c'è stato il dramma della monnezza a Roma (di Napoli non parliamo più) e sono rimasti fedeli al film del «rifiuto zero» che in concreto significa immobilismo; lo dimostrano anche i dati sulla raccolta differenziata per cui l'Europa seguita a sanzionarci. La media italiana è 58 per cento, con estremi in Veneto (74 per cento), Campania (52) e Sicilia (29). Forse si potrebbe aggiungere che poi, la sera, si corre a guardare qualche gomorresco serial tv in cui la malavita organizzata ingrassa proprio per la mancanza di impianti: dello stoccaggio abusivo si occupano loro. Ma dicevamo la transizione. Verso dove, verso che cosa? «No agli inceneritori, incentivi alle rinnovabili» è sempre rimasto il motto. Nell'attesa, il ministro Costa ha cercato di aumentare il costo dei prodotti petroliferi per rendere il gasolio più caro della benzina, ciò che avrebbe aumentato anche il costo del petrolio agricolo. Senza contare - notizia Ansa - che la produzione mondiale di litio, fondamentale per produrre le batterie per auto elettriche, rischia di far aumentare la produzione di anidride carbonica (CO2) di almeno 6 volte, tra estrazione, produzione, trasporto e fabbricazione: ciò che triplicherebbe entro il 2025 le emissioni di CO2. Quanto alle energie rinnovabili, che per ora sono poca cosa, si registra un prevedibile fenomeno: le centrali energetiche alternative sono tutte (tutte) contestate indipendentemente dal loro potenziale di inquinamento, anche le più pulite. Non importa se sono centrali a biomasse o impianti eolici o fotovoltaici: è la vicinanza fisica a far scattare la protesta. I comuni attigui a una centrale progettata - ha notato l'osservatorio Nimby - si oppongono il 50 per cento delle volte, mentre i comuni confinanti nel 90 per cento dei casi. Ma forse sono comuni di destra.

Il ministero buffo...Il ministero della transizione ecologica esiste già, l’ultimo sketch del comico Grillo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Il più bel castello – marcondiro-ndirondella- è lo sfolgorante Nuovo Ministero Immaginario che ora tutti giurano di riuscire a vedere lassù, sulla collina. In realtà, la miracolosa visione consiste soltanto un’accorpata di vecchie baracche, legate dal miracoloso collante della “narrazione” che, come la vernice di Pier Lambicchi, lega e nasconde quel che si vuole: lavoro, energia, strade, treni, mulattiere, meccanica quantistica e politiche agricole inevitabilmente verdi come l’insalata, trasporti per trasbordi, visioni ambientali anche di ambienti malfamati ma ecosostenibili, cioè fuffa. La trattativa sull’oggetto misterioso funziona come il test delle macchie d’inchiostro di Rorschach le quali, in sé, non significano nulla, ma in cui ciascuno può – se crede – vedere quel che vuole e poi lo racconta allo psichiatra – o al drago – che ne prende diligente nota e riassume: «Lei desidererebbe dunque una transumanza ecologica con connotazione energetica verde ma sostenibile, così da promuovere sviluppo industriale e posti di lavoro nel più scrupoloso rispetto dell’ambiente?». «Sìì», risponde l’interlocutore dalla vasta capigliatura a macchia mediterranea: «Come ha fatto a saperlo?». «Psicologia, anzi sintonia. Vada pure e consideri la cosa fatta». La buona novella fiabesca viene subito diffusa: esisterà il Ministero di tutti i Ministeri ed esso stesso sarà sia mistero che ministero, laddove lo spazio-tempo di Einstein si incontrerà con i nativi Inps ed Empas dei sotterranei e sarà festa grande. È evidente che si tratta di uno sketch per vendere ciò che già esiste, comunque la si chiami, ma è utile per l’acchiappo di un’ottantina dei miliardi europei. Però, il maquillage teatrale permette di soddisfare le esigenze di scena di Beppe Grillo il quale sa anche di poter contare sulla comprensione dello stesso circo mediatico-televisivo che ha sempre tifato per il governo più bello del mondo, lo stesso che è stato appena fatto cadere con un calcio nel sedere ben concordato e teleguidato da Renzi; e solo a partire da quel momento dichiarato nefasto, da sostituire di corsa con l’arrivo di un demiurgo che è anche un chirurgo. E poiché tutti sanno che la narrazione del mistero dei ministeri accorpati in una trasudazione ecologica dei luoghi comuni è soltanto una chiacchiera con cui i grillini possono convocare quarantamila insetti sulla tastiera, ecco che il circolo mediatico-televisivo evolve in un movimento decorativo e dadaista che drappeggia questa scemenza teatrale con bofonchiamenti pensierosi ma positivi. Però, ancora non basta, perché occorre un altro elemento di supporto: il dirottamento su un obiettivo finto, ovvero l’astuta ma inattaccabile conversione a U di Matteo Salvini che ha aderito al governo senza se e senza ma, alla maniera dei gesuiti “perinde ac cadaver”: passivo come un cadavere, seguendo la prescrizione del Quirinale. Più che una mossa da cavallo, è stata quella dell’alfiere: dritto come una diagonale. A questo punto lo schieramento che aveva in precedenza steso tappeti rossi al governo Conte e poi si era istantaneamente dichiarato mario-draghista, ha avuto un cenno d’infarto: come sarebbe a dire che Salvini ci sta? Bisogna assolutamente opporsi a questo indegno stato delle cose perché, va bene il “bene del Paese”, ma qui si rischia di perdere la faccia davanti a un elettorato pronto a spacchettarsi. È stato così che alla questione irreale del ministero immaginario è stata garantita realtà, mentre la scelta di Salvini è stata declassificata al rango di realtà non accettabile, ovvero di provocazione. I lettori sanno quanto poco ci piaccia Salvini e la sua paccottiglia dei pieni poteri, madonne crocefissi e tequila, ma la doppia manipolazione cui abbiamo assistito ci fa trasalire perché ha finora castigato il principio di realtà e premiato il comedian, il cantastorie proprio quando ci avevano fatto sognare il ritorno alla competente concretezza, il che è più preoccupante che frustrante, ma abbiamo pazienza e aspettiamo, non perinde ac cadaver, ma a orecchie dritte e occhi spalancati.

Non sarà un inutile Ministero della Transizione ecologica a salvare l’ambiente. Carmine Gazzanni su Notizie.it l'11/02/2021. Il M5s vincola il sì a Draghi alla nascita del super-Ministero, ma un Dipartimento per la Transizione ecologica esiste già e in tre anni di governo il Movimento non ha saputo mantenere nessuna promessa in ambito ambientale. La domanda è d’obbligo: che cos’è e cosa sarà il ministero per la Transizione ecologica, così fortemente voluto da Beppe Grillo? E soprattutto: era così necessario? Il dubbio, infatti, è che il Movimento cinque stelle abbia posto una condizione tanto di facciata e poco impattante nel concreto soltanto per mettere sul governo di Mario Draghi la propria bandierina più in alto delle bandierine degli altri partiti. Il dubbio nasce per varie ragioni. Innanzitutto pare strano che la questione ambientale – di cui, seppure sia uno dei temi cardine dell’anima M5S, non si è mai parlato fino a due settimane fa – proprio ora diventi così esiziale, al punto da oscurare un tema centrale nell’agone politico come quello della giustizia. Detta in altri termini: un ministero per la Transizione ecologica val bene una prescrizione? Già, perché uno dei primi scogli della nuova maggioranza sarà in Parlamento con la conversione in legge del decreto Milleproroghe, provvedimento al cui interno c’è lo stop alla prescrizione voluto dal Guardasigilli uscente Alfonso Bonafede. Già sono stati presentati da varie forze politiche emendamenti per cancellare la norma vessillo del Movimento. Cosa succederà allora? Difficile pensare che Forza Italia e Italia Viva (e lo stesso Pd) possano confermare (e dunque prolungare) lo stop alla prescrizione. Molto più facile supporre che la norma salterà. E a quel punto cosa farà il Movimento? A sentire le voci che si rincorrono tra i pentastellati “critici”, più di qualcuno è convinto che si metterà una toppa. E questa toppa risponde per l’appunto al nome di “Transizione ecologica”. Ecco perché l’insistenza sull’ecologia in questo frangente sembra tanto una sorta di “velo di Maya” finalizzato a coprire i potenziali nervi scoperti dell’esecutivo del tutti dentro. E non possono sfuggire altri curiosi dettagli. Pochi sanno che all’interno del ministero dell’Ambiente già c’è un dipartimento specifico, il “Dipartimento per la Transizione ecologica e gli investimenti verdi”. Sarà forse che il capo dipartimento si chiama Grillo (ma Mariano, non Beppe), ma ciò non giustifica che un dipartimento interno a un Ministero ora assurga a ruolo di dicastero sintetizzando peraltro due Ministeri centrali come Ambiente e Sviluppo economico. Ultimo appunto, ma forse il più importante. Se proprio i pentastellati avessero voluto rendere l’ambiente centrale nell’azione di governo avrebbero potuto farlo già nei due e più anni in cui sono stati al governo. E invece abbiamo assistito nell’ordine: all’ok alla Tap in Puglia, alla mancata riconversione ambientale nell’area dell’Ilva a Taranto, all’ok definitivo alla Tav Torino-Lione. Tutte opere che, piaccia o non piaccia, sorridono semmai agli interessi economici, industriali e infrastrutturali ma che non tengono per nulla in conto (o poco) l’aspetto ambientale. Non è un caso che in campagna elettorale i candidati del Movimento – e in primis Luigi Di Maio – avevano chiaramente detto che non ci sarebbe stata alcuna Tap ma politiche di tutela degli uliveti pugliesi; che lo stabilimento siderurgico di Taranto sarebbe stato completamente riconvertito; e infine che l’alta velocità non avrebbe mai avuto il parere favorevole dei 5 Stelle. Alla fine, nonostante dettagliati report di analisi costi-benefici di cui tanto abbiamo sentito parlare, nessuna promessa è stata mantenuta. Ma c’è di più. A scorrere per bene i dati dell’Ufficio per il Programma di Governo (che fa capo direttamente a Palazzo Chigi), si scopre che tanti altri piccoli (ma importanti) provvedimenti “ambientali” sono stati annunciati, messi su carta, approvati e poi bloccati. Tutta colpa dei cosiddetti “decreti attuativi” che rappresentano una sorta di secondo tempo legislativo: molto spesso dopo che una norma viene approvata occorre che il ministero di riferimento (in questo caso quello dell’Ambiente) intervenga per rendere quel provvedimento operativo. E invece? Invece niente. Doveva a esempio nascere un Comitato per la finanza ecosostenibile e non è mai nato; dovevano essere predisposte nuove modalità per gli studi di impatto ambientale e non è mai avvenuto; mai partito il progetto delle autostrade ciclabili né quello per la rete urbana delle ciclabili, due idee lodevoli per cui peraltro erano stati stanziati decine di milioni di euro. Annunciato e mai partito anche il “Programma strategico nazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici e il miglioramento della qualità dell’aria”. La “transizione ecologica”, insomma, poteva avvenire senza annunci eclatanti nel corso di questi due anni. E invece, ancora una volta, abbiamo l’annuncio eclatante col dubbio che poi i fatti restino a zero. Purtroppo, non basta un nome o un titolo per fare una politica.

Dagospia il 12 febbraio 2021. Ferdinando Cotugno: Piccoli smottamenti ideologici: qui Di Maio con i gilet gialli nel 2019, la cui protesta era nata avendo come bersaglio le nuove tasse sul carburante, proposte dal Ministero per la transizione ecologica, lo stesso che oggi è la bandiera politica del Movimento 5 Stelle.

Marco Antonellis per Dagospia il 10 dicembre 2018. Beppe Grillo pare proprio essersi innamorato dei gilet gialli: "Sono come noi" ha tuonato dalle pagine del Fatto Quotidiano. "I Gilet gialli hanno venti punti di programma, non parlano solo di tasse, vogliono il reddito di cittadinanza, pensioni più alte...tutti temi che abbiamo lanciato noi", dice il fondatore del Movimento 5 Stelle. Ma l'innamoramento non è destinato a fermarsi qui. Perché tra i pentastellati più vicini al leader c'è chi confida che "ci si possa alleare con i Gilet gialli a livello europeo dato che hanno espresso l'intenzione di trasformarsi in Movimento politico". Capito i 5Stelle dove vogliono andare a parare? Perché i sondaggisti d'oltralpe danno gli anti Macron addirittura in doppia cifra se si candidassero alle prossime elezioni europee. Insomma, ne verrebbe fuori un bottino notevole che messo assieme a quello dei pentastellati nostrani potrebbe diventare "ago della bilancia" nel prossimo europarlamento per decidere, di volta in volta, se stare con i sovranisti alla Salvini o con i partiti tradizionali. "Cambiare l'Europa, che è quello che ci proponiamo di fare, con i Gilet gialli sarebbe molto più facile" spiegano dal Movimento che nel frattempo ha già iniziato la stesura del programma elettorale in vista delle elezioni di fine Maggio: tra i punti qualificanti dovrebbe esserci l'abolizione del Fiscal Compact (bye bye Mario Monti), l'esclusione dal limite del 3% per gli investimenti in innovazione così come -si sta ragionando- la modifica dello Statuto della Bce con buona pace di Angela Merkel e per la gioia di Donald Trump: si vorrebbe una Bce sul modello dell'americana Fed, la banca centrale degli Stati Uniti d'America. Intanto, i 5Stelle si stanno già attrezzando anche sotto il profilo delle candidature in vista delle elezioni per il parlamento di Strasburgo: tra i probabili candidati, in molti danno per sicuro il sindaco di Livorno Nogarin che già ne avrebbe parlato con il numero uno del Movimento, Luigi Di Maio.

Alberto Clò per rivistaenergia.it, fondata con Romano Prodi, il 26 novembre 2018. Le violente proteste dei "gilet gialli" francesi contro l’aumento dei prezzi dei carburanti deciso dal governo di Edouard Philippe dicono molto sullo scarto nella popolazione francese (ma non solo) tra il dichiararsi contro i cambiamenti climatici ed accettarne le misure per combatterli. Le proteste sono scaturite nei territori agricoli ma a dire dei sondaggi godono del sostegno del 74% della popolazione. Eppure, il gasolio aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt. Prezzi comunque inferiori, e di non poco, a quelli medi italiani: 1,63 €/lt per la benzina e 1,55 €/lt per il gasolio (dati al 15 novembre, Staffetta Quotidiana). Dichiararsi contro i cambiamenti climatici è una cosa, accettarne le misure per combatterli un’altra. A fine agosto il Ministro francese per la "Transizione ecologica e solidale" si dimise perché non aveva più intenzione di ‘mentire a sé stesso’, non essendo riuscito ad adottare misure significative, a partire dal rinvio della riduzione del nucleare nella generazione elettrica. Fu sostituito da Francois de Rugy, Presidente del Parlamento francese e a lungo membro del partito "Europe ècologie – Les Verts", moderato ma comunque desideroso di agire. Da qui, la decisione del governo, col sostegno del Presidente Emmanuel Macron, di aumentare la carbon tax, denominata, "Contribution Climat Energie" (CCE), nella complessiva ‘Taxe interieure de consommation sur le produit energetique’ (TICPE). La tassa sul carbonio fu introdotta nel 2014 – Presidente Francois Hollande, Ministro dell’ambiente Segolene Royal – e da allora è aumentata di oltre 6 volte, da 7 a 44,6 €/tonn CO2, con la previsione di portarla a 55 € nel 2019 sino a 100 nel 2030. Attualmente la TICPE è pari a 0,94 euro/litro (di cui fa parte la CCE per il 63%) su un prezzo finale medio intorno a 1,50 €/lt Prezzo grosso modo simile tra benzina e gasolio, per la decisione del governo francese di ridurre gli sgravi fiscali a favore delle auto diesel, motivato dai loro presunti danni ambientali e dal prossimo avvento dell’auto elettrica. Motivazioni entrambe inconsistenti. Il gasolio in Francia aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt, portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt: prezzi comunque di non poco inferiori a quelli medi italiani. Cosa insegna la protesta dei gilets jaunes? Più cose. 

Primo: “la transizione energetica come ogni altra rivoluzione, perché di questo si tratta – scrivevo oltre un anno fa nel mio ‘Energia e Clima’ (pag. 32) – attraverserà in modo diseguale le varie componenti economico-sociali interne ad ogni paese […]. Si avranno vincitori e vinti nella distribuzione dei costi e dei benefici – tra imprese, industrie, lavoratori, consumatori, contribuenti – con tensioni politiche e sociali”. Come va accadendo e sempre più accadrà.

Secondo: la benzina o il gasolio sono un bene essenziale per una larga parte della popolazione, specie quella pendolare che ogni giorni deve andare a lavorare o studiare. In Italia ammonta a 29 milioni di persone. La maggior parte usa l’automobile. Questo accade anche in Francia, nonostante la maggior efficienza del suo sistema ferroviario. Da qui la rabbia dei ‘rurali contro i parigini con il metrò sotto casa’. I cittadini/consumatori non fanno poi solo il pieno, ma usano l’elettricità o il metano, i cui prezzi in Italia stanno diventando sempre più insopportabili per milioni di famiglie. L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta.

Terzo: l’accettabilità sociale della transizione energetica diminuisce con l’intensificarsi delle misure per realizzarla. Non solo prezzi, ma anche restrizioni, proibizioni, sanzioni. Sarà allora interessante vedere, ad esempio, come reagiranno i 2,2 milioni di parigini al Piano ambientale approvato lo scorso anno dal loro sindaco Anne Hidalgo dal suggestivo nome ‘Paris change d’ère. Vers la neutralité carbone en 2050’ che mira a ridurre le emissioni clima-alteranti del 50% al 2030 e dell’80% al 2050 in larga parte con una miriade di misure coercitive.

Ne riportiamo le principali:

limitare l’aumento degli abitanti nel 2030 a non più di 160.000 (come?);

dimezzare le 600 mila vetture in circolazione (chi e come deciderà?), che dovranno avere dal 2030 almeno 1,8 (sic!) occupanti (idem);

aumentare in ogni modo i "costi di utilizzazione delle autovetture";

eliminare i parcheggi;

incoraggiare l’andare a piedi o in bici;

puntare a un’“alimentazione meno carnosa” col divieto di distribuire la carne due giorni la settimana;

“orientare più massicciamente le scelte dei parigini verso regimi alimentari plus durables” (?);

bloccare la circolazione nei week-end organizzando grandi feste popolari per le strade.

Il tutto, mirando a “conquistare i cuori e gli spiriti” dei parigini e a “nutrirne l’immaginario […] mutualizzando gli acquisti o sincronizzando le decisioni”. Non so quanti dei circa 34 milioni di turisti che visitano annualmente Parigi o gli stessi parigini gradiranno queste restrizioni dei gradi di libertà individuale. Rivoluzionare dall’alto economie e modi di vivere richiederebbe rigidi sistemi di pianificazione scarsamente accettabili dalle società moderne. L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta. I gilets jaunes anche questo insegnano.

·        La Mobilità Green.

L’Auto Elettrica.

Auto elettrica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'auto elettrica è un'automobile con motore elettrico, che utilizza come fonte di energia primaria l'energia chimica immagazzinata in una o più batterie ricaricabili e resa disponibile da queste al motore sotto forma di energia elettrica. I veicoli elettrici hanno complessivamente una maggiore efficienza energetica rispetto ai motori a combustione interna; come peculiarità svantaggiosa si hanno una limitata autonomia fra le ricariche, un elevato tempo impiegato per la ricarica e la scarsa durata delle batterie, anche se con l'avanzare della ricerca su nuovi tipi di batterie ricaricabili e nuove tecnologie ne hanno incrementato l'autonomia e la vita utile, riducendone contemporaneamente il tempo di ricarica. Comparsi i primi prototipi dimostrativi nella prima metà dell'Ottocento, tra i quali si ricorda la carrozza elettrica realizzata da Robert Anderson tra il 1832 e il 1839, il primo prototipo evoluto di autovettura elettrica fu costruito dal britannico Thomas Parker nel 1884, utilizzando delle batterie speciali ad alta capacità da lui progettate, sebbene la Flocken Elektrowagen del 1888, del tedesco Andreas Flocken, sia comunemente indicata come la prima autovettura elettrica mai realizzata. La propulsione elettrica era tra i metodi preferiti di locomozione per gli autoveicoli tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo, in quanto fornivano un livello di comfort e di affidabilità che non poteva essere raggiunto attraverso le macchine a combustione del tempo. I veicoli elettrici a batteria (BEV), prodotti dalle ditte Anthony Electric, Baker Electric, Detroit Electric e altre, nel corso dei primi anni del XX secolo e per un certo tempo, si vendettero di più rispetto ai veicoli a combustione. A causa però dei limiti tecnologici delle batterie, e della mancanza di una qualsiasi tecnologia di controllo della carica e della trazione (a transistor o a valvola termoionica), la velocità massima di questi primi veicoli elettrici era limitata a circa 32 km/h. Successivamente, i progressi tecnologici nel settore automobilistico portarono l'affidabilità, le prestazioni e il comfort dei veicoli a benzina a un livello tale per cui il conseguente successo commerciale relegò i veicoli elettrici in pochissimi settori di nicchia. Il parco di autoveicoli elettrici alla fine del XX secolo raggiunse il picco di 30 000 unità su scala mondiale. A partire dalla fine degli anni novanta del XX secolo, la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie per le batterie fu pilotato dalla impetuosa crescita della domanda di computer portatili e di telefoni cellulari, con la richiesta da parte dei consumatori di schermi più larghi e più luminosi e di batterie di durata più lunga. Il mercato dei veicoli elettrici ha beneficiato grandemente dei progressi ottenuti, in particolare dalla ricerca sulle batterie basate sul litio.

Batterie. Raffronto delle autonomie (in miglia) dei principali modelli in commercio a luglio 2017.

Durata e autonomia. Le autovetture elettriche hanno un'autonomia che varia di molto. Le case costruttrici dichiarano, per i modelli equipaggiati con batterie al litio, delle autonomie tipicamente dell'ordine dai 200 ai 400 km, mentre per alcuni degli ultimi modelli in commercio, si dichiara fino a 600 km. L'autonomia di un'auto elettrica viene aumentata utilizzando un sistema di ricarica automatica nelle fasi di rallentamento, discesa e frenata, come il sistema KERS, che recupera all''incirca il 15% dell'energia impiegata in un medio percorso. Allo stesso modo, la durata o utilizzabilità di una batteria dipende anche dalle condizioni ambientali: a temperature molto alte o estremamente basse le batterie perdono autonomia, soprattutto in quest'ultimo caso:

Temperatura ambientale

Riscaldamento o climatizzatore

Autonomia rispetto alla guida a 24 °C (75 °F)

–6,6 °C (20 °F)

Nessuno –12%

Riscaldamento –40%

35 °C (95 °F)

Nessuno –4%

Climatizzazione –17%

Le singole batterie sono di solito raggruppate in grandi gruppi a varia tensione e capacità per ottenere l'energia richiesta. La durata delle batterie dovrebbe essere considerata quando si calcola il costo di investimento, dato che le batterie si consumano e devono essere sostituite. Il decadimento delle batterie dipende da numerosi fattori, anche se si stanno progettando batterie che durano di più dello stesso veicolo.

Tecnologie. Prototipo di accumulatore litio-polimero ideato nel 2005 dalla Lockheed-Martin per la NASA, con una capacità erogabile di 50 W·h/kg. I prototipi più avanzati (al 2017) forniscono 265 W·h/kg con la possibilità di migliaia di cicli di ricarica.

Le batterie ricaricabili utilizzate nei più diffusi veicoli elettrici si basano sul litio (le litio-ione, le Li-ion polimero, le litio-ferro-fosfato). In passato si utilizzavano l'accumulatore piombo-acido ("inondate" e VRLA), il NiCd e il tipo a NiMH.

Tra le batterie più promettenti in via di sviluppo vi sono le batterie al litio-titanio (titanato di litio e litio-diossido di titanio) ed eventualmente nuove varianti della pila zinco-aria (che però non possono essere ricaricate in situ).

Dal 2011, la Toyota è al lavoro per mettere a punto una nuova generazione di accumulatori agli ioni di litio ricaricabili in 7 minuti.

Ricercatori della Nanyang Technological University di Singapore stanno studiando una batteria gel di diossido di titanio; nel 2014 hanno presentato un prototipo che si carica fino al 70% in due minuti.

Nel 2017, la startup israeliana StoreDot ha presentato un prototipo funzionante di batteria che permette la ricarica completa in 5 minuti, per un'autonoma di circa 480 km, in una berlina elettrica di grandi dimensioni. L'unica criticità presentata dal prototipo è che per ottenere 100 km di autonomia necessita di una stazione di ricarica in grado di fornire una potenza di almeno 200 kW.

Le batterie sono tipicamente il componente più costoso dei BEV. Sebbene il costo di fabbricazione della batteria sia elevato, l'aumento della loro produzione porta a un sensibile abbassamento dei costi nel momento in cui la produzione dei BEV raggiungerà valori che si avvicinano al numero dei veicoli a combustione interna commercializzati al giorno d'oggi.

Ricarica.

Le batterie delle vetture elettriche devono essere ricaricate periodicamente (vedi anche Sostituzione delle batterie, più sotto). Le auto elettriche solitamente vengono caricate dalla rete elettrica. In questo caso l'energia è generata da una varietà di risorse come il carbone, l'energia idroelettrica, l'olio combustibile, il gas naturale, altre fonti rinnovabili o, infine, nei paesi in cui è previsto l'uso, l'energia nucleare. La maggior parte delle auto elettriche (es. Nissan Leaf, Tesla Model S, Renault Zoe, BMW i3) possono essere ricaricate all'80% della loro capacità in 30 minuti con ricarica in corrente continua. Le Tesla Model S e Tesla Model X possono essere caricate con l'ultima stazione DC a ricarica rapida da 135 kW commercializzata dalla Tesla, fornendo, in circa 30 minuti, fino a 67,5 kWh, sufficienti per percorrere mediamente 290 km. La velocità di ricarica domestica è vincolata dai contratti di fornitura di energia elettrica dell'impianto (tipicamente dai 3 ai 6 kW nei paesi con tensione a 240 volt, in Italia di 3 kW). Inoltre, anche disponendo di potenze elevate, alcuni sistemi di ricarica domestica sono progettati per operare a potenze limitate. Ad esempio, un sistema di ricarica Nissan Leaf, essendo autolimitato a una potenza di ingresso di 3,3 kW, impiegherà quasi 8 ore anziché 4, per caricare una batteria da 24 kWh, anche se collegato a un impianto di maggior potenza. Generalmente non è comunque indispensabile una ricarica veloce perché, durante la giornata, si dispone di sufficiente tempo per la ricarica durante l'orario di lavoro oppure nel parcheggio della propria abitazione. Oggi gli standard di ricarica in uso nel mondo delle auto elettriche sono tre. In corrente alternata si utilizza prevalentemente la presa di Tipo 2 mentre in corrente continua il mercato si divide tra CCS Combo 2 e CHAdeMO. Le principali stazioni di ricarica rapida (AC/DC) disponibili in Italia e in Europa supportano i tre principali standard mentre le colonnine di carica in corrente alternata supportano la ricarica con connettore Tipo 2.

Alimentazione da colonnine di ricarica.

L'alimentazione di corrente dalla "colonnina" all'auto può avvenire in due modi:

Per via "conduttiva": in pratica una presa di corrente più o meno normale che, attraverso un trasformatore e un raddrizzatore, fornisce alla batteria l'energia necessaria alla ricarica.

Per via "induttiva": l'avvolgimento primario (adeguatamente protetto) viene inserito in una fessura del veicolo, dove si accoppia con l'avvolgimento secondario. Con una connessione di questo tipo si elimina il rischio di folgorazione dal momento che non vi sono parti accessibili sotto tensione.

Se questo sistema funziona a impulsi ad alta frequenza può trasmettere enormi quantità di energia in pochi istanti (esistono sistemi simili in applicazioni di macchine industriali).

Un sistema che nasconda gli elettrodi può rendere il sistema conduttivo sicuro quasi come quello induttivo. Il sistema conduttivo tende a essere meno costoso e anche molto più efficiente per la presenza di una minore quantità di componenti.

Sostituzione delle batterie.

Un'alternativa alla ricarica e ai suoi lunghi tempi è quella di sostituire rapidamente le batterie di accumulatori scarichi con altre già cariche. Queste batterie modulari dalla dimensione standard, spesso con un peso tra i 20 e i 40 kg e alloggiate in un doppio fondo sotto l'abitacolo, tra le ruote, oppure sotto il bagagliaio, possono scorrere ed essere rapidamente sostituite dal personale della stazione di servizio oppure da sistemi robotizzati, impiegando poche decine di secondi. Tuttavia, il costo totale di tale operazione si rivela molto elevato rispetto alla più semplice ricarica. A seconda del tipo di batterie ricevute, si procederà a ricaricarle in modi diversi. La pila zinco-aria, che non può essere ricaricata in modo semplice, deve essere portata in un centro industriale e "rigenerata" con un procedimento elettro-chimico. Nel 2011, l'azienda Better Place lanciò sul mercato il primo sistema moderno di sostituzione delle batterie per i veicoli elettrici per privati, ma entrò in crisi finanziaria e fallì nel maggio 2013. La Tesla Model S è progettata per permettere lo scambio di batterie. Nel giugno 2013, la Tesla ha annunciato che sta sviluppando delle stazioni di "supercarica" per permettere la sostituzione delle batterie in 90 secondi, ovvero la metà del tempo comunemente impiegato per rifornire di benzina un'auto tradizionale.

Aspetti economici e ambientali.

Efficienza energetica.

Efficienza dei motori elettrici.

I motori elettrici hanno complessivamente una maggiore efficienza energetica rispetto a quasi tutti i motori a combustione interna. A causa soprattutto dei limiti imposti al rendimento dal teorema di Carnot, il motore a benzina (ciclo Otto) e il motore a gasolio (ciclo Diesel) hanno un'efficienza energetica variabile tra il 25% e 45% (diesel con maggiore rendimento e rendimento crescente al crescere del motore). Un motore elettrico a seconda della tipologia e della sua potenza ha un rendimento differente, sono in uso motori elettrici a induzione trifase in corrente alternata o motori in corrente continua del tipo brushless trifase (quest'ultimo ha sostituito i precedenti motori a spazzole), in base anche al tipo di applicazione, in quanto hanno caratteristiche meccaniche e ingombri differenti, il brushless ha un rendimento (motore e inverter) generalmente compreso tra 0,77 e 0,93 a seconda della situazione operativa, mentre l'induttivo ha un rendimento di picco tendenzialmente minore, ma più costante a tutte le condizioni operative.

Efficienza della propulsione elettrica. Per rendere equo e corretto il paragone tra i due tipi di propulsione energetica occorre però considerare l'intero ciclo di produzione e utilizzo dell'energia in gioco visto che l'energia elettrica è una fonte di energia secondaria ottenuta prevalentemente a partire da fonti fossili. Qualora l'unica fonte di produzione fosse quest'ultima, la media del rendimento di picco pari a 0,9 del motore elettrico andrebbe scalato di un fattore di circa 0,6 dovuto all'efficienza di conversione dall'energia contenuta nella fonte primaria (gli idrocarburi) in energia elettrica considerando le centrali elettriche più efficienti, ovvero quelle a ciclo combinato; si ottiene così un valore di efficienza totale nel ciclo di produzione/utilizzazione elettrico pari a circa 0,5, che va ulteriormente scalato di un fattore dovuto alle perdite di efficienza nel trasporto dell'elettricità lungo la rete elettrica di trasmissione e distribuzione e di un fattore di efficienza di accumulo dell'energia elettrica nelle batterie di ricarica. Le perdite per la trasmissione e la distribuzione negli Stati Uniti sono stimati del 6,6% nel 1997 e del 6,5% in 2007. Questi valori sono però da considerare anche per i veicoli a combustione interna, dato che la raffinazione e il trasporto su gomma dei carburanti o combustibili incide sia per la produzione di energia elettrica che per i veicoli con motori a combustione, andando ad incidere negativamente su entrambi i mezzi, anche se tendenzialmente di più per i mezzi a combustione interna. Per quanto riguarda la raffinazione dei carburanti quali benzina e gasolio andrebbe anche considerata l'energia spesa nella raffinazione e nel trasporto (che spesso avviene su gomma, comportando un ulteriore consumo di energia a bassa efficienza) del carburante utilizzato. Se si considerasse il sistema globale, includendo l'efficienza energetica del processo di produzione e della distribuzione al punto di rifornimento, il calcolo risulterebbe complesso a causa della grande diversità delle fonti prime, inoltre tale conteggio andrebbe non solo a ripercuotersi per i soli veicoli con motore termico, ma anche per i veicoli elettrici, in quanto parte della corrente viene generata tramite questi carburanti. Secondo l'Eurostat, in Italia nel 2015 il 33,46% della produzione dell'energia elettrica avveniva a partire da fonti rinnovabili. Qualora invece si considerassero gli idrocarburi come unica fonte primaria per la produzione di energia elettrica, l'efficienza complessiva della propulsione elettrica sarebbe, a seconda delle fonti, dal 15% (0,15) al 30% (0,3).

Altri fattori che influiscono sull'efficienza.

La resistenza aerodinamica (Cx) ha una grande importanza nel determinare l'efficienza energetica, particolarmente alle alte velocità già partendo dai 40 km/h e le vetture elettriche, necessitando di un minor raffreddamento, hanno pertanto feritoie sulla carrozzeria di minor o nullo impatto aerodinamico con l'aria.

Bisogna inoltre tenere conto del fatto che il motore elettrico è dotato di prestazioni superiori alle velocità variabili, condizione di utilizzo tipica di qualunque veicolo, e non consuma nei casi di fermo/stop; inoltre i sistemi di recupero dell'energia cinetica dissipata in frenata tipo KERS consentono di recuperare mediamente un quinto dell'energia altrimenti dissipata. Nelle stesse condizioni d'uso i veicoli a combustione perdono significativamente in efficienza nelle frequenti fasi di accelerazione e nelle soste a motore acceso. Le vetture elettriche consumano tipicamente da 0,15 a 0,25 kWh/km. Una vettura con motore a combustione interna consuma invece più di 0,5 kWh/km.

Costi.

Il costo principale del possesso dei veicoli elettrici dipende principalmente dal costo delle batterie, il tipo e la capacità sono fondamentali nel determinare molti fattori come l'autonomia di viaggio, la velocità massima, il tempo di vita utile della batteria e il tempo di ricarica; esistono alcuni svantaggi e vantaggi dei vari tipi, probabilmente non esiste un tipo ideale per chiunque, ma alcuni sono più adatti per alcuni utilizzi. Il costo delle batterie è molto variabile in base alla tecnologia usata e alle prestazioni offerte, da qualche migliaia di euro fino a superare il 50% del costo totale del veicolo, rendendo molto più oneroso l'acquisto di auto elettriche rispetto a veicoli alimentati a combustibili fossili. Il costo delle batterie è comunque destinato a scendere in modo significativo con lo sviluppo della ricerca e con la produzione in serie. D'altra parte sono minori i costi percentuali di riparazione post-collisione, dal momento che sono per buona parte riciclabili, e non essendo dotati di motore che brucia combustibile liquido e dei conseguenti apparati necessari al suo funzionamento, sono più affidabili e richiedono una manutenzione minima. Nell'uso reale, con percorrenze medie giornaliere ridotte, i veicoli elettrici possono percorrere circa 150 000 km con un singolo set di batterie, che durano in media circa 10 anni, quindi grosso modo con le tecnologie attuali la durata di vita della batteria e quella dell'auto coincidono. A causa dell'alto costo delle batterie, la durata di vita dell'auto elettrica è in genere limitata a quella delle batterie. Il prezzo delle auto elettriche in vendita è ancora decisamente alto, il che viene poi in parte compensato dai costi di alimentazione e manutenzione inferiori. In base a fonti statunitensi, i veicoli elettrici hanno dei costi operativi, considerando solo il costo dell'energia, di circa 2,5 centesimi di euro per chilometro, mentre (sempre negli Stati Uniti, dove l'imposizione fiscale sulla benzina è ridotta o nulla) i veicoli tradizionali a benzina hanno costi operativi maggiori di più del doppio. In paesi come l'Italia, dove la benzina è fortemente tassata, la forbice si allarga e il costo per km dell'auto a benzina è da 3 a 4 volte superiore. Il maggior costo alla vendita delle auto elettriche in confronto alle vetture a motore a combustione interna ha consentito un'ampia diffusione solo nei paesi, come la Norvegia, dove lo stato concede generose sovvenzioni all'acquisto. Tuttavia, secondo una ricerca effettuata da Bloomberg New Energy Finance a inizio 2017, si prevede una progressiva diminuzione dei costi delle auto elettriche fino a renderle più economiche di quelle a combustione interna entro il 2030. In diverse città le auto elettriche godono inoltre di vantaggi nella circolazione, come l'immunità da ogni blocco del traffico oppure parcheggi riservati (con colonnine di ricarica elettriche gratuite o a prezzi modici) oppure, in alcuni casi, diritto a circolare sulle corsie per bus e taxi, nonché libertà di accesso alle ZTL.

Impatto ambientale complessivo.

L'impatto totale sull'ambiente va valutato considerando molteplici fattori. Un corretto approccio usa metodi di analisi che riscuotono oggi ampio consenso, con tecniche di valutazione del ciclo di vita considerando tutti gli effetti ambientali nelle diverse fasi che caratterizzano un prodotto (in particolare i consumi energetici, le emissioni climalteranti, la generazione di sottoprodotti inquinanti): dalla sua costruzione (includendovi i contributi per l'estrazione e purificazione delle materie prime e per la produzione della componentistica impiegata), alla fase d'uso (consumo di energia elettrica la cui generazione rilascia nell'ambiente CO2 responsabile dell'effetto serra e del riscaldamento globale) sino al conferimento in discarica, riciclo e/o trattamento dei sub-componenti. Termini rilevanti riguardano l'inquinamento per la produzione delle batterie e per il loro ritrattamento quando esauste. La varietà di tipologie esistenti di batterie e il loro diverso impatto ambientale rendono tutt'oggi difficoltoso effettuare confronti e pervenire a valutazioni medie sul parco di veicoli in circolazione. Per le vetture elettriche è comunque assodato che le batterie, al pari di molti altri dispositivi elettrici ed elettronici odierni, sono responsabili del maggior termine di inquinamento, anche in ragione della loro criticità rispetto ad altri componenti del veicolo.

Le batterie risentono principalmente delle seguenti anomalie:

urti meccanici, quali incidenti stradali o urti con detriti;

problemi elettrici, come cortocircuiti, sovraccarichi elettrici, eccessiva scarica (abbandono o inutilizzo del mezzo per lunghi periodi) o avarie interne della batteria stessa;

problemi termici, causati da temperatura eccessiva, che può svilupparsi in fase di ricarica o con uso molto intensivo, così come causabili da temperature ambientali non favorevoli, ma anche da un possibile degrado del sistema di raffreddamento, ove presente.

I maggiori inconvenienti paiono imputabili a incidenti stradali, il che ha portato molti costruttori a proteggere maggiormente il pacco batteria. Il livello di sicurezza sembra essere allineato a quello dei veicoli tradizionali, benché dati più precisi e attendibili richiedano un ampliamento delle statistiche e quindi l'attesa di una maggior espansione del mercato.

Riguardo alle batterie, i primi modelli presentavano consistenti effetti d'inquinamento ambientale da nichel e da cadmio, dovuti all'estrazione mineraria, alla fabbricazione della batteria, alla discarica con possibile successiva ossidazione, rottura, infiltrazione e dilavamento nel caso di non conferimento di batterie NiCd presso centri che li instradano a unità specializzate. Il problema si è superato proibendo o limitando questi composti nelle batterie, inoltre viene sempre più agevolato il ripristino o il riuso delle batterie per autotrazione per altri fini o il riciclo e recupero dei materiali ivi presenti anche se il loro trattamento, oltre a essere costoso, non è esente da rischi e da produzione d'inquinanti. Per quanto concerne la loro durata o vita utile, in genere essa viene garantita per 8 anni con una percorrenza reale stimabile in 150 000 km su 10 anni effettivi di utilizzo.

Riguardo all'inquinamento dovuto alla produzione delle batterie, uno studio del 2017 ha appurato come la produzione di una batteria agli ioni di litio per autotrazione (nell'ipotesi di un 50-70% di quota fossile nel mix elettrico) rilasci in media 150-200 chilogrammi di CO2 equivalente per chilowattora di batteria prodotta: nel caso di un autoveicolo elettrico con batteria da 100 kWh verrebbero rilasciate 15-20 tonnellate di diossido di carbonio per la sola produzione della batteria. Effettuando un paragone con mezzi a benzina o Diesel, questi ultimi, prima di arrivare a rilasciare tanto diossido di carbonio quanto la produzione della batteria stessa da 100 kWh, impiegherebbero (con percorrenza stimata di 1 224 miglia annuali, ossi circa 2 000 km/anno ed emissione stimata di 130 grammi di diossido di carbonio per chilometro) circa 8,2 anni. Tale risultanza va peraltro presa con cautela in ragione della pretesa scarsa percorrenza chilometrica e delle basse emissioni prese a riferimento per gli autoveicoli tradizionali. In termini ambientali la produzione di energia elettrica, il suo trasporto, lo stoccaggio (ricarica e dispersioni dovute a auto-scarica) e il consumo finale per autotrazione risulta essere vantaggioso in termini di impatto ambientale rispetto all'uso di carburanti tradizionali (benzina e gasolio). Nell'ipotesi di elettricità prodotta prevalentemente da fonti rinnovabili vi è un evidente vantaggio in termini di inquinamento. Nel caso odierno di elettricità prodotta in Italia per il 65% da fonti non rinnovabili (combustibili fossili), tale vantaggio pur riducendosi resta valido sia in generale sia, più in dettaglio, per la maggior parte dei paesi europei compresa l'Italia. In sintesi, nell'uso quotidiano e per spostamenti locali il mezzo elettrico può permettere un abbattimento della produzione di inquinanti, i quali vengono in buona misura delocalizzati nelle centrali di produzione dell'energia elettrica. Al contrario una maggior quantità di risorse e di inquinanti rilasciati è associata alla fase di produzione e smaltimento del veicolo elettrico, così come evidenziato in studi sul ciclo di vita (escludendo lo smaltimento della batteria). Ipotizzando una vita utile di 270 000 km si ha un guadagno contenuto rispetto a mezzi equivalenti a benzina, mentre si arriva addirittura a inquinare di più in confronto con mezzi a benzina leggermente più compatti. Nel caso di confronto con mezzi convertiti a metano il verdetto resta però a favore di questi ultimi. Un vantaggio potenziale dei mezzi elettrici rispetto a quelli tradizionali è nella guida in situazioni congestionate con lunghe soste o ad andatura molto ridotta, tipici delle grandi città ad alta densità di traffico. In questo caso i mezzi elettrici permettono di abbattere l'energia utilizzata per il trasporto e non producono localmente inquinanti durante o per l'uso del mezzo. In queste situazioni un equivalente mezzo a motore termico ha rendimento molto basso e, benché possano ridursi gli sprechi con dispositivi start e stop di riaccensione del motore, si produce comunque forte inquinamento locale dell'aria, anche per la riduzione di efficacia dei dispositivi catalitici. Per la stessa ragione un mezzo elettrico è invece poco conveniente in situazioni di traffico scorrevole ad andatura costante o sostenuta, in quanto nel complesso il mezzo utilizzerà una maggiore quantità d'energia. In particolare il riscaldamento dell'abitacolo (che nei mezzi tradizionali avviene col calore già presente nel motore) risulta invece particolarmente energivoro nei veicoli elettrici. In considerazione dei vari vantaggi e limitazioni elencati, i veicoli ibridi misti possono porsi come alternativa sia a quelli tradizionali sia a quelli puramente elettrici, permettendo un uso a più ampio spettro e maggior versatilità e adattabilità alle varie situazioni.

Diffusione.

Vendite annuali di veicoli leggeri a ricarica elettrica nei principali mercati tra il 2011 e il 2020. A causa dei maggiori costi di acquisto delle auto elettriche, la loro diffusione è legata alle politiche di incentivi praticate dai singoli paesi. Secondo il Global EV Outlook per il 2016 dell’OSCE/Iea, i paesi nei quali sono più diffusi i veicoli elettrici sono la Norvegia (23%), Paesi Bassi (10%) seguiti da Svezia, Danimarca, Francia, Cina e Gran Bretagna. Il successo in Norvegia si deve a un'incentivazione economica statale all'acquisto dei veicoli elettrici in media pari a circa 20000 euro e alla pesante tassazione dei veicoli a benzina. Questo ha permesso di raggiungere quasi il 54.3% delle auto immatricolate nel 2020. In Italia la diffusione delle auto "plug-in" è aumentata del +251,5% rispetto al 2019 con quasi 60.000 auto immatricolate, di cui 32500 elettriche e 27.000 ibride plug-in. Un altro aspetto che impatta la diffusione di questi mezzi di trasporto è dato dalla disponibilità di punti pubblici di ricarica sulla rete stradale e autostradale; così, ad esempio, se a livello di Unione europea, nel 2018 l'indice dei punti di ricarica veloce per 100 km di autostrada è di 32, nello stesso anno in Italia è di circa 12 punti di ricarica ogni 100 km.

Storia dell'auto elettrica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Introduzione.

L'auto elettrica a batteria (BEV, a inizio '900 chiamata anche "elettromobile"[1]) fu una tra i primi tipi di automobile ad essere inventata, sperimentata e commercializzata. Tra il 1832 ed il 1839 (l'anno esatto è poco certo), l'imprenditore scozzese Robert Anderson inventò la prima carrozza elettrica, nella sua forma più rozza. Il professore Sibrandus Stratingh di Groningen, nei Paesi Bassi, progettò una piccola auto elettrica, costruita dal suo assistente Christopher Becker nel 1835.

Il miglioramento delle batterie, dovuto ai francesi Gaston Planté nel 1865 e Camille Faure nel 1881, consentì il fiorire dei veicoli elettrici. Francia e Gran Bretagna furono le prime nazioni testimoni dello sviluppo del mercato delle auto elettriche.[2]: tra le aziende produttrici vi fu la francese Kriéger.

Pochi anni prima del 1900, prima della preponderanza del potente, ma inquinante, motore a combustione interna, le auto elettriche detenevano molti record di velocità e di distanze percorse con una carica. Tra i più notevoli di questi record è stato l'infrangere la barriera dei 100 km/h di velocità, raggiunta il 29 aprile del 1899 da Camille Jenatzy nel suo veicolo elettrico 'a forma di razzo', La Jamais Contente, che raggiunse la velocità massima di 105,88 km/h. Per i modelli stradali la velocità massima di questi primi veicoli elettrici era ben oltre 32 km/h, velocità eccezionale per il tempo.

I veicoli elettrici a batteria (BEV), prodotti dalle ditte Anthony Electric, Baker Electric, Detroit Electric ed altre, nel corso dei primi anni del XX secolo per un certo tempo vendettero di più rispetto ai veicoli a benzina. A causa dei limiti tecnologici e costi delle batterie, e della mancanza di una qualsiasi tecnologia di controllo della carica e della trazione (a transistor o a valvola termoionica) persero interesse. In seguito questi veicoli vennero venduti con successo come town car (veicoli di quartiere o di paese) a clienti delle classi agiate, e venivano spesso commercializzati come veicoli appropriati al sesso femminile, a causa della loro operatività semplice, pulita e poco rumorosa, che non necessitava di frequenti rabbocchi dell'acqua del radiatore, dell'olio o sostituzioni delle candele o fermi mensili o annuali in officine specializzate come per il grafitaggio e la pulizia motore e molto altro.

Alcuni modelli di veicoli elettrici prodotti.

Sono inclusi alcuni veicoli elettrici molto popolari presso il pubblico, che sono stati venduti, oppure dati in leasing, a flotte di vari comuni, oppure a trasporti interni di fabbriche, ospedali, università, ecc. (in ordine cronologico):

Anni di produzione -Quantitativo prodotto - Costo

Baker Electric. La prima auto elettrica, capace di velocità fino a 35 km/h, che veniva considerata facile da guidare e che - a piena carica delle batterie - poteva percorrere una distanza di 80 km. 1899-1915? US $2300

Camona tipo "Ausonia". Nel 1905 la ditta Camona di Sesto San Giovanni proponeva diversi modelli di veicoli elettrici con marchio Ausonia 1899-1906??

Detroit Electric. Venduta principalmente a donne e medici. Autonomia da 115 km (tipica) a 280 km (massimo) tra le varie ricariche della batteria. Velocità massima di circa 28 km/h, a quei tempi considerata adeguata per la guida in città. 1907-39 <5000>US $3000 dipendono dalle opzioni

STAE "Vettura elettrica". Vettura elettrica realizzata dall'azienda italiana STAE, era dotata di un motore elettrico, in posizione centrale, da 10cv; aveva un'autonomia di 80–90 km a una velocità di 30 km/h. (un esemplare fa parte della collezione permanente del Museo nazionale dell'automobile di Torino) 1909??

Henney Kilowatt. La prima auto elettrica moderna (controllata da transistor), capace di percorrere le autostrade a velocità di più di 95 km/h; dotata di freni idraulici moderni. 1958–60 <100 

Fiat City Car X1/23. Presentata dalla Fiat nel 1974 consisteva nella variante elettrica della Fiat City Car. Nell'estate del 1979, a cura del Centro Ricerche Fiat ne venne presentata una versione ancora migliorata, con batterie al nichel-zinco e motore a corrente continua ad eccitazione separata e controllo elettronico ad impulsi. 1974-1979? 

Pilcar. Quadriciclo progettato e costruito in Svizzera a quattro posti 1977-79 ~ 16.000 Franchi dell'epoca

Sinclair C5. Piccolo veicolo monoposto recumbent a tre ruote realizzato da Sir Clive Sinclair Gennaio 1985-Novembre 1985 > 12000 ~ 399 Sterline dell'epoca

Fiat Panda Elettra. "Conversione" elettrica basata sulla Panda 750 1990? 25.600.000 Lire

General Motors EV1. Fornita soltanto in leasing, tutti i modelli sono stati distrutti 1996-2003 >1000 ~ US $40.000 (senza i sussidi)

Twike. Veicolo elettrico a tre ruote, con la possibilità di pedalare. Prodotto in Germania. 1996+ >750 ~ US $16K

Chrysler EPIC minivan. Seconda generazione del Chrysler TEVan, utilizzava batterie piombo-acido da 324 Volt, nel '97 e batterie NiMH da 336 Volt NiMH dopo il 98; Velocità massima di 128 km/h, autonomia di 110-144 km 1997–2000 <351 dato in leasing al governo ed a "flotte" di servizi.

Honda EV Plus. Primo BEV costruito da una grande ditta, senza l'uso di batterie piombo-acido. Autonomia di (130–180 km); velocità max. superiore ai 130 km/h; 24 batterie a 12V accumulatore NiMH 1997–99 ~300 US $455/mese pe run leasing di 36 mesi, o $53.000 senza sussidi

Toyota RAV4 EV. Sono scarse, alcune date in leasing e vendute nella costa est ed ovest degli USA, attualmente ricevono assistenza tecnica e manutenzione. La Toyota ha accettato di non demolirle. 1997–2002 1249 US $40.000 senza sussidi

Fiat Seicento Elettra. Elettrificazione della Seicento, successivamente fu realizzato un anche un prototipo a fuel cell a idrogeno (Seicento Elettra H2) 1998 22.950 €

Chevrolet S10 EV. S–10 con motori, circuiti di controllo e batterie della EV1, 45 apparecchi venduti a privati cittadini, ancora in funzione; alcune sono state vendute a flotte aziendali, disponibili da rivenditori come veicoli aggiornati e dalle caratteristiche ampliate. 1998 100 

Citroën Saxo Electrique. 20 batterie da 6V 100Ah al NiCD alimentano un motore CC ad eccitazione separata, 11 kW di potenza nominale, oltre 20 kW la potenza di picco. Velocità massima limitata elettronicamente a circa 91 km/h 1998-2005 >5000

Citroën Berlingo Electrique. 65+ MPH top speed, 40-60 mile range; 27 batterie nichel-cadmio da 6 volt, 100 batterie ampere-ora in tre pacchetti. Molto simile alla Peugeot Partner che è stata offerta come VE. 1998-2005

Ford Ranger EV. Alcuni venduti, altri in leasing; quasi tutti distrutti. La Ford concedeva la trasformazione elettrica e la vendita di piccole quantità a dei "leasers" in base ad una lotteria. 1998-2002 1500, forse sopravvivono 200 ~ 50.000 US$, sussidiato a 20.000 $

Nissan Altra EV. Station wagon di medie dimensioni disegnata dall'inizio come il primo veicolo BEV ad usare gli accumulatori Li-ion; 75+ MPH v.max., autonomia di 192 km, durata della batteria > 160.000 km 1998–2000 ~133

Affitto mensile di US $470

Think Nordic TH!NK City. Bi-posto, automia di 85 km, vel. max. 90 km/h, batterie Ni-Cd 1999-2002 1005 

REVA. Auto cittadina costruita in India, vel.max.65 km/h, venduta anche in Italia come la "G-Wiz" 2001+>1600 ~ £8K 12000€

Fiat Phylla. Vettura lunga 3 metri e larga 1,6 pesante solo 750 kg con pannelli fotovoltaici inglobati nella carrozzeria. La vettura, dotata di batterie ricaricabili tramite una tradizionale presa domestica, permette di percorrere più di 18 km al giorno; velocità massima:130 km/h. Raggiunge i 50 km/h in 6 secondi. Presentata al motorshow di Bologna è stata concepita dalla Fiat insieme alla Regione Piemonte. Per la sua realizzazione hanno collaborato con il Centro Ricerche Fiat diversi studi di design e progettazione in seguito a un concorso di stile. Il progetto ha coinvolto il Politecnico di Torino, l'Istituto Europeo di Design (IED) e l'Istituto di Arte Applicata e Design (IAAD) e aziende come Novamont e il Consorzio Proplast, Sagat, ENECOM, Sydera e Bee Studio. 2008+ 

Tesla Roadster. Biposto, automia di 400 km, vel. max. 210 km/h, da 0-100 km/h in 4 sec, 251 cavalli, monomarcia (più la retro), coppia di 240 N·m a 0 giri che scende a 95 N·m a 13.500 giri/m, batterie al litio 2008+ da US $98000

Tazzari Zero. Vettura sportiva a due posti, realizzata dall'azienda italiana Tazzari, dal peso contenuto (542 kg) grazie al corpo interamente in alluminio. Ha una velocità massima di 100 km/h e un'autonomia di 140 km. Il motore (che sprigiona 150 Nm di coppia) è in posizione centrale, la trazione è posteriore. Ha la caratteristica di ricaricare le batterie all'80% in 50 minuti. Prodotta anche in versione spider. 2009+da 24.000 euro

Fiat 500 BEV. Versione interamente elettrica della Fiat 500 (2007), tale versione è stata realizzata dalla Fiat per il mercato nord-americano secondo accordi presi con il governo locale. Presentata come concept al Salone dell'automobile di Washington nel 2010 è commercializzata dal 2012. 2012+non ancora confermato

Veicoli elettrici a breve raggio ("Neiborghood Electric Vehicles" o NEV). (microcar equiparate ai ciclomotori, guidabili con la patente AM)

Global Electric Motorcars. Cinque modelli in produzione, includendo due piccoli camion "pickup"; la loro velocità viene limitata elettronicamente a 40 Kph per classificarsi come NEV, ed usano batterie piombo-acido. Acquistate dalla DaimlerChrysler nel 2000. 1998+ >30.000 prezzo varia per modello, da US $7.000 a $12.500

Zenn EV. Veicolo a due volumi, tre porte, biposto con varie opzioni di batterie, raggio di 35 miglia. 2006+ ignoto US $12.000 a 14.000

Dynasty EV. Cinque modelli in produzione, tutti molto simili al modello Sedan, usano batterie Pb-acido e vengono limitate a 40 Kph per qualificare come NEV. L'autonomia della sedan è di circa 48 km. 2001+ 

Estrima Birò. Veicolo elettrico minimale a 4 ruote, realizzato dalla italiana Estrima. Dotato di 2 motori Brushless da 48 V raggiunge una velocità massima di 45 km/h. Dotato di un sistema di recupero dell'energia in frenata ha un'autonomia di circa 40 o 70 km, in base alla tipologia di batterie installate; utilizza infatti sia la tecnologia al piombo che al litio. Nel 2010 e 2011 è stato il veicolo elettrico più immatricolato in Italia. 2010 EUR €6.990 + kit batterie

Effedi Maranello. Veicolo a due volumi, tre porte, biposto. 2010 ignoto EUR €12.500

Storia dell'automobile. STORIA DELLA MACCHINA ELETTRICA: DAL 1800 AD OGGI.  Da e-vai.com.

Macchina elettrica: dalla nascita ai giorni nostri

Negli ultimi anni la mobilità elettrica sta riscuotendo successi significativi: infatti, le auto elettriche consentono di spostarsi in modo sostenibile senza rinunciare al comfort dell’auto privata. Ma qual è la storia della macchina elettrica?

Generalmente si pensa che la macchina elettrica rientri nei “nuovi mezzi di trasporto”: in realtà, non tutti sanno che questo veicolo ha origini particolarmente antiche ed è caratterizzato da una storia di più di 150 anni ricca di sorprese.

Le prime auto elettriche: i progetti nell’Ottocento

Quando nasce la prima macchina elettrica? Per scoprirlo è necessario risalire agli anni ’30 dell’Ottocento, quando l’imprenditore scozzese Robert Anderson ideò la prima vera e propria carrozza senza cavalli: la prima carrozza elettrica (1832-1839). Negli stessi anni, più precisamente nel 1835, il Professore olandese Sibrandus Stratingh iniziò a progettare il primo modello di auto elettrica, di seguito realizzato dal suo collaboratore Cristopher Becker.

In seguito ai tentativi di Anderson e Becker, tra gli anni ’60 e ’70 del XIX secolo, fu portata avanti una sperimentazione costante sulle batterie dei veicoli elettrici dagli ingegneri francesi Gaston Planté e Camille Faure: grazie a queste innovazioni, le nuove vetture elettriche realizzate al termine dell’Ottocento risultarono particolarmente competitive se paragonate ai modelli tradizionali a benzina o a vapore.

Infatti, se le auto a vapore e a benzina mostravano diverse problematiche in merito all’avviamento del motore, al surriscaldamento e all’emissione eccessiva di fumi e rumori sgradevoli, le macchine elettriche risultavano molto più comode e pratiche grazie alla semplicità di guida e all’assenza di rumori. Basti pensare che il record di velocità che sfondò la barriera dei 100 km/h fu realizzato nel 1899 dal pilota belga Camille Jenatzy con il suo veicolo elettrico a forma di razzo, La Jamais Contente.

Le nazioni maggiormente attive nella produzione e commercializzazione delle prime auto elettriche furono Inghilterra e Francia, seguite dagli Stati Uniti che nel 1900 registravano circa 1/3 delle auto circolanti a New York e Chicago ad alimentazione elettrica. Infatti, fu proprio New York la città più attiva nella sperimentazione dei trasporti eco-friendly con l’avviamento di un servizio di taxi urbano esclusivamente elettrico nel 1897.

Automobili elettriche: il breve successo nel Novecento

Agli inizi del ‘900 la sfida tra veicoli a benzina e auto elettriche appariva ben bilanciata, soprattutto se paragonata ai giorni nostri: infatti, le maggiori case produttrici di veicoli elettrici, come Detroit Electric, Baker Electric e The Vehicle Electric Company, erano in grado di eguagliare o superare le concorrenti specializzate nella commercializzazione di veicoli a combustione interna.

I veicoli elettrici tradizionali, pur avendo un’autonomia di circa 50 km/h e toccando velocità non superiori ai 40 km/h, risultavano perfetti per la circolazione urbana ed erano la prima scelta di borghesi e ceti abbienti. Per quale motivo? Per la loro semplicità di guida, il bisogno scarso di manutenzione e la loro silenziosità. Inoltre, proprio grazie alla semplicità di guida senza paragoni, le auto elettriche furono etichettate come veicoli perfetti per il genere femminile.

È proprio all’inizio del Novecento che si sperimentò una prima forma di mobilità sostenibile a tutti gli effetti: si trattava di un car sharing di vetture elettriche nelle principali città europee che permetteva di noleggiare per un determinato periodo di tempo il veicolo per spostarsi in città.

Ma, con l’avvento della Seconda Rivoluzione Industriale, lo sviluppo delle auto elettriche fu destinato a subire un brusco rallentamento, in favore delle vetture a benzina con motore a combustione interna. Infatti, durante gli anni del grande boom industriale le prestazioni delle auto a benzina furono migliorate in modo significativo portando questi veicoli a diventare leader di mercato in pochi anni.

Seconda Rivoluzione Industriale e boom di veicoli a benzina

A partire dagli anni ’20 del Novecento la continua innovazione tecnologica e la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi (con conseguente abbassamento del prezzo della benzina) portò alla ribalta i veicoli a benzina.

Inoltre, in questi anni una serie di fattori giocarono a favore dello sviluppo delle auto a combustione interna rispetto a quelle elettriche:

Le marmitte delle auto a benzina furono silenziate con silenziatori appositamente creati;

La diffusione del motorino di avviamento elettrico sostituì la scomoda accensione con manovella;

L’introduzione del radiatore risolse il problema del surriscaldamento.

In seguito, le auto a benzina registrarono un ulteriore sviluppo positivo grazie all’introduzione del motore a scoppio e alla produzione in serie. Dopo questi sviluppi, le auto elettriche non riuscirono più a competere con le prestazioni di quelle a benzina e divennero veicoli “di nicchia”: infatti, la macchina elettrica era utilizzata per lo più all’interno di settori particolari nei quali la velocità non risultava prioritaria (carrelli elevatori, movimento nelle stazioni ferroviarie e veicoli per servizi porta a porta).

Dalla seconda metà del ‘900 ai giorni nostri: un nuovo interesse per la macchina elettrica

Le auto elettriche tornano sulla scena internazionale negli anni ’60-’70 del Novecento grazie alle sempre più assidue battaglie dei movimenti ecologisti e grazie alla crisi petrolifera che portò all’aumento dei prezzi della benzina. Proprio per questo, le principali case automobilistiche internazionali iniziarono a lavorare al miglioramento delle vetture elettriche. Ma, il problema della scarsa autonomia delle batterie non permise alle macchine elettriche di mettere in discussione il primato di quelle a combustione interna.

Anche negli anni ’90 la mobilità elettrica risultò protagonista di molte iniziative in quanto la crisi petrolifera costante e il cambiamento climatico (causato anche dall’emissione eccessiva di CO2 dalle auto) furono temi particolarmente caldi.

L’interesse per la mobilità sostenibile ed elettrica fu rinnovato in modo importante all’inizio degli anni 2000: infatti, durante il nuovo millennio le tematiche climatiche hanno ricoperto un ruolo sempre più centrale a causa dei danni causati all’ambiente da combustibili fossili e gas serra.

Proprio per questo, la maggior parte delle case automobilistiche internazionali lavora costantemente allo sviluppo di nuove tecnologie in grado di ottimizzare i trasporti sostenibili. L’autonomia delle batterie delle auto elettriche viene quotidianamente testata e ottimizzata: infatti, negli ultimi anni, grazie alle batterie al litio, le auto elettriche risultano in grado di percorrere anche tragitti particolarmente ampi senza il bisogno di alcuna ricarica.

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I 150 anni di storia dell’auto elettrica. Testo di Emanuela Fagioli su cobat.it 1 giugno 2020. L’applicazione dell’elettrotecnica, nata nel 1800 con la pila di Volta, richiese ai ricercatori anni di esperimenti prima di riuscire a mettere a punto dei generatori utilizzabili al di fuori dei laboratori, nella vita quotidiana.

A Parigi, polo dello sviluppo scientifico nella metà dell’800, i ricercatori più attenti compresero le potenzialità insite nel fluido elettrico “continuo” delle pile: una corrente forte e stabile, ben più utile delle scintille dell’elettrostatica. Ne seguì una intensa sperimentazione e le 2 pile voltaiche vennero di volta in volta costruite con metalli ed elettrodi diversi. Malgrado gli sforzi ci vollero sessant’anni per mettere a punto due invenzioni che per le loro doti di energia e praticità sono tutt’ora prodotte in miliardi di pezzi: l’accumulatore elettrico di Planté e le pile di Leclanché. Gaston Planté, nato a Orthez nel 1834, era un fisico di formazione accademica. Fu prima assistente al Conservatoire des Arts et Metiers e poi professore di fisica all’Associazione Politecnica per l’Istruzione Popolare.

Nel 1840 il ventiseienne professore sperimentò nel suo laboratorio molti e diversi accoppiamenti di metalli ed elettrodi. Osservò che, fra tutti i metalli, il piombo era quello più idoneo per dare origine ad una pila con caratteristiche apprezzabili: innanzitutto gli elettrodi di piombo immersi in acido solforico si ossidavano al positivo costituendo una pila reversibile, che poteva cioè essere ricaricata, e poi la coppia piombo-acido solforico/biossido di piombo forniva una tensione di 2 volt stabile nel tempo. Nacque così un accumulatore elettrico efficace e poco costoso, lo stesso che ancor oggi avvia milioni di autoveicoli.

Nel 1867 il primo veicolo a trazione elettrica viene presentato all’Esposizione Universale di Parigi dall’inventore austriaco Franz Kavogl.

Nel 1881 Gustave Trouvé gira a Parigi con un triciclo elettrico, pochi mesi dopo è la volta di Berlino dove si sperimenta un autobus. Nel 1885 il francese Jeantaud produce e vende vetture elettriche con una autonomia di 30 Km e una velocità di 20 Km/h.  

In Italia è il conte Giuseppe Carli di Castelnuovo Garfagnana, insieme all’ingegner Francesco Boggio, a realizzare la prima auto elettrica tricolore, siamo nel 1801.

Negli ultimi decenni dell’800 le automobili alimentate con accumulatori al piombo acido iniziarono a percorrere le polverose vie dei parchi cittadini sotto gli occhi curiosi della gente e sotto quelli più allarmati delle forze dell’ordine. Le limitate prestazioni non rallentavano certo la crescita di un mercato che aveva fame di velocità.  

Londra e New York - siamo nel 1897 - vengono introdotti i taxi elettrici. In America le auto elettriche, facili da usare, silenziose e senza emissione di sgradevoli odori, sono usate in particolar modo dalla popolazione urbana per gli spostamenti di prossimità e sono “gettonatissime” tra le donne della buona borghesia.

Sono anni di grande fermento. Nascono le prime competizioni, talvolta non autorizzate, tra veicoli. In Francia, nei pressi di Versailles, il Parco di Achères è teatro di numerose sfide grazie a un rettifilo lungo oltre un chilometro, ideale per lanciare i “nuovi mostri”.

La sfida che passerà alla storia si svolse il 29 aprile del 1899. Dopo mesi difficili e senza risultati degni di nota, il belga Camille Jenatzy, detto Barone Rosso per via della sua barba fiammeggiante, riesce a risolvere i problemi della sua Jamais Contente, auto elettrica da lui stesso ideata e costruita. Più che un’auto un siluro su quattro ruote Michelin con due motori elettrici da 25 Kw alimentati da pesanti batterie di accumulatori al piombo. Peso complessivo 1.450 Kg e uno spazio esiguo per il guidatore costretto in una posizione certamente non favorevole e contraria a ogni legge di aerodinamicità.

Possiamo immaginare come in quella mattina di tiepido sole la vettura sfrecciò silenziosa tra due ali di muti spettatori, ancor più muto lo spericolato belga che lì si giocava la vita e l’onore. Forse c’era vento a favore che muoveva le foglie e accompagnava il siluro, ma questo la storia non ce lo dice. Ci consegna invece una Jamais Contente che percorre fra la polvere il lungo rettifilo del Parco di Achères ad una velocità folle. Il risultato strabilia: i cronometri indicano una media di 105,88 Km/h. È il trionfo di Janetzy, la capacità di muoversi in velocità da sogno si fa possibilità e spalanca le porte al futuro.

Molti inventori si dedicano allo sviluppo delle e-car. Anche Thomas Edison nel 1901 lavora a migliorare le batterie dei veicoli elettrici e nel primo decennio del ‘900 negli Stati Uniti un terzo dei veicoli circolanti è elettrico. 

È del 1901 anche la prima auto ibrida: la crea Ferdinand Porsche, fondatore dell’omonima casa automobilistica. Alla prima ibrida si dà il nome di Löhner-Porsche Mixte, il veicolo è alimentato dall’energia elettrica immagazzinata nelle batterie e da un motore a scoppio.

Negli anni Venti del ‘900 le reti stradali migliorano e la fame di spostamenti richiede autonomia maggiore alle auto. Negli stessi anni la scoperta di vasti giacimenti petroliferi rende più economica la benzina. Nel 1912, con l’arrivo dell’avviamento elettrico, l’automobile con motore a scoppio diventa anche più semplice da guidare. La concomitanza di questi fattori “raffredda” il mercato dell’elettrico; la diffusione dell’auto a benzina surclassa quella delle e-car, che restano limitate all’uso urbano per la bassa velocità e autonomia.

L’abbondanza di benzina a basso costo e le migliorie al motore a combustione interna rendono inutili i carburanti alternativi. A cavallo tra gli anni ’60 e ’70 i prezzi del carburante però aumentano e si ridesta l’interesse per i veicoli elettrici.  

Anche un evento scientifico-tecnologico di portata mondiale porta di nuovo alla ribalta i mezzi elettrici: siamo nel 1971, il primo veicolo con equipaggio è sulla Luna. Il rover della Nasa che si muove sul suolo lunare è alimentato da batterie. Nello stesso anno la General Motors sviluppa un prototipo di city car elettrica e la presenta al First Symposium on Low Pollution Power Systems Development del 1973. 

Nel 1973 e fino al 1977 la CitiCar di Sebring-Vanguard viene prodotta in 2000 esemplari. La sua popolarità rende Sebring-Vanguard il sesto produttore auto degli Stati Uniti nel 1975. Ma la rinascita dell’elettrico ha breve durata, le performance e l’autonomia rispetto al motore a scoppio sono ancora troppo basse, già nel 1979 spariscono dal mercato fino al 1990 quando le nuove leggi californiane per contrastare l’inquinamento dell’aria riaccendono le luci sulle e-car. Le case automobilistiche iniziano a elettrificare alcuni modelli popolari aumentandone al contempo velocità e performance per ridurre il gap con i veicoli tradizionali.

La Fiat già nel 1963 aveva realizzato una serie di prototipi di auto elettriche ma, si dovrà attendere gli Anni Novanta per l’uscita sul mercato della Panda Elettra, conversione con motore elettrico alimentato da batterie al piombo acido del modello base.

La Toyota, siamo nel 1997, presenta la Prius, prima auto ibrida di massa. Nel 2000 viene venduta in tutto il mondo ed ha un immediato successo. La batteria montata su questo modello è al nichel idruro di metallo.

General Motors richiama e distrugge le sue auto elettriche EV1: siamo nel 2003.  Nello stesso anno e proprio a seguito della decisione della General Motors, Martin Eberhard e Marc Tarpenning fondano una startup chiamata Tesla Motors.

Nel 2004 Elon Musk entra a far parte della società come investitore principale. 

La prima auto prodotta dall’azienda fu la Roadster, con una autonomia di 340 km. La Roadster è stata la prima automobile di produzione a utilizzare batterie con celle agli ioni di litio.

Nel 2010 GM lancia la Chevy Volt, primo ibrido plug-in. A dicembre dello stesso anno, Nissan mette in commercio la Leaf, totalmente elettrica.

Intanto la batteria, componente più costoso dell’auto elettrica, inizia a calare del 50% in quattro anni.

A tutt’oggi Il costo della batteria agli ioni di litio montata su un’e-car è pari al 30% del costo totale della vettura. Un costo che le aziende automobilistiche cercano di abbattere progettando riutilizzi smart delle batterie dismesse dalle auto ma ancora in grado di ricevere e restituire energia, come ad esempio il riutilizzo per lo storage, ovvero la conservazione dell’energia prodotta dalle fonti rinnovabili. 

Oggi l’offerta di auto elettriche riguarda praticamente tutte le case automobilistiche e gli indirizzi a tutela del clima e della salute pubblica che l’Europa e gli Stati membri hanno già adottato e adotteranno nell’imminente futuro non potranno che accelerare un processo troppe volte auspicato. 

LA PRIMA AUTO ELETTRICA ITALIANA  

A bordo potevano salire due persone. Era lunga 1,80 metri, larga 1 e alta 1,20. 

Pesava 140 chilogrammi batterie incluse. Le batterie erano formate da 10 accumulatori da 25 ampere-ore chiusi in cassette d’ebanite. Il potenziale accumulato era di circa 2.000 watt. 

CURIOSITÀ 

Il Rover statunitense non fu l’unico, né il primo ad essere impiegato sulla Luna. Anche i sovietici, infatti, portarono sulla superficie le loro auto elettriche che però non erano guidate fisicamente da astronauti.

Il Lunochod 1 si mosse sul suolo lunare dal 17 novembre 1970 e rimase attivo per 322 giorni, successivamente il Lunochod 2 arrivò sulla Luna nel 1973.

FIAT PANDA ELETTRA 

Velocità massima 70 km/h, 100 chilometri massimi percorribili fra due ricariche mantenendo velocità costante di 50 km/h. La seconda versione, disponibile dal 1992, presentava l’opzione delle batterie al nichel-cadmio

L’ARRIVO SUL MERCATO DELLE BATTERIE AL LITIO 

Gilbert Lewis fabbricò le prime batterie al litio nel 1912. Le prime pile non ricaricabili furono create nei primi anni ‘70. La batteria ricaricabile agli ioni di litio necessitò di altri venti anni di sviluppo prima che fosse sicura abbastanza per essere usata in massa sul mercato e la prima versione commerciale fu creata dalla Sony nel 1991, a seguito di una ricerca di un team diretto da John B. Goodenough. Per le auto si dovrà attendere ancora qualche anno...Il primo veicolo a trazione elettrica venne presentato a Parigi nel 1867, oggi tutte le case automobilistiche puntano su veicoli a emissioni zero. Nel 1971 la General Motors sviluppa un prototipo di city car elettrica. Nel 1997 la Toyota presenta la Prius, prima auto ibrida di massa. Nel 2010 Nissan mette in commercio la Leaf, 100% elettrica.

Auto elettriche vs combustibili fossili: un confronto (impari) tra le esigenze di materie prime.

Un nuovo studio pubblicato da T&E spiega che nel suo ciclo di vita un’automobile alimentata a combustibili fossili brucia in media l’equivalente di una catasta di barili di petrolio alta come un grattacielo di 25 piani, mentre la batteria di un veicolo elettrico (EV) consuma appena 30 kg di materie prime. Da  Bruno Casula da ecodallecitta.it il 3 Marzo 2021. Rispetto ai 17.000 litri di benzina bruciati in media da un’automobile nel suo ciclo vitale, la batteria di un veicolo elettrico (EV) consuma appena 30 chilogrammi di materie prime, tenendo conto del processo di riciclo. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato da Transport & Enviroment, che dimostra “come l’attuale dipendenza dell’Europa dal petrolio greggio superi di gran lunga il suo fabbisogno di materie prime necessarie per le batterie delle auto elettriche”. E questo divario è destinato ad aumentare ancora, visto che i progressi tecnologici previsti nei prossimi dieci anni ridurranno della metà la quantità di litio occorrente per fabbricare una batteria EV, mentre la quantità di cobalto necessaria diminuirà di oltre tre quarti e quella di nichel di circa un quinto. Carlo Tritto, Policy Officer di T&E, ha commentato: “Per quanto riguarda le materie prime non c’è assolutamente paragone. Nel suo ciclo di vita un’automobile alimentata a combustibili fossili brucia in media l’equivalente di una catasta di barili di petrolio alta come un grattacielo di 25 piani. Tenendo conto del riciclo dei materiali usati per le batterie andrebbero perduti soltanto 30 chili circa di metalli, più o meno le dimensioni di un pallone da calcio.” A differenza delle auto convenzionali, le batterie per auto elettriche fanno parte di un ciclo di economia circolare in cui i materiali che le compongono possono essere riutilizzati e recuperati per produrne di nuove. Secondo lo studio, nel 2035 più di un quinto del litio e il 65% del cobalto necessari per produrre una batteria nuova potrebbero provenire dal riciclo di batterie usate. T&E sostiene che i tassi di riciclo richiesti da un nuovo provvedimento legislativo della Commissione Europea ridurranno drasticamente la domanda di materiali vergini per i veicoli elettrici, cosa che non è verosimile per le automobili convenzionali a combustibili fossili. Da quanto emerge dallo studio, già nel 2021 l’Europa potrebbe produrre una quantità di batterie sufficiente per rifornire il proprio mercato di EV. Per il prossimo decennio sono già in progettazione 22 gigafactory di celle di batterie, la cui capacità di produzione toccherà i 460 GWh nel 2025, abbastanza per equipaggiare 8 milioni di automobili elettriche a batteria. Carlo Tritto aggiunge: “Si tratta di una situazione ben diversa da quella che vede attualmente il parco automobili europeo dipendere quasi totalmente dalle importazioni di petrolio greggio. La migliore efficienza delle batterie e l’incremento del processo di riciclo permetteranno all’UE di dipendere assai meno dalle importazioni di materie prime di quanto non avviene per il petrolio.” Dallo studio emerge che, nel complesso, i veicoli elettrici sono decisamente migliori anche dal punto di vista climatico, poiché nel loro ciclo di vita richiedono il 58% di energia in meno rispetto a un’automobile a benzina. Inoltre, come dimostra  lo strumento di analisi del ciclo di vita  elaborato da T&E, anche in Polonia, il paese in cui l’approvvigionamento di elettricità è più inquinante, gli EV emettono il 22% di CO2 in meno rispetto alle automobili a benzina. “Affinché l’Europa possa finalmente abbandonare le auto a combustibili fossili deve fissare una data per la loro graduale eliminazione entro il 2035“, si legge nelle raccomandazioni finali dello studio. Sono altresì fondamentali “politiche per utilizzare le auto in modo più efficiente”, puntando soprattutto sulla “mobilità condivisa e il minor uso di auto private nelle città”.

Aci, Angelo Sticchi Damiani: "L'auto verde inquina come le altre, l'Europa ci uccide per nulla". Pietro Senaldi Libero Quotidiano il 27 luglio 2021. «In Italia il comparto auto, tra produzione, componentistica, riparazioni, vendita e tutto quello che gira intorno alle quattro ruote impiega un milione e seicento mila persone e rappresenta il 20% del prodotto interno lordo. Solo nella fase della costruzione delle vetture, tanto per fare un esempio, sono impegnate oltre cinquemila e cinquecento imprese e quasi e circa 274mila lavoratori. Costituiscono l'11% della manifattura italiana. Per seguire le direttive dell'Unione Europea in materia di ambiente rischiamo di azzerare tutto questo, ma è evidente che, se si ammazza il settore, si uccide il Paese. C'è qualcuno, a Bruxelles, spinto da motivi ideologici. Ha perduto lungimiranza e senso pratico. Mi confortano le parole dei ministri Giorgetti e Cingolani, allo Sviluppo e alla Transizione Ecologica, i quali hanno avuto il coraggio di dire la verità: l'esagerata spinta ambientalista è un killer per l'economia e brucerà milioni di posti di lavoro, perché senza passaggi graduali e studiati ci sarà un bagno di sangue. Io lo dico da tre anni, non ascoltato, che essere realisti, che guardare ai numeri, non vuol dire essere un anti-ambientalista, un vecchio dinosauro che non vuole entrare nella modernità. Ora finalmente se ne è accorto anche qualcun altro». Angelo Sticchi Damiani non ama far politica né si atteggia a guru del pensiero economico. «Le speculazioni non fanno per me», premette. «Non so se ci sono interessi economici miliardari che spingono a distruggere i pilastri dell'economia europea a vantaggio di altre, né tanto meno ho idea di chi ci sia dietro questi interessi. Io faccio un discorso pratico: la lotta all'inquinamento è un dovere di tutti, ma va programmata nel tempo. Ci sono modi efficaci per ridurre le emissioni inquinanti delle auto senza provocare calamità sociali». Il discorso del presidente dell'Aci è semplice: una vettura euro 6 di seconda generazione, soprattutto se alimentata con carburanti ecologici, inquina poco più di un'auto elettrica, costa meno, al momento resta più funzionale e garantisce posti di lavoro. La crociata contro i motori a scoppio non porta significativi benefici all'ambiente, in cambio devasta economicamente la società. Inoltre, inferisce un colpo mortale al made in Italy, che deve molto ai marchi Ferrari, Lamborghini, Maserati. «Ma lei immagina qualcuno che compra una Ferrari totalmente elettrica? Purtroppo ha ragione Giorgetti: la rivoluzione verde rischia di far chiudere la Rossa».

Davvero queste case non possono riconvertirsi?

«Molto difficile, con un motore elettrico la Ferrari perderebbe quasi tutto il suo fascino. Vale come per gli orologi: quelli al quarzo segnano la stessa ora di quelli... a movimento meccanico, ma chi ama gli orologi li sceglie perché sono eterni, sono dei gioielli, il loro meccanismo è un'opera d'arte, proprio come i motori di Maranello».

Presidente, fin qui l'analisi. Lei che cosa suggerisce?

«Per gestire la transizione ecologica senza fare danni non basta intendersi di ambiente, bisogna conoscere il mercato e le reali condizioni d'uso. Nel mese di dicembre l'auto elettrica ha toccato il 6% del venduto; nel 2030 sarà il 20%».

Con i progressivi divieti alla circolazione delle auto a benzina, le elettriche aumenteranno...

«Lei la fa facile. Le auto elettriche sono poche perché costano molto e non sono pratiche. Imporle, mettendo fuori mercato le altre, impedisce la mobilità alla maggioranza degli italiani, che non hanno i soldi per comprare un'auto verde. E poi c'è il problema delle centraline di ricarica sul territorio: sono poche e le batterie non garantiscono un'autonomia concreta superiore ai 200/300 chilometri, sempre che uno non accenda il satellitare o l'aria condizionata».

Non si possono utilizzare i soldi del Recovery Plan per rafforzare la rete di centraline elettriche?

«Ma sarà anche fatto, tuttavia è un'operazione lunga e costosa. Ci vorranno alcuni anni per disseminare il Paese di stazioni di ricarica. E poi non si creda che l'energia elettrica sia gratis, disponibile in misura illimitata, e non inquini. Se a Milano, o a Roma, circolassero solo vetture verdi, non ci sarebbe abbastanza energia elettrica per illuminare le città. Fare il pieno di elettricità a una media vettura equivale al consumo di una famiglia di 4 persone per 6 giorni, ossia circa 50 kWh».

Lei detesta l'auto elettrica?

«Per niente, la amo. Ne possiedo una, è scattante e silenziosa. Però so che oggi l'auto elettrica non è per tutti; è un lusso, sia in termini economici che di utilizzo. È funzionale per le tratte brevi. Quindi è ancora soprattutto una city car».

Adesso non mi dirà che le auto non elettriche non inquinano?

«Non glielo dico, però occorre distinguere. In Italia circolano 35 milioni di automobili. Oltre un terzo di esse è altamente inquinante, non vale nulla sul mercato e ha più di dodici anni. Sono veicoli euro zero (3,6 milioni), euro 1 (un milione), euro 2(3 milioni) ed euro 3(4,5 milioni). La gente se le tiene perché non può permettersi di sostituirle. Le euro 0 inquinano 28 volte più di un euro 5 o un euro 6 e sono estremamente pericolose, perché, siccome sono vecchie e obsolete, chi li guida ha otto volte le probabilità di farsi male in un incidente rispetto a chi ha un'automobile recente».

Propone degli incentivi alla rottamazione?

«Vanno bene per smaltire vetture pericolose e che vengono usate di rado, ma che comunque inquinano, anche solo restando ferme. Lo Stato dia duemila euro a chi le rottama, denaro in contante non bonus per prendere il tram, anche perché nell'ottantadue per cento dei Comuni italiani non c'è trasporto pubblico efficiente, così ammoderna il parco auto. E poi, soprattutto, smetta di rendere vantaggioso il fatto di tenersele».

Se la chiave non sono gli incentivi alla rottamazione, cosa può invece esserlo?

«Siccome è impensabile appiedare di colpo l'Italia e togliere a milioni di cittadini il diritto alla mobilità, come Aci abbiamo presentato una proposta che è ora allo studio in commissione parlamentare per favorire incentivi usato su usato. Se un terzo dei veicoli inquina 28 volte più degli altri, il punto è spostare chi guida vetture vecchie verso le nuove. Se convinco un proprietario di euro 0 o 1 a far rottamare il suo veicolo e prendersi un euro 5 senza fargli spendere troppi soldi, abbatto l'inquinamento, non uccido un settore e metto una persona in condizioni di guidare un'automobile più sicura. Certo, non puoi vendergli un'auto già condannata a morte da norme che la mettono fuori legge».

E come fa a convincerlo?

«Lo Stato deve sostenere l'acquisto con consistenti incentivi ed abbattendo almeno del 50% l'imposta provinciale di trascrizione».

Ma l'auto verde inquina comunque dimeno...

«Per valutare il potenziale inquinante di un veicolo non bisogna limitarsi a calcolare le sue emissioni quando circola; va fatta una comparazione totale, dalla costruzione alla rottamazione. L'auto verde è più inquinante in fase di produzione e soprattutto di smaltimento, a causa delle batterie, le quali peraltro possono diventare mortali in caso di incidente. Se qualcuno ci mette le mani può restare fulminato per un cortocircuito. Seve molta accortezza».

Il vantaggio ambientale dell'auto elettrica è nella mancata combustione...

«Anche l'energia elettrica ha una produzione poco sostenibile, almeno fino a quando non riusciremo a ricavarla totalmente da fonti rinnovabili. La gente dimentica che oggi la otteniamo anche da carbone, gas e petrolio. E per produrre più energia elettrica, stressiamo le centrali. In sostanza questa rivoluzione verde delle quattro ruote per ora si traduce soprattutto in uno spostamento delle fonti di inquinamento».

Però quando viaggia l'auto elettrica inquina molto meno...

«Bisogna però vedere se l'obiettivo è realizzare lo slogan delle emissioni zero costi quel che costerebbe, anche al prezzo di distruggere l'economia occidentale, o se invece è ridurre l'inquinamento al massimo. In tal caso, lo sviluppo dei motori classici garantisce il raggiungimento dello scopo. In meno di dieci anni abbiamo fatto macchine tradizionali che hanno un impatto ambientale complessivo simile a quello delle auto elettriche. Se anziché 0, le emissioni sono 0,00..., è un risultato straordinario e si evita di fare danni incalcolabili. Però attenzione, sotto un certo aspetto la vettura verde è più inquinante anche quando viaggia».

In che circostanza?

«È più pesante, a causa delle batterie e quindi solleva più polveri sottili in particolare quando non piove da una decina di giorni».

Perché allora questa lotta al motore termico: questione di moda, o sindrome cinese?

«La risposta non mi compete. Posso solo affermare che quella che appare un'ossessione ambientalista - non l'attenzione all'ambiente, che condivido-, è un problema che riguarda tutta l'Europa e sono contento che l'Italia se ne sia accorta. Dovrebbe fare asse con Germania e Francia per ammorbidire certe leggi decisamente ideologiche. È inaccettabile essere in balia di integralisti che ti dicono dall'oggi al domani che una cosa non si fa più. L'ideologia è nemica del buonsenso, fa sempre e solo danni. Quando poi si sposa con la scarsa conoscenza, il disastro è totale». 

Carlo Cambi per "la Verità" il 22 luglio 2021. Con l'auto elettrica lo Stato rischia di restare al verde. Chi è in «emissione per conto del pianeta» e vuole mandarci a piedi non se ne cura, ma è uno degli interrogativi più pesanti e oscuri. Può lo Stato rinunciare agli incassi sui carburanti? E una volta che nessuno più comprasse benzina e gasolio dove va a prenderli i soldi? In Italia il fisco incassa circa un euro per ogni litro di carburante acquistato alla pompa. Il Green deal concepito a Bruxelles già stabilisce che il prelievo minimo fiscale passa per la benzina da 0,359 a 0,385 euro e da 0,35 a 0,419 euro per il gasolio. Sono altri 5 centesimi in più al litro. Ma tutto questo dura fino al 2030 quando poi le auto a motore endotermico saranno una specie in via di estinzione perché nel 2035 verranno messe fuori mercato. È inquietante pensare quanto costerà circolare dopo quelle date per chi non si sarà potuto comprare quattro ruote a batteria. È bastato un anno di pandemia per far perdere all'erario circa 8 miliardi tra Iva e accise. Se nessuno facesse più il pieno il buco sarebbe attorno ai 37 miliardi. Andando più nello specifico si scopre che dai prodotti petroliferi lo Stato incassa, oltre a quelle sui carburanti che sono il 75% della voce accise, un altro 10% delle accise sul gas naturale e un ulteriore 8% sull'energia elettrica prodotta con combustibili fossili. Il 99,3% degli incassi da accise dello Stato è assicurato dal petrolio: sono 33,7 miliardi a cui va aggiunta l'Iva. Giusto per saperlo in tempo di virus cinese: l'incasso delle accise sui carburanti finanzia l'intero sistema sanitario nazionale. Sempre dalla pompa lo Stato incassa le tasse su reddito dei gestori dei distributori e sui profitti delle imprese petrolifere e di distribuzione. Se facciamo 50 euro di gasolio si ripartiscono così: il 58% e cioè 29 euro vanno allo Stato che si prende 27 euro di accise e Iva e 2 euro di gettito fiscale sulle attività, 40 % cioè 20 euro lordi alla compagnia petrolifera, 2% cioè 1 euro lordo al gestore dell'impianto. Stando così le cose l'evasione sui carburanti in Italia si aggira attorno ai 3 miliardi all'anno attraverso soprattutto le cosiddette «pompe bianche», cioè gli impianti di rifornimento no logo. Ma il capitolo dello sconvolgimento fiscale non è finito. Dal prossimo anno tutti i carburanti saranno tassati: non ci saranno più esenzioni per il cherosene degli aerei, per il greggio delle navi, per il gasolio agricolo e dei motoscafi. Siccome delle loro emissioni nulla si sa è possibile che questi mezzi anche dopo il 2030 continueranno a viaggiare. A finanziare lo Stato ci penseranno probabilmente in parte loro anche se giganti come Lufthansa hanno già detto che non intendono pagare perché l'Ue consentirà a vettori di altri continenti di viaggiare generando di fatto un dumping contro le compagnie continentali. A Bruxelles hanno fatto sapere che per navi e aerei gli Ets (sono i certificati che consentono di inquinare pagando una tassa) saliranno a 50 euro a tonnellata di CO2 emessa. Un volo Roma-New York e ritorno emette una tonnellata di gas a passeggero. La transizione verde per lo Stato non è un pasto gratis, ma il conto lo pagherà sempre il cittadino. Tornando alle automobili c'è da considerare il capitolo Iva sull'acquisto delle auto. Nel 2020 solo per l'effetto pandemia il settore auto ha fatturato circa 10 miliardi in meno per minori vendite: lo Stato ci ha rimesso 2 miliardi di Iva e circa 300 milioni di tasse d'immatricolazione, senza contare il minor gettito sui redditi. C'è poi il capitolo tasse di circolazione. Come incentivo all'acquisto di auto elettriche (in Italia siamo fermi al 7,9% del mercato di cui solo il 36% è di elettriche pure) 18 Regioni su 20 non fanno pagare il bollo per cinque anni. E c'è anche da capire se possa resistere il bollo auto applicato alle quattro ruote a carburante fossile avendo decretato per legge che sono un bene non più commerciabile. E qui si apre un'altra falla. Sono 6,6 miliardi all'anno che mancheranno alle Regioni. L'incasso complessivo che lo Stato fa ogni anno dal settore auto e affini è di circa 73 miliardi all'anno. È probabile che dagli oli lubrificanti fino ai meccanici nell'era del tutto elettrico tre quarti di quel gettito sparirà: sono 55 miliardi di entrate. Dopo il lucro cessante c'è la spesa emergente. La Commissione europea impone che si istallino stazioni di ricarica ogni 60 chilometri. La Corte dei conti europea ha già detto che per cogliere gli obbiettivi posti da Ursula von der Leyen bisognerebbe installare 3.000 colonnine al giorno considerando (è uno studio dell'Acea) che a oggi il 70% degli impianti di ricarica è concentrato in soli tre Paesi. La spesa? Una colonnina domestica che ricarica l'auto in una giornata costa 9.000 euro più Iva, una pubblica non meno di 40.000. Chi paga? Ah saperlo!

Sergio Barlocchetti per “La Verità” il 21 luglio 2021. È battaglia tra istituzioni europee e automotive. La volontà di affrettare la conversione energetica si sta scontrando con chi lancia l'allarme sulle conseguenze di scelte insensate, come vietare la vendita di mezzi a combustione interna dal 2035. Qualche mese fa Carlos Tavares, ad di Stellantis, aveva dichiarato che i governi stanno spingendo le nuove tecnologie prima di aver compreso il loro impatto ambientale complessivo. Alla presentazione del piano Fit for 55 dell'Ue, l'associazione dei costruttori Acea ha preso una posizione netta: «Vietare una singola tecnologia non è una soluzione razionale». L'invito è non demonizzare i motori a benzina e diesel, poiché la fisica insegna che le combinazioni ibride possono contribuire a raggiungere gli obiettivi ecologici. Per questo sempre più voci chiedono che nella valutazione del reale impatto ambientale dei veicoli sia tenuto in considerazione tutto il ciclo vita dell'automezzo, compreso quanto necessario in termini d'inquinamento per il riciclo e lo smaltimento delle parti. Irrealistico è anche pensare di installare dei punti di ricarica elettrica ogni 60 chilometri (e di idrogeno ogni 150) su tutto il territorio dell'Unione, perché significa installare 5,8 milioni di colonnine entro nove anni. Perplime pure l'idea di estendere il mercato delle emissioni (il cosiddetto Ets) anche ai produttori di mezzi per il trasporto su strada. Funziona bene per i settori più energivori, mentre che possa abbassare le emissioni degli stabilimenti di auto è da dimostrare. Ci sono poi le emissioni derivanti dalla produzione di batterie, ovvero dall'estrazione dei minerali nobili. Queste svantaggiano l'ecologia della filiera delle elettriche, eppure se i produttori non vendono un certo numero di automobili elettriche incorrono nelle multe della Ue. Il tutto per combattere gli ormai minimi inquinanti che escono dai tubi di scappamento (Euro7 in arrivo), ma soprattutto le emissioni di anidride carbonica, per le quali tutto il trasporto su gomma totalizza il 28% di quanto emetta l'Europa, il 15% a livello mondiale. Con Cina e Asia che se ne guardano bene da applicare simili misure. Se prendiamo come riferimento un'automobile che trasporti cinque persone per almeno 500 chilometri (utilitarie), tra la versione elettrica e quella con motore endotermico diesel Euro6 la prima darà veri vantaggi ambientali soltanto dopo averne percorsi almeno 150.000, sempre che abbiamo sostituito le batterie quando prescritto, poiché dopo cinque anni d'uso l'efficienza degli accumulatori attuali si riduce del 30%, e con loro l'autonomia. Ma per percorrere quel chilometraggio un automobilista medio impiega almeno 15 anni, periodo che vede spesso la necessità di cambiare mezzo per altri motivi. Comunque un tempo nel quale avremo dovuto cambiare batteria almeno tre volte. Ma l'auto elettrica costa circa il 25% in più di quella con motore endotermico e una batteria di ricambio anche 10.000 euro. La fabbrica cinese Polestar del gruppo Geely-Volvo ha analizzato il ciclo vita di una delle sue Model 2 paragonandola a una Xc40 a benzina. Ebbene, l'elettrica era più sostenibile soltanto dopo 75.000 chilometri, percorrenza che può già rivelarsi tale da richiedere la sostituzione per altri motivi. In teoria un'auto elettrica avrebbe meno costi di manutenzione, ma il prezzo del tagliando di un veicolo elettrico dipende da molti fattori tra i quali lo stato del sistema di raffreddamento delle batterie. Ne consegue che ogni 15-20.000 chilometri circa anche l'auto elettrica finisce in officina. Prendendo ad esempio il controllo dei 50.000 chilometri per l'elettrica Nissan leaf questo costa circa 150 euro, mentre per una Tesla model s sale a 650. Prezzi non molto differenti dai tagliandi delle auto tradizionali. Non si pensa poi al fatto che una batteria carica o scarica abbia il medesimo peso, mentre un serbatoio di benzina o diesel progressivamente si svuota. Le batterie pesano molto e quindi la macchina elettrica paga di più in termini energetici il trasporto di sé stessa. Moltiplichiamo per migliaia di viaggi e avremo vanificato una parte della maggiore efficienza del motore elettrico. Quanto alla produzione di energia, se deriva dal nucleare la mobilità elettrica ha maggiori possibilità di sostenersi, ma se i kilowatt provengono da centrali a carbone oppure dal poco rinnovabile disponibile il gioco non vale la candela. Guardando all'Italia, se in Lombardia per produrre un kw/h di energia elettrica si emettono in atmosfera 180 grammi di anidride carbonica, in Sicilia ce ne vogliono 350. In teoria lo scorso anno le flotte delle case automobilistiche dovevano raggiungere una media di emissioni di CO2 delle auto vendute pari a 95 g/km ed entro il 2025 di circa 81 g/km. Valori severi e decisamente lontani da quelli delle centrali per la produzione di energia che non usano fonti rinnovabili. Se si moltiplica la quantità di anidride carbonica immessa in atmosfera per far arrivare nella batteria di un automezzo un kilowatt d'energia, e quanti chilometri si possono fare con questa quantità prima che la carica si esaurisca, con una media di 20 Kwh per 100 chilometri il rapporto diventa 5 chilometri con 1 Kwh, che se prodotto a 350 grammi di CO2 equivale a 70 grammi di CO2 per chilometro, quindi poco meno dei limiti imposti oggi alle endotermiche, mentre a 180 gr/kw/h fa 36 grammi, un buon valore. Ma se occorrerà molta più energia a tutti, difficilmente potremo produrla con l'idroelettrico, l'eolico o il solare. Senza considerare che il prezzo italiano del Kwh non è dei più economici e che ci saranno rincari.

Auto elettrica: quanto mi costa? Pubblicato il 28 Ottobre 2021 su automobile.it.

La mobilità elettrica è un’alternativa più ecologica all’auto a carburante, ma quanto costa mantenere un’auto elettrica? Se il mercato dell’auto fa i conti con un forte calo delle immatricolazioni, il comparto delle auto a batteria ha invece conosciuto una forte crescita. Secondo i dati più recenti forniti da Motus-E, associazione che riunisce i principali stakeholder della mobilità elettrica, il mese di agosto 2021 ha fatto registrare una crescita di oltre l’80% dei Plug-in Electric Vehicle (elettriche batteria e ibride plug-in).

Costi burocratici

Fino a non molto tempo fa eravamo abituati a pensare alle auto elettriche come costose alternative pulite alle auto a benzina o Diesel. Prezzo d’acquisto più elevato, poche colonnine per la ricarica, costi di manutenzione imprevedibili. Oggi la situazione non è più questa. Un recente studio svolto da Altroconsumo in collaborazione con altre organizzazioni di consumatori a livello europeo, dimostra che i costi da sostenere per possedere un veicolo elettrico sono in realtà inferiori alle alternative.

L’indagine ha tenuto conto di tutte le voci che vanno a comporre il costo finale: dal prezzo dell’auto alla manutenzione, il rifornimento, l’assicurazione e le tasse. È stato tenuto anche conto degli incentivi, rifinanziati tramite il collegato fiscale alla legge di bilancio e quindi ancora validi nel 2021, e dell’eventuale ricavo da una successiva vendita.

Incentivi allettanti

Confrontando le singole voci di spesa dei veicoli elettrici con quelle delle auto tradizionali, la convenienza finale delle prime è in parte influenzata dalla presenza dell’Ecobonus del Governo. Fino al 31 dicembre 2021 restano in vigore diversi incentivi per chi acquista un veicolo elettrico. Lo scopo è rendere più ecologico il parco veicoli circolanti, sostituendo quelli vecchi e inquinanti con altri a motore elettrico, più puliti. Vediamo quali sono gli incentivi e a che condizioni si ottengono. Contributo di 2.000 euro per l’acquisto di un’auto a basse emissioni (meno di 60 g/km di CO2), con un prezzo fino a 50.000 euro, Iva esclusa, solo però a due condizioni: che il venditore conceda a sua volta uno sconto di 2.000 euro e che, contestualmente all’acquisto, venga rottamato un veicolo immatricolato prima del 1° gennaio 2011, di classe inferiore all’Euro 6. Il contributo scende a 1.500 euro se il veicolo acquistato ha emissioni comprese tra 61 e 135 g/km di CO2 e se il suo prezzo di acquisto è inferiore ai 40.000 euro, Iva esclusa. Il venditore deve concedere uno sconto di pari importo. Il contributo scende ancora a 1.000 euro per auto che emettono meno di 60 g/km di CO2 se non si rottama contestualmente l’auto vecchia. Anche in questo caso il venditore deve a sua volta accordare uno sconto di 1.000 euro. Sconto del 40% sul prezzo di vendita di un veicolo elettrico, di potenza inferiore a 150 kW, per nuclei familiari con Isee inferiore a 30.000 euro. Il prezzo dell’auto che si compra o si prende in leasing deve a sua volta essere inferiore a 30.000 euro, Iva esclusa. Vi è poi un’agevolazione per l’acquisto (anche in leasing) di moto e quadricicli elettrici o ibridi che consiste in un contributo del 30% del prezzo, fino a un massimo di 3.000 euro. Il contributo sale al 40% se chi acquista rottama una moto di classe fino all’Euro 3: lo sconto arriva a un massimo di 4.000 euro.

Il bollo non si paga

Un’altra buona notizia per chi sta pensando di acquistare un veicolo elettrico è quella che riguarda le tasse.

Su autoveicoli, motocicli e ciclomotori a due, tre o quattro ruote, azionati con motore elettrico, non si pagano tasse automobilistiche per cinque anni dalla data di prima immatricolazione. Alla fine di questo periodo, per gli autoveicoli elettrici si deve versare una tassa pari a un quarto dell’importo previsto per i corrispondenti veicoli a benzina, mentre per motocicli e ciclomotori la tassa va corrisposta per intero. Queste è la regola generale, ma molte regioni e provincie autonome hanno introdotto ulteriori agevolazioni, per esempio i residenti in Lombardia o Piemonte proprietari di veicoli elettrici sono esentati dal pagamento della tassa automobilistica per sempre: l’auto elettrica non paga letteralmente mai il bollo auto. Altre regioni hanno esteso l’esenzione a un periodo limitato di anni dopo i primi cinque. Il consiglio è di verificare sul sito della propria regione se sono in vigore ulteriori agevolazioni.

Anche l’Rc auto conviene

Il risparmio della polizza Rcauto di un’auto elettrica rispetto a una a benzina può superare il 50%. Lo rivelano le inchieste che Altroconsumo svolge in continuo in molte città d’Italia. Eccone due esempi. A Verona, un 50 enne, cu1, guida libera, massimale 50 milioni di euro, auto tenuta in box privato e una percorrenza di 10.000/20.000 km all’anno quando spende per l’assicurazione? Se ha una Skoda Enyaq iV 60 executive (elettrica), il suo premio annuo è pari a 250 euro, se invece la sua auto è una Skoda Karoq 1.0TSI Executive KW 85 (benzina), il premio annuo è di 580 euro: la differenza corrisponde a circa il 57%. A Varese, un 40 enne, cu1, guida esperta, massimale 10 milioni di euro, auto in box privato e percorrenza sempre di 10.000/20.000 km/anno, con una Volkswagen ID3 58kWh (elettrica) paga un premio annuo di 151 euro, mentre con una Golf 2.0 benzina 8a serie spende 219 euro l’anno. La differenza è di circa il 31%.

Consigli prima di firmare (e di rinnovare)

Prima di stipulare la polizza Rc auto è bene prima di tutto aver chiare le proprie necessità (utilizzo della vettura, chilometri medi percorso durante l’anno, dove la tieni di notte, quali sono i guidatori che la potrebbero utilizzare). Confronta sempre più offerte, non solo il primo anno ma anche quelli successivi. La fedeltà molto spesso non paga. Lo dimostra anche in questo caso un’indagine condotta da Altroconsumo a marzo 2021, per verificare i comportamenti delle assicurazioni nel periodo post lockdown, quando la quasi totalità delle auto era ferma. È emerso che il 94% degli automobilisti interpellati tra i 25 e i 79 anni rimane fedele alla propria compagnia, ma di questi (in assenza di incidenti) solo il 35% ha pagato un premio inferiore rispetto all’anno precedente, e tra l’altro nella metà dei casi il risparmio ottenuto è stato inferiore ai 25 euro. Il 26% ha invece pagato di più, il 39% ha avuto un premio invariato, mentre al 6% è stato offerto uno sconto su una polizza diversa da quella Rc auto. Risultati abbastanza deludenti nonostante i mesi di fermo auto e conseguenti risparmi ottenuti dalle compagnie. Guardandosi intorno si può in molti casi trovare un’offerta più conveniente.

L’elettrico batte tutti

L’analisi di Altroconsumo è stata condotta su tre segmenti di auto: piccole, compatte e grandi. Ciò che sorprende dei risultati è che la convenienza dell’elettrico, e in parte delle vetture ibride plug-in, ma solo a condizione di ricaricarle frequentemente, è reale per tutte e tre le categorie.

I costi in 16 anni

Comprare e mantenere un’auto rappresenta un costo non indifferente: se ipotizziamo una durata di vita di 16 anni, anche con vari passaggi di mano, si arriva a parecchie decine di migliaia di euro. Si scopre però che, accorpando tutte le voci di spesa (svalutazione negli anni, rifornimenti/ricariche, tasse, Rcauto, manutenzione ordinaria), l’auto elettrica, con un costo totale di possesso di quasi 74mila euro, è più conveniente dell’auto diesel (oltre 78mila euro) e benzina (85mila). L’ibrido ricaricabile è la seconda scelta più economica (circa 77mila euro), ma solo se si usa l’energia elettrica molto più della benzina, a patto cioè di ricaricare l’auto con frequenza. Se questo è vero adesso con tutte le agevolazioni per l’acquisto ancora valide, cosa potrebbe succedere al decadere degli incentivi? In base alle stime sull’andamento del mercato e dei costi di produzione, anche senza Ecobonus, dopo una iniziale perdita di terreno le auto a motore elettrico dovrebbero tornare a essere le più convenienti già a partire dal 2024.

Gli scenari: nuova e usata

L’indagine svolta dalle organizzazioni di consumatori ha previsto diversi scenari. Il primo è quello dell’auto nuova, comprata nel 2021 e rivenduta dopo 4 anni con 48.000 km. In questo primo caso l’auto elettrica ha il costo più basso di tutti, pari a circa 32.000 euro, grazie agli incentivi. Chi la acquista di seconda mano nel 2025 e la rivende dopo altri 5 anni e altri 50.000 km, anche senza l’Ecobonus spende per l’elettrico appena più che per un Diesel (quasi 23.000 euro) e meno di tutte le alternative. Anche nel terzo scenario, quello di chi acquista l’auto di terza mano, dopo 9 anni di uso e 98mila km percorsi e la tiene 7 anni per poi rottamarla, l’auto elettrica, grazie a costi di ricarica e di manutenzione inferiori, è ancora una volta la più conveniente con un costo di 19.000 euro: il più basso in assoluto. Un’auto a benzina alle stesse condizioni gli costerebbe più di 25.000 euro. Quindi, immettere già oggi nel mercato un maggior numero di auto elettriche, può portare a benefici economici anche per i futuri acquirenti di quelle vetture quando saranno di seconda e terza mano. Oltre, ovviamente, al beneficio in termini di riduzione di emissioni di inquinanti e di CO2.

Ricarica sotto casa

In Italia a giugno 2021 si contavano quasi 12.000 colonnine su suolo pubblico o privato a uso pubblico per un totale di oltre 23.000 punti di ricarica. La Lombardia è di gran lunga la regione con più punti (18% del totale), mentre il Sud è assai meno servito. Il numero di postazioni pubbliche è in continuo aumento, ma se stai pensando di comprare o hai già acquistato un’auto elettrica, può essere conveniente far installare un punto di ricarica all’interno del tuo box o in prossimità dei posti auto condominiali oppure, se questi non ci sono, in uno spazio comune condominiale che potrebbe essere reso adatto a quest’uso. Per chi installa postazioni di ricarica per l’auto elettrica è prevista, fino al 2021, una detrazione fiscale per le spese sostenute. L’incentivo è previsto anche per le spese necessarie per aumentare la potenza del contatore (fino a 7 kW). Si recupera il 50% delle cifre pagate, fino a un massimo di 3.000 euro da ripartire in 10 anni. Conserva le fatture con codice fiscale del beneficiario della detrazione e natura dell’intervento e le ricevute dei pagamenti effettuati con mezzi tracciabili. Fino al 30 giugno 2022 per i privati e al 31 dicembre 2022 per i condomini, salvo proroghe attualmente in discussione, chi esegue una ristrutturazione con interventi che migliorano l’efficienza energetica, tramite il salto di due classi energetiche, o riducono il rischio sismico del condominio o dell’abitazione singola può contare su una detrazione del 110% delle spese sostenute, che gli verrà restituito in 5 anni. Se, insieme ai classici interventi come il cappotto termico e la sostituzione della caldaia, si installano anche colonnine o prese per la ricarica delle auto elettriche, anche queste beneficiano della detrazione del 110%. I limiti di spesa variano da un minimo di 1.200 euro a un massimo di 2.000 euro a seconda del numero di colonnine installate e alla tipologia di immobile. In ogni caso, al posto della detrazione puoi usufruire dello sconto in fattura o della cessione del credito. Pubblicato il 28 Ottobre 2021 

Le auto elettriche sono davvero ecologiche? Il tema dell'elettromobilità divide. Un esperto risponde alle domande chiave sulle auto elettriche. Da tcs.ch. Quanto è davvero ecologica l'elettromobilità se non si misura solo il consumo, ma si tiene conto anche della produzione dell'auto e della fornitura di energia elettrica? Per sfatare molte mezze verità, il TCS ha chiesto a Christian Bauer, collaboratore scientifico nel campo dell'energia e dell'ambiente all' Istituto Paul Scherrer, di rispondere ad alcune delle domande più importanti.

Quanto CO₂ emette un'auto elettrica dalla sua produzione al suo smaltimento?

Dipende principalmente dalla provenienza dell'elettricità utilizzata per caricare la batteria. Un'autovettura di media cilindrata in Svizzera emette in media poco meno di 30 tonnellate di gas serra, facciamo l'ipotesi con un chilometraggio pari a 200.000 chilometri. Un'auto a benzina comparabile produce più del doppio delle emissioni dalla produzione allo smaltimento. Il bilancio climatico decisamente favorevole dell'auto a batteria è dovuto alla disponibilità in Svizzera di energia elettrica povera di emissioni CO₂ - le centrali idroelettriche e nucleari sono molto rispettose del clima.

Le auto elettriche sono ecologiche se l'elettricità non è rinnovabile?

L'impronta di carbonio di un'auto elettrica è migliore tanto quanto in funzione della quantità di elettricità che è generata da fonti di energia rinnovabili. Proprio perché le energie rinnovabili stanno rimpiazzando sempre più i combustibili fossili nella produzione di energia elettrica, il passaggio alle auto elettriche sta dando un contributo sempre maggiore alla protezione del clima. Anche in Germania, dove circa la metà dell'elettricità è ancora prodotta da centrali elettriche a carbone e a gas, un'auto elettrica è più rispettosa del clima di un'auto a benzina. Il vantaggio è però minore rispetto alla Svizzera: invece di 30 tonnellate in Svizzera, la stessa auto elettrica in Germania produce oggi circa 50 tonnellate di emissioni di gas serra. In Europa, il passaggio alle auto elettriche per motivi climatici non è motivato solo in Estonia e in Polonia.

Quanta energia elettrica sarebbe necessaria per elettrificare completamente i trasporti?

La conversione dell'attuale flotta di autovetture in una flotta di auto con batterie elettriche richiederebbe un aumento del 20-25% del consumo di corrente elettrica in Svizzera.

Cosa succede alle batterie di un veicolo elettrico?

Già oggi esistono processi adeguati per il riciclaggio industriale delle batterie dei veicoli elettrici. Ciò significa che si possono recuperare materie prime come cobalto, litio, alluminio e rame. Un'altra possibilità potrebbe essere rappresentata dall'utilizzo "2nd life" delle batterie, ad esempio per batterie statiche per lo stoccaggio dell'elettricità a casa. Dopotutto, una batteria di solito non si rompe dopo 200.000 chilometri. Solo la sua capacità di stoccaggio diminuisce, ma questo è meno importante per lo stoccaggio di elettricità stazionaria che per l'auto.

Un'auto elettrica emette smog elettrico?

È impensabile che tra qualche anno le auto elettriche saranno vietate a causa delle emissioni di elettrosmog troppo elevate. Non si misura sui veicoli elettrici una radiazione elettromagnetica.

Il futuro non appartiene invece all'idrogeno e al gas?

Non credo, perché i motori elettrici a batteria sono molto più efficienti che tutti gli altri. Almeno per quanto riguarda le autovetture, le auto a batteria sono interessanti perché presto saranno in grado di soddisfare praticamente tutte le esigenze, sempre che l'infrastruttura di ricarica sia ampliata di conseguenza. Bisognerà trovare soluzioni per coloro che non vivono in case unifamiliari e che non hanno un proprio sistema di ricarica.

La situazione potrebbe essere diversa per i camion, in particolare per le lunghe distanze con carichi pesanti, in futuro potrebbero essere utilizzati veicoli a celle a combustibile che utilizzano l'idrogeno come carburante. Le batterie - almeno oggi - non offrono ancora una densità di immagazzinamento dell'energia sufficientemente elevata per tali applicazioni. 

Nella piccola distribuzione delle merci, tuttavia, vediamo sempre più spesso furgoni per le consegne e camioncini alimentati da batterie come un'alternativa senza emissioni ai veicoli diesel. I veicoli alimentati a gas sono particolarmente rispettosi dell'ambiente se il gas è prodotto da rifiuti organici biodegradabili o da simili materie prime rinnovabili. Tuttavia, questi non sono disponibili in quantità sufficiente per sostituire la benzina e il diesel su larga scala.

E che dire dell'energia solare nella circolazione?

L'energia solare può e deve svolgere un ruolo importante per i trasporti. Generare elettricità grazie all'energia solare ha un grosso potenziale, per questo dobbiamo trovare il modo di usare questa elettricità come carburante per le auto, grazie all'accumulo d'energia, poiché le auto alimentate a batteria non sono sempre collegate quando il sole splende. Le batterie possono essere collocate in cantina, queste immagazzinano l'elettricità generata a mezzogiorno e la rilasciano alle auto durante la notte. Per lunghi periodi, tuttavia, l'energia solare può essere immagazzinata anche sotto forma di idrogeno o di combustibili sintetici (ad es. gas naturale sintetico). L'energia solare viene convertita in idrogeno per mezzo dell'elettrolisi, che può essere ulteriormente elaborata con CO₂ per produrre, se necessario, combustibili sintetici.

Le auto ibride sono più ecologiche delle auto elettriche?

I motori elettrici sono migliori dei motori a combustione in termini di efficienza, e per quanto riguarda gli ibridi la maggior parte dell'energia motrice proviene dal motore a combustione. Per gli ibridi, i motori elettrici vengono utilizzati solo per supportare il motore a combustione - ma questo può comunque comportare un risparmio di carburante fino al 30%.

L'ESPERTO

Christian Bauer (43) è collaboratore scientifico nel laboratorio di analisi dei sistemi energetici dell'Istituto Paul Scherrer. Si occupa principalmente della valutazione del ciclo di vita dei mezzi di trasporto e delle tecnologie energetiche. Il suo obiettivo è quello di rispondere alla domanda quali tecnologie possono dare il loro contributo alla trasformazione verso un sistema energetico sostenibile.

L’Auto ad Idrogeno.

Il percorso a ostacoli dell'idrogeno verde. Daniele Di Stefano su La Repubblica il 23 agosto 2021. I colli di bottiglia nel cammino verso l’idrogeno sostenibile sono tecnologici, economici, normativi. Si fa presto a dire idrogeno sostenibile. Abbiamo letto lunghe pagine sul più leggero elemento della tavola periodica e sul ruolo che avrà nella decarbonizzazione dell’economia. Abbiamo letto che la strategia europea prevede almeno 40 gigawatt di elettrolizzatori per produrre idrogeno entro il 2030 e poi, al 2050, “applicazione su larga scala in tutti i settori difficili da decarbonizzare”.

Chi ha detto che l'idrogeno è 'green'? Potrebbe inquinare molto più di quello che crediamo. Eugenio Occorsio su La Repubblica il 23 agosto 2021. Un nuovo studio solleva molti dubbi: il suo utilizzo massiccio come fonte di energia scaricherebbe nell'atmosfera molti più gas serra di quanto si pensava e addirittura di più delle fonti fossili conosciute. "Definirlo una fonte a zero emissioni è totalmente sbagliato". Si fa presto a dire idrogeno. Visto in tutto il mondo come una delle più promettenti fonti di energia nell'era post-fossile, ora torna sul banco degli imputati. Un'analisi pubblicata sul New York Times, quindi tutt'altro che una fonte negazionista sull'emergenza climatica, lancia un'inquietante serie di dubbi sulla possibilità effettiva di poter usare questa fonte, teoricamente la più abbondante esistente in natura, su larghissima scala.

La via italiana all'idrogeno: ecco progetti e idee in azione. Claudio Gerino su La Repubblica il 23 agosto 2021. Per separare l’idrogeno dall’ossigeno serve molta energia, finora ricavata da combustibili fossili. Anche nel nostro paese si comincia a cercare come produrlo con metodi sostenibili. Una panoramica di quel che si sta facendo. Secondo i dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, un chilo di idrogeno prodotto da gas naturale costa in media due dollari, da fonti rinnovabili cinque. Il nodo principale per produrre idrogeno in grado di alimentare industrie, trasporti e abitazioni private è tutto qui. L’Italia, come altre nazioni europee, è impegnata a trovare il modo di rendere competitiva la produzione di idrogeno attraverso le energie rinnovabili.

Ubs ci crede: il sistema idrogeno varrà 140 mila miliardi di dollari entro il 2050. Eugenio Occorsio su La Repubblica il 23 agosto 2021. Un corposo report della banca analizza il mercato, le differenze tra i Paesi, il ruolo chiave della Cina, i campi di applicazione più promettenti. E prevede un drastico calo di prezzo nei prossimi 10 anni. Gli investimenti in tutta la catena del valore connessa all’idrogeno, dalla produzione alle infrastrutture per la distribuzione e lo stoccaggio, raggiungeranno da qui al 2050 la cifra quasi stellare di 140 trilioni, ovvero 140mila miliardi, di dollari. Però, dopo tanto impegno, il pianeta potrà disporre di una fonte energetica sostanzialmente pulita e soprattutto inesauribile a prezzi progressivamente e sensibilmente decrescenti: caleranno del 75% già alla fine di questo decennio e poi di un altro 50% entro la metà del secolo.

Tutte le tecnologie che portano alla decarbonizzazione. Inside Over il 28 luglio 2021. La partita della decarbonizzazione dei sistemi energetici è una delle più importanti e strategiche dell’era presente. Rappresenta, infatti, una sfida destinata a condizionare l’evoluzione delle economie e delle società più avanzate negli anni a venire, a creare nuovi mercati, a coniugare i temi dello sviluppo e della tutela ambientale. La decarbonizzazione non sarà però un pasto gratis. Né potrà avvenire dall’oggi al domani: richiederà un salto tecnologico capace di rendere disponibili nuove fonti di generazione energetica, nuove innovazioni abilitanti, nuovi paradigmi produttivi. Da portare a piena maturità prima del loro inserimento sul mercato. Ma quali sono le tecnologie più importanti per definire le vie della transizione energetica e del superamento del carbonio? Nonostante la pandemia di Covid-19, vengono sempre più sviluppate nuove tecnologie volte a aumentare l’impatto delle fonti pulite sul contesto energetico contemporaneo, descritte anche dall’Agenzia Internazionale dell’Energia in un report dell’ottobre 2020. Una prima innovazione arriva dalla disponibilità di reti di trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica resistenti e resilienti. Capaci di assicurare, grazie alle tecnologie innovative a disposizione e ai sensori IoT, il matching ideale tra domanda e offerta, tra generazione e consumo. CESI, società milanese leader mondiale nel testing e nella consulenza energetica, con un’esperienza pluridecennale nel campo dell’innovazione tecnologica, è tra le società che maggiormente puntano sullo sviluppo delle smart grids nei decenni a venire, testandole nel proprio Flex Power Grid Laboratory di Arnhem, in Olanda. KEMA Labs (la Divisione di Testing, Ispezione e Certificazione del Gruppo CESI), entro cui questi laboratori sono incorporati, lavora anche a trovare tecnologie alternative al gas di esafluoruro di zolfo (SF6) per la gestione dei quadri delle reti ad alto voltaggio. Nelle apparecchiature di comando con isolamento in gas, CESI, coerentemente con la sua missione di aiutare le società clienti e partner a ottenere una completa decarbonizzazione, sta sviluppando tecnologie “verdi” per trovare alternative a un gas ritenuto importante per il settore energetico ma al tempo stesso dotato di un elevato impatto inquinante. La necessità di aziende, governi e utilities di passare, nei mix energetici, dalle fonti fossili alle rinnovabili, nel contesto di una ciclicità non prevedibile della disponibilità di fonti per la generazione, impone poi la necessità di sviluppare tecnologie di stoccaggio all’altezza delle necessità dei sistemi. Questo per evitare dispersioni eccessive o asimmetrie dannose tra i momenti di picco di domanda e quelli di offerta di energia. Oggigiorno le tecnologie più diffuse, nota Energy Journal, magazine pubblicato da CESI sono basate su batterie elettrochimiche, che negli ultimi anni sono state oggetto di numerose innovazioni in termini di miglioramento di performance, permettendo al contempo di realizzare impianti con capacità sempre maggiori: un esempio è sicuramente dato dall’australiana CEP Energy nel Nuovo Galles del Sud, che intende costruire il più grande impianto di accumulo al mondo, con una capacità totale di 1,2 GW.

L’innovazione è il driver che sta creando anche altre forme di sviluppo in materia. Un’altra compagnia australiana, la Lavo, sta sviluppando sistemi di stoccaggio basati sull’idrogeno verde, ovvero ottenuto da fonti di energia rinnovabile. Separato dall’acqua per elettrolisi, esso può essere utilizzato nei cosiddetti settori “hard-to-abate”, come l’industria siderurgica e chimica. L’idrogeno come fattore di decarbonizzazione è oggi fortemente valorizzato nelle strategie nazionali energetiche di diversi Paesi, e pure l’Unione Europea ha proposto una strategia per una catena del valore dell’idrogeno nel Vecchio Continente. Nuovi campi di applicazione per la decarbonizzazione riguardano infine il settore dei trasporti grazie alla mobilità sostenibile. Secondo un report Ispra, nel 2019 in Italia i trasporti sono stati responsabili del 23,4% delle emissioni totali di gas serra, con un aumento del 3,9% rispetto al 1990.  In particolare, i consumi di gasolio e benzina hanno rappresentato circa l’88% del consumo totale dei trasporti su strada. La decarbonizzazione dei sistemi di trasporto può giocare un ruolo fondamentale nell’alleviare il peso dell’inquinamento da mezzi di trasporto. L’Italia, in quest’ottica, è indietro nella corsa a una diffusione strutturata di veicoli elettrici e a basso tasso di inquinamento. “La vera sfida per facilitare la diffusione globale dei veicoli elettrici è, secondo l’Ad di CESI Matteo Codazzi, “lo sviluppo di una rete di infrastrutture di ricarica capillare e adatta tanto alle esigenze del cliente quanto della rete elettrica”. La tecnologia può contribuire ad aumentare l’interazione tra la rete in questione e i singoli veicoli attraverso lo sviluppo delle tecnologie per lo Smart Charging, “ovvero la possibilità di ottimizzare l’energia prelevata e immessa a seconda delle necessità del cliente e della rete elettrica”. Tecnologie, queste, che vengono testate e sviluppate nei laboratori KEMA Labs, al fine di contribuire a valutare la maturità e la sostenibilità dell’innovazione, vero volano per conseguire una strutturata decarbonizzazione. Obiettivo da coltivare pazientemente ma tutt’altro che utopico, grazie alle nuove frontiere aperte dall’innovazione continua e dalle sue applicazioni di mercato.

 L'autogol dell'ambientalismo. Pompeo Locatelli il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ambientalismo ha preso possesso delle agende politiche dei governi che contano su scala globale. L'ambientalismo ha preso possesso delle agende politiche dei governi che contano su scala globale. E questo è un problema. Isaac B. Singer, Nobel per la Letteratura nel 1978, avvertiva: «Nel momento in cui qualcosa diventa un ismo sa già di falso». Singer metteva in guardia dalle ideologie. E l'ambientalismo espressione di una mentalità totalizzante all'ennesima potenza è l'ideologia ora imperante. Molto dannosa perché sta determinando scelte irrealistiche contro l'economia reale. Che vi siano decisioni da assumere in chiave sovranazionale per contrastare il surriscaldamento climatico è nelle cose, anche se la letteratura scientifica non arriva a giudizi condivisi e ciò sta a significare quanto la materia sia complessa. E quindi sarebbe opportunità accostarla con cautela e non con atti unilaterali che esprimono visioni manichee. Oggi le imprese sono additate tra le responsabili maggiori di una catastrofe imminente. Dunque, esse vanno colpite, sanzionate e poco importa se ciò determinerà la chiusura di molte realtà con drammatiche ricadute sul fronte occupazionale. Questo interessa nulla ai sacerdoti del tutto e subito. Per loro il dato di realtà non esiste. Per loro il solo dito della mano che ha valore e dunque serve alla battaglia è l'indice, da puntare contro l'altro e così esporlo al pubblico ludibrio alla stregua di un nemico. La pandemia ha ringalluzzito l'esercito ambientalista. Un quadro preoccupante nel quale l'imprenditoria appare chiusa in un angolo. Così come quei pochi governi che tentano di indicare strade di sviluppo sostenibile davvero percorribili e in tempi realistici. Una volta si diceva che la fretta è cattiva consigliera. Adesso la fretta è il mantra dei cultori dell'ismo più pericoloso. 

Il conto da 15 miliardi di euro della transizione green per le imprese. Andrea Muratore su Inside Over il 26 luglio 2021. Recentemente, intervenendo a un festival a Bari intervistato da Nicola Porro il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti si è interessato al tema dei costi industriali e occupazionali della transizione energetica sottolineando come il processo di riconversione, di ingresso di nuovi mercati a scapito di altri e di trasformazione del lavoro e delle competenze non sarà neutrale. Giorgetti ha posto sul terreno una serie di temi fondamentali, dalla necessità di investimenti per abilitare la transizione economica e industriale alla necessità di occuparsi del tema dei potenziali perdenti di questo processo, che le imprese hanno di fatto interiorizzato lanciando un allarme sui costi del processo.

15 miliardi di euro di fardello. Nelle ultime settimane l’Italia ha visto l’ufficializzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza che dà oltre un terzo dei suoi fondi alla transizione ecologica; ha assistito all’avvio di massicci investimenti da parte dei campioni nazionali delle rinnovabili; ha partecipato attivamente alla definizione del piano europeo Fit for 55 dedicato all’impegno comune sulla lotta alle emissioni; ha ospitato, con il ministro Roberto Cingolani a fare gli onori di casa, l’appuntamento del G20 dedicato a clima e ambiente. In prospettiva, per il Paese, la prossima sfida sarà quella di definire politiche industriali tali da abilitare senza duri costi per le imprese e i lavoratori il passaggio a sistemi di alimentazione più efficienti per i nostri sistemi economici e a creare nuovi settori basati su una crescente sostenibilità. Le imprese italiane hanno presentato al governo Draghi quello che ritengono possa essere il conto delle scelte volte ad abilitare e promuovere la transizione nei settori oggi ritenuti a maggior impatto ambientale. Un rapporto compilato dagli americani di Boston Consulting, azienda di consulenza strategica tra le principali al mondo, commissionato dalle associazioni di categoria dei settori meno “green” di Confindustria (siderurgia, chimica, fonderie, carta, vetro, cemento, ceramica) ha stimato il costo in 15 miliardi di euro. Fondi ritenuti necessari a costruire nuovi impianti, a riqualificare quelli già esistenti, a sviluppare nuove fonti di alimentazione, a evitare la distruzione di posti di lavoro. Le aziende che, nota Repubblica, rappresentano un fatturato complessivo di 88 miliardi di euro e 700mila addetti con l’indotto hanno voluto portare in evidenza il fatto che questa via ha un costo sostanzialmente paragonabile a quello che comporterebbe la ben meno efficace procedura di investimento nel mercato delle emissioni e dei permessi di inquinamento: essa comporterebbe un “costo cumulato per le imprese energivore tra gli 8 e i 15 miliardi di euro dal 2022 al 2030, cioè un taglio dell’8-20% del margine operativo lordo nel 2030. Insomma, un forte rischio di perdita della competitività rispetto ai player internazionali”.

La ricerca di un accordo Stato-imprese. La questione della transizione è una partita a tutto campo che sarà decisiva anche per la capacità del nostro Paese di restare competitivo sui mercati internazionali. Quanto detto a Bari da Giorgetti e sottolineato nel documento si dovrà riflettere, in vista del Pnrr, in una serie di scelte pragmatiche volte a ridurre quello che potremmo definire il “cuneo ambientale”, ovvero la differenza tra i dividendi produttivi e occupazionali che la transizione ambientale può garantire e i costi necessari per abilitarli. Che richiamano necessariamente in campo disegni di politica industriale su cui lo Stato può dire la sua. Alessandro Banzato, presidente di Federacciai, in un’intervista al Foglio si è detto favorevole all’istituzione di un fondo nazionale per la trasformazione e la transizione industriale volto a coniugare decarbonizzazione e difesa della produzione. La siderurgia è un esempio di settore in cui, come dimostra l’attenzione sul recente caso Ilva, la politica industriale non può mancare di esercitare un ruolo strategico di coordinamento e supervisione e in cui possono essere applicati i nuovi paradigmi abilitanti. Essendo un’industria che, a livello globale, contribuisce con attività dirette e indotto a un giro d’affari da 2,5 trilioni di dollari l’anno e oggigiorno, riporta il Financial Times, genera un quarto delle emissioni di gas serra da comparto industriale del pianeta e tra il 7 e l’8% del totale in assoluto, quello dell’acciaio può essere un buon paradigma delle modalità con cui i costi prospettati da Boston Consulting possono essere spalmati o ammortizzati. Il primo volano è quello del sostegno pubblico all’investimento aziendale in tecnologie abilitanti e efficienza energetica nella scelta di fornitori, impianti, metodi di generazione. Una traccia che il Pnrr intende seguire e che si completa con misure di stampo keynesiano come il Superbonus. Secondo punto è quello degli investimenti in stabilizzazione dell’occupazione e in riqualificazione del lavoro. Come abbiamo avuto modo di sottolineare recentemente, un costo capace di generale esternalità negative nel quadro della transizione sarà quello legato alla distruzione di posti di lavoro e alla necessità di riqualificare competenze e produrre nuove posizioni e figure lavorative. Un serio programma di re-skilling nei settori potenzialmente soggetti alla massima quota di cambiamenti può avere risultati importanti nell’ammortizzare i costi. Infine, risulterà necessario aumentare l’integrazione tra il tessuto industriale e le reti di alimentazione a sempre minore impatto ambientale su cui si muovono i mercati energetici ed elettrici più strutturati. Gli interconnettori “verdi” alimentati a rinnovabili, le reti intelligenti capaci di programmare grazie all’Ia l’armonizzazione tra domanda e offerta di energia, reti più sicure di fronte a cali di tensione e sovraccarichi possono di per sé evitare sprechi e ridurre i costi per le imprese e i danni per l’ambiente del Paese. Aumentare la sinergia delle imprese con colossi come Enel e Terna appare, più che mai, fondamentale. La transizione non avrà costi duri, come prospettato da Giorgetti, e non sarà un “bagno di sangue”, come teme Cingolani, se politica, economia e industria sapranno tornare a dialogare virtuosamente.

Come evitare che la transizione green crei una massa di disoccupati? Andrea Muratore su Inside Over il 25 luglio 2021. Il mondo sta sperimentando negli ultimi anni una crescente pressione a favore della transizione ecologica ed energetica che non è solo dettata dalla crescita dei sentimenti ambientalisti in diverse nazioni avanzate ma anche e soprattutto legata all’attestazione del fatto che, in prospettiva, l’efficienza energetica e le nuove tecnologie applicate alla generazione possono essere driver di sviluppo economico. Tutela ambientale e progresso economico, lo ripetiamo da tempo, non sono questioni da ritenere separate, ma bensì complementari. Ogni grande processo e ogni cambio di paradigma economico nella storia ha prodotto vincitori e vinti, ha sostituito interi comparti economici con altri, ha portato al declino di aree geografiche, città, categorie sociali e all’ascesa di altre. L’ascesa della navigazione a vela favorì gli attraversamenti transatlantici e il declino delle potenze mediterranee come Venezia a favore di quelle atlantiche; tra metà e fine Ottocento il Cile visse un’epopea economica fugace per le esportazioni di due prodotti utilizzati rispettivamente come fertilizzante, il guano, e componente per gli esplosivi, il salnitro, prima di conoscere un altrettanto rapido declino; nel Novecento, Paesi come il Congo hanno visto le loro diverse aree condizionate dalla “maledizione delle risorse”. Ma la transizione energetica in via di dispiegamento guarda più in prospettiva. In primo luogo, unendo cambi di paradigma sul profilo industriale e delle fonti a un’innovazione tecnologica diffusa e pervasiva la transizione energetica si dispiega come processo graduale e in perenne divenire, che rende possibile identificare in corso d’opera quali saranno i settori destinati alla dismissione, quali quelli sottoposti a radicale trasformazione e quali quelli prossimi ad emergere. In secondo luogo, di conseguenza, ogni mossa volta a promuovere una crescita sostenibile dovrà andare di pari passo con l’identificazione delle reti di protezione volte a compensare le perdite di chi lavorerà nei settori in declino, a incentivare il re-skilling dei lavoratori e gli investimenti in transizione energetica diffusa e innovazione. Nella consapevolezza che sostenibilità non può essere solo la riduzione di emissioni e gas serra, ma un miglioramento complessivo delle prospettive di vita delle società umane. E degli uomini intesi sia nella loro accezione di lavoratori che in quella di primi utenti di un sistema economico di riferimento. In terzo luogo, proprio perché incentrata su una così profonda e radicale modifica dei rapporti tra l’uomo e l’economia, tra l’ambiente e le società avanzate, la transizione non può non porsi il problema della lotta alle disuguaglianze e, per dirla in parole semplici, della messa in evidenza dei vantaggi concreti che le persone, in primis i lavoratori delle fasce a più basso reddito, trarranno dai nuovi paradigmi. Foreign Affairs ha posto in evidenza una serie di esempi di politiche più o meno virtuose che hanno puntato a interiorizzare questi stimoli o, al contrario, li hanno negati mandando i piani di transizione verso un possibile fallimento. Sul primo fronte si cita l’esempio della Svizzera, Paese in cui le tasse sulle emissioni di anidride carbonica finanziano “uno schema di rimborsi per i cittadini a basso reddito diretto alle assicurazioni sanitarie” o dello Stato canadese della British Columbia che dal 2008 garantisce deduzioni e crediti d’imposta agli “investimenti per rafforzare gli edifici rurali vulnerabili agli eventi climatici” e ad aumentare la sostenibilità delle unità abitative. E in prospettiva andrà valutata la portata del piano del presidente statunitense Joe Biden per inserire la “giustizia ambientale” nel piano infrastrutturale da 2 trilioni di dollari che mira a garantire che i primi beneficiari di un’economia americana più sostenibile, della riduzione degli sprechi e dei costi dell’energia siano gli abitanti delle aree più povere del Paese. Meno efficaci sono state, in passato, scelte politiche stigmatizzate con la nomea di “ambientalismo per ricchi” come la tassa sul carburante introdotta in Francia nel 2018 che ha scatenato le proteste dei gilet gialli contro Emmanuel Macron. O l’approccio dell’Unione Europea che sino ad ora, nota la testata statunitense, “ha sostenuto programmi di re-training in settori ad alta intensità di emissioni” come quello carbonifero della Polonia ma non ha costruito una strategia olistica per governare in futuro la transizione. Un elemento di vulnerabilità non secondario che rischia di inficiare notevolmente il piano climatico Fit for 55. I ministri italiani Giancarlo Giorgetti e Roberto Cingolani, tra i più attenti fautori di un ambientalismo realista, da tempo del resto invitano a coniugare pragmatismo industriale e produttivo e strategie per la transizione. Una nazione come l’Italia, superpotenza in pectore delle tecnologie per le rinnovabili, sta superando solo in questi mesi il dominio culturale e politico dell’ambientalismo più radicale e scoprendo le potenzialità della scelta di mettere al servizio del progresso la transizione e la ricerca di nuove fonti energetiche meno impattanti. Perché alla prova dei fatti nulla si potrà dire di realizzato nella transizione se non si darà un futuro ai lavoratori del settore dell’automotive tradizionale, ai minatori, ai dipendenti di fonderie, acciaierie, centrali a carbone, ai trasportatori, ai dipendenti dell’indotto di questi settori e a tutti gli altri uomini e le altre donne potenzialmente destinati a perdere il loro posto di lavoro nei prossimi anni e decenni per l’avanzata della transizione. Cingolani invita, in particolare, da tempo la politica a non trasformare la transizione energetica in un bagno di sangue. Il lavoro e la lotta alle disuguaglianze, vecchie e nuove, che la transizione potrebbe creare devono essere la stella polare della politica in questa partita decisiva.

Estratto di un articolo di Paul Krugman per repubblica.it il 22 luglio 2021. Questa è davvero la settimana delle infrastrutture negli Stati Uniti: i democratici hanno approvato il progetto, per ora ancora sommario, di un grande programma di investimenti pubblici che sostituirà un programma “duro” molto più piccolo e bipartisan. Come ho già notato altrove, si ricomincia finalmente a investire su larga scala. Ma c’è stato un altro fondamentale sviluppo. A quanto pare questa è anche la settimana delle tasse sul carbonio: la proposta dei democratici, al momento generica e senza specifiche, è di tassare i prodotti d’importazione da quei paesi che non prendono provvedimenti sufficienti a limitare le emissioni di gas serra. Lo stesso giorno, l’Unione Europea ha esposto in maniera assai più dettagliata i suoi piani per imporre un meccanismo di “adeguamento del carbonio alle frontiere” – che temo tutti finiranno per chiamare tassa sul carbonio, anche se CBAM (carbon border adjustment mechanism) è un ottimo acronimo (in inglese suonerebbe: “visto? Bam!”). Che opinione dobbiamo farci di queste tasse? So per esperienza che qualche voce si leverà per denunciarle come una nuova forma di protezionismo e/o per definirle illegali secondo il diritto commerciale internazionale. Sono voci che bisognerebbe ignorare. Prima di tutto, stabiliamo le priorità. È vero, il protezionismo ha dei costi, ma spesso se ne esagera la portata, e in ogni caso sono insignificanti di fronte a un cambiamento climatico fuori controllo. Il Pacifico nordoccidentale cuoce ormai sopra i 38 gradi (!), e vogliamo preoccuparci dell’interpretazione dell’Articolo III dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio? Una qualche forma di sanzione internazionale contro le nazioni che non prendono provvedimenti per limitare le emissioni è indispensabile se vogliamo fermare davvero una minaccia ambientale che sta mettendo in pericolo la nostra stessa esistenza. I paesi in via di sviluppo, in particolare la Cina ma non solo, sono già responsabili della maggior parte delle emissioni di anidride carbonica; se queste nazioni non partecipano, il grande sforzo congiunto di Stati Uniti ed Europa non servirà a molto. “Le industrie si trasferiranno in Cina” è un altro argomento preferito di chi si oppone dall’interno alle azioni per il clima, e la risposta a questa obiezione determinerà le politiche normative sul tema. Alla luce di queste considerazioni, sembra quasi scontato specificare che le tasse sul carbonio non hanno nulla a che vedere con il protezionismo, e sono legali secondo il diritto commerciale internazionale. Tuttavia credo valga la pena sottolinearlo, se non altro perché è un argomento su cui ho riflettuto e lavorato per molti anni. Per comprendere gli aspetti legali ed economici delle tasse sul carbonio, può essere d’aiuto considerare l’economia e la legge delle imposte sul valore aggiunto (IVA), una delle principali fonti di introiti in molti paesi (ma non negli Stati Uniti). Il confronto è estremamente utile. Sulla carta, l’IVA è una tassa pagata dai produttori: se uno stato impone l’IVA al 15%, un'azienda che produce una certa merce deve pagare una tassa pari al 15% delle sue vendite – meno le tasse che può dimostrare già pagate dalle compagnie che vendono le materie prime all’azienda. Il vantaggio di questo sistema è che il settore privato fa gran parte del lavoro “applicativo”, nel senso che ciascuna azienda è incentivata ad assicurarsi che i propri fornitori paghino il dovuto. Ma alla fine chi paga l’imposta? Di norma tutte le tasse sui produttori finiscono per trasformarsi in prezzi più alti dei prodotti, quindi un’IVA del 15% è, a tutti gli effetti, una tassa nazionale del 15% sulle vendite. All’IVA si accompagna sempre un “adeguamento alle frontiere”: chi importa deve pagare una tassa sui beni importati, mentre chi esporta ottiene una riduzione pari alla tassa pagata su ciò che esporta. Tutto torna se si pensa all’IVA come a una tassa sulle vendite: nessuno vorrebbe una situazione in cui i clienti di un negozio pagano una tassa solo sui prodotti del proprio stato, mentre quelli cinesi restano esenti. Né avrebbe senso addebitare una tassa sulle vendite ai prodotti del proprio stato venduti in altri paesi. Questo è un punto ampiamente frainteso. Le imprese statunitensi in particolare credono che gli adeguamenti alle frontiere imposti dagli stati con IVA rappresentino tariffe e sussidi alle esportazioni che danno un vantaggio sleale ai loro concorrenti. Ma si sbagliano dal punto di vista economico. E per l’Organizzazione mondiale del commercio questi adeguamenti legati all’IVA sono legali, perché servono ad attuare una politica interna che, almeno in teoria, non distorce i commerci internazionali. In altre parole, gli adeguamenti alle frontiere non fanno pendere la bilancia da una parte, anzi la riportano in equilibrio. 

Musso per atlanticoquotidiano.it il 20 luglio 2021. Il 14 luglio 2021, la Commissione europea se ne è uscita con un pacchetto di proposte volte a “ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990… affinché l’Europa diventi il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050”. Variamente definita come Green Deal europeo ovvero Fit for 55, il pacchetto consiste in un groppo di proposte legislative e normative, giornalisticamente definito come il Mammut. Alla grande industria pesante (imprese produttrici di energia elettrica e industrie ad alta intensità energetica) già oggi è imposto di acquistare speciali diritti (detti quote di emissione) per emettere CO2. Tale imposizione viene resa oggi assai più pesante e, al contempo, essa viene estesa ai distributori di combustibile per gli edifici: i quali, naturalmente, ne gireranno il costo su quelle imprese e quelle famiglie che ancora, d’inverno, ardiscono a riscaldare i propri uffici e le proprie case. E pure alle famiglie che ancora osano avere la cucina a gas. Idem ai distributori di carburante per il trasporto stradale, con conseguente aumento del prezzo del pieno alla pompa. Ciò che vale per le famiglie, ma anche per camionisti, agricoltori e pescatori. Per questi ultimi, però, si aggiunge la revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia, che intende procedere “eliminando le esenzioni obsolete e le aliquote ridotte, che attualmente incoraggiano l’uso di combustibili fossili”: in pratica, pagherebbero il diesel come lo pagano i privati, cioè oggi il doppio, ma domani anche il triplo, considerato l’effetto combinato dei due provvedimenti. Per soprannumero, gli agricoltori dovranno, entro il 2035, “raggiungere la neutralità climatica, comprese le emissioni agricole diverse dal CO2, come quelle derivanti dall’uso di fertilizzanti e dall’allevamento”. Con tanti saluti alla spesa a buon mercato: al pesce fresco ed alla bistecca, ad esempio, che diverranno un bene di lusso per raffinati residenti in ZTL… tutti elettori del Pd, naturalmente. Vero è che “tutte le autovetture nuove immatricolate a partire dal 2035 saranno a zero emissioni”. Sicché, forse è un bene che le famiglie cessino di scaldare le proprie abitazioni d’inverno… così risparmieranno abbastanza per comprarsi un’auto elettrica, a rate. Pure in settori nei quali è già presente, l’imposizione delle quote di emissione per emettere CO2 verrà reso più stringente: nel settore aereo, ad esempio. Insieme all’altra misura del pacchetto (ReFuelEU Aviation), che impone ai “fornitori di combustibili di aumentare la percentuale di carburanti sostenibili per l’aviazione nel carburante per gli aviogetti caricato a bordo negli aeroporti dell’Ue”, con tanti saluti ad uno degli ultimi miti europei: i voli low cost. Altrove, la misura assume toni sfacciatamente protezionistici: l’estensione al trasporto marittimo, ad esempio, non può che servire da volano alla de-globalizzazione. Tanto più in quanto unita all’altra misura del pacchetto (FuelEU Maritime), che impone “un limite massimo al tenore di gas a effetto serra dell’energia utilizzata dalle navi che fanno scalo nei porti europei”. Sempre ammesso che le si possa imporre pure alle flotte mercantili battenti bandiera di Stati abbastanza fortunati da non appartenere alla Unione europea, ad esempio: se una nave giunge a Napoli appena rifornita di gasolio nella libera Tunisi, la Ue le impone di vuotare i serbatoi?! Così pure i dazi verdi (CBAM – carbon border adjustment mechanism), imposti al fine di compensare le quote di emissione pagate dall’industria che produce nella Ue ma non da quella che produce fuori dalla Ue. Ancorché il sempre patetico Gentiloni si sgoli a sostenere di agire “nel pieno rispetto degli impegni assunti nell’ambito del WTO”, fuori dal mondo fatato di Bruxelles i suoi dazi verdi sono interpretati per quello che sono: dei dazi. E, come tali, chiameranno la reazione del resto del mondo, in forma di contro-dazi. In un divertentissimo sforzo di dirlo senza dirlo, The Economist fa mostra di non volerli considerare dazi, ma solo per affondarli con un diverso argomento, questo: “attuare la politica in modo equo significherebbe accertare quanto carbonio è stato emesso nella produzione di una data importazione e fino a che punto i governi stranieri avevano già tassato tali emissioni. Nel 2018, la Commissione europea ha affermato che sarebbe chiaramente ingestibile. Non è cambiato molto da allora”. È questo un problema ben noto a chi abbia gli occhi per guardare, sul quale regolarmente si infrangono le proposte di tassazione verde. A cominciare dalla italianissima plastic tax: siccome essa tasserebbe la plastica vergine ma non quella riciclata, teoricamente l’importatore alla frontiera dovrebbe dichiarare di quanta plastica vergine è fatto un determinato imballo (quello di un computer, ad esempio), ma senza che il doganiere abbia modo di effettuare alcuna verifica, sicché è scontato che tutti gli imballi importati verrebbero dichiarati in plastica riciclata e, per conseguenza, la produzione di plastica per imballo in Italia cesserebbe del tutto. Così è fatto il mondo dei gretini.

Questa marea di nuove tasse, andrà a finire: in parte nelle casse dell’Unione, la quale ci pagherebbe una quota del mitico Recovery Fund (a sua volta al 37 per cento destinato “all’azione per il clima”); in parte agli Stati membri (in particolare le quote di emissione). Ma, questi ultimi dovranno poi spendere la totalità delle tasse così raccolte “per progetti connessi al clima e all’energia”. Ad esempio, dovranno “installare punti di ricarica e di rifornimento a intervalli regolari sulle principali autostrade: ogni 60 km per la ricarica elettrica e ogni 150 km per il rifornimento di idrogeno”; “sarà tenuto a ristrutturare il 3 per cento dei suoi edifici ogni anno”; dovrà “produrre il 40 per cento della nostra energia da fonti rinnovabili entro il 2030”; si vedrà assegnato “obiettivi rafforzati di riduzione delle emissioni per quanto riguarda gli edifici, il trasporto stradale e il trasporto marittimo interno, l’agricoltura, i rifiuti e le piccole industrie”; tutti insieme, dovranno “piantare tre miliardi di alberi in tutta Europa entro il 2030” e assorbire “carbonio dai pozzi naturali, per 310 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 entro il 2030”. Di particolare interesse, per l’Italia, la questione del patrimonio edilizio: la Commissione giudica “inefficiente dal punto di vista energetico” circa 3/4 del patrimonio edilizio dell’Unione. Laddove, per edificio efficiente da un punto di vista energetico, essa non può che intendere un edificio quanto di più lontano dalla tradizione edilizia latina (che è fatta di pietra) e vicina alla tradizione edilizia germanica (che è fatta di legno: come quelle migliaia di case in legno, anche a più piani, in questi giorni travolte dalle piene fra la Mosella ed il Reno). Immaginare come ciò sarà possibile in presenza delle nostre Soprintendenze, rende l’intera questione farsesca. Senza dimenticare che la gran parte di tali spese, andrebbe nell’acquisto di materiale (batterie, impianti di ricarica, pannelli solari…) di produzione non nazionale, ma estera: importati. In particolare dalla Cina e dalla Germania. Con conseguente sciupio del nostro avanzo commerciale: ingentissimo e che costituisce, oggi, la nostra vera forza. Ciliegina sulla torta, “la direttiva sull’efficienza energetica fisserà, a livello di Ue, un obiettivo annuale vincolante più ambizioso di riduzione del consumo di energia”, intesa come consumo globale di energia, cioè pure l’energia elettrica. Casomai a qualcuno fosse venuto in mente che l’obiettivo dell’Unione sia l’elettrificazione: no, l’obiettivo dell’Unione è il ritorno all’età della pietra.

Fondamentalmente, il mostruoso pacchetto sarebbe stato scritto sotto dettatura tedesca: “la Germania ha avuto ciò che voleva” – scrive Politico. In uno sforzo che si dice elettorale: nel senso di sostegno alla campagna elettorale della CDU in vista delle elezioni nazionali tedesche di settembre, nelle quali l’avversario principale della CDU sono i Verdi. Un altro indizio di germanicità del pacchetto è nell’enfasi, posta da Von der Leyen, nel dare per scontato che “l’economia basata sui combustibili fossili ha raggiunto i suoi limiti” (in ciò consiste la cosiddetta economia decarbonizzata). Ebbene, la Germania è, notoriamente, una potenza industriale priva di una propria grande industria petrolifera: Total è francese, Shell inglese, Eni italiana… ma una Eni tedesca non c’è. Dunque, per la Germania, cosa vi sarebbe di meglio che toglierla pure agli altri Paesi? Di tale sospetto troviamo una sfolgorante conferma nelle parole di Jeffrey Sachs (quello che consigliava Eltsin) su La Repubblica: “l’epoca dei combustibili fossili è finita” … e qui fa il pappagallo della Von der Leyen; “bisogna smantellare la rete di potere e interessi sostenuta dall’industria dei combustibili fossili”; chi la difende è affetto da “corruzione, ignoranza e avidità”. Epperò la Ue “soffre meno della potenza dell’industria del fossile” … espressione che non può che riferirsi alla sola Germania. Terzo indizio di germanicità troviamo nelle conclusioni logiche di Sachs: la Ue “potrebbe lavorare a un accordo con la Cina, visto che l’America si è incartata in una sorta di Guerra Fredda con Pechino, che distoglie attenzione ed energie dalla questione climatica”. Infatti, il maggiore produttore di CO2 al mondo è la Cina e di gran lunga. Sicché, ogniqualvolta Washington invita Berlino a riallinearsi contro Pechino, Berlino risponde che della Cina abbiamo bisogno “per affrontare la sfida del cambiamento climatico”. Che poi Berlino non abbia la benché minima intenzione di rompere con Pechino per motivi del tutto diversi, sarà certamente un caso.

La Commissione è la prima ad ammettere che il Mammut implica “trasformare radicalmente la nostra economia e la nostra società”. Anzi, se ne fa vanto. Timmermans, in particolare, vuole la “lotta contro la crisi climatica e la perdita di biodiversità” e, interrogato circa le conseguenze socio-economiche della propria follia, si dice “più preoccupato dalla crisi climatica, più preoccupato dall’ecocidio che ne può derivare”. In ogni caso: “We have no other option”… TINA, come un Mario Monti qualunque. Grazie al cielo, il Commissario Stranamore si è trovato di fronte una mezza rivoluzione di palazzo. La Francia, in particolare, memore dei gilet gialli. Ma pure tutto l’est Europa e (pare, ma non è confermato) persino il governo italiano. Sicché, il meraviglioso piano verde rischia seriamente di trovarsi subito impantanato: “l’approvazione potrebbe richiedere anni”, fanno sapere diplomatici degli Stati membri. Il che ci pare cosa buona e giusta. Perché non vogliamo tornare all’età della pietra e perché non vogliamo morire cinesi, anzitutto. Ma pure per amore di buon senso: la rivoluzione normativa non può precedere una rivoluzione tecnologica, ma solo seguirla. Non si può vietare per legge l’uso delle candele, se ancora non è stata inventata la lampadina. Non si può vietare per legge l’uso delle carrozze a cavallo, se ancora non è stato inventato il motore a scoppio. Il che è, però e precisamente, ciò che pretenderebbe di fare l’Ue. Così il commissario per l’energia: “Dobbiamo trasformare l’evoluzione delle energie rinnovabili in una rivoluzione” … come se Volta lo avesse creato per decreto Napoleone, come se Edison lo avesse creato per legge il presidente Rutherford B. Hayes. La Ue vuole aiutare una rivoluzione tecnologica? Allora, investa prima decine di miliardi nella ricerca sull’idrogeno, ne attenda i risultati e solo dopo modifichi le normative. Nel frattempo evitando di dissanguare i propri sudditi con tasse nuove e tiranniche. 

Sandro Iacometti per Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. La buona notizia è che la Lamborghini nei primi sei mesi del 2021 ha consegnato 4.852 vetture. Si tratta, come ha spiegato ieri la società, del miglior semestre di sempre nella storia della casa del toro di Sant' Agata Bolognese, che in termini percentuali rappresenta un balzo del 37% rispetto allo scorso anno e del 6,6% rispetto al 2019. Che le auto di lusso vadano in controtendenza rispetto al resto del mercato, che ancora fatica a recuperare i livelli pre Covid, non è d'altra parte una novità. Qualche settimana fa anche la Ferrari ha chiuso i primi tre mesi con una crescita delle vendite dell'1,2% (rispetto al primo trimestre 2020 toccato solo parzialmente dalla pandemia), un aumento dei ricavi del 10,8% e un portafoglio record di ordini.

CATTIVA NOTIZIA - La cattiva notizia è che i due marchi storici delle quattroruote, conosciuti in tutto il mondo come il simbolo dell'eccellenza del made in Italy, potrebbero finire a gamba all'aria a causa dell'accelerazione impressa dalla Ue alla transizione ecologica. A dirlo non è un delegato delle case automobilistiche e neanche un irriducibile avversario delle politiche verdi, ma il capo del dicastero che proprio da quella transizione ha mutuato il nome, sostituendolo all'ormai vetusta denominazione di ministero dell'Ambiente. Eh sì, perché Roberto Cingolani, che è un tecnico esperto della materia, con anni di lavoro alle spalle in una delle aziende più innovative del Paese come Leonardo, non è uno che le manda a dire. E da quando ha accettato l'incarico sta cercando di spiegare che la lotta ai cambiamenti climatici non è «un pranzo di gala», né un giochino dove basta spingere un bottone e si diventa tutti verdi come d'incanto, ma un percorso lungo e costoso, che richiederà sacrifici. Tanto più dolorosi quanto più il processo sarà gestito senza tener conto di tutte le ripercussioni. Sembra questo il caso del nuovo piano Fit for 55 presentato un paio di giorni fa a Bruxelles, che prevede da qui al 2035 l'azzeramento del 100% delle emissioni di CO2 per tutte le auto in commercio. 

PRODUZIONI DI NICCHIA - «In questi giorni stiamo parlando con il settore automotive», ha spiegato Cingolani parlando ad un evento organizzato dalla Fondazione Symbola, «ed emerge chiaramente che c'è una grandissima opportunità nell'elettrificazione». Detto questo, ha aggiunto il ministro, «È stato comunicato dalla Commissione Ue che anche le produzioni di nicchia, come Ferrari, Lamborghini, Maserati, McLaren, dovranno adeguarsi al full electric. Questo vuol dire che, a tecnologia costante, con l'assetto costante, la Motor valley la chiudiamo». Intendiamoci, le case automobilistiche, anche quelle di nicchia, ce la stanno mettendo tutta per adeguarsi al nuovo corso e spingere sulla riduzione di emissioni. La Lamborghini, ad esempio, ha promesso di convertire tutta la gamma a listino all'alimentazione ibrida entro il 2024 e la tappa successiva sarà un modello interamente elettrico. Stesso discorso per la Ferrari. Anche il Cavallino rosso ha promesso per il 2025 la prima supercar a zero emissioni. Ma di qui a convertire tutta la linea di produzione nell'arco di un decennio ce ne passa. Come ha detto Cingolani, «se noi oggi pensassimo di avere una penetrazione del 50% di auto elettriche d'emblée non avremmo neanche le materie prime per farle, né la grid per gestirla. Su un ciclo produttivo di 14 anni, pensare che le nicchie automobilistiche e supersport si riadattino è impensabile». Insomma, non è una questione di volontà. E neanche, se vogliamo, di costi. È proprio che i tempi sono materialmente troppo stretti. Per avere un'idea di quello che succederà ai marchi più prestigiosi, ma anche a quelli più comuni, basti pensare che nel primo trimestre in Europa sono state consegnate circa 200mila auto elettriche, che rappresentano neanche il 6% delle immatricolazioni totali. Portare a forza quella percentuale al 100% nell'arco di 14 anni produrrà, per usare un'altra espressione utilizzata ultimamente da Cingolani per far capire il prezzo della transizione, «un bagno di sangue».

Pierluigi Bonora per "il Giornale" il 15 luglio 2021. L'Ue ha decretato la condanna a morte di benzina e Diesel. La proposta del nuovo green deal della Commissione prevede, infatti, che tutte le nuove auto registrate dal 2035 dovranno essere a zero emissioni, quindi elettriche. «Non stiamo proibendo le auto, stiamo fornendo un'alternativa», mettono le mani avanti a Bruxelles, con l'auspicio che il settore acceleri ancora di più sulle nuove tecnologie e si riducano i costi dell'elettrico. «Sappiamo dove vogliamo andare e cosa dobbiamo fare per arrivarci - la sintesi di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione - e sappiamo che la nostra attuale economia dei combustibili fossili ha raggiunto i suoi limiti. L'Europa è il primo continente che presenta un'architettura completa per soddisfare le ambizioni di questa Rivoluzione verde». Il giro di vite, inoltre, include l'aumento delle imposte minime dei principali carburanti fossili affinché si garantisca che «la tassazione dei carburanti, dei combustibili per riscaldamento e dell'elettricità rifletta il loro impatto sull'ambiente». Molteplici le misure proposte, tra cui, l'attribuzione di un prezzo al carbonio unitamente alla creazione di un fondo sociale (70 miliardi in 7 anni per cofinanziare al 50% regimi di incentivazione nazionale per l'acquisto di veicoli a zero emissioni). Per l'auto, in vista dell'azzeramento al 2050, si punta a una riduzione delle emissioni di CO2 del 55% (da qui la denominazione di «Fit for 55» data al «Pacchetto Clima») entro il 2030 rispetto al precedente target del 37,5%. Intanto, c'è chi plaude alle misure proposte, chi è contrario o si dice preoccupato per «un salto nel buio che rischia di impattare su economia e lavoro, fornendo anche un nuovo assist alla Cina», commenta un osservatore. Secondo Confindustria, «la Commissione prevede, a livello Ue, un fabbisogno di investimenti, al 2030, di oltre 3.500 miliardi, di cui più di 600 per l'Italia; è un piano senza precedenti che ci obbliga a cambiare marcia e a passare dalla discussione sugli obiettivi, decisi, a un dibattito pragmatico sulle soluzioni». Plaude Enel, con l'ad Francesco Starace: «Questa serie di proposte sta anche aprendo la strada a una necessaria accelerazione verso un'ulteriore elettrificazione degli usi finali dell'energia, come i trasporti su strada e il riscaldamento, che rappresenta già l'alternativa più competitiva e pulita ai combustibili fossili». Ma per Legambiente, l'Ue avrebbe dovuto osare di più: «L'Europa deve ridurre le emissioni di almeno il 65% entro il 2030 rispetto ai livelli del '90». E sull'Italia, un tweet invita ad anticipare al 2030 lo stop a Diesel a benzina. Dai costruttori europei di auto, attraverso il presidente di Acea, Oliver Zipse (Bmw), arriva l'esortazione all'Ue «a concentrarsi sull'innovazione piuttosto che imporre o vietare una tecnologia specifica. Obiettivi climatici ambiziosi richiedono un impegno vincolante da parte di tutte le parti coinvolte; inoltre, non sono i motori termici a essere dannosi per l'ambiente, ma i carburanti fossili». Aggiunge Zipse: «L'attuale proposta richiede un forte aumento della domanda di veicoli elettrici in un tempo ristretto. I target di un taglio del 50% delle emissioni al 2030 non si raggiungeranno senza una rete pubblica di ricarica di 6 milioni di punti, mentre si è fatto riferimento solo a 3,5 milioni». Anfia (filiera italiana automotive) mette in guardia i decisori sulle possibili ricadute negative per il sistema indotto e invita ad «adottare un percorso di accompagnamento dei componentisti alla riconversione produttiva».

Da motori.corriere.it il 28 maggio 2021. Installare le colonnine di ricarica non basta: bisogna attivarle e tenerle libere dagli «abusivi». È quanto emerge dall’indagine realizzata da Quattroruote a Milano e a Roma, raccontata nel nuovo numero in uscita sabato. A penalizzare la rete nella capitale, infatti, è il mancato allacciamento dei punti di ricarica alla rete di distribuzione dell’energia: alla fine di aprile, infatti, soltanto per gli impianti dell’operatore Enel X, 130 delle 300 infrastrutture installate risultavano scollegate dalla rete e, quindi, inutilizzabili a causa di iter burocratici interminabili. Possono, infatti, servire anni prima che le pratiche di autorizzazione ai lavori di scavo, complesse e per nulla digitalizzate, ricevano il via libera dai Municipi, le autorità amministrative territoriali competenti in materia. Ma la burocrazia non è l’unico ostacolo alla mobilità digitale: l’indagine di Quattroruote rivela, infatti, come in un giorno qualsiasi a Milano il 50% degli stalli presso le colonnine di ricarica (26 su un totale di 51 visitate, sia nel centro storico, sia in aree più periferiche) fossero occupati abusivamente da auto con motore a combustione o elettriche e ibride non connesse all’impianto. Colpa della maleducazione degli altri utenti della strada, nei confronti dei quali la polizia municipale non attua efficaci azioni di contrasto: soltanto su una delle vetture in sosta abusiva era, infatti, presente l’avviso d’infrazione. Tutto questo, sottolinea Quattroruote, rischia seriamente di vanificare fin dalle origini l’efficacia del piano di sostegno alla mobilità elettrica annunciato dal governo Draghi nel quadro del Pnrr, che prevede un parco di 6 milioni di auto elettriche e 21.250 nuovi punti pubblici di ricarica veloce e ultraveloce.

Domenico Affinito per il "Corriere della Sera" il 26 maggio 2021. Non siamo ancora partiti con la rivoluzione verde che l'Italia, di fatto, abbandona l'idea delle auto a idrogeno. Nel Piano del governo Draghi per la transizione ecologica, che contiene il capitolo della mobilità sostenibile, lo stanziamento per le «stazioni di ricarica» dell'idrogeno per il trasporto stradale vale appena 230 milioni di euro. Troppo poco per pensare a una rete di distribuzione capillare destinata alla mobilità privata; 300, invece, sono i milioni puntati sulla sperimentazione dell'idrogeno nel trasporto ferroviario. In Italia solo treni e bus Il piano, d' altronde, lo dice chiaramente: «L' Italia () intende (...) promuovere la produzione e l'utilizzo di idrogeno () nel trasporto pesante e in selezionate tratte ferroviarie non elettrificabili». Insomma, il Governo ci dice che avremo autobus, camion e treni all' idrogeno, ma non le auto. In tema di mobilità il piano prevede altri 8 miliardi e 580 milioni di euro per un trasporto locale più sostenibile di cui 3 miliardi e 640 milioni per l' acquisto di 5.540 bus ecologici e 53 treni verdi, 600 milioni per la mobilità ciclistica (570 km di nuovi percorsi ciclabili urbani e oltre 1.200 km di percorsi ciclabili turistici), 3 miliardi e 600 milioni per il trasporto rapido di massa (240 km di nuove infrastrutture) e 750 milioni per lo sviluppo di una rete di ricarica elettrica pubblica (con 7.500 punti di ricarica nelle superstrade e 13.750 nei centri urbani). L' elettrico, quindi, batte l'idrogeno 3 a 1. A questi 8,58 miliardi se ne aggiungono altri 2 per ricerca e sviluppo, di cui 1 miliardo su rinnovabili e batterie, 450 milioni sull' idrogeno, 300 milioni sui bus elettrici e 250 milioni per start-up attive nella transizione ecologica. Cosa si può fare con 230 milioni Se i 230 milioni per il trasporto stradale fossero tutti destinati alla costruzione di stazioni di ricarica di idrogeno, quante se ne potrebbero fare? Oggi una costa circa 2 milioni di dollari, contando i costi annessi si arriva più o meno a 100 stazioni in tutta Italia. Niente rispetto alle oltre 24mila distribuite tra strade e autostrade del nostro Paese (di cui oltre 3.000 tra gpl e gas). Naturalmente i costi sono in decrescita, quindi il numero può aumentare nel prossimo futuro, ma rimane troppo piccolo per pensare all' idrogeno come alternativa. I numeri nel mondo e in Europa Ci sono luoghi, invece, dove l'idrogeno è già una realtà. In California le stazioni sono 133 tra aperte, in costruzione e approvate. E, infatti, il numero delle auto a idrogeno sta crescendo velocemente (ci sono incentivi che arrivano a 7.000 dollari): si è passati dalle 4 vendute nel 2012 alle 10.361 circolanti a maggio 2021, con un aumento di 1.430 unità da inizio anno a oggi. Un altro Paese che ha deciso di puntare sull' idrogeno è il Giappone, che nel 2018 ha approvato la «Basic Hydrogen Strategy» che punta a mettere in strada, entro il 2025, 200 mila auto a idrogeno supportate da una rete di 900 stazioni di rifornimento: oggi sono 102. Nel mondo, nei primi mesi del 2021, si sono vendute 20.168 auto a idrogeno e diventeranno, secondo le proiezioni, 596.225 nel 2028. Ma l'Europa è indietro. Oggi risultano circolanti, o meglio registrate alle motorizzazioni nazionali, 586 vetture in Germania, 265 in Olanda, 220 in Francia, 195 in Norvegia, 188 in Gran Bretagna e 125 in Svizzera. L' Italia è fanalino di coda con 28. Sostituire il fossile, scelta obbligata Nessuno avrebbe mai preso in considerazione di sostituire i carburanti fossili, se non fosse necessario per la salvezza del pianeta: «È la forma di stoccaggio dell'energia migliore che abbiamo», dice Luca Mastropasqua, esperto di idrogeno e senior researcher dell'Advanced Power and Energy Program dell'Università della California a Irvine. Questo anche per i problemi tecnici che sono legati ai combustibili alternativi, come l'idrogeno, la cui produzione è energivora e inquinante (se non si usa il solare e l' eolico) e il cui stoccaggio e trasporto non sono semplici: va mantenuto a 700 bar di pressione o a -218 gradi centigradi. «Anche le batterie rappresentano un processo di "energia negativa" - prosegue Mastropasqua -, cioè: ridanno meno energia di quella che serve per ricaricarle. Ma sono più efficienti dell'idrogeno: la loro round trip efficiency è del 90 per cento, quella dell'idrogeno è più bassa. Ci sarà sempre più elettrico che idrogeno: le auto a idrogeno sono e saranno un ramo dell'economia dell' idrogeno, ma una piccola parte di questa economia, che andrà molto al di là del settore del trasporto. Il mercato dell' idrogeno sarà comunque molto ampio e riguarderà il trasporto merci e l' industria pesante: un esempio è il progetto finanziato dal U.S. Department of Energy per l' utilizzo di idrogeno verde nella produzione di acciaio». L' imperativo è uno solo: «Dovremo diversificare il più possibile per poter sostituire il fossile». Quindi avremo le auto elettriche, quelle a idrogeno e quelle a combustibili rinnovabili. Sempre in California sono in corso, infatti, sperimentazioni su carburanti che nascono da idrogeno, acqua e CO2 (catturata o derivante da processi biologici) attraverso processi chimici e elettrochimici. Sono finanziate con un' incentivo che sale in proporzione a quanto meno carbonio si emette. Le auto a idrogeno oggi pronte In Italia risultano distribuiti solo due modelli: la Toyota Mirai, da 66.ooo euro, e la Hyundai Nexo, da 69.000. Negli Stati Uniti viene venduta anche la Honda Clarity, solo a noleggio a partire da 379 dollari al mese, dopo un versamento iniziale di 2.878 dollari. Poi tanti annunci e prototipi per Audi, Bmw, Jaguar, Land Rover. E c' è anche chi (Mercedes, Ford, GM) ha per ora messo da parte i progetti avviati a causa dei costi eccessivi, preferendo l' elettrico. Su quattro ruote vince l' elettrico Alla fine, la decisione del Governo Draghi è sbagliata? L' obiettivo dell' Europa è «zero emissioni» nel 2050, quando si stima che il 15/18 per cento dell' energia consumata arriverà dall' idrogeno verde. Ma non varrà la pena usarlo dappertutto: per generare idrogeno serve più energia elettrica di quanta ne dia quello prodotto e in molti campi sarà meglio usare direttamente l' energia elettrica rinnovabile. È il caso delle auto: Bloomberg ha calcolato che un' elettrica di classe media ha bisogno, a ciclo finito, di 25 kWh di energia per percorrere 100 km, la stessa auto a idrogeno ha bisogno di 50 kWh. L' idrogeno, invece, diventa vincente nei trasporti pesanti, dove l' autonomia delle batterie arriva fino a un certo punto e costruirne di troppo grandi è sconveniente. Almeno alle conoscenze tecnologiche di oggi.

L’idrogeno è davvero green? Francesca Salvatore su Inside Over l'11 maggio 2021. Lo scoppio della pandemia – e le sue conseguenze geopolitiche – sembra aver impresso una spinta decisiva alla lotta ai combustibili fossili, almeno sulla carta. Nelle promesse multilaterali di emissioni zero, le tecnologie all’idrogeno si sono conquistate un posto d’onore nel futuro prossimo; tuttavia, la corsa spasmodica a giungere primi a questa conquista sta tralasciando un aspetto fondamentale: dell’idrogeno che produciamo oggi, infatti, meno dello 0,1% può considerarsi green, proveniente cioè da fonti rinnovabili, come l’idroelettrico, l’eolico e il solare. Si tratta di idrogeno sporco o, tecnicamente, grey, proveniente dalla combustione di idrocarburi come carbone e gas naturale, acerrimi nemici del Pianeta.

Le classificazioni dell’idrogeno. In natura, l’idrogeno è presente principalmente in forma gassosa: si tratta dell’”idrogeno bianco”, che potrebbe essere (raramente) trovato nei depositi sotterranei. Al momento non abbiamo alcuna strategia praticabile per utilizzare questi depositi, quindi lo si produce artificialmente. Una scala di colori aiuta a classificare la fonte di energia e il processo che è stato utilizzato per produrlo. Seguendo un gradiente che va dal più al meno inquinante, incontriamo per prima la variante brown/black: è il modo più antico per produrre idrogeno, e passa per la trasformazione del carbone in gas. Sono necessarie temperature molto elevate (oltre 700 ° C): questo idrogeno è noto come marrone o nero a seconda che venga utilizzata la lignite o il carbone nero. Si tratta di un processo altamente inquinante poiché rilascia nell’atmosfera sia ​​CO2 che il monossido di carbonio. Parliamo, invece, di idrogeno blu quando le emissioni vengono catturate e imprigionate sottoterra tramite stoccaggio. L’idrogeno blu viene spesso citato come idrogeno a emissioni zero: falso. Circa il 20% della CO2 generata non può comunque essere catturata. A metà strada tra verde e blu, la variante turquoise: utilizza il metano come materia prima, ma il processo è guidato dal calore prodotto con l’elettricità piuttosto che dalla combustione di combustibili fossili. Come l’idrogeno blu e grigio, la pirolisi del metano produce idrogeno e carbonio, tuttavia, il carbonio è in forma solida anziché CO2. Di conseguenza, il carbonio può essere utilizzato anche in altre applicazioni, come la produzione di pneumatici. Laddove l’elettricità che guida la pirolisi è rinnovabile, il processo è a zero emissioni di carbonio, o addirittura a emissioni di carbonio negative se la materia prima è biometano anziché metano fossile. Pink, invece, è la tipologia di idrogeno in cui l’elettrolisi è ottenuta attraverso l’energia nucleare: un processo tecnicamente quasi pulito se non fosse per tutte le implicazioni che il nucleare comporta nel post-produzione e da un punto di vista della sicurezza. Ultima, la varietà yellow: in questo caso l’elettrolisi si ottiene esclusivamente attraverso l’energia solare (a differenza del verde che potrebbe utilizzare una combinazione di fonti di energia rinnovabile).

Il rischio del paradosso. L’idrogeno è diventata una fonte energetica piglia-tutti: ovunque se ne parla, spesso impropriamente. La maggior parte degli operatori energetici si concentra solo su due, le varietà blu e verde. I piani per investire nell’idrogeno sono in corso in tutto il mondo, con l’Unione europea, il Giappone, la Corea del Sud e il Regno Unito che puntano tutti sul blu e sul verde. Qualche mese prima dell’inizio del green contest tra gli Stati Uniti e la Cina, era stato il Canada a promettere il traguardo delle emissioni zero, presentando una strategia per l’idrogeno da quasi 40 miliardi di dollari. Le principali major energetiche sembrano aver imboccato questa strada, ma non nell’immediato futuro. Le stime raccontano tecnologie, investimenti e quantità di energia rinnovabile disponibile ancora troppo indietro per le ambizioni internazionali. Si stima che gli investimenti nelle infrastrutture per l’idrogeno supereranno i 10 trilioni di dollari entro il 2025. Lo scorso anno Goldman Sachs ha stimato che i progetti globali sull’idrogeno verde erano sulla buona strada per diventare un mercato di oltre 13 trilioni di dollari entro il 2050 per il solo settore dei servizi di pubblica utilità ed entro il 2030 sono stati annunciati oltre 35 GW di progetti di generazione di energia con capacità di idrogeno. Le stime reali, tuttavia, presumono che l’attuale produzione di idrogeno verde rimarrà piuttosto statica: se dovesse toccare i 400 milioni di tonnellate all’anno per ripulire l’industria ad alta emissione, la capacità globale di energia rinnovabile dovrebbe aumentare di otto volte e richiedere una veloce proliferazione di pannelli solari, parchi eolici e dighe con grande stress per la natura e il clima, ingenerando un paradosso energetico.

Le stime per il futuro. L’idrogeno è un mercato già consolidato, ma attualmente continua a contare su fonti fossili: la sua catena di produzione va riprogettata affinché offra un vero potenziale di decarbonizzazione. L’idrogeno è già presente su scala industriale in tutto il mondo, ma la sua produzione è responsabile di emissioni annuali di CO2 equivalenti a quelle di Indonesia e Regno Unito messe insieme secondo le stime della International Energy Agency (IEA). Da poche applicazioni di nicchia, la sua versatilità e le sue caratteristiche lo stanno ora aiutando a guadagnare slancio dove la decarbonizzazione attraverso l’elettrificazione si rivela difficile, ad esempio nel trasporto pesante. La produzione di idrogeno da combustibili fossili è attualmente più competitiva in termini di costi rispetto alle energie rinnovabili, ma a lunghissimo termine l’idrogeno rinnovabile (verde) dovrebbe prevalere. Sempre secondo le stime della IEA, con il carbone a buon mercato e il gas naturale prontamente disponibili, il costo di produzione dell’idrogeno grigio potrà scendere fino a circa 1 USD / kg H2 per le regioni con prezzi bassi del gas / carbone come il Medio Oriente, la Russia e il Nord America, e rimanere comunque ben al di sotto di 2 USD / kg H2 per altre regioni, come l’Europa. Fino almeno al 2030 è probabile che il vantaggio in termini di costi dei combustibili fossili continui nella maggior parte delle aree geografiche, ergo, la regolamentazione sui prezzi della CO2 è necessaria per promuovere lo sviluppo dell’idrogeno verde. In una prospettiva a lungo termine (al 2050), le innovazioni potrebbero aiutare a garantire almeno la parità di costi con l’idrogeno prodotto da combustibili fossili e spingere la transizione energetica: quella vera.

Domenico Affinito e Milena Gabanelli per il "Corriere della Sera" il 4 maggio 2021. L’Ue ha messo la produzione di idrogeno fra le tappe necessarie per la decarbonizzazione con massicci investimenti, ed è partita la grande corsa ad accaparrarsi i fondi. Vediamo di capire bene come funziona. La rivoluzione verde e la transizione ecologica pensate dal governo Draghi valgono 59,33 miliardi di euro. Di questi 23,78 miliardi saranno destinati all’incremento della filiera delle energie rinnovabili in agricoltura, alla promozione di impianti innovativi (anche offshore), al trasporto locale sostenibile, alla dotazione di accumulatori per stoccare l’energia in eccesso, e alla rete intelligente per gestire i flussi energetici. Dentro c’è anche la partita «idrogeno» che assorbe 3,19 miliardi. Nello specifico: 2 miliardi per la riconversione delle imprese energivore (acciaierie, cementifici, etc), 160 milioni per la ricerca, 500 per la produzione di idrogeno in aree industriali, 530 per la sperimentazione nel trasporto stradale e o ferroviario. Poi ci sono altri 450 milioni a parte che andranno a finanziare lo sviluppo tecnologico nelle filiere di transizione verso l’idrogeno.

Quale idrogeno si produce oggi. Le cose però non sono così semplici perché l’idrogeno non è disponibile in natura: per ricavarlo va staccato dalle molecole cui è combinato, come nell’acqua e nel metano, e lo si fa con processi industriali che consumano tanta energia, quindi costano. Poi va trasportato: per renderlo liquido va raffreddato a -250°, a livello gassoso va sottoposto a pressioni che arrivano a 700 atmosfere e il suo confinamento in solidi porosi è ancora in via sperimentale. Oggi nel mondo si producono 73,9 milioni di tonnellate di idrogeno per un valore di mercato di 150 miliardi di dollari. Il 96% arriva da combustibili fossili, si chiama idrogeno «grigio» e per farlo si utilizza come materia principalmente il metano, ma anche il petrolio e il carbone. Un processo che libera 9 kg di CO2 ogni kg prodotto ed è quindi incompatibile con gli obiettivi di emissioni zero. L’industria petrolifera spinge per l’idrogeno «blu»: il processo è lo stesso di quello grigio, ma la CO2 prodotta verrebbe catturata e stoccata nei giacimenti esausti di petrolio e gas. Su questa tecnologia sono stati investiti nel mondo molti soldi, con risultati deludenti: vari progetti sono stati chiusi. C’è l’esperimento della Norvegia, che utilizza un giacimento esausto di gas per stoccare CO2. Si trova nel mezzo del mare del Nord, lontanissimo dalla terraferma. Ed è quello che vorrebbe fare l’Eni nel suo giacimento di metano esausto di fronte a Ravenna. Ma utilizzare combustibile fossile per trasformarlo in idrogeno, e sotterrare la CO2 prodotta, richiede una enorme quantità di energia. Il vantaggio per l’industria però è un altro. Per spremere dai giacimenti fino all’ultima goccia di petrolio, oggi si iniettano liquidi e vari gas (per aumentare la pressione); domani si potrebbe spingere dentro solo la CO2 prodotta facendo idrogeno. Problema: l’anidride carbonica una volta sotterrata diventa liquida, e poiché parliamo di volumi potenzialmente enormi, secondo il Cnr occorre valutare attentamente il rischio sismico, che in Italia è quello che è.

L’idrogeno buono è verde. L’unico idrogeno a zero emissioni è quello «verde», perché la materia prima utilizzata è l’acqua e l’energia per produrlo è elettrica e può provenire da fonti rinnovabili. Eppure oggi quello verde è solo il 4% della produzione dell’ idrogeno mondiale. Le ragioni sono almeno tre: 1) non abbiamo energia rinnovabile sufficiente per farlo, per avere un positivo impatto ambientale dobbiamo aumentare di 80 volte la produzione mondiale; 2) il processo di produzione è molto energivoro e con la tecnologia di oggi non siamo in grado di farlo su scala industriale; 3) il costo, dai 4 ai 6 euro per un kg di idrogeno verde, contro l’1,5 di quello grigio e per quello blu, che ancora non esiste in commercio, si stimano 2 euro. Il verde quindi ora è fuori mercato. La Commissione europea, però, prevede che con l’aumento della produzione il costo degli elettrolizzatori, i macchinari per produrre idrogeno dall’acqua, si dimezzerà entro il 2030 e nel 2040 l’idrogeno verde dovrebbe diventare competitivo (2 € al kg), consentendo nell’arco di 10 anni di sostituire con idrogeno il combustibile fossile nell’industria pesante, e nel traporto come camion, navi, treni, e forse aerei.

La grande scommessa. L’idrogeno verde dunque dovrebbe essere uno dei pilastri per un futuro decarbonizzato: può essere bruciato come il metano (producendo però ossidi di azoto) oppure convertito in energia elettrica con le celle a combustibile, ove si produce solo vapore acqueo. Per questo l’Unione Europea ha deciso di puntarci per arrivare a emissioni di carbonio zero nel 2050, e l’8 luglio 2020 ha definito una strategia operativa: la produzione di idrogeno verde dovrà passare in 30 anni dal 2% al 14%. Le tappe sono tre: 1) entro il 2024 l’installazione di 6 gigawatt di elettrolizzatori per produrre 1 milione di tonnellate di idrogeno verde; 2) entro il 2030 almeno 40 gigawatt di elettrolizzatori e 10 milioni di tonnellate; 3) entro il 2050 un quarto di energia rinnovabile generata servirà a produrre idrogeno verde da utilizzare su larga scala. Numeri poco credibili: secondo i calcoli del Cnr non andremo oltre le 700 mila tonnellate al 2024 e 4,5 milioni al 2030. Ma per arrivarci ci sono tante cose da fare prima: entro il 2030 aumentare al 32% la quota di energia da fonti rinnovabili negli usi finali, tagliare i consumi di energia primaria del 32,5% e aumentare l’interconnessione di almeno il 15% dei sistemi elettrici dell’Ue. Integrare il sistema energetico vuol dire gestirlo nell’insieme, ad esempio: l’energia elettrica che alimenta le auto può arrivare dai pannelli solari sul tetto, mentre le case possono essere riscaldate dal calore di scarto di una fabbrica nelle vicinanze che, a sua volta, si alimenta con l’idrogeno prodotto dall’energia eolica o solare in eccesso. L’insieme di questi processi trascina anche il rilancio dell’economia: 5 milioni di posti di lavoro secondo McKinsey (di cui 540 mila in Italia - Forum Abrosetti) per un volume d’affari nel mondo, secondo Bank of America e Goldman&Sachs, di 11/12 mila miliardi di dollari nel 2050.

Le potenzialità inespresse dell’Italia. In sostanza, per arrivare ad una produzione di elettricità in eccesso rispetto ai fabbisogni elettrici occorre costruire reti integrate e intelligenti e aumentare drammaticamente la produzione di rinnovabile. L’Italia era partita bene, ma poi abbiamo rallentato: produciamo ancora il 45% dell’elettricità con il gas. Nel resto del mondo nel 2020 è stato record di crescita per le rinnovabili, scrive la Iea nel suo rapporto, e boccia l’Italia che sta avanzando di un solo gigawatt in più all’anno: vuol dire che agli obiettivi da raggiungere nel 2030 ci arriveremo nel 2085. Di questo passo l’idrogeno verde lo vedremo con il binocolo. Intanto Snam, Saipem e Italigas sono tutti entusiasti ai blocchi di partenza. Hanno firmato accordi, protocolli, stilato progetti. Ma di concreto ancora nulla. In compenso in Sardegna, regione solare e ventosa adatta quindi ad un incremento di impianti per la produzione di rinnovabili, si stanno piazzando tubi del gas. Il progetto di metanizzazione dell’isola, che ha ancora due centrali a carbone attive, è vecchio di anni, ma lo stiamo realizzando adesso, sapendo che ci vogliono 50 anni per ammortizzarlo e che fra 30 anni potrebbe non servire più. Ma un giorno potrà passarci l’idrogeno, dicono Snam e Italgas. Chissà se andranno bene un giorno quei tubi e quelle valvole. Intanto l’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti Ambiente, non solo ha detto che la migliore soluzione dal punto di vista costi-benefici è quella del trasportare sull’isola il metano liquefatto con navi spola dai terminali e poi distribuirlo via gomma, ma ha anche bocciato il piano di metanizzazione dell’isola presentato da Enura, la joint venture tra Snam e Società Gasdotti Italia. In Olanda dal 2018 per legge è vietato posare nuovi tubi. In Gran Bretagna dal 2025 nelle case non si dovranno più installare boiler a gas. In Germania da quest’anno chi utilizza il gas in casa deve pagare una tassa che servirà a finanziare la transizione verso l’elettrico, che è molto più efficiente grazie a pompe di calore e forni a induzione. In buona parte della California è vietato da quest’anno l’utilizzo del gas negli edifici nuovi. Sul punto l’Agenzia Internazionale per le Rinnovabili ha detto espressamente: il potenziale passaggio all’idrogeno non deve essere usato come giustificazione per costruire ora nuovi gasdotti, con la scusa che possano servire per il gas verde nel futuro.

Articolo di "Le Monde" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 14 febbraio 2021. Il 2020 è stato un anno nero per i giganti del petrolio. Le cinque maggiori compagnie internazionali hanno accumulato più di 77,1 miliardi di dollari di perdite, ossia 63,7 miliardi di euro. Un crollo senza precedenti nella storia recente del settore, dovuto a circostanze eccezionali in un periodo particolarmente tormentato. Il contrasto con il 2019 è impressionante. Questi cinque mastodonti - BP, Chevron, Exxon, Shell e Total - avevano fatto 48,8 miliardi di dollari di profitti all'epoca. Poi l'incredibile disfatta finanziaria, iniziata nel marzo 2020. Mentre i primi scossoni della pandemia di Covid-19 si facevano sentire sui mercati, l'alleanza tra il cartello dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) - guidato dall'Arabia Saudita - e la Russia è andata in frantumi. E i due giganti si sono lanciati in una violenta guerra dei prezzi. Questa battaglia ha dovuto fare i conti anche con la realtà della crisi sanitaria. Le misure di contenimento adottate in molti paesi hanno avuto un impatto drammatico sul consumo di petrolio: nell'aprile 2020, la domanda globale è scesa del 30%. Per l'intero anno, il calo è stato del 9%. Questo doppio shock ha fatto crollare i prezzi fino all'assurdo: alla fine di aprile, i valori americani sono addirittura diventati per un breve periodo negativi. Il prezzo di un barile di brent del Mare del Nord, che è il punto di riferimento mondiale, è sceso a un minimo storico di 16 dollari. Con il ritorno dell'attività in Cina e i severi tagli alla produzione da parte dell'OPEC e della Russia - da allora riconciliati - il prezzo al barile è tornato a circa 50 dollari alla fine dell'anno scorso, e ha addirittura superato la soglia dei 60 dollari all'inizio del 2021.

Mantenimento del pagamento dei dividendi. Per le major del petrolio questo anno di oscillazioni sarà difficile da superare. L'esempio più eclatante è certamente il gigante americano ExxonMobil, la cui stella si è notevolmente affievolita. Mentre il gruppo ha registrato profitti per 14,3 miliardi di dollari nel 2019, si ritrova con una perdita di 22,4 miliardi nel 2020. L'azienda ha dovuto accettare di svalutare pesantemente il suo portafoglio di attività, una pratica che ha sempre rifiutato di fare. Il suo concorrente Chevron sta facendo un po' meglio, con perdite pari a 5,5 miliardi di dollari - il gruppo ha approfittato del momento per acquisire un buon connazionale, Noble Energy. Anche i tre leader europei si sono inginocchiati. La BP britannica e la Shell olandese stanno registrando perdite per più di 20 miliardi di dollari. La francese Total fa un po' meglio, con una perdita di 7,2 miliardi. Tutti i gruppi hanno tagliato pesantemente i loro investimenti, venduto alcuni beni e annunciato massicci piani di risparmio. BP ha pianificato l'uscita di più di 10.000 dipendenti, Shell ha previsto di tagliare da 7.000 a 9.000 posti di lavoro entro il 2022. Ciononostante, hanno voluto mantenere il pagamento dei dividendi agli azionisti.

Passare al veicolo elettrico. L'aumento dei prezzi del barile dalla fine del 2020 ha dato un po' di respiro ai principali attori del settore, ma questo non basta. "Le incertezze macroeconomiche sono molto forti, il mondo non sarà vaccinato in pochi mesi", ha avvertito l'amministratore delegato di Total Patrick Pouyanné martedì 9 febbraio, sottolineando che "il mercato è fortemente sostenuto dalle decisioni dell'Arabia Saudita". Da dicembre 2020, per spingere la Russia e l'OPEC a mantenere forti restrizioni, Riyadh ha deciso di applicare tagli ancora più drastici per sostenere i prezzi. "La vera domanda è quando i prezzi al barile non avranno più bisogno [delle quote] dell'OPEC per raggiungere quel livello, e la risposta è legata alla traiettoria della ripresa della domanda. Ma non siamo tornati ai livelli pre-Covid, anche se i prezzi sono già a quel livello", dice Paola Rodriguez-Masiu di Rystad Energy. L'idea che la domanda non tornerà rapidamente al suo livello pre-crisi sta guadagnando terreno tra le compagnie petrolifere, soprattutto perché l'accelerazione del passaggio ai veicoli elettrici potrà anche cambiare il mercato a medio termine.

Sotto la pressione della transizione energetica. Questo mette le grandi imprese in una situazione insostenibile: da un lato, per sedurre i loro azionisti storici, devono continuare a ricavare entrate dal petrolio e dal gas. Ma sono anche sotto pressione per le dinamiche della transizione energetica. Due strategie si fronteggiano: i gruppi americani continuano a dipendere fortemente dagli idrocarburi e sperano che l'aumento dei prezzi renda nuovamente competitivi i giacimenti di petrolio del Texas e del Nuovo Messico. Per fare buon viso a cattivo gioco, ExxonMobil ha annunciato la creazione di una filiale che lavora sui processi di immagazzinamento del carbonio, ma il gigante americano non ha preso alcun impegno sul clima. D'altra parte, le multinazionali europee stanno cominciando ad ampliare i loro portafogli investendo sempre di più nell'elettricità. Total ha aumentato le sue acquisizioni nell'energia eolica e solare negli ultimi mesi e prevede di cambiare il suo nome a maggio in TotalEnergies. Un modo per il suo CEO di allontanare il gruppo da un'identità petrolifera che è diventata meno attraente per gli investitori. Entro il 2021, Total prevede di investire almeno 2 miliardi di dollari nelle energie rinnovabili - su un portafoglio previsto di 12 miliardi di dollari. Shell prevede di fare lo stesso, e BP punta sull'acquisizione di partecipazioni nell'energia eolica offshore negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma questi impegni rimangono timidi e sono molto al di sotto degli impegni di neutralità del carbonio presi dalle major europee. I loro risultati del 2020 illustrano ancora una volta la misura in cui la loro salute finanziaria dipende principalmente dal prezzo del barile di petrolio. E dai suoi imprevedibili alti e bassi.

Così le nuove tecnologie trasformeranno il settore energetico. Dalle batterie, ai veicoli elettrici, fino alle nuove strutture basate sulla digitalizzazione: sono alcune delle tecnologie che trasformeranno il settore energetico. E CESI si dimostra in prima linea nella ripartenza. Francesca Bernasconi, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. La pandemia da nuovo coronavirus ha avuto un impatto anche sul settore energetico. Ma l’altra faccia della medaglia mostra la possibilità di convertire la crisi in un’opportunità di trasformazione del settore dell’energia verso un sistema "resiliente", in grado di adattarsi e convivere con uno scenario in continuo mutamento. In questo panorama, giocano un ruolo fondamentale le nuove tecnologie, che contribuiscono alla transizione energetica.

La transizione del mercato energetico. Il lockdown ha permesso da un lato la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, mentre dall’altro ha favorito le energie rinnovabili che, come spiega il Direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), Fatih Birol, "hanno retto". Non solo. Per la prima volta in assoluto, infatti, la produzione da fonti rinnovabili ha superato quella dei combustibili fossili: "Nonostante le difficoltà causate dalla crisi del Covid-19, diversi sviluppi recenti ci danno motivo di crescente ottimismo sulla capacità del mondo di accelerare la transizione verso un’energia pulita e raggiungere gli obiettivi energetici e climatici", ha dichiarato Birol nel report Prospettive di tecnologia energetica 2020. Anche l’analisi effettuata da CESI, azienda italiana leader mondiale nel campo dell'innovazione tecnologica, della consulenza e del testing per il settore elettrico, ha evidenziato come la crisi "rappresenti quello che potrebbe accadere fra cinque anni in termini di penetrazione delle Fonti energetiche rinnovabili (FER) rispetto al carico: 44% nel 2020, 30% nello stesso periodo del 2019". Ma le misure imposte durante la pandemia hanno evidenziato anche la necessità di creare reti intelligenti, in grado di far fronte agli improvvisi cambiamenti dello scenario esterno. Negli ultimi anni, questa eventualità è sempre stata accostata al cambiamento climatico e agli eventi atmosferici estremi, ma ora il concetto di “resilienza” sta cambiando: "A causa dei cambiamenti inediti nella domanda di energia elettrica e nel mix di generazione durante il lockdown, i sistemi elettrici di tutti i Paesi hanno dovuto far fronte repentinamente a condizioni di funzionamento estreme, dovendo comunque assicurare la stabilità delle reti e la continuità del servizio", ha spiegato il CEO di CESI, Matteo Codazzi. Nonostante la provata capacità nel garantire il soddisfacimento della domanda, gli ultimi mesi hanno messo in evidenza la necessità di intervenire per rendere il sistema più flessibile, mantenendo la sicurezza e la garanzia di fornitura. Non solo: è necessario evitare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico, continuando sulla strada della riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Per soddisfare queste esigenze, stanno emergendo innovazioni tecnologiche volte a favorire una transizione del mercato energetico, in cui le fonti rinnovabili diventino protagoniste.

Verso un mercato più flessibile. In un panorama energetico di questo tipo, che si apre sempre più alle fonti di energia rinnovabile variabili (VRE), è fondamentale creare un sistema flessibile, in grado di mantenere l’equilibrio tra domanda e offerta. La riduzione dei costi dell’energia solare ed eolica ha posto la necessità di adattare i sistemi a queste nuove fonti, la cui produttività dipende dall’ambiente esterno, che le rende profondamente variabili e non programmabili. Per creare un sistema flessibile sono necessarie la decentralizzazione delle risorse del sistema (che porta a una migliore gestione della domanda), la digitalizzazione (che permette una risposta più rapida alle esigenze) e l’elettrificazione anche dei settori che attualmente fanno uso diretto di risorse fossili (ad esempio il trasporto su strada). Utili a questi scopi sono le nuove tecnologie che si stanno sviluppando in diversi Paesi e che l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA) ha diviso, nel Report Innovation landscape for a renewable-powered future: solutions to integrate variable renewables, in 30 categorie, raggruppate in 4 dimensioni: tecnologie abilitanti, business models, market design e system operation. Le tecnologie abilitanti sono fondamentali nel facilitare l’integrazione delle energie rinnovabili nel sistema. Alcune delle strategie che possono essere messe in atto comprendono l’uso di batterie in grado di immagazzinare l’elettricità nei periodi di surplus per utilizzarla al bisogno, compensando la variabilità delle energie rinnovabili, e l’uso di tecnologie digitali, che permettono la trasmissione in tempo reale di tutte le comunicazioni e informazioni della rete. Un esempio è il Blockchain, una tecnologia in grado di registrare in modo sicuro tutte le transizioni che avvengono in una determinata rete. Tra le tecnologie abilitanti prende posto anche l’elettrificazione spinta, che mira a eliminare l’uso dei combustibili fossili nei settori finali come trasporti, abitazioni e industrie. La seconda dimensione è composta da business models, cioè da modelli innovativi di business che possano dare maggiori responsabilità ai consumatori, trasformandoli in soggetti attivi. Questi modelli risultano essenziali per monetizzare il nuovo valore creato dalle tecnologie e consentirne la distribuzione, operando in due direzioni. Da un lato, infatti, l’obiettivo è quello di responsabilizzare il consumatore, data la disponibilità a tutti i livelli delle risorse energetiche per la produzione di elettricità, mentre dall’altro il sistema potrebbe puntare all’approvvigionamento di energia nelle aree densamente popolate, tramite la costituzione di cosiddette energy communities. In casi opposti, ossia in presenza di comunità in aree remote, può essere una soluzione efficiente la costituzione di centri locali di produzione da energie rinnovabili connesse ai carichi tramite reti locali (mini- o micro-grids). In entrambi in contesti assumono particolare rilievo gli aggregatori, che uniscono tanti piccoli sistemi di accumulo, creando una sorta di centrale virtuale. La velocità dell’innovazione tecnologica richiede un rapido affiancamento di nuovi business models, fondamentali per stare al passo con la transizione energetica in atto. Ma non basta. Fondamentale diventa anche adattare il design di mercato alle nuove sedi e ai nuovi sistemi, per consentire la creazione di flussi di reddito adeguati. Si tratta di una evoluzione che riguarda sia il mercato all’ingrosso che quello al dettaglio, per rendere il sistema elettrico ancora più flessibile. L’obiettivo è quello di stimolare nuove opportunità di business in un sistema basato sulle fonti rinnovabili. Ne è un esempio l’introduzione della tariffa time-of-use, che prevede una determinata tariffa a seconda del tempo di utilizzo: i consumatori vengono esposti a prezzi energetici variabili nel tempo, così da poter reagire spostando il proprio consumo. Infine, in un sistema basato su nuove tecnologie sostenute da un sicuro design di mercato, sono necessarie innovazioni nella gestione del sistema, per integrare nella rete quote sempre maggiori di fonti rinnovabili. Questo obiettivo può essere raggiunto adottando nuovi modi per la gestione della distribuzione e attraverso previsioni metereologiche avanzate, che permettano di pianificare una capacità alternativa durante il periodo in cui si verificano eventi estremi, riducendo le incertezze dovute alla variabilità delle fonti. La sinergia tra queste quattro categorie aumenta la flessibilità di produzione, trasmissione e utilizzo dell'energia, permettendo la transizione verso un sistema energetico sicuro e libero dai combustibili fossili. Nel Report, IRENA ha riassunto questo percorso che, come mostra la figura seguente, parte dalle innovazioni messe in campo per incrementare la flessibilità, per arrivare al sistema finale completamente decarbonizzato, ma nel rispetto dei criteri di sicurezza ed affidabilità.

CESI in prima linea nella ripartenza. La transizione energetica rappresenta una sfida significativa per il mercato, nonostante le numerose innovazioni che stanno emergendo e si stanno sviluppando in tutto il mondo, sull’onda dei cambiamenti causati dalla pandemia da nuovo coronavirus, che hanno dato una spinta in questo senso. E in prima linea nello sviluppo di un mercato energetico flessibile e resiliente emerge CESI, azienda italiana leader mondiale nel campo dell’innovazione e del testing, che propone una serie di soluzioni innovative. Durante il periodo di pandemia l’azienda, attraverso la sua Divisione KEMA Labs, è rimasta al fianco dei propri clienti, garantendo i propri servizi, nonostante l’impossibilità di essere fisicamente presenti nei laboratori, sfruttando la realtà aumentata per portare avanti l’attività di testing. Per questo, CESI ha avviato l’esperienza Remote Labs, che consente l’assemblaggio degli oggetti di prova e l’esecuzione di test con dati condivisi in tempo reale, permettendo al cliente di assistere da remoto a tutto il processo attraverso la realtà aumentata, la digitalizzazione e il video. In questo modo, i clienti diventano "parte attiva del processo di test direttamente da qualsiasi luogo si trovino". I test da remoto consentono di aumentare l’interattività, permettendo di controllare la qualità dei prodotti e consentendo la flessibilità del processo grazie alla possibilità di coinvolgere esperti da tutto il mondo. In questo modo, "la realtà aumentata, la digitalizzazione, l'assistenza remota e gli strumenti video online diventano parte di un nuovo modo di svolgere i test". Tra le soluzioni principali messe a punto per la creazione di un sistema sostenibile e flessibile, CESI ha sviluppato una serie di nuove strategie, dalle batterie, fino allo smart charging dei veicoli elettrici e all’energy storage. Quest’ultimo rappresenta uno strumento particolarmente efficace, perché permette di accumulare ampie quantità di energia proveniente da fonti rinnovabili variabili (e quindi non programmabili), rilasciando poi la quantità di energia necessaria in maniera programmata, garantendo la fornitura. In questo contesto, CESI ha sviluppato una serie di simulatori del mercato, in grado di accertare quali siano i servizi maggiormente redditizi e i rischi che si corrono. Fondamentale è anche lo sviluppo di infrastrutture di interconnessione e l’incentivazione degli usi finali basati su energia derivata da fonti rinnovabili, come i veicoli elettrici. Come spiega l’Energy Journal, il magazine del CESI, di dicembre 2020, "uno degli elementi che consente di migliorare la flessibilità del sistema è lo stoccaggio dell'energia", tramite batterie che, insieme alla gestione della domanda, sono fondamentali per lo sviluppo di un sistema flessibile. Si tratta, in generale, di interventi che non solo favorirebbero il sistema elettrico, ma aiuterebbero l’intero sistema economico italiano ed europeo attraverso la loro realizzazione. Per attuare la transizione del settore energetico verso un sistema sostenibile, resiliente e flessibile, le innovazioni non bastano. Fondamentale è anche il supporto delle politiche governative, che dovrebbero sostenere le iniziative del settore tramite finanziamenti per progetti utili a combattere il cambiamento climatico, nonché velocizzare le procedure autorizzative per l’effettiva realizzazione sia degli impianti di generazione da fonti rinnovabili che delle risorse di accumulo.

Il mago di Helbiz. Report Rai PUNTATA DEL 25/01/2021 di Daniele Autieri, collaborazione Federico Marconi e Silvia Scognamiglio. I monopattini stanno riscrivendo le regole della mobilità urbana anche in Italia. E la Helbiz è stata la prima azienda ad aver portato lo sharing nel nostro paese. La società ha ottenuto concessioni per la condivisione dei suoi mezzi in oltre venti città italiane, a partire da Roma e Milano. Ma chi c’è dietro la Helbiz? L’amministratore delegato si chiama Salvatore Palella, è nato ad Acireale 33 anni fa e oggi guida un gruppo mondiale dal suo ufficio al 32° piano di un grattacielo di Wall Street, a New York. La storia della Helbiz si intreccia con quella di tanti personaggi del jet set e dello sport italiano, da Alessandro Del Piero che offre il suo volto per uno spot, a Marco Borriello, tirato in ballo nella lista dei possibili investitori. Dal passato di Palella emergono però numerose ombre e relazioni con figure vicine alla criminalità organizzata e personaggi dal passato controverso. La società ha una holding di controllo nel Delaware, che scherma l’identità dei suoi azionisti, mentre sulla testa di Palella pende una richiesta di class action, presentata presso la District Court di New York City, per un’avventura imprenditoriale finita male nel mondo delle criptovalute. Alla luce di questo e molto altro, chi c’è realmente dietro la Helbiz? Con quali capitali viene finanziata l’azienda? E soprattutto, che responsabilità hanno le pubbliche amministrazioni e lo stato italiano nelle mancate verifiche sulle società incaricate di condurci nella mobilità del futuro?

IL MAGO DI HELBIZ di Daniele Autieri collaborazione Federico Marconi – Silvia Scognamiglio immagini Giovanni De Faveri, Andrea De Marco, Dario D’India, Alfredo Farina montaggio Andrea Masella grafica Michele Ventrone.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per utilizzare i monopattini elettrici si deve scaricare un’app, ci si registra, si inseriscono i dati della carta di credito, si sblocca il mezzo e il viaggio ha inizio. Sembra un “giocattolo” utile per decongestionare il traffico e inquinare meno. Forse per questo le amministrazioni hanno avuto un approccio molle, e lo stato non ha ancora pienamente regolato il settore. Eppure dietro il monopattino crescono imprenditori che studiano per diventare gli Elon Musk del futuro. Uno di loro è sicuramente Salvatore Palella, fondatore della società Helbiz.

DANIELE AUTIERI Abbiamo fatto seimila chilometri, siamo arrivati qua a New York da lei perché in europa si dice che lei è il re dei monopattini. Quindi è vero?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Ovviamente devo ammettere che siamo stati tra i primi che hanno investito nella micromobilità elettrica. Essere il primo in Italia è importante in quanto ovviamente sono di origini italiane.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Salvatore Palella oggi vive stabilmente nella Grande Mela, ha sposato una modella di Sport Illustrated e insieme hanno festeggiato la nascita del figlio George W. con un selfie a Times Square che li immortala ai piedi della foto del pargolo impressa sui cartelloni pubblicitari della piazza. Ci riceve nel quartiere generale della Helbiz, al 32° piano di un grattacielo nel cuore di Wall Street, in presenza del suo avvocato americano e dei legali in collegamento da Roma. La loro presenza è un monito.

DANIELE AUTIERI Qui siamo un po’ in un bunker, ci sono telecamere che ci riprendono, persone collegate, avvocati… diciamo che non ci sentiamo proprio i benvenuti.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Che tu non sia il benvenuto questo te lo posso dire io sicuramente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci fosse uno che ci accoglie a braccia aperte. La presenza degli avvocati e delle telecamere che registrano è un avvertimento: fate attenzione a raccontare le cose per bene. Noi comunque, Mr Palella lo ringraziamo perché consentendoci di raccogliere il suo punto di vista, ci dà l’opportunità di fornire al nostro pubblico un’informazione completa. Anche perché la sua, è una storia incredibile. È a capo della Helbiz, una società leader nel mondo dello sharing dei monopattini elettrici, un settore in via di sviluppo. Il mercato europeo e quello degli Stati Uniti da soli potrebbero valere 30 miliardi di dollari. Siamo pronti a vigilare su un settore che si sta espandendo in questa maniera? Quella di Palella è una storia che comincia ad Acireale, aveva i pantaloncini corti quando ha cominciato a giocare a fare l’imprenditore di successo. Si vanta di essere nato lo stesso giorno di Silvio Berlusconi e di ammirare Trump. È da picciriddu che ambisce alle copertine di Forbes, ai viaggi oltreoceano, NewYork, Los Angeles, Miami. E poi, vacanze da vip, belle donne, a Porto Cervo e nei luoghi più esotici. Si muove come imprenditore con disinvoltura tra aziende che vendono bevande, bitcoin, squadre di calcio e anche monopattini elettrici per finire. Con una costante: sceglie sempre le amicizie sbagliate. Quelle giuste le trova nei salotti e nelle palestre di Milano. Il nostro Daniele Autieri.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Salvatore Palella fonda la Helbiz Italia nell’ottobre del 2018 e in pochi mesi diventa uno dei leader in Europa dei monopattini. Ma chi c’è dietro questa impresa? Un broker della finanza, che ha fatto un pezzo di strada accanto a Palella, ci racconta la sua rete di relazioni.

BROKER FINANZIARIO Io incontro per la prima volta Salvatore Palella al Club 10 del Principe di Savoia…

DANIELE AUTIERI Cos’è il Club 10?

BROKER FINANZIARIO È la palestra più esclusiva di Milano. Ai tempi c’erano tutti i dirigenti del Milan, tuttto il top management delle grandi banche. Tutto il gotha della città.

DANIELE AUTIERI E Palella come fa ad entrare in un posto del genere?

BROKER FINANZIARIO Palella era molto legato a Ricucci che era un socio storico del Club 10. Ma era anche molto legato a suo figlio, Edoardo, che poi porta con sé a lavorare in Helbiz. Ma Palella fa parte di un giro molto più grande.

DANIELE AUTIERI Nell’ambito di queste relazioni che Palella aveva, chi erano quelli più vicini a lui, quelli più stretti?

BROKER FINANZIARIO Da Emilio Fede, a Ponzellini, l’ex-presidente della banca Popolare di Milano. Il suo socio nella Ico era Lorenzo Pellegrino, numero uno di Skrill.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Salvatore Palella si accredita così nella finanza milanese. Edoardo, il figlio di Stefano Ricucci, viene assunto nella società dei monopattini, l’ex-presidente della Banca popolare di Milano, Massimo Ponzellini, partecipa al primo compleanno di George W Palella; Emilio Fede diventa un suo assiduo frequentatore così come Lorenzo Pellegrino, già partner di Palella e amministratore delegato di Skrill, una delle società leader nei pagamenti digitali, sponsor del Milan.

DANIELE AUTIERI Che rapporto c’è con Stefano Ricucci?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ È una persona che conoscevo durante la mia vita di Milano, è una delle persone più intelligenti che abbia conosciuto nella mia vita.

DANIELE AUTIERI Massimo Ponzellini, invece, l’ex-presidente della Bpm condannato per corruzione privata, poi è intervenuta la prescrizione dopo…

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Non conosco le sue vicende giudiziarie, se non sbaglio è stato completamente prescritto.

 DANIELE AUTIERI È stata prescritta si.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ È stata prescritta, è uno dei nostri consulenti in azienda, mi aiuta a gestire la quotazione, è una delle persone più rispettate che io abbia mai visto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Tra i finanziatori della società di monopattini c’è anche Riccardo Silva per anni gestore dei diritti esteri delle partite di Serie A. In Italia Silva finisce in un’inchiesta sul giro d’affari legato ai diritti televisivi dello sport, ne esce pulito e sbarca negli Usa dove apre un fondo di investimento che spazia dal calcio alla moda, fino all’immobiliare.

DANIELE AUTIERI E oggi questo Silva che fa? BROKER FINANZIARIO Silva oggi vive a Miami dove ha fondato il Miami Football Club e gestisce la sua società che è global player della finanza che investe su tutto ciò che porta utili.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A parte Riccardo Silva rimane il mistero su chi siano gli altri finanziatori di Helbiz. Di tanto in tanto in rete spuntano notizie su nuovi investitori e una di queste coinvolge anche Marco Borriello, l’ex-attaccante della Nazionale che oggi vive e lavora a Ibiza.

MARCO BORRIELLO – DIRIGENTE SPORTIVO – EX CALCIATORE Non ho niente a che fare io con Helbiz. Facevo solamente due giretti, così per… parcheggiare.

DANIELE AUTIERI Ah, perché c’è questa notizia in rete…

MARCO BORRIELLO No, assolutamente, falso, falso.

DANIELE AUTIERI Falso!

DANIELE AUTIERI Palella lo conosce però?

MARCO BORRIELLO – DIRIGENTE SPORTIVO – EX CALCIATORE Sì, sì, lo conosco. Non voglio che mi miei nomi siano legati a monopattini o Palella.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Borriello smentisce. Non è facile capire chi siano gli azionisti della compagnia dei monopattini. La Helbiz Italia discende dalla Helbiz Limited di Dublino, controllata a sua volta dalla Helbiz Inc, una holding con sede nel Delaware che fa capo proprio a Salvatore Palella.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO È chiaro che è uno schema offshore. Nel Delaware ad esempio non c’è bisogno di avere una contabilità. Sembra assurdo, ma una società senza contabilità che cos’è? È uno schermo.

DANIELE AUTIERI Che cosa ci raccontano i bilanci delle Helbiz in Europa?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO La italiana ha dei conti oggettivamente pessimi, nel senso che perde 950mila euro, consuntivando ricavi per 700mila euro, quindi perde più di quel che incassa. La società irlandese perde anch’essa. L’irlandese oltre a controllare l’Italia, controlla anche una società in Serbia che non ha capitale. Ha capitale zero. Poi controlla anche un’inglese che però è stata costituita a luglio del 2020, non ha bilancio evidentemente, ha un capitale di 100 sterline.

DANIELE AUTIERI Il giro d’affari europeo di Helbiz non giustifica nemmeno il tenore di vita di Palella negli Stati Uniti?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Il giro d’affari delle società Helbiz non giustifica nemmeno l’esistenza delle società Helbiz.

SALVATORE PALELLA Abbiamo un giro d’affari di circa 15 milioni lo scorso anno…

DANIELE AUTIERI In Italia un milione circa.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Non è un nostro mercato di riferimento… il nostro mercato di riferimento è gli Stati Uniti D’America.

DANIELE AUTIERI Negli Stati Uniti avete un giro d’affari considerevole?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Beh sì, basta contare che tutti gli scooter, i monopattini elettrici che abbiamo in Italia sono presenti in una licenza che è Washington DC, più abbiamo tante altre città.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO In Italia Milano è il primo comune che apre le porte ai monopattini di Helbiz, seguita a distanza di pochi mesi da Roma, Napoli, Parma, Torino, e da molte altre città italiane. Ma all’amministrazione comunale qualcuno ha delineato la figura e i trascorsi di Salvatore Palella.

DEPUTATO Guardi che al Comune di Milano sanno bene chi c’è dietro la Helbiz.

DANIELE AUTIERI Come lo fanno a sapere?

DEPUTATO Perché gliel’ho segnalato io. …

DANIELE AUTIERI In che modo?

DEPUTATO Gli ho mandato articoli di giornale. Conosco il personaggio da una vita. Gli ho semplicemente detto: guardate che qui c’è questo problema, valutate voi.

DANIELE AUTIERI Lei a chi l’ha mandata la segnalazione?

DEPUTATO A una persona dell’amministrazione… una persona importante.

DANIELE AUTIERI Questa persona ha fatto qualcosa, è intervenuta?

DEPUTATO Mi ha detto che loro i controlli li fanno, con gli strumenti che hanno, ovviamente in assenza di atti giudiziari sono limitati. Loro fanno bandi e partecipa chi vuole e chi ha i requisiti vince.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A novembre il comune obbliga Helbiz, Bird e Circ a cessare l’attività e ritirare i loro veicoli. Il provvedimento viene preso per il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza, in particolare per via di anomalie sul sistema di moderazione della velocità e della sosta. In un solo colpo 2.250 monopattini spariscono dalle strade di Milano.

DANIELE AUTIERI Mi chiedo se non sia curioso il fatto parlando della Helbiz che questa società abbia ottenuto autorizzazioni a mettere in servizio i propri monopattini praticamente in tutte le grandi città italiane e nessuna abbia fatto un controllo.

DOMENICO IELO - AVVOCATO ESPERTO PUBBLICA AMMINISTRAZIONE La legislazione nazionale non ha previsto in modo preciso dei requisiti particolarmente stringenti.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Purtroppo il nostro legislatore incredibilmente ha ritenuto di esentare la pubblica amministrzione dalle attività di verifica della clientela ai finiti di antiriciclaggio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO All’inizio del 2020 viene approvato un emendamento alla manovra di bilancio presentato dal senatore Eugenio Comencini di Italia Viva che equipara i monopattini alle biciclette autorizzandone la circolazione sulle strade italiane. Il partito di Matteo Renzi è uno dei più convinti sostenitori della micromobilità. La Helbiz gli è riconoscente e il 16 novembre scorso versa a Italia Viva un chip da 1.000 euro. La circolazione dei monopattini adesso è libera e Palella è pronto a compiere il grande salto con la quotazione in Borsa al Nasdaq di Wall Street.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Palella ama talmente Wall Street da noleggiare i tabelloni a Time Square dove vengono proiettate le quote, questo per immortalare il momento più bello della sua vita: la nascita della sua creatura, George W. Palella. George W. in onore di Bush. Palella ha incassato le concessioni per far girare i suoi monopattini sulle strade, di Milano, Roma, Torino, Verona Bari, Pescara, Napoli Salerno. Nessuno tra gli amministratori gli ha chiesto “scusi, Mr Palella. Ma da dove prende i soldi? Chi sono i suoi soci?” Non glielo chiedono anche perché la legge non lo prevede. Lui ha delle società in Europa, abbiamo visto, in Italia, a Londra, in Serbia; fanno riferimento a Dublino e poi finiscono nel Delaware. Vedendo i bilanci di Helbiz il nostro consulente dice “guardate che però, vedendo le cifre, non è giustificata Helbiz proprio come impresa. Non ha motivo di esistere”. E Palella dice “guardate che i miei interessi sono soprattutto qui negli Stati Uniti”. Noi ovviamente gli crediamo. Chissà se qualcuno lì gli ha chiesto da dove vengono i suoi soldi, chi sono i suoi soci. Come è diventato imprenditore Palella? Noi ce lo siamo chiesti. E la risposta ha dell’incredibile: è storia di un picciriddru che cammina tra le strade di Acireale col naso all’insù guardando i faraglioni e sbarca poi tra i grattacieli degli Stati Uniti. Ma per fare così tanta strada hai bisogno di tante vitamine. E anche di saper cambiare la rotta al momento giusto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nei giorni in cui l’America saluta il suo nuovo Presidente, New York è l’ombra della città che non si ferma mai. In tanti hanno lasciato la metropoli. Chi è rimasto si è chiuso in casa e di sera le strade di Manhattan assomigliano a canyon senza vita.

 SARA TRAVERSO – DOMUS REALTY Abbiamo avuto un 40% di persone che dalla città si sono spostate nelle zone limitrofe. Più della metà addirittura erano residenti di Manhattan.

DANIELE AUTIERI Quante case sfitte ci sono a Manhattan?

SARA TRAVERSO – DOMUS REALTY Abbiamo avuto 16mila appartamenti sfitti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Covid ha piegato Manhattan: i grattacieli si sono svuotati, molti negozi hanno preferito chiudere, perfino il Memorial dell’11 settembre è stato transennato, mentre la città festeggia in silenzio l’arrivo di Biden. Tra gli sponsor della cerimonia di insediamento del nuovo presidente c’è anche la Helbiz Inc, la società leader nello sharing di monopattini guidata dall’italiano Salvatore Palella. È un fan di Trump, ma sale sul carro di Biden.

DANIELE AUTIERI Come le è venuta l’idea della Helbiz?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ La prima prima idea fu Help Biz, quindi Help nel Business, e quindi la possibilità di trovare un plumber, un idraulico, un elettricistista intorno a te, poi ovviamente si è andata modificando ma come tante idee della Silicon Valley nascono con un’idea e poi muoiono con un’altra.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’ascesa di Salvatore Palella inizia da Acireale, in questa casa ormai abbandonata, recintata dal comune e sommersa dalla posta mai letta. Ma evidentemente la dimensione siciliana gli deve essere stata stretta se a 19 anni ha fatto la valigia.

MARIO BARRESI – GIORNALISTA “LA SICILIA” Lui comincia da cervello in fuga andando a Milano e da lì spunta quasi dal nulla questa startup Witamine.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Witamine è un’azienda che vende succhi di frutta principalmente attraverso rivenditori automatici, ma finisce presto coinvolta in un’indagine della direzione distrettuale antimafia di Milano

MARIO BARRESI Perché ritenuta società di un braccio destro di un boss siciliano trapiantato al Nord.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Oltre alla Witamine, la procura di Milano sequestra società e locali per un valore di 15 milioni di euro tutti riconducibili al boss Guglielmo Fidanzati, figlio di Tanino, capo mandamento di Arenella Acquasanta. Guglielmo viene arrestato nell’aprile del 2011 per traffico internazionale di droga e riciclaggio, nell’ambito di un’operazione che coinvolge la ‘ndrangheta e clan criminali della ex-Jugoslavia.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ La witamine non fu sequestrata, si fu sequestrata all’interno di un… e fu ritornata dopo due, tre giorni dicendo che non era coinvolta in quei fatti.

DANIELE AUTIERI No, non dissero che non era coinvolta, la procura disse che lei era il prestanome di Michele Cilla, che era il braccio destro del boss Guglielmo Fidanzati… ricorda? Se lo ricorda questo Michele Cilla?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Mi ricordo Michele Cilla.

DANIELE AUTIERI Che rapporto avevate?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Nessun rapporto, se mi chiedi chi era so chi era, ma non avevamo nessun rapporto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Cilla è un noto gestore di discoteche, una cerniera tra il mondo del crimine organizzato e quello del jet set, passepartout per accedere ai giri di Lele Mora e della Milano da bere, che popola i locali notturni. Sta scontando la sua pena ai domiciliari in un paesino nell’ hinterland milanese dove lo incontriamo per chiedergli di Salvatore Palella.

MICHELE CILLA Conosco tutto di lui, l’ho creato io, è un uomo venuto da me, è venuto qui a studiare a fare università e mi era stato consigliato da amici di amici di mettermelo diciamo sotto la mia ala…

DANIELE AUTIERI Amici di che tipo? MICHELE CILLA Sotto la mia ala per… e aveva 17 anni.

DANIELE AUTIERI Ma mi dice dalla Sicilia chi è che ha detto, sto ragazzo...andiamo forza…

MICHELE CILLA Non si può. Una persona… che mi ha detto di aiutare questo ragazzo e di instradarlo perché era una brava persona.

MICHELE CILLA Quando all’epoca Lele Mora era il faraone, stiamo parlando degli anni d’oro, che io, i tutti i giorni eravamo lì sempre a pranzo e cena e quindi…

DANIELE AUTIERI C’era pure Palella?

MICHELE CILLA Era sempre con me Palella, era il mio assistente personale…

DANIELE AUTIERI Ho letto nelle ordinanze che era la sua testa di legno…

MICHELE CILLA Non è vero. La Witamine era sua. Poi io l’ho aiutato perché lui era un tipo, era un ragazzo che faceva tutto facile, per lui era tutto facile all’epoca. Staccava assegni a destra e a manca.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’aiuto di Michele Cilla non basta. Pochi mesi dopo il sequestro, la Witamine viene messa in liquidazione e Palella decide di tornare nella sua terra e lì lanciarsi in una nuova avventura imprenditoriale: acquistare l’Acireale Calcio.

TG REGIONALE DEL 08/02/2013 “Habemus firma. La fumata bianca è arrivata ieri pomeriggio intorno alle 18 con Salvatore Palella che finalmente ha acquisito l’Acireale Calcio”.

ORAZIO SORBELLO – DIRETTORE TECNICO ACIREALE CALCIO 2013 Ha fatto venire dopo una partita che abbiamo giocato in notturna i Negramaro, le veline. Che hanno movimentato un po’ di entusiasmo nella città.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ma l’incantesimo si rompe presto. E il risveglio è amaro. I giocatori non vengono pagati, i tifosi si rivoltano contro il loro presidente.

SALVATORE PALELLA - CONFERENZA STAMPA ACREALE CALCIO 19/02/2013 “La situazione quando sono arrivato qui diciamo era peggio di quella che c’è adesso. L’unica cosa è che allora non c’era la speranza, invece adesso c’è”.

DANIELE AUTIERI Mi raccontano di giocatori dell’Acireale che aspettavano fuori dalla banca l’arrivo del bonifico che non arrivava mai.

ORAZIO SORBELLO – DIRETTORE TECNICO ACIREALE CALCIO 2013 Sì, è una situazione un po’ particolare, lui asseriva che il bonifico l’aveva fatto mentre il bonifico non arrivava mai.

SALVATORE PALELLA - CONFERENZA STAMPA ACREALE CALCIO 10/08/2013 “Le trasferte l’anno scorso dalla prima all’ultima le ho pagate io, no tuo nonno, tuo zio…sta minchia”.

ORAZIO SORBELLO – DIRETTORE TECNICO ACIREALE CALCIO 2013 Gli stipendi ai ragazzi…

DANIELE AUTIERI Niente. E i giocatori erano avvelenati.

ORAZIO SORBELLO Per forza. Si. Lui si muoveva sempre con l’autista.

DANIELE AUTIERI Quindi dice: i soldi ce li ha?

ORAZIO SORBELLO – DIRETTORE TECNICO ACIREALE CALCIO 2013 Quindi dici come fai? Un mese, dice è venuto una volta, due volte, sai magari glieli può pagare…una vota due volte, ma tutto sempre.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Fallimento non vuol dire che hai dei rubato dei soldi… fallimento vuol dire che un’attività vada bene o vada male, nel caso mio sono andate male, non ho lasciato nessun buco, abbiamo sistemato tutto…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ad Acireale non la pensano come lui. Rocco Muscolino lo avevano chiamato, prima di incontrare Salvatore Palella. È un signore di mezza età che faticosamente ha messo in piedi un una piccola agenzia di noleggio con conducente. Ed ecco cosa racconta del suo vecchio cliente.

DANIELE AUTIERI A lei deve un sacco di soldi.

ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO Tanto… tanto.

DANIELE AUTIERI 80mila euro…

ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO 87!

DANIELE AUTIERI Come era arrivato a quella cifra?

ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO Quattro mesi e mezzo di lavoro, notte e giorno a disposizione, chilometri.

DANIELE AUTIERI Come giustificava il fatto che non pagasse?

ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO Mi ha fatto assegni di conto corrente già chiusi. C’ho una cambiale che gli ho fatto anche un quadretto… Acireale calcio da 20mila euro.

DANIELE AUTIERI Il punto è che visto che è un imprenditore di successo può saldare i suoi debiti in Italia…

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Ci sono i miei avvocati collegati, non c’è nessun debito in Italia…

DANIELE AUTIERI Quindi sono millantatori

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Guardi in Sicilia come regalo di natale ho donato 10mila dollari.

DANIELE AUTIERI All’abside, alla cattedrale, ho visto.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Alla chiesa… e non Ho pubblicizzato da nessuna parte è la prima volta in cui lo dico. Se avevo qualcosa da nascondere avrei preferito sistemare prima qualcos’altro.

DANIELE AUTIERI Poteva donare qualcosa all’autista Rocco Muscolino, che è rimasto, che c’ha un debito di non so quante decine di migliaia.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Si sbaglia, lo chiami in diretta…chiamalo, chiamalo.

DANIELE AUTIERI Lo chiamo?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Ti invito a chiamarlo così vediamo se anche le cambiali erano vere.

DANIELE AUTIERI Non risponde.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Penso che hai qualche giorno prima di montare il servizio io ti prego di chiamarlo più volte fino a quando non ti risponde.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Abbiamo seguito il consiglio di Palella. E richiamato L’autista Rocco Musolino, Ma segure Palella è come aprire il vaso di pandora.

ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO Sono sincero, qualcosa me l’ha data, ora ultimamente, qualcosa…

 DANIELE AUTIERI Le posso chiedere quanto le ha dato del totale?

ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO Venti.

DANIELE AUTIERI Quindi venti su Ottanta.

 ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO Si DANIELE AUTIERI E gliel’ha dati pochi giorni fa, poco tempo fa? Diciamo quando lui ha saputo che stavamo lavorando su Helbiz?

ROCCO MUSCOLINO - AUTONOLEGGIO Sì, da quando ha sentito questa situazione, si. Dice che se chiama Report lei deve dire che noi l’abbiamo pagata.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Palella ha saldato poco meno di un terzo dei debiti con l’autista e dopo che ha saputo che eravamo andati in Sicilia, e in cambio del silenzio. Ha promesso che gli darà il resto. Vedremo. Ma più di una persona, in Sicilia, ha fatto i conti con i suoi pagherò. A cominciare da un suo vecchio amico, un imprenditore che gestisce un’azienda alle porte di Catania.

DANIELE AUTIERI Quanto le aveva chiesto?

IMPRENDITORE 70, 80mila non mi ricordo. Poi mi misi a insistere, quindi qualcosa me la tornò indietro. Gli altri mi ha fatto le cambiali. Le cambiali poi non me le ha pagate ed è scomparso.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Queste sono le cambiali firmate da Salvatore Palella. Oltre 70mila euro di prestito mai onorato.

IMPRENDITORE Ci voglio andare io con i piedi di piombo perché non so cosa c’è sotto. È una cosa impossibile che tu un anno prima devi scappare da Acireale, che era presidente dell’Acireale Calcio e poi un anno dopo sei sulle riviste, aereo privato, barche.

DANIELE AUTIERI Qualche cambialetta in giro l’ha lasciata…

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Ma non è vero, per favore, ti chiedo di dimostrarmelo…

DANIELE AUTIERI Ce l’ho qua! Almeno due cambiali firmate da lei, siciliane…

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Non credo di aver mai fatto una cambiare in Sicilia. Asoolutamente. Dove si vede la firma? Questa non è la mia calligrafia, è troppo bella per essere la mia calligrafia.

DANIELE AUTIERI È finta?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Non lo so, sicuramente non è la mia calligrafia.

DANIELE AUTIERI È una cambiale finta?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Ascolta, se sei venuto qui per parlare di cambiali.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Più che le cambiale sono imbarazzanti alcune amicizie di Palella emergono quando cerca di acquistare il marchio della squadra da un imprenditore che ha avuto problemi con la giustizia perché considerato vicino alla mafia.

SANTO MASSIMINO - IMPRENDITORE Io ti vorrei comprare il marchio però siccome non ho la disponibilità immediata, ah guardi le faccio vedere, e mi tira fuori un assegno. Dice, io questo assegno lo devo incassare.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Palella chiede un nuovo incontro con Massimino ma questa volta si presenta con Enzo Ercolano, figlio del defunto boss Pippo Ercolano, considerato l’erede della famiglia Ercolano-Santapaola, e condannato nel novembre scorso a 12 anni di reclusione dalla corte d’appello di Catania.

MARIO BARRESI – GIORNALISTA “LA SICILIA” Lui cerca la raccomandazione, col figlio del boss per avere una sorta di sconticino rispetto alla somma dovuta.

SANTO MASSIMINO - IMPRENDITORE Si presenta con un giovane Enzo Ercolano… Signor massimino, le voglio chiedere la cortesia, io conosco questo giovane Palella lo conosco da sempre.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Io conoscevo Vincenzo da diversi anni in quanto si occupava di trasporti per l’azienda di mio padre, che era una semplicissima azienda di commercializzazione di arance e limoni, non l’ho mai conosciuto sotto l’aspetto dark…diciamo così.

DANIELE AUTIERI Beh insomma, gli Ercolano anche i sassi di Acireale sanno chi sono.

SALVATORE PALELLA E magari io ero un sasso sbagliato…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Alla fine Massimino accetta, cede il marchio in cambio di un pagherò, ma Palella non rispetta i patti. E questo fa adirare il boss, che aveva garantito per lui. Ed ecco l’audio inedito captato dalle cimici del Ros della conversazione tra Ercolano e Palella.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA ENZO ERCOLANO Ti sei mangiato il nome della tua famiglia e hai mischiato pure il mio, gran pezzo di merda.

SALVATORE PALELLA Va bene, poi i fatti prevarranno…

ENZO ERCOLANO La mia onorabilità. I fatti, quali? Che la verità è che fai le truffe… hai 23 anni ed è 5 anni che l’hai messo in culo a tutta Italia… quali fatti? …Che tu sei un disonore per te e per la tua famiglia! Ascoltami Palella… cu si cucca chi picciriddrhi, a matina agghiorna cacato… l’hai capito?

SALVATORE PALELLA Si non capisco.

ENZO ERCOLANO Ed io con i bambini non mi ci vado a cuccare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Chi va a dormire con i picciriddrhi, con i bambini, è facile che si possa svegliare sporco di popò, di cacca”. È la metafora colorita che usa il figlio del boss, Enzo Ercolano che dice anche “io non voglio andare a dormire con i bambini”. È sempre prodigo a rilasciare perle di saggezza popolare che però ha un significato preciso. Vuol dire: Palella tu non dovevi azzardarti a spendere il mio nome se non sei in grado poi di rispettare un impegno. Ercolano dice anche una cosa più importante in quella telefonata, anche più grave, se vogliamo: “Palella, hai truffato da cinque anni tutta Italia”. A quali truffe si riferiva? Palella dice “io non conosco, non conoscevo la parte dark di Vincenzo Ercolano”; è un anglicismo che gli consente di non usare, nominare la parola mafia. Tuttavia non spiega perché si avvale della sua capacità di persuasione per cercare di ottenere uno sconto dall’altro imprenditore quando tenta di comprare il marchio dell’Acireale Calcio. Insomma, però archiviata la vicenda dell’Acireale, la seconda parte della vita imprenditoriale di Palella è tutt’altra storia. Però come concili la redenzione con i bitcoin?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La seconda vita dell’imprenditore è all’insegna della santità, benedetto da Papa Francesco e dal mondo della finanza. Nell’ottobre del 2019 La prestigiosa rivista Forbes gli dedica una copertina, consacrandolo come la stella nascente dell’imprenditoria italiana.

DANIELE AUTIERI Nel 2019 forbes le dedica una serie di articoli, più una copertina. Un bel colpo!

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Beh, abbiamo portato la micromobilità in Italia, credo che quello sia un bel colpo.

DANIELE AUTIERI A noi risulta che tutti questi servizi di Forbes siano stati pagati.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Abbiamo degli ottimi rapporti con la Blue Communication, che è la società che gestisce Forbes in Italia e facciamo della pubblicità anche con loro.

DANIELE AUTIERI L’idea di parlare con voi di Forbes c’è venuta perché tempo fa avevamo visto una copertina dedicata ad un imprenditore, parlo di Salvatore Palella. In quel caso c’erano dei pregressi che voi avete trattato molto bene quindi era un discorso interessante per noi.

AGENTE BFC MEDIA – EDITORE FORBES ITALIA Tutti quanti nella vita qualche scheletro nell’armadio ce l’hanno, no? Soprattutto a un certo livello. Facendo riferimento a quello che è successo con Salvatore Palella, c’è la possibilità di fare un lavoro di posizionamento e di reputation se questa persona non è una persona che ha sterminato bambini o smercia in organi.

DANIELE AUTIERI Senta , ma un progetto che comprenderà anche il fatto di finire in copertina.

AGENTE BFC MEDIA – EDITORE FORBES ITALIA Perfetto…

DANIELE AUTIERI Di che valori stiamo parlando?

AGENTE BFC MEDIA – EDITORE FORBES ITALIA Tenga conto che i progetti di collaborazione su tre, sei mesi per questo tipo di iniziativa. E non sto parlando di copertia, la copertina diventa un di cui del progetto, di solito variano tra i 10 e i 12 mila euro mese.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO 60mila euro e diventi un imprenditore di successo. Nessuno si chiede però come sia arrivato quel successo, che ha origine non troppo lontano, nel febbraio del 2018, quando dagli uffici di Londra della multinazionale Skrill, Salvatore Palella lancia la sua ICO, una forma di raccolta fondi attraverso la vendita di criptovaluta.

VIDEO LANCIO HELBIZ COIN, LONDRA SALVATORE PALELLA “Grazie a tutti, grazie di essere qui. Voglio dire grazie a Skrill per ospitarci nei suoi uffici di Londra. Sono felice di annunciare la quotazione di Helbiz”.

FRANCESCO DAGNINO, - AVVOCATO ESPERTO IN CRIPTOVALUTE Palella prometteva di sviluppare una piattaforma di car sharing che avrebbe utilizzato come valuta per noleggiare l’automobile il token di nuova generazione.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Noi abbiamo pensato una vendita di servizi, la creazione di un utility token a Singapore in cui avevano prevenduto circa 800mila dollari di coin che erano utilizzabili nella nostra piattaforma.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Un’idea rivoluzionaria lanciata sui mercati di mezzo mondo anche con l’aiuto di un testimonial d’eccezione.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Oltre allo spot, Del Piero lancia l’iniziativa anche con un tweet. Stefano, il fratello e agente di Alex, ci spiega che si “è trattato di una collaborazione legata al prodotto, alla quale non sono seguite altre attività”. Tuttavia l’avventura della criptovaluta finisce non come dovrebbe e chi aveva investito sul suo progetto rimane con il cerino in mano.

FRANCESCO DAGNINO, - AVVOCATO ESPERTO IN CRIPTOVALUTE Poi il progetto non viene, secondo quella che era la contestazione che viene formulata dalla class action americana, il progetto non viene poi completato, i token che erano quotati su exchange vengono delistati…

DANIELE AUTIERI Quindi io investo dei soldi, mi dai in cambio helbiz coin e a un certo punto non valgono più niente. Questo è successo?

FRANCESCO DAGNINO, - AVVOCATO ESPERTO IN CRIPTOVALUTE Il valore degli helbiz coin si è sostanzialmente azzerato.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Negli Usa si apre una richiesta di class action contro Palella. Si parla di circa 20mila presunte vittime per un controvalore di raccolta di circa 40 milioni di dollari. E il 19 giugno scorso il caso viene assegnato alla Southern District Court di New York.

DANIELE AUTIERI I 20mila sono solo nel mercato statunitense, perché lui la Ico la inizia a Singapore.

FRANCESCO DAGNINO, - AVVOCATO ESPERTO IN CRIPTOVALUTE La Ico viene promossa attraverso una società offshore costituita a Singapore, viene poi viene promossa in tutto il mondo.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Coloro che hanno scritto la class action sono 11 persone, l’avvocato che ha scritto la class action è un avvocato che chiamerei in gergo ambulance chaser, inseguitore di ambulanze. Non sono sicuramente 20mila ma stiamo parlando di circa 500 persone.

DANIELE AUTIERI 500 persone… quanto avete raccolto?

 SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Si parla di circa 700mila dollari. Abbiamo fatto tutto alla luce del sole, abbiamo chiesto alla hbz mobility system a Singapore di occuparsi del ritorno dei denari a tutti coloro che avevano acquistato il token. Hanno ritornato quasi il 70%.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO NUOVO Palella non si preoccupa della Class Action, pensa di superarla senza danni. Ha in mento un solo obiettivo, sbarcare a Wall Street.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Uno dei nostri obiettivi è la quotazione nei prossimi sei mesi.

DANIELE AUTIERI Lei non crede che questa sorta di peccato originale di questa class action possa in qualche modo…

 SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Ti rispondo con dei fatti, Claudio pupi prendermi un box, che c’è qua? È una domanda permettimi di dire molto stupida per il mercato americano…

 DANIELE AUTIERI Sai come si dice non ci stanno domande stupide, solo risposte stupide…

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Esatto qindi permettimi di dire la tua è una domanda stupida, è l’eccezione che non fa la regola, ho avuto il piacere di stamparti così nelle tue nove ore, tutte le class action che aveva facebook prima di andare quotata, prima di andare quotata ricordati queste parole… ho il piacere di darti questo box.

DANIELE AUTIERI Me lo porto, me lo metto come bagaglio a mano.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Esatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Visto l’ingombro, il nostro Daniele, ha pensato di farselo spedire il pacco con la class action contro Facebook che il simpaticissimo Palella gli aveva preparato. Ecco guarda Facebook, fa capire quanto ambisce in alto. Pensa di scampare dalle querelle legali in America, non sa forse che si aprirà una class action anche qua in Italia. Perché ci sono gli investitori arrabbiati. Quello che abbiamo capito è che Palella è l’uomo dalle mille relazioni. Partono dal mondo dark, come abbiamo visto di Enzo Ercolano a quello di Lele Mora, a quello anche della Finanza, un po’ dark anche quello con mille sfumature. Dei Ricucci, dei Ponzellini. Poi si muove a suo agio anche nei salotti milanesi, ha incontrato persino Letizia Moratti. Ora è riuscito a muoversi con disinvoltura con le concessioni qui in Italia, nessuno gli ha mai chiesto conto dei suoi soci e dei suoi investimenti. Helbiz lui dice è trasparente. Ma poi la società porta in Delaware, e parlare di trasparenza è veramente un ossimoro. Quello che non si è considerato è che Palella gestendo le concessioni per fare girare i suoi monopattini, però accumula anche dei dati: nomi e cognomi di chi li utilizza, i cellulari, le carte di credito, i conti correnti… insomma, che fine fanno questi dati? È bene che non si sappia che ci sia dietro una società che accumula questi dati. Forse bisognerà metterci mano. Come bisognerà anche regolamentare l’abbandono di questi monopattini. Perché appena hanno saputo che ci occupavamo di questo tema, ci hanno scritto gli ipovedenti. E hanno detto: per favore Report, denunciate il fatto che i monopattini abbandonati in maniera così scriteriata sui marciapiedi, rappresentano un ostacolo pericoloso per chi non vede. Ecco. Vi giriamo l’invito, lo giriamo alla politica.

Guida alla mobilità green: l'idrogeno. Sergio Barlocchetti e Guido Fontanelli su Panorama il 22/12/2020. Ci sono diversi aspetti delle auto a idrogeno che entusiasmano, fanno discutere ma anche spaventano. Questo gas, il più diffuso nell'universo e presente nell'11,2 per cento circa nell'acqua, al vertice della tabella degli elementi chimici (ha il numero 1) e dalla densità molto contenuta (meno di 90 grammi in un metro cubo, cioè 1.000 litri), ha la proprietà di essere facilmente infiammabile e per questo di poter sprigionare energia. Ma proprio questa caratteristica, se da un lato spinge a sfruttarne il potere energetico, dall'altra incute timore specialmente nelle vecchie generazioni, forse perché ricordano il disastro del dirigibile Hindenburg avvenuto nel maggio 1937. Ecco allora che pensando alle automobili si rimane perplessi, anche se in realtà è sufficiente sfatare qualche mito per rendersi conto di quanto l'idrogeno sia oggi sicuro e promettente. Ciò non significa facile, nel senso che le difficoltà per aumentare la diffusione delle auto a idrogeno sono in via di soluzione. Ma che questo gas sia destinato a occupare presto una fetta di mercato paragonabile a quanto avviene per le auto a metano oppure per le elettriche è certo. Intanto occorre ricordare che non tutte le auto a idrogeno sono uguali. Esistono veicoli dotati di motori a combustione interna che usano l'idrogeno come combustibile o Hicev, Hydrogen Internal Combustion Engine Vehicle, tecnologia sperimentata inizialmente da Bmw, che oltre dieci anni fa costruì in cento esemplari esemplari la Hydrogen 7. Si trattava di una Serie 7 equipaggiata con un motore V12 da sei litri che poteva viaggiare indifferentemente a benzina o a idrogeno. Ma quest'ultimo era mantenuto allo stato liquido, quindi a bassissima temperatura (-253 °C) in un apposito serbatoio, prima di essere iniettato e bruciato. L'esperienza Bmw si è rivelata modesta sia a causa del basso rendimento sia del costo elevato di questa soluzione tecnica, e la casa fermò il progetto. Successivamente, con il miglioramento della tecnologia delle celle a combustibile, la cui invenzione risale all'Ottocento e l'applicazione pratica avvenne sulle capsule Nasa nei primi anni Sessanta, si è riusciti a installare sui veicoli un serbatoio di idrogeno ad alta pressione (attorno 700 bar con all'interno 6 kg di idrogeno per circa 600 km di autonomia dell'auto, per un peso di circa 170 kg), dal quale alimentare la cella producendo energia elettrica e ottenendo come scarto soltanto vapore acqueo e calore. Questi serbatoi, a differenza di quelli per gas naturale o metano, proprio a causa della pressione elevata al loro interno, erano inizialmente realizzati in acciaio, quindi pesanti, mentre recentemente sono stati introdotti quelli in materiali compositi, più leggeri e funzionali. L'energia elettrica prodotta dalla cella a combustibile viene quindi utilizzata da uno o più motori elettrici presenti nel veicolo passando da una batteria di piccole dimensioni che ha la funzione di soddisfare eventuali picchi di richiesta dell'energia. E a mantenerla carica contribuisce la frenata rigenerativa del veicolo stesso. Da questa architettura, apparsa per la prima volta nel 1966 sul furgone Electrovan della General Motors, sono nati altri modelli come la Toyota Mirai, la Hyundai Nexo e la Honda Clarity, che si definiscono Fcev, Fuel Cell Electric Vehicle. Costruite in questo modo, le auto a idrogeno hanno potuto raggiungere autonomie utili, circa 600 km, potendosi anche rifornire in poco tempo (qualche minuto) grazie alle colonnine di rifornimento in pressione. Proprio questo è oggi uno dei freni alla diffusione di queste auto, e anche se entro il 2025 l'Italia dovrebbe vedere l'attivazione di un centinaio di stazioni, almeno la metà delle quali accessibili al pubblico (nel numero degli impianti sono considerati anche quelli delle società di trasporto pubblico come l'Atm di Milano). L'altro problema riguarda il fatto che l'idrogeno va prodotto poiché non è presente in natura e questo comporta giocoforza l'utilizzo di energia e, qualora ciò non avvenga da fonti rinnovabili, ecco che si torna comunque a produrre anidride carbonica. Ma rispetto alle auto elettriche a batteria, le celle a combustibile non richiedono l'impiego di materiali rari, se non per una limitatissima quantità platino che generalmente viene recuperato dai catalizzatori usati delle autovetture con motore tradizionale. Facendo un rapido calcolo energetico e valutando l'evoluzione di batterie, celle a combustibile e serbatoi per l'idrogeno comincia a delinearsi un futuro vantaggioso che dovrebbe vedere l'uso delle sole batterie per le utilitarie, mentre un aumento dell'utilizzo di celle a combustibile per gli automezzi più grandi. Per riuscirci, una buona idea è quella applicata in Germania presso talune stazioni di rifornimento, che producono l'idrogeno in piccole quantità ma sul posto usando un mix di energia prodotta da pale eoliche, rinnovabili e solare.

Sicurezza: non scoppia neppure a seguito di un incidente. L'idrogeno non è tossico, nocivo e neppure corrosivo. In un'automobile a idrogeno un'esplosione è un evento praticamente remoto anche in caso di incidente. L'omologazione dei serbatoi prevede che questi siano costruiti con coefficienti di robustezza molto elevati e posizionati laddove le dinamiche degli urti hanno una probabilità remota di verificarsi. In pratica sono molto più resistenti dei normali serbatoi per benzina o diesel. Inoltre, in quelli di progettazione più recente è possibile annegare nella struttura elementi inertizzanti in grado di fermare la fuoriuscita del gas. I raccordi e le valvole dalle quali fuoriesce l'idrogeno verso la cella a combustibile sono ridondanti e dotati di blocchi di sicurezza. Gli ultimi ritrovati in fatto di tecnologia dei materiali destinati alla costruzione dei serbatoi sono i cosiddetti «Mof ultrapuri» o Nu-1501 basati su strutture metallo-organiche estremamente porose e meno costose dell'acciaio che possono immagazzinare una maggiore quantità di idrogeno trasferendolo verso la cella a combustibile a pressione inferiore. Dall'idrogeno «grigio» a quello verde, come si fabbrica e quanto costa il gas pulito. Esistono diversi metodi per produrre idrogeno, alcuni più ecologici di altri. Ma anche in questo caso bisogna sfatare un mito: l'idrogeno non è una fonte rinnovabile. Il metodo più diffuso, detto «reforming con vapore», o «grigio» prevede che un gas composto sinteticamente con alto contenuto di idrogeno venga ottenuto bruciando metano o altri idrocarburi e vapore acqueo con temperature tra 720° C e 1.100° C. Da questo si ottiene una grande quantità di anidride carbonica e appunto l'idrogeno ma in rapporto di 15:1, quindi è il meno ecologico ma il più economico, meno di 2 dollari al chilo. Più pulito è il cosiddetto «idrogeno blu», sempre prodotto attraverso la generazione di anidride carbonica, ma che al posto di essere dispersa viene quasi totalmente conservata in serbatoi interrati. Il costo sfiora i 4,3 dollari al chilo. Per essere totalmente ecologico l'idrogeno deve essere prodotto per elettrolisi quindi definito «verde», ovvero dalla separazione dell'ossigeno presente insieme al gas nell'acqua. Ma la macchina che lo produce, l'elettrolizzatore, costa molto e funziona a energia elettrica e quindi anche questa deve essere generata da fonti rinnovabili. In questo caso il prezzo varia da 5 a 10 dollari al chilo secondo il luogo di produzione. Tenendo presente che per produrre un chilogrammo di idrogeno sono necessari da 18,5 a 25 Kwh di corrente. La buona notizia è che il costo degli elettrolizzatori sta scendendo e secondo le previsioni di Bruxelles entro un decennio il tipo «verde» costerà meno di 2 euro al chilo in tutto il mondo. Infine esiste il processo di pirolisi, ovvero eliminando l'ossigeno all'interno di processi di combustione, in modo da ricombinare i legami chimici in molecole più semplici. Ma anche in questo caso, per attivare il processo serve energia che deve essere pulita. Il costo dell'idrogeno in Italia oscilla attorno a 15 euro al chilo contro i 10 della Germania e con un chilogrammo di idrogeno, un'auto a celle a combustibile può percorrere circa 100 km. A onor del vero, il modo più economico per avere idrogeno pulito sarebbe quello di utilizzare l'energia residua e il calore prodotti delle centrali nucleari. Ma questa è tutta un'altra storia.

L'idrogeno è già su strada. Hyundai ha in commercio un modello: Nexo. Si ricarica in cinque minuti. Guido Fontanelli su Panorama il 23 dicembre 2020. Per Hyundai l'idrogeno non è un'opzione futuristica, è già realtà: il brand coreano ha infatti nel suo catalogo una vettura a idrogeno dal 2018, la Nexo, che si può acquistare normalmente e che già circola in Alto Adige, dove questo tipo di alimentazione è sostenuto da un progetto della Provincia ed è in funzione un distributore aperto al pubblico per rifornire sia autovetture sia autobus. «La nostra casa» sottolinea Andrea Crespi, direttore generale di Hyundai Italia, «è l'unica ad avere tutte le cinque tecnologie di elettrificazione, dal "mild hybrid" fino all'elettrico puro e all'idrogeno». Oggi la Nexo è ancora cara, costa 69 mila euro, ma il suo prezzo si è molto ridotto nell'ultimo anno. Secondo Crespi, l'alimentazione a idrogeno «risolve in un colpo solo tutte le necessità della mobilità: la Nexo offre quasi 700 km di autonomia, si rifornisce in cinque minuti e non inquina, emette solo vapore acqueo». Il prossimo passo è creare un'infrastruttura per questo tipo di vetture seguendo, dice il numero uno della casa coreana, «alcuni esempi molto positivi, come quello della provincia di Bolzano, dove ci sono già tanti automobilisti che noleggiano le vetture a idrogeno e percorrono tantissimi chilometri senza inquinare. Si potrebbe fare lo stesso in altri territori del Paese, imboccando la stessa strada per una mobilità sostenibile». Hyundai non si limita alle automobili a idrogeno: il gruppo ha annunciato una Fuel Cell Vision al 2030 che prevede 6,7 miliardi di dollari di investimento per arrivare a produrre 500 mila veicoli all'anno a celle combustibili, sia automobili sia mezzi commerciali, oltre a sviluppare altre applicazioni per treni e navi. «In Svizzera» aggiunge Crespi «sono già stati consegnati i primi camion a idrogeno prodotti in serie, gli Hyundai Xcient Fuel Cell, con l'obiettivo di arrivare a 2 mila unità all'anno. Insomma, la Hyundai si propone come protagonista della future smart mobility basata sull'idrogeno».Mica fantascienza.

La transizione energetica: l'idrogeno. Report Rai PUNTATA DEL 18/01/2021di Michele Buono, collaborazione di Edoardo Garibaldi e Filippo Proietti. L’età della pietra non è finita perché mancavano le pietre. La transizione energetica dal fossile alle rinnovabili, e la conseguente decarbonizzazione, è una necessità ambientale e al tempo stesso un’occasione di crescita economica; non è una storia di qualche pannello o impianto eolico in più ma è un’organizzazione complessa che coinvolge un intero sistema, dalla ricerca al trasferimento di tecnologie all’industria, alla società intera. Quali sono i nostri punti di forza? E quali i nostri vantaggi competitivi? Possiamo trasformarci da paese importatore a esportatore netto di energia sempre più pulita? Si sta aprendo una nuova partita globale. 

“LA TRANSIZIONE ENERGETICA: L’IDROGENO” di Michele Buono collaborazione Edoardo Garibaldi, Filippo Proietti immagini Tommaso Javidi, Alfredo Farina, Dario D’India animazione Gianfranco Bonadies montaggio Veronica Attanasio.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Erano in cinque più un cane, avevano rubato un pallone aerostatico e navigato per settemila miglia prima di essere sbattuti su un’isola a loro sconosciuta nell’Oceano Pacifico.

VOCE NARRANTE Non erano aeronauti di professione e nemmeno dei dilettanti di spedizioni aeree. Erano dei prigionieri di guerra, che l'audacia aveva spinto alla fuga in circostanze straordinarie.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Funzionava la comitiva: un ragazzo, un ex schiavo, un criminale pentito, un marinaio e un ingegnere dallo sguardo lungo nel tempo. Riuscirono pure a colonizzarla quell’isola deserta.

VOCE NARRANTE La sera mangiavano, bevevano e parlavano anche di futuro. Una volta si chiesero come avrebbe fatto l’umanità se il carbone si fosse esaurito: niente riscaldamento, industrie, treni, battelli. - Pencroff: “Cosa si brucerà al posto del carbone? - Cyrus Smith: “L’acqua! Sì l’acqua scomposta con l’elettricità” - Pencroff: “L’acqua?!” - Cyrus Smith “Sì amici, io credo che l’idrogeno e l’ossigeno di cui è costituita, offriranno una sorgente di calore e di luce inesauribile e un’intensità che il carbon fossile non può dare. Un giorno i piroscafi e le locomotive, non saranno caricati più di carbone ma di questi due gas compressi... è l’acqua il carbone dell’avvenire”. - Pencroff “Come mi piacerebbe vedere queste cose!”. - Nab “Sei nato troppo presto Pencroff!”.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Era il 1874 e Giulio Verne non faceva profezie, vedeva e ha solo fatto in modo che quelle cose le vedessero in tanti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La visione è una questione di sensibilità, non certo di necessità. L’età della pietra è terminata non perché erano finite le pietre, così abbiamo inventato le automobili non perché fossero finiti, certamente non scomparsi, i cavalli. Ora questa sera vi parliamo di transizione energetica e ve ne parliamo non perché è finito o sta per finire il petrolio o il carbone, ma perché è una necessità sicuramente ambientale, con delle ricadute sulla salute, ma anche una necessità economica. Il governo italiano ha pensato di 2 attingere al Recovery Fund per 68,9 miliardi di euro, proprio per la transizione energetica, ma è una cosa seria non è che te la cavi mettendo su qualche pannello solare o una pala eolica che gira. Va pensata una intera organizzazione, insomma chi è che produce l’energia pulita? Come la conservi quando non hai la forza del vento o la luce del sole? Come poi la distribuisci attraverso le reti intelligenti, e soprattutto chi è che penserà a trasferire queste tecnologie alle industrie? Insomma, quello che vi proponiamo stasera con il nostro Michele Buono è un piano industriale in piena regola e l’ospite di onore è l’idrogeno, l’energia prodotta dall’acqua. Solo che però per produrla devi consumare energia che deve essere necessariamente pulita. Entreremo in quello che è il distributore del futuro, anche se poi, detto tra noi, risale a un quarto di secolo fa solo che nessuno ci ha investito soldi.

DIETER THEINER – PRESIDENTE H2 SUDTIROL Ora entriamo nel sito di produzione d’idrogeno, prego!

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Bolzano, 2020. Questo è un elettrolizzatore, contiene acqua e l’elettricità scinde le sue molecole: da una parte l’ossigeno e dall’altra l’idrogeno.

DIETER THEINER – PRESIDENTE H2 SUDTIROL Ci permette di rifornire una quantità di circa 20 autobus o 700 macchine a idrogeno.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO A oggi è l’unico impianto in Italia che produce idrogeno con stazione di servizio annessa.

DIETER THEINER – PRESIDENTE H2 SUDTIROL Si trasforma in energia nella cosiddetta cella combustibile che vediamo qui dentro, dove praticamente l’idrogeno viene mescolato con l’ossigeno dell’aria circostante e in questo modo viene prodotto energia elettrica e acqua.

MICHELE BUONO E le emissioni alla fine? DIETER THAINER – PRESIDENTE H2 SUDTIROL Le emissioni sono acqua.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Se qualcuno si è chiesto, se fosse possibile conservare sole e vento per quando ce n’è poco per fare elettricità pulita, la risposta è sì. L’idrogeno può farlo.

ENRICO DE TUGLIE - DIPARTIMENTO ENERGIA ELETTRICA POLITECNICO BARI Attraverso il processo elettrolitico, convertire l’energia elettrica prodotta in eccesso dalla microrete.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Invece di staccare le rinnovabili per non mandare in tilt la rete, e con l’energia in eccesso produrre idrogeno che funzionerebbe da batteria.

ENRICO DE TUGLIE - DIPARTIMENTO ENERGIA ELETTRICA POLITECNICO BARI E successivamente attraverso una cella a combustibile quest’idrogeno viene riconvertito in energia elettrica nel momento del bisogno.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Aumenterebbe così la quantità di energia verde nella rete mentre tutte le filiere degli impieghi verrebbero decarbonizzate. E più fonti rinnovabili ci sono più idrogeno verde si può produrre.

MICHELE BUONO E questo può contribuire a fare diminuire i costi della produzione dell’idrogeno?

MARCO ALVERÀ – AMMINISTRATORE DELEGATO SNAM L’energia del sole è già passata da 400 euro a Mwh 10 anni fa a circa 40/50 oggi e può scendere in alcuni casi, abbiamo già visto, anche a 15. Il combinato disposto della discesa del solare e della discesa dell’elettrolizzatore ci può dare un idrogeno che in molti ambiti può competere da solo in 5 anni con molti combustibili fossili.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Tecnologie e conoscenze non ci mancano, perché non puntare in alto allora? John Fitzgerald Kennedy indicò come obiettivo la luna quando le tecnologie per andarci non erano nemmeno mature.

JOHN F. KENNEDY Qualcuno si chiede perché la luna? Abbiamo deciso di andare sulla luna in questo decennio e di impegnarci anche in altre imprese non perché sono semplici ma perché sono ardite!

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Gli Stati Uniti marciarono tutti assieme verso quell’obiettivo, il resto è storia. E la nostra Luna? MICHELE BUONO L’Italia potrebbe diventare un paese esportatore di energia?

VALERIO DE MOLLI – AMMINISTRATORE DELEGATO THE EUROPEAN HOUSE - AMBROSETTI Sì. È alla nostra portata.

MICHELE BUONO E che cambierebbe, a questo punto?

VALERIO DE MOLLI - AMMINISTRATORE DELEGATO THE EUROPEAN HOUSE - AMBROSETTI Beh, darebbe un peso geopolitico importante e diverso al Paese. Acquisiremmo anche valore economico rispetto alla scacchiera europea dell’energia.

MICIHELE BUONO FUORI CAMPO Cominciamo dai nostri punti di forza. L’Italia ha un vantaggio nella competizione: la quantità di sole. Vuol dire più energia rinnovabile, più idrogeno, quindi minori costi di produzione. La rete Snam trasporta il metano nei tubi ed è in grado di trasportare anche idrogeno.

MARIA LUISA CASSANO – RESPONSABILE DISPACCIAMENTO E MISURA -SNAM È una rete molto articolata di una lunghezza di circa 33.000 km.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO 4 La Snam, prima al mondo, ha sperimentato per qualche giorno l’immissione nella rete di una miscela di gas naturale e idrogeno al 10 per cento. A regime, in un anno, vorrebbe dire un abbattimento di 5 milioni di metri cubi di anidride carbonica. E’ come se scomparissero tutte le automobili di un’intera regione, e solo con il 10 per cento d’idrogeno.

MICHELE BUONO A che percentuale d’idrogeno si può arrivare?

DINA LANZI – RESPONSABILE TECNICO PROGETTO IDROGENO - SNAM Addirittura fino al 100%. MICHELE BUONO Soddisfatti i bisogni nazionali potremmo esportare idrogeno nel resto d’Europa?

MARIA LUISA CASSANO – RESPONSABILE DISPACCIAMENTO E MISURA -SNAM Certo, è possibile perché i metanodotti sono completamente interconnessi.

MICHELE BUONO Che mercati potremmo avere?

MARCO ALVERÀ – AMMINISTRATORE DELEGATO SNAM Noi pensiamo che l’energia prodotta in Sud Italia, solare convertita in idrogeno, può essere portata in Germania a costi più bassi che l’idrogeno prodotto in Germania. La Germania avrà bisogno di importare enormi quantità d’idrogeno. Deve, al momento stesso, uscire dal nucleare e uscire dal carbone e fa molta più fatica di noi a costruire nuove rinnovabili e ha meno facilmente accesso all’energia solare.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Hanno bisogno d’idrogeno a Duisburg e non solo qui. Questo è il polo siderurgico più importante della Germania. Qui stanno cominciando a iniettare idrogeno in un altoforno, al posto del carbone, per separare l’ossigeno dal ferro con cui è combinato in natura.

BERNHARD OSBURG – AMMINISTRATORE DELEGATO THYSSENKRUPP EUROPA In quest’altoforno produrremo acciaio 2.0, un acciaio a zero emissioni.

PETER ALTMAIER - MINISTRO FEDERALE ECONOMIA GERMANIA Se ci riuscirete a modificare il processo di produzione dell’acciaio, non vi lasceremo soli! Nel pacchetto di stimolo economico, abbiamo accantonato sette miliardi di euro per la strategia nazionale sull'idrogeno.

MICHELE BUONO Che cosa si andrebbe a tagliare come emissioni?

CARLO MAPELLI - DIPARTIMENTO DI MECCANICA POLITECNICO DI MILANO La preparazione del carbone, che deve diventare del coke, si liberano gli idrocarburi policiclici aromatici, il più famigerato dei quali è il cosiddetto benzoalfaapirene che è cancerogeno.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Occorrerebbe fare la stessa cosa con le nostre acciaierie e industrie energivore, se vogliamo tagliare l’anidride carbonica e le emissioni nocive e non la produzione. 5 Dalmine. Stazione di combustione sperimentale del Rina: si prova ad alimentare un bruciatore industriale miscelando un 30% d’idrogeno con il metano.

MICHELE BUONO Quindi questo vuol dire che un’industria normale che ha questo tipo di attrezzature?

GUIDO CHIAPPA - VICEPRESIDENTE ESECUTIVO RINA Potrà beneficiare di un’alimentazione con una componente d’idrogeno importante per ridurre il proprio impatto ambientale.

MICHELE BUONO Senza cambiare niente.

GUIDO CHIAPPA - VICEPRESIDENTE ESECUTIVO RINA Senza cambiare l’asset.

MICEHELE BUONO FUORI CAMPO Si otterrebbe così una riduzione immediata dell’anidride carbonica nei processi di combustione; risparmio energetico e nuova domanda d’idrogeno, quindi abbassamento dei costi e vantaggio competitivo per le nostre manifatture.

VALERIO DE MOLLI – AMMINISTRATORE DELEGATO THE EUROPEAN HOUSE - AMBROSETTI Noi potremmo trovarci con una filiera industriale dell’idrogeno che possa valere circa 30 miliardi di valore aggiunto.

MICHELE BUONO Vediamo quello che occorre per andare a regime.

VALERIO DE MOLLI – AMMINISTRATORE DELEGATO THE EUROPEAN HOUSE - AMBROSETTI Lei mette il dito in una grave debolezza del sistema Paese. Serve una grande capacità di dare trazione, di scaricare a terra, di fare trasferimento tecnologico verso il mondo delle imprese.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Berlino. Parco tecnologico Adlershof. Su questa area vivono insieme più di 1200 imprese, 11 centri di ricerca e 6 istituti universitari. Qui l’azienda Graforce ha creato un sistema per produrre idrogeno con un metodo unico al mondo: niente acqua pura ma di scarto.

SUSANNE SPUR – INGEGNERE DI PROGETTO - GRAFORCE Nell’acqua l’energia che lega le molecole di ossigeno e idrogeno è molto elevata e occorre molta energia per scinderle. Noi invece ci concentriamo sulle molecole di ammonio, contenute nell’acqua reflua: hanno un’energia di legame tre, quattro volte minore di quella dell’acqua. E quindi questo processo è molto meno energivoro e meno costoso dell’elettrolisi convenzionale. MICHELE BUONO Quanto costa?

SUSANNE SPUR – INGEGNERE DI PROGETTO - GRAFORCE 6 Con il metodo convenzionale costa dai 6 agli 8 euro per ogni chilo d’idrogeno, con la plasmolisi - il nostro - da 1,5 euro a 3.

ROLAND SILLMANN – AMMINISTRATORE DELEGATO WISTA Cerchiamo di sviluppare una collaborazione fitta: i centri di ricerca studiano e le aziende producono. Il cambiamento climatico è un tema centrale del nostro lavoro.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO La strategia tedesca punta all’efficienza energetica delle imprese per non sprecare le rinnovabili. Magdeburg, 150 km a sud ovest di Berlino. Il signor Esposito ha coperto la sua fabbrica di mobili con pannelli fotovoltaici.

ROCCO ESPOSITO – AMMINISTRATORE DELEGATO MOBILIFICIO ARTE MAGDEBURG L’idea è quella di metterci nelle condizioni di usare solamente energia prodotta da noi stessi col nostro sistema fotovoltaico.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Però non ci riusciva il signor Esposito a essere autosufficiente: magari quando c’era il sole e gli impianti producevano in abbondanza, le lavorazioni erano scarse e viceversa. La strada è quella dell’efficienza, sì ma come si fa? Istituto Fraunhofer, ce ne sono 74 in tutta la Germania.

MICHELE BUONO Qual è la vostra missione qui a Magdeburg?

JULIA ARLIINGHAUS - DIRETTORE ISTITUTO FRAUNHOFER DI MAGDEBURG Lavoriamo principalmente con l’industria manifatturiera e aiutiamo le imprese a costruire le proprie fabbriche in modo più efficiente e sostenibile.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È proprio quello che serve a una piccola impresa che non può permettersi il settore ricerca e sviluppo al proprio interno.

PIO LOMBARDI – ISTITUTO FRAUNHOFER DI MAGDEBURG In ogni macchinario ci sarà un contatore intelligente, uno smart meter, che colleziona dati.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Che deciderà quando è il momento migliore per accendere i macchinari e programmare in automatico le lavorazioni nei momenti di massima disponibilità di energia rinnovabile.

PIO LOMBARDI – ISTITUTO FRAUNHOFER DI MAGDEBURG Se questo non è sufficiente abbiamo il compressore, che può caricare anche nei momenti in cui io non ho bisogno, e abbiamo delle batterie, che possono accumulare l’elettricità che noi non siamo in grado di consumare in questo momento qui.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Risultato? Si taglia il consumo di energia fossile, si contribuisce alla decarbonizzazione del sistema energetico e l’azienda guadagna un vantaggio commerciale abbattendo il costo dell’energia.

MICHELE BUONO Con le gambe vostre l’avreste fatto?

ROCCO ESPOSITO – AMMINISTRATORE DELEGATO MOBILIFICIO ARTE MAGDEBURG Da soli non saremmo stati in grado dal punto di vista economico di poterlo fare.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Nemmeno amministrazioni, cittadini e imprese, lasciati soli, ce la farebbero a prendere decisioni rapide sugli elettrodotti che passeranno vicino a molti centri abitati per trasportare l’energia del vento del nord. Fraunhofer, padiglione di realtà virtuale.

CHRISTIAN BLOBNER – ISTITUTO FRAUNHOFER DI MAGDEBURG Esiste veramente questo paese. Qui vediamo l’elettrodotto che dovrà essere costruito in questa regione. Siamo in grado così di mostrare ad ogni singolo abitante che cosa vedrà da casa sua.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E se qualcosa non va, si fanno modifiche in tempo reale finché non sono tutti d’accordo; è possibile entrare in una casa per progettare una ristrutturazione energetica o cambiare paesaggio in un attimo.

CHRISTIAN BLOBNER - FRAUNHOFER INSTITUT DI MAGDEBURG Siamo nel porto di Magdeburg adesso. Costruiamo scenari virtuali per ottimizzare i processi di carico e scarico delle navi. Aumenta l’efficienza energetica e si tagliano costi e carburante grazie alle tecnologie digitali.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Milano, Politecnico.

MICHELE BUONO Un sistema tipo Fraunhofer non ce l’abbiamo. Che cosa occorre quali sono gli anelli mancanti?

MARIO CALDERINI - SCHOOL OF MANEGEMENT POLITECNICO DI MILANO Abbiamo di fatto tre politecnici molto importanti che non sempre fanno sinergia tra loro sui grandi temi. Quello che è sempre mancato è un sistema di rete, di coordinamento nazionale.

MICHELE BUONO Chi è che deve fare la prima mossa per creare questa organizzazione?

MARIO CALDERINI - SCHOOL OF MANEGEMENT POLITECNICO DI MILANO La prima mossa io credo debba essere una visione politica.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Per fare sistema e chiedersi, per esempio: all’Istituto Italiano di Tecnologia, nel laboratorio di Torino, si copia la natura per produrre energia pulita con foglie artificiali.

ADRIANO SACCO - ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA Questo dispositivo utilizza la luce del sole, l’acqua e l’anidride carbonica per creare molecole di carburanti che vengono detti appunto carburanti solari.

MICHELE BUONO Quindi, man mano che si alza di scala questo sistema…?

FABRIZIO PIRRI - ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA Diminuisce la necessità d’importare combustibile fossile dall’estero. Un paese come l’Italia potrebbe rendersi completamente autonomo per ciò che riguarda la combustione del metano.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Banca Europea per gli Investimenti. Un progetto nazionale che leghi formazione, ricerca e politica industriale con un obiettivo chiaro: decarbonizzazione e diventare un paese che esporti tecnologie verdi e pure energie.

MICHELE BUONO Potrebbe essere uno stimolo economico?

DARIO SCANNAPIECO - VICEPRESIDENTE BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI È assolutamente un’ottima occasione per ripensare l’economia, ma non solo quella italiana, anche quella europea.

MICHELE BUONO Quindi, tutti i progetti che mirano alla creazione di questo ecosistema sono finanziabili?

DARIO SCANNAPIECO - VICEPRESIDENTE BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI Guardi, abbiamo molto spesso una normativa poco chiara che non permette a chi investe di capire qual è lo scenario che va ad affrontare. Regole certe generano progetti e generano finanziamenti.

MICHELE BUONO Qual è la dotazione che ha la Banca Europea per mirare questa strategia?

DARIO SCANNAPIECO - VICE PRESIDENTE BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI Guardi, ad oggi la Banca Europea ha un volume di finanziamento intorno ai 65/70 mld di euro l’anno, quindi la dotazione finanziaria c’è, è disponibile.

MICEHELE BUONO Ci sono più soldi, più fondi o più progetti?

DARIO SCANNAPIECO - VICE PRESIDENTE BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI Senza dubbio più fondi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Litighiamo per i fondi, quando invece sono lì a portata di mano. Quello che manca invece è una regia. Ora il governo italiano investirà 2 miliardi di euro per la filiera di idrogeno. Costruire dei poli industriali, creare macchine che producano idrogeno, cioè gli elettrolizzatori. Poi useremo l’idrogeno per decarbonizzare l’Ilva, per costruire delle reti di distributori di idrogeno per camion a idrogeno che devono essere però ancora sviluppati, per fare ricerca. Ma il problema è, chi è che farà un modo che questa diventi una filiera virtuosa che si alimenti nel tempo, e chi è che farà ricerca in modo da portare l’Italia all’avanguardia della tecnologia nel mondo? In Germania che hanno meno sole 9 di noi hanno investito 7 miliardi di euro nella filiera dell’idrogeno, lo stanno tirando fuori attraverso un progetto che è unico, perché è a basso consumo, addirittura dalle acque sporche, dalle acque reflue. Poi siccome sono abituati a disegnarsi il futuro stanno anche aiutando le aziende ad essere più efficienti dal punto di vista energetico. Noi invece? Noi in Puglia stiamo studiando, c’è una azienda virtuosa che sta studiando il treno del futuro, viaggia a mille chilometri orari sul vuoto e produce anche energia gratis. Bellissimo! Peccato che ci viaggeranno i canadesi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, stiamo parlando di transizione energetica. Quella che ci consentirà il passaggio dal combustibile fossile all’energia pulita. Ma oltretutto ci consentirà anche di ottemperare alle richieste dell’Unione Europea che ci chiede di abbassare le emissioni nocive nell’ambiente. Ma è soprattutto, come ci sta raccontando Michele Buono, una opportunità economica. Tra Mola di Bari e Monopoli c’è una azienda che fabbrica piccoli satelliti, che ha studiato anche e fabbricato microprocessori per robot che sono addirittura sbarcati su Marte, in questo momento sta studiando il treno del futuro. Viaggia a mille chilometri orari sul vuoto, a costi anche più bassi dell’alta velocità, produce energia gratis, peccato che però ci viaggeranno i canadesi.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Mola di Bari. Sitael, gruppo Angel. Qui si progettano e costruiscono satelliti di piccole dimensioni per l’osservazione della Terra e i loro microprocessori per la misurazione ambientale sono a bordo di questo rover su Marte. Nel gruppo si progettano e costruiscono anche aerei e treni e se metti insieme aerospazio e ferrovia, i treni diventano aeroplani. Capsule a levitazione magnetica che viaggiano, sottovuoto e senza attrito, in un tubo fino a mille chilometri orari. È il progetto Hyperloop della canadese Transpod insieme al gruppo italiano.

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL La parte che noi svilupperemo proviene proprio dalla parte dello spazio.

MICHELE BUONO Che cosa, in particolare?

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL La trasmissione di energia senza contatto ad alta velocità.

MICHELE BUONO Iniziamo a considerare delle tratte possibili: Bari-Napoli?

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL Bari-Napoli teoricamente in un quarto d’ora si può fare, 20 minuti.

MICHELE BUONO Roma-Milano?

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL Mezz’ora.

MICHELE BUONO Milano-Parigi? 

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL Milano-Parigi potrà essere un’ora.

MICHELE BUONO Ci sarebbe un nuovo scenario? Perché tutte queste città si avvicinano e quindi si avvicinano le attività economiche…

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL Si potrà avere un trasporto merci che invece di andare sull’aereo va su Hyperloop, con un costo più basso e un tempo più basso.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Stesso vantaggio per i passeggeri. Transpod ha calcolato che il biglietto per la tratta Toronto-Montreal potrebbe costare non più di 80 dollari: 540 Km, in 45 minuti, da centro a centro delle due città. Il sistema ha la misura delle stazioni e dei tracciati ferroviari italiani ed europei, basta metterci questi tubi.

MICHELE BUONO Sarebbe economico farlo?

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL Si è calcolato che costa sicuramente meno dell’alta velocità in Italia.

MICHELE BUONO Quanto consuma?

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL Consuma meno del treno.

MICHELE BUONO E la produce anche, l’energia?

VITO PERTOSA – PRESIDENTE GRUPPO ANGEL La produce anche, l’energia, con dei recuperi. Assolutamente sì.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Per tagliare le fonti fossili, farci bastare le rinnovabili e diventare pure esportatori di energia, bisogna pensare a un secchio bucato che vuoi riempire di acqua: non aumenti il getto dell’acqua, prima tappi i buchi, sennò hai voglia a pompare rinnovabili.

DAVIDE CHIARONI - DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA GESTIONALE POLITECNICO DI MILANO Il trasporto privato complessivamente è responsabile di 31 milioni di Tep, tonnellata equivalente di petrolio. Quindi chiaramente è il primo responsabile del consumo energetico legato alla voce trasporti. Tutta questa componente di trasporto grava sui consumi fossili.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’attività industriale è un altro buco del secchio da tappare. Gruppo Loccioni. Angeli di Rosora, Ancona. Questa impresa produce più energia di quella che consuma. Qui si realizzano soluzioni di controllo ed efficienza per l’industria: dall’automobile, all’ambiente, all’industria biomedicale.

FRANCESCO GIORGINI - FACILITY MANAGER GRUPPO LOCCIONI Il fiume nasce come minaccia e noi l’abbiamo trasformato in opportunità. Abbiamo fatto un progetto per la messa in sicurezza del fiume Esino, abbiamo inserito in questo tratto 3 centrali mini idroelettriche che generano l’energia a favore dell’impresa.

 MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il resto è prodotto da pannelli fotovoltaici e per non disperdere energia, cappotti termici per proteggere gli edifici, e sistemi automatici di chiusura e aperura sulle vetrate, per fare entrare più o meno sole a seconda se è inverno o estate.

FRANCESCO GIORGINI - FACILITY MANAGER GRUPPO LOCCIONI Quanto ci è costato realizzare tutto questo? Un 20% in più sull’investimento totale, ma guardando al futuro, alla gestione dell’edificio, stiamo registrando l’86% di consumi in meno per la gestione dell’intero edificio.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Perché l’energia che si produce basti per tutte le attività, bisogna dirigere l’orchestra: una regia centralizzata distribuisce i flussi.

MARIA PAOLA PALERMI - RESPONSABILE COMUNICAZIONE GRUPPO LOCCIONI Ecco qua vediamo come si sta comportando la microgrid. I nuovi laboratori sono completamente in autonomia energetica e stanno cedendo l’energia ai laboratori che invece non riescono ad essere autosufficienti, questa è la grid, questa è la rete intelligente.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il fiume produce sempre anche quando gli impianti sono fermi ma l’energia non si disperde, carica le batterie che entreranno in funzione successivamente, nei momenti di picco dell’attività.

MICHELE BUONO Quindi il bilancio energetico di tutta l’attività dell’impresa qual è?

FRANCESCO GIORGINI - FACILITY MANAGER GRUPPO LOCCIONI Produciamo più di quanto consumiamo, stiamo parlando di circa 3mila Mwh all’anno.

ENRICO LOCCIONI - PRESIDENTE GRUPPO LOCCIONI È possibile farlo. Facendo un quadro, un conto economico, dei benefici che ti porti dietro anche nell’aspetto gestionale, sono investimenti da promuovere, ma senza finanziamenti, ci devi credere.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Milano. L’obiettivo dell’Amministrazione è tagliare emissioni e consumi fossili degli edifici ma per fare massa critica non basta l’edilizia pubblica, è necessario coinvolgere quella privata e far salire a bordo del progetto i proprietari delle case.

PIETRO PELLIZZARO – RESPONSABILE DELLA RESILIENZA COMUNE DI MILANO Due cose sono importanti: uno, dare un quadro delle regole certe, e il secondo elemento è che l’amministrazione ha messo 22 milioni di euro a disposizione dei proprietari degli immobili.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E siccome non basta dire se ristrutturi ti do un contributo, l’Amministrazione della città ha fatto sistema e ha tirato dentro tutti, da Legambiente ai costruttori, al Politecnico, per spiegare e dare garanzie agli inquilini.

FRANCESCO CAUSONE - DIPARTIMENTO DI ENERGIA POLITECNICO DI MILANO Il Politecnico di Milano, in particolar modo il Dipartimento di Energia ha supportato l’amministrazione pubblica nella progettazione tecnica degli interventi di riqualificazione.

EUGENIO MORELLO - DIPARTIMENTO STUDI URBANI POLITECNICO DI MILANO L’idea era quella di creare un senso di fiducia nei condòmini e avvicinarli alle decisioni rispetto alla riqualificazione energetica, fino alla partecipazione a un processo condiviso di co-design.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il progetto decolla.

CECILIA HUGONY – AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO TEICOS Siamo intervenuti con isolamento del tetto, con le tecnologie appunto più adeguate, isolamento della cantina e dei portici e poi sulla facciata con un rivestimento a cappotto anch'esso rivestito con un rivestimento ceramico di alto pregio. Beh, questo è il vostro condominio adesso e questo prima. Se lo ricorda?

MICHELE BUONO Un primo bilancio alla fine di questo processo, vediamo i numeri.

CRISTINA TAJANI - ASSESSORA POLITICHE LAVORO ATTIVITÀ PRODUTTIVE COMUNE DI MILANO Abbiamo potuto raggiungere oltre 28mila metro quadri di edifici sia pubblici sia privati con un risparmio quantificabile in termini di minori emissioni del 65% ed un risparmio economico che pesa, incide sulle bollette diciamo condominiali, con un segno meno del 60%.

MICHELE BUONO Se tappiamo i buchi di questo secchio, che impatto ci sarebbe?

DAVIDE CHIARONI - DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA GESTIONALE POLITECNICO DI MILANO Andare a tagliare il consumo e le importazioni di energia fossile, che oggi ci costano… gli ultimi dati del 2019 sono circa 40 miliardi di euro l'anno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È ovvio che non li tagli tutti immediatamente. Devi pur cominciare da qualche parte. Il comune di Milano ha investito per rendere più efficienti dal punto di vista energetico alcuni immobili pubblici e privati e ora si trova il 60% in meno di emissioni nocive nell’ambiente e i proprietari degli immobili il 60% in meno di costi sulle bollette elettriche. Pensate ad esportare ed effettuare questo tipo di modello su tutto il patrimonio immobiliare del nostro Paese, però per farlo devi rendere più moderna l’industria delle costruzioni, perché nello stato di arretratezza in cui versa in questo 13 momento potrebbe impiegare tra i 50 e i 100 anni per rendere più efficienti gli immobili del nostro Paese. L’altro esempio invece virtuoso viene dal gruppo Loccioni, hanno investito venti per poter risparmiare 86 sulla gestione dell’esercizio. Perché che cosa hanno fatto, hanno imbrigliato un fiume, che ogni tanto faceva le bizze, l’hanno trasformato in una fonte di energia pulita, hanno reso efficiente la propria azienda, hanno messo anche delle reti intelligenti per la distribuzione dell’energia e insomma, sono diventati un modello. Pensate anche qui a esportarlo in tutto il Paese. E badate bene che noi i mezzi ce li abbiamo, perché noi abbiamo il Know-how, sappiamo come produrla l’energia pulita, sappiamo come conservarla. Abbiamo anche i cervelli intelligenti, passateci il termine, che possano monitorare e distribuire lungo le reti in maniera intelligente. Ecco per una volta tanto un esempio virtuoso viene da una terra martoriata la Sicilia.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Partanna tra Palermo e Trapani.

AURELIO VITO CAMPANELLA – AMMINISTRATORE C&C I miei nonni erano contadini e con il sole e con il vento producevano olio, uva, frutta. Noi abbiamo deciso di fare con il sole elettroni, ma elettroni di qualità.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È un impianto di energia solare a concentrazione.

MANFREDI SEGRETO - RESPONSABILE MANUTENZIONE ECOPRIME Questi specchi raccolgono la radiazione solare, la trasformano in energia termica con la quale innalzano la temperatura dei sali fusi all’interno dei tubi assorbitori.

 MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il calore produce vapore che attiva le turbine per generare energia elettrica. In pratica è come una centrale tradizionale, cambia solo il carburante: al posto del gasolio, del carbone o del gas, c’è il sole.

AURELIO VITO CAMPANELLA – AMMINISTRATORE C&C E questo è stato il sogno che ha animato questo lavoro.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È una tecnologia sviluppata negli ultimi 20 anni dal centro di ricerca Enea, e un gruppo di imprenditori siciliani ha voluto realizzarla.

MICHELE BUONO Allora siete andati da ENEA e che gli avete detto?

AURELIO VITO CAMPANELLA – AMMINISTRATORE C&C Noi abbiamo il progetto, voi avete le competenze, mettiamoci insieme e cerchiamo di fare questa cosa.

VALERIA RUSSO - RICERCATORE ENEA Noi praticamente, abbiamo dato un supporto alla progettazione esecutiva dell’impianto per tutto ciò che riguarda ovviamente la parte del campo solare, tubi ricevitori e sistema di stoccaggio.

MICHELE BUONO L’Enea potrebbe insediarsi ancora di più in Sicilia per diventare un attrattore per esempio a livello mondiale, per lo studio di questa tecnologia?

GIORGIO GRADITI – DIRETTORE DIP, TECNOLOGIE ENERGETICHE E FONTI RINNOVABILI ENEA Assolutamente sì potrebbe essere certamente da sprone per incrementare ed accrescere la partecipazione degli enti di ricerca.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo in Sicilia, terra meravigliosa, martoriata, ma potrebbe diventare un modello virtuoso, potrebbe diventare l’hub di energia pulita all’interno di una crescita di un ecosistema, questo mettendo insieme quelle competenze che ha già sul territorio. Questo creerebbe come effetto la creazione di un valore che potrebbe riversarsi su tutto il nostro Paese. L’Italia potrebbe diventare leader di produzione di energia pulita esportarla in tutta Europa e con essa anche le tecnologie verdi.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Dirimpetto c’è l’Africa, a qualche centinaio di km, c’è ancora più sole che in Sicilia, quindi, si potrebbe costruire un nuovo rapporto energetico basato su fotovoltaico e idrogeno ancora più produttivi.

ETTORE BOMPARD - DIPARTIMENTO ENERGIA POLITECNICO DI TORINO Quindi avere degli elettrolizzatori, magari messi direttamente in Africa, nel Nord Africa, vicino quindi ai poli di produzione da fonti rinnovabili, dopodiché l’idrogeno può essere direttamente inviato in Europa attraverso il sistema di gasdotti che già esiste e sono sostanzialmente gasdotti attualmente sottoimpiegati.

MICHELE BUONO FDUORI CAMPO Risultato? Energia verde a un prezzo competitivo.

MARCO ALVERÀ – AMMINISTRATORE DELEGATO SNAM Noi la possiamo trasportare su lunghe distanze nei gasdotti, attraverso la nostra rete, attraverso la Sicilia che diventa un hub, un ponte per quest’evoluzione energetica.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Catania. Il Gruppo Sapio produce idrogeno ma da fonti fossili. Se ci fosse maggiore disponibilità di energia rinnovabile in Sicilia che cambierebbe per voi?

ALBERTO DOSSI - PRESIDENTE GRUPPO SAPIO Produciamo finalmente un idrogeno da elettrolisi che è finalmente un idrogeno assolutamente clean and green.

MICHELE BUONO Ci sono vantaggi?

ALBERTO DOSSI - PRESIDENTE GRUPPO SAPIO La quantità d’idrogeno prodotto sarebbe esuberante e quindi servirebbe a calmierare il prezzo dell’idrogeno. Lo scenario sarebbe fantastico.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO 15 Catania, ST Microelectronics, produce componenti elettronici, e per la produzione dei semiconduttori utilizza tanto idrogeno.

MATTEO LO PRESTI - VICEPRESIDENTE CORPORATE ST MICROELECTRONICS Poter disporre di energia prodotta da fonti rinnovabili sicuramente permetterebbe di avere un vantaggio economico da un punto di vista, diciamo, dell’ottimizzazione dei costi.

MICHELE BUONO In un ecosistema che si potrebbe creare in Sicilia che cosa potreste fare voi?

MATTEO LO PRESTI – VICEPRESIDENTE CORPORATE ST MICROELECTRONICS ST potrebbe avere un ruolo di catalizzatore delle attività di ricerca.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Innovation Hub & Lab, a Catania, offre a piccole medie imprese e a start-up assistenza per testare soluzioni innovative in ambito energetico.

DAVIDE MARANO – AMMINISTRATORE DELEGATO M2D TECHNOLOGIES Questi robot permetteranno di controllare e presidiare impianti che sono solitamente remoti perché spesso questo tipo d’impianto viene dislocato in località piuttosto difficili da raggiungere.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’ecosistema Sicilia crescendo potrebbe produrre tecnologia verde da esportare, arriverebbero nuove start-up. Sareste pronti a metterci soldi?

ANTONINO BIONDI – DIRETTORE INNOVATION HUB&LAB-ENEL Assolutamente. Siamo pronti qui sul nostro sito a sviluppare e a investire su nuovi appunto, quindi, progetti che possono aiutare tutto ciò che riguarda il tema della transizione energetica.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO 3Sun fabbrica pannelli fotovoltaici, produce in Sicilia e il grosso lo vende all’estero, per il momento. Sono pannelli con due facce, quindi producono energia da tutti e due i lati.

ANTONELLO IRACE – AMMINISTRATORE DELEGATO 3SUN-ENEL Questo permette di avere il costo dell’energia elettrica nel tempo, più basso rispetto ad altri pannelli tradizionali mono facciali.

MICHELE BUONO Voi che cosa potreste offrire, nel momento in cui un hub di questo tipo si concretizzi?

ANTONELLO IRACE - AMMINISTRATORE DELEGATO 3SUN-ENEL Noi potremmo offrire una tecnologia fotovoltaica a chilometro 0, perché produrremmo i pannelli qui nella fabbrica e li potremmo installare qui in Sicilia.

MICHELE BUIONO Che cosa si aggregherebbe attorno a voi nel momento in cui si costruisce questo scenario?

ANTONELLO IRACE - AMMINISTRATORE DELEGATO 3SUN-ENEL 16 Beh, innanzitutto anche la possibilità di quello che chiamiamo l’indotto. E cioè, sia fornire servizi di manutenzione specializzati, oppure magari anche la produzione di componentistica locale.

FRANCESCO STARACE – AMMINISTRATORE DELEGATO ENEL 3sun è una fabbrica nata per scommessa, abbiamo sviluppato una nuova tecnologia che non ha in questo momento nessuno. Adesso la dobbiamo far crescere di 15 volte.

MICHELE BUONO Volendo è possibile?

FRANCESCO STARACE - AMMINISTRATORE DELEGATO ENEL Noi crediamo di sì ed è uno dei progetti che portiamo all’interno di questo nuovo progetto di Next Generation EU, quindi la portiamo avanti per farla diventare la più grande fabbrica di pannelli solari in Europa di gran lunga.

MICHELE BUONO Restando in Sicilia. Questo volevo capire…

FRANCESCO STARACE - AMMINISTRATORE DELEGATO ENEL E certo restando in Sicilia, e che andiamo via dalla Sicilia .... il know-how sta lì.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Acireale, questa è Baxenergy. Un campus di ricerca e sviluppo nel settore dell’energia e delle telecomunicazioni. Ingegneri e informatici producono tecnologie per l’intelligenza artificiale e l’analisi dei dati.

SIMONE MASSARO – AMMINISTRATORE DELEGATO BAXENERGY Abbiamo voluto dimostrare che era possibile realizzare, in un territorio come la Sicilia, una realtà che fosse allo stesso livello di quelle che si vedono a San Francisco negli Stati Uniti, piuttosto che a Dublino in Irlanda.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Queste sale sono interconnesse con 18 paesi nel mondo per monitorare e telecontrollare il bilanciamento delle reti elettriche, garantendo l’efficienza.

MICHELE BUONO Che servizi potreste offrire?

SIMONE MASSARO - AMMINISTRATORE DELEGATO BAXENERGY Un cervello digitale che prenda delle decisioni su quando conviene utilizzare l’energia per produrre idrogeno liquido, su quando conviene sfruttare l’energia eolica e l’energia fotovoltaica oppure deviarla verso un’industria energivora.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Un sistema che favorirebbe anche una grossa concentrazione d’idrogeno verde in Sicilia, e un altro ragionamento: quasi 600 Km di linea ferroviaria non sono elettrificati e i treni vanno a gasolio su un binario unico, potrebbero andare a idrogeno. In Germania lo stanno sperimentando. Strade ferrate della Bassa Sassonia.

ANDREAS FRIXEN – ALSTOM GERMANIA 17 Volevamo dimostrare che questa tecnologia funziona anche in ambito ferroviario e che i treni a idrogeno possono essere impiegati da una normalissima azienda di trasporti pubblici.

CARMEN SCHWABL - AMMINISTRATORE DELEGATO LNVG BASSA SASSONIA Fino a oggi questi treni hanno viaggiato per più di 150mila km, e nemmeno uno si è mai fermato a metà strada. I passeggeri hanno gradito e il bilancio di anidride carbonica è pari allo zero.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Alstom Italia. Treni di questo tipo potrebbero viaggiare a idrogeno in Sicilia? MICHELE VIALE – AMMINISTRATORE DELEGATO ALSTOM FERROVIARIA Sicuramente sì, la Sicilia ha un ecosistema assolutamente favorevole. Il vantaggio è quello di creare un sistema che potrebbe essere esportato nel resto del paese.

MICHELE BUONO Il fatto di avere un treno a idrogeno che comunque c’ha dei costi di gestione più bassi, sarebbe comunque un vantaggio per investire per raddoppiare la linea, cioè risparmi da una parte e investi dall’altra?

MICHELE VIALE – AMMINISTRATORE DELEGATO ALSTOM FERROVIARIA Assolutamente sì, si risparmierebbe sull’elettrificazione che è un costo decisamente importante che potrebbe essere utilizzato per avere la doppia linea e quindi dare un migliore servizio.

MICHELE BUONO Aggiungiamo un’altra tessera: una linea ferroviaria efficiente dove camminano treni a idrogeno.

ALBERTO DOSSI – PRESIDENTE GRUPPO SAPIO Beh, ormai vuol dire essere proiettati nel futuro, questo è il primo punto che mi viene da dire. Secondo punto è che noi faremo delle stazioni di rifornimento con dei volumi critici maggiori per rifornire i treni, ma nello stesso tempo per dare la possibilità anche di fornire alla mobilità le auto a idrogeno.

MICHELE BUONO Questo tipo d’investimenti sono dei buoni investimenti a cui voi guardereste?

DARIO SCANNAPIECO - VICEPRESIDENTE BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI Sono ottimi investimenti. Il caso della Sicilia può essere un caso di scuola. Ci sono competenze di altissimo livello, competenze scientifiche, e quindi fare un progetto dimostrativo è sicuramente un qualche cosa a cui guarderemo con grande interesse.

AURELIO VITO CAMPANELLA – AMMINISTRATORE C&C La cosa più bella, la più grande soddisfazione di tutta questa storia qui, è avvenuta quando ho portato il mio papà e la mia mamma all’impianto, qualche settimana fa, quando ho visto nei loro volti, nei loro occhi, la gioia, il senso, il compiacimento che avevano un sapore antico perché venivano dalla parte più bella della tradizione contadina siciliana, fatta da gente seria per bene, che aveva fatto del  lavoro duro, il fondamento del senso della loro esistenza. Il senso di aver realizzato qui, in questa terra, in questi luoghi....

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È la forza della tradizione, delle idee, ma anche quella del sole. Ora che cosa è successo? Le idee degli uomini hanno chiamato a raccolta il know-how dell’Enea che è andata lì e ha costruito insieme a loro una centrale solare termodinamica. Ce ne sono poche, peccato perché lì di sole ce n’è tantissimo, e a pochi passi hanno chi produce i pannelli fotovoltaici double face, una tecnologia unica al mondo. Ecco si potrebbe, se si sviluppasse questa tecnologia, e questo tipo di centrali, implementare l’energia per chi invece sempre lì produce idrogeno scindendolo grazie all’energia invece dal fossile. Se ci fosse più energia pulita si potrebbe produrre più idrogeno a basso costo. Ecco, si innescherebbe un circuito virtuoso, si potrebbe investire per esempio sui treni a idrogeno, abbiamo visto che in Bassa Sassonia funzionano, riconvertire quei 600 km di ferrovie dove oggi le macchine vanno invece a gasolio. E poi si potrebbe creare una rete di distributori di idrogeno per auto e camion. La Sicilia potrebbe diventare un hub di energia pulita raccogliendo anche quella prodotta dal Nord Africa. Abbiamo visto che le reti ci sono e c’è anche chi gestisce quelle reti in maniera intelligente rendendole efficienti. Sono i cervelli informatici che sono sempre lì, ad Acireale. Ecco gestiscono le reti di diciotto Paesi nel mondo, insomma, grazie che poi la Banca Europea per gli investimenti dice attenzione questo è un caso scuola da seguire siamo pronti a investire perché c’è una idea di insieme, ci sono le competenze, c’è la formazione e c’è soprattutto l’idea di futuro di un Paese. Ecco, sta a noi disegnarlo.

·        Gretinismo ed inquinamento.

La lobby e le piazze di Greta Thunberg. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Ci sono categorie di persone trasparenti, perché contano poco nella società e nella politica. Tra queste figurano i giovani, il cui consenso viene “tirato per la giacchetta” ma, nei fatti, i loro interessi sono a dir poco trascurati. Solo per fare qualche esempio, fanno disperare le condizioni degli edifici scolastici, dove una palestra minimamente attrezzata è un lusso sfrenato, e il dato della disoccupazione degli under 25 che, a settembre 2021, è passato al vertiginoso 29,8%, registrando l’aumento mensile più alto della zona euro. La proposta di abbassare l’età del voto a 16 anni mi ha sempre lasciato perplessa. Tuttavia solo queste due emergenze fanno apparire meno incomprensibile un’eventuale revisione della Costituzione in questo senso. Se i giovani votassero a 16 anni, forse la politica si troverebbe nella condizione di prendere maggiormente in considerazione le loro necessità. Riccardo Capecchi, esperto del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, ha ricordato l’attivismo dei ragazzi nella sua intervista per la video rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet. Capecchi ha sottolineato come i giovani abbiano fatto sentire la propria voce su un tema cruciale come i cambiamenti climatici. Con una similitudine, paragona il loro movimento a una sorta di “mega-operazione” di lobbying a livello globale: “Pensiamo al lavoro che ha fatto Greta Thunberg. Altro non è stata che un’azione di fortissima lobby nell’interesse dei giovani. Quindi non un interesse di gruppi economici, ma un interesse individuale che diventa interesse collettivo, per rappresentare un bisogno di futuro dei nostri giovani”. Nel lessico ancora poco codificato del nostro settore, alcuni chiamano questa tipologia di iniziativa con il termine advocacy. Una delle differenze con la lobby in senso stretto è la capacità di coinvolgere un movimento di opinione e di riempire le piazze reali e virtuali, risultato che l’attivista Greta Thunberg è riuscita ad ottenere con efficacia magistrale. In qualche incontro pubblico, è capitato che mi abbiano chiesto se noi lobbisti siamo soliti organizzare movimenti popolari per supportare la causa di un’azienda privata, magari macchinando la rivolta seduti comodamente in una romanzesca sala dei bottoni collegata con telecamere nascoste. La risposta ovviamente è no. Non è questo il nostro mestiere. Inoltre i temi che trattiamo sono talmente noiosi e pieni di sfaccettature che credo sarebbe più probabile aprire una clinica del sonno, piuttosto che fomentare una piazza. Quello che è certo però è che Greta e Fridays for future hanno dato una spinta alla politica. Hanno costretto i leader del mondo a pensare di più al dopo, ossia a quando noi non ci saremo più, ma ci saranno loro, i nostri figli e i nostri nipoti, che preferirebbero evitare di estinguersi come i dinosauri. Mi hanno colpito le manifestazioni organizzate dai ragazzi, perché era tempo che non vedevo adolescenti in piazza per combattere per un proprio diritto. Chissà se il voto ai sedicenni imporrebbe una nuova agenda alla politica e una nuova maturità ai ragazzi.

Da liberoquotidiano.it il 19 novembre 2021. Qui PiazzaPulita, dove prende la parola un sempre ammirabile Federico Rampini, ora firma del Corriere della Sera. La puntata del programma di Corrado Formigli in onda su La7 è quella di giovedì 18 novembre, dove si parla di ambiente, delle parole di Stefano Cingolani, ministro della Transizione economica più pragmatico che incline al "fondamentalismo" green. Puntata dove si parla anche di Greta Thunberg. E Rampini viene interpellato proprio sul punto..."Io, siccome non faccio il ministro posso essere ancora più esplicito: io mi dissocio dalla venerazione nei confronti di Greta Thunberg - premette partendo in quarta -. Mi preoccupa lo spettacolo degli adulti che si genuflettono davanti agli adolescenti. Gli adolescenti fanno il loro mestiere, fanno benissimo a cavalcare le utopie e a gridarci delle provocazioni. Ma gli adulti devono governare il mondo. E ci sono adulti che a quel vertice sono andati in rappresentanza di un miliardo e mezzo di cinesi e di indiani, che non possono rinunciare da un giorno all'altro al carbone. L'alternativa è chiudere le fabbriche, gettare centinaia, milioni di persone sul lastrico. Si muore di fame prima ancora di morire di inquinamento", sottolinea il giornalista.  "Ma è vero che Cina e India hanno fregato l'Occidente sull'inquinamento?", chiede Formigli. E Rampini: "No... non ci hanno fregato. Il caso che conosco meglio è la Cina, che ci crede alla transizione sostenibile e alla lotta al cambiamento climatico. È già numero uno mondiale nei pannelli solari, ha una posizione dominante nell'eolico e nell'auto elettrica. Ha un progetto molto chiaro. È un problema per noi, certo. Ma per l'ambiente...", conclude la firma del Corsera.

Greta Thunberg, una macchina da soldi: quanto ha guadagnato (sul clima) a soli 18 anni. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 07 novembre 2021. Una Greta da un milione di dollari: così, immaginando un titolo sulla falsariga di uno dei vecchi film della Walt Disney, potremmo definire Greta Thunberg, l'attivista più famosa al mondo, in relazione al patrimonio che avrebbe accumulato in margine alle sue campagne, e grazie ad esse. Il condizionale è d'obbligo, perché nessun giornalista, magistrato o commercialista ha finora avuto la possibilità di verificare i conti in modo da renderli pubblici. Ma varie stime sono state fatte, a partire da quella dello scorso aprile a cura di Wealth Magnet: è una società di media globali specializzata in affari, generazione di ricchezza, investimenti, tecnologia, imprenditorialità e stile di vita. Appunto Wealth Magnet ha stimato un milione di dollari di patrimonio personale, che però sarebbe solo una componente di un giro di affari più ampio. Classe 2003, figlia di un mezzosoprano che rappresentò la Svezia all'Eurovision Song Contest del 2009 a Mosca e di un attore a sua volta figlio di un altro attore e regista che aveva recitato anche con Ingmar Bergman, Greta Tintin Eleonora Ernman Thunberg divenne un fenomeno globale quando di anni ne aveva appena 15, e decise di fare uno sciopero della frequenza scolastica per chiedere a governo e parlamento di Stoccolma di rispettare l'Accordo di Parigi.

L'ESPERTO

Determinante per il suo successo è stato l'esperto in comunicazione Ingmar Rentzhog, la cui start-up è decollata dopo l'inserimento della ragazza all'interno del Consiglio di Amministrazione e dopo una raccolta fondi che portava il nome dell'attivista. Firmati da lei sono uscito poi tre libri, due scritti assieme ai genitori e uno che raccoglie i suoi discorsi. Ma il suo nome compare in varie altre pubblicazioni miscellanee, dove il suo nome è messo assieme di altri vip, da Naomi Klein al Dalai Lama. In particolare è diventato un best-seller quello tradotto in italiano col titolo La nostra casa è in fiamme, che è un misto tra manifesto ecologista e autobiografia. Oltre a ciò nel 2020 è uscito il film Io sono Greta, che malgrado fosse solo un documentario e malgrado il lockdown ha incassato al botteghino 360.000 dollari. Ma in contemporanea è uscito anche su diverse piattaforme di streaming, come Amazon Prime. In più, ci sono i premi che le sono stati dati. Non ancora il Nobel per la Pace, che equivale a 869.000 euro, e per il quale era stata giudicati tra i possibili vincitori sia quest'anno che l'anno scorso. Ma nel 2020 le è arrivato il Gulbenkian Prize for Humanity, che con il suo milione di dollari è più o meno equivalente. Ha ricevuto anche lo Human Act Award, che fa altri 100.000 dollari. E nel 2019 un altro milione le sarebbe stato girato da un ente benefico britannico, anche se la cosa non è stata confermata. Greta dice che la Fondazione a suo nome da lei fondata nel 2018 ha girato in beneficienza cifre anche doppie, il che però conferma che i soldi le arrivano in quantità.

DENARO PER LA CAUSA

Dopo aver vinto il Premio Gulbenkian un video di Greta pubblicato dal Guardian ha spiegato ad esempio: «il premio, che è di un milione, è più denaro di quello che posso anche solo immaginare, ma tutto sarà devoluto attraverso la mia fondazione a diverse organizzazioni e progetti che stanno lavorando per aiutare le persone in prima linea colpite dalla crisi climatica e dalla crisi ecologica soprattutto nel Sud del mondo». Nel 2020 100.000 dollari sono stati donati all'Unicef da lei ed altri 100.000 dalla Fondazione, per aiutare l'agenzia ad affrontare l'emergenza Covid. Altra possibile fonte di reddito, 13 milioni di followers su Instagram, 3 milioni su Facebook e 5 milioni su Twitter. Intendiamoci: Chiara Ferragni con 24,8 milioni di followers su Instagram è più forte ancora. Se teniamo però presente che appunto la moglie di Fedez è stimata sui 20 milioni di euro di ricavi all'anno a colpi di pubblicità collegata ai suoi post, anche riducendo a un po' più della metà potremmo oltrepassare i 10 milioni agevolmente. Ma il milione di dollari è stato stimato tenendo conto solo dei libri e del film. 

S.Gan per il "Corriere della Sera" il 2 Novembre 2021. Là dentro fingono. Si può condensare con questa frase la giornata di Greta Thunberg a Glasgow. Dal «blablabla» con cui ha bollato la pre-Cop di Milano, ripreso ieri anche dal premier britannico Boris Johnson, la diciottenne svedese, icona della rivolta climatica dei giovani, nella città scozzese è passata a parole ben più forti: «All'interno della Cop ci sono solo politici e persone al potere che fingono di prendere sul serio il nostro futuro, fingono di prendere sul serio la presenza delle persone colpite già dalla crisi climatica. Ma il cambiamento non arriverà da lì dentro. Quella non è leadership, questa è leadership». L'attivista con le treccine di Pippi Calzelunghe e la faccia che oscilla in un istante dal broncio al sorriso, ha arringato così ieri la «sua» folla, ovvero i tanti manifestanti di FridaysForFuture (FFF) riuniti al Festival Park di Glasgow, incuranti del vento gelido. E alla fine, tutti hanno intonato in coro «blablabla». Come ragazzi qualunque. Greta è rimasta fuori dalle stanze dei Grandi, allo Scottish Event Center dove si svolge la Cop26, e ancora non è dato sapere se i leader politici le lasceranno il microfono questa volta, come invece è avvenuto in passato e pure a Milano, alla pre-Cop. I suoi portavoce non si sbottonano: «Ha altri meeting con i leader mondiali e sarà alle manifestazioni di venerdì e sabato». Nulla più. Per ora. Lei si è fatta sentire lo stesso, fuori dal vertice, via casse stereo. Attorno alla massa di persone che si accalcava all'ingresso del centro conferenze, con mascherine e in attesa di far vedere il test anti-Covid, a un certo punto è risuonata la sua voce remixata con musica elettronica. Un'idea dei suoi giovani fan, che a centinaia hanno poi retwittato il suo appello a firmare una lettera aperta che accusa i politici di tradimento: «Questa non è un'esercitazione. È il codice rosso per la Terra. Milioni di persone soffriranno mentre il nostro pianeta viene devastato: un futuro terrificante verrà creato, o sarà evitato, dalle decisioni che prenderete. Avete il potere di decidere». Nel pomeriggio la «pasionaria» svedese, con Vanessa Nakate e altri attivisti, ha incontrato la premier scozzese Nicola Sturgeon che ha subito lanciato un tweet entusiasta: «Le voci dei giovani devono essere ascoltate in modo forte e chiaro alla Cop26». In realtà, anche la Scozia nelle scorse settimane era finita nel mirino di Greta per non aver mantenuto l'impegno di ridurre le emissioni di CO2. Dopo l'appello urgente inviato ai leader mondiali attraverso il sito dell'Ong Avaaz e diventato subito virale (le sottoscrizioni di «Tradimento», questo il titolo della lettera, in poche ore hanno raggiunto quasi il milione e mezzo), ora tutti guardano alla grande manifestazione di FridaysForFuture che si terrà per le strade di Glasgow venerdì, con palco finale per Greta & Co., e a quella successiva di sabato. Migliaia di attivisti stanno convergendo in questi giorni verso la più grande città della Scozia. Oltre ai giovani di FFF stanno già facendo sentire la propria voce i membri di Ocean Rebellion, che hanno guidato un corteo di «sirene morte» lungo il fiume Clyde, e quelli di Extinction Rebellion. Per molti di loro il viaggio a Glasgow è quasi un pellegrinaggio che toccherà il suo culmine sabato, per la «processione» che unirà tutti i gruppi sotto un unico slogan: salvare il pianeta. 

Mattia Feltri per "la Stampa" il 2 Novembre 2021. E di nuovo bla bla bla, rieccolo il movente eterno dell'insoddisfazione degli osservatori, e specialmente degli ambientalisti. Sono delusi dal G20, dai vaghi impegni presi dai grandi del mondo, dal bicchiere metà vuoto o forse per tre quarti, dall'assenza di una risoluzione all'altezza del guasto climatico, dall'ennesimo evaporare dei sogni di planetaria concordia. C'è chi ne scrive e chi manifesta, reclamando azioni concrete oltre le chiacchiere: fate qualcosa oppure è il solito bla bla. Fate qualcosa. Bella frase. Però, che cosa? Perché l'opposizione a intese più stringenti è stata avanzata da Xi Jinping, presidente della Cina che assomma quasi un miliardo e mezzo di abitanti, da Narendra Modi, primo ministro dell'India che assomma un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, da Vladimir Putin, presidente della Federazione russa che assomma centoquarantacinque milioni di abitanti. Tre Paesi e più di tre miliardi di abitanti che, soprattutto in Cina e India, sono in vertiginosa rimonta sull'Occidente industrializzato e, proprio mentre ci stanno per raggiungere, li si invita a darci dentro un po' di meno per inquinare un po' di meno. Sarà una posizione miope, tutto quello che volete, ma hanno ripetuto no grazie. Anzi, da Cina e Russia non è nemmeno arrivato il grazie, soltanto il no. Dunque, come tradurre quel fate qualcosa? Insistere? Prendere a pugni il tavolo? Minacciare una guerra nucleare? Giocarsela a testa o croce? Mettersi in ginocchio? Inviare i manifestanti ambientalisti a Mosca e a Pechino? Perché l'impressione è che accusare i grandi di bla bla sia soltanto un altro e ancora più comodo bla bla.

"Insorgiamo!" la protesta di "gretini" e comunisti a Roma contro il G20. Il Tempo il 30 ottobre 2021. Scoppi di petardi a piazzale Ostiense dove sono rientrati i manifestanti che hanno protestato contro il G20, in corteo da Bocca della Verità, centro di Roma. Il gruppo è rientrato in corteo, giustificato - fa presente la Questura di Roma - dal fatto che "la fermata metro più vicina è quella di Roma Ostiense, considerata la chiusura di Circo Massimo". Durante il rientro i manifestanti hanno acceso torce e intonato cori. Esploso anche un petardo. “Voi G20 noi il futuro” e "Insorgiamo!" sono alcuni degli slogan che si leggono sugli striscioni  srotolati durante il corteo partito alle 15 da piazzale Ostiense. A manifestare circa 5mila persone tra cui i Cobas, un collettivo di fabbrica della GKN di Firenze, una delegazione dell’Ilva, rappresentanti della FLC Cgil,  lavoratori Alitalia e gli attivisti di Friday for the future. A piazza San Giovanni invece hanno manifestato circa duecento attivisti del Partito Comunista. "Il Presidente del Consiglio parla di un Pil che sale del 6%, ma il popolo italiano piange" ha detto il segretario generale del partito comunista, Marco Rizzo chiudendo la manifestazione contro Draghi. Nella mattinata una cinquantina di attivisti del Climate Camp Roma, intorno alle 8, hanno bloccato in via Cristoforo Colombo per contestato i governi del G20. 

Sara Gandolfi per il "Corriere della Sera" il 9 novembre 2021. C'era grande agitazione ieri nelle stanze chiuse dei negoziatori. E non solo per il ritorno tanto atteso di Barack Obama. Domenica notte è iniziata a circolare la prima bozza del documento politico finale di Cop26, diffusa dal presidente Alok Sharma. Il «Non paper: sommario sui possibili elementi identificati dalle Parti» elenca adattamento, finanza, migrazioni, partecipazione dei giovani e giusta transizione. Cita l'obiettivo del Net Zero (l'economia a emissioni zero) entro il 2050, il target inseguito da Usa ed Unione Europea, e l'«urgenza di un'azione per mantenere vivo l'obbiettivo di 1.5°C». Esprime pure «profonda preoccupazione» per l'obiettivo non ancora raggiunto del fondo per il clima da 100 miliardi di dollari. Ma in quella lista di due paginette non sono mai citati i combustibili fossili. E tanto basta per scatenare, dietro le quinte, la delusione dei Paesi più vulnerabili e anche di quelli più ambiziosi. Per ora i delegati non commentano pubblicamente e prosegue il lavorio diplomatico. Ma è sulla bocca di tutti che il grande nemico, oggi come due anni fa a Madrid, è l'Arabia Saudita che si sarebbe messa di mezzo per far togliere dalla dichiarazione finale ogni riferimento ai combustibili fossili. Per ora ci è riuscita, nonostante la «Dichiarazione globale di transizione dal carbone all'energia pulita» firmata da una quarantina di Paesi giovedì scorso (senza Usa, Russia, Cina, India, Australia). «È molto preoccupante che la prima bozza dell'accordo di Glasgow sia così debole», afferma Jennifer Morgan, direttrice di Greenpeace International. Ieri mattina un'altra bomba era esplosa sul vertice delle buone intenzioni», come è stata ribattezzata Cop26 tra gli addetti ai lavori. Il Washington Post ha pubblicato un'inchiesta in cui denuncia il forte divario fra le emissioni di CO2 dichiarate da diverse nazioni rispetto a quanto effettivamente immesso in atmosfera: un divario che varia tra 8,5 miliardi e 13,3 miliardi di tonnellate all'anno di emissioni sottostimate. Tutti i modelli di previsione rischiano di saltare. «Se non conosciamo lo stato delle emissioni oggi, non sappiamo se le stiamo riducendo in modo significativo e sostanziale», ha dichiarato al quotidiano Rob Jackson, presidente del Global Carbon Project. Secondo il Washington Post nella fascia bassa il divario è maggiore delle emissioni annuali di gas serra degli Usa, nella fascia alta si avvicina alle emissioni record della Cina e pari al 23% del contributo totale dell'umanità al riscaldamento del Pianeta. Si allarga il divario fra nazioni ricche e vulnerabili. «C'è uno scollamento tra le dichiarazioni pubbliche e ciò che sta accadendo nei negoziati», ha denunciato il presidente del gruppo dei Paesi meno sviluppati, Sonam Phuntsho Wangdi. Neppure le cifre annunciate oggi - 232 milioni di dollari per l'Adaptation Fund e altri 450 milioni mobilitati per progetti locali di resilienza - convincono. «Carità aleatoria», commenta Lia Nicholson, a nome dell'Alleanza dei piccoli Stati insulari.

Monica Perosino per "la Stampa" il 9 novembre 2021. Il tempo stringe. Il 12 novembre, data di chiusura della Conferenza sul Clima, si avvicina rapidamente e il febbrile lavoro dei negoziatori non si ferma neanche di notte. Ma lontano dalla frenesia tutta discorsi, star e applausi, nelle salette private e blindate dove si sta cercando di mettere in piedi il documento finale della «storica» Cop26, si respira tutto fuorché entusiasmo. Nella bozza preliminare diffusa dal presidente della conferenza di Glasgow, Alok Sharma, c'è tutto quello che dovrebbe esserci tranne il punto fondamentale: l'addio, seppure graduale, ai combustibili fossili. Che neppure vengono citati. Eppure, sarebbe una delle condizioni necessarie alla transizione verde. La «dimenticanza» secondo attivisti e osservatori ha una causa precisa: le lobby del petrolio. Mentre i leader del mondo si affannano a trovare accordi, intese e alleanze per ridurre l'inquinamento da CO2, i gruppi di pressione lavorano senza sosta per boicottarli e continuare a bruciare combustibili fossili. Il primo campanello d'allarme l'aveva suonato GreenPeace, che a fine ottobre aveva svelato, grazie a un'inchiesta realizzata da Unearthed, team di giornalisti investigativi, l'esistenza di una lobby che stava lavorando dietro le quinte per «annacquare» il rapporto sul clima dell'International Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite, in modo da eliminare le conclusioni più scomode, quelle che potrebbero minacciare gli interessi di alcune grandi aziende e Paesi. In prima fila c'era l'Arabia Saudita. Ieri è arrivata anche l'inchiesta degli attivisti di Global Witness, che hanno analizzato l'elenco dei partecipanti alla Cop26 e hanno scoperto che 503 delegati con legami e interessi nei combustibili fossili erano state accreditate. Un numero enorme, se pensiamo che sulle circa 40.000 persone che partecipano alla Cop il Brasile ha la più grande squadra di negoziatori, con 479 delegati. «Se l'industria dei combustibili fossili fosse un Paese - dicono da Global Witness - avrebbe di gran lunga il maggior numero di delegati. Centinaia di lobbisti hanno invaso Glasgow, difendendo gli interessi dei grandi inquinatori. È come se i lobbisti di Big Tobacco intervenissero a una conferenza sul cancro ai polmoni». E il paragone non è casuale. Come l'industria del tabacco ha negato per anni gli effetti dannosi sulla salute, «l'industria dei combustibili fossili ha passato decenni a negare e ritardare un'azione reale sulla crisi climatica - spiega Murray Worthy di Global Witness. La loro influenza è uno dei motivi principali per cui 25 anni di colloqui sul clima non hanno portato a tagli reali delle emissioni globali». Ancora secondo Unearthed, l'Arabia Saudita, ma anche Australia e Giappone hanno spinto per rimuovere dai rapporti che il mondo ha bisogno di eliminare gradualmente i combustibili fossili e l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), dal canto suo, ha voluto eliminare diversi passaggi, tra cui un riferimento a «potenti gruppi di pressione che hanno interesse a mantenere le attuali strutture economiche ad alto contenuto di carbonio». Non solo: il Regno Unito ha organizzato il vertice in collaborazione con aziende come Boston Consulting Group, che fornisce consulenza alle compagnie petrolifere e del gas, e l'unica differenza rispetto alle precedenti Cop è che sono state vietate le sponsorizzazioni dirette alla Conferenza. Ma non è un mistero che diversi eventi collaterali siano stati organizzati da grandi aziende o banche che investono nei combustibili fossili o organizzazioni come la Association of Oil and Gas Producers. Il tempo stringe, il documento è ancora una bozza, ma se non si inverte la rotta, i grandi inquinatori potrebbero averla vinta ancora una volta.

Manila Alfano per “il Giornale” l'11 novembre 2021. Rischiava di essere ben al di sotto delle aspettative, perché se il G20 di Roma della settimana scorsa era stato il preludio, Glasgow doveva essere il punto concreto da cui partire. Ieri i negoziati sarebbero dovuti entrare nel pieno, e si è temuto lo stallo fino all'ultimo. Sembrava un film già visto: grandi parole, pochi fatti e molti delusi. Un preoccupante pantano che ha spinto il padrone di casa, Boris Johnson a tornare a Glasgow in fretta e furia, anche se stavolta, per evitare le polemiche, è arrivato col treno invece che in aereo «lo faccio salendo su un mezzo rispettoso del clima». Arrivato per ridestare animi e coscienze green assopite si è sperticato in un discorso passionale e accorato «L'obiettivo di mantenere il tetto di 1,5 gradi in più rispetto all'era pre-industriale è in bilico». «Chi sarà dei nostri?». E ancora: «Sono stati fatti progressi la settimana scorsa, ma i negoziati ora si sono fatti difficili. Occorre coraggio». L'obiettivo di 1,5 gradi, «è ancora possibile ma è tutto tranne che un affare fatto». «Ora sappiamo cosa fare, dobbiamo solo trovare il coraggio». Facile a dirsi. È «cruciale che ora mostriamo ambizione, il rischio di mancare una ambiziosa Cop26 è colossale e i rischi di arretrare sarebbero un assoluto disastro per il pianeta». Parole che lasciavano già presagire il peggio: un ennesimo nulla di fatto. Poi la svolta. Una dichiarazione congiunta arrivata a sorpresa: Stati Uniti e Cina collaboreranno e lavoreranno insieme sul clima. Eccolo il progetto ambizioso, il punto vero da cui si può finalmente partire. È la vittoria di Glasgow: due potenze mondiali ai ferri corti che accettano di lavorare insieme per fronteggiare la crisi climatica. Il documento afferma che entrambe le parti «terranno a mente il loro fermo impegno a lavorare insieme» per raggiungere l'obiettivo di 1,5 gradi stabilito nell'accordo di Parigi e si impegnano a cooperare sugli standard normativi, la transizione verso l'energia pulita, la decarbonizzazione, la «progettazione verde e l'utilizzo delle risorse rinnovabili». Si impegnano inoltre a contrastare le emissioni di metano. Annunciato anche l'impegno a formare un gruppo di lavoro che si riunirà regolarmente per discutere le soluzioni climatiche. «Un passo importante», fanno subito sapere soddisfatti dall'Onu. Xie Zhenhua, l'inviato speciale per la Cina ha precisato che l'intesa prevede «piani concreti» per rafforzare l'azione contro i cambiamenti climatici in questo decennio e che sia gli Usa che la Cina sono pronti «a lavorare insieme per finalizzare» l'attuazione dell'Accordo di Parigi sul clima del 2015. «Essendo le due principali potenze mondiali, la Cina e gli Usa devono assumersi la responsabilità di lavorare insieme e con le altre parti per contrastare il cambiamento climatico». Soddisfazione anche da parte dell'inviato speciale americano John Kerry, secondo cui con la dichiarazione congiunta annunciata a sorpresa a Glasgow «siamo arrivati a un nuovo punto» e l'accordo rappresenta «una roadmap» per il futuro. Secondo Kerry, Stati Uniti e Cina hanno concordato di «lavorare insieme per limitare le emissioni di metano» e l'impegno di Pechino di mettere a punto «un piano d'azione nazionale complessivo e ambizioso sul metano avrà un effetto significativo» sulla crisi climatica. «Tra Stati Uniti e Cina non mancano le divergenze - ha sottolineato l'inviato dell'amministrazione Biden - ma sul clima la cooperazione è l'unico modo perché sia fatto il lavoro».

Un bilancio della conferenza sul clima. Cop26, lo scontro del futuro tra ecologisti integrali e di governo. Fausto Bertinotti su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Il conflitto aperto dai movimenti di strada, ultime le manifestazioni contro i potenti del Cop26 e i governi, sulle grandi questioni che investono il futuro dell’umanità e del pianeta, consentono di guardare a una frattura che divide profondamente il campo dei sostenitori delle politiche ecologiste. Mi pare che si possa dire addirittura che si affacciano due concezioni tra loro irrimediabilmente in contrasto e in opposizione. È lo scontro che si profila tra quello che possiamo chiamare “l’ecologismo integrale”, secondo una definizione carica di autorevolezza, e l’ecologia dei governi e delle istituzioni. Bisogna tenersi lontano da una similitudine che può affacciarsi con la storica divisione del Novecento del Movimento operaio tra riformisti e rivoluzionari, ma la linea di frattura va acquisita perché destinata a segnare una delle tendenze del conflitto nel prossimo futuro. Neppure la dialettica sempre esistita in Germania nei Grünen tra i fondamentalisti e politici ci illumina su questa divisione profonda, complessa e articolata che, tuttavia le immagini dei governi chiusi nei palazzi e, all’opposto, quella delle moltitudini di giovani che invadono le strade, in qualche modo, simboleggiano. A dividerli, anche se ancora non è evidente, sono due macigni sulla via della conversione ideologica: l’uno si chiama addirittura capitalismo; l’altro ha la forma storica di non-governo del mondo da parte degli Stati nazionali e delle grandi aree economiche in cui oggi è suddiviso. Greta Thunberg ha denunciato il fallimento dei vertici mondiali ricorrendo a una formula irridente e spregiativa: il famoso bla bla bla. Leonardo Boff ne ha individuato la causa principale quando ha scritto: «I leader mondiali hanno accuratamente evitato di toccare quello che è il vero problema: il capitalismo. Se non cambia nel modello di produzione e di consumo, non fermeremo mai il riscaldamento globale». So che non è ancora la tesi del Movimento ma è ciò che impedisce ai potenti di accoglierne le richieste. Ricchezza e povertà segnano di sé anche l’ambiente. Uno studio recente lo rende manifesto in termine esplosivo. Oxfam, proprio in occasione di Cop26, ha presentato uno studio effettuato con L’Institute for European Environmental Policy e lo Stockholm Environment Institute. Si sa che i voli spaziali sono ormai la misura delle più grandi ricchezze, ebbene, secondo questo studio, un solo volo spaziale inquina quanto il miliardo di persone più povere del mondo. Misurate in tonnellate di Co2 emesse, in poco più di 10 minuti, il volo ne produce 75 tonnellate. Tutte le persone del miliardo più povero impiegherebbero più di 75 anni a produrle, giacché emettono meno di 1 tonnellata di co2 all’anno. I grandi della terra si affannano a discutere su come mantenere il riscaldamento globale sotto l’1,5% senza riuscirci, ma si calcola che l’1% più ricco del mondo è incamminato a essere per il 2030, data fissata per il raggiungimento dell’1.5%, trenta volte sopra a quel che sarebbe compatibile con l’obiettivo che, per essere realizzato, dovrebbe vedere questo 1% più ricco ridurre le proprie emissioni dell’oltre il 95%. Il commento di uno dei responsabili dello studio porta acqua al mulino della tesi di Boff. «Le emissioni del 10% più ricco da sole potrebbero spingerci a un punto di non ritorno e a pagarne il prezzo più alto, ancora una volta, saranno le persone più povere e vulnerabili del pianeta». Ricordiamo sempre l’implacabile formula secondo la quale senza giustizia sociale, l’ecologia è solo giardinaggio. Per i potenti, è il maquillage compatibile con questo tipo di accumulazione capitalistica e il suo cammino è quello del peccatore: buoni propositi, poi molti peccati, poi qualche pentimento e infine ripresa del cammino senza cambiamento. In questa prigione costruita con le proprie mani si sono trovati i vertici del G20 e del Cop26. Solo una acritica propensione apologetica e forzosamente ottimistica ne può negare l’esito deludente, per il destino dell’umanità, per il futuro del mondo e anche soltanto per le prossime politiche attese. A denunciarne l’esito deludente non è solo il movimento, non sono solo le manifestazioni di una nuova generazione di giovani. Ci sono le pesanti critiche di studiosi della forza del premio Nobel Giorgio Parisi e ci sono tante altre autorevoli testimonianze. A minare le già incerte previsioni dei grandi della terra e i loro impegni di buona condotta non ci sono solo le fondamentali questioni strutturali, cioè il completo funzionamento di questa economia, di questo capitalismo, ma vi concorrono, in termini assai rilevanti, gli squilibri attuali tra nord e sud del mondo, tra i diversi livelli di sviluppo delle sue più grandi aree; vi concorrono i precari, instabili assetti geopolitici di una fase di transizione nei rapporti tra le superpotenze, e con l’emergere di nuove potenze o candidate a volerle diventare. La proclamata volontà di raggiungere la neutralità nelle emissioni di carbone entro il 2030, considerata indispensabile per evitare il disastro climatico, ha riguardato, peraltro con non trascurabili oscillazioni anche in alcuni dei suoi protagonisti, solo i Paesi considerati avanzati nello sviluppo. L’uso della formula “entro il 2030 o quanto prima possibile” dice di una perdurante problematicità nel perseguimento dell’obiettivo. Ma la questione centrale a questo proposito, e non solo a questo, è il veto opposto da Cina, India e Russia. Il fatto che la diversità di posizioni dipenda dalle differenti collocazioni di queste aree economiche-politiche nelle diverse fasi dello sviluppo capitalistico, e quindi dal diverso peso e responsabilità di ognuna nell’attuale inquinamento del mondo, propone un’altra contraddizione insanata che concorre a bloccare una qualsiasi svolta ecologica. L’incapacità dei Paesi avanzati ad affrontarla anche attraverso un riequilibrio tra nord e sud del mondo, tra aree di sviluppo e sottosviluppo, è dimostrato anche al confronto di un episodio minore. Era stato previsto da parte dei Paesi avanzati un fondo per indennizzare i Paesi meno sviluppati, un fondo di 100 miliardi annui. Neanche questo impegno è stato rispettato, le diseguaglianze interne nei diversi Paesi minano nelle fondamenta la possibilità di dar vita a una politica ecologica, se non vengono, come non vengono, affrontate contemporaneamente. Le diseguaglianze esterne, quelle tra diverse economie, negate di fatto dalla politica dei Paesi che chiamiamo avanzati, impediscono la svolta nelle scelte politiche dell’insieme degli Stati. Il governo mondiale, qualche volta seppure isolatamente invocato, appare ancora un’utopia. Ma senza andare in questa direzione, con una politica di pace, tutto si costruisce. Il movimento, le moltitudini di giovani che reclamano il cambiamento vedono lucidamente il tradimento delle promesse e lo combattono insieme ai suoi responsabili politici. «È ovvio che il vertice è fallimentare. L’imperatore è nudo», così ha dichiarato Greta Thunberg. Così l’ecologismo integrale si fa, in qualche misura, strada nella critica pratica dell’enunciato ecologismo politico-istituzionale. Questo movimento di generazione non è certo figlio degli ambientalismi radicali degli anni ‘60, dei Commoner, degli André Gorz, e nemmeno del movimento mondialista del fine-inizio secolo e forse nemmeno dell’Enciclica di papa Francesco, ma va per la sua strada. La sua autonomia dal potere è una grande chance, quando i potenti del mondo si rivelano impotenti di fronte all’attualità del drammatico problema del mutamento climatico, questi movimenti acquistano una potenzialità grande. Il movimento va ora per la sua strada, il suo futuro dipenderà in larga misura da sé stesso, ma anche da cosa e da chi incontrerà nel suo cammino.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Cop26, nuova bozza di accordo: la decarbonizzazione più lontana. Una corsa a ostacoli verso +1,5 °C. Luca Fraioli e Gaia Scorza Barcellona su La Repubblica il 12 novembre 2021. Oggi è l'ultima giornata della Conferenza sul clima di Glasgow. Atteso un finale che mantenga il mondo sotto 1,5 °C di riscaldamento. Ma sono tanti i nodi ancora da sciogliere.

"Cop26, promesse vaghe e phase-out dal carbone troppo lontano", perché la bozza di accordo non piace agli ambientalisti.

Ieri sono finiti i convegni e le giornate a tema, con le parate di vip, politici ed esperti. Oggi sarà soltanto una giornata di negoziati, lunga e difficile, con tecnici e ministri. Una corsa in salita e contro il tempo, per arrivare al traguardo ambizioso di +1,5 °C. Il mondo guarda a Glasgow, per vedere se i suoi leader avranno il coraggio di salvarlo dalla crisi climatica.

8:30 - La chiusura del summit: una corsa verso +1,5 °C

Tutti pensano che si continuerà a trattare nella notte. Nella migliore delle ipotesi, si chiuderà sabato mattina (e bisogna vedere con quale accordo). Nella peggiore, come è già successo in altre Cop del passato, si potrebbe finire anche a domenica. I nodi politici non sono ancora sciolti: revisione degli impegni di decarbonizzazione entro la fine del 2022, mercato globale del carbonio (l'articolo 6 dell'Accordo di Parigi), trasparenza (le regole per comunicare i risultati di decarbonizzazione degli stati), Paris Rulebook (le regole per applicare l'Accordo del 2015 sul clima).

9:00 -  Una nuova bozza di accordo

Arriva all'alba dell'ultimo giorno di Cop26 la nuova bozza di "cover decision", il riassunto di copertina di quello che dovrebbe essere l'accordo finale di questa tormentata Cop26. Che la sollecitazione a uscire dal carbone a chiudere i sussidi ai combustibili fossili, invito contenuto nella prima bozza di due giorni fa, fosse uno degli ostacoli principali lo si era capito subito. E il testo diffuso questa mattina lo conferma ampiamente.

Il nuovo testo recita: " (...) si invitano i Paesi ad accelerare l'eliminazione graduale delle centrali a carbone senza abbattimento di emissioni e dei sussidi inefficienti per i combustibili fossili". L'introduzione di due sole parole, "unabated" e "inefficienti", rispetto al testo proposto dalla presidenza britannica della Cop, ma che modificano radicalmente la portata dell'articolo. Con questa formulazione sarà possibile continuare a bruciare carbone, a patto però di ridurne in qualche modo il rilascio di gas serra nell'atmosfera. Così come sarà possibile continuare a dare sussidi ai combustibili fossili (solo in Italia molti miliardi di euro all'anno) eliminando solo quelli inefficienti (dal nostro inviato Luca Fraioli)

Da ansa.it il 14 novembre 2021. Alla fine alla Cop26 di Glasgow è stato raggiunto l'accordo. Un po' annacquato sul carbone e i sussidi alle fonti fossili, per venire incontro alle richieste di India e Cina. Ma alla fine, il documento finale è stato approvato. Con questo, i paesi firmatari dell'Accordo di Parigi (cioè tutti i quasi 200 paesi del mondo) si impegnano a tenere il riscaldamento globale sotto 1 grado e mezzo dai livelli pre-industriali. Un passo avanti rispetto al target principale dei 2 gradi dell'Accordo di Parigi. Il documento finale fissa l'obiettivo minimo di decarbonizzazione dei paesi al 2030: un taglio del 45% delle emissioni di CO2 rispetto al 2010. E prevede poi di arrivare a zero emissioni nette intorno alla metà del secolo. Il documento chiede agli stati di aggiornare i loro impegni di decarbonizzazione (Ndc) entro il 2022. Le tre bozze iniziali del documento prevedevano un invito ai paesi ad eliminare al più presto le centrali a carbone e i sussidi alle fonti fossili. Ma su questo punto, nella plenaria del pomeriggio si sono impuntate Cina e India. "Non è compito dell'Onu dare prescrizioni sulle fonti energetiche - ha detto il ministro dell'Ambiente indiano, Bhupender Yadav -. I paesi in via di sviluppo come l'India vogliono avere la loro equa quota di carbon budget e vogliono continuare il loro uso responsabile dei combustibili fossili". Anche la Cina ha sostenuto la posizione indiana, e alla fine il presidente britannico Alok Sharma ha dovuto cedere. "La storia è stata fatta qui a Glasgow", ha detto Sharma, con la voce rotta dal magone, alla plenaria a Glasgow. In precedenza, Sharma aveva trattenuto le lacrime quando aveva detto, accettando l'emendamento sul carbone di Cina e India, "capisco la delusione, ma è vitale proteggere questo pacchetto". "Glasgow è un programma che ci indica cosa dobbiamo fare. Credeteci o meno ma è la prima volta che si nomina il carbone. Siamo più vicini che mai a evitare il caos climatico": questo è "l'inizio di qualcosa. Abbiamo sempre saputo che Glasgow non non era il traguardo", ha detto l'inviato americano per il clima, John Kerry. Boris Johnson saluta l'accordo all'unanimità fra 197 Stati, strappato fra non pochi compromessi, che ha chiuso la conferenza sul clima CoP26 a presidenza britannica di Glasgow come "un grande passo in avanti" in grado di di tenere in vita l'obiettivo di limitare il surriscaldamento terrestre entro il tetto di 1,5 gradi in più dell'era pre industriale. Il premier britannico ammette che resta ancora "un enorme lavoro da fare nei prossimi anni", ma nota come si tratti del primo accordo a sancire un impegno verso "la riduzione" del carbone. E rende omaggio "all'incredibile" sforzo del suo ministro Alok Sharma, presidente della CoP26. La Cop26 è stato un "bla,bla,bla". Così Greta Thunberg, dopo la votazione finale alla conferenza di Glasgow. "Il vero lavoro continua fuori da queste stanze. E non ci arrenderemo mai, mai", ha scritto l'attivista su Twitter. "Manteniamo intatta la nostra ambizione nelle ultime ore della Cop26. È la nostra occasione di scrivere la storia. Ancora di più, è nostro dovere agire ora". E' il messaggio della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. "Abbiamo bisogno di impegni coraggiosi per importanti tagli alle emissioni in questo decennio e verso la neutralità climatica nel 2050", aggiunge. I testi approvati dalla Cop26 sono un "compromesso. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo oggi", ha detto il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, sottolineando che gli accordi sono un passo importante ma la "collettiva volontà politica non è stata abbastanza per superare le profonde contraddizioni".

Trovato accordo al Cop26, ma l’India rallenta sul carbone. Valentina Mericio il 13/11/2021 su Notizie.it.  Al Cop26 di Glasgow è stato raggiunto un accordo sul testo. L'India ha però frenato sull'uso del carbone. Al Cop26 di Glasgow è stata trovata l’intesa sul testo. L’accordo è stato tuttavia frenato dall’India che ha chiesto che venga diminuito l’uso del carbone. È stata cioè accettata la richiesta di sostituire il termine “phase out” (uscita) dal carbone per la produzione energetica con “phase down” (diminuzione). Confermato l’obiettivo degli 1,5 gradi. Nell’annunciare l’accordo raggiunto il presidente della Cop26, Alok Sharma si è visibilmente commosso e, con la voce rotta dal magone, ha dichiarato: “La storia è stata fatta qui, a Glasgow”.

Cop26 accordo, risolto all’ultimo il nodo India

Raggiungere l’intesa con l’India non sarebbe stato affatto facile, tanto che fino all’ultimo minuto, quest’ultima si sarebbe opposta, in una prima battuta, ad abbandonare il carbone.

Dopo un lavoro di mediazione si è arrivati infine all’elaborazione dell’emendamento, con l’India che ha accettato di ridurre l’uso di carbone nel fabbisogno produttivo. In definitiva, si tratta di un accordo che, sebbene sulla buona strada, non avrebbe soddisfatto completamente i leader.

Cop26 accordo, Kerry: “Accordo molto buono con qualche problema”

Se da un lato il Presidente della Cop26 Alok Sharma, ha affermato che si tratta di un accordo tutto sommato equilibrato, dall’altro lato, anche l’inviato statunitense per il clima John Kerry, sentito dall’Associated Press, ha affermato che, in linea di massima, è un accordo molto buono nonostante rilevi qualche criticità: “È un buon accordo per il mondo.

Ha qualche problema, ma tutto sommato è un accordo molto buono”.

Anche da parte del Premier britannico Boris Johnson c’è stata soddisfazione, pur ammettendo che la strada è ancora lunga: “C’è ancora molto da fare nei prossimi anni. Ma l’accordo di oggi è un grande passo avanti e, cosa fondamentale, abbiamo il primo accordo internazionale in assoluto per ridurre gradualmente il carbone e una tabella di marcia per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi.

Spero che guarderemo indietro alla Cop26 di Glasgow come all’inizio della fine del cambiamento climatico, e continuerò a lavorare instancabilmente verso questo obiettivo”.

Attraverso un Tweet ha inoltre ringraziato quanti hanno preso parte al vertice di Glasgow: “Abbiamo chiesto alle nazioni di unirsi per il nostro pianeta a Cop26 e hanno risposto a quella chiamata. Voglio ringraziare i leader, i negoziatori e gli attivisti che hanno reso possibile questo patto e il popolo di Glasgow che li ha accolti a braccia aperte”.

Cop26 accordo, Cingolani: “Non sono soddisfatto, ma compromesso parte del mestiere”

Chi invece, almeno in parte, non sarebbe stato proprio convinto dal risultato, è il Ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani che, sentito da Rainews24, ha dichiarato di non essere stato propriamente soddisfatto per l’accordo raggiunto: “Non è un compromesso annacquato, dovevamo portare a bordo tutto il mondo, più di 195 Paesi, con un accordo che doveva tenere la barra a 1,5 gradi il riscaldamento globale e non a 2: India e Cina hanno posto sostanzialmente un veto, hanno chiesto un alleggerimento di una condizione che, posso garantire, è abbastanza marginale, però questo ci ha consentito di averli a bordo nella Cop che adesso ha sancito le regole di trasparenza e implementazione per quello che faremo nei prossimi anni. Io non sono soddisfattissimo, però mi rendo conto che con queste dimensioni a questi livelli, purtroppo il compromesso è parte del mestiere. Qui non si tratta di tecnica, ma di diplomazia”.

Cop26 accordo, Guterres: “Passo importante, ma non basta”

Anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha scritto, attraverso un Tweet che si tratta certamente di un passo importante, ma ancora non sufficiente: “Il risultato di Cop26 è un compromesso che riflette gli interessi, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi. È un passo importante, ma non basta. È ora di entrare in modalità di emergenza. La battaglia per il clima è la battaglia delle nostre vite e quella battaglia deve essere vinta”.

Il bla, bla, bla e la secessione del futuro. Ezio Mauro su La Repubblica il 14 Novembre 2021. La denuncia fatta da Greta Thunberg è la rottura di un patto. Per la seconda volta in cinquant'anni, contando il '68, la leva dei figli acquista coscienza generazionale e separa la sua vicenda da quella delle madri e dei padri. Allora era una ribellione contro l'autoritarismo: dunque una questione di libertà. Oggi è una protesta contro l'incuria dell'ambiente: quindi un problema di responsabilità. Quando i figli rifiutano la lingua dei padri si rompe il processo naturale del passaggio tra le generazioni. È avvenuto a Glasgow, prima ancora che l'atto finale della Cop26 celebrasse la sua impotenza sotto gli occhi del mondo, spettatore distratto davanti al naufragio del Climate Pact sullo scoglio del carbone. La denuncia del "bla, bla bla" fatta

Cop26, l’ottimismo di Boris Johnson: accordo storico. Ma Sharma accusa Cina e India. Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2021. Clima, le due potenze nel mirino per il no sul carbone. Kerry: mai così vicini a evitare il caos. «Una speranza» da un accordo «storico». Così il premier britannico Boris Johnson ieri ha commentato l’esito della Conferenza sul clima che si è chiusa sabato. Nella conferenza stampa congiunta tenuta assieme al presidente di Cop26 Alok Sharma a Downing Street, Johnson ha sottolineato che il Patto climatico di Glasgow, così è stato ribattezzata la Dichiarazione finale, ha fissato la «road map», la tabella di marcia, per ridurre le emissioni di CO2. «Ora abbiamo gli strumenti per il target di 1,5°» dice. «A Glasgow è suonata la campana a morto per il carbone», aggiunge, anche se «la mia soddisfazione per i progressi fatti è macchiata da una delusione». È la stessa delusione cui ha dato voce, stavolta con più livore, il presidente della Cop26 Sharma: «Cina e India dovranno spiegarsi». Spiegare il perché di quel piccolo cambio di verbo — «phasing down» invece di «phasing out», riduzione al posto di eliminazione del carbone — infilato in extremis dal ministro indiano in un emendamento al Patto climatico. Nel linguaggio dell’Onu ogni parola conta e quel «down» cade come un macigno sulla testa di Sharma (anche se Johnson dice che «per me che parlo inglese non mi pare una gran differenza»). Una caduta che si aggiunge ai deboli risultati raggiunti sul tema dell’adattamento, del cosiddetto Loss and damage (perdite e danni) e sulla finanza climatica (anche su questi punti la bozza del Climate Pact è stata molto annacquata, ma ad opera dei Paesi sviluppati). Il Patto è, in effetti, come un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Invita esplicitamente i governi a tornare l’anno prossimo con piani nazionali più ambiziosi per ridurre le emissioni al 2030, afferma che tutti i Paesi parte dell’Accordo di Parigi dovranno ridurre le emissioni di CO2 del 45% in questo decennio per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia critica di 1,5°C. Ma resta irrisolta la questione cruciale di come dovrà essere diviso o condiviso l’onere di questi tagli. Esorta le nazioni ricche a raddoppiare entro il 2025 i finanziamenti per aiutare quelle più vulnerabili a proteggersi dagli effetti del cambiamento climatico e menziona esplicitamente, un fatto storico, la necessità di accelerare la riduzione dell’uso del carbone e la fine dei sussidi ai combustibili fossili. Lascia, però, la stragrande maggioranza di Paesi in via di sviluppo a corto dei fondi indispensabili per effettuare una «transizione giusta» verso fonti energetiche più pulite e per affrontare gli eventi estremi, già causa di perdite e danni. Ma si sa, questa è la diplomazia. «Noi possiamo fare pressione, possiamo blandire, possiamo incoraggiare, ma non possiamo forzare nazioni sovrane a fare ciò che non desiderano», dice Johnson. «Il peggior risultato sarebbe stato non avere alcun accordo», aveva già commentato la segretaria dell’Unfccc, l’ente Onu per il clima, Espinosa. Ovviamente, anche l’architetto dell’accordo finale, John Kerry, ha espresso ottimismo: «Non siamo mai stati così vicini ad evitare il caos climatico», ha assicurato. Ieri è tornato a parlare anche il Papa. «Il grido dei poveri, unito al grido della Terra, è risuonato nei giorni scorsi — ha detto Francesco all’Angelus —. Incoraggio quanti hanno responsabilità politiche ed economiche ad agire subito con coraggio e lungimiranza». Poco ottimista Greta Thunberg: «2,4°C se tutti i governi rispettassero gli obiettivi del 2030, 2,7°C con le politiche attuali. Questi Ndc (i piani nazionali di taglio alle emissioni, ndr) si basano su numeri errati e sottostimati. E questo è SE i leader manterranno le loro promesse, il che a giudicare dai loro trascorsi non è molto probabile», ha twittato.

Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” il 14 novembre 2021. 

1 Cosa significa il compromesso sul carbone? 

È stato un colpo di scena finale per alcuni inatteso, ma chi conosce bene i negoziati si aspettava qualcosa di simile. I cinesi fino all'ultimo sembravano quelli da convincere per far approvare il testo ma alla fine hanno lasciato uscire allo scoperto l'India che ha puntato i piedi. Anche se annacquato, però, nel Patto di Glasgow per la prima volta c'è un impegno globale ad «intensificare gli sforzi verso la riduzione (e non più eliminazione come nella bozza, ndr) del carbone senza sistemi di cattura (CO2) e la fine dei sussidi ai combustibili fossili inefficienti». 

2 Qual è il risultato migliore di questa COP? 

«È il segnale di accelerazione rispetto ai tagli alle emissioni nel breve periodo: nel 2022 i Paesi devono tornare al tavolo con piani per il 2030 più ambiziosi - spiega l'analista italiano Luca Bergamaschi, cofondatore della think tank ECCO -. Il Patto è un buon testo di compromesso, un consenso di questa portata non era scontato». Concorda anche la direttrice di Oxfam International, Gabriela Bucher: «Il lavoro inizia ora. I grandi emettitori, in particolare i Paesi ricchi, devono ascoltare la chiamata e allineare i loro obiettivi per darci le migliori possibilità di mantenere 1,5° a portata di mano. Nonostante anni di colloqui, le emissioni continuano ad aumentare». 

3 E il risultato peggiore? 

«La COP26 ha mostrato un nuovo livello di riconoscimento politico della necessità di un maggiore sostegno ai Paesi vulnerabili per affrontare gli impatti climatici devastanti. Ma ha lasciato il compito chiave di mettere i soldi sul tavolo alla prossima COP in Egitto - spiega Alex Scott, analista della think tank europea E3G -. Ci sono stati alcuni progressi con la decisione sul raddoppio dei finanziamenti per l'adattamento entro il 2025 e il finanziamento di una rete per aiutare i Paesi a elaborare piani per affrontare perdite e danni. Ma i Paesi sviluppati non hanno accettato di proporre uno strumento di finanziamento per affrontare adeguatamente perdite e danni devastanti». 

4 Qual è stato il ruolo dell'Italia, co-organizzatrice di COP26? 

«L'Italia ha giocato, forse per la prima volta, un vero ruolo di leadership internazionale - assicura Luca Bergamaschi -. Sia prima della COP26, preparando il terreno con il consenso del G20, che a Glasgow. La sfida dell'Italia è ora riuscire a tradurre questa leadership internazionale nell'attuazione domestica e in una posizione ambiziosa sul pacchetto europeo "Fit for 55" dei prossimi 10 anni e sulla tassonomia per definire gli investimenti verdi». 

5 Quanto inquina Cop26? 

Si stima che il vertice abbia generato emissioni equivalenti a circa 102.500 tonnellate di anidride carbonica, secondo una ricerca pubblicata da The Scotsman.

Andrea Marinelli per il “Corriere della Sera” il 14 novembre 2021. Alla fine, secondo Greta Thunberg, non è stato altro che un grande, deludente «bla bla bla». Poche ora prima che gli inviati di quasi 200 Paesi annunciassero il raggiungimento di un accordo, per quanto vago, sulla lotta al cambiamento climatico, la giovane attivista svedese aveva già messo in guardia i suoi 5 milioni di follower su Twitter, ma anche i 100 mila compagni che hanno manifestato insieme a lei a Glasgow e tutti gli altri - i giovani del Fridays for Future e gli adulti - che hanno sostenuto la battaglia a distanza. «Ora che la Cop26 sta volgendo al termine - ha scritto in serata su Twitter la leader delle proteste - fate attenzione allo tsunami di greenwashing e alle giravolte dei media per definire in qualche modo il risultato come "buono", "un progresso", "ottimista" o come "un passo nella giusta direzione"». Non vi fidate, insomma, delle dichiarazioni dei politici e di ciò che leggerete sui media, ha avvertito Greta, che già nei giorni scorsi aveva definito la conferenza sul clima «un fallimento», nient' altro che una campagna di pubbliche relazioni per imprese e politici. «Siamo così lontani da ciò di cui abbiamo bisogno», aveva spiegato a Glasgow, «che potremmo considerare la Cop un successo soltanto se la gente capisse che è stata un fallimento». Mercoledì, insieme ad altri giovani attivisti, la 18enne di Stoccolma ha anche promosso una petizione per chiedere al segretario generale dell'Onu Antonio Guterres di dichiarare formalmente il surriscaldamento globale una «emergenza di livello 3», la più alta delle Nazioni Unite, la stessa usata per la pandemia e che permetterebbe di inviare risorse ai Paesi più a rischio nell'emergenza climatica. «Anche se i leader manterranno le promesse che hanno fatto qua a Glasgow, non basterà a prevenire la distruzione di comunità come la mia», ha confermato l'attivista ugandese Vanessa Nakate, 24 anni. «Al momento, con il riscaldamento a 1,2°, la siccità e le alluvioni stanno uccidendo persone in Uganda. Solo un drastico e immediato taglio delle emissioni ci può dare speranza, ma i leader mondiali hanno fallito. Le persone si stanno però unendo al nostro movimento, e sta montando la pressione». Questa Cop, ha chiarito Luisa Neubauer, 25 anni, della sezione tedesca dei Fridays for Future, «ha fallito nell'introdurre i cambiamenti sistemici di cui avevamo un bisogno disperato. I capi di Stato non hanno raggiunto l'obiettivo, ma il nostro movimento per il clima sta crescendo».

La conferenza sul clima. Cop26 finisce senza grandi scossoni, lo stile di vita conta più dell’apocalisse.  Gioacchino Criaco su Il Riformista il 14 Novembre 2021. Non sono arrivate grandi novità dalla Cop26 di Glasgow sul clima, né molti avevano fatto affidamento su un happening che si ripete come rito, più scaramanzia che provvedimenti reali per far fronte ai cambiamenti climatici. Gli attivisti ambientali mostrano la loro delusione, i leader mondiali cadono uno dopo l’altro ingoiati dall’esercito del bla bla bla coniato da Greta Thunberg. Tra le righe emerge la sostanza sull’idea dei potenti del mondo per porre fine agli stravolgimenti ambientali: chi finora ha fatto man bassa delle risorse del pianeta, i Paesi ricchi, vorrebbero continuarne l’andazzo, e vorrebbero però impedire la partecipazione al banchetto dei Paesi che si affacciano alla ricchezza, più o meno di massa, Russia, Cina e India su tutti. E i nuovi giunti, per quanto non invitati, non hanno nessuna intenzione di sacrificarsi. Continuano a riportare la peggio, e le conseguenze, per l’uso smodato dell’ambiente, i Paesi poveri, i luoghi che proseguiranno ad esserlo. Intanto, in Occidente, volano nella notte sacchi e sacchi che intrecciano traiettorie negli angoli bui, negli spazi ancora liberi da telecamere. C’è una umanità che si destreggia nell’epica della monnezza, di più al Sud, dove è meno organizzata la raccolta dei rifiuti. Trovi buste sotto i cavalcavia, in file ordinate nei marciapiedi periferici: buste, pacchi, lavatrici, divani, televisori. Dentro fabbriche dismesse, case abbandonate. L’uomo moderno cerca luoghi per i suoi lasciti. Che se l’impegno a non produrre rifiuti fosse pari all’impresa di liberarsene, i cumuli sarebbero pochi. Piano piano il paesaggio immondezzato sarà familiare, l’aumento del calore farà parte del fuori. Cartolina senza sturbi. Quelli che la natura l’hanno vista, amata, se ne andranno con gli anni; resterà un’umanità cresciuta insieme all’immondizia, al clima nuovo, senza traumi. Un’umanità per cui i canoni di una bellezza naturale non avranno valore. È la comodità, bellezza, più la provi e più ti piace. Più ne godi e meno troverai ragioni per farne a meno. Farne a meno perché? Perché tutto è meno bello, meno salutare? Chi vive di comodità, d’interni, di uffici, fabbriche, le entrate monetarie le ha spartite in origine fra variegati finanziamenti, il bello non lo cercherà fuori. È la modernità, bellezza. E i discorsi: che il progresso si può coniugare al bello, all’ambiente, alla salute; varranno fin quando sopravvivranno quelli che nella natura ci sono nati, il bello naturale lo hanno visto. Dopo ci sarà l’uomo che è nato nella comodità. Quello sarà un metro unico di giudizio. E non è un futuro apocalittico. L’apocalisse è lo sconvolgimento di chi arrivi da altro. Chi nell’apocalisse trova il proprio conforto, sta in paradiso. Cambieranno scenari, paesaggi, gusti, temperature. E non morirà il mondo, cambierà l’uomo, come è già stato. Sarà un’umanità comoda, senza natura, e senza il rimpianto di una bellezza che non avrà mai visto. Non ci sarà una problematica ambientale, perciò cesseranno le epiche degli sporcaccioni: niente giri notturni e niente lanci strabilianti, che forse nemmeno i sacchi neri ci saranno più. Così, Greta e chi meritoriamente protesta rischiano di incarnare l’ultima ipocrisia dei Paesi ricchi, al pari di Barack Obama che si definisce figlio delle isole, per le sue ascendenze hawaiane; ma non ci sta sopra gli atolli che gli innalzamenti oceanici si stanno già mangiando. I Grandi non decideranno mai di contenersi, come una holding del tabacco che rinunciasse a produrre sigarette. E la rivoluzione vera può arrivare solo a valle, dal basso, fra chi consuma che controcorrente decida di cambiare stile di vita, rinunciare ai consumi, ridurre le comodità. Perché l’ipocrisia dei grandi fa il paio con quella dei loro cittadini, e il bla bla bla non guarda in faccia a nessuno, grandi e piccini.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Monica Perosino per "La Stampa" il 15 novembre 2021. Il nuovo giorno del Patto sul clima di Glasgow inizia sotto un cielo grigio e un persistente senso di sconforto. Tocca al primo ministro britannico Boris Johnson e al presidente della Cop26, Alok Sharma, serrare le fila e tentare di convincere il mondo che sì, la Cop26 è stata una «successo», «un risultato storico, il momento in cui si sono «suonate le campane a morto per l'energia a carbone». Come un mantra Johnson ripete più e più volte che l'obiettivo di limitare a 1,5° l'innalzamento della temperatura «è stato mantenuto». La Cop26, dice, ha messo «il mondo nella giusta direzione» nella lotta ai cambiamenti climatici, a dispetto dei «compromessi necessari per ottenere l'approvazione di 197 Stati». È vero: la partita da oggi si gioca su campo aperto e gli Stati verranno chiamati a sottoporre i propri piani nazionali per ridurre le emissioni ogni anno, anche se sarà la Cop di Sharm-el-Sheik 2022 a raccoglierne i frutti, se mai ce ne saranno. Ma nella sala di Downing Street è l'India il convitato di pietra. Senza nominarla mai, parlando dell'annacquamento dell'ultimo minuto della risoluzione sul carbone («riduzione» e non più «eliminazione»), Johnson pare tentennare, ma poi rivendica: «Possiamo fare pressioni, possiamo blandire, possiamo incoraggiare ma non possiamo costringere le nazioni sovrane a fare ciò che non desiderano». Il riferimento è al clamoroso colpo di scena di sabato sera, quando l'assemblea plenaria era pronta a firmare il Patto di Glasgow e a «relegare il carbone nella Storia», ma ha dovuto cedere al «ricatto» dell'India e modificare, al ribasso, il testo sui combustibili fossili. Da quel momento in avanti il mondo ha avuto il cattivo contro cui puntare il dito. Sono le parole di Alok Sharma ad aprire una finestra su chi sono i cattivi e chi i buoni della storia, quando spiega il degli occhi vicini alle lacrime dopo l'exploit dell'India: «Ho sentito il peso del mondo sulle mie spalle», dice, e «il motivo per cui ho chiesto scusa non è stato perché pensavo che non avessimo avuto un risultato storico, è perché il mondo pensava che la procedura fosse stata opaca». Ecco, la procedura opaca a cui si riferiva Sharma sono stati i negoziati «laterali» portati avanti nell'ombra dalle grandi economie mondiali (i grandi inquinatori) a scapito dei Paesi poveri - e del clima -, che alla fine hanno spedito l'India a fare la parte del «poliziotto cattivo», mentre Cina e Stati Uniti facevano i poliziotti buoni, con Sudafrica e sauditi silenti nelle retrovie. Ben prima dello strappo di sabato sera il compromesso al ribasso era già stato avallato dagli altri due principali inquinatori mondiali, Cina e Stati Uniti, che nel loro accordo bilaterale, avevano sì promesso di potenziare l'azione sul clima, ma «gradualmente», motivo per cui l'India è poi finita sul banco degli imputati. L'ultimo intervento in plenaria della Cina, pochi secondi prima dell'annuncio di New Delhi, ora assume un significato più chiaro: «Urlare slogan potrebbe provocare impatti negativi». Slogan tipo «stop ai combustibili fossili». La nuova intesa con Pechino-Washington, inoltre, conteneva un messaggio chiave, dicono fonti Usa: «Devi ridurre il carbone prima di potere eliminare il carbone». Ma l'opposizione indiana ha avuto diversi altri sponsor, ciascuno con un proprio movente: dall'Iran, alla Russia e l’Australia. Con il passare delle ore, del resto, anche molti osservatori hanno puntato esplicitamente il dito contro i potenti che si sono fatti scudo dell'India. Come Brandon Wu, di Action Aid Usa: «Il problema non è l'India; il problema sono gli Stati Uniti e i Paesi ricchi che si rifiutano di fissare l'uscita dai combustibili fossili nel contesto di un'equità globale». E ce n'è per tutti: anche l'Europa ha qualche peccato, e non di poco conto. Alla Cop il G77+Cina (alcuni Paesi in via di sviluppo più la Cina) aveva proposto la creazione del «Loss and damage facility», un fondo attraverso cui finanziare gli interventi per contenere i danni causati dalla crisi climatica. Sono stati Ue e Usa a opporsi, dopo un accordo sancito a porte chiuse.

Danilo Taino per il "Corriere della Sera" il 15 novembre 2021. Mai sottovalutare l'India durante un negoziato, in una conferenza internazionale, nel pieno di una disputa tra Paesi. L'Italia lo sa per esperienza diretta nella vicenda dei due marò, che per lungo tempo la vide impegnata in un braccio di ferro politico, prima che Roma e Delhi decidessero di ricorrere ai tribunali internazionali. E, in effetti, la conclusione della Cop26 a Glasgow - con la sostituzione del termine «eliminazione» con «riduzione» riferiti all'uso del carbone nella produzione di elettricità - è un classico della diplomazia indiana. Negoziatori estremamente abili: determinati a difendere, senza la remora di perdere reputazione, quelli che ritengono i loro interessi nazionali. Anzi, spesso alla guida di altri Paesi in via di sviluppo che dietro di loro si accodano per bloccare o modificare qualcosa che altri, spesso l'Occidente ma comunque i Paesi più industrializzati, considerano scontato. Il colpo a sorpresa finale, utilizzato non per la prima volta a Glasgow, è questione di contenuti ma anche l'affermazione che l'India è una potenza che non si piega alle pressioni diplomatiche, che alla sua autonomia non intende mai rinunciare. Già una domenica mattina del novembre 2013, i negoziati in corso a Ginevra, nella sede della Wto, fallirono quando pareva che un accordo ci fosse. Si discuteva la prima liberalizzazione degli scambi da quasi un ventennio e all'ultimo minuto Delhi affermò che non si poteva fare. L'ostacolo erano le procedure doganali nel mondo. Altri Paesi - Venezuela, Bolivia, Cuba - si accodarono. A Glasgow si è mosso il governo guidato dal conservatore Narendra Modi ma a Ginevra, otto anni fa, il governo era quello del Congresso dei Gandhi. L'approccio alle questioni internazionali e allo status globale del Paese è bipartisan in India. Un caso spettacolare, anche se poco rilevato in Occidente, di drastica affermazione di autonomia gli indiani lo hanno mostrato nel 2019, sempre in novembre, quando hanno rinunciato, nelle fasi finali dei negoziati, a entrare in uno degli accordi commerciali potenzialmente più rilevanti, la Rcep, formata da 16 Paesi dell'Asia-Pacifico, a cui hanno ora chiesto di aderire il Regno Unito e la Cina. Il timore dei politici indiani era che avrebbe colpito negativamente i contadini, i piccoli commercianti e le imprese meno capaci di sostenere la concorrenza internazionale. Il governo Modi decise, dunque, che una posizione difensiva della propria economia era più importante dell'ingresso in un accordo commerciale che avrebbe aperto la competizione. La posizione indiana nelle relazioni internazionali è guidata da questa forte affermazione della propria autonomia al di là delle questioni commerciali e del clima. Tradizionalmente uno dei leader dei Paesi Non Allineati fin dagli Anni Cinquanta del secolo scorso, il Paese non ha mai voluto aderire a blocchi. In certi momenti più vicino all'Unione Sovietica che agli Stati Uniti non è però mai stato un «alleato» di Mosca. Anche oggi, quando i rapporti con Washington sono enormemente migliorati, Delhi tende a non entrare in alleanze troppo strette e vincolanti. La situazione nell'Indo-Pacifico è in grande cambiamento, l'India sente forte la pressione della Cina ai suoi confini e nei mari, ragione per la quale partecipa al cosiddetto Quad, una collaborazione con Usa, Australia e Giappone sui temi della sicurezza. Questa, però, non è, almeno per ora, un'alleanza strutturata. La gelosia per la propria posizione di grande potenza che non si accoda ad altre rimane uno dei punti cardine della diplomazia e dei governi di Delhi. Il finale della conferenza di Glasgow, nel quale le avversarie India e Cina si sono trovate accomunate, stupisce dunque fino a un certo punto. Due grandi potenze emergenti, tra loro in contrasto serio per ragioni di confine e per realtà geopolitiche, ma unite, di fronte alla questione climatica, dalla volontà di sostenere le ragioni dei Paesi a industrializzazione recente. E allo stesso tempo determinate ad affermare la loro forza politico-diplomatica. Accordi globali su temi come il riscaldamento del pianeta non si raggiungono senza la Cina. Oggi sappiamo che non si raggiungono nemmeno senza l'India.  

Fine dell'utopia, vince il realismo. Solo così si potrà salvare il clima. Pier Luigi del Viscovo il 15 Novembre 2021 su Il Giornale. Alla fine, pure le lacrime. Sicuramente una rottura emotiva per la tensione e la fatica delle ultime 48 ore, quando per ottenere le firme importanti la Cop26 è durata un giorno in più. Alla fine, pure le lacrime. Sicuramente una rottura emotiva per la tensione e la fatica delle ultime 48 ore, quando per ottenere le firme importanti la Cop26 è durata un giorno in più. Ma se l'interpretiamo come la frustrazione di uno show che doveva andare in un modo e invece si è schiantato sulla realtà, allora proprio quelle lacrime potrebbero essere il simbolo del principale risultato positivo, il discrimine tra ciò che è stata questa conferenza per 26 anni e ciò che sarà d'ora in avanti. Un quarto di secolo sprecato a litigare se fissare l'asticella a 1,5 o 2 gradi, mentre le emissioni quasi raddoppiavano. Nel 1995, prima edizione, 5,7 miliardi di esseri umani producevano 23 miliardi di tonnellate di CO2. Lo scorso anno 7,8 miliardi di abitanti ne hanno prodotto 38. L'umanità è aumentata di un terzo e le emissioni di due terzi. Vuol dire che la CO2 aggiuntiva è riconducibile solo in parte al maggior numero di persone, anche perché le popolazioni che allungano la vita e fanno più figli sono quelle che emettono meno CO2 pro-capite. Vuol dire che mentre i cittadini occidentali riducevano le emissioni, i poveri del mondo le aumentavano per avere una vita dignitosa. 25 anni di conferenze per dare sfogo ai sensi di colpa dei popoli ricchi, cullando l'illusione che potessimo tutti salire sull'arca di Noè e salvare il pianeta. Il risultato è stato Greta: in piazza, nella finanza e nel marketing delle imprese, leste a cavalcare l'onda. Poi a Glasgow i fatti hanno sfondato i cancelli e sono entrati nella conferenza, con Sharma in lacrime sul palco. All'inizio è stata l'assenza della Cina che ha attirato più riflettori che se fosse andata, dicendo anche ai più distratti che un quarto delle emissioni sono sue e che intende proseguire col carbone. Oggi giornalisti e commentatori ammettono, non senza infastidito disappunto, che il Dragone pesa molto più del Suv del vicino. Non è un grande risultato, questo? Alla fine l'India, che ha offerto la sua firma in cambio di una diminuzione (phase down) invece di uno stop (phase out) al carbone. Il cui vero significato è: dopo la Cina ci siamo noi e non siamo gli ultimi. Perfino in Europa, le associazioni industriali francese, italiana e tedesca hanno alzato la voce in difesa del settore automobilistico dagli attacchi della Commissione, dopo anni di colpevole silenzio: una coincidenza o hanno fiutato il vento di Glasgow? La realtà ha fatto irruzione alla Cop26 affermando che la lotta al clima è una cosa seria e richiede un approccio serio, altrimenti si peggiora la situazione. Esempio ne sia l'energia che costa molto di più di un anno fa in tutte le regioni del mondo. Bolletta più cara significa maggior ricorso al carbone e comunque meno crescita, ossia meno persone che escono dalla povertà. Sì, perché dietro i consumi, che noi ricchi satolli vorremmo bucolicamente abbandonare, ci sono lavoratori che sfamano la famiglia. Il maggior costo è riconducibile anche al calo decennale degli investimenti nelle fonti tradizionali da parte delle società energetiche. Succede quando l'industria è pilotata dalla finanza, che a sua volta risponde alle mode della piazza. La lezione di Glasgow è di avere maggior rispetto per gli altri, cominciando a capire cosa significherebbe per loro «decarbonizzazione». Allora forse capiremmo cosa significa pure per noi e soprattutto chi tra noi ne pagherebbe il conto. Onestamente, nessuno sa se riusciremo a frenare il riscaldamento, ma nel caso sarà malgrado non grazie a Greta. Pier Luigi del Viscovo

La "Battaglia" dell'emergenza climatica. Nicola Porro il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Visto che oggi aprono i lavori della 26ma Conferenza delle Parti (Cop26), dove il mondo si riunisce col proposito di trovare un accordo per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica per governare quella che chiamano emergenza climatica, ci sembra appropriato segnalare la nuova fatica di Franco Battaglia, professore di Chimica fisica all'Università di Modena: Non esiste alcuna emergenza climatica (21mo Secolo Editore) è un agile libretto (con due petizioni introduttive) che smonta la narrazione che è raccontata all'universo mondo da oltre venti anni. Le petizioni sono sottoscritte da circa mille accademici del settore delle scienze geologiche, geofisiche e fisiche. Il primo firmatario è Ivar Giaver, premio Nobel per la fisica; tra i firmatari italiani ricordiamo solo il nome dei promotori: Uberto Crescenti (ex Rettore e fondatore della Società di Geologia applicata), Mario Giaccio (ex Preside della Facoltà di Economia all'università di Chieti-Pescara), Giuliano Panza (geofisico e accademico dei Lincei), Renato Ricci (già Presidente delle Società di fisica italiana ed europea), Franco Prodi, Antonino Zichichi, Nicola Scafetta. Questo per dire che il consenso scientifico sulla crisi climatica è solo una bufala come tante. Con disarmante semplicità, anche grazie all'aiuto di molti grafici, Battaglia spiega le molte ragioni scientifiche della insussistenza della congettura secondo cui staremmo vivendo una crisi climatica. E, numeri alla mano, chiarisce perché nessuna riduzione delle emissioni è possibile, come di fatto nessuna riduzione è occorsa e, nonostante i numerosi impegni, le emissioni sono aumentate senza alcuna sosta. E, infine, perché anche la Cop26 sarà destinata a fallire. Tra le altre cose, Battaglia osserva che i modelli climatici che quest'anno sono stati premiati col premio Nobel per la fisica sono errati. Nella edizione italiana del suo libro uscita poche settimane prima dell'assegnazione del Nobel egli avverte di un errore (non vi dico quale per non svelarvi l'assassino) che non si sarebbe dovuto commettere nell'interpretare i risultati di quei modelli climatici. Nella edizione inglese disponibile solo su Amazon e uscita pochi giorni dopo l'assegnazione del Nobel Battaglia ha avuto il tempo di aggiungere un post scriptum dove nota come il Comitato che ha assegnato il premio Nobel ha commesso esattamente l'errore che egli aveva avvertito non si sarebbe dovuto commettere. Ha ragione o ha torto, Battaglia? Posso solo dire che in questi venti anni che lo conosco, nessuna delle sue numerose affermazioni fuori dal coro è mai stata sconfessata. Se gli si chiede come fa, la sua risposta è disarmante: basta guardare i fatti senza badare né alle autorevolezze né, men che meno, alle autorità. E se il principe è nudo, lui, incurante di tutti, lo dice.

Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, conduce il programma d'approfondimento "Virus, il contagio delle idee", il venerdì in prima se

Vera Martinella per "Motori - Corriere della Sera" il 28 ottobre 2021. Cosa contribuisce a rendere l'aria che respiriamo peggiore? Fra i tre colpevoli principali, due sono ben noti, ma uno lo conoscono in pochi. Nella poco ambita classifica degli imputati ci sono certamente gli impianti di riscaldamento, soprattutto quelli più vecchi, ad esempio quelle caldaie a gasolio che il comune di Milano ha proibito negli edifici privati da ottobre 2023. E poi, ovviamente, il traffico con le esalazioni che arrivano dai gas di scarico dei milioni di veicoli che si muovono nelle nostre città. Tanto che puntualmente, quando l'aria si fa irrespirabile e tutti i valori-soglia di sicurezza per la nostra salute vengono superati, si ricorre ai blocchi della circolazione per tamponare l'emergenza. C'è però qualcosa che inquina più di una moto Harley-Davidson, più di un'auto a motore Diesel e persino più di un Tir: una sigaretta. Lo hanno dimostrato diversi studi condotti negli ultimi dieci anni dai ricercatori dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano che hanno valutato, con specifiche strumentazioni e attraverso rilevazioni fatte in un box, le esalazioni emesse sia dai diversi mezzi e sia dalla combustione del tabacco. «La sigaretta emette polveri fini e ultrafini superiori ai più grossi motori contribuendo così direttamente all'inquinamento atmosferico delle nostre città - spiega Roberto Boffi, responsabile della Pneumologia e del Centro antifumo dell'Istituto Tumori milanese -. Per eseguire le misurazioni è stato utilizzato un apparecchio portatile la cui tecnologia si basa sul principio della diffrazione laser ed è in grado di esprimere la quantità degli inquinanti PM1, PM2,5 e PM10. Abbiamo condotto diverse sperimentazioni, i cui esiti sono stati tutti pubblicati su riviste scientifiche internazionali, e siamo giunti alla conclusione che tra i vari mezzi di trasporto, nulla emette tanto particolato quanto una sigaretta». Statistiche alla mano, un tabagista emette una quantità di micro-polveri tre volte più elevata di quella immessa nell'aria sia dallo scarico di un'Harley-Davidson. E lo scarto con un'autovettura o con un Tir è persino maggiore: un tabagista che fumi per otto minuti di fila inquina da quattro a sei volte più dell'autotreno e da dieci a quindici volte più di un'auto con motore Diesel Euro3. Se all'inquinamento atmosferico si aggiunge quello ambientale (ogni anno in Italia si stimano 14 miliardi di mozziconi disseminati in strade, prati, spiagge e boschi, con il relativo rischio di incendi) appare evidente che i danni generati dal fumo non sono soltanto a carico della nostra salute. «Sono una trentina le malattie, fra le più diffuse, che hanno come maggiore responsabile il fumo, attivo e passivo - ricorda Boffi -. Ci sono una dozzina di diversi tipi di cancro, malattie respiratorie e cardiovascolari, patologie dentali, delle ossa, della pelle e persino la disfunzione erettile. In tutto, sono oltre 93mila ogni anno in Italia le morti provocate dal tabacco, circa 43mila delle quali per tumore. Più di un quarto dei decessi riguarda persone ancora giovani, fra i 35 ed i 65 anni d'età. Sono tantissime le buone ragioni per smettere e i benefici, tangibili fin da subito, aumentano con il trascorrere dei giorni». 

Quel climate change di 92 milioni di anni fa: la Terra “bruciava”, ma l’uomo non c’era. Peppe Aquaro su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. Dalle navi, dai satelliti, o restando a terra. Ecco i maggiori punti d’osservazione dell’innalzamento della temperatura del nostro Pianeta. Raccolti dagli esperti, ci raccontano che dal 1850 (inizio della seconda Rivoluzione industriale) ad oggi, la temperatura è salita di 1,1 gradi centigradi. Inoltre, ciascuno degli ultimi quattro decenni è stato il più caldo dalla metà del Diciannovesimo secolo ai giorni nostri. Ma tutto questo già lo sapevamo. Però, senza passare per negazionisti del cambiamento climatico, sarebbe interessante provare a capire come e quanto è dovuto tutto questo all’uomo e all’aver creato un’epoca detta dell’Antropocene (la definizione di questa nuova era geologica è dell’inizio del Terzo millennio e la si deve al Nobel olandese, Paul Crutzen). Corsi e ricorsi del cambiamento climatico. La scienza non ha dubbi: la responsabilità è dell’uomo. Ma gli stessi scienziati ricordano uno sconvolgimento del clima avvenuto 92 milioni di anni fa: quando l’uomo non c’era e i coccodrilli vivevano nell’Artico canadese. Temperature massime in aumento anche 120 mila anni fa. In una recentissima inchiesta portata avanti dalla Bbc scopriamo che gli scienziati, muovendosi su prove certe (anelli concentrici degli alberi, i coralli o gli stessi sedimenti lacustri) per un confronto scientifico tra passato e presente, sono riusciti ad affermare che la Terra non sia mai stata così calda per almeno 125.000 anni. Sarà pure poca roba rispetto ai suoi quattro miliardi e mezzo di anni - ultimamente non proprio ben portati -, ma che l’uomo c’entri qualcosa con l’innalzamento delle temperature, è riscontrabile nella prova della Co2. Insomma, se fosse possibile fare un esperimento a ritroso, prenderemmo una superficie di terra dove prima non c’era neppure una fabbrica, e la confronteremmo dopo l’era industriale. Che cosa scopriremmo? Che la pistola fumante della responsabilità umana per il “Climate change” è la Co2, frutto della combustione dei combustibili fossili e dell’abbattimento delle foreste: due modus operandi decisamente umani e comparsi sulla Terra non prima della metà del 1800.

Una sfilata di modelli climatici

Per la serie, siamo scienziati e per questo ci serviamo di calcoli matematici e a volte predittivi. Ed allora, portando sul computer i cosiddetti modelli climatici, si potrebbe affermare che, senza il bombardamento di emissioni industriali di questi ultimi 150 anni, avremmo avuto un Novecento e anni a noi contemporanei decisamente più freschi: il clima della Terra si sarebbe addirittura raffreddato. Invece, sta accadendo che le calotte glaciali della Groenlandia, dell’Artico e dell’Antartico si stanno sciogliendo rapidamente; il numero di disastri legati al clima è aumentato di cinque volte in 50 anni; il livello del mare globale è aumentato di 20 centimetri nell'ultimo secolo e sta continuando ad aumentare; oltre al fatto che, dal 1800, gli oceani sono diventati il 40 per cento più acidi, influenzando la fauna marina.

Quando i dinosauri vivevano felici

E ora, due parole sulla storia, molto antica, antichissima. E che potrebbe diventare un assist perfetto per gli scettici del cambiamento climatico. Ebbene sì, è vero: 92 milioni di anni fa, quando ancora i dinosauri vivevano felici, sarebbe stato impossibile immaginare le due calotte popolari. Perché? Non c’erano. E la Terra era sotto scacco di una “perturbazione” altro che tropicale. A proposito, un Pianeta così caldo avrà sicuramente reso i Tropici “zone morte”, nei quali la vita sarà stata impossibile e molte specie saranno pure morte. Giusto per immaginare la scena: alcuni animali molto simili ai coccodrilli se ne stavano tranquillamente al calduccio nell’attuale Artico canadese. Il livello del mare era di 25 metri. Insomma, la terra e il suo clima hanno da sempre subìto diversi fasi climatiche. Nel caso di 92 milioni di anni fa, dovute ad una particolare oscillazione dell’orbita terrestre rispetto al sole, oppure a violente eruzioni vulcaniche. Ma con buona pace di coloro che considerano una bufala la notizia del cambiamento climatico, sarà meglio ricordare che ormai, la maggior parte degli scienziati concorda sulle cause attuali del cambiamento climatico, forti anche di un rapporto recente dell’Onu (il VI report dell’International Panel on Climate Change, Ipcc) nel quale è scritto molto chiaramente come sia stato l’uomo a fare in modo che gli oceani, la terra e l’atmosfera si surriscaldassero.

“Noi, i ragazzi della Generazione Greta”: chi sono i nuovi attivisti per il clima. Hanno le idee chiare, si impegnano in prima persona, spess sono giovanissimi. Sono di tutte le nazionalità perché la loro è una battaglia comune: «Se non agiamo subito pagheremo noi le decisioni degli adulti». Erika Antonelli su L'Espresso il 25 ottobre 2021. C’è una nuova generazione, cresciuta con il mito di Greta Thunberg e l’acqua nella borraccia. Attenta a non sprecare, impegnata sul fronte dei diritti sociali, intenzionata a proteggere quell’angolo di futuro che «i grandi», siano essi i leader mondiali o gli adulti, hanno bistrattato: l’ambiente. Chiedono ascolto, offrono proposte. Se fosse un’immagine, il conflitto generazionale avrebbe il volto di Greta Thunberg e del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, ritratti insieme a Milano qualche settimana fa. Lei in silenzio. Lui intento a spiegarle qualcosa, con il naso fuori dalla mascherina. Alessandro Bausilio, tredici anni e il volto allegro incorniciato dagli occhiali neri, di stare in silenzio non ha più voglia. Racconta cosa lo ha spinto a impegnarsi in prima persona: «Ogni tanto penso al passato, all’incuria degli adulti. Ma io voglio rimediare. Alcuni temi mi stanno a cuore, ridurre l’inquinamento, favorire la raccolta differenziata». «Cosa fare, però, di pratico?» Incalzato, sciorina idee con lieve accento campano: «Riciclare gli oggetti e la plastica, ridurre l’uso dell’aria condizionata, abbassare le temperature di alcuni elettrodomestici. E poi incentivare l’uso di energie rinnovabili e limitare l’acquisto di cibi che durante la produzione generano grande quantità di gas serra». Anche se la sua regione, la Campania, secondo il report “Italy for climate” elaborato dalla Fondazione dello sviluppo sostenibile è quella con le emissioni di gas serra più basse per abitante. Alessandro, che ama le scienze e da grande vorrebbe fare il neurochirurgo, punzecchiato sui programmi futuri rivela la sua natura di bambino: «Da grande? Non so, mi vedo ancora così. Spero di rimanere invariato». Come gli altri, anche Aurora Ametrano, coetanea di Alessandro, è stata coinvolta nel progetto “Fuori classe”, promosso da Save the children. «Continuerò a interessarmi di ambiente, non smetterò di dar voce ai piccoli seguendo l’esempio di Greta Thunberg che è riuscita a farsi ascoltare dagli adulti», dice. Il fulcro del loro attivismo è qui, nella contrapposizione tra generazioni, che potrebbe diventare risorsa e non rimanere conflitto. «Credo che i grandi prendano decisioni comode per loro, senza pensare che le pagheremo noi», dice. Ha le idee chiare Aurora, che sogna di diventare scrittrice. «Vorrei fare qualcosa per migliorare l’aria che respiriamo. Chiederei ai politici di installare più colonnine per ricaricare le auto elettriche, così da favorirne l’uso e ridurre l’inquinamento». Nella sua città, Napoli, le piacerebbe organizzare delle uscite con le scuole per raccogliere i rifiuti e tenere le strade pulite. Alessandro e Aurora, entrambi in terza media all’Istituto Miraglia-Sogliano, hanno diverse ragioni per preoccuparsi del loro futuro. In base al rapporto pubblicato da Save the children, “Nati in crisi climatica”, il costo del cambiamento climatico grava principalmente sulle spalle delle giovani generazioni. I dati mostrano che i bambini nati oggi sono esposti sette volte in più dei loro nonni alle ondate di calore, mentre il rischio di siccità e inondazioni è quasi triplicato. Il team di ricercatori, coordinato dalla Vrije Universiteit Brussel, ha anche sottolineato la correlazione tra inquinamento e squilibri sociali: l’86 per cento delle emissioni globali di Co2 è responsabilità dei Paesi più ricchi, ma sono i piccoli abitanti di quelli a basso e medio reddito a farne le spese maggiori. Le conseguenze sono devastanti: fame, malnutrizione, morte. Eppure, scrivono gli esperti, una soluzione ci sarebbe, limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi, come sancito dall’Accordo di Parigi. Ma bisogna agire ora, esorta Justina Kasongo, 15 anni, nata in Zambia. È ambasciatrice della lotta al cambiamento climatico, vissuto in prima persona nel suo Paese. «Le persone che abbattono gli alberi pensano sia normale e giustificano la scelta con motivazioni economiche. Invece è una pratica che andrebbe condannata, perché ha causato inondazioni nella mia comunità, colpendo soprattutto i bambini», denuncia. Sembra di sentire l’eco di Vanessa Nakate, la giovane attivista ugandese che ha conquistato il palco milanese della Youth4Climate, la conferenza dei giovani sul clima, settimane fa: «Molti africani hanno perso la vita, altri i loro beni. La siccità e le inondazioni hanno lasciato dolore, agonia, sofferenza, fame e morte». Come Nakate anche Justina è appassionata, stanca ma fiduciosa: «Fatico a trovare le parole, non riesco a piangere. Ma se gli artefici dei danni siamo noi, possiamo essere anche salvatori», scrive in una poesia dedicata al cambiamento climatico. «Le inondazioni allagano le strade, i bambini sono costretti a rimanere a casa e non possono andare a scuola. L’acqua sporca causa malattie, acuite dagli scarsi servizi sanitari», dice. Per questo, «il governo dovrebbe favorire il rimboschimento ed educare la popolazione all’importanza di piantare alberi». Quel verde tanto agognato che ha spinto anche Leo Bezhi, 18 anni, a diventare attivista a Durazzo, in Albania. «Nella mia città mancano parchi, luoghi dove i giovani possano giocare o incontrarsi. Mi impegno in prima linea perché voglio essere il vero cambiamento, altrimenti saremo noi a pagare le conseguenze più drammatiche». Leo dice che i giovani possono essere ambasciatori della consapevolezza, ma sarà poi compito degli adulti introdurre le misure per metterla in pratica. In Italia, intanto, a conclusione della Youth4Climate, il primo ministro Mario Draghi ha incontrato Nakate, Thunberg e Martina Comparelli, attivista e portavoce di Fridays for future Italia. Si è detto d’accordo sulla necessità di agire subito, ma Comparelli frena l’entusiasmo: «È utile aver parlato con lui, però sono le piazze a cambiare le cose». Eppure, anche la sinergia tra politica e giurisprudenza potrebbe farlo. Ne è prova il dibattito sull’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Secondo il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick la tutela costituzionale dell’ambiente è già contenuta nell’articolo 9, «che esprime il principio di salvaguardare il futuro guardando alle esperienze del passato, senza limitarsi a un presentismo in cui profitto, efficienza e velocità rischiano di diventare i valori dominanti dell’esperienza umana». Mentre per il senatore Gianluca Perilli del Movimento 5 Stelle, promotore della proposta di legge per modificare l’articolo nove, serve un passo in più: «La nozione di “paesaggio” non ricomprende del tutto quella di ambiente, è figlia di un altro periodo storico. Inserirlo invece nella Costituzione significherebbe annoverarlo tra i principi fondamentali, aggiungendo l’accenno alla protezione di ecosistemi e biodiversità per le generazioni future». A cui non bastano le promesse ma servono fatti. Perché il domani è nostro, dicono, e il cambiamento climatico corre veloce. Più dei «bla bla bla» e delle conferenze sull’ambiente, la prossima a Glasgow, in Scozia, organizzata dall’Onu. Più delle promesse di quei «grandi», ancora una volta termine ombrello per indicare i leader e gli adulti. E finché avranno la percezione di parlare senza essere ascoltati, si terranno stretto quell’unico momento in cui la voce diventa una, e sola, dunque fortissima: la piazza, dove possono urlare.

Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2021. A volte basta sapere le cose per modificare i comportamenti. Prendiamo lo smartphone, guardiamo uno per uno i pezzi che lo compongono, e poi vediamo dove va a finire dopo soli due anni di vita. Un cellulare, oltre agli 11 g di ferro e 95 di plastica, contiene in media 250 mg di argento, 24 mg di oro, 9 mg di palladio, 9 g di rame e 3,5 g cobalto, 70/80 grammi di materiali più o meno preziosi, tra cui almeno 1 g di terre rare. Rare soprattutto per la loro scarsa concentrazione: in natura sono associate ad altri elementi da cui vanno separati con tecniche costose e invasive come l’uso di acidi, alte temperature o l’insufflazione di gas. Talvolta sono associate a minerali radioattivi, come torio o uranio, e il procedimento di separazione produce radiazioni non trascurabili. Poi vanno purificate, e per una tonnellata servono duecento metri cubi di acqua che, al passaggio, si carica di acidi e metalli pesanti. Per essere smaltiti dovrebbero subire lunghi e costosi trattamenti chimico-fisici che spesso non vengono fatti. Per un solo smartphone serve scavare almeno 30 kg di roccia. E siccome ogni anno vengono venduti circa un miliardo e mezzo di nuovi smartphone in tutto il mondo, stiamo parlando di 45 milioni di tonnellate per estrarre in media 36 tonnellate d’oro, 375 di argento, 13,5 di palladio, 13.500 di rame e 5.250 di cobalto. La cui quasi totalità viene estratta soprattutto in Africa e Cina, spesso senza alcuna regola e quindi con gravi danni per l’ecosistema naturale. A cosa servono questi materiali? Circa il 50% di uno smartphone è costituito da materiale plastico, soprattutto nella scocca dove ci sono anche magnesio e boro per resistere al calore. Il touchscreen deve la sua funzione alla presenza di stagno e indio. Il vetro contiene alluminio e silice. Le tonalità vivide dei colori sono garantite da piccole quantità di terre rare: ittrio, disprosio, europio, praseodimio, gadolinio, lantanio e terbio. Nella batteria ci sono litio, cobalto (o manganese), alluminio, ossigeno e carbonio. Nell’elettronica interna il rame serve per il cablaggio del telefono, insieme a oro e argento che formano i componenti microelettronici. Con il tantalio si realizzano i conduttori e i microcondensatori. Il neodimio e il gadolinio formano le parti magnetiche del microfono e dello speaker, il disprosio, il praseodimio e il terbio permettono la vibrazione dell’apparecchio. Nichel e silicio formano il microprocessore. E per far passare la tensione si usano arsenico, fosforo, antimonio e gallio, usato per altoparlante e microfono. Per effettuare le saldature si usa un miscuglio di argento, rame e stagno.

Quanti smartphone vengono riciclati

Oggi solo il 15% degli smartphone viene riciclato, nonostante sia recuperabile il 96% dei materiali. Il 36% trova un secondo utilizzo nei mercatini dell’usato e il 49% finisce nelle discariche, oppure dimentica to in un cassetto di casa. Il riciclo di un singolo apparecchio evita ogni anno l’emissione di 0,8 kg di CO2 e il risparmio di 1 Kwh di energia, ma si fa pochissimo perché più sono miniaturizzate le apparecchiature più sono complessi e costosi gli impianti in grado di smontare e recuperare. Eppure con le materie plastiche si possono realizzare tubi o guaine, con l’argento gioielli e pomate, il ferro può essere usato nell’industria siderurgica, le terre rare per realizzare altri smartphone, il cobalto per nuove batterie e il rame può finire in asciugacapelli, pezzi di automobili, cavi elettrici. Uno degli elementi più recuperati è l’oro, perché la sua estrazione dai dispositivi elettronici è più remunerativa di quella mineraria: un solo grammo puoi ottenerlo da 36 telefonini, contro la lavorazione di 100 kg di minerale grezzo. In questo caso il riciclo è più conveniente per le condizioni di lavoro in cui viene svolto: nelle zone più povere e degradate del pianeta, utilizzando acidi tossici senza alcuna protezione e smaltendo poi i residui nell’ambiente, alimentando economie senza regole e garantendo profitti a pochi. Se i materiali di tutti gli smartphone venduti nel mondo in un anno (1,5 miliardi) fossero recuperati, il loro valore economico sarebbe di circa 8,4 miliardi di euro. 

Quanto impatta un telefonino

Ogni smartphone ha un’impronta di carbonio è di 17,2 kg CO2 all’anno. Il grosso è dovuto all’estrazione e alla lavorazione dei materiali e alla successiva produzione delle parti, il montaggio pesa 2,7 kg CO2, la distribuzione +1,9, la ricarica del dispositivo +1,9 kg. Se poi ai 17,2 kg si aggiungono le emissioni legate ai servizi di comunicazione (26,4 kg l’anno) si arriva a 43,6 kg. Stiamo parlando di 25,8 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, che diventano 65,4 con i servizi di comunicazione: come 33,7 milioni di automobili. È evidente che le emissioni legate alla ricarica e al traffico generato sono più o meno costanti e legate all’uso che ne viene fatto. A fare la grossa differenza è la sostituzione dell’oggetto: se lo smartphone lo cambiamo ogni tre anni, l’impatto annuale scende a 12,1 kg, che diventano 9,5 kg se lo teniamo quattro anni. E si può fare benissimo visto che oggi una batteria, con una intensità media di utilizzo, sopporta più di 850 cicli completi di carica/scarica prima che scenda al di sotto dell’80%. Se poi acquistiamo un dispositivo rigenerato l’impatto ambientale scende a 8,2 kg. E allora perché lo sostituiamo ogni 21 mesi? La convinzione è che sia vecchio perché sul mercato è arrivato il nuovo modello, complici anche i pacchetti di offerta dei principali gestori di telefonia che, a pochi euro di più, forniscono l’ultimo modello rateizzabile in 24 mesi. Finito il contratto, il giro riprende. Così nel 2020 ne sono stati venduti quasi 1,4 miliardi e oltre 1,5 nel 2021. Fanno 2,9 miliardi che, nel giro di due anni, saranno completamente sostituiti da altri smartphone. Se continuiamo così, il futuro che ci attende è già segnato. E allora perché lo sostituiamo ogni 21 mesi? La convinzione è che sia vecchio perché sul mercato è arrivato il nuovo modello. A tutto questo si aggiunge il fatto che il dispositivo può rompersi, e non è riparabile. Sul mercato è rimasto un solo modello modulare, tutti gli altri sono integrati. Il motivo è che sono più resistenti, ma se devo spendere 200 euro per sostituire il touch rotto, è chiaro che me ne compro uno nuovo con pochi euro dilazionati al mese. Ma anche quelli integrati non sono tutti uguali: più utilizzano collanti, meno sono smontabili. IFixit ha creato nel 2019 una piattaforma online di supporto globale per la riparazione degli smartphone che fornisce istruzioni per la sostituzione di batterie, display e altre parti, nonché punteggi di riparabilità per un numero di modelli. Scegliere i modelli che hanno il punteggio massimo sarebbe già una buona pratica. Per poi sostituirli quando il loro dovere non sono più in grado di farlo.

Emissioni di CO2: l’impatto di internet, cloud e streaming sul riscaldamento globale e come ci ingannano i big del web. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. L’impatto di internet sul riscaldamento globale non è in agenda. Eppure i cloud, ovvero i giganteschi data center dentro ai quali stanno migrando i dati di tutto il mondo, oggi assorbono l’1% della domanda globale di energia (qui la mappa dei data center mondiali). E i consumi si traducono in emissioni. Un solo server produce in un anno da 1 a 5 tonnellate di CO2 equivalente, e ogni gigabyte scambiato su internet emette da 28 a 63 g di CO2 equivalente. Quasi il 20% dell’energia utilizzata da un data center è impiegata nel suo raffreddamento. Da una parte ci aiuta la tecnologia perché l’efficienza energetica raddoppia ogni due anni, dall’altra si stanno sperimentando diverse allocazioni: nel 2015 Microsoft ha inserito 864 server in un cilindro di acciaio riempito di azoto secco e lo ha depositato nel Mare del Nord. Non a caso le società che gestiscono dati cercano luoghi con basse temperature e dove la produzione di elettricità da fonti rinnovabili è più sviluppata. In Islanda, per esempio, hanno trasferito i loro data center Advania, Exit Everywhere Borealis, Verne. Ma un utente, un’azienda o un ente pubblico per sapere quanto impatta il suo servizio deve conoscere due cose: quanto consuma, e da quale fonte si approvvigiona chi gestisce i suoi dati.

Le normative «volontarie»

Queste informazioni Google, Amazon, Apple, Ibm e Microsoft non le danno. Nei loro report di sostenibilità, infatti, non indicano mai l’impatto del singolo servizio. Le normative di riferimento ci sono: la ISO14064-1 e la ISO14067, che certificano in maniera obiettiva l’impronta di carbonio di un’azienda o di un prodotto, però non sono obbligatorie, e i giganti del cloud non le usano. Le emissioni preferiscono «autocertificarsele». Fa eccezione Microsoft per Azure, ma solo per i clienti commerciali; e la piccola italiana Aruba, che dal 2011 usa al 100% energia rinnovabile con certificazione di Garanzia di Origine (GO). Il suo approvvigionamento per il data center proviene dall’acquisto della società idroelettrica Veneta, dalla installazione di parchi fotovoltaici, e utilizzo di geotermico, ma poi non dichiara qual è la sua impronta totale di carbonio. Dunque, un grande ente pubblico, come il comune di Milano, per esempio, come fa a scegliere il fornitore più sostenibile per la gestione dei suoi dati, visto che nessuno produce la certificazione Iso? La strada alternativa è quella di farsi il proprio Data center, acquistando sul mercato energia rinnovabile. 

Quanto inquinano le big tech

Delle big tech la più inquinante è Amazon: nel 2020 ha emesso 54.659.000 di tonnellate di CO2 (però include anche il trasporto pacchi), seguono Samsung con 29 milioni, e Apple con 22 milioni. Tra le multinazionali 100% web la peggiore è Google con 12,5 milioni di tonnellate di CO2. Segue Microsoft con 11,5 milioni, in terza posizione Facebook con 4 milioni. Queste multinazionali hanno più volte promesso di tagliare le emissioni di gas serra per contribuire al contenimento del riscaldamento del pianeta. Cosa stanno facendo in concreto? Qualcosa si muove, ma la parte più corposa riguarda il meccanismo delle compensazioni di carbonio, ovvero l’acquisto sul mercato di certificati negoziabili equivalenti ad una tonnellata di CO2 non emessa, o assorbita grazie ad un progetto di tutela ambientale. Tradotto: investono in parchi fotovoltaici ed eolici, e piantano alberi. Lo ha fatto Microsoft in Madagascar, e Amazon in Brasile. Google dichiara 8 milioni di tonnellate di CO2 compensate negli ultimi cinque anni, Facebook ne ha dichiarate 145.000 nel 2020, Microsoft 1,3 milioni con 26 progetti green sparsi nel mondo. Un meccanismo legale, e ingannevole, perché sembri green, ma non lo sei. La stessa Microsoft dichiara che non sarà green nemmeno in futuro: nel suo ultimo rapporto di sostenibilità ha annunciato la neutralità nel 2030. Guardando i dati vuol dire che fra nove anni, sempre che le promesse siano rispettate, l’azienda di Redmond emetterà ancora 5 milioni di tonnellate di CO2, ma potrà definirsi «neutral» perché lo stesso numero è compensato dall’acquisto di certificati. Se queste multinazionali avessero un minimo senso di responsabilità, visto che fanno giganteschi profitti, dovrebbero destinare una parte degli utili alla realizzazione di fonti rinnovabili e alla riforestazione per restituire al pianeta un po’ di quello che hanno preso, non per poter continuare ad inquinare. 

La spinta della finanza

Una possibilità può arrivare dalla pressione degli investitori istituzionali, come i grandi fondi pensione del Nord Europa, che espellono dal proprio portafoglio i grandi inquinatori. L’associazione dei fondi pensione inglesi, la Pensions and Lifetime Savings Association (Plsa), già un anno fa ha chiesto alle aziende in cui investono il rispetto di alcuni parametri ambientali, una maggior trasparenza sulle emissioni di gas serra e remunerazioni dei manager agganciate al taglio delle emissioni. In caso contrario Plsa invita i fondi pensione a votare contro nelle assemblee delle aziende quotate. Una spinta non banale: la Plsa tutela gli interessi di 20 milioni di risparmiatori e ha investimenti per mille miliardi di sterline. A gennaio 2021 Laurence Fink, il numero uno di BlackRock, la più grande società di investimento nel mondo con 9.500 miliardi di dollari in gestione, ha inviato una lettera agli amministratori delegati delle aziende in cui investe: dovranno dare al mercato un cronoprogramma sulla riduzione di CO2, vistato dal consiglio d’amministrazione e che porti a emissioni zero (non «neutral») nel 2050. Il clima è il rischio di investimento più importante tanto da aver provocato una massiccia riallocazione di capitali: da gennaio a novembre 2020, gli investitori in fondi comuni ed Etf hanno messo 288 miliardi di dollari in asset sostenibili, con un incremento del 96% rispetto al 2019. Il problema è che la «sostenibilità» è spesso più una dichiarazione di intenti che sostanza. 

Come ridurre i consumi

La prima parola chiave è «non sperperare». Quante volte visitiamo un sito, e poi facciamo altro senza chiudere la finestra? Ebbene, quel sito continua a scambiare dati dal server al nostro computer. Non è oneroso progettare i siti in modo che vadano in modalità stamina dopo pochi minuti se non c’è navigazione. Lo fa per esempio il sito italiano di Suzuki, e ha stimato il risparmio: il 20% in meno di quanto consumerebbe il computer a pieno regime. Calcolando i tempi medi di sessione, in un anno il risparmio finale è di 476.000 Watt, pari a 206,2 Kg di CO2. Sembra poca roba, ma se soltanto lo facessero i primi 100 siti italiani per traffico, sarebbero 15.625 tonnellate di CO2 in meno, come far sparire circa 5.000 auto. 

Come calcolare le emissioni di Netflix

La seconda parola è «consapevolezza»: se non so quanto consumo, non so quanto inquino. Prendiamo quello generato dal traffico dati della visione di film o serie tv in streaming. Per la parte Netflix c’è modo di calcolarlo. Bisogna accedere al sito Just watch calcolatore streaming, scaricare la propria cronologia di Netflix e seguire le istruzioni. Risultato: Clotilde, 14 anni, in un anno e mezzo ha visto in streaming 952 episodi di serie tv o film, che hanno emesso 321 kg di CO2, equivalente a 299 cicli di lavatrice a 60° e 2145 km in automobile. Piermatteo, 30 anni, iscritto da 4 anni, 1840, pari a 621 kg di Co2. Per compensare queste emissioni bisogna piantare 13.534 alberi. I giovani, che sono molto sensibili ai temi ambientali, sono i maggiori navigatori e consumatori di streaming. Nello spot «Climate pledge» i giovani di tutto il mondo elencano le grandi emergenze, e supplicano di agire ora. Saranno presenti con una delegazione il 31 ottobre a Glasgow per portare il loro contributo di idee alla 26esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Sarebbe utile un appello alla responsabilità mettendo sul tavolo anche il consumo compulsivo che proprio loro fanno di internet.

Torniamo alla Natura (e non al naturalismo) con l'aiuto dei poeti. Francesco Giubilei il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. Davide Rondoni rilegge i classici per riflettere sul rapporto uomo-ambiente (senza ideologie). Sono le sfumature a fare la differenza tra parole e concetti che sembrano tra loro simili ma che in realtà nascondono profonde diversità; tanto sentiamo parlare di ambiente quanto poco di natura, spesso ci si riferisce all'ambientalismo quasi mai dell'ecologismo. Si perde così il senso del sacro e del mistero legato al mondo naturale e si dimentica il ruolo dell'uomo nel pianeta a partire dalle società tradizionali in cui il legame tra uomo e natura era inscindibile. Un rapporto non solo fisico ma anche spirituale, religioso e culturale come ci ricorda il poeta romagnolo Davide Rondoni nel suo nuovo libro Cos'è la natura? Chiedetelo ai poeti (Fazi): una lettura necessaria per rinsaldare il legame millenario tra poesia e natura che rischia di perdersi in una società come quella contemporanea caratterizzata da un ambientalismo ideologizzato che dimentica la nostra identità e le tradizioni nell'illusione che si possa immaginare una tutela del pianeta da una prospettiva solo globale e non locale, tralasciando le esigenze dell'uomo. Davide Rondoni compie un viaggio geografico e temporale alla scoperta della natura accompagnato dalle parole dei poeti, dall'alba dei tempi e dal mito del serpente di Gilgamesh, il re sumero eroe degli antichi poemi, fino ai nostri giorni. C'è uno speciale rapporto di simbiosi tra la natura e la letteratura, non a caso Lev Tolstoj ha l'ispirazione per scrivere Anna Karenina nell'inverno del 1870 osservando fuori dalla finestra il paesaggio innevato. I poeti sono consapevoli delle parole di Eraclito: «La natura ama nascondersi», «infatti, per così dire, la inseguono. Scrivendo poesie e romanzi, così come altri la inseguono con formule matematiche e microscopi elettronici, acceleratori di particelle e telescopi spaziali». Un inseguimento che testimonia il rapporto tra l'uomo e la Natura (con la maiuscola come scritto da Giacomo Leopardi) raccontato dal poeta di Recanati che, alzando gli occhi al cielo, vede «sciami di stelle» sentendosi «piccolissimo ma anche grandissimo». Rondoni ci invita a tornare ai versi di Leopardi «in un'epoca di programmi ambiziosi, di nuove ideologie naturaliste e tecnologiche, di nuove edizioni di presunte magnifiche sorti e progressive». Il rapporto uomo e natura è testimoniato anche da alcune figuri ricorrenti nella poesia del Novecento italiano, dal «senso dell'andare dei pastori» descritto da Gabriele d'Annunzio nell'Alcyone fino alla «saggezza atavica del contadino che riporta tutto a terra facendo di lui l'interprete di un sapere primario» di Giovanni Pascoli ne I canti di Castelvecchio, passando per i versi di John Keats. Ma è G.G. Simpson, non un poeta ma un paleontologo, a descrivere nel 1951 al meglio un certo ambientalismo ideologizzato oggi molto in voga: «Sembra quasi che l'uomo debba scusarsi di essere un uomo e di pensare, come se si trattasse di un peccato originale, o che un punto antropocentrico nella scienza o in altri campi del sapere sia automaticamente falso». L'opposto della visione cristiana di cui è intrisa il libro di Rondoni e che, riprendendo quanto scritto nella Bibbia, considera l'uomo parte di un più grande insieme con la natura che è il Creato. Non a caso il pensiero di Dante è permeato da questo approccio in cui «la natura non è mai divinizzata, le cause prime del vivente stanno in Dio non nella Natura che è essa stessa generata e che merita il rispetto e il timore da parte dell'uomo viandante. L'uomo religioso difficilmente idolatra la natura». Un'idolatria che dimentica l'aspetto misterioso e selvaggio della natura poiché essa «non è solo un bel paesaggio da conservare o energia pulita o tisane diuretiche. Accanto al proliferare di cuccioli di gatto tenerissimi che vediamo su Instagram, ci sono virus, cataclismi, flagelli che falciano miriadi di innocenti». Il libro di Rondoni testimonia che è possibile un altro approccio al tema ambientale alternativo all'ideologia «naturalista» dominante in questi anni e che «non fa rima con una visione più poetica della vita ma con l'economia» trovando nel business «il suo primo campo di applicazione». Una nuova ideologia che «vede il pianeta come una specie di dio che però dipende da noi. Il nuovo dio è una ideologia facile (chi vuole mai che il pianeta muoia?) così da marchiare subito gli avversari della narrazione dominante come personalità pericolose». Quali sono le sue caratteristiche? Chiedetelo ai poeti che parlano di natura, amore e bellezza.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del c

Immaginarsi domani. Perché la generazione di attivisti di Greta Thunberg è tutt’altro che sprovveduta. Enrico Pitzianti il 2 Ottobre 2021 su L'Inkiesta.it. Spesso oggi che protesta per il clima è tacciato di idealismo o di ingenua astrattezza. Ma le cose non stanno così, e per accorgersene basta partire da una banale constatazione: il cambiamento climatico è un’ingiustizia anzitutto per i più giovani. Il motivo per cui sono i giovani a essere più preoccupati per la crisi climatica è – se volessimo trovare una sintesi cruda ma efficace – che saranno loro in prima persona a subirne le conseguenze. È una questione di tempi e di aspettative di vita: visto che i cambiamenti climatici hanno conseguenze che si misurano in decenni, chi oggi ha settanta o ottant’anni ha poche possibilità di vivere abbastanza a lungo da vedere coi propri occhi i danni causati dal riscaldamento globale. Al contrario chi oggi ha quindici, venti o trent’anni, dovrà sicuramente averci a che fare. Le conseguenze del cambiamento climatico non sono soltanto ambientali. Un clima che cambia così rapidamente causa inondazioni, siccità ed eventi atmosferici estremi, ma di conseguenza anche migrazioni, carestie, instabilità politica e danni economici. Anche queste conseguenze non-ambientali ricadranno sui più giovani. Un esempio su tutti: la disoccupazione, come sappiamo, non è una piaga che affligge le persone in età pensionabile, ma chi un’occupazione la cerca e, soprattutto, chi entra per la prima volta nel mercato del lavoro: quindi proprio i più giovani. Insomma, quando parliamo di crisi climatica ci riferiamo anche a una questione di “giustizia intergenerazionale”. Chiedere che ci sia una “giustizia” tra le diverse generazioni non riguarda solo il chi subirà le conseguenze del cambiamento climatico, ma anche l’assunzione di responsabilità di chi ha contribuito a causarlo, questo cambiamento. Evidentemente parliamo di nuovo dei più anziani, visto che la responsabilità delle scelte industriali e politiche prese oggi e in passato non può essere di adolescenti e giovani, che non hanno mai ricoperto incarichi né votato o espresso preferenze. Quelle scelte, che hanno causato quel preciso inquinamento, sono state prese su mandato di un elettorato, soprattutto quello che oggi ha un”età più avanzata. Per questo la grande preoccupazione dei più giovani per il cambiamento climatico non è solo altruista, ma è anche egoista: è una preoccupazione per sé stessi, oltre che per gli altri. E di conseguenza non dimostra solo un generico senso civico dei giovani e giovanissimi, ma anche una serie di richieste molto concrete che riguardano la loro vita e il loro futuro. In questo senso chi oggi protesta per il clima tocca un tema concreto e pregno di conseguenze. Tanto quanto lo è, per esempio, quello del lavoro, cioè un tema su cui si protesta da secoli, e che nessuno si sogna di tacciare di idealismo o di ingenua astrattezza. La giustizia intergenerazionale, peraltro, non riguarda solamente il cambiamento climatico, ma tutte le decisioni politiche ed economiche con effetti a lungo termine. Che conseguenze hanno le attuali politiche demografiche? A cosa porteranno, tra qualche decennio, le decisioni prese oggi sul fare debito, sul rifinanziare Alitalia, sul decidere per quota 100, sulla viabilità o gli investimenti fatti sulla sanità? Sono domande che troppo spesso noi elettori non ci poniamo, e che di conseguenza non diventano i temi attorno a cui si fanno le campagne elettorali e, poi, i governi. Se, anche grazie alle proteste per la crisi climatica, riuscissimo finalmente a guardare al futuro e non solo al presente, e a usare una prospettiva di lungo corso nel prendere decisioni, il problema della giustizia intergenerazionale sarebbe risolto. E a ben vedere potremmo sperare di risolvere anche quello del populismo, visto che pretenderemmo da candidati e dirigenti progetti credibili e pianificazioni realistiche, rispedendo al mittente bufale, soluzioni semplicistiche e vane promesse da arringapopoli.

Vorrei essere un gretino. Davide Bartoccini il 2 Ottobre 2021 su Il Giornale. A volte mi addormento e vorrei essere un gretino. Poi mi sveglio e penso a George Carlin e al suo monologo intitolato Il Pianeta sta bene. A volte prima di assopirmi alla sera, penso che vorrei essere un gretino. Non tanto per avere una ventina di anni in meno, non avere una responsabilità che fosse una nella vita, e poter "bigiare" la scuola con una buona scusa al venerdì. Andarmene a spasso in centro ripetendo come una litania slogan pieni d'invettive al vento, e passare per profondo agli occhi del più carino o della più carina della classe come un tipo socialmente impegnato - ai tempi miei i politicizzati acerbi e supponenti facevano così, e ogni tanto rimorchiavano con questa scusa dell'impegno civile. Qualcuno è addirittura diventato rappresentante d'istituto il quinto anno. Qualcuna consigliera comunale in qualche lista civica vicina al Pd. Vorrei essere un gretino per avere la libertà, il tempo e il coraggio di dormire in mezzo a Piazza Affari sotto una tenda Quechua fatta di 100% in poliestere, derivato dal petrolio, di quelle che le lanci e si aprono in due secondi ma poi ci vogliono tre ore per richiuderle. Bighellonarci intorno alla sera con la mia bella tisana di erbe rare, impiantate contro natura chissà dove per coltivarne nella quantità necessaria al fabbisogno mondiale del trend. Vorrei essere un gretino per poter far colazione il giorno dopo con il mio toast all'avocado fresco. Comodamente importato dal Messico, su enormi navi cargo che tutto considerato vengono ancora propulse da vecchi motori diesel intasati di nafta. Vorrei essere un gretino per indossare il mio bel pile da radical-freak, altro derivato del petrolio, e smetterla di indossare quei vecchi abiti borghesi in lana e cotone che mi ricordano tanto mio padre. Il più delle volte, per assioma, uno che non capisce niente della mia rivoluzione. Anzi, mi ha già rubato il futuro comprando una Mercedes che non si sposta con la forza del pensiero, non ha la scocca in resina di pino, neanche vola. E mi ci ha sempre accompagnato a scuola la mattina inquinando il pianeta per farmi studiare quando i bambini in Africa camminano anche trenta chilometri nel fango per imparare un poco di inglese - lingua dei colonizzatori imperialisti. Oppure ormai un poco di cinese - lingua di.. vabe' sorvoliamo. Vorrei essere un gretino, per sorvolare temi di geopolitica e competizione globale a livello industriale e commerciale per ottenere la supremazia nel mondo sovrappopolato e in tensioni da guerra fredda nell'era post-nucleare. Ignorare che solo uno scontro tra India e Pakistan (entrambe potenze nucleri) potrebbe rispedirci all'età della pietra. Per andarmene tranquillo in giro per Milano, vestito con la tuta da imbianchino con un ritaglio di cartone in mano, dicendo che "Bisogna salvare il pianeta perché è l'unico con la fic*". Senza tenere conto, per un istante, del sessismo e del paradosso di Fermi che suppone la reale esistenza di vite aliene. Vorremo mica dire che esistono solo alieni e non aliene? Non scherziamo. Vorrei essere un gretino per prendere il primo volo low-cost, dato che se vengo dalla Svezia o anche solo da Patrasso, a Milano non posso arrivarci in tre mesi su una barca a vela eco-friendly insieme a quel bontempone fascinoso di Pierre Casiraghi - principe di uno Stato che tutela le finanze di migliaia di conglomerate con introiti provenienti da ogni genere di commercio, sia green fiendly o meno. Né con una barca fatta di bottiglie di plastica che se non c'è vento va a remi. Ci metterei troppo tempo, salterei un intero trimestre a scuola. E come ricorda il filosofo Cacciari, prima di fare la rivoluzione bisogna studiare, e conoscerle, le rivoluzioni. Le quattro rivoluzioni industriali, per esempio. Vorrei essere un gretino per indossare con orgoglio le mie scarpe made in Vietnam, cucite da bambini; per postare fotografie con il mio smartphone ultimo modello con batterie di litio, cavato fuori da bambini minorenni in qualche remota landa dell'Africa ricolonizzata dalla Cina. Ma senza saperlo. Perché essendo un giovane gretino, non sono tenuto a sapere tutto, a comprendere tutto: solo l'indispensabile, ossia che "blablabla ci stanno rubando il futuro" e il momento di agire è "adesso". Poi farmi apostrofare da uno come il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, o un adulto con i piedi per terra qualsiasi che senza malizia (non la barca di Casiraghi, ndr) mi spiega che "oltre a protestare" andrebbero proposte delle idee concrete che non siano spostarsi a dorso di mulo come facevano i pastori sardi due secoli fa. Avrebbero da ridirne gli animalisti. Vorrei essere un gretino insomma. Ma un gretino serio. Uno che al fantomatico j'accuse lanciato a noi giovani ambientalisti radical-chic da un non meglio identificato giornalista di SkyNews Australia, saprebbe rispondergli per le rime. “Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula; le vostre lezioni sono tutte fatte al computer; avete un televisore in ogni stanza; passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici; invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche; siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere ‘trendy’; la vostra protesta è pubblicizzata con mezzi digitali e elettronici..". Ecco vorrei rispondergli fiero, con i piedi ben piantati nelle mie Birkenstock: "Mio caro signore..". Poi mi fermerei. Anzi mi sveglierei da questo incubo. E mi ricorderei che c'è un vecchio monologo comico di un ahimè trapassato genio, George Carlin, intitolato "Il Pianeta sta bene". Un evergreen. Quando mi sveglio pensando che vorrei essere un gretino, lo riguardo e capisco tutto. Se al venerdì, quando vi svegliate, rischiate di correre il mio stesso rischio, ve lo consiglio. Perché è lì dentro la risposta. 

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo s

Quei gretini in piazza senza sapere perché. Samuele Finetti e Serena Pizzi l'1 Ottobre 2021 su Il Giornale. Slogan, frasi sconnesse e muri imbrattati. Gli ambientalisti del futuro scendono in piazza. "Perché abbiamo imbrattato la Borsa con impronte rosse delle nostre mani? Non lo so, abbiamo visto altri che lo facevano e li abbiamo imitati". Così risponde una giovane liceale, una delle migliaia scesi in piazza a Milano per l'ennesima edizione degli scioperi dei Fridays for Future. Questa volta, però, è diverso perché a guidare la fiumana che blocca le strade c'è Greta Thunberg, la madrina ambientalista per eccellenza. Ma l’impressione è che la lezioncina non sia stata imparata a dovere dai suoi “discepoli”. Viene dunque naturale domandarsi se sappiano qualcosa di più di ciò che hanno letto su internet o visto nella serie che Netflix ha dedicato all'attivista svedese. Quindi chiediamo. Ci basta infilarci tra i manifestanti per qualche minuto e fare un paio di domande per scoprire quanto poco informati siano questi giovani difensori del pianeta. Paiono più preoccupati di ballare sulle note di "Bella Ciao", come ha fatto la stessa Greta in testa al corteo, o di "50 special" nelle retrovie. Di agitare cartelli scritti con ironia, quando non sfociano direttamente nella volgarità, mentre dal megafono una voce si scaglia contro l'Eni. Altri definiscono Unicredit "una banca armata" che "si arricchisce con armi e petrolio". Cosa avranno voluto dire? Una confusa nebulosa di idee, in cui si infilano pure gli slogan No Tav. Compaiono anche dei volantini a favore del referendum sulla cannabis. Tutto fa brodo. Forse, al posto delle piazze, molti di questi piccoli ambientalisti avrebbero fatto meglio a occupare le aule di scuola. Aule che hanno invece disertato per accodarsi a Greta Thunberg e Vanessa Nakate. Nakate, 24enne ugandese, è una sorta di "nuova Greta". Il lettore che non l''ha mai sentita nominare non si preoccupi: è in buona compagnia. Neppure i ragazzi che le andavano dietro avevano idea di chi fosse. Dialogo testuale. Domanda: "Perché vi ispirano Greta e Vanessa?", risposta: "Chi è Vanessa?". E menomale che questi sono gli stessi ragazzi che dovrebbero cambiare il futuro e salvare il pianeta. Di molti di loro si potrebbe dire che hanno capacità (e volontà, quella non manca), ma non si applicano. Anche gli animatori di questi venerdì per l'ambiente, insomma, cadono qualche volta nel "bla bla bla" come quei governanti che accusano di accidia. Con la differenza che, come ha ricordato Mario Draghi, "il nostro bla bla bla serve a convincere le persone che l'azione è necessaria". E se tutto questo non fosse sufficiente, basta alzare lo sguardo. Sulla scalinata di piazza Affari, all'ombra dell'emblematico medio di Cattelan, due dozzine di manifestanti in tuta bianca hanno piazzato tende e sacchi a pelo per "sfidare" le multinazionali. Sopra le loro teste pende uno striscione: "O la Borsa o la vita". La protesta è, nei loro intenti, un modo per "bloccare con i propri corpi" gli scambi commerciali e fermare - dicono - il consumo di combustibili fossili. Agitano bandiere, urlano. Quando sloggiano, a dargli il cambio arriva un gruppo di liceali che alla retorica della parola sostituisce la forza simbolica del gesto. I palmi rossi di vernice, lasciano le impronte sul marmo della facciata di Palazzo Mezzanotte. Non si capisce di chi sia la “bella” idea, sta di fatto che gli imitatori non mancano. Anche se nel giro di pochi secondi ammettono: "Forse non lo rifarei". Puro spirito emulativo, ingrediente fondamentale di ogni ribellione. La giustificazione è semplice: "Si può essere maleducati quando si tratta di una buona causa". Del resto, amava dire uno che dell'argomento se ne intendeva, "la rivoluzione non è un pranzo di gala". Ieri era il libretto rosso, ora sono le mani rosse. Per fortuna la violenza oggi è fatta solo al senso estetico.

Samuele Finetti. Nato in Brianza nel 1995. Due grandi passioni: la Storia, specie quella dell’Italia contemporanea,che ho coltivato all’Università Statale di Milano, dove mi sono laureato con una tesi sulla strage dipiazza Fontana. E poi il giornalismo, con una frase sempre in mente: «Voglio poter fare, soltanto,una cronaca di fatti e di parole veri». Ostinatamente prezzoliniano 

Serena Pizzi. Sono nata e cresciuta a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone. Del resto

Greta canta “Bella ciao” in piazza a Milano: pugni chiusi e vecchi slogan al corteo per l’ambiente. Bianca Conte venerdì 1 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Greta Thunberg, la fondatrice svedese del movimento Friday for future, balla e batte le mani sulle note di “Bella ciao” in piazzale Cadorna a Milano. Un copione studiato ad arte. recitato a soggetto. E replicato all’ennesima occasione utile: l’attivista si trova alla testa del corteo per il clima, che è partito stamane da Largo Cairoli a Milano. Alla guida di manifestanti che, al loro interno, assemblano di tutto un po’: diverse appartenenze politiche. Sigle ecologiste. E i tanti qualunquisti della politica che hanno deciso di puntare tutto sull’ambientalismo. Un tema spesso cavalcato da diverse angolazioni, tra sviluppo sostenibile e sos contro il cambiamento climatico. Una variegata fattispecie sociologica che amalgama in una sorta di magma indistinto mondi geograficamente e politicamente diversi e lontani. Ma che, oltre al clima, ha un inno di riferimento a fare da denominatore comune da rilanciare come simbolo unitario: Bella ciao. E allora, proprio il celebre brano che ha fatto capolino persino su Netflix, grazie alla serie spagnola de La casa di carta che lo ha sdoganato anche in tv. E che la sinistra ideologica e militante, rilancia a ogni piè sospinto: dal 25 aprile in poi, passando per le iniziative per l’ambiente, ogni giorno è buono per solennizzare la liturgia della resistenza. Un brano che, oggi per l’ennesima volta, unisce in unico coro i manifestanti presenti a Milano per il corteo Fridays 4 Future, in marcia con direzione Piazzale Damiano Chiesa, dove era in scaletta che Greta prendesse la parola. Lei, l’ecologista nord-europea votata alla causa ambientalista. Portabandiera del modello green eco-sostenibile formato terzo millennio. E adesso pure aedo del canto di una sinistra di lotta e di governo, che ormai da tempo ha perso il proprio orizzonte di valori. Un mondo di riferimenti che adesso tenta disperatamente di recuperare inneggiando a stantii slogan vetero-comunisti. E, soprattutto, attraverso la strumentalizzazione delle note di Bella ciao. Che, non a caso, nostalgici e nuove leve progressiste hanno addirittura proposto di istituzionalizzare. Una politica figlia del disorientamento. Della disperazione e di quel pizzico di opportunismo mediatico che non può mancare. E così, quando proprio non si può o non si riesce a declinare altrimenti il proprio senso di appartenenza, cantare Bella ciao diventa un momento di unificazione contro il divisionismo partitico. Un tentativo di aggrapparsi a un gancio per fare presa su un elettorato spacchettato su più fronti. Tanto per dare una sorta di alchemica mistura valoriale nel blob indistinto e frazionato in mille rivoli della sinistra degli ultimi trent’anni. Perché oggi dire “Noi siamo quelli di Bella ciao”, azzera le linee di confine e rende lecita l’appropriazione indebita di simboli e valori sempreverdi, anche se finiti in soffitta. Se non addirittura spariti dalle agende parlamentari di sinistra, salvo rapsodiche riproposte nell’imminenza degli appuntamenti con le urne. E così, in un eterno ritorno, rieccoci a Greta: la 18enne svedese che, protetta da un cordone fi sicurezza, ha ballato sulle note di Bella ciao risuonate all’altezza di piazzale Cadorna. Insieme a lei, la gemella Vanessa Nakate: 24enne ugandese che nel gennaio 2019 ha debuttato con la “sua” protesta per sensibilizzare sul tema. «Non possiamo più aspettare discussioni vuote e inutili: è tempo di ascoltare realmente la nostra voce. Di chi lotta per il futuro contro chi cerca di togliercelo, per portare una conversione ecologica secondo giustizia climatica e sociale», rilanciano in piazza e dal palco i manifestanti. E ancora: «Bisogna investire per un radicale cambio di sistema, perché un altro mondo non è solo possibile. Ma è necessario e urgente», è il messaggio degli organizzatori. Eppure, guardando al domani, queste giovanissime attiviste anti-sistema per la salute del Pianeta, non riescono proprio a smarcarsi dal guardare indietro. Dallo strizzare l’occhio, in assenza di riferimenti forti nel presente, a un passato polveroso, reputato comunque “evergreen”. Mentre sul clima continua a levarsi altisonante solo un vuoto bla bla bla…

Greta Thunberg, insulti contro il ministro Cingolani e Palazzo Mezzanotte imbrattato. Scivolone al corteo. Libero Quotidiano l'1 ottobre 2021. Cori contro il ministro della Transizione ecologica - "Chi non salta Cingolani è" - e qualche brutta azione dimostrativa hanno macchiato un corteo colorato e ordinato di giovani che hanno invaso le strade del centro di Milano per Students' Strike For Future, la manifestazione indetta dal movimento Friday For Future a chiusura della kermesse Youth4climate nel capoluogo lombardo. Tra loro, anche Greta Thunberg e Vanessa Nakate, con l'attivista svedese che balla sulle note di Bella ciao, uno dei cori più sentiti tra le fila del corteo. Oltre 50mila secondo gli organizzatori, 9mila per la questura, le persone che da largo Cairoli hanno sfilato per le vie centrali, passando da piazza Affari e lambendo piazza Duomo, per fermarsi a piazzale Damiano Chiesa. Qui, dal palco, sono intervenuti alcuni ospiti internazionali che hanno preso la parola di fronte alla folla dei giovani. L'intervento più atteso è quello di Thunberg che è tornata ad accusare i politici di parlare troppo senza agire. "Proprio qui, a Milano, ministri da tutto il mondo discutono della crisi climatica e dicono di avere la soluzione per la crisi climatica, ma abbiamo visto le loro bugie e il loro bla bla bla e siamo stanchi", le sue parole dal palco dove è stata accolta dagli applausi dei giovani. "La crisi climatica peggiorerà sempre più, e più aspettiamo, più i danni saranno irreversibili", ricorda ancora l'attivista che torna ad attaccare l'immobilismo della politica di fronte all'emergenza climatica. "La speranza non arriva dai politici, dal bla bla bla, dall'inazione e dalle vuote promesse. Ci chiedono di credere in loro, ma la speranza siamo noi, le persone, che insieme possono fare il cambiamento". Nessun disordine dunque nel capoluogo lombardo, qualche coro contro i il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani e qualche azione dimostrativa. Alcuni attivisti hanno imbrattato la sede di Unicredit a piazza Edison, mostrando uno striscione con la scritta 'Unicredit si arricchisce con armi e petrolio'. Altri, hanno lasciato la loro impronta delle mani con vernice rossa sulla facciata di Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa.

Alberto Giannoni per "il Giornale" il 29 settembre 2021. «Bla bla bla» verde. Greta si è stancata. L'attivista svedese ormai è un marchio globale, dialoga a tu per tu con capi di Stato e leader religiosi, buca ancora lo schermo e i social con trovate comunicative di prim'ordine, eppure a 18 anni compiuti (il 3 gennaio saranno 19) la sua stella sembra sul punto di offuscarsi, per essere magari soppiantata da un nuovo astro nascente, una 24enne di nome Vanessa e di colore, tributaria di un'autentica standing ovation nel primo giorno «Youth4Climate». Le due giovani sono state le star indiscusse del prologo di questo grande evento milanese di tre giorni, in cui centinaia di giovani si sono dati appuntamento per discutere delle strategie per combattere il cosiddetto «riscaldamento globale». Il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani, che ha aperto la kermesse, le ha definite «personaggi iconici» della lotta al cambiamento climatico. Ad ascoltarle in estasi, a meno di una settimana dal voto per le Comunali, il sindaco Giuseppe Sala, riscopertosi verde: «Si parte delle città» ha detto, facendosi forte delle misure adottate in un fazzoletto di Milano, cuore di una pianura padana che peraltro da oltre 20 anni vede migliorare la qualità dell'aria. «Basta con questo fashion green» lo ha liquidato il rivale, Luca Bernardo. Magliettina azzurra a maniche corte, giacchetta legata alla vita e scarpe da ginnastica intonate, Greta ha esordito con un colpo a effetto. «Non si può più andare avanti con il bla bla bla». Greta è stufa dei bla bla bla, cioè dei discorsi. É stato, insomma, il suo, il giorno dell'impazienza. «Le nostre speranze e sogni - ha avvertito - annegano in tutte queste vuote parole e promesse» (dei leader)». «Sono 30 anni che sentiamo bla bla bla e dove siamo?». Quindi, ha concluso arringando la platea con una raffica di interrogativi retorici e risposte assertive. «Cosa vogliamo? Giustizia climatica. Quando la vogliamo? Ora. Noi vogliamo un futuro sicuro e una giustizia climatica» ha detto, evocando inconsapevole il «tutto e subito» di altre stagioni. Ma poco prima di lei, aveva appena finito di parlare la nuova «amica», Vanessa, attivista ugandese. Un intervento - il suo - che ha insistito molto sulle disuguaglianze sociali, sugli effetti del «cambiamento climatico» e sui costi diversi, da Paese a Paese. «Vivo in Uganda - ha detto - un Paese che ho visto soffrire molto per l'impatto dei cambiamenti climatici. Per tradizione storica l'Africa è responsabile solo del 3% di emissioni Co2, ma gli africani subiscono impatti più negativi: uragani, inondazioni, siccità». E alla fine del suo discorso, tornando al suo posto, si è commossa per gli applausi ricevuti. Vanessa ha fatto capire qual è l'antifona in tema di «aiuti». Non saranno più tali, ma risarcimenti. «Servono finanziamenti - ha avvertito - ma non prestiti, ma sussidi a fondo perduto». «Non vogliamo conferenze vuote, dovete mostrarci il denaro». Il suo slogan è «we cannot eat coal, we cannot drink oil»: non possiamo mangiare carbone e bere petrolio. Vanessa non vuole solo meno emissioni, Vanessa batte cassa a nome dell'Africa, e ha appoggiato ovviamente i movimenti «antirazzisti», compresi quelli ambigui come il «Blm». «Sono un attivista per il clima - ha scritto lo scorso anno - Ma ho assaggiato il razzismo a modo mio. Sto ancora combattendo per l'azione per il clima. Ma non posso tacere in un momento in cui le vite dei neri sono in pericolo. Sono sempre stati in pericolo. Mi unisco a tutti gli altri per dirvi che BlackLivesMatter». Una Greta non europea, ugandese, e più «sociale», non può che avere un'autostrada mediatica davanti a sé. E ora i volti planetari della giustizia climatica (e sociale!) sono due. «Al di là dei modi di esprimersi diversi, legati anche a fattori generazionali, sono state dette le stesse cose» ha assicurato il ministro. «Vanessa Nakate e Greta Thunberg hanno detto due cose importanti».

Greta stai serena, l'Italia è più verde. Gaia Cesare il 30 Settembre 2021 su Il Giornale. Oltre mezzo milione di ettari di bosco: assorbite 290 milioni di tonnellate di CO2. Stavolta non c'è di mezzo il «bla bla bla» della politica sul clima, denunciato dall'attivista per l'ambiente Greta Thunberg durante la conferenza Youth4Climate in corso a Milano. Questa volta, sul tavolo, ci sono dati concreti, che si prestano a pochi giri di parole, e lanciano un segnale di ottimismo per il nostro Paese. La superficie boschiva nazionale è aumentata in 10 anni di circa 587 mila ettari e ha superato di poco la quota complessiva di 11 milioni di ettari. Buone notizie, dunque, per l'Italia, la cui biomassa forestale è aumentata del 18,4%, con buoni benefici per l'aria che respiriamo visto che è cresciuta di ben 290 milioni di tonnellate anche l'anidride carbonica assorbita dai nostri boschi e responsabile dell'innalzamento globale delle temperature. A restituirci la fotografia del progresso green del BelPaese è l'ultimo Inventario nazionale delle foreste e dei serbatoi forestali di carbonio presentato ieri fra le iniziative realizzate dall'Arma dei Carabinieri in occasione di All4Climate, l'appuntamento preparatorio della COP26 di Glasgow che si svolge nel capoluogo lombardo fino a sabato 2 ottobre. Il dato non è da sottovalutare, in questa fase storica in cui l'intero pianeta - il nostro Paese incluso - sono spesso investiti da ondate di calore estreme e temperature ben oltre la media. La sottrazione e l'immagazzinamento dei gas a effetto serra, in particolare della CO2, fanno delle foreste strumenti naturali ideali e indispensabili per la regolazione del clima e per mitigare i cambiamenti climatici. Nel caso italiano, l'anidride carbonica sottratta all'atmosfera è passata da 1798 milioni di tonnellate a 2088 milioni di tonnellate. Secondo l'Inventario, che svolge indagini campionarie periodiche sulla qualità e quantità delle risorse forestali del Paese, i boschi coprono il 36,7% del territorio nazionale e le regioni che contribuiscono di più al volume complessivo sono Toscana (10.4%), Piemonte (9.8%) e Lombardia (8.7%) del totale. Valori minimi in Puglia, Val d'Aosta e Molise, con contributi variabili tra l'1% e l'1.3%. Le regioni del Nord, escluse Piemonte e Liguria, superano il valore medio nazionale di volume per ettaro di bosco mentre tutte le altre sono al di sotto, unica eccezione la Calabria. Faggio, abete rosso, castagno e cerro rappresentano il 50% delle 180 specie rilevate.

Ma ecco che, insieme alle buone notizie, arriva un dato meno confortante, frutto di un'analisi della Coldiretti, sulla base dei report dell'European Forest Fire Information System (Effis) della Commissione europea in occasione della presentazione dei dati dell'Inventario. Sono quasi 159mila gli ettari di bosco andati in fiamme in Italia dall'inizio dell'anno per effetto dei cambiamenti climatici, con il caldo e la siccità che hanno favorito l'azione dei piromani bruciando oltre un quarto delle nuove foreste. «Un costo drammatico che l'Italia è costretta ad affrontare perché - spiega Coldiretti - è mancata l'opera di prevenzione nei boschi che, a causa dell'incuria e dell'abbandono, sono diventati vere giungle ingovernabili». Eppure dalla conferenza Youth4Climate è Daniele Guadagnolo, 28 anni, di Arona, delegato italiano con Federica Gasbarro, a sottolineare che non tutto è perduto. Sul clima «c'è la buona volontà di cambiare le cose» adesso anche da parte dei leader mondiali, accusati il giorno prima da Greta di essersi limitati in passato alle parole. «Forum come questi - spiega Guadagnolo - sono segnali che c'è una presa di coscienza comune anche a livello politico», tanto che l'evento di Milano è stato «fortemente voluto dal governo italiano». Non è un caso che alle 9.30 di questa mattina il presidente del Consiglio Mario Draghi incontrerà a Milano Greta Thunberg e le altre due attiviste Vanessa Nakate e Martina Comparelli. Gaia Cesare

"Non c'entrano un c...": il fuori onda di Cingolani su Greta. Luca Sablone il 29 Settembre 2021 su Il Giornale. Il dialogo tra il ministro della Transizione ecologica e un suo collaboratore: "Lei è stata addirittura meno concreta, neanche una proposta". Nelle ultime ore sta facendo il giro del web un fuori onda in cui si può ascoltare Roberto Cingolani che "autopromuove" la sua posizione in occasione della conferenza sul clima della Youth4Climate che si è aperta ieri a Milano. Il ministro della Transizione ecologica - si apprenda dal video dell'Ansa - cerca di capire come sia andato l'incontro con Greta Thunberg e dunque affida a un suo collaboratore le proprie convinzioni: "In fondo, al di là delle chiacchiere, abbiamo detto tutti la stessa cosa, no?". Una versione confermata dal suo collaboratore: "No no, ma infatti". Così il ministro prosegue e torna a puntare l'attenzione sul suo intervento: "Io alla fine ho cambiato completamente tutto quello che avevo scritto. I Carbon offset (sistema di compensazione delle emissioni C02, ndr) non c'entrano un ca***". A quel punto il collaboratore accusa Greta di essere stata "meno concreta" e dunque punta il dito contro la giovane attivista: "Neanche una risposta sul fatto di dire, facciamo proposte. Cioè una proposta?". Per Cingolani comunque va bene così: "Ognuno ha il suo linguaggio, no?". E alla fine, mentre se la ride, si lascia andare a una battuta: "Non c'è Greta che tenga".

Lo "scontro" Cingolani-Greta. Cingolani, nel suo discorso di apertura della conferenza sul clima, aveva sottolineato come il cambiamento climatico e le disuguaglianze sociali globali andrebbero trattati insieme in quanto non esiste un'unica soluzione. E poi aveva lanciato una sorta di stoccata: "Spero che oltre a protestare, cosa che è estremamente utile, ci aiuterete a identificare nuove soluzioni visionarie, è questo quello che ci aspettiamo da voi". Dure erano state le parole di Greta, che aveva accusato pesantemente i leader mondiali: "Sulla crisi climatica sentiamo solo parole, bla bla bla". Dichiarazioni che però non hanno infastidito Cingolani: "Greta non ha detto che noi siamo solo chiacchiere ma che c'è stato troppo bla bla bla. E probabilmente ha anche ragione, nessun fastidio. Le proteste servono a pensare".

I rapporti tra Cingolani e il M5S. Nel frattempo Cingolani non può vantare di certo ottimi rapporti con il Movimento 5 Stelle, con cui non sono mancati momenti di alta tensione politica. Eppure va ricordato che erano stati gli stessi grillini a esultare per l'istituzione di un ministero dedicato alla transizione ecologica, nei confronti del quale oggi però nutrono più di qualche malumore. Ad esempio il ministro ha aperto alle centrali nucleari sostenendo che "si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante". Un fronte caldissimo che ha fatto subito agitare la galassia pentastellata, andata su tutte le furie per la posizione di Cingolani. Che tra l'altro aveva attaccato gli ambientalisti radical chic definendoli "parte del problema". Tra i 5S il malcontento è evidente: in molti sono convinti che Cingolani non stia rispettando a pieno i principi del Movimento su tematiche cardine come rinnovabili, gas e auto elettriche.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

La risposta a Greta Thunberg. Nessun «bla bla bla» ma dobbiamo dare tempo alle imprese, dice Cingolani. Su L’Inkiesta l’1 ottobre 2021. Il ministro della Transizione ecologica spiega sulla Stampa: «È fuori di dubbio che se la svolta verde fosse stata semplice l’avremmo già fatta, e invece è una delle cose più complesse mai successe. Dobbiamo cambiare tutto molto in fretta, azzeccando i tempi e senza lasciare indietro nessuno». «Il lavoro che abbiamo fatto è tutto il contrario del “bla bla bla”. A Milano è successo qualcosa di importante, con quattrocento ragazzi che hanno preso l’aereo e, per due giorni, hanno lavorato per produrre un documento di proposte. Il nostro impegno è portare questo testo alla Cop 26. È giusto che loro provochino, ed è nostro compito dare risposte». Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani parla alla Stampa dopo la Youth for Climate. Qui «è successo qualcosa di eccezionale. Avevo aspettative enormi, sono state superate», dice. La foto che lo raffigura a colloquio con Greta Thunberg ha fatto il giro del Web. Di cosa hanno parlato? «Di scienza», risponde il ministro. «È sotto attacco per i vaccini, ma per i movimenti ambientalisti è una priorità». Ma sempre da Thunberg è arrivata la critica al «bla bla bla» della politica sulle questioni ambientali. «I giovani fanno un discorso molto corretto: quando saranno adulti, pagheranno il prezzo dei nostri errori», spiega Cingolani. «E quindi chiedono di sedersi al tavolo adesso, di essere rappresentati. Certo, la situazione è complessa. Parliamo tutti di transizione energetica e abbiamo la certezza che non è procrastinabile. Ma sappiamo che si tratta della più grande opportunità del secolo. Va trattata in strettissima connessione con la lotta alle diseguaglianze. Il G20 rappresenta l’80% dei gas climalteranti e oltre 4 miliardi di persone. E gli altri 3 miliardi? A loro non si può parlare di transizione come si fa in Italia o negli Stati Uniti. In questi giorni i delegati ci hanno bastonato, e avevano ragione: loro pagano conseguenze molto più alte delle nostre. Per loro, già oggi, il problema è la sopravvivenza». Ecco perché «la Youth for Climate deve essere la prima di una lunga serie. Questo deve essere un percorso, non uno spot inutile», spiega. Ma non basta. «No, siamo in debito e in questi giorni è emersa la grande diseguaglianza globale. Prima del Covid avevamo promesso 100 miliardi all’anno, siamo arrivati a 60. Bisogna legare la transizione alla giustizia sociale, è ancora più difficile». L’Italia darà un contributo di 420 milioni, «più o meno tutti i Paesi importanti stanno facendo grandi sforzi per incrementarlo. Proporrò di fare uno sforzo per avvicinarsi al raddoppio». E poi ci sono le scelte audaci promesse dal premier Mario Draghi ai giovani. «Il Pnrr è assolutamente audace», risponde Cingolani. «Porteremo l’energia prodotta dalle rinnovabili oltre il 70%, stiamo spingendo per accelerare i permessi e abbiamo messo in cantiere grandissimi investimenti sull’economia circolare. Il punto è che l’ambizione non può fermarsi qui, bisogna riuscire a mettere a terra i risultati di queste azioni. Ma noi produciamo l’1% dei gas climalteranti, metterci a posto la coscienza non basta». Certo, la transizione non è immediata. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ieri ha detto che la transizione rischia di spegnere intere filiere della nostra industria. E anche Cingolani ammette: «È fuori di dubbio che se la svolta verde fosse stata semplice l’avremmo già fatta, e invece è una delle cose più complesse mai successe. Dobbiamo cambiare tutto molto in fretta, azzeccando i tempi e senza lasciare indietro nessuno. Devono consentirci di lavorare, stiamo crescendo a un tasso alto che va mantenuto. Ho parlato con Confindustria e i sindacati, tutti capiscono quanto sia importante mettere sul tavolo una road map condivisa, non possiamo essere ideologici e serve molta onestà sui numeri. Ma siamo alla prova del nove». Ma nessun settore può essere escluso dalla stretta europea: «C’è un comparto automotive che è basato sulla combustione interna, e dovremo progressivamente abbandonarlo per passare all’elettrico e a combustioni alternative. Abbiamo 13 milioni di automobili euro zero e euro 1, la gente se le tiene perché non ha i soldi, se noi li portassimo sugli euro 6 l’impatto sarebbe enorme. Ci sono nove anni di tempo per fare il primo salto, poi altri venti. Cerchiamo di salvaguardare il lavoro e diamo modo alle filiere di riconvertirsi». Il caro bollette, però, ci ha suonato la sveglia. «In realtà l’aumento dipende dal prezzo del gas. Il costo della Co2 pesa solo il 20%, facciamo attenzione a non confondere il nervosismo del mercato globale con il costo della transizione», precisa il ministro. «Certamente il giorno in cui avremo virato davvero sulle rinnovabili e ci sganceremo dal gas saremo più indipendenti dalle fluttuazioni. Ma ragionevolmente questo non succederà in 24 mesi». Poi torna sul nucleare. A Torino Elon Musk ha rilanciato la necessità di tornare al nucleare. «In Italia c’è stato un referendum, non è possibile», dice Cingolani. «Invece la Francia, il Giappone, gli Stati Uniti e l’Inghilterra stanno studiando dei nuovi reattori. La tecnologia al momento non è matura ma tra 10 anni potremo guardare ai risultati di queste ricerche. Stanno investendo loro».

Mario, Greta e bla bla bla. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2021. L’incontro milanese tra Mario Draghi e Greta Thunberg è l’ultima puntata dell’eterno confronto adulti-adolescenti. La fretta è connaturata alla gioventù, che, proprio perché ha tutto il tempo che vuole, non intende trascorrerlo dentro lo schema costruito da chi l’ha preceduta. Pretende «tutto e subito» e crede nelle parole solo quando sono seguite dall’azione. Altrimenti, come Greta, le considera un «bla bla bla». L’adulto ha una visione inevitabilmente diversa. Immagina i cambiamenti, ma non pensa che toccherà a lui goderli né subirli: il suo destino è di lasciarli in eredità. Le smanie e le delusioni giovanili gli hanno insegnato che il «bla bla bla» talvolta è necessario per mediare tra interessi ed esigenze contrastanti. Il «tutto e subito» non è dato in natura, tantomeno in quella umana: ogni cambiamento (adesso si dice «transizione») si lascia indietro delle vittime e persino la giustizia climatica invocata da Greta con sacrosanta veemenza può rivelarsi un’ingiustizia per tanti individui impreparati, se non si afferma con gradualità. Da millenni l’adolescente replica all’adulto che non c’è più tempo per la gradualità, e da millenni l’adulto risponde che un po’ di tempo c’è sempre e che ancora una volta la notizia della fine del mondo potrebbe rivelarsi lievemente esagerata. Si tratta di un gioco delle parti utile a tutti: senza la moderazione dell’adulto, l’umanità sarebbe in mano ai fanatici, ma senza la frenesia dell’adolescente sarebbe ancora in cima agli alberi. Il Caffè di Gramellini ti aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato, e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.

Stefano Secondino per ANSA il 30 settembre 2021. Mario Draghi ha voluto guardarla in faccia, Greta Thunberg. L'ha invitata ieri mattina alla prefettura di Milano, prima di andare a parlare alla conferenza dei giovani sul clima, la Youth4Climate. E lì, solo di fronte a lei, le ha detto cosa vuole fare contro la crisi climatica. Al prossimo G20 di Roma, il 30 e 31 ottobre, che lui presiederà, farà in modo che i Grandi prendano un impegno per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi dai livelli pre-industriali, l'obiettivo massimo dell'Accordo di Parigi. Draghi poi ha annunciato pubblicamente la cosa alla Youth4Climate, alla presentazione del documento finale della conferenza. Ma prima, ha voluto anticiparla a Greta, che negli ultimi tre anni è stata il simbolo della mobilitazione per il clima. Da leader consumato, ha voluto presentare la sua decisione ad un altro leader, che può orientare il consenso o il dissenso. Ma forse, voleva anche rispondere di persona all'accusa di fare solo "bla bla bla", lanciata ai politici dall'attivista svedese. Il premier ha incontrato a Milano Greta e altre due giovani attiviste, l'ugandese Vanessa Nakate e l'italiana Martina Comparelli. Le tre hanno chiesto all'Italia di essere più ambiziosa al G20, di rinunciare al gas e di spingere per gli aiuti ai paesi poveri. Draghi ha risposto col suo impegno in ottobre a Roma. Al momento, i target di decarbonizzazione degli stati, presi a Parigi nel 2015, non sono sufficienti neppure a raggiungere l'obiettivo minimo dell'Accordo, restare sotto i 2 gradi. L'aggiornamento di questi impegni sarà il tema della Cop26 di Glasgow a novembre, l'annuale conferenza sul clima dell'Onu. Ma una decisione del G20, che rappresenta l'80% delle emissioni e l'85% del Pil globale, sarebbe fondamentale. Greta ha ascoltato Draghi e dopo non ha fatto commenti. "Vedremo al G20 - ha dichiarato invece Martina Comparelli -. Il premier si è detto d'accordo con noi, e che le nostre manifestazioni sono servite. Ma non basta dire di esser d'accordo, anche se è positivo che ci abbia voluto incontrare". Draghi quindi ha raggiunto la Youth4Climate, al centro congressi Mico. In sala, per la presentazione del documento finale, c'era anche il presidente Sergio Mattarella. I quasi 400 giovani delegati da 186 paesi hanno chiesto partecipazione alle scelte sul clima e una transizione ecologica equa ed inclusiva, legata alla giustizia sociale. Le proposte sono state presentate ai 40 ministri dell'Ambiente riuniti a Milano per la Pre-Cop26, l'evento preparatorio della conferenza di Glasgow. "Siamo consapevoli che dobbiamo fare di più, molto di più - ha detto Draghi -. Questo sarà l'obiettivo del Vertice a Roma che si terrà alla fine di ottobre. A livello di G20, vogliamo prendere un impegno per quanto riguarda l'obiettivo di contenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi". Draghi ha lodato i ragazzi che si impegnano sul clima e ha concordato che la transizione debba essere equa e includere i paesi poveri. All'accusa di Greta di fare solo "bla bla bla", ha risposto che "a volte è solo un modo per nascondere la nostra incapacità di agire. Ma la mia sensazione è che i leader dei governi oggi siano tutti convinti che sia necessario agire, e sia necessario farlo presto". "Possiamo fare della Cop26 l'inizio della fine del cambiamento climatico", ha detto in videocollegamento il premier britannico Boris Johnson. Il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, anche lui da remoto, ha detto ai delegati che "grazie a voi i leader avranno un esempio da seguire". E il ministro italiano della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, si è impegnato coi giovani a portare le loro richieste a Glasgow.

Francesca Sforza per "La Stampa" il 30 settembre 2021. «Non è vero che è tutto un bla bla bla come dice Greta, i progressi ci sono, e la lista delle cose da fare è molto chiara». Non nasconde un certo ottimismo l'economista Jeffrey Sachs, direttore del Center for Sustainable Development alla Columbia University e consigliere del Segretario generale dell'Onu, che ieri era a Foligno per il convegno organizzato da Nemetria su economia circolare e PNRR. Sachs si occupa di ambiente e sostenibilità da oltre vent'anni: «Allora sì che le cose non si capivano, e che la confusione sugli obiettivi era davvero grande. Oggi non più».

Professor Sachs, chi è secondo lei ad avere le maggiori responsabilità per i ritardi sull'abbassamento delle emissioni di Co2?

«I Paesi più grandi e le grandi compagnie: ovunque ci sia produzione di carbone e di gas, lì ci sono ritardi. La ricetta è semplice: basta carbone, basta con i progetti espansivi per petrolio e gas, basta con le estrazioni. Tutti gli investimenti devono essere sulle rinnovabili, l'Europa lo sta facendo più di tutti. I problemi restano negli Stati Uniti, in Cina, India, Indonesia, ma anche in questi luoghi crescono i movimenti favorevoli a una totale decarbonizzazione. Non si possono negare i ritardi, ma non ci troviamo più dietro le quinte del problema, adesso siamo in scena». 

Proprio ai più poveri si chiede di più, dalle sofferenze legate ai disastri climatici fino al rincaro dei costi delle bollette. Come si corregge questa anomalia?

«E' vero, i poveri fanno il sacrificio maggiore, e sarà sempre peggio: dove è caldo sarà più caldo, dove piove pioverà di più, dove c'è marginalità si rischia di finire ancora più ai margini. Spesso i Paesi più ricchi non fanno abbastanza, resistono a dare contributi, non comprendono a sufficienza la gravità della situazione. Il problema è che anche i Paesi ricchi sono in crisi: prendiamo gli Stati Uniti durante la lotta alla pandemia, quanta irrazionalità, quanta confusione, quanta poca coerenza. E per il clima è lo stesso. Adesso questo conflitto ingaggiato dagli Usa con la Cina mi preoccupa, lo trovo inappropriato e pericoloso». 

Gli europei avevano riposto molte aspettative sulla presidenza Biden. Si sono sbagliati?

«Il problema non è Joe Biden, il problema è l'America divisa. Gli Stati Uniti non hanno un sistema parlamentare dove c'è un governo e si lavora con la maggioranza parlamentare. Ogni cosa è una guerra, e Biden non ha molti margini di manovra. Il congresso ha pochi voti fra i democratici, molti democratici sono conservatori o rappresentano gruppi di potere, la sua agenda non può che soffrirne. Adesso però è il momento della verità: sul clima i democratici devono sostenere un presidente democratico e le sue riforme. Capisco la delusione degli europei, ma non è Biden il problema. Donald Trump è stato un disastro, ma anche il sintomo del fatto che qualcosa nella cultura e nella società americana si è spezzato».

La pandemia ha insegnato qualcosa su come affrontare la crisi climatica?

«Il Covid ha mostrato le debolezze della nostra società, che sono state su tre livelli: cooperazione globale, coerenza delle politiche nazionali e comportamenti irrazionali dei singoli. Per il clima è lo stesso: bisogna ridurre l'uso di carburanti, elettrificare industrie e trasporti, adottare energie pulite. Questo deve accadere e questo accadrà: più tardi sarà, peggio sarà per tutti. Anche qui ci vuole cooperazione globale, coerenza nelle singole politiche e partecipazione dei singoli. Oggi la scienza è unanime, non si possono mettere in dubbio studi ventennali. Non ci sono misteri su quanto sta accadendo al pianeta. L'unico mistero è capire come organizzarci, quanto tempo metterci, quanto sarà dura».

Cosa pensa della nuova crisi energetica?

«Che sia una grande opportunità. Se fossi giovane e amassi il business costruirei soltanto pannelli solari, prevedo un boom assoluto del settore nei prossimi tre anni».

Si parla molto di leadership femminile per la sfida climatica. E' solo uno slogan?

«Le donne nel Covid hanno fatto meglio degli uomini, forse per un naturale istinto alla cooperazione. Non è uno slogan, è un fatto».

Oltre il «bla bla»Come l’idrogeno diventerà il motore della transizione ecologica. Alberto Cantoni su L’Inkiesta il 29 ottobre 2021. All’evento “The H2 Road to Net Zero”, organizzato a Milano da Bloomberg con Snam e Irena, si è parlato di futuro dell’ambiente. Ospiti nazionali e internazionali – tra cui il ministro Roberto Cingolani e l’ex candidato presidente americano John Kerry – hanno discusso la prossima rivoluzione sostenibile. L’idrogeno, il più leggero e piccolo tra tutti gli elementi della tavola periodica, è da tempo al centro di un progetto di transizione energetica volto alla progressiva decarbonizzazione dei sistemi economici dei paesi occidentali, Italia compresa. Abbiamo dedicato a questo tema l’ultimo paper di Greenkiesta, e se n’è parlato anche oggi, mercoledì 29 settembre, al forum milanese di “The H2 Road to Net Zero”, spazio di discussione nato dalla collaborazione tra l’agenzia stampa Bloomberg, Snam (Società nazionale metanodotti) e Irena (Agenzia internazionale per le energie rinnovabili). L’evento si è aperto con un ospite illustre, John Kerry, inviato speciale per il presidente degli Stati Uniti per la Gestione del clima. In un videomessaggio, l’ex segretario di stato americano ha consigliato a tutti di leggere gli scritti di Marco Alverà (amministratore delegato di Snam) sull’argomento, per una visione che punti alla riduzione delle emissioni, alla creazione di posti di lavoro e che aiuti a raggiungere un futuro a energia pulita e zero emissioni nette. «Credo che l’idrogeno ci offra davvero una delle migliori possibilità per risolvere questa grande sfida che abbiamo di fronte». Gli ha fatto eco Nigel Topping, Alto rappresentante del governo britannico per la Cop26, che ha esortato le aziende private a maggiori investimenti e i governi al supporto di un progetto di transizione concreto. «Dobbiamo prendere in considerazione tutte le opportunità per la diminuzione dei costi. Abbiamo poco tempo a disposizione ed è una sfida dal punto di vista ingegneristico. Ma sono ottimista, e credo che dobbiamo continuare su questa strada». Tra i partecipanti all’evento c’è stato anche il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, che in un lungo confronto condotto da Chiara Albanese (giornalista di Bloomberg), ha toccato diversi temi attualissimi. Fresco del confronto con l’attivista ambientale Greta Thunberg in occasione della manifestazione che ha anticipato la Cop26 di Milano, Cingolani ha raccontato di come il discorso sia andato oltre alle frecciatine del futile «bla bla bla» politico: «Il messaggio principale (rivolto alle istituzioni, ndr) è stato “non crediamo a quello che state dicendo”. Non dobbiamo scordarci della differenza di linguaggio tra i Gen-Z e le persone più adulte». E sulla transizione alle energie rinnovabili: «Dobbiamo prendere in considerazione tutti, siamo una democrazia: ma ciò è complicato. Stiamo investendo 3 miliardi e 200 milioni nella transizione ecologica, è un grande budget. Il programma è molto ambizioso, ed è in linea con l’iniziativa francese e quella tedesca». Dopo aver dribblato una domanda relativa a Ilva e al suo possibile futuro come stazione per la produzione di idrogeno («ora non voglio parlare di un luogo specifico»), il ministro del governo Draghi ha elencato i segnali incoraggianti su questo fronte: dalla Cina che finirà di costruire centrali all’estero, all’aumento della consapevolezza a livello mondiale, passando per il crescente peso mediatico dato a manifestazioni e conferenze internazionali volte alla sensibilizzazione ecologica. Tuttavia, ha spiegato Cingolani, «non possiamo aspettarci che la Cop26 risolva tutti i nostri problemi all’improvviso. Un paio d’anni fa la previsione dell’innalzamento delle temperature globali si assestava sui 2 gradi, ora sono 2,5. Quel mezzo grado fa molta differenza». Complicazioni che fanno parte di un percorso: del resto, la transizione «non sarà un pranzo di gala. Ma dobbiamo continuare a lanciare messaggi volti al cambiamento». Durante l’evento si è tenuta anche una cerimonia formale per la firma di un memorandum tra Irena e Snam, un documento che prevede progetti per lo sviluppo della transizione all’idrogeno pulito. Sono successivamente intervenuti i rispettivi numeri uno delle due società: Marco Alverà, amministratore delegato di Snam, e Francesco La Camera, direttore generale di Irena. Il mondo sta cambiando velocemente: «L’idea che avevamo era che il costo dell’idrogeno fosse molto elevato, invece ora siamo scesi a 100 dollari, un decimo rispetto ai 1000 di due anni fa», spiega Alverà. «Ora si punta ai 25 dollari; dobbiamo standardizzare questa cifra per poter offrire un’alternativa più verde». Il leitmotiv dell’incontro è stato anche il tema della sostenibilità economica. Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome ha definito una vera e propria «sfida» quella che, in prospettiva, garantirà «una sostenibilità che non sia solo ambientale, ma anche economica e sociale. Altrimenti si rischia che le buone intenzioni si trasformino in propaganda che non riuscirà a cambiare veramente il mondo per le prossime generazioni. In questo senso, penso che raggiungeremo gli obiettivi di una vera transizione ecologica solo se riusciremo a creare un’alleanza tra le istituzioni e il territorio». Tornando all’idrogeno, sappiamo quanto esso possa aiutarci a decarbonizzare i settori industriali più difficili da rendere green, quali l’acciaio, il cemento e il vetro. Come può essere applicato l’idrogeno dai treni e dai mezzi pesanti, e come identificare progetti e investimenti in cui l’idrogeno può prosperare? Di questo hanno parlato, nell’ultimo panel moderato da Tommaso Ebhardt, i rappresentanti di alcune realtà tra le più importanti in questi ambiti (Alstom, Iris Ceramica Group, gruppo Iveco e Trenitalia). «Il 30% delle nostre linee ferroviarie non è elettrico», ha spiegato Luigi Corradi, amministratore delegato di Trenitalia. «Il nostro obiettivo è la sostenibilità: dobbiamo raggiungere il 100% e per farlo dobbiamo investire in nuovi treni e utilizzare meno energia. Una soluzione sono le batterie elettriche, ma attualmente possiamo caricarle per un’autonomia massima di 60 chilometri. L’idrogeno è la cosa migliore: nel 2023 avremo il primo treno con questa tecnologia». In chiusura, il presidente di Arera (Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente), con una nota di ottimismo ha commentato: «Si è parlato del futuro con un approccio molto pragmatico».

L'India può fare a meno del carbone? Terzo emettitore mondiale di CO2; il 70% della produzione di elettricità dipende da combustibili fossili; la Coal India Limited, la più grande compagnia mineraria mondiale è per tre quarti statale. Eppure è una delle poche grandi economie ad aver adottato misure concrete per ottemperare agli accordi di Parigi. Alla Cop26, però, farà parte dei 'cattivi' insieme all'Australia. Mariella Bussolati su La Repubblica il 30 settembre 2021. L'India è un Paese enorme, dove abitano oltre 1,3 miliardi di persone, che hanno un imponente bisogno di energia. Già ora ne usano il 6% di quella globale e si prevede che la richiesta cresca più che in qualsiasi altra regione nel mondo: la domanda raddoppierà nei prossimi 20 anni a causa della crescita della classe media che ha bisogno di nuovi servizi, compresa l'aria condizionata.

"È solo un'immagine" e poi la cancella. L’agente no-vax Schilirò e la vignetta contro Greta Thunberg: “Bambina semianalfabeta”. Redazione su Il Riformista il 30 Settembre 2021. Continua a sorprendere Nunzia Alessandra Schilirò, vicequestore della Criminalpol e protagonista di un feroce intervento contro il green pass sul palco di piazza San Giovanni a Roma sabato scorso. Dal suo canale Telegram, che porta il nome di “Nandra”, la poliziotta si è scagliata contro l’attivista Greta Thunberg: in una vignetta, dove da una parte c’è l’ambientalista diciottenne e dall’altra la vicequestore di Roma. L’immagine, pubblicata sul canale Telegram da Schilirò, presenta due caricature accostate, ognuna col suo titolo. Per Greta c’è scritto: “Bambina semianalfabeta parla di scienza”. La diciottenne attivista pronuncia la frase: “Fa caldo”. E attorno tutti la acclamano. Nei balloon ci sono frasi come “Ingravidami Greta” e “Diamole il Premio Nobel”. Dall’altra parte la caricatura che ritrae la poliziotta, su cui campeggia il titolo: “Vicequestore laureato parla di legge”, con l’agente che dice “Il Green Pass è discriminazione”. Dalla folla arriva un Buuuu. E nei balloon frasi d’accusa, come “Licenziatela”, “Ignorantehh”, “Vergogna”. La vignetta poco dopo è stata rimossa dalla stessa Schilirò. Dopo che Repubblica ha chiesto alla vicequestore se non le sembrava inopportuno pubblicare quella vignetta offensiva nei confronti di Greta, la poliziotta ha rimosso il post scrivendo nella chat “un importante giornale sta montando un caso sulla vignetta creata su e me e Greta. Credo che la satira sia importante ma di più lo è l’obiettivo“. Il riferimento è quindi alle domande poste dai giornalisti di Repubblica. La pubblicazione della vignetta dove viene derisa la giovane attivista ambientale non è stata apprezzata dai numerosi fan che seguono il canale Telegram della dirigente della polizia. Mentre alcuni hanno espresso loro solidarietà alla giovanissima attivista. Altri invece avevano attaccato la ragazzina “utilizzata dal governo”. “Grande rispetto per Nandra e onore a lei per il suo coraggio e la sua coerenza, ma che caduta di stile con la pubblicazione di questa vignetta. E Onore anche a Greta che, volenti o nolenti, ci ha messi davanti alle nostre responsabilità nei confronti del Pianeta“. E la poliziotta, prima di cancellare l’immagine, si è difesa scrivendo su Telegram: “È una vignetta! Impariamo a dare il giusto peso alle cose!“.

Striscia la Notizia, il dramma di Greta Thunberg: "Prima o poi uno lo trovo". La frase "rubata", quanta amarezza. ". Libero Quotidiano l’01 ottobre 2021. Ieri, giovedì 30 settembre, era il grande giorno di Greta Thunberg a Milano. La baby-attivista "green" è stata ricevuta anche da Mario Draghi. Già passata agli annali la frase sul "bla bla bla" del premier rivolta alla svedese. E proprio ieri, in serata, sulla Thunberg ecco piovere la tagliente ironia di Striscia la Notizia, il tg satirico di Canale 5. Ecco infatti Valeria Graci vestire i panni di una grottesca Thunberg. E l'inviata di Striscia reinterpreta a modo suo il messaggio lanciato dall'attivista ai politici, ossia più fatti e meno parole. In premessa, la finta Greta spiega che "se inquinerete ma se inquinerete, un cu*** vi farò". E ancora, ricorda: "Oggi è iniziato il Pre-Cop 26, e per l'occasione sono arrivati ragazzi da 127 paesi: un fidanzato lo troverò prima o poi", sospira con ironia corrosiva. "E tra l'altro qui a Milano c'è anche il Regno Unito, il paese che inquina più di tutti: ci credo, con quella tinta tossica che usa per i capelli Boris Johnson". Poi, la battuta sul nuovo astro nascente dell'ecologismo globale: "Mi hanno presentato finalmente Vanessa Nakate... le ho detto che anche lei può rendersi utile. Per portarmi lo zaino... sciogli le trecce ai cavalli". Infine, ecco una sconsolata Graci-Thunberg al fianco di un idrante: "Per risparmiare l'acqua, è una settimana che non mi lavo. E si sente. Quante parole... bla, bla, bla. Più fatten e meno parole. Nel frattempo io mi faccio una limonata. Da sola. Freschen", conclude il servizio di Striscia la Notizia.

Greta Thunberg, una foto intima: clamoroso scoop, ecco chi è il suo fidanzatino. Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. Greta Thunberg si è fidanzata? Sui media di tutto il mondo cominciano a circolare delle foto della attivista, che ha 18 anni, con un misterioso ragazzo. Insomma, anche Greta ha una vita "normale" come tutte le ragazze della sua età, e probabilmente il suo cuore batte per questo giovane che dalle foto pubblicate sul quotidiano tedesco Bild appare con una maglietta bianca e un cappellino a quadretti bianchi e blu (lei invece ne indossa uno verde su t-shirt nera). I due sono stati immortalati durante la manifestazione per il clima “Fridays for Future” a Milano. L'attivista era proprio accanto a questo giovane con il quale si vede chiaramente che c'è molta intimità. Eccoli infatti nelle foto in cui si vedono abbracciati teneramente. E ancora la scena in cui lei dà da mangiare a lui delle chips di banana, sempre a margine della manifestazione per il clima ovviamente. Chi è il giovane con cui Greta Thunberg condivide momenti intimi? Difficile dirlo. Nessuno sa ancora nulla di lui, chi sia e come si chiami restano al momento un mistero. Quel che è certo ormai è che il cuore di Greta non batte solo per il pianeta Terra ma anche come è giusto che sia per un ragazzo come lei. 

Le sue parole hanno commosso alla Youth4Climate di Milano. Chi è Vanessa Nakate, l’attivista ugandese in lotta per l’ambiente con Greta Thunberg. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Settembre 2021. Negli ultimi mesi è comparsa spesso accanto a Greta Thunberg per parlare di clima e ambiente davanti ai grandi della terra. Vanessa Nakate, 24 anni, ha commosso e si è commossa alla Youth4Climate di Milano dove ha parlato alla platea dando voce al Sud del Mondo che finora è sempre rimasto un po’ ai margini della discussione globale sulla transizione ecologica. Nata a Kampala, capitale dell’Uganda nel 1996, è stata la prima attivista del Fridays for Future in Uganda, avviando nel gennaio 2019 uno sciopero solitario di protesta contro gli effetti del cambiamento climatico nel suo paese. Ha fondato il Rise up Climate Movement e promosso la campagna per la salvaguardia della foresta pluviale della Repubblica Democratica del Congo. Si è laureata in economia aziendale presso la Makerere University Business School nel gennaio 2019. Vanessa, insieme a Greta, ha portato alla Youth4Climate di Milano le istanze della sua Africa nel dibattito sul cambiamento climatico. “L’Africa è il continente che emette meno gas serra al mondo, dopo l’Antartide – ha detto Vanessa – storicamente è responsabile appena del 3% delle emissioni globali, eppure è quella che sta subendo di più la crisi climatica”. Vanessa ha parlato di ondate di calore, i roghi che hanno devastato l’Africa, la carestia che sta distruggendo le vite di decine di migliaia di persone in Madagascar. Poi ha citato anche le isole dei Caraibi e del Pacifico diventate “inabitabili”, i 6 milioni di abitanti del Bangladesh costretti a lasciare le proprie case, le “migliaia di specie animali e vegetali che finiranno nell’oblio”. E infine: “Who is going to pay?”, chi pagherà per tutto questo? “Ovunque io vada i leader dicono che manterranno gli impegni ma sono poche le prove dei 100 miliardi di dollari che sono stati promessi per aiutare i paesi vulnerabili dal punto di vista climatico. Dovevano arrivare entro il 2020 ma siamo ancora in attesa”. Ha commosso la platea parlando di situazioni che esistono ancora nel suo paese: “Per quanto tempo le bambine saranno date in sposa perché le loro famiglie hanno perso tutto nella crisi climatica?”. O “non ci si può adattare alla perdita di una lingua, di una storia, alla fame, all’estinzione”. Nakate inizia il suo impegno per il clima nel gennaio 2019, preoccupata per le temperature insolitamente elevate registrate nel suo paese d’origine, attraversato nei mesi di ottobre e dicembre da un’intensa ondata di caldo. Da sola o affiancata dai fratelli, sciopera ogni venerdì in concomitanza con il movimento dei Fridays for future presidiando quattro punti nevralgici di Kampala, per spostarsi in seguito fuori dai cancelli del Parlamento ugandese, con un cartello che si apre con lo slogan “Amore verde, pace verde”. Da quel momento ha fatto breccia nel cuore dei suoi coetanei connazionale non senza qualche iniziale ritrosia. Fonda il “Youth for Future Africa”, che in seguito si trasforma nel “Rise up Movement”. Uno degli obbiettivi perseguiti è sensibilizzare le nuove generazioni sul cambiamento climatico, a partire dalla diffusione della conoscenza di questo problema – le sue cause e il suo impatto – nelle scuole primarie e secondarie.

L’8 gennaio 2020 Nakate invia un tweet a Greta Thunberg con una foto in cui è ritratta insieme ad altri due attivisti, per ricordarle la protesta in atto nel suo paese, chiedendole implicitamente un aiuto per diffondere l’informazione. Greta Thunberg ritwitta immediatamente, condividendo la sua storia, offrendole un consiglio e lanciando a tutti un appello, forte del suo seguito sui social media. Nel novembre 2020 Vanessa Nakate è stata inclusa nella lista stilata dalla BBC delle 100 donne più illuminate ed influenti del 2020.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

FdI, Carlo Fidanza svela lo scandalo-Milano: "Carola Rackete sponsor di Beppe Sala? Ecco chi la paga". Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. Una tre giorni dei Verdi europei a Milano, guarda caso a poche ore dal voto per le amministrative, in modo da «tirare» la volata al sindaco, e candidato al secondo mandato, Beppe Sala. Ospiti d'onore la paladina ecologista Greta Thunberg e l'eroina filo-immigrazione Carola Rackete, quella della collisione con la Guardia di Finanza a Lampedusa, ora anche lei convertita alla causa della sostenibilità ambientale. La cosa, anzi l'insieme di cose a dire il vero, non è andata giù a Carlo Fidanza, capodelegazione di Fratelli d'Italia al Parlamento Europeo.

Onorevole, cos' è che la indigna così tanto?

«"Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei". Chi pensa che la "speronatrice involontaria", Carola Rackete, sia un modello da imitare voterà per Sala. Chi è ancora indeciso, magari si deciderà a votare Luca Bernardo, candidato a sindaco per Milano del centrodestra, piuttosto che sottoporre la città ad altri cinque anni così. Ma non è questo l'unico problema...»

Cosa c'è ancora? In fondo Sala ha aderito da mesi al partito dei Verdi europei e loro gli organizzano un convegno. Normale no?

«Tutt' altro. Sala si sta facendo la campagna elettorale con i soldi dei cittadini europei e questo è vietato dalle norme comunitarie. Le risorse messe a disposizione dei partiti continentali e dei gruppi politici al Parlamento Europeo provengono in gran parte dal bilancio del Parlamento stesso e ci sono precise regole sul loro utilizzo».

Quali?

«Tra queste c'è il divieto assoluto di utilizzarle per eventi che possano configurarsi come elettorali, diretti o indiretti che siano. Per capirci, Sala durante quel convegno potrebbe non pronunciare mai le parole "candidato", "elezioni" o "voto" e limitarsi a parlare di ambiente, ma il fatto stesso che sia candidato rende quell'evento un momento elettorale. Che non può essere finanziato con risorse pubbliche».

La sua è un'accusa pesante...

«Non è un'accusa, è una constatazione. È scritto nero su bianco sia sul regolamento Ue (1141/2014, ndr) che norma i partiti europei, sia sul regolamento interno del Parlamento che disciplina l'utilizzo dei fondi dei gruppi. D'altra parte se non fosse così tutti potremmo sponsorizzare candidati sindaco o consiglieri comunali in eventi pagati dai nostri partiti europei. Cosa che non ho visto fare da nessuno, se non dal partito dei Verdi europei che, guarda caso, è il partito del sindaco Sala».

Ma se è tutto così chiaro e lineare come lei dice, come si può incorrere in un errore così grossolano?

«Non so cosa pensare, le regole sono chiare. Forse a sinistra si sentono superiori a qualsiasi regola o pensano che le norme valgano solo per gli avversari. A pensar male si potrebbe ipotizzare senza nemmeno troppa fantasia che il sindaco uscente abbia chiesto al suo partito europeo di organizzare una tre giorni pre-elettorale in cui fare la sua passerella».

Oppure?

«Ad essere benevoli, che i Verdi europei abbiano deciso in autonomia di svolgere la loro tre giorni a Milano per regalare questa passerella al sindaco, ignaro del fatto che semplicemente non si può fare. Ciò che é certo è che la sua partecipazione a un evento finanziato dal Parlamento Europeo, e quindi dai cittadini europei, rappresenta un finanziamento indebito alla sua campagna elettorale».

A questo punto cosa succederà?

«La mia denuncia in fondo rappresenta un'opportunità per Sala e il suo partito di chiedere scusa, annullare la sua partecipazione ed evitare così di incorrere in questa grave violazione. Mi aspetto e mi auguro che avvenga oggi stesso. Si è ironizzato molto da sinistra sui soldi che i partiti di centrodestra avrebbero dovuto versare per la campagna di Bernardo, ma nessuno di noi ha mai pensato di accollare ai nostri gruppi e partiti europei il costo di una tre giorni di convegno per far fare la passerella al nostro candidato. Non perché ci manchi la fantasia ma perché, semplicemente, non si può».

Resta il dato politico, però...

«Nulla impedirà a Sala di farsi scattare una bella foto elettorale con le sue beniamine ospiti del convegno, Greta Thun berg e Carola Rackete. Noi di FdI rimaniamo convinti che l'ambientalismo ideologico di Sala e della sinistra abbiano causato solamente più ingorghi, più smog e più incidenti. E che regolamentare l'immigrazione proteggendo le frontiere sia meglio che prendere esempio dalle paladine dell'immigrazione incontrollata. Ai milanesi la possibilità storica di decidere». 

Ecco quanto costa il clima che cambia: danni record nel mondo per incendi e alluvioni. Roghi giganteschi negli Stati Uniti e nell'area del Mediterraneo, inondazioni nel centro Europa. I costi legati ai disastri naturali sono in aumento. E secondo gli scienziati per effetto del riscaldamento globale la situazione nei prossimi anni è destinata a peggiorare. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 13 settembre 2021. Il clima che cambia è già diventato un business. Un mese fa, poche ore prima che il rapporto degli scienziati dell’Ipcc lanciasse un nuovo allarme sugli effetti devastanti del riscaldamento del pianeta, le cronache hanno dato conto di un’operazione finanziaria passata quasi inosservata dalle nostre parti. Moody’s, il colosso di Wall Street che assegna i voti (rating) ai titoli collocati da banche e aziende, ha siglato un contratto da 2 miliardi di dollari per comprare Rms, un’agenzia specializzata nella valutazione del rischio legato ai disastri naturali. L’entità della somma sborsata dal compratore, che si è da subito assicurato 300 milioni di ricavi supplementari, dà un’idea delle prospettive di sviluppo attribuite alla società appena passata di mano. Rms, una sigla che sta per Risk Management Solutions, vende i suoi servizi a grandi società immobiliari e compagnie di assicurazione, costrette a pianificare i propri investimenti tenendo conto delle incognite legate al cambiamento climatico, incognite che sembrano destinate a moltiplicarsi nell’immediato futuro. La quasi totalità degli scienziati concorda infatti su un punto: fino al 2100, la temperatura media del globo continuerà a crescere, nella migliore delle ipotesi, di almeno 1,5 gradi rispetto al periodo preindustriale (1850-1900), ma ci sono scenari alternativi, e per nulla improbabili, in cui l’incremento atteso supererà i 5 gradi entro la fine del secolo. In ogni caso, prevedono gli studiosi, nei prossimi decenni aumenteranno la frequenza e la gravità di alluvioni, inondazioni, frane, incendi, siccità e ondate di caldo. Tutti fenomeni innescati dal riscaldamento globale, a sua volta provocato dalle emissioni in atmosfera dell’anidride carbonica prodotta dall’attività umana (industrie, trasporti, produzione di energia). I disastri naturali causano in primo luogo la perdita di vite umane. A pagare il prezzo più elevato sono in genere i Paesi del Sud del mondo, che spesso non dispongono delle risorse necessarie a difendersi dalle catastrofi, nonostante i notevoli progressi raggiunti di recente grazie, per esempio, ai sistemi di allerta che segnalano i cicloni in arrivo. Poi ci sono i danni materiali, cioè quelli al sistema produttivo, alle infrastrutture, alle abitazioni. E qui le perdite economiche diventano molto più elevate negli Stati ad alto reddito pro capite. Secondo il rapporto sul clima dell’Ipcc, piogge torrenziali e inondazioni in Europa e nel Nord America saranno più frequenti nei prossimi anni anche nel caso in cui l’aumento della temperatura media del pianeta non superi i 2 gradi rispetto al periodo preindustriale. In particolare, si legge nel documento pubblicato in agosto, l’intensità delle precipitazioni aumenterebbe almeno del 14 per cento e gli eventi estremi sarebbero fino a due volte più frequenti. A ben guardare, però, questa previsione non fa che confermare una tendenza già evidente da tempo. Un ampio dossier diffuso il primo settembre dal Wmo, l’Organizzazione metereologica mondiale, spiega infatti che il numero dei morti causati da eventi climatici estremi tra il 2010 e il 2019 si è quasi dimezzato rispetto al decennio precedente, passando da 329 mila a 185 mila. Nello stesso periodo, però, il conto dei danni a livello globale è aumentato di quasi il 50 per cento: da 942 a 1.381 miliardi di dollari e l’incremento è quasi per intero da attribuire a catastrofi che si sono verificate nella parte più ricca del pianeta. Negli Stati Uniti i disastri che hanno provocato perdite superiori al miliardo di dollari sono stati 59 nel decennio 2000-2009 per poi raddoppiare a quota 119 nei dieci anni successivi. In Europa invece lo scenario è migliorato nell’arco del primo ventennio del secolo, con i costi dei disastri naturali che nel periodo 2010-2019 non hanno superato gli 86 miliardi di dollari contro i 151 miliardi di dollari registrati fino al 2009. I dati più recenti, però, non lasciano grande spazio all’ottimismo. In tutta Europa, infatti, gli eventi climatici estremi, in primo luogo incendi e alluvioni, sono tornati ad aumentare a partire dal 2020. L’estate di quest’anno è stata segnata dalle piogge torrenziali che in luglio hanno provocato frane e inondazioni dal Belgio alla Germania fino alla Svizzera e all’Italia settentrionale. Da Liegi fino alla Renania l’alluvione ha provocato 180 morti seminando crolli e distruzioni per decine e decine di chilometri. Il bilancio dei danni, ancora provvisorio, ammonta a oltre 20 miliardi di euro. Se questa cifra fosse confermata, la tempesta di luglio diventerebbe il più costoso disastro naturale, terremoti esclusi, mai registrato nell’Europa occidentale. Più a sud, invece, sono stati gli incendi a portare morte e distruzione. A partire dalla fine di luglio roghi eccezionali per forza e dimensioni hanno devastato ampie zone costiere del Mediterraneo: Sardegna, Calabria, Sicilia e poi Grecia e Turchia. In Italia sono andati in fumo oltre 150 mila ettari di territorio, cioè 1.500 chilometri quadrati, un’area pari, per fare un esempio, all’intera provincia di Milano. Il clima eccezionalmente caldo e secco ha creato le condizioni ideali per le incursioni criminali dei piromani, favoriti anche dalla scarsa prevenzione e dai controlli a maglie larghe nelle zone boschive. Questa stessa miscela esplosiva, incuria umana unita a condizioni climatiche senza precedenti, ha innescato anche i giganteschi incendi che nelle settimane scorse hanno colpito la costa occidentale degli Stati Uniti. Le statistiche più aggiornate rivelano che sei dei sette roghi più grandi mai registrati in California si sono verificati tra il 2020 e il 2021. Al conto delle perdite negli Stati Uniti vanno aggiunti anche i danni provocati dagli uragani. Il bilancio definitivo difficilmente raggiungerà quello dell’anno più nero, il 2017, quando ben tre cicloni di eccezionale potenza colpirono gli Usa causando danni per quasi 300 miliardi di dollari. Proprio nei giorni scorsi la costa orientale, compresa New York, è stata spazzata dal ciclone Ida, con danni che dalle prime stime sarebbero nell’ordine delle decine di miliardi di dollari e si vanno a sommare a quelli provocati da tempeste e uragani come Elsa, il più forte di tutti, che a luglio ha investito la Florida e poi, più a nord, l’area di Boston. Una simile sequenza di fenomeni estremi ha finito per mettere in allarme anche le grandi compagnie assicurative, che vedono aumentare i risarcimenti da pagare a privati e imprenditori. Secondo i calcoli del gruppo svizzero Swiss Re, nella prima metà dell’anno, a livello globale, le polizze da onorare hanno superato i 40 miliardi, la somma più alta dal 2011. Generali, tra i big europei del settore, nel primo semestre del 2021 ha pagato 218 milioni per “sinistri catastrofali”, quasi il doppio rispetto al 118 milioni del 2020. Il conto è però destinato a crescere da giugno in poi, per effetto di incendi e tempeste in Europa e Stati Uniti. Non c’è da stupirsi, allora, se nei prossimi anni, i prezzi delle polizze aumenteranno almeno quanto la temperatura media del pianeta.

Il Far West dell'edilizia: l'Italia soffocata da 51 chilometri quadrati di cemento all'anno. Riforme affossate, corruzione, Comuni e Regioni complici degli speculatori: il suolo naturale viene consumato al ritmo forsennato di due metri quadrati al secondo. Solo la Lombardia ha autorizzato altri 53mila ettari di nuovi fabbricati. E in Sardegna il centrodestra cancella la legge salva-coste. Paolo Biondani su L'Espresso il 31 agosto 2021. Antonio Cederna, uno dei padri nobili dell’ambientalismo in Italia, la chiamava «crosta». Una «crosta repellente di cemento e asfalto», uno strato artificiale e impermeabile che soffoca la terra, distrugge per sempre prati, boschi, campagne, spiagge e coste. Dopo tanti annunci e promesse di svolta verde, transizione ecologica e piani contro l’emergenza climatica, ci si poteva illudere che anche in Italia, sia pure con decenni di ritardo rispetto ai più civili Paesi europei (e agli storici articoli di Cederna su L’Espresso), si cominciasse finalmente a fermare la cementificazione del territorio. Invece la crosta continua a gonfiarsi. Solo nel 2020, con l’economia ferma e gli italiani chiusi in casa per la pandemia, l’Italia ha perso più di 51 chilometri quadrati di suolo naturale. È una cifra impressionante soprattutto perché non è un’eccezione: l’Italia verde continua da decenni a sparire al ritmo (minimo) di oltre 14 ettari al giorno, quasi due metri quadrati al secondo. Quest’anno, nonostante la crisi sanitaria e produttiva, la speculazione edilizia è ripartita ancora più forte: solo nei primi tre mesi del 2021 sono state autorizzate nuove costruzioni per altri quattro milioni di metri quadrati. Migliaia di nuove case e fabbricati residenziali, centri commerciali e capannoni logistici, a cui si aggiungono strade e parcheggi asfaltati, cantieri e cave. Approvati da Regioni e Comuni soprattutto nelle zone più urbanizzate. Come l’intera fascia pedemontana tra Piemonte, Lombardia e Veneto, ormai diventata un’unica caotica megalopoli padana. Le coste della Romagna, Marche e Abruzzo, nei tratti rimasti liberi dai palazzoni vista mare costruiti negli anni del boom economico. Le poche aree ancora agricole attorno alle grandi città, come Roma, Catania, Firenze, Torino, Milano. E chilometri di coste fino a ieri intatte, soprattutto in Sardegna, Sicilia e Salento. Cemento e asfalto continuano a consumare il fragile territorio italiano dal secondo dopoguerra, senza soste: più di mezzo secolo di sacco edilizio. L’Istat pubblica i dati ufficiali dei «permessi di costruire» rilasciati negli ultimi vent’anni. Dal 2000 al 2007 in Italia sono stati autorizzati, ogni anno, più di 40 milioni di metri quadrati di nuovi fabbricati (con punte di oltre 52). La velocità dell’assalto al territorio si è ridotta, di poco, con la recessione del 2008-2009, fino a scendere a 11 milioni nel 2014. Da allora è ripresa: solo nel 2019 i Comuni hanno concesso licenze per altri 17 milioni di metri quadrati e nel 2020, nonostante il Covid-19, per ulteriori 13 milioni. Nel primo trimestre del 2021 si è ripartiti alla grande, con tutti gli indici in aumento: più 16 per cento per gli edifici residenziali, più 26 per i capannoni. I dati dell’Istat sono allucinanti ma parziali: non conteggiano la massa degli abusi edilizi, che nel nostro Paese è incalcolabile. E tutte le superfici esterne ai fabbricati, anche se ricoperte da strade o parcheggi asfaltati. Quindi la crosta è molto più grande. A misurarne la costante espansione sono i ricercatori dell’Istituto superiore per la protezione dell’ambiente (Ispra), che mettono a confronto le fotografie aree della stessa zona, a distanza di dodici mesi. Risultato: solo nel 2020, mentre l’edilizia sembrava concentrata a ristrutturare l’esistente con i bonus fiscali, sono stati consumati oltre 56 chilometri quadrati di suolo italico. E ne sono tornati liberi solo 5, per lo più in cantieri abbandonati dopo la fine dei lavori. Quindi il rapporto tra verde e cemento è rovinoso: per ogni chilometro quadrato restituito alla natura, bene o male, la crosta se ne mangia altri dieci. Le direttive dell’Unione europea prevedono di consumare sempre meno suolo, con riduzioni graduali e continue, per scendere a zero entro il 2050. In Germania e nei Paesi scandinavi importanti amministrazioni pubbliche hanno invertito da tempo la rotta, realizzando piani per ri-naturalizzare, anziché cementificare. «In Italia è un disastro, c’è un consumo di suolo continuo e insensato, che distrugge le ricchezze naturali, il paesaggio, la nostra identità territoriale», commenta il professor Paolo Pileri, che insegna Pianificazione urbanistica al politecnico di Milano e fa parte del comitato scientifico che ha curato il rapporto dell’Ispra: «Purtroppo siamo un Paese fondato sulla speculazione edilizia, che è una rendita parassitaria, utile a pochissimi e dannosa per tutti gli altri cittadini». Il problema è politico. E legale. Un buon terreno agricolo può valere 20-30 euro al metro quadrato. Se diventa edificabile, con l’aiuto di politici e funzionari compiacenti, lo si vende ad almeno 200-300, senza fare niente. Spendi uno, incassi dieci: solo con la droga si guadagna di più. Quindi ogni Comune, Provincia e Regione è un gran bazar dei piani regolatori, prima, e poi delle deroghe, varianti e piani casa. Un mercato marcio, dominato dalla politica e manovrato da progettisti di regime e da una casta di speculatori sempre più ricchi. Mentre l’onesto cittadino, che vorrebbe solo aprire una finestra nella camera del figlio o rendere abitabile un sottotetto, non ha diritti: è un suddito, in balia del capo ufficio tecnico, sovrano custode del regolamento edilizio comunale, il libro delle regole di abitabilità, che in Italia cambiano in ogni municipio, ma per gli amici si interpretano. Cosa unisce l’ambiente, il paesaggio e la giustizia sociale lo spiega molto bene il professor Augusto Barbera, giudice della Corte costituzionale e massimo esperto di leggi urbanistiche. In un colloquio a distanza con l’architetto Stefano Boeri (pubblicato dalla Consulta con un podcast), il giurista chiarisce che la Costituzione «tutela il paesaggio come valore primario, sintesi di ambiente, cultura e storia, inserito tra i principi fondamentali». E aggiunge che la grande occasione perduta fu l’affossamento, negli anni Sessanta, di «una riforma avanzatissima», intitolata a un democristiano galantuomo, Fiorentino Sullo, che «assegnava alla collettività l’aumento di valore dei terreni edificabili, concedendo ai Comuni il potere di espropriare le aree fabbricabili a prezzi agricoli, come è sempre avvenuto nel Nord Europa». Attaccata dalla destra in polemica con il primo governo di centro-sinistra, la riforma fu accantonata dalla stessa Dc e infine sepolta da una schiera di giudici conservatori, che «imposero indennizzi a valori di mercato, per cui la rendita edilizia tornò in mano ai privati». Ma come si può salvare, oggi, ciò che resta del Belpaese? Barbera, nel suo intervento, fissa un principio che prefigura una soluzione: «L’ambiente è una materia di competenza esclusiva dello Stato». Dunque, sarebbe una perfetta attuazione della Costituzione varare una legge urbanistica nazionale, per imporre regole chiare in tutta Italia. Una legge-catenaccio, con limiti inderogabili, in nome dell’ambiente: nelle aree a rischio di frane o alluvioni, nelle oasi ecologiche o sulle coste dei mari, laghi e fiumi, i privati non possono costruire più niente. Si fanno solo opere di difesa idrogeologica, depuratori, acquedotti e lavori pubblici essenziali. Una riforma-modello di questo tipo esiste già, in Sardegna. Gian Valerio Sanna, come assessore regionale all’urbanistica nella giunta di Renato Soru, è stato l’artefice della «legge salva-coste», approvata nel 2004 con l’aiuto di un grande urbanista, Edoardo Salzano. «Per difendere le bellezze naturali, la nostra identità e il futuro del turismo, abbiamo fissato poche regole semplici», ricorda Sanna: «A meno di 300 dal mare, non si costruisce più niente. E in tutta la fascia fino a tre chilometri, si può solo demolire e ricostruire fabbricati già esistenti, con incentivi per rifarli più belli ed ecologici». L’attuale giunta regionale di centrodestra ha già varato l’ennesima contro-riforma, ora all’esame della Corte costituzionale. E l’ex assessore Sanna? Ha fatto come Soru: «Ho lasciato la politica». Una legge-catenaccio è invocata anche dagli urbanisti dell’Ispra, che definiscono il suolo (citando le risoluzioni del Parlamento europeo) «una risorsa limitata, non rinnovabile visti i tempi lunghi di formazione, che va preservata per le generazioni future». Perché assicura «molti servizi vitali per l’esistenza umana: fornitura di cibo, legno e materie prime, regolazione del clima, pulizia dell’aria e dell’acqua, controllo dell’erosione, mitigazione dei fenomeni idrogeologici estremi, riserva di biodiversità». Secondo i dati europei, il degrado dei suoli sta provocando «danni economici per oltre 50 miliardi di euro all’anno». In Italia però, con rare eccezioni, Comuni e Regioni continuano a cementificare «con false giustificazioni, come le previsioni smentite dai fatti di aumento dei residenti», denuncia il professor Pileri: «Il nostro Paese nel 2020 ha perso circa 175 mila abitanti, eppure il consumo netto di suolo è cresciuto di altri 5.174 ettari. Per ogni residente in meno abbiamo distrutto 292 metri quadrati di verde. E il peggio deve ancora venire: i piani urbanistici del passato, approvati ma non ancora attuati, non hanno una scadenza legale. Solo in Lombardia, la regione più cementificata d’Italia, risultano autorizzati 53 mila ettari di nuove costruzioni. Un’enormità: sono 530 chilometri quadrati. La prima cosa da fare è imporre limiti di tempo: dopo tre anni, il vecchio piano non vale più. Altrimenti qualsiasi norma contro il consumo di suolo sarà una presa in giro. Ma mi pare che la politica abbia altre priorità». Per avere un’Italia più verde, forse una soluzione c’è: basta colorare di verde il cemento.

I cento anni dalla nascita di Antonio Cederna, il giornalista che difendeva l’ambiente. Marta Bonafoni su L'Espresso il 26 ottobre 2021. Il 27 ottobre 1921 nasceva il cronista che, sul Mondo e sull’Espresso, ha fatto della difesa del territorio la sua battaglia. Una lezione che anche la politica ha imparato ad ascoltare. Era il 1953 quando Antonio Cederna salì su un autobus che dal centro di Roma lo avrebbe portato per la prima volta lungo l’Appia Antica. Nei palazzi della politica si era sparsa voce che sull’antica strada simbolo di Roma in tutto il mondo fosse cominciata una colossale lottizzazione, così Cederna - allora cronista del Mondo - volle andare a verificare in prima persona. Salì su un mezzo che dal centro storico lo portò fino al Mausoleo di Cecilia Metella e si trovò di fronte l’impensabile: ville con piscina, pergolati, case dalle strane forme, sorgevano a decine come un tutt’uno con i muri dell’Antica Roma; per accedervi disinvolte gettate di cemento erano state sparse sopra la pavimentazione di basalto con una leggerezza pari alla vita che dietro ai quei cancelli conducevano attori, produttori, diplomatici e anche parlamentari. “I gangster dell’Appia”, li ribattezzò Cederna in un articolo ancora oggi considerato un punto di riferimento indispensabile per chi ha a cuore la tutela del paesaggio e il rispetto dell’ambiente. Sono passati sessantotto anni da quel viaggio in bus, cento dalla nascita di uno degli intellettuali più tenaci e visionari che il nostro Paese abbia conosciuto, e sono moltissime le iniziative che – specialmente a Roma – stanno ricordandone la figura e rilanciandone le battaglie. A farsene carico in questo mese di ottobre sono stati soprattutto i figli Giulio, Giuseppe e Camilla, che con delicatezza, competenza e dolcezza - affiancati da Italia Nostra e da decine di amici e amiche di Antonio - hanno attualizzato la figura del loro papà sintonizzandola con le vertenze del presente e del futuro. C’è un prima e un dopo, anche per chi si batte nel nostro Paese contro la cementificazione e per la tutela della salute dei nostri territori: la pandemia fa ancora una volta da spartiacque tra ciò che è stato e ciò che auspicabilmente non dovrà mai più essere. Sono innumerevoli gli studi che certificano la connessione tra la diffusione del Covid e l’inquinamento delle città, così come l’impatto della densificazione sulla diffusione del contagio. Contemporaneamente il virus, con la riscoperta - specialmente fra il primo e il secondo lockdown - dell’importanza degli spazi verdi, dell’aria pulita, dei parchi come luoghi di incontro e di relazione salubri e “sicuri”, ha spalancato di fronte agli occhi dell’opinione pubblica la desiderabilità di città sempre più verdi, dove il rapporto tra campagna e cemento veda finalmente la prima prevalere sul secondo, per un diverso modello di sviluppo. Lo scriveva anche Cederna: “L’Appia è un indispensabile serbatoio di aria pura e spazio libero, baluardo per la salute pubblica”. Più di quarant’anni dopo, la cronaca è arrivata a dargli finalmente una inappellabile ragione. E insieme a lei l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ormai promuove il modello delle città “One Ealth” dove l’ecosistema tutto concorra alla salute pubblica, così come gli architetti di ultima generazione che individuano nei “corridoi verdi” non più soltanto dei fondamentali polmoni di biodiversità, ma anche i principali alleati delle città nella lotta ai cambiamenti climatici e al riscaldamento del Pianeta. “Il sogno di Cederna”, rimasto colpevolmente per troppi decenni uno slogan privo di conseguenze, oggi ha suonato una sveglia che non è più possibile ignorare. Alla Regione Lazio siamo impegnati a colmare questo ritardo ormai da tempo: nel 2018 abbiamo prima approvato il Piano di assetto del Parco dell’Appia Antica e poi ampliato il suo perimetro del 33 per cento, allargando il territorio tutelato dal centro di Roma fino al Divino Amore. Nel 2021 poi, lo scorso agosto, abbiamo fatto ciò che “il sogno” ci indicava, estendendo a nord il perimetro del Parco dei Castelli Romani e così permettendo la congiunzione col parco dell’Appia, dando vita a quel corridoio verde da Caracalla a Monte Cavo che tante volte Antonio Cederna aveva immaginato e descritto. Ventimila ettari di parco in tutto, che non vanno vissuti semplicemente come un museo a cielo aperto, ma come quell’incontro tra paesaggio, storia, natura, archeologia, agricoltura, ambiente, che un tempo durante il Grand Tour attraeva scrittori e artisti da tutto il mondo, e che oggi può e deve diventare il cuore di un nuovo modello di sviluppo per Roma: sostenibile, generativo, rispettoso dell’ambiente e delle persone, attivatore di nuovi lavori, di nuovo welfare e di rinnovate relazioni all’interno della comunità. Se Antonio Cederna salisse di nuovo oggi su quell’autobus, troverebbe innanzitutto un paesaggio culturale in trasformazione, come un viaggio al contrario: allora, la città di cemento che espandendosi si mangiava la campagna. Oggi, un’onda di tutela e valorizzazione che chiede a gran voce di poter godere dell’Appia Antica in tutta la sua potenza e la sua bellezza. Il sogno finalmente diventa realtà, senza però smettere di far sognare. Oggi, cento anni dopo la sua nascita, possiamo associare un odore alla penna implacabile e mai stanca di Antonio Cederna: i suoi scritti, le sue idee, profumavano e profumano di futuro.

Marta Bonafoni è consigliera della Regione Lazio, eletta nella Lista civica Zingaretti

Antonio Cederna e le denunce contro il mattone selvaggio: “Il nostro paesaggio sacrificato in nome del consenso”. Il 27 agosto del 1996 scompariva il giornalista impegnato sui temi ambientali. Riproponiamo una sua inchiesta scritta per l’Espresso sul consumo del territorio nel 1984. Terribilmente attuale. Antonio Cederna su L'Espresso il 27 agosto 2021. Secondo calcoli attendibili entro l'anno 2100 tutta l'Italia sarà consumata e finita, non ci sarà più un metro quadrato che non sia cementificato e asfaltato. È una proiezione basata su quel che è successo fin qui: nell'ultimo ventennio milioni di ettari di terreno agricolo (un decimo dell'Italia) sono stati sommersi da case, strade, industrie, discariche, cave, eccetera, pari a un consumo annuo di territorio dello 0,5-0, 7 per cento. Già il 50 per cento del suolo risulta impermeabilizzato, e non è più in grado di assorbire le piogge; frane e alluvioni si succedono ogni tre mesi e ci costano 3 mila miliardi l'anno: ma non abbiamo ancora la legge che prevenga il dissesto idrologico. Ogni anno da colline e alvei di fiumi vengono selvaggiamente asportati 300 milioni di tonnellate di materiali, ma non ab­biamo ancora una legge nazionale che regoli l'attività estrattiva. Siamo l 'ultimo paese del mondo quanto a estensione di aree protette (solo l'uno e mezzo per cento del bel paese), ma non abbiamo ancora la legge quadro per la tutela dell'ambiente naturale. In omaggio alla rendita fondiaria abbiamo le peggiori città d'Europa, prive degli spazi pubblici elementari e con la più bassa dotazione di verde, ma non abbiamo ancora una legge che disciplini il regime dei suoli.- E ogni anno vanno a fuoco in media 50mila ettari di bosco. Quello che ancora non si è riusciti a calcolare è quanto di questo irreversibile consumo di territorio è dovuto a quell'altra calamità che è il dilagare dell'abusivismo edilizio (sarebbero più di 3 milioni gli alloggi fuori legge), che divora terreni produttivi, archeologici, a difesa delle falde acquifere, foreste e litorali, inquinando acqua e suolo, aggravando il collasso generale. È ormai un fenomeno di massa al di sotto del quarantaduesimo parallelo (praticamente dalla provincia di Roma compresa in giù), che ha perso il carattere originario (abusivismo cosiddetto "di necessità") per diventare un'operazione affaristico-speculativa, che trasforma l'illegalità in norma, e scardina ogni possibilità di pianificazione urbanistica. La sua gravità fu messa bene in evidenza tre anni fa al convegno di Magistratura democratica a Paestum, templi circondati da oltre 2 mila manufatti abusivi: «Insieme alla delinquenza organizzata, al terrorismo e alla camorra, l'illegalità edilizia rischia di dissolvere lo Stato democratico». Il disprezzo per il territorio considerato come una res nullius, l'irridente insofferenza per ogni vincolo di interesse pubblico, la presunzione che il diritto di edificare sia compreso nel diritto di proprietà (come del resto ritengono i luminari della Corte costituzionale) sono le principali distorsioni mentali su cui sembra si sia finalmente raggiunta l'unità degli italiani. La dimensione del fenomeno è sconvolgente. Seimila case abusive intorno a Selinunte, 3 mila intorno ad Agrigento, altre migliaia (per 60 mila posti letto) sulle pendici del l'Etna (per difenderne qualcuna dalla lava si è organizzato l'insensato spettacolo pirotecnico delle mine): dei 500 mila allogi costruiti in Sicilia tra il '71 e l 81, la facoltà di ingegneria dell'università di Palermo ha calcolato che solo un quinto risultano regolari, del milione di stanze costruite in Calabria nello stesso decennio, il 70-80 per cento sono abusive, e a decine di migliaia si contano le costruzioni fuorilegge che hanno distrutto le coste calabre e pugliesi. Un nuovo Impulso all'abusivismo è venuto naturalmente dall'aspettativa del condono (il primo testo di legge venne approvato dal Senato nell'80), e l'esplosione si è avuta negli ultimi sei mesi, da quando fu presentato (e poi bocciato) il decreto del 5 ottobre scorso (la Camera ha appena approvato il disegno di legge governativo). Il caso che più ha fatto rumore sono i cento edifici dell'Argentario: ma a Roma in questi sei mesi l'abusivismo è aumentato del 20 per cento; a Napoli sono sorti edifici di dieci piani nella periferia occidentale, altre costruzioni a Posillipo, e sulle pendici del cratere-foresta degli Astroni, altre ai Camaldoli in aree sotto esproprio per verde pubblico: mentre vengono sommerse zone archeologiche insigni, dall'antica Stabia alla necropoli di Cuma nei Campi Flegrei, nonostante il rischio sismico e vulcanico. Scopo dichiarato del condono è quello di rastrel1are denaro per l'erario; una pia illusione, dal momento che somme ben maggiori dovranno essere spese per il "recupero" degli insediamenti abusivi, per dotarli dei servizi mancanti e restituire ad essi un minimo di dignità urbana (solo a Roma sono già stati spesi mille miliardi). Per questo, una drastica proposta è stata avanzata da Italia Nostra: rinunciare per il momento a ogni forma di sanatoria, e puntare invece tutto sulla repressione, emanando subito norme certe, tempestive, efficaci e imparziali perché il fenomeno venga stroncato sul nascere, modificando quanto previsto dalla legge Bucalossi del '77. Questa, nei casi di opere costruite senza concessione o in totale difformità da essa, prevede che il sindaco proceda all'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune o alla demolizione: provvedimenti che raramente hanno potuto essere attuati per l'estenuante contenzioso e i pesanti condizionamenti cui i sindaci sono normalmente sottoposti, per ragioni elettoralistiche, clientelari, camorristiche, mafiose. Ad esempio, a Roma su 30 mila casi abusivi accertati nell'ultimo triennio, il Comune è riuscito ad acquisire appena 128 manufatti, pari allo 0,4 per cento; a Napoli, negli ultimi sei anni, nonostante le ordinanze, le acquisizioni sono rimaste sulla carta (e le demolizioni sono state 72 su migliaia di pratiche). Del resto, come potrà mai il Comune utilizzare e gestire edifici malfatti, mal ubicati eccetera? La demolizione appare invece come il deterrente decisivo, ma, perché si realizzi - sostiene Italia Nostra - non basta l'ordinanza del sindaco, deve essere il risultato di una sentenza penale di condanna che trasformi l'illecito in delitto, da punire con la reclusione fino a tre anni (invece dell'arresto), e con una multa fino a 50 milioni (invece della contravvenzione), con eliminazione della sospensione condizionata, come fa la legge sulle sofisticazioni alimentari; e si propone anche l'arresto immediato per la violazione dei sigilli ai cantieri sequestrati. Si spaventerebbero così i compiacenti prestanome, si eviterebbero le lungaggini e i ricorsi, alla fine dei quali il costruttore abusivo fa trovare furbescamente occupato l'edificio da demolire. La proposta non è stata accolta, e la discussione proseguirà ora al Senato: certo è che la legge (per quanto qua e là emendata soprattutto per merito dell'opposizione di sinistra) si risolverà in un premio per gli abusivi e un danno per la collettività. Finché la maggioranza di politici e amministratori cercherà il consenso al livello più basso e considererà il territorio una merce di scambio, ben pochi passi avanti si faranno: ambiente, paesaggio e territorio sono beni comuni, collettivi, diffusi, e ogni attentato va considerato un delitto. 

Antonio Cederna, un grido per la natura. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2021. L’Appia Antica, le coste sarde, il Parco d’Abruzzo... le infinite battaglie dell’ambientalista scomparso 25 anni fa. Dedicò la vita alla difesa del patrimonio paesaggistico e culturale. Antonio Cederna (Milano, 27 ottobre 1921-Sondrio, 27 agosto 1996) lavorò per «Il Mondo» di Pannunzio, «Corriere della Sera», «la Repubblica» e «L’Espresso». I suoi materiali sono conservati nell’Archivio Cederna a Roma. «La guerra alla natura, in Italia, continua. I disastri che affliggono periodicamente il nostro paese, ultimi quelli del novembre scorso, non ci hanno ancora aperto gli occhi sui pericoli che questa guerra comporta». Esordì così, sulla «mitica» spalla della Terza Pagina sul «Corriere della Sera», il grande Antonio Cederna, per il quale quest’anno ricorrono a fine ottobre il centenario della nascita e venerdì prossimo i venticinque anni della scomparsa. Era il 7 marzo 1967, Venezia e Firenze erano ancora ferite e infangate dalle acque del novembre ’66 e quell’articolo, a rileggerlo oggi, mette ancora i brividi come fosse stato scritto ieri mattina nella scia dei catastrofici incendi di quest’estate del 2021 che minacciano inverni di altre frane e altri allagamenti. «Due cose almeno avrebbero dovuto imparare», gli italiani, scriveva l’ambientalista fortemente voluto a via Solferino dalla Zarina Giulia Maria Crespi, nella prima delle sue quattro puntate sull’assalto ai parchi e ai boschi italiani: «La prima è che alluvioni e straripamenti hanno poco di fatale e che sono in gran parte il frutto della nostra imprevidenza, poiché abbiamo sempre, sistematicamente, ignorato quella disciplina di base che si chiama “conservazione della natura” e dei suoi delicati e molteplici equilibri; la seconda, corollario della prima, è che la distruzione di ingenti beni materiali e culturali è la conseguenza diretta della leggerezza con cui abbiamo sconvolto l’ambiente naturale che ci circonda, grazie a interventi di settore e non coordinati, che ci hanno portato a disboscare i monti provocando la furia delle acque selvagge...». Nato a Milano nel burrascoso 1921, erede di una famiglia valtellinese della borghesia lombarda illuminista (copyright Treccani) proprietaria dell’omonimo cotonificio, fratello minore della non meno famosa giornalista Camilla Cederna, riparato in Svizzera nel ’43 per evitare l’arruolamento nell’esercito di Salò, internato in un campo di lavoro vicino a Berna, rientrato a Milano nella primavera del ’45, laureato a Pavia in archeologia, trasferitosi a Roma per specializzarsi, finì per appassionarsi tanto al nostro patrimonio storico da dedicare alla sua difesa la vita intera. Prima collaborando con Elena Croce, poi cominciando a scrivere (l’avrebbe fatto fino alla chiusura della rivista) per «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Dove scoprì il giornalismo d’inchiesta allargando via via i suoi interessi dall’archeologia all’ambiente, al paesaggio, alla difesa dei tesori artistici e monumentali, alla guerra contro il degrado morale, edilizio, urbanistico del Bel Paese a partire dall’assalto palazzinaro alla Regina Viarum, l’Appia Antica. Una guerra combattuta per quattro decenni a colpi di articoli, denunce, libri, convegni, proposte di legge (come quella di rimuovere i Fori Imperiali voluti dal Duce devastando il cuore di Roma) fino a contare almeno 140 interventi. Fino a guadagnarsi un nomignolo strepitoso: l’«Appiomane». «Chiediamo perdono alla memoria dei Vandali, per l’opinione comune che li calunnia: Roma e l’Italia sono state distrutte dai romani e dagli italiani». Così iniziava il memorabile I vandali in casa, il volume che raccoglieva per l’editore Laterza una serie di pezzi straordinari di quegli anni pannunziani, pubblicato nel 1956 e ripreso e rilanciato cinquant’anni dopo da Francesco Erbani, «I vandali che ci interessano sono quei nostri contemporanei, divenuti legione dopo l’ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato: proprietari e mercanti di terreni, speculatori di aree fabbricabili, imprese edilizie, società immobiliari industriali commerciali, privati affaristi chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale, urbanisti sventratori, autorità statali e comunali impotenti...». Col suo «profilo acuminato di un rapace buono», come lo fotografò il critico letterario Enzo Golino, Antonio Cederna ficcò per mezzo secolo il naso in una miriade di affari più o meno loschi, stupefacenti e scostumati di ogni genere. Rigoroso: «Lo spartitraffico delle autostrade italiane è il più stretto del mondo: appena tre metri, contro i 4,50 delle autostrade di Olanda e Francia (dove nuove norme prevedono 5 metri), il 5 metri di Danimarca e Svizzera, il 5,50 di Austria e Germania, il 5,60 della Gran Bretagna, il 6,50 della Finlandia...». Durissimo: «Ai nostri migliori tecnici fa difetto il senso morale della rivolta contro il brutto e l’indecente». Folgorante: «L’Italia è un Paese a termine, dalla topografia provvisoria, che si regge su un avverbio: questa foresta non è ancora lottizzata, quel centro storico è ancora ben conservato, questo tratto di costa non è ancora cementificato». Irremovibile sullo stravolgimento estroso dei centri storici: «La qualità dei progetti non entra qui in questione, e tanto meno la supposta difesa dei diritti dell’arte e dell’architettura moderna: poiché uno dei presupposti della modernità è appunto quella di sapersi adeguare alle scelte urbanistiche e quindi di rinunciare, ove occorra, a costruire». Non c’è tema che «Tonino» negli anni del «Corriere», prima di passare nel 1982 a «la Repubblica» (postumi, ahinoi, dello scandalo P2?), non abbia trattato azzannando quanti additava come i nemici del patrimonio paesaggistico e storico italiano. Come i costruttori dell’hotel Hilton a Monte Mario tirato su «in spregio al piano regolatore che al suo posto prevedeva un grande piazzale panoramico». O i ristoratori e bottegai romani in rivolta contro la cacciata delle auto da Piazza Navona come se «le prime avanguardie della cavalleria cosacca fossero comparse all’orizzonte della città leonina». O Italstrade e i progettisti scriteriati che volevano far passare l’autostrada Alemagna per Cortina d’Ampezzo portando «frastuono ed esalazioni e congestione di mezzi là dove tutto si dovrebbe fare per aumentare il carattere appartato della località». O gli affamati edificatori di palazzine in Gallura: «Anche lungo le splendide, favolose coste della Sardegna sale la sinistra marea del cemento e dell’asfalto…». Un allarme dopo l’altro, una denuncia dopo l’altra. Come quella (titolo: «Miniappartamenti di lusso al posto del museo Torlonia») sullo svuotamento del grande palazzo in via della Lungara che conteneva la più grande collezione (privata) di statue antiche romane per farne un alveare di novanta «mini» costruiti senza licenza. O sulle motoseghe nel Parco Nazionale dell’Abruzzo: «A chi passeggia oggi delle valli del Parco pare di trovarsi in una immensa segheria all’aperto...». E via così...Un impegno quotidiano. Coerente. Testardo. Perseguito anche come membro fondatore di Italia nostra (anche se preferì non comparire ufficialmente), consigliere comunale a Roma, deputato (indipendente di sinistra) alla Camera, anima di centinaia di dibattiti, convegni, proteste... Al punto che quando i figli Giuseppe e Giulio si ritrovarono con amici e collaboratori a riordinare tutto si resero conto di avere in mano una montagna di materiale prezioso. Con dentro tante pepite d’oro. Frutto del lavoro di un uomo colto e infaticabile cui volle rendere omaggio anche Indro Montanelli che un giorno, battendo e ribattendo su temi che lui pure aveva cari, scrisse: «Sono cose che Antonio Cederna, il più combattivo e meglio documentato difensore del nostro patrimonio artistico, ha denunziato da un pezzo».

Greta: "Adulti, sul clima ci avete tradito". Greta Thunberg,  Adriana Calderón,  Farzana Faruk Jhumu e Eric Njuguna su La Repubblica il 22 agosto 2021. La giovane attivista per il clima firma, insieme ai suoi coetanei, questo manifesto in vista di quello che rischia di essere l’ultimo appuntamento utile per fare qualcosa: la Conferenza di Glasgow. La settimana scorsa, alcuni dei più affermati studiosi al mondo di cambiamento del clima hanno confermato che gli esseri umani stanno arrecando cambiamenti irreversibili al nostro pianeta e che gli eventi atmosferici estremi non faranno che diventare sempre più violenti. Questa notizia è «un allarme rosso lanciato all’umanità», ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 22 Agosto 2021. Passata la stagione in cui quasi ogni star di Hollywood rilevava una vigna in Chianti o in Napa Valley o in Rioja, è il momento della tequila delle star. Una moda redditizia, che ha però pesanti ricadute sull'ambiente: i cinque stati messicani dove da protocollo deve crescere l'agave per poter chiamare il liquore «tequila» lamentano che la coltivazione d'agave sempre più intensiva causi penurie d'acqua, deforestazione e impoverimento. Il primo a fondare il suo brand di liquore d'agave - «Casamigos» - era stato George Clooney nel 2013, con l'amico Rande Gerber, marito di Cindy Crawford; lo hanno imitato negli anni Rita Ora, che produce dal 2019 la tequila «Prospero»; Michael Jordan, che ha creato «Cincoro»; Kendall Jenner con «818» (prefisso californiano, ma l'agave è messicana); Arnold Schwarzenegger con la «Lobos 1707»; l'ex star del wrestling Dwayne Johnson cioè «The Rock» (Teremana). Tutte le etichette parlano di «produzione artigianale» o «distillazione sostenibile». Ma il volume d'affari sembra indicare il contrario. L'anno scorso il Messico ha prodotto 273 milioni di litri di tequila, otto volte la produzione di vent' anni fa, per un giro d'affari di 11 miliardi di dollari: tantissimo per un territorio, quello in cui da regolamento deve crescere l'agave per poter parlare di «tequila», di appena cinque Stati messicani. Solo in Guanajuato, Jalisco, Michoacan, Nayarit e Tamaulipas, e solo tra i mille e i duemila metri d'altitudine, cresce l'«agave blu» o «agave tequilana» necessaria per il liquore. Non solo, ma la polpa della pianta deve maturare almeno sette anni prima di essere utilizzabile. Una coltivazione tutt' altro che a basso impatto: per produrre un litro di tequila servono almeno dieci litri d'acqua, e le scorie acide contaminano i terreni. Soprattutto per coltivare l'agave blu è necessario distruggere migliaia di ettari di foresta: il solo stato del Jalisco, che è quello che più ne produce, lamenta una deforestazione di 16 mila ettari all'anno. E se prima la succulenta costava pochi centesimi ora le sue foglie arrivano a valere 22 dollari al chilo. Una bottiglia di «celebrity tequila», del resto, costa dai 50 dollari della 818 di Kendall Jenner ai 72 euro della Prospero, fino al centinaio di dollari per la Cincoro di Michael Jordan. Come le sorelle Kardashian insegnano non c'è modo più rapido di accumulare soldi, per una star, che lanciare la propria linea di prodotti; la stessa Rihanna, di fama pur planetaria, è entrata ora nella lista delle miliardarie di Forbes grazie ai rossetti della sua linea Fenty. «Ma non credo che per loro fare tequila sia un fatto di soldi», scrive ad esempio un'esperta, Caitlin Johnson, di Oaxaca, sulla bacheca (infiammata) del gruppo Mezcalistas. «Ne hanno già. È più un fatto di status, di fascino. Acquistato a spese di una cultura che non è la loro. Non conosco un solo mezcalero che si sia arricchito con questa improvvisa moda della tequila, molti produttori continuano a non guadagnare più di ottomila dollari l'anno». Lo spettro della «cultural appropriation», peccato capitale in quest' epoca, rischia così di ritorcersi contro i mezcaleros di Hollywood e i loro marchi. George Clooney lo ha capito prima di tutti, e dopo cinque anni dalla fondazione ha venduto il marchio Casamigos alla multinazionale Diageo per un miliardo di dollari.

Tutti i limiti dei catastrofisti green. Martina Piumatti su Inside Over il 23 agosto 2021. Incendi, siccità, temperature invivibili, uragani, inondazioni, terre sommerse, risorse naturali esaurite, specie animali estinte, colture arse, popolazioni al collasso. Uno scenario apocalittico “irreversibile” secondo l’ultimo rapporto dell’Ipcc sugli effetti del riscaldamento climatico. Con un solo responsabile: noi. Ma se le cose non stessero proprio così? E se i super esperti dell’Onu si sbagliassero?

La “truffa” dei catastrofisti sul riscaldamento climatico. Nicola Scafetta, docente di climatologia all’Università Federico II di Napoli e autore di Clima. Basta catastrofismi, non fa sconti al report dall’Intergovernamental panel on climate change delle Nazione Unite. “È un rapporto di parte ed esageratamente pessimista – spiega il climatologo a InsideOver – basato su una selezione degli studi più allarmistici, ignorando tutto il resto della letteratura scientifica che dà un’interpretazione meno allarmante dei cambiamenti climatici e che enfatizza gli effetti naturali rispetto a quelli antropici. Il punto è che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati e sempre ci saranno. La terra si è riscaldata di un grado dal 1900 ad oggi. E le cause di questo riscaldamento sono due: la natura, che segue cambiamenti climatici ciclici, e l’uomo. Però, la letteratura scientifica è molto chiara nell’affermare l’incertezza nel quantificare i contributi antropici. E questa incertezza non è completamente messa in risalto nel rapporto, che è di parte”. Eppure non mancherebbero le prove del carattere naturale e non “irreversibile” del riscaldamento climatico, che la narrazione dominante vorrebbe imputare unicamente all’uomo. “Come ricostruito in tantissimi studi – continua Scafetta – ci sono stati periodi con temperature molto più alte di oggi. Dall’optimum dell’Olocene al periodo romano, a quello medievale. Sono stati studiati i livelli dei ghiacciai alpini durante gli ultimi 10 mila anni e si è scoperto che il livello dei ghiacci era molto più basso di oggi. Sulle Alpi si trovano dei tronchi di albero in luoghi dove ora non cresce nulla. E questo significa che in alcuni periodi i ghiacciai erano più ristretti, la vegetazione cresceva più in alto e quindi faceva più caldo di oggi”. Ma allora le temperature record raggiunte negli ultimi giorni e gli incendi che divampano ovunque? “Bisogna stare molto attenti – avverte lo scienziato napoletano – a non confondere il clima con i fenomeni meteorologici istantanei e locali. Il clima muta su lunghe scale temporali, mentre il meteo fluttua giornalmente. Questi giorni di caldo sono dovuti alla corrente d’aria calda proveniente dal Sahara, una situazione meteorologica molto particolare e contingente. Che poi, ovviamente, può favorire gli incendi. Ma le temperature record c’entrano poco con il riscaldamento climatico”.

La “demonizzazione” infondata della CO2. Prendendo per buono il modello descritto dall’Ipcc, nell’arco di due mila anni il caldo sarebbe esploso proprio negli ultimi vent’anni. “Se poi, però, andiamo a vedere la temperatura nel mondo nei primi mesi del 2021, – puntualizza il climatologo Scafetta – troviamo un calo rispetto all’anno scorso. Quindi, in realtà in un anno c’è stato un rinfrescamento delle temperature”. Sarà. Ma intanto il catastrofismo apocalittico impera ovunque. Dagli esperti ai media, alla politica, agli ambientalisti barricaderi in stile Greta Thumberg, tutti martellano in un’unica direzione: ricordarci ad ogni ora che la fine è vicina. E la colpa è nostra, che con l’emissione incontrollata di CO2 nell’atmosfera abbiamo avvelenato il pianeta. “Ma il fatto che ci sia una quantità di CO2 in più dovuta all’attività antropica – controbatte Alberto Prestininzi, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze della Terra a La Sapienza di Roma e tra i firmatari della Dichiarazione europea sul clima, in cui 500 scienziati di 13 Paesi affermano che “l’emergenza climatica non esiste” – non è dimostrato abbia un ruolo nel riscaldamento climatico, che è la più grande ‘truffa’ del secolo. La CO2 è il gas verde per eccellenza, alla base della fotosintesi e del ciclo degli zuccheri, senza cui non ci sarebbe la vita sulla terra. Tra l’altro negli ultimi cinquant’anni, – continua Prestininzi che è anche presidente onorario di uno spin off della Sapienza di Roma NHAZCA (Natural Hazard Control and Assessement) che si occupa di rilevamenti satellitari – come si può osservare dei satelliti, il pianeta terra è diventato più verde perché questa piccola quantità in più di CO2 ha favorito lo sviluppo della vegetazione. Nel Sahel dove prima il deserto stava avanzando ora sta retrocedendo”. La CO2, come sottolinea anche Ernesto Pedrocchi, professore emerito di Energetica al Politecnico di Milano, non sarebbe dunque un fattore nocivo e da “demonizzare” comparabile agli inquinanti primari (ossidi di zolfo e di azoto, incombusti e particolato). Ma addirittura contribuirebbe a un generale “rinverdimento del pianeta”. Non solo. Nel recente webinar Dialoghi sul clima organizzato dal Collegio degli Ingegneri di Padova, l’esperto del Politecnico di impatto antropico sul clima, contesta anche la responsabilità umana dell’aumento globale di CO2 nell’atmosfera. “L’emissione antropica di anidride carbonica – spiega Pedrocchi, che è tra i 145 firmatari di una petizione finalizzata proprio a ridimensionare il ruolo dell’uomo nell’aumento della CO2 e nel riscaldamento globale – è aumentata a partire dal 1900, nonostante la crescita della concentrazione di CO2 si registri già dal 1700. Dimostrazione dell’assenza di responsabilità da parte dell’uomo”. Un’altra prova a nostra discolpa deriverebbe dalla differenza di emissioni antropiche tra emisfero nord ed emisfero sud. “Malgrado la CO2 emessa da parte dell’uomo sia maggiore nell’emisfero nord – rileva il professore emerito del Politecnico -, si può vedere come l’aumento di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera sia pressoché identica nei due emisferi, cosa che non avviene, per esempio, con il metano, per cui si registra una differenza netta. Questo fa pensare che l’emissione antropica di CO2 giochi un ruolo marginale nell’aumento di concentrazione totale nell’atmosfera”. Una ricostruzione che, ridimensionando sulla scorta di dati scientifici il ruolo dell’uomo nel cambiamento climatico, metterebbe in dubbio la verità colpevolizzante sposata dal report dei super esperti ingaggiati dall’Onu. 

Lo studio del foro scientifico dell'ONU. Tutti i numeri del rapporto IPCC: il più dettagliato di sempre sul cambiamento climatico. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Agosto 2021. Non tutto è perduto, ma il tempo sta scadendo. Questi i termini in cui il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite (ONU), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, mette l’emergenza climatica. E lo fa nel sesto dossier del Panel, quello più dettagliato mai elaborato sul tema. Le conclusioni sono state presentate ieri in conferenza stampa. E hanno segnalato come i cambiamenti climatici sono “inequivocabilmente” causati dagli esseri umani e che peggioreranno sempre di più se non ci sarà un rapido taglio delle emissioni inquinanti. L’ICPP è stato creato dalle Agenzie delle Nazioni Unite UNEP (UN Environmental Program e WMO (World Meteorological Organisation) nel 1988 con il compito di redigere a scadenza regolare rapporti di valutazione sulle conoscenze scientifiche relative al cambiamento climatico, ai suoi impatti, ai rischi connessi e alle opzioni per la mitigazione e l’adattamento. I rapporti sono divisi in tre parti: una che valuta le nuove conoscenza scientifiche, un’altra che valuta gli impatti del cambiamento e le azioni da intraprendere, una terza che valuta azioni di mitigazione. I rapporti sono mediamente lunghi tra le duemila e le tremila pagine. Quello presentato il 9 agosto è il rapporto del Working Group I, tre gli scienziati appartenenti a un’istituzione italiana, tutti ricercatori dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Gli altri due sono in fase di elaborazione e saranno presentati nei primi mesi del 2022. Secondo lo stesso rapporto, quindi, non tutto è perduto ma molto dipende dalle scelte politiche che i governi prenderanno nell’immediato e nei prossimi anni sul clima. Gli interventi però dovranno essere piuttosto radicali.

1,5°C: la soglia di riferimento per evitare danni catastrofici. Il rapporto specifica che non è ancora troppo tardi per impedire che nei prossimi decenni le temperature aumentino oltre questo livello rispetto al periodo pre-industriale ma bisogna agire in fretta

1,09°C: la media globale della temperatura del pianeta nel decennio 2011-2020, superiore rispetto al periodo 1850-1900

1,1°C: l’aumento delle temperature globali causato dalle attività umane, rispetto al periodo precedente alla rivoluzione industriale, tra il 2011 e il 2020

90%: la percentuale delle Regioni del mondo dove, rispetto agli anni Cinquanta, si sono verificate ondate di caldo più intense e frequenti. La tendenza è strettamente correlata allo scoppio di incendi di enormi dimensioni

5: gli ultimi cinque anni, per il rapporto i più caldi mai registrati dal 1850

2°C: se le temperature dovessero continuare ad alzarsi incendi e periodi di siccità saranno sempre più frequenti così come aumenteranno la frequenza di piogge torrenziali e alluvioni, anche in Europa, come successo lo scorso luglio tra Germania e Belgio

410: parti per milione (ppm) per CO2 delle emissioni antropiche dei principali gas serra nel 2019

1866: parti per miliardo (ppb) di metano per Co2 nel 2019

50: gli ultimi anni, quelli durante i quali la temperatura della Terra è cresciuta a una velocità senza uguali rispetto agli ultimi 2000 anni e durante i quali l’Artico si è riscaldato al doppio della velocità rispetto alla media globale

1000: l’estensione dei ghiacci dell’Artico durante l’estate è stata la più bassa degli ultimi 1000 anni

20 centimetri: il livello medio dell’innalzamento dei mari tra il 1901 e il 2020, una velocità mai osservata negli ultimi tremila anni

3.7: la crescita per millimetri all’anno del livello del mare fra il 2006 e il 2018

2 metri: il livello fino al quale potrebbe spingersi entro la fine del secolo l’innalzamento dei mari

26.000: l’acidificazione delle acque dei mari sta procedendo a ritmi mai visti negli ultimi 26mila anni

800.000: la concentrazione dei principali gas serra è la più elevata degli ultimi 800mila anni

2050: se entro il 2050 saranno azzerate le emissioni nette il surriscaldamento potrebbe essere contenuto entro i 2°C

7%: la percentuale delle emissioni da ridurre drasticamente all’anno per contenere il surriscaldamento 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 31 luglio 2021. Siete in ferie. Siete in gruppo. Avete parlato di vaccini per ore, e comincia a piovere. Un cretino accenna al riscaldamento globale (immancabile) e rimprovera le nostre responsabilità verso il Pianeta. Allora voi chiedetegli: «Sai quando è finita l'ultima era glaciale?». Lui tentenna. Rispondete: «Ci siamo ancora dentro: per era glaciale si intende un periodo in cui esistono le calotte polari, e in genere dura dai 12mila ai 50mila anni. Tra le cause accertate c'è il cambiamento dell'orbita terrestre attorno al Sole». Ma lui replica che l'uomo, però, ha la capacità di accelerare il riscaldamento e la fine di questa era glaciale. Voi allora fategli un'altra domanda: «Se noi riducessimo la storia della Terra in 24 ore (4,5 miliardi di anni in un giorno) lo sai a che ora spunterebbe l'uomo?». Lui tentenna. Rispondete: «L'homo sapiens compare alle 23.59 e 12 secondi. I dinosauri erano comparsi alle 22.48 e si erano estinti alle 23.40, se vuoi saperlo. La rivoluzione industriale esplode a meno di 4 millesimi dalla mezzanotte». Nel gruppo, a quel punto, una donna pone la sua domanda preferita: «E quindi?». Voi rispondete: «E quindi, per la Terra, siamo niente, un accidente di pochi secondi, benché abitato da megalomani che saranno spazzati via in un altro niente. Siamo un episodio che non può causare né risolvere problemi seri». Esattamente come questa rubrica, che va in ferie per un po'.

Noemi Penna per "la Stampa" l'11 agosto 2021. Lucifero è solo uno dei tanti esempi che abbiamo sotto i nostri occhi. Il clima africano ha preso il posto di quello mediterraneo e «deve essere chiaro che i cambiamenti che stiamo vivendo sono irreversibili». Non usa mezzi termini il professor Sandro Fuzzi, climatologo del Cnr e uno degli autori del sesto rapporto Intergovernmental Panel on Climate Change nelle Nazioni Unite: «Anche se per magia oggi stesso riuscissimo a eliminare ogni emissione, per diversi decenni continuerebbe comunque il riscaldamento globale».

Professore, durante la pandemia si sono registrati miglioramenti in termini di qualità dell'aria e dell'acqua, da Venezia a Taranto. È una buona notizia?

«Un fenomeno del tutto imprevedibile e inaspettato come il Covid ci ha permesso di ridurre le emissioni di inquinanti atmosferici e dei gas serra del 7%, dato enorme, mai sperimentato, ma purtroppo non ha prodotto alcun effetto sul clima. Questo perché la riduzione è stata troppo breve: gli inquinanti permangono in atmosfera per giorni o, al massimo mesi, ma per contrastare il riscaldamento climatico sono necessarie riduzioni sostanziali della concentrazione di CO2 e degli altri gas serra. Il Covid non solo non è bastato, ma siamo tornati in poco tempo ai livelli d'inquinamento precedenti, se non maggiori». 

Dovremo abituarci al costante aumento delle ondate di calore e a fenomeni atmosferici sempre più violenti?

«L'aumento delle ondate di calore, sia come frequenza sia per intensità dei fenomeni, è stato costante negli ultimi 60 anni. Mentre nel Nord del bacino del Mediterraneo si verificano precipitazioni particolarmente violente, al Sud i fenomeni siccitosi creano enormi danni all'agricoltura e le condizioni perfette per i vasti incendi che stiamo sperimentando. Sicuramente dobbiamo distinguere tra fenomeni meteorologi come Lucifero e le tendenze climatiche, la cui scala temporale è pluridecennale. Ma tutto questo è destinato, purtroppo, a peggiorare e la colpa è di tutti noi. In base alle proiezioni climatiche disponibili, questi eventi continueranno, con intensità crescenti parallelamente all'aumento del valore di riscaldamento globale raggiunto. La temperatura media globale del pianeta dell'ultimo decennio è stata di 1.09 gradi centigradi superiore a quella del periodo 1850-1900. E tutti i più importanti indicatori delle componenti del sistema climatico, ovvero atmosfera, oceani e ghiacci, stanno cambiando ad una velocità mai osservata negli ultimi millenni».

L'innalzamento del livello del mare che effetti avrà sul Mediterraneo?

«L'aumento medio del livello del mare accade ad una velocità mai prima sperimentata negli ultimi 3000 anni, così come l'acidificazione delle acque sta procedendo a una velocità mai vista negli ultimi 26 mila anni. E il Mediterraneo non è esente: a causa del riscaldamento climatico, il livello medio dell'innalzamento fra il 1901 e il 2020 è stato di 20 centimetri, con una crescita media di 1.35 millimetri l'anno fino al 1990, accelerata fino ai 3.7 del 2018. Per una nazione come l'Italia che ha 8 mila chilometri di coste, saranno ben evidenti le conseguenze». 

Insieme ad Annalisa Cherchi e Susanna Corti, lei è autore del rapporto sul clima dell'Onu. Quale futuro avete ipotizzato?

«Non bello. La temperatura superficiale globale della Terra continuerà ad aumentare almeno fino alla metà del secolo corrente in tutti gli scenari di emissione considerati. I livelli di riscaldamento globale di 1,5 e 2 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali saranno superati entro la fine del 21° secolo, a meno che nei prossimi decenni non si verifichino profonde riduzioni delle emissioni di gas serra. Nel caso dell'azzeramento della CO2 entro il 2050, il riscaldamento globale di questo secolo è estremamente probabile che possa rimanere sotto i 2 gradi ma si prevede un ulteriore scongelamento del permafrost. È probabile che l'Artico sarà praticamente privo di ghiaccio marino in settembre almeno una volta prima del 2050, e il livello dei mari continuerà inesorabilmente a salire nel corso del secolo». 

Esiste un modo per fermare tutto questo?

«L'unica strada che abbiamo per salvarci è arrivare alla completa decarbonizzazione. Abbiamo la certezza che gli effetti che vediamo sul clima sono direttamente influenzati dalle attività umane, anche dalle nostre azioni piccole e quotidiane. La riduzione delle emissioni di CO2 porterà a un miglioramento della qualità dell'aria, osservabile in alcuni anni. Ma gli effetti sulla temperatura del pianeta saranno visibili solo dopo molti decenni. Da qui l'estrema urgenza di interventi tempestivi e sostanziali per la riduzione delle emissioni». 

Il paradosso dell’energia rinnovabile che ha bisogno di metalli non rinnovabili. Anche se il sole e il vento sono infinitamente rinnovabili, i materiali necessari per ricavarne elettricità e minerali come cobalto, rame, litio, nichel e terre rare sono tutt’altro che eterni. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 30 luglio 2021. Il passaggio al motore elettrico e alle energie rinnovabili potrebbe essere un regalo alla Cina e il motivo di nuovi conflitti geopolitici come è accaduto per il petrolio. Lo dice un articolo ospitato su “Internazionale” di Michael Klare docente all’Hampshire College negli Usa. Anche se il sole e il vento sono infinitamente rinnovabili, i materiali necessari per ricavarne elettricità e minerali come cobalto, rame, litio, nichel e terre rare sono tutt’altro che eterni. Alcuni di questi materiali come le terre rare, già indispensabili per smartphone e computer, sono molto più scarsi del petrolio, quindi nell’era delle rinnovabili il conflitto globale per le risorse potrebbe continuare. Per comprendere questo paradosso dobbiamo tener presente in che modo l’energia eolica e quella solare sono convertite in forme utilizzabili di elettricità e propulsione. L’energia solare è in gran parte raccolta dalle celle fotovoltaiche, spesso in strutture che ne usano enormi quantità, mentre il vento è raccolto da turbine giganti, che in genere formano vasti parchi eolici. Per usare l’elettricità nei trasporti, le automobili e i camion devono avere una batteria in grado di mantenere la carica per lunghi periodi. Servono notevoli quantità di rame, oltre a una varietà di altri minerali non rinnovabili. Le turbine eoliche, per esempio, impiegano manganese, molibdeno, nichel, zinco e terre rare per i generatori, mentre i veicoli elettrici hanno bisogno di cobalto, grafite, litio, manganese e terre rare per i motori e le batterie. Oggi con l’energia eolica e quella solare che contribuiscono solo al 7 per cento circa della produzione globale e i veicoli elettrici che rappresentano meno dell’1 per cento dei mezzi in circolazione, la produzione di questi minerali è più o meno adeguata alla domanda. Ma se gli Stati Uniti e l’Europa si muoveranno davvero verso un futuro di energia verde, come previsto dalla Casa Bianca e dal Piano ambientale europeo del “green deal”, con zero emissioni nel 2050, la loro domanda salirà alle stelle e la produzione globale sarà molto al di sotto delle necessità. Secondo un recente studio dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) intitolato “Il ruolo dei minerali critici nella transizione energetica”, se il mondo s’impegnerà a sostituire rapidamente i veicoli a petrolio con quelli elettrici, nel 2040 la domanda di litio potrebbe essere cinquanta volte maggiore rispetto a oggi e quella di cobalto e grafite trenta volte superiore. Quest’impennata della domanda, ovviamente, spingerà l’industria ad aumentare le forniture di quei minerali, ma le loro potenziali fonti sono limitate e il processo di estrazione è costoso e complicato. In altre parole, il mondo potrebbe trovarsi molto a corto di materiali indispensabili. “Con l’accelerazione del passaggio all’energia pulita in tutto il mondo”, osserva sinistramente il rapporto dell’Agenzia, “i pannelli solari, le turbine eoliche e le auto elettriche saranno sempre più usati, e i mercati in rapida ascesa dei minerali potrebbero essere soggetti a volatilità dei prezzi, influenze geopolitiche e interruzioni delle forniture”. Ma c’è un’ulteriore complicazione: per alcuni dei materiali essenziali, come il litio, il cobalto e le terre rare, la produzione è fortemente concentrata in pochi paesi, e questo potrebbe portare al tipo di conflitti geopolitici che hanno accompagnato la dipendenza del mondo da poche importanti fonti di petrolio. Secondo l’Aie, oggi un solo paese, il Congo produce più dell’80 per cento del cobalto mondiale e un altro, la Cina, il 70 per cento delle terre rare; la produzione di litio dipende in gran parte da due paesi, l’Argentina e il Cile, che insieme rappresentano quasi l’80 per cento dell’offerta mondiale; quattro paesi – Argentina, Cile, Congo e Perù – producono la maggior parte del rame. In altre parole, la concentrazione di queste risorse in pochi paesi è molto maggiore di quella del petrolio e del gas naturale, il che spinge gli analisti dell’Agenzia a prevedere nuove lotte globali. Tutti conosciamo l’influenza del petrolio sulla geopolitica. Da quando è diventato essenziale per il trasporto e l’industria è considerato per ovvie ragioni una risorsa “strategica”. Dal momento che le maggiori concentrazioni di petrolio si trovavano in Medio Oriente e Nordafrica, guerre e tensioni si sono concentrate in questa area. Emblematiche le “crisi petrolifere” del 1973 e del 1979: la prima era stata causata dall’embargo arabo deciso come rappresaglia per il sostegno di Washington a Israele nella guerra di ottobre di quell’anno, la seconda all’interruzione degli approvvigionamenti provocata dalla rivoluzione islamica in Iran. Gli Usa si impegnarono a garantire le importazioni di petrolio con “ogni mezzo necessario”, compreso l’uso delle armi. Questo spinse George Bush senior a dichiarare la prima guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 1991, e portò suo figlio a invadere il paese nel 2003. Nel 2021 gli Stati Uniti non sono più così dipendenti dal petrolio mediorientale grazie all’uso intensivo del fracking (fratturazione idraulica) per sfruttare i giacimenti nazionali. Tuttavia, il collegamento tra uso del petrolio e conflitti geopolitici rimane. La maggior parte degli analisti ritiene che il petrolio continuerà a garantire una quota importante dell’energia globale per i prossimi decenni, provocando lotte politiche e scontri militari per assicurarsi le forniture restanti. La questione oggi è: cosa cambierebbe se ci fosse un boom del commercio di auto elettriche? La quota di mercato dei veicoli elettrici sta già crescendo rapidamente e si prevede che raggiungerà il 15 per cento delle vendite mondiali entro il 2030. È ragionevole presumere che questo cambiamento sia destinato ad accelerare, con profonde ripercussioni sul commercio globale delle risorse. Secondo l’Aie, un’auto elettrica richiede sei volte l’apporto di minerali di un veicolo convenzionale a benzina. Questi minerali includono il rame per il cablaggio elettrico più il cobalto, la grafite, il litio e il nichel necessari per garantire le prestazioni e la longevità della batteria, Inoltre, le terre rare saranno essenziali per i magneti permanenti installati nei motori elettrici. Il litio, componente principale delle batterie dei veicoli elettrici, è il metallo più leggero che esista. È presente nei depositi di argilla e nei noduli polimetallici, ma si trova raramente in concentrazioni facilmente estraibili. Attualmente circa il 58 per cento del litio mondiale proviene dall’Australia, un altro 20 per cento dal Cile, l’11 dalla Cina, il 6 dall’Argentina e percentuali minori da altri paesi. Il cobalto è un altro componente chiave delle batterie. Oggi è quasi interamente prodotto grazie all’estrazione del rame nel caotico e violento Congo. Le terre rare sono un gruppo di diciassette metalli sparsi sulla superficie terrestre. Molte sono essenziali per la futura energia verde, come il disprosio, il lantanio, il neodimio e il terbio. Attualmente circa il 70 per cento delle terre rare proviene dalla Cina, quasi il 12 per cento dall’Australia e l’8 per cento dagli Stati Uniti. Basta uno sguardo alla distribuzione di queste risorse per capire che la transizione verso l’energia verde immaginata da Biden e altri leader mondiali potrebbe provocare aspri conflitti geopolitici non diversi da quelli generati in passato dal petrolio. Per l’approvvigionamento delle terre rare, la Cina, già oggi considerata un’avversaria, è cruciale, mentre Il Congo, dove è stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, è il principale produttore di cobalto. Quindi è davvero difficile pensare che la transizione verso le energie rinnovabili sarà facile e indolore. Si può immaginare – sottolinea Michel Klare – che un giorno le potenze cominceranno a litigare per le forniture di questi minerali, proprio come una volta combattevano per il petrolio. Ma è anche plausibile uno scenario in cui gli Usa e l’Europa potrebbero archiviare o ridurre i loro progetti, per mancanza di materie prime necessarie e torneranno alle guerre per il petrolio. Ma su un pianeta già surriscaldato questo comporterebbe futuro devastante. Washington e Pechino, quindi, non hanno altra scelta se non collaborare, tra loro e con altri paesi, per accelerare la transizione energetica verde. Qualunque alternativa sarebbe una catastrofe.

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 28 luglio 2021. Il noce di Trowse-with-Newton, villaggio ottocentesco a due chilometri e mezzo da Norwich, è bellissimo. Le fronde si alzano a più di 17 metri, le noci sono enormi, gustose. Da quasi un secolo è l'orgoglio degli abitanti del posto, e da circa due anni è l'incubo di Chantal Beck. I rami del grande noce si allungano sul retro del suo giardino, dove giocano le sue due figlie, Bonnie, 5 anni e Beau, di 6. Nel 2018 Chantal riuscì ad ottenere dal Consiglio del South Norfolk il permesso di tagliare i rami più lunghi: tre metri era stato il massimo che le era stato concesso. Non abbastanza per mettere al sicuro Beau: le noci la piccola non deve nemmeno vederle, è nata con un'allergia molto grave, potrebbe addirittura morirne secondo i medici. In un pomeriggio dell'estate del 2019 Beau ha avuto uno shock anafilattico, mentre giocava con la sorellina vicino all'albero. «Le noci cadono in terra, formano una specie di tappeto, si aprono, marciscono, e questo è bastato per metterla in pericolo di vita, in un attimo la sua gola, la sua lingua, perfino le orecchie, erano gonfie, ha rischiato di morire», ha raccontato Beck davanti ai membri del Consiglio provinciale per convincerli che il grande noce di Trowse deve diventare meno grande per salvare sua figlia. Pazienza per il paesaggio e per la maestà delle fronde, pazienza per i pittori che amano dipingerlo, o per le cartoline, ma bisogna tagliare di almeno cinque metri. Il paese si è spaccato, e una settimana fa è arrivata la sentenza: il Council ha deciso che no, non si può tagliare l'albero, che «una potatura di cinque metri» ne metterebbe a rischio la sopravvivenza. Il noce si trova nel terreno adiacente alla casa di Chantal, in una zona con vincoli paesaggistici e naturali. I consiglieri hanno notificato a Chantal che se taglierà i rami, la cosa finirà davanti al giudice e che faranno applicare «l'ordinanza che ne decreta la preservazione».

GLI SCHIERAMENTI. Di tecnici decisamente «troppo zelanti» parlano in questi giorni i cronisti della stampa locale. La guerra del noce di Trowse è arrivata anche sulle pagine dei quotidiani nazionali, perché Chantal non intende cedere. Con lei si sono apertamente schierati almeno 17 residenti del quartiere, che hanno inviato lettere di sostegno o notificato il loro accordo alla potatura, come una sua vicina: «Forse non è facile capire per qualcuno che non abita qui, ma è molto doloroso per molti di noi immaginare di tagliare radicalmente il noce, ma se poi consideriamo le conseguenze pericolose che ci possono essere sulla salute di una bambina, mi dico che è semplicemente impossibile opporsi alla richiesta della madre». E invece si sono opposti. Più d'uno (ufficialmente undici con nome e cognome) hanno fatto sentire la loro protesta: c'è chi ha descritto il noce come «un punto di riferimento», chi si è esposto facendo notare che si tratta «dell'unico grande noce del nostro villaggio e che tutti noi amiamo la raccolta delle noci alla fine dell'estate», e perfino l'artista che lo dipinge e fotografa regolarmente e che ha parlato «della dignità della corona perfettamente formata». Davanti alla volontà di Chantal e all'eco che la vicenda ha cominciato ad avere, il Council del South Norfolk ha deciso di affidarsi a un mediatore nelle vesti della consigliera locale Lisa Neal: «Cercheremo in ogni modo di trovare un compromesso».

LA CRISI. «All'inizio pensavo che l'importante fosse che Beau non mangiasse le noci, passavo settimane a raccogliere quelle che cadevano, sapevo che lei non era nemmeno capace di aprirle, ma poi ha avuto quella grossa crisi e ho capito: ne cadono talmente tante da formare un specie di tappeto, e in un istante il suo sistema immunitario è andato in tilt». Ma la responsabile della conservazione del patrimonio naturale della regione, Imogen Mole, è stata inflessibile: «Se tagliassimo così tanto l'albero, andrebbe incontro a problemi permanenti, e probabilmente non sopravviverebbe».

DOPO 20 ANNI STESSA SOLFA.

I Black Bloc oggi diventano hacker. E il web dei Grandi “zona rossa” da violare. Paolo Berizzi su La Repubblica il 23 luglio 2021. Da Genova a Milano e Roma, gli ex violenti delle piazze si sono trasformati in guastatori, “Riciclati”, “Anonymous". Martine arrivò a Genova da Liegi: oggi ha 42 anni e fa parte di Anonymous. Johann, tecnico informatico di Amburgo, vive in una città dei Paesi Bassi, ha messo su famiglia e ha abbracciato la causa ambientalista. Dice che «la violenza non è più la via per cambiare le cose». Dice. Stefano e Tommaso, sulla cinquantina, sono ancora in contatto con Albéric che da Lione o forse da Nantes, a metà luglio 2001, scese con un Van e passò a prenderli in Piemonte per poi raggiungere la città della Lanterna.

Massimiliano Peggio per "La Stampa" il 2 agosto 2021. Tre fronti d'attacco. Una strategia organizzata a tavolino per colpire il presidio di forze dell'ordine ed Esercito che protegge l'area strategica nazionale in Val di Susa, dove sorge il cantiere dell'Alta Velocità. Il bilancio della guerriglia scatenata dall'ala violenta No Tav sabato scorso è di tre poliziotti feriti e un mezzo dell'8° Reggimento alpini danneggiato. Rubato anche uno zaino militare con attrezzatura tattica per un valore di oltre 10 mila euro: un visore notturno, un binocolo a telemetro, maschera antigas. I No Tav, attraverso i loro canali social, esultano all'impresa: «Non basteranno 10mila agenti per fermarci». Cifra che fa riferimento alle dichiarazioni fatte nei giorni scorsi dalla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese, annunciando l'invio di nuovo personale in divisa in provincia di Torino. Poliziotti, carabinieri e soldati necessari a difendere l'allargamento del cantiere di Chiomonte, dove si realizzerà il tunnel di collegamento con la Francia, e un secondo cantiere avviato di recente a San Didero, a metà valle, per ospitare opere complementari. L'azione di sabato è una delle più violente messe in atto dal 2013, quando fu violato il cantiere con un lancio di bombe molotov e razzi che provocò l'incendio di un macchinario. In questi ultimi anni i No Tav hanno dato vita a numerose incursioni periodiche, costringendo prefettura, questura e Telt, la società italo francese incaricata di realizzare la linea ferroviaria, a incrementare i dispositivi di sicurezza e le protezioni passive. Nell'ultima incursione, però, i manifestanti sono riusciti insinuarsi nell'area strategica, a ridosso del cantiere. Hanno bersagliato i mezzi con una pioggia di pietre, bulloni, razzi e bombe carta. Sono riusciti a colpire l'edificio che ospita la control room gestita dall'esercito. L'attacco su tre fronti è stato organizzato da circa 150 attivisti, tutti vicini all'area antagonista, con solidi rapporti con il centro sociale Askatasuna di Torino, in prima fila da anni contro l'Alta Velocità. L'occasione, come già era avvenuto in passato, è stata offerta dal festival Alta Felicità, in corso a Venaus con il patrocinio del Comune, diventato spazio musicale di lotta. La manifestazione ha attirato molti antagonisti provenienti da vari centri sociali italiani. «Il patrocinio al Festival? È un contributo a un festival di spettacolo e musica con cui collaboriamo - afferma il sindaco di Venaus, Avernino Di Croce - Condivido che la Tav sia un'opera violenta per il territorio e inutile. Sono scientificamente No Tav, anche se la violenza non mi appartiene e non la condivido né da una parte né dall'altra». Dice invece il sindaco di Susa, Pier Giuseppe Genovese: «La violenza non ha nulla a che vedere con la protesta pacifica espressa negli anni dai cittadini e dalle amministrazioni della Valle. È espressione di una forma organizzata che arriva da fuori dal territorio. Una spaccatura nel movimento No Tav comincia ad esprimersi».

Tutti contro i No Tav violenti. Ma i grillini stanno in silenzio. Nadia Muratore il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Soltanto la Appendino condanna le violenze. L'ira del ministro Lamorgese: "Sono episodi inaccettabili". Per gli attivisti No Tav, Il festival dell'Alta Felicità fa rima con guerriglia urbana. E anche per questa edizione il copione è stato replicato nel piccolo comune di Venaus. Ma quest'anno il bilancio di un pomeriggio di violenza ha superato anche le peggiori aspettative: in due ore di attacchi, gli antagonisti hanno ferito tre poliziotti, distrutto un mezzo dell'Esercito, rubato zaino e danneggiato sei blindati. Una escalation di violenza che ha portato a poche ore di distanza ad una unanime condanna da parte di tutto il mondo politico. Tutto o quasi, visto che a tacere sono stati i rappresentanti del Movimento Cinque Stelle che da sempre strizza l'occhio ai No Tav e di fatto, senza condanne ufficiali, ne giustifica anche le mosse più azzardate, quelle che sfociano in tafferugli e violenze. Unica voce lontana dal coro è stata quella di Chiara Appendino che è il sindaco di Torino. La stessa questura di Torino ha dichiarato che «contro le forze dell'ordine e i militari schierati a protezione del cantiere della Torino-Lione in Val di Susa è stato un violento attacco senza precedenti». Immediata la condanna del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese: «Sono assolutamente inaccettabili episodi di gravissima violenza - ha dichiarato - che mettono in pericolo l'incolumità degli operatori di polizia e che nulla hanno a che vedere con il diritto di manifestare liberamente». Il ministro, inoltre, ha espresso «vicinanza e solidarietà ai due agenti rimasti feriti negli scontri di ieri sera nei pressi del cantiere di Chiomonte», ringraziando «tutte le donne e gli uomini delle Forze dell'ordine e dell'Esercito impegnati quotidianamente per tutelare la sicurezza e l'ordine pubblico in Val di Susa». Lamberto Giannini, il Capo della Polizia, «ha costantemente seguito» le fasi della «violenta aggressione da parte di gruppi No Tav nei confronti delle forze dell'ordine impegnate a presidio del cantiere di Chiomonte». Giannini ha seguito la complessa gestione dell'ordine pubblico, tenendosi in contatto col questore di Torino, Giuseppe De Matteis. «Il popolo no Tav, come quello no vax, ha tutto il diritto di manifestare il proprio dissenso - ha detto la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini - ma rispettando le leggi dello Stato. Invece sempre più spesso si assiste a episodi gravissimi di chi pretende di imporre il proprio concetto di libertà ricorrendo alla violenza. Gli ennesimi scontri in Val di Susa sono la riprova di quanto stia crescendo il livello di intolleranza, e di quanto sia necessaria una risposta forte per ripristinare la legalità e tutelare le forze dell'ordine che difendono un'infrastruttura strategica». Categorica la condanna del governatore piemontese Alberto Cirio: «Chi rispetta la propria terra non la mette a ferro e fuoco. Chi rispetta la democrazia non calpesta il diritto di esprimere le proprie idee, di manifestare, trasformandolo in guerriglia e non ne prende a sassate chi gli dedica la vita ogni giorno con indosso una divisa. Perché le scene che abbiamo visto in Val Susa si chiamano in un solo modo: delinquenza». Una proposta concreta è arrivata dalla Cisl, che ha chiesto di organizzare «una grande manifestazione in Val Susa per difendere la Tav e sostenere le forze dell'ordine e i lavoratori impegnati nella realizzazione dell'opera». Nadia Muratore

Proteste e traffico paralizzato in città. G20, gli attivisti bloccano lo svincolo dell’A3 Napoli est: fermata anche raffineria Q8. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Nelle ore in cui è iniziato il G20 Ambiente, Clima ed Energia a Napoli, attiviste, attivisti, comitati territoriali hanno bloccato gli ingressi delle raffinerie di S. Giovanni a Teduccio, della zona est di Napoli e lo svincolo autostradale A3. “È esattamente questa la nostra idea di transizione ecologica: fuoriuscita dal fossile, senza compromessi, al di fuori di ogni operazione di greenwashing. Le multinazionali sono alleate dei governi, ma decisamente nemiche dell’ambiente e della nostra salute” tuonano i manifestanti, che danno appuntamento alle 16 per un grande corteo a piazza Dante. Gli attivisti di Beesagainstg20 hanno l’obiettivo di contestare la riunione del G20. Bloccata anche la raffineria Q8 di via Galileo Ferraris da un centinaio di attivisti ambientali per dire “no all’ipocrisia del G20 e delle politiche di greenwashing” e per dire “basta ai combustibili fossili”. “Il continuo rinvio nel tempo degli obiettivi minimi sulla riduzione di Co2 e dei combustibili fossili – spiegano alla Dire -, la costruzione ovunque di nuovi gasdotti, l’imperversare senza regole di attività e impianti inquinanti, il potere delle compagnie petrolifere e delle elite che grazie a esse costruiscono ricchezze senza fondo, il cinismo delle multinazionali e delle compagnie di trasporto che usano i paesi più poveri del mondo come discarica tossica ci racconta come quelle di cui ci parla in questo momento a palazzo reale siano semplicemente politiche di greenwashing, il tentativo di utilizzare l’allarme climatico e ambientale e strumentalizzare la domanda di cambiamento solo per specularci sopra”. “La biografia del ministro Cingolani, una carriera nell’industria degli armamenti, è – proseguono – una perfetta fotografia dell’ipocrisia di questo consesso. È urgente mettere in discussione questo modello di sviluppo per non lasciare alle nuove generazioni un mondo sempre più tossico e invivibile come ci dicono i disastri climatici che si riproducono in questi giorni e l’emergere di nuove pandemie legate proprio alla distruzione degli ecosistemi. Giustizia ambientale e giustizia sociale sono due lati della stessa medaglia”. Si aspettano due giorni davvero infernali per la mobilità e il traffico in città.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

G20 Ambiente: da antagonisti lancio oggetti contro Ps. (ANSA il 22 luglio 2021) Momenti di tensione si sono avuti poco fa all' arrivo del corteo degli antagonisti - in corso a Napoli contro il G20 - in piazza Bovio. La testa del corteo ha cercato di spostarsi verso via Depretis, con l'obiettivo di raggiungere piazza Municipio e di qui entrare facilmente nella zona rossa. La Polizia li ha fronteggiati con un doppio cordone di agenti del reparto mobile in assetto antisommossa, che avevano alle spalle furgoni cellulari messi di traverso sulla carreggiata. Dai manifestanti sono stati lanciate buste d'acqua, sacchetti dell'immondizia e altri oggetti contro i poliziotti, che si sono protetti con gli scudi. (ANSA).

AGI il 22 luglio 2021. Si apre in una Napoli blindata la prima giornata del G20 su Ambiente, Clima ed Energia sotto la presidenza italiana. Una due giorni in cui la sostenibilità del Pianeta e la transizione ecologica saranno centrali. E protagonista sarà anche l’economia circolare. La riunione ministeriale oggi si focalizzerà sul tema ambiente mentre domani il focus sarà su clima ed energia che per la prima volta marceranno insieme.

Napoli blindata per l'evento e le proteste. Ma non mancano le proteste. Un gruppo di attivisti dei movimenti ambientalisti e dei centri sociali, che partecipano al controforum in coincidenza con il summit che si svolge a Palazzo Reale, stamattina ha bloccato il traffico nella zona del porto. Tutto l'area che va da piazza Trieste e Trento a piazza del Plebiscito e dintorni è transennata ed è bloccato l’accesso al traffico e ai pedoni.

Cingolani incontra Kerry e il ministro francese. A fare gli onori di casa e ad accogliere i colleghi dell’Ambiente del G20 è stato il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Prima dell’avvio dei lavori Cingolani ha avuto due incontri bilaterali: un colloquio con l’inviato speciale Usa per il clima John Kerry e uno con il ministro della Transizione ecologica francese, Barbara Pompili.  "Italia e Usa insieme per un'alta ambizione e per azioni stringenti in questa decade per tenere la temperatura del pianeta a 1,5 gradi", ha scritto il ministro su Twitter al termine dell’incontro con Kerry. “Difendendo l'ambiente abbiamo la possibilità reale di migliorare la vita delle persone e siamo alla vigilia del maggior cambiamento dalla rivoluzione industriale", ha detto in un'intervista a Repubblica l'inviato speciale Usa sul clima la cui impressione è' che i singoli Paesi vogliono fare meglio nella protezione dell'ambiente e vogliono riuscirci adesso". Secondo Kerry, "siamo di fronte alla possibilità della più grande trasformazione dalla rivoluzione industriale”.

Cingolani, "Ruolo chiave dell'ambiente per il post-pandemia". Aprendo i lavori, dal canto suo, Cingolani ha sottolineato che "Il ruolo dell'ambiente non è mai stato così importante". "Siamo qui riuniti oggi in un contesto che sottolinea il ruolo chiave svolto dai ministeri dell'Ambiente di tutto il mondo nel garantire le basi della società post-pandemia", ha aggiunto il ministro. La ministeriale del G20 su Ambiente, Clima ed Energia, ha proseguito, si svolge "in circostanze senza precedenti che hanno richiesto e richiedono ancora un'azione globale coraggiosa, congiunta e immediata". "Impossibile ignorare le prove scientifiche delle relazioni Ipcc e Ipbes (i due organi intergovernativi che si occupano di biodiversità e di cambiamenti climatici ndr) sui cambiamenti climatici. I tragici eventi meteorologici cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi e, persino giorni - ha evidenziato ancora Cingolani - dimostrano che il nostro sistema climatico sta subendo gravi perturbazioni. Lo stesso vale per gli ecosistemi naturali e la biodiversità, dove i nostri sforzi finora non sono stati in grado di rallentare lo scivolone verso l'estinzione di massa delle specie e la ripartizione dei principali servizi ecosistemici". Secondo il ministro, "è fondamentale resistere alla tentazione di ricostruire le nostre economie sul modello pre-pandemia. In effetti – ha osservato il ministro - come possibile unico aspetto positivo, la pandemia ci ha offerto l'opportunità di ripensare le nostre vite, immaginare nuovi, migliori, modi di organizzare le nostre società ed economie, costruirle meglio e su basi e valori diversi. Questo nuovo approccio richiede economie robuste che operino ancora entro i limiti imposti dai confini planetari e dal fondo sociale, e garantiscano la cura del nostro Pianeta sempre al centro dello sviluppo umano". Cingolani ha quindi ribadito che "soluzioni basate sulla natura e approcci ecosistemici per affrontare il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e la povertà sono "uno strumento permanentemente cruciale, ma non dovrebbero sostituire l'urgente e prioritaria necessità di decarbonizzazione e riduzione di tutte le emissioni di gas serra".  "Attenzione prioritaria - ha osservato il ministro - dovrebbe anche essere prestata alla protezione, alla conservazione, alla gestione sostenibile e al ripristino delle terre degradate, alla gestione sostenibile delle risorse idriche, gli oceani e i mari. Inoltre, è fondamentale riconoscere il grave impatto dei rifiuti marini – e in particolare dei rifiuti di plastica marini – sugli ecosistemi marini, le zone costiere, la pesca e il turismo". “La sfida centrale – ha quindi ammonito - riguarda il funzionamento del sistema finanziario e la misura in cui si allinea alle esigenze di sviluppo sostenibile. In parole povere, se il sistema finanziario può essere allineato a queste esigenze, la transizione verso uno sviluppo sostenibile può essere raggiunta. Senza tale allineamento, lo sviluppo sostenibile rimarrà al di fuori della nostra portata, con conseguenze catastrofiche che lasceremo alle generazioni future”. 

Al centro del summit il cambiamento climatico e la transizione ecologica. Alla ministeriale spetterà il compito di esprimere la sintesi di questi lunghi mesi di incontri, confronti e discussioni tra le delegazioni e i tecnici internazionali impegnati nella ricerca di risposte coordinate, eque ed efficaci, capaci di porre le basi per un futuro migliore e sostenibile. La Presidenza italiana del G20 ha presentato proposte importanti sul piano globale per stimolare la comunità internazionale verso “obiettivi ambiziosi”. I temi centrali della discussione saranno il contrasto al cambiamento climatico, l’accelerazione della transizione ecologica, le azioni necessarie per rendere i flussi finanziari coerenti con gli obiettivi dell’accordo di Parigi, una ripresa economica sostenibile ed inclusiva grazie alle opportunità offerte in campo energetico da soluzioni tecnologiche innovative, l’implementazione delle città intelligenti, resilienti e sostenibili. Le delegazioni stanno lavorando per produrre, al termine di ogni giornata, un comunicato condiviso tra i venti Paesi che contenga la traccia di visioni e impegni comuni. Al termine dei lavori oggi è prevista una conferenza stampa di Cingolani.

Tutti contro i No Tav violenti. Ma i grillini stanno in silenzio. Nadia Muratore il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Soltanto la Appendino condanna le violenze. L'ira del ministro Lamorgese: "Sono episodi inaccettabili". Per gli attivisti No Tav, Il festival dell'Alta Felicità fa rima con guerriglia urbana. E anche per questa edizione il copione è stato replicato nel piccolo comune di Venaus. Ma quest'anno il bilancio di un pomeriggio di violenza ha superato anche le peggiori aspettative: in due ore di attacchi, gli antagonisti hanno ferito tre poliziotti, distrutto un mezzo dell'Esercito, rubato zaino e danneggiato sei blindati. Una escalation di violenza che ha portato a poche ore di distanza ad una unanime condanna da parte di tutto il mondo politico. Tutto o quasi, visto che a tacere sono stati i rappresentanti del Movimento Cinque Stelle che da sempre strizza l'occhio ai No Tav e di fatto, senza condanne ufficiali, ne giustifica anche le mosse più azzardate, quelle che sfociano in tafferugli e violenze. Unica voce lontana dal coro è stata quella di Chiara Appendino che è il sindaco di Torino. La stessa questura di Torino ha dichiarato che «contro le forze dell'ordine e i militari schierati a protezione del cantiere della Torino-Lione in Val di Susa è stato un violento attacco senza precedenti». Immediata la condanna del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese: «Sono assolutamente inaccettabili episodi di gravissima violenza - ha dichiarato - che mettono in pericolo l'incolumità degli operatori di polizia e che nulla hanno a che vedere con il diritto di manifestare liberamente». Il ministro, inoltre, ha espresso «vicinanza e solidarietà ai due agenti rimasti feriti negli scontri di ieri sera nei pressi del cantiere di Chiomonte», ringraziando «tutte le donne e gli uomini delle Forze dell'ordine e dell'Esercito impegnati quotidianamente per tutelare la sicurezza e l'ordine pubblico in Val di Susa». Lamberto Giannini, il Capo della Polizia, «ha costantemente seguito» le fasi della «violenta aggressione da parte di gruppi No Tav nei confronti delle forze dell'ordine impegnate a presidio del cantiere di Chiomonte». Giannini ha seguito la complessa gestione dell'ordine pubblico, tenendosi in contatto col questore di Torino, Giuseppe De Matteis. «Il popolo no Tav, come quello no vax, ha tutto il diritto di manifestare il proprio dissenso - ha detto la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini - ma rispettando le leggi dello Stato. Invece sempre più spesso si assiste a episodi gravissimi di chi pretende di imporre il proprio concetto di libertà ricorrendo alla violenza. Gli ennesimi scontri in Val di Susa sono la riprova di quanto stia crescendo il livello di intolleranza, e di quanto sia necessaria una risposta forte per ripristinare la legalità e tutelare le forze dell'ordine che difendono un'infrastruttura strategica». Categorica la condanna del governatore piemontese Alberto Cirio: «Chi rispetta la propria terra non la mette a ferro e fuoco. Chi rispetta la democrazia non calpesta il diritto di esprimere le proprie idee, di manifestare, trasformandolo in guerriglia e non ne prende a sassate chi gli dedica la vita ogni giorno con indosso una divisa. Perché le scene che abbiamo visto in Val Susa si chiamano in un solo modo: delinquenza». Una proposta concreta è arrivata dalla Cisl, che ha chiesto di organizzare «una grande manifestazione in Val Susa per difendere la Tav e sostenere le forze dell'ordine e i lavoratori impegnati nella realizzazione dell'opera». Nadia Muratore

Da ilfattoquotidiano.it il 18 luglio 2021. Momenti di tensione quando un camionista si è imbattuto in un blocco che i No Tav avevano allestito in Valle di Susa. Gli attivisti affermano che il mezzo “ha cercato di forzare lo sbarramento accelerando rischiando così di travolgere i ragazzi e le ragazze”. Nel video pubblicato dal movimento NoTav sulla propria pagina Facebook di riferimento si vede l’uomo, sceso dal camion, aggredire i dimostranti con urla e spintoni: “Siete voi il problema: vi mettete in mezzo alla strada mentre io devo entrare. So già chi siete voi: siete delle m … Sono in piedi dalle quattro e mezzo”. Poi lo si vede aprire il cancello. “Il camionista in questione – si legge nel testo condiviso dai No Tav – pare essere un affezionato del Tav, lavora per una ditta che oltre a lavorare a San Didero lavora anche al cantiere di Chiomonte dove sposta materiali”.

Giampiero Mughini per Dagospia il 18 luglio 2021. Caro Dago, Dio che bello lo spezzone che avete appena messo in pagina sul camionista in Val di Susa che viene intercettato e bloccato da ragazzi e ragazze no-Tav e scende giù dal camion e urla e minaccia e inveisce, lui che per guadagnarsi il pane stava penando dalle quattro e mezza del mattino. Ovvio che quei ragazzi e quelle ragazze fossero della brava gente che nient’altro vuole se non il Bene dell’Umanità, il che non toglie che siano dei minchioncelli senz’arte né parte e che io tifi spasmodicamente per il camionista che si stava sbattendo per le autostrade d’Italia a trasferire da una città all’altra non so quali beni di cui ognuno di noi ha bisogno dopo averli comprati e pagati. Lo dico con cognizione di causa, perché nei miei vent’anni anch’io sono stato un minchioncello calzato e vestito che voleva il Bene dell’Umanità e che si comportava di conseguenza. Mio padre mi pagava gli studi all’Università, a casa dei miei nonni materni (dove vivevo perché i miei genitori si erano separati) mia nonna mi faceva trovare il piatto di pasta bell’e pronto quando tornavo dall’Università dove avevo appena finito di pronunciare una tuonante filippica anticapitalistica che aveva suscitato l’apprezzamento di qualche bella studentessa. Tanto che me ne tornavo a casa tutto pimpante, orgogliosissimo della mia identità ideologica. E così per giorni e settimane e mesi dei miei vent’anni. Altro che se non ero un bravo ragazzo che spasimava di amore per l’Umanità. Poi è successo che ho cominciato ad affrontare la vita reale, e mio padre e mia nonna non c’erano più, e me lo guadagnavo da me il pane da mangiare due volte al giorno, seppure alzandomi alle sette del mattino e non alle quattro e mezza. Per anni anni e anni. Ciascun anno dei quali finivo per pagare dapprima qualcosa di vicino ai centomila euro di tasse l’anno e poi parecchio di più. Ho pagato negli anni traendoli dal mio lavoro - ciò che mi rende fratello il camionista della Val di Susa - alcuni milioni di euro al fisco. Questo sì che oggi mi rende orgoglioso, non quegli sproloqui che pronunziavo all’Università e che se li ascoltassi adesso mi farebbero accapponare la pelle. Ancor oggi sono uno dei primi centomila contribuenti italiani. Più comunista di me. Solo che un catanese di gran rilievo, quel professor Manlio Sgalambro che ha fatto una geniale combutta con Franco Battiato, andava ripetendo che a lui piaceva il Mughini degli anni catanesi, non quello successivo. Lui preferiva ahimé il minchioncello che ero stato a vent’anni, del tutto simile ai ragazzi che rompevano le scatole al camionista della Val di Susa. Succede. Ne porto pazienza, ma non punto da non chiamare le cose della vita con il loro nome e cognome.

Inquinamento, dalla Cina all'India: i cinque Paesi asiatici responsabili dell'80% dei nuovi impianti a carbone. Libero Quotidiano il 30 giugno 2021. Mentre l’Unione Europea vara misure sempre più stringenti contro le emissioni di gas serra per raggiungere gli obiettivi di produzione di energie verdi stabiliti dall’Onu e gli Stati Uniti tornano negli accordi ecologici globali dopo la parentesi trumpiana, si scopre che cinque potenze dell’oriente punteranno fortemente sugli impianti a carbone per sostenere le richieste energetiche della loro crescita economica. Che dopo la crisi del Covid tornerà a essere dirompente. Carbon Traker Initiative, think tank ecologista con sede a Londra, ha scoperto che la Cina ma anche l’India, il Giappone, l’Indonesia e il Vietnam stanno finanziando la costruzione di più di 600 nuove centrali a carbone. Le peggiori in termini di inquinamento ed emissioni di Co2. Pechino resta il principale investitore mondiale in questo settore. Al momento ha in uso centrali che danno 1.100 gigawatt ma ha intenzione di aumentare l’energia prodotta di altri 187 gigawatt. Insomma, noi puliamo l’ambiente proprio mentre l’Asia ci inquina.

Processo al metano. Per anni è stato considerato come la soluzione energetica del futuro. Adesso è nel mirino dei climatologi. Luca Fraioli su La Repubblica l'1 luglio 2021. C’è un nuovo accusato sul banco degli imputati per il riscaldamento globale: accanto al nemico pubblico numero uno, l’anidride carbonica, siede ora anche una molecola fatta da un atomo di carbonio e quattro di idrogeno, CH4: il metano. Sembra trascorsa un’era geologica da quegli spot televisivi degli anni Ottanta che presentavano il gas naturale come la soluzione energetica del futuro: “brucia bene, lascia l’aria pulita e i cieli azzurri.

Se l’ambientalismo diventa ideologia la citta va fuorispista. Antonio Ruzzo il 20 giugno 2021 su Il Giornale.  C’è un filo sottile che separa l’ambientalismo dall’ideologia, dalla convinzione che le sorti del Pianeta possano essere interamente nelle mani dell’uomo. Così non è, ovviamente, ed è un attimo che quel filo si spezzi. Sembra un po’ quello che sta accadendo in città, dove la «crociata» ambientalista del sindaco Sala e di alcuni suoi assessori rischia di portare Palazzo Marino su posizioni lontanissime dalla realtà milanese, in una città «parallela» che ignora proteste, disagi, difficoltà economiche esigenze che il post pandemia impone per una ripartenza economica che dire incerta è essere ottimisti. E quando l’ambientalismo diventa ideologia cancella soprattutto il buonsenso. Le piste ciclabili di per sè non sono un problema. É sacrosanto che una città organizzi la sua mobilità al meglio possibile e le bici sono un’ottima alternativa. Un’ottima alternativa, appunto. Non l’unica soluzione possibile. A parte che non tutti possono o sono in grado di pedalare, una città come Milano per muoversi, lavorare, trasportare ha bisogno di un piano di mobilità concreto e non ideologico che metta mano, ad esempio, all’organizzazione del trasporto pubblico che durante l’emergenza ha mostrato qualche limite e che riveda, altro esempio, gli orari di consegna delle merci, che ipotizzi un carico-scarico notturno magari utilizzando anche le metropolitane, che immagini la possibilità di creare hub di smistamento fuori dalle circonvallazioni per camion e furgoni con navette elettriche che poi entrano in città per consegnare porta a porta. Cose concrete, ma non se ne parla. La deriva ideologica di Palazzo Marino è di andare avanti sommando chilometri e chilometri di ciclabili senza dubbi e senza sentir ragioni investendo un sacco di danè che magari sarebbero più utili per rimodernare una rete elettrica «antica» che in questi giorni di caldo e di condizionatori accesi non tiene botta. Una deriva che ha portato a una politica fatta di annunci che sogna una città libera e felice dove l’urbanistica è solo «tattica», dove le periferie sono «green e friendly», dove non ci sono auto nè parcheggi (perchè se non ci sono le auto non servono) e dove in strada non si può più neppure fumare una sigaretta. Dalla viabilità all’ambiente alla sicurezza è un furbo «zigzagare» alla ricerca del consenso inseguito con la scorciatoia degli slogan che alla lunga però finisce per scavare un solco profondo con le esigenze di chi si ritrova a fine mese con un negozio che non incassa, con gli stipendi da pagare, con le bollette sulla scrivania. E in questi casi per far tornare i conti l’ideologia serve a poco. Sarebbe meglio, molto meglio, un buon amministratore di condominio…

Greta Thunberg, "cicciona vegana pupazzo dell'Occidente". Attacco brutale dalla Cina comunista. Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. Greta Thunberg chiede alla Cina di inquinare meno e i giornali vicini al regime comunista di Pechino la massacrano. Il commento più gentile la definisce "pupazzo", quello più corrivo prende in giro l'eco-attivista svedese definendola "grassa" e suggerendo che non si accontenti della dieta vegana. Una irrisione pubblica a cui la 18enne, che fin da bambina ha conquistato le piazze e le copertine di mezzo mondo, a replicare con insospettabile garbo. Tutto nasce dalla replica dell'editorialista del quotidiano statale cinese China Daily a un tweet di inizio maggio con cui la Thunberg chiedeva a Pechino di "cambiare drasticamente rotta" riguardo l'emissione di gas serra di cui nel 2019 il Paese è risultato primo nelle emissioni tra i Paesi sviluppati. Il giornale la definisce sprezzantemente la "principessa ambientale" per poi calcare la mano riprendendo un tweet di Tang Ge: "Sebbene affermi di essere vegana, a giudicare dai risultati della sua crescita, le sue emissioni di carbonio in realtà non sono basse". Di fatto, un  modo mascherato per darle della cicciona. "Essere vittima di fat shaming dai media statali cinesi è un'esperienza piuttosto strana anche per i miei standard", ha commentato Greta su Twitter. In realtà, la critica cinese è anche sostanziale. Greta userebbe "due pesi e due misure", dimenticandosi di criticare allo stesso modo anche il gigante americano ("Lo stile di vita Usa ed europeo è quello che inquina di più la terra", sostiene l'editorialista del China Daily). "La principessa non ha mai piantato un albero nel deserto. Al contrario, è andata in giro, tenendo in mano diversi cartelli di protesta che hanno inquinato l'ambiente". Un "pupazzo in mano all'Occidente", è l'elegante chiosa cinese.

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” il 23 maggio 2021. Da qualche giorno Greta Thunberg litiga col regime comunista cinese sull'ambientalismo. Tanto che da Pechino si rinfaccia all'attivista svedese dell'ecologismo catastrofista di essere ingrassata mangiando carne, mentendo sulla sua adesione a una dieta vegetariana, meno impattante sull'ambiente rispetto a un'alimentazione carnivora. Il giornale governativo China Daily, con un articolo di Tang Ge, ha attaccato Greta: «Anche se dice di essere vegetariana, giudicando dai risultati della sua crescita, le sue emissioni di carbonio devono essere in realtà non basse». Tang ha inoltre ironizzato definendola «principessa ambientalista». Greta ha ribattuto sui social: «Essere insultata sul grasso ("fat-shamed") da parte dei media di Stato cinesi è una strana esperienza perfino per i miei standard. Ma in fin dei conti è entrato a far parte del mio curriculum». Tutto era iniziato la settimana scorsa, quando la ragazza aveva criticato la Cina per i suoi effettivamente altissimi livelli d'inquinamento, scrivendo su Twitter: ««La Cina è ancora considerata in via di sviluppo, ma non è una scusa per rovinare il futuro. Non possiamo cambiare le cose se la Cina non cambia corso». Ai cinesi non è andato giù anche il fatto che la Thunberg sia stata invece morbida sulla decisione del Giappone di scaricare in mare l'acqua radioattiva della centrale atomica di Fukushima. Perciò, altri commentatori di Pechino, come Wuhe Qilin, del Sina Weibo, hanno definito la ragazza «pupazzo delle potenze occidentali». Che la Cina sia con gli Usa fra i massimi inquinatori, è vero. Ma Greta critica con toni apocalittici senza proporre soluzioni, tanto che lo psicologo norvegese Per Espen Stoknes l'ha criticata consigliandole di parlare «per il 75% di soluzioni al problema e solo per il 25% di evocare i rischi». In sostanza, il contrario di quanto fa la Thunberg.

Greta e le altre: ecco le ragazze che lottano per il Pianeta. Raffaella De Santis su La Repubblica il 21 aprile 2021. Dall'Africa alla Cina, dalla Russia al Brasile, un libro illustrato racconta le storie delle giovani attiviste che vogliono cambiare il mondo. Una lettura adatta a bambini e adolescenti sensibili ai temi ambientali. Tutti i giorni Lilly Platt torna da scuola guardandosi intorno. Vive a Amsterdam, se trova plastica in giro la fotografa e poi pulisce. Nel giro di poco tempo i suoi post e i suoi scatti ambientalisti, e soprattutto la sua passione, l'hanno trasformata in una giovane attivista seguita su Instagram da oltre 7 mila follower. In molte foto testimonia la tragedia degli animali che mangiano la plastica e si intossicano.

Per Greta Thunberg gli obiettivi definiti "ambiziosi" sono "insufficienti". Clima, gli impegni presi dai 40 leader mondiali. Biden: “È il decennio decisivo, dobbiamo agire”. Redazione su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Quaranta leader mondiali si sono riuniti virtualmente per il summit sul clima promosso dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Un vertice virtuale, voluto per dare nuova spinta alla lotta al cambiamento climatico e in vista della Conferenza Onu di Glasgow Cop26 a novembre , pur tra le critiche di gran parte dell’ecoattivismo mondiale, tra cui Greta Thunberg per cui gli obiettivi definiti “ambiziosi” dai leader sono in realtà “insufficienti”. A guidare il summit, a un tavolo circolare con al centro una piattaforma ricoperta di prato, oltre a Biden sono stati l’inviato per il Clima John Kerry e il segretario di Stato, Antony Blinken. Presenti anche i presidenti di Cina e Russia, nonostante le tese relazioni con Washington, in quello che è stato un coro di impegni a proteggere l’ambiente e spingere sull’economia ‘verde’. Per l’Italia il premier Mario Draghi ha sottolineato: “Dobbiamo invertire la rotta e farlo subito. Vogliamo agire ora, non avere dei rimpianti dopo”, “l’Italia quest’anno detiene la Presidenza del G20 e la salvaguardia del nostro pianeta è uno degli obiettivi principali del nostro programma”. “Il costo dell’inazione continua a crescere”, “questo è il decennio decisivo” per “evitare disastrose conseguenze”, ha detto Biden aprendo il summit. “I segnali sono chiari e la scienza è innegabile”, “è un momento di pericolo, ma anche di opportunità”, ha aggiunto, facendo riferimento ai “milioni di posti di lavoro” da creare. L’impegno degli Usa è tagliare le emissioni fino al 52% entro il 2030, dopo il disimpegno dell’amministrazione Trump. Ciò richiederà il più grande sforzo mai fatto, quasi raddoppiando gli obiettivi presi da Obama a Parigi nel 2015. E proprio il ritorno degli Usa nell’accordo è stato elogiato da vari leader, tra cui la cancelliera Angela Merkel. Per l’Ue, che ha fissato la riduzione dei gas serra del 55% entro il 2030 rispetto ai ’90, sono intervenuti i presidenti di Commissione e Parlamento, Ursula von der Leyen e Charles Michel. Il ritiro dall’accordo era stato deciso da Trump, che aveva anche rafforzato la produzione di petrolio e gas, nonché deriso la scienza e i suoi avvertimenti sul clima. Cioè il fatto che il riscaldamento globale causato da centrali a carbone e uso di carburanti fossili stia aggravando allagamenti, uragani, incendi e altri disastri. Non hanno invece preso impegni precisi Cina e Russia. Il cinese Xi Jinping, il cui Paese è il maggior emettitore di gas serra, prima degli Usa, non ha accennato alle dispute che fino all’ultimo hanno messo in dubbio la sua presenza, dicendo che Pechino lavorerà con gli Usa nel taglio delle emissioni. “Proteggere l’ambiente è proteggere la produttività”, ha detto. Neanche il russo Vladimir Putin, di recente definito da Biden “assassino” per la repressione degli oppositori, ha accennato alle tensioni. “Siamo genuinamente interessanti a promuovere la collaborazione internazionale e cercare altre soluzioni efficaci al cambiamento climatico”, ha detto. La Russia è la quarta emettitrice di gas serra. I leader dei Paesi più piccoli e delle isole hanno sollevato l’allarme per l’innalzamento delle acque e gli uragani, chiedendo aiuto e tagli veloci alle emissioni. “Siamo quelli che meno contribuiscono ai gas serra, ma siamo i più colpiti dal cambiamento climatico”, ha riassunto Gaston Alfonso Browne, premier di Antigua and Barbuda, accennando ad aiuti di ripresa dai disastri e alleviamento del debito. I Paesi poveri guardano anche agli Usa perché li dicono in debito di 2 miliardi di dollari in aiuti risalenti all’era Obama, che Trump non ha versato. Biden ha promesso di raddoppiare i fondi per gli aiuti climatici ai Paesi poveri entro il 2024 e ha detto che la US International Development Finance Corporation entro due anni avrà un terzo dei nuovi investimenti sul clima. Qualche leader si è poi fatto notare per le sue posizioni contradditorie. Spicca il brasiliano Jair Bolsonaro, che ha promesso lo stop alla deforestazione illegale dell’Amazzonia e parlato dell’importanza della tutela dei popoli indigeni, quando è noto per politiche che vanno in tutt’altro senso.

Earth Day 2021, il mondo è nelle nostre mani. "Restore our Earth" è il tema di questa Giornata mondiale della Terra. La crisi climatica è al centro dell'agenda politica mondiale, ma bisognerà vedere se alle promesse dei politici seguiranno azioni concrete per limitare i danni. Luca Fraioli su La Repubblica il 21 aprile 2021. Ha appena compiuto cinquant’anni, ma proprio ora le viene chiesto l’impegno maggiore. Le foto in bianco e nero di quel 22 aprile 1970, prima Giornata mondiale della Terra, raccontano di una gioventù americana scesa in strada (furono decine di milioni in tutti gli States) per chiedere alla politica più attenzione verso il Pianeta. Erano gli anni del Vietnam e della contestazione, di ragazze e ragazzi che sognavano di cambiare il mondo marciando dietro slogan e striscioni. Molti la considerano la data di nascita dell’ambientalismo moderno, che ha certamente contribuito ad accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica, ma non si può dire che abbia cambiato radicalmente il nostro modo di vivere, di consumare, di produrre energia, di sfruttare la Natura. Tanto che 51 anni dopo ci ritroviamo a sperare che l'Earth Day segni un nuovo inizio, rappresenti una svolta soprattutto nell’affrontare la principale emergenza ambientale della nostra era: quella climatica. Stavolta, complice anche il Covid, non ci saranno folle di giovani in strada. Ma l’epicentro sarà ancora una volta l’America: il presidente Biden, ansioso di rimettere gli Usa alla guida della rivoluzione Green, dopo il negazionismo trumpiano, ha organizzato proprio in occasione della 51esima Giornata mondiale della Terra un vertice al quale ha invitato 40 capi di Stato e di governo. La solita passerella? Le solite promesse non mantenute, come accusano i giovanissimi attivisti di Fridays for Future? Vedremo. Certo, la Casa Bianca ha preparato l’evento mandando nelle principali capitali il suo zar per il clima John Kerry. E si spera che l’ex Segretario di Stato di Obama non sia tornato a Washington a mani vuote. Ma la vera scommessa riguarda proprio l’Amministrazione Biden: come scrive Bloomberg, piattaforma di informazione di proprietà dell’omonimo magante ambientalista ex sindaco di New York, “l’America vuole la leadership sul clima, ma prima dimostri al mondo di fare sul serio”. Come dire che la Casa Bianca, per essere credibile e trascinare con se le altre nazioni in una vera transizione ecologica, deve gettare il cuore oltre l’ostacolo e non limitarsi ad accettare i tagli alle emissioni ratificati ormai sei anni fa a Parigi e la cui efficacia è superata dal precipitare della situazione. Lo chiedono ormai non solo Greta Thunberg e i suoi epigoni, ma persino i 310 manager più influenti d’America che hanno appena scritto una lettera a Biden invocando misure drastiche per frenare il riscaldamento globale. "Business is business", ma in un mondo agonizzante quale business potrebbe mai sopravvivere? Purtroppo i dati raccolti da scienziati e istituzioni sovranazionali, e riassunti in questo speciale di Green and Blue, confermano ogni giorno di più che occorre agire in modo deciso e immediato. Nel 2021 le occasioni non mancano: il vertice voluto da Biden, il G20 a guida italiana, la Cop26 di Glasgow a inizio novembre. C’è poi quello che può fare ciascuno di noi nel suo piccolo, come individuo e come comunità. Non a caso il tema individuato per questa 51esima edizione della Giornata mondiale della Terra è "Restore your Earth", un invito rivolto a tutti noi, perché ognuno restauri il pezzetto di Pianeta di sua competenza. Vedremo se i Grandi manterranno le promesse fatte nei prossimi summit. E se le persone normali sapranno cambiare le loro abitudini per contribuire. Chissà che nel 2022, in occasione della 52esima Giornata della Terra, non si possa tornare in strada come in quel lontano 1970. Magari non per protestare, ma per festeggiare l’inizio di una vera rivoluzione verde.

Quando l'America di Nixon scoprì l'ambientalismo. Federico Rampini su La Repubblica il 22 aprile 2021. Le prime leggi contro l’inquinamento furono di Kennedy, ma la vera svolta si deve al presidente repubblicano durante la guerra del Vietnam. Il movimento ambientale americano ha dei pionieri illustri: nell’Ottocento, Henry David Thoreau e John Muir furono tra i teorici di quello che allora si chiamava “conservazionismo”. Influenzarono i due presidenti-cugini, Theodore e Franklin Roosevelt, ambedue attivi nella creazione di parchi nazionali e nella tutela delle terre sotto giurisdizione federale. Ma l’ambientalismo moderno è una creatura degli anni Sessanta. Convergono a farlo nascere negli Stati Uniti tre fattori. In primo luogo alcuni episodi d’inquinamento grave (anche in seguito ai test nucleari) vedono reagire una società civile più sensibile. In secondo luogo, la rivoluzione culturale giovanile – culminata nella Summer of Love di San Francisco nel 1967 – ha una forte componente naturalistica, riscopre i “nativi” (quelli che un tempo chiamavamo indiani d’America) come un modello di attenzione all’ecosistema. In terzo luogo c’è il contributo degli scienziati: è nella seconda metà degli anni Sessanta che cominciano a maturare al Massachusetts Institute of Technology e in altre università d’eccellenza le teorie sui “limiti dello sviluppo”. Coincidono con scenari apocalittici – ispirati al pensiero malthusiano – sulla “bomba demografica” e l’impossibilità di sfamare un pianeta sovrappopolato; l’esaurimento irreversibile di risorse naturali; i danni dell’inquinamento per la salute. L’ambientalismo americano degli anni Sessanta incrocia altre due rivoluzioni valoriali e di costume, il consumerismo (tutela dei diritti dei consumatori) e il salutismo ispirato anche ai nuovi stili di vita della New Age sulla West Coast. Il paradosso è che a raccogliere questi impulsi dal basso – e dal mondo scientifico – per trasformarli in riforme politiche, nuove regole e nuove istituzioni, è un presidente repubblicano: Richard Nixon. La sua fama è macchiata per sempre dallo scandalo del Watergate che ne segna la caduta; nonché da crimini come il bombardamento illegale della Cambogia in una guerra non dichiarata (effetto collaterale dell’escalation militare in Vietnam). Eppure lo stesso presidente che ordina l’uso massiccio dell’agente defoliante napalm nella penisola indocinese, a casa propria crea nel 1970 la Environmental Protection Agency (Epa), l’authority per la tutela dell’ambiente destinata a diventare un modello mondiale. Una premessa era stata l’approvazione al Congresso del Clean Air Act sotto il presidente democratico John Kennedy nel 1963: la prima legislazione veramente avanzata per combattere l’inquinamento atmosferico. Però è solo con la creazione dell’Epa da parte di Nixon che il Clean Air Act acquista “i denti”, l’autorità per mordere, vigilare sul rispetto delle norme, sanzionare le violazioni. La scelta di concentrare poteri di regolazione e controllo in capo a un’istituzione tecnocratica, con una forte cultura scientifica, e (relativamente) protetta dalle ingerenze politiche, si è rivelata lungimirante e nel lungo periodo ha consentito delle avanzate importanti. Per esempio, la riduzione dello smog da traffico automobilistico grazie alle marmitte catalitiche consentì di vedere cieli azzurri a Los Angeles, metropoli che era diventata un inferno irrespirabile negli anni Sessanta. La preveggenza di Nixon fu premiata dagli eventi successivi: i due shock petroliferi degli anni Settanta fecero entrare nella coscienza collettiva degli americani il dubbio sulla sostenibilità economica – oltre che ambientale – del capitalismo fossile. A quell’epoca l’ambientalismo era molto meno influenzato di oggi dalla contrapposizione fra democratici e repubblicani. È ancora a Nixon che bisogna far risalire però un’altra scelta gravida di conseguenze: l’apertura alla Cina, dettata da ragioni geostrategiche, pose le premesse per l’ascesa di quella che mezzo secolo dopo è diventata la “superpotenza carbonica” numero uno.

Conservatori e veri ambientalisti: nel libro della Meloni, Roger Scruton “batte” Greta Thunberg. Lando Chiarini lunedì 7 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. La destra italiana e Roger Scruton, l’espressione più lirica e per molti versi persino dolente di quell’autentico scrigno di storia, valori, culture e prassi politiche che è il pensiero conservatore. «Neanche ricordo più quante volte l’ho citato», scrive Giorgia Meloni nella sua recente autobiografia a sottolineatura dell’interesse per l’illustre pensatore tory, scomparso nel gennaio dello scorso anno a 75 anni. Un faro spentosi proprio all’insorgere della pandemia privandoci così della giusta luce con cui illuminare l’assetto di un dopo destinato a demolire le granitiche certezze di progresso promesse dalla globalizzazione. Almeno così sembra. Persino ora che il peggio è alle spalle nostre.

Scruton faro del pensiero tory. Già, sarebbe quanto mai interessante conoscere il pensiero di Scruton sullo scontro che sembra riaccendersi nella Ue tra i guardiani dell’austerity e chi spinge per dotarla di una visione politica con al centro i popoli e non solo le politiche di bilancio. O, ancora, sull’esistenza di un nesso di causalità tra la Brexit e l’ottima performance del governo di Boris Johnson, primo in Europa a rivedere la luce dopo le tenebre imposte dal Covid. Certo, la dura scorza di realismo e scetticismo rende i conservatori naturalmente refrattari ai facili entusiasmi tipici degli spacciatori di utopie, per cui è altamente probabile che Scruton si sarebbe astenuto dal tranciare giudizi validi da qui all’eternità.

Il sostegno alla «Lady di ferro». È vero, invece, che anche l’Italia registra una rinnovata curiosità verso il pensiero conservatore. Si indaga, in particolare sul suo rapporto con il thatcherismo e la conclusione è tutt’altro che scontata. Sembra, infatti, che il secondo contraddica il primo più di quanto non lo integri. E questo perché l’esperienza di governo legata al nome della Iron Lady aveva dalla sua una mistica del mercato e dell’individuo, di cui furono illustri vittime i concetti di comunità e di coesione sociale. La necessità di arginare il declino seguito al pur vittorioso secondo conflitto mondiale, aveva spinto Margareth Thatcher a rompere l’equilibrio sociale costruito da laburisti e conservatori con l’obiettivo di traghettare l’ex-impero verso una maggiore integrazione con l’Europa.

La leader di FdI e l’Ecr. Ma proprio in questa travagliata transizione la Thatcher, di cui Scruton fu entusiasta sostenitore, individua la causa prima del declino della sua Isola. Da qui la decisione di ridurre drasticamente la presenza dello Stato nell’economia e di sfidare sul welfare la potente macchina sindacale. Una rivoluzione anche rispetto al partito tory, da sempre fautore di un’economia sociale di mercato basato su un individualismo temperato dal riconoscimento dell’importanza dei corpi intermedi. Così inteso, più che una variabile, il thatcherismo è addirittura un’eresia del conservatorismo. Conferma, in ogni caso, che nessuna cultura politica è etichettabile una volta per sempre.

La destra e il declino italiano. Lo sa bene Giorgia Meloni, da poco meno di un anno alla guida l’Ecr, la sigla che raccoglie i partiti conservatori europei. Una carica tutt’altro che onorifica alla luce della guerra di posizionamento in corso tra i gruppi alla destra del Ppe. Tanto più che i sondaggi segnalano come tutt’altro che remota la possibilità che la leader di FdI possa diventare la prima donna premier in Italia. Nessun confronto, ci mancherebbe. Ma è innegabile che nell’Italia di oggi, esattamente come nella Gran Bretagna di ieri, la scommessa consista nell’«aggredire il declino». Virgolette d’obbligo, visto che proprio così s’intitola l’ultimo paragrafo politico del libro della Meloni. Non ancora un obiettivo di governo. Ma di certo un impegno politico-culturale per restituire prospettiva al conservatorismo di fronte alle sfide della modernità.

Patriottismo ecologista. La prima – come lo dimostra la dolorosa vicenda dell’Ilva di Taranto – è legata alla necessità di superare la feroce opzione ancora oggi esistente tra lavoro, salute e ambiente. In Io sono Giorgia, ancora una volta citando Scruton, anche la leader di FdI sottolinea la necessità di «aggredire il declino» da una visuale certamente «produttivista». Ma in cui rifulge, altrettanto intensa, una forte vocazione ecologista. Cura dell’ambiente e visione di uno sviluppo sostenibile della produzione – è la tesi esposta nel libro – rappresentano sensibilità, prima ancora che tematiche, connaturate ad una weltanschauung conservatrice. Nulla di più vero.

Scruton: «La civiltà è più facile perderla che trovarla». Così come è vero che la ricerca di equilibrio tra cultura e natura è un caposaldo della cultura di destra. La sola idea di patria, intesa non solo come luogo in cui nasce ma soprattutto come terra di chi verrà, vale più di mille skolstrejk för klimatet di Greta Thunberg. Perché tale sensibilità non si fonda su mode del momento né su emergenze dettate da dati e statistiche, ma su un assetto interiore che trova nella terra, in particolare nella sua accezione di radicamento e di identità, un valore non negoziabile. Ne troviamo traccia anche in Scruton quando scrive che «la civiltà è più facile perderla che trovarla ed è facile perderla se non ci si dà la pena di conservarla». Significa, nella sua essenza, che il pensiero conservatore è l’ultimo appiglio di un’Europa affacciata sul baratro. 

Dimenticate Greta. Ecco chi difende (davvero) l'ambiente. Daniele Dell'Orco il 14 Aprile 2021 su Il Giornale. Intervista a Nicola Procaccini, europarlamentare e capo del Dipartimento Ambiente di Fratelli d'Italia: "Altro che Greta, il nostro rapporto con l'ambiente si basa sulla verticalità". Da oltre un anno è stato scelto dai vertici di Fratelli d’Italia per guidare il “Dipartimento Nazionale Ambiente”, ma da ancora prima Nicola Procaccini, europarlamentare e già sindaco di Terracina (LT), si è fatto portatore di un messaggio politico di “conservatorismo verde” per certi versi inedito nella narrazione contemporanea degli schieramenti di destra, ma lo ha fatto partendo dalla consapevolezza che, in un passato nemmeno troppo lontano nel tempo, tanto nel Movimento Sociale quanto in Alleanza Nazionale l’ecologia abbia sempre occupato un ruolo centrale dal punto di vista programmatico e del dibattito. Vuoi per errori strategici o vuoi per mancanza di visione, nessuno di questi predecessori è riuscito ad evitare che la salvaguardia dell'ambiente venisse quasi interamente “appaltata” al fronte liberal progressista, che l’ha resa una vera e propria ideologia. Poiché la transizione verso uno stile di vita più "green" sarà il tema portante dell'agenda politica internazionale dei prossimi decenni, insieme a un pioniere del tema come Procaccini Il Giornale.it ha approfondito le differenze sostanziali che intercorrono tra l'ecologismo "identitario" e quello "globalista".

Onorevole Procaccini, dagli schieramenti progressisti ci si meraviglia sempre che un tema come la tutela dell’ambiente possa essere considerato centrale anche in chiave conservatrice. In realtà invece si lega perfettamente ai concetti chiave come la salvaguardia delle identità e delle tradizioni. Lei che ne pensa?

"La sinistra ha da sempre un atteggiamento arrogante quando si affrontano tematiche di carattere culturale, e settori come la scuola o appunto l’ecologia non fanno eccezione, poiché vengono considerati una sorta di terreno di caccia elettorale su cui rivendicano non si capisce bene che tipo di primato, quando invece dovrebbero rappresentare luoghi importanti per lo sviluppo della Nazione in modo del tutto trasversale".

Quali sono le differenze nei due modi di percepire l’ambiente?

"Nell’ecologia per noi sta la radice del pensiero politico e del pensiero conservatore. L’identità di Fratelli d’Italia è conservatrice perché si rifà a un pensiero politico che affonda le radici nel tempo e nello spazio. In questo senso ho fatto mie le parole di Roger Scruton, principe del pensiero conservatore britannico, da poco scomparso, che nel tratteggiare l’essenza del pensiero conservatore in generale sosteneva in Essere conservatore che si tratta di una 'Alleanza tra i vivi, coloro che ancora non sono nati ma stanno per nascere, e i morti'. Scruton traccia i contorni della oikofilia, l’amore per la propria casa. È sorprendente in un certo senso diversi movimenti in giro per il mondo non si siano interessati a questa causa: quella della conservazione del patrimonio naturale. Che fa il paio con un altro elemento segna il confine dell'ambientalsmo di destra, che è la spiritualità".

Ce ne parli...

"L’ambientalismo di sinistra ha una matrice materialista, poiché discende dal socialismo, e non riconosce nel filo d’erba, nell’animale, nell'albero il suo essere una manifestazione divina. Un aspetto al contrario essenziale per noi. Se non avessimo la cognizione che ci sia qualcosa di verticale che deve animare la vita delle persone sarebbe complicato doversi impegnare per conservare qualcosa per chi verrà dopo".

L'ambiente quindi come tema etico e metafisico?

"Certamente. In Saluto e augurio c’è un passo che Pasolini ripete in questa sorta di testamento ideale: 'Difendi, conserva, prega'. Un concetto formidabile, ci sui parlo spesso anche con Giorgia [Meloni, NdR], poiché chiude il cerchio anche con questioni come la difesa della vita fin dal concepimento. Questo soffio divino non c’è nell’ambientalismo di sinistra, e a me sembra che rimanga un incompiuto, un surrogato del socialismo privo di una coerenza, perché preferisce difendere un albero e un animale piuttosto che il figlio di un uomo".

Ci fa un esempio?

"Si pensi alla caccia: noi siamo favorevoli a questa pratica secolare osteggiata oggi dal perbenismo di sinistra perché anche nella caccia c'è una dinamica spirituale che lega l’uomo all’animale, un legame profondo e radicato fin dalla notte dei tempi. Si tratta di un rapporto complementare, proprio perché l’uomo sopravvive grazie al sacrificio dell’animale. È esemplificativa di questo aspetto la preghiera che gli Indiani d'America da sempre dedicano all’animale ucciso, che viene venerato non in quanto materia, ma spirito di cui si nutrono. Un concetto molto attuale".

In che modo?

"Tiene insieme un altro aspetto cardine dell’ecologia: la contrarietà agli allevamenti intensivi che oltre ad essere inquinanti umiliano gli esseri viventi, sprecano metà della carne e racconta della frattura tra uomo e animale. Uomo e animale sono complementari e devono essere quanto più possibile onorati, difesi e tutelati. Anche nelle Sacre scritture Dio dice a Pietro: 'Uccidi e mangia!', mentre a Noè e ai suoi figli dice: 'Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo'. È questa verticalità che ci consente di essere coerenti. Ed è tipica anche di un altro aspetto antimoderno…"

Quale?

"La difesa del territorio. Noi siamo promotori di un rispetto del bosco e della campagna, e vorremmo recuperare un vecchio assunto dei conservatori britannici: quello della cintura verde. Si tratta di una legge, quella della "green belt" appunto, secondo la quale attorno a ogni nucleo abitato debba essere preservata una cintura invalicabile più o meno spessa per ricostruire l’equilibrio tra natura ed essere umano, e noi di FdI l’abbiamo inserita come proposta di legge nel programma elettorale. In sintesi, per tornare alla sua domanda, noi siamo equilibrati, la sinistra invece deve trovare un surrogato al comunismo e sposa la causa ambientalista in modo furioso, ideologico. Che fa persino più danni".

Addirittura?

"Per fare un esempio a me vicino, basti pensare alla rivoluzione verde secondo Frans Tiemmermans, che ha una visione estremista applicata un po’ a tutto. Sulla transizione energetica, invece è giusto porsi degli obiettivi anche ambiziosi a patto però che siano realistici, altrimenti paradossalmente diventano un boomerang. Per dire, stabilire che si debba abbandonare il fossile in breve tempo significa dire una follia e pregiudicare l’individuazione di un obiettivo condivisibile. Non ci sono, ad oggi, tecnologie che consentono di superare il fossile. L’Italia ne dipende per il 60%. La transizione deve essere graduale, altrimenti produce povertà, perdita di posti di lavoro, chiusura di attività professionali".

Vista l’opposizione di FdI al Governo Draghi, non avverte un certo rammarico per l’impossibilità di avere voce in capitolo nella gestione dei miliardi del Recovery Fund destinati alla transizione ecologica?

"Niente affatto. Non si tratta di qualcosa che potrebbe essere oggetto di una trattativa tra partiti. L'Ue fissa paletti precisi talvolta fin troppo stringenti sulla gestione di quei fondi e sui suoi campi d’applicazione. Il Governo spesso si limita ad applicare dei diktat. I soldi del Recovery sono preziosi e l'importante è che vengano impegnati bene. La paura è che al netto dei diktat europei si possano buttare via nelle solite marchette elettorali".

Litio, idrogeno, nucleare. A che punto è l'Italia nella corsa alle nuove fonti di energia sostenibili?

"L’Italia deve condurre le nuove sfide energetiche determinate dalle proprie specificità: vento, eolico offshore, geotermico che forse è l’energia più interessante per una Nazione come la nostra ricca di aree appenniniche che sono in grado di produrne in buona quantità. Di certo però bisogna investire per aumentare il mix energetico: la tecnologia può darci una grossa mano nel sostenere l’ambiente senza pregiudicare la qualità della vita e il benessere economico. Ma servono risorse che non sempre abbiamo. La Germania, ad esempio, sta scommettendo tutto sull'idrogeno. Ma bisogna poterselo permettere, bisogna saper resistere alle interferenze esterne, alle influenze dei privati che confliggono, alle lotte tra i grandi player dell'energia che si contendono gli spazi e lo fanno in maniera anche violenta. Serve un approccio più responsabile sotto tutti questi punti di vista, che sto portando avanti come membro della Commissione AGRI, cercando di sponsorizzare tecnologie capaci di superare metodi dannosi, come l’agricoltura di precisione che si basa su tecnologie in grado di migliorare la qualità del prodotto, ridurre il consumo di acqua e l’uso di citofarmaci. È un approccio altro rispetto a quello della sinistra che è solo ‘vietare e tassare’. Dovremmo ribaltare il paradigma dicendo invece "sostieni promuovi sponsorizza" convincendo le aziende ad investire sull’innovazione amica di uno sviluppo sostenibile sia dal punto di vista naturale che economico".

Articolo del "Financial Times" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 31 marzo 2021. Greta Thunberg ha compiuto 18 anni qualche mese fa, ma ogni tanto se ne dimentica. "Ora posso davvero votare", sorride. Ma le parole "noi bambini" scivolano ancora a volte nelle sue frasi, per abitudine. È ottimista riguardo al cambiamento, ma è un cambiamento più grande di quello che lascia intendere: quella frase è stata una parte centrale del suo messaggio. Thunberg è diventata l'attivista per il clima più famosa del mondo grazie a questa idea: che i bambini devono svegliare il mondo sulla realtà del cambiamento climatico. Aveva solo 15 anni quando ha iniziato lo "sciopero della scuola per il clima", per il quale ha saltato le lezioni e si è seduta fuori dal parlamento svedese - all'inizio da sola e poi con decine, poi centinaia di altri ogni venerdì. Mentre il movimento cresceva, aiutato dai discorsi di Thunberg, milioni di studenti si sono uniti a lei. Si è presa un anno di pausa dalla scuola, ha condotto proteste in tutto il mondo ed è stata nominata tre volte per il premio Nobel per la pace. Ma oggi il mondo è molto diverso. Quando parliamo a metà marzo, la maggior parte dell'Europa è sotto una qualche forma di isolamento. Thunberg è nella sua casa di famiglia a Stoccolma - la cyclette di suo padre e alcune piante d'appartamento fanno da sfondo al colloquio con il Financial Times via zoom. È anche tornata a scuola, e non salta più le lezioni il venerdì: le proteste durante la pandemia sono state per lo più virtuali. Alla ricerca di un lato positivo della situazione attuale, le chiedo se vede un lato positivo della crisi, che ha causato un calo del 6% delle emissioni globali l'anno scorso. "La pandemia non ha portato nulla di positivo", dice senza mezzi termini. "Le riduzioni delle emissioni che abbiamo potuto vedere erano temporanee e accidentali. Non si sono verificate a causa del nostro effettivo tentativo di ridurre le emissioni. Quindi questo non ha nulla a che fare con l'azione climatica". Ma la pandemia contiene una lezione, dice: "Dimostra che la crisi climatica non è mai stata trattata come una crisi. La mette solo in una luce diversa". Thunberg è diventata il volto del movimento per il clima quando questo godeva di un grande successo. Negli ultimi due anni, decine di paesi hanno annunciato obiettivi di emissioni "nette zero" entro il 2050, il che significherebbe praticamente eliminare i combustibili fossili dalle loro economie. La Cina e gli Stati Uniti, i due maggiori emettitori del mondo, hanno entrambi fatto del cambiamento climatico una priorità diplomatica. Molte delle aziende più sporche del mondo si sono impegnate a ridurre le emissioni. E le immagini di migliaia di bambini che marciano per le strade in proteste ispirate da Thunberg hanno galvanizzato un'attenzione politica sul cambiamento climatico che sarebbe stata inimmaginabile qualche anno fa. "L'Effetto Greta" è diventato un fenomeno con una vita propria. È diventato anche oggetto di studio e di dibattito, non tutti acritici, da parte di attivisti, accademici e dirigenti. Si stanno chiedendo quanto dell'impatto di Thunberg sia personale e quanto sia dovuto alla tempistica; dove andrà dopo; e quanto duraturo, in economie e industrie che cambiano lentamente, il suo impatto si dispiegherà. E queste sono domande che Thunberg pone anche a se stessa. Perché pensa di essere diventata famosa? "Non lo so", dice. "Credo che sia stata solo la cosa giusta al momento giusto. La gente era pronta per questo genere di cose, e poi è semplicemente decollato. E una cosa tira l'altra e, sì, è andata fuori controllo... o almeno, fuori da ciò che era ragionevole". L'ultima volta che ci siamo incontrati è stato due anni fa, quando abbiamo pranzato insieme a Stoccolma. Anche se Thunberg è esteriormente simile, nel corso della nostra conversazione diventa chiaro quanto sia cresciuta. È molto più sicura e rilassata, e dà risposte lunghe e complicate quando si tratta dei suoi argomenti preferiti, come le insidie degli obiettivi zero. Fa ancora un po' fatica a fare conversazione, cosa comune tra le persone che hanno la sindrome di Asperger, una forma di autismo. Com'è tornare a scuola? Molto diverso da prima, dice. Cosa pensa dei recenti obiettivi climatici fissati dalle maggiori economie? "[Il mio punto di vista] è completamente irrilevante... Non dovremmo concentrarci sul fatto che gli individui pensino che sia sufficiente o che io pensi che sia buono". Ma dopo un inizio un po' pungente ci sistemiamo. Thunberg inizia a lavorare su alcuni ricami mentre parla - un pezzo che ha disegnato per un'amica che è un'attivista del clima nei Paesi Bassi. "Posso fare queste cose durante le lezioni online", spiega, mentre un filo rosso scorre sullo schermo del video. "Mi concentro meglio quando faccio qualcosa allo stesso tempo". Chiedo come si è evoluto il suo messaggio negli ultimi anni. Thunberg ha a lungo evitato di discutere in dettaglio quali potrebbero essere le soluzioni per il cambiamento climatico - insiste che è compito di altre persone capirlo. Ma è il momento di iniziare a pensare di più alle soluzioni ora? "Se cominciassi a parlare di tasse o cose del genere, dato che ho una portata così grande, questo manderebbe un segnale che la crisi climatica è un problema che può essere risolto con la politica di partito. E questo minimizza davvero questa crisi", dice. "Dobbiamo smettere di concentrarci su date e numeri e accettare e riconoscere il fatto che abbiamo bisogno di ridurre le nostre emissioni proprio ora. Possiamo parlare del 2030 o del 2040 quanto vogliamo. Ma è quello che stiamo facendo ora che conta davvero". L'accordo di Parigi del dicembre 2015 ha spinto i paesi a fissare gradualmente obiettivi più ambiziosi, e l'ascesa dei social media ha fatto sì che un nuovo tipo di movimento di protesta potesse diffondersi tra una generazione più giovane. Ma c'era anche qualcosa di speciale nella stessa Thunberg. In uno dei suoi momenti più famosi sul palco, si è rivolta al vertice delle Nazioni Unite sull'azione per il clima a New York nel settembre 2019. "Come osate?", ha chiesto al pubblico di grandi riuniti, con quelle che sembravano lacrime di rabbia nei suoi occhi. "Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote". Il discorso di Thunberg è diventato virale, dominando i titoli dei giornali sul summit. Si sentiva davvero così arrabbiata o stava facendo un po' di scena? "Beh, voglio dire - entrambe le cose", dice. "Sapevo che questa era un'opportunità che capitava una volta nella vita, quindi era meglio sfruttarla al meglio. Così mi sono permessa di lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento". Sembra stupita, però, che l'immagine popolare di lei come un'adolescente arrabbiata sia persistita. "Non mi arrabbio mai", dice con una piccola risatina. "Se chiedete a chiunque sia nel mio ambiente, probabilmente rideranno di questa affermazione". Online, l'umorismo ironico di Thunberg emerge nei suoi tweet, e ha smontato i suoi critici, compreso l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che l'ha accusata di avere un "problema di gestione della rabbia" nel 2019 e le ha detto di andare a vedere un film per rilassarsi. Dopo le elezioni americane ha rivolto le sue stesse parole contro di lui: "Donald deve lavorare sul suo problema di gestione della rabbia, poi andare a vedere un buon film vecchio stile con un amico! Rilassati Donald, rilassati!". Il suo senso dell'umorismo sembra prosperare sotto chiave. Altri giovani attivisti ispirati da Thunberg dicono che la sua voce è quella con cui si sono identificati. "Quello che ha fatto è stato monumentale, ha davvero dato il via al movimento giovanile", dice Dominique Palmer, uno studente britannico e un attivista per la giustizia climatica che si è unito alle manifestazioni di Fridays for Future. "Nei discorsi che fa, dice tutto molto chiaramente ed esattamente com'è. Questo è stato molto rinfrancante per molte persone". L'effetto che la Thunberg ha sul suo pubblico è una delle cose uniche di lei, secondo uno studio pubblicato quest'anno nel Journal of Applied Social Psychology. "Ci sono molte persone che pensano che lei non abbia fatto nulla", dice Anandita Sabherwal, autore principale dell'articolo, "The Greta Thunberg Effect", e uno studente di dottorato alla London School of Economics. "La nostra ricerca dimostra che non è vero, che lei ha cambiato la mentalità delle persone". L'articolo di Sabherwal ha scoperto che le persone che avevano sentito parlare di Thunberg avevano maggiori probabilità di provare un senso di "efficacia collettiva", la convinzione di poter fare la differenza agendo insieme. La dimensione del campione era piccola - circa 1.300 adulti americani - ma Sabherwal pensa che l'effetto potrebbe essere ancora più pronunciato nei giovani, che non sono stati inclusi nel sondaggio. L'ondata di attivismo giovanile ha già avuto alcuni impatti nel mondo reale, comprese le cause sul cambiamento climatico intentate da bambini. Una recente sfida legale in Australia cerca di fermare l'estrazione di combustibili fossili nel paese sulla base del fatto che il governo sta violando il suo "dovere di cura" di proteggere i giovani dal cambiamento climatico. (Un caso simile negli Stati Uniti è stato respinto l'anno scorso). Anche nel mondo aziendale, il nome di Thunberg è stato onnipresente. "Un anno fa, non avrei potuto entrare in una sala riunioni senza che qualcuno si riferisse a lei, a Greta in particolare, o al movimento", dice Peter Bakker, presidente del World Business Council for Sustainable Development. "Greta e il suo movimento hanno giocato un ruolo incredibilmente importante nell'aumentare la consapevolezza". L'amministratore delegato della Deutsche Börse, il gruppo tedesco della borsa, l'ha citata quando ha introdotto il suo lavoro sulla finanza sostenibile. Il capo di una grande società di estrazione dell'uranio ha indicato Thunberg quando ha dato la sua prognosi sul futuro dell'industria nucleare. Un produttore di trattori ha fatto riferimento a lei quando ha delineato i suoi piani per veicoli agricoli a basse emissioni. La lista potrebbe continuare. "È una presenza - a volte esplicita, sempre implicita - nei dibattiti che si stanno svolgendo, sulla preoccupazione della società per il cambiamento climatico e la necessità per le aziende di essere viste come buoni attori", dice Mark Lewis, capo stratega della sostenibilità presso BNP Paribas Asset Management. Alcuni pensano che Thunberg riceva un po' troppo credito. Mike Hulme, professore di geografia umana all'università di Cambridge, paragona Thunberg all'orso polare come ultima icona del clima. "Quindici anni fa, ovunque si guardasse, spuntava l'orso polare. E per un periodo, ovunque si guardasse, Greta Thunberg sembrava essere sul palco". Ma Kingsmill Bond, stratega dell'energia presso Carbon Tracker, un think-tank sul cambiamento climatico, dice: "La grande cosa che è diversa ora da qualsiasi altro momento negli ultimi 50 anni, nei tentativi di prendere il clima più seriamente, è che l'economia ora funziona. E questo è il grande cambiamento che è avvenuto. Così invece di spingere l'acqua in salita, ora la stiamo spingendo in discesa". In molte parti del mondo, l'energia rinnovabile è ora più economica del suo equivalente di combustibile fossile. Il costo dei pannelli solari è sceso di oltre l'80 per cento negli ultimi dieci anni, mentre il costo delle batterie è un settimo di quello che era 10 anni fa. L'accessibilità dell'energia rinnovabile ha a sua volta spinto molti governi a promettere di tagliare le loro emissioni; secondo un conteggio, circa due terzi dell'economia globale sono coperti da una qualche forma di impegno di emissioni zero. "Ha colto il momento", dice Bond. "Avrebbe potuto richiedere molto tempo. Si potrebbe dire lo stesso di qualsiasi leader - il cambiamento sarebbe avvenuto a prescindere - ma c'è davvero bisogno di persone che lo facciano". Thunberg non si aspetta che la sua fama duri. "Sono sorpresa che sia rimasta così a lungo", dice. "Non l'ho davvero ancora afferrata, in un certo senso... Devi tenerti lontano da questo tipo di cose, non puoi lasciare che questo occupi la tua vita personale. Perché quando tutta questa attenzione [su di me] scomparirà, cosa che accadrà molto presto. Allora potrebbe essere una cosa difficile da gestire". Una cosa di cui è grata è che può ancora andare avanti indisturbata nella sua vita quotidiana a Stoccolma. "Sono molto fortunata in Svezia, abbiamo questa cosa chiamata Jantelagen. Nessuno si avvicina a te", dice. "Se vado in un altro paese, anche se è solo la Danimarca o la Norvegia, non posso camminare per strada senza che la gente mi fermi. Ma qui in Svezia nessuno mi guarda nemmeno. Posso vedere nei loro occhi che sanno che sono io e che mi riconoscono, ma non mi fermano. Il che è abbastanza bello, in realtà". Non è sicura di quali saranno i prossimi passi del movimento giovanile per il clima. "Abbiamo imparato durante quest'ultimo anno che nulla può essere dato per scontato, che non possiamo pianificare le cose in anticipo". Anche se non è più una bambina, dice che il suo strumento principale non è cambiato: usare la morale per chiedere agli adulti di fare la cosa giusta. "La gente dice che non dovremmo usare la morale, o tipo, svergognare le persone, o usare il senso di colpa o altro. Ma dal momento che non abbiamo accordi globalmente vincolanti, questo è tutto ciò che abbiamo. È l'unica risorsa che abbiamo a disposizione". In molti modi la piattaforma di Thunberg mostra il grande potere che la protesta può avere - ma anche i suoi limiti. Fare richieste può andare molto lontano. Ma i bambini attivisti cresceranno. E i prossimi passi nel movimento per il clima saranno probabilmente affidati a scienziati, politici o ingegneri. Con il summit delle Nazioni Unite sul clima, COP26, che si terrà a Glasgow quest'anno, le chiedo se pensa che possa fare la differenza. Thunberg ha partecipato a diversi recenti summit sul clima, prima come attivista poco conosciuta a Katowice, in Polonia, nel 2018, e l'anno successivo come celebrità a Madrid e New York. Dice che probabilmente andrà a Glasgow, "se non viene cancellato di nuovo, e se vengo invitata". Ma lei pensa che i summit precedenti siano tutti falliti - e Glasgow non sarà diverso. "Possiamo tenere queste conferenze e riunioni per l'eternità, più e più volte, tutte quelle che vogliamo. Questo non porterà comunque a nessun cambiamento. A meno che noi… cominciamo a riconoscere questa crisi e ammettiamo che abbiamo fallito finora". I suoi cani, Roxy e Moses, stanno abbaiando alla porta, e il suo ricamo si è fermato. Le chiedo se sa cosa c'è dopo e se pensa che continuerà a lavorare nel campo del cambiamento climatico. "Purtroppo sì", mi dice. "Il desiderio sarebbe che tutto andasse bene. E che non ci fosse bisogno di attivisti per il clima. Ma per essere realistici, probabilmente non sarà così. Una cosa è certa, continueremo a fare tutto il possibile, in base alle circostanze. E continuare a comunicare la scienza, e a essere una spina nel fianco per le persone al potere", dice con una piccola risata.

Valeria Arnaldi per “Il Messaggero” il 22 marzo 2021. Vietare le grigliate sulla spiaggia, nei parchi e negli spazi aperti come misura contro il riscaldamento globale. Ha fatto infuriare molti, tra residenti, vacanzieri e appassionati della grigliata vista mare, la proposta del consiglio comunale di Brighton & Hove, guidato dai Verdi, in Inghilterra. Non un'iniziativa improvvisa, né una mera dichiarazione politica, ma il tassello di un piano articolato teso a rendere la località a emissioni zero entro il 2030. I barbecue, in particolare quelli usa e getta, sarebbero corresponsabili degli aumenti dei livelli di Co2. Immediate le reazioni. E se i residenti dall'animo green hanno apprezzato la decisione, gli amanti delle grigliate all'aperto hanno protestato vivacemente. Questione di tradizione: il barbecue, nel Paese, è un rito della bella stagione. E, più ancora, forse, questione di turismo. Si teme che il divieto possa avere ricadute sui soggiorni estivi. Sì perché Brighton, come sottolineano molti residenti, è sempre stata «divertente e tollerante». Insomma, secondo molti, vietare le grigliate rischia di incidere in maniera negativa in modo molto più evidente sull'immagine della località di quanto non possa influire positivamente sulla salute del pianeta. Le ricerche a supporto della linea green non mancano. Secondo uno studio, guidato dall'università di Manchester, presentato nel 2019 alla Royal Society Summer Science Exhibition, un tipico barbecue per quattro persone sarebbe più inquinante di un viaggio di ottanta miglia in auto. Da uno studio del Natural Resources Defense Council (Nrdc), condotto tra il 2005 e il 2014 negli Usa, è emerso che un calo del 19% nel consumo di manzo ha contribuito ad abbattere emissioni di gas serra pari a quelle prodotte 39 milioni di vetture. Da qui, con la bella stagione i riflettori puntati sulle grigliate. Qualche divieto, a tempo, scatta a volte anche in Italia, per contrastare i livelli di polveri sottili. «Il barbecue produce inquinamento a livello locale - commenta Stefano Ciafani, presidente Legambiente - il tema è soprattutto estivo e incide sull'inquinamento da ozono. Il divieto temporaneo dei barbecue riguarda alcuni comuni italiani che hanno problemi di inquinamento atmosferico. Qui, però, si rischia di indicare la Luna e guardare il dito. Se vogliamo combattere la crisi climatica, dobbiamo fare una guerra senza quartiere alle fonti fossili. Le principali fonti di emissioni in atmosfera di gas climalteranti sono impianti di produzione di energia, trasporto di merci e persone, industria e così via. Ai barbecue, penserei tra una ventina di anni». Intanto, i residenti di Brighton & Hove, protestano. Le misure sono ancora al vaglio, assicurano dal consiglio comunale. I divieti entreranno subito in vigore per la zona di New Forest. La scorsa estate, per il grande flusso di vacanzieri e la tradizione delle grigliate, in un solo fine settimana sono stati ben sessanta i barbecue non sicuri spenti nel corso di controlli ad hoc. Il tema non è solo locale. Nel 2014, il sindaco di Santiago del Cile, Claudio Orrego, ha lanciato uno stop alle grigliate per qualche giorno: «Abbiamo problemi con l'aria, vi chiedo quindi di non accendere legna né falò, e di non fare asados», ha detto ai cittadini. Già nel 2013, il Ministero della Protezione Ambientale in Cina aveva inserito la messa al bando dei barbecue dalle città nel piano anti inquinamento nazionale, con appositi controlli. «In Italia, le fonti di inquinamento sono altre - dice Paolo Menichetti, di Forum Ambientalista - nella scala delle priorità ci sono centrali, inceneritori e molte fonti ben più inquinanti dei barbecue». La questione non è soltanto ambientale. L'American Institute for Cancer Research e altri Centri hanno sottolineato la possibile formazione di sostanze cancerogene durante la cottura sulla griglia.

L’Italia continua a fare finta che i cambiamenti climatici non siano un problema. Alluvioni, inondazioni, caldo torrido. Gli eventi estremi sono sempre più frequenti. Il bilancio del ritardo di una politica di adattamento del nostro Paese è devastante. E tra le città chi sta peggio è Roma. Stefano Liberti su L'Espresso il 5 marzo 2021. Diceva Charles Darwin che «i fattori più importanti per la sopravvivenza non sono l'intelligenza né la forza, ma la capacità di adattarsi alle mutate condizioni». Se vedesse le politiche messe in campo dal nostro paese, il grande scienziato britannico ci condannerebbe senz'altro all'estinzione. Le mutate condizioni - nel caso specifico, quelle climatiche - sono sotto gli occhi di tutti. Basta scorrere le cronache degli ultimi mesi per vedere che gli eventi atmosferici estremi si susseguono con una frequenza sconcertante. 21 novembre 2020: a Crotone cadono 250 mm di pioggia in poche ore trasformando le strade in torrenti. 28 novembre: a Bitti, in provincia di Nuoro, un temporale di un'intensità mai vista (324 mm in sole 24 ore, la quantità che normalmente cade in sei mesi) fa franare le colline circostanti innescando un fiume di fango che travolge il paese e uccide tre persone. 6 dicembre: nel Modenese esonda il Panaro, gonfiato dalle piogge senza precedenti e dalla neve che si è sciolta repentinamente sugli Appennini a causa di un improvviso aumento di temperatura. Decine di persone vengono evacuate. L'Italia è letteralmente nell'occhio del ciclone: secondo il database europeo che li monitora, nel 2020 ci sono stati nel nostro paese 1499 eventi meteo-climatici estremi, più di 4 al giorno. Eppure, sembriamo incapaci di reagire. Di mettere in campo quello che gran parte degli stati europei sta facendo da tempo: una seria politica di adattamento, che sia in grado di arginare gli effetti più nefasti dei cambiamenti climatici, salvaguardare i territori ed evitare che le nostre città divengano invivibili, calde come fornaci in estate e funestate da allagamenti continui in autunno e inverno. Il tema in Europa è considerato prioritario. Il 24 febbraio la Commissione ha adottato la nuova strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, che rafforza quella del 2013. Per definirla, ha utilizzato tre termini: intelligente, sistemica e veloce. «Quest'ultimo aggettivo sembra un monito diretto al nostro paese», dice Sergio Castellari, climatologo dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), distaccato presso l'Agenzia europea per l'ambiente. «Il paradosso che viviamo in Italia è che siamo tra quelli che registrano il maggior numero di impatti e al contempo quelli che agiscono con più lentezza». Lo scienziato parla a ragion veduta: negli anni scorsi ha coordinato il lavoro tecnico-scientifico preparatorio e contribuito alla realizzazione della strategia nazionale di adattamento (Snac), che sarebbe dovuta sfociare nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc). «Redatto nel 2017, il Pnacc è da allora fermo al ministero dell'Ambiente (ora ministero della Transizione Ecologica) in attesa di una valutazione ambientale strategica. Nel frattempo, si sono moltiplicati i disastri causati dal cambiamento climatico, con costi economici, sociali e anche di vite umane molto ingenti. Si è perso tempo prezioso». I costi di questo ritardo sono in effetti esorbitanti: secondo i dati presentati dal Rapporto Cittàclima di Legambiente, negli ultimi dieci anni gli eventi estremi hanno provocato 251 morti e l'evacuazione di 50mila persone. Il bilancio delle ondate di calore è ancora più grave: secondo lo stesso rapporto, tra il 2005 e il 2016 nelle principali città italiane 23.880 persone sono morte proprio a causa del caldo. Una strage silenziosa, che ricorda quella della terribile estate del 2003, quando la canicola ha ucciso in Italia tra le 15mila e le 20mila persone. A questo si aggiungono le perdite economiche: «Dal 2013 il nostro paese ha speso una media di 1,9 miliardi di euro l'anno per riparare i danni causati da eventi legati al cambiamento climatico e soltanto 330 milioni per la prevenzione: un rapporto di 6 a 1», sottolinea Edoardo Zanchini, vice-presidente dell'organizzazione ambientalista. «Si tratta di un problema culturale, in cui non c'è consapevolezza di quello che sta accadendo e quindi non si ritiene urgente intervenire», rincara Raimondo Orsini, direttore della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. Secondo una stima fatta dal suo ente, al 2050 ci sarà una perdita annua di Pil dell'8 per cento proprio a causa degli effetti della crisi climatica. «È una stima al ribasso, che non computa i danni ambientali e sociali associati al fenomeno». Il confronto con gli altri paesi europei è sconfortante: siamo in assoluto quelli più indietro. La Francia ha approvato il suo piano di adattamento nel 2011 e attualmente ne sta elaborando uno nuovo. In Germania lo hanno fatto da tempo tutti i 16 Länder. Secondo Zanchini ci vorrebbero sull'adattamento normative europee vincolanti, come sull'inquinamento, sui rifiuti, sulle energie rinnovabili. «Ma», aggiunge, «probabilmente non verranno fatte, perché gli altri paesi sono talmente avanti che non considerano urgente intervenire su questo campo». I fondi del Next Generation Eu potrebbero essere usati per colmare il divario? «Speriamo di riuscire a cogliere quest'opportunità», risponde Orsini. «Ma nelle bozze del Recovery plan italiano viste finora quasi nulla è destinato all'adattamento e praticamente niente alle città, che sono al contempo le aree più colpite e quelle che potrebbero mettere in campo politiche di adattamento più efficaci». Già, le città. Per la loro struttura e l'alta densità di popolazione, sono i luoghi più vulnerabili. Le ondate di calore colpiscono in modo particolare le popolazioni urbane, così come gli eventi estremi, in particolare le precipitazioni intense che provocano allagamenti, danneggiamenti alle infrastrutture, interruzione del sistema dei trasporti e a volte nella rete elettrica. È per questo che in altri paesi europei si è agito con tempestività proprio sulle città, investendo risorse importanti. «Prendiamo il caso di Copenhagen», sottolinea ancora Castellari. «Dopo l'intenso nubifragio del 2011, che ha provocato danni per circa un miliardo di euro, si è deciso, mediante un nuovo piano di prevenzione nubifragi, di investirne altrettanti in centinaia di progetti per costruire, ad esempio, distretti waterproof. È curioso che l'Italia, che subisce danni ingenti da eventi meteo-climatici e ha un patrimonio artistico-culturale così ricco, non riservi la stessa attenzione al tema che c'è nel Nord Europa». In assenza di una cultura di prevenzione e di un piano nazionale di adattamento, i comuni italiani si stanno muovendo in ordine sparso. Qui di seguito abbiamo analizzato le cinque grandi città che andranno al voto nel 2021 - Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli - per capire a che punto sono.

ROMA È ALL'ANNO ZERO. Roma è una delle città italiane più colpite dai cambiamenti climatici. Secondo il rapporto di Legambiente, dal 2010 al 2020 vi si sono verificati 47 eventi estremi, più della metà dei quali ha avuto impatti ragguardevoli e provocato lo stop di varie linee del trasporto urbano. Ciò nonostante, non solo non ha un piano di adattamento, ma nemmeno un profilo climatico, uno studio che individui le aree di maggior rischio. «A Roma siamo all'anno zero», analizza Andrea Filpa, professore di pianificazione urbana all'università di Roma Tre, che con il suo gruppo ha realizzato nel 2014 una mappa di vulnerabilità climatica della città. «Per quanto parziale, quel lavoro individuava alcuni seri fattori di rischio, rispetto ai quali non si è fatto nulla». Eppure, la capitale non era partita male. Inserita nel 2013 dalla Fondazione Rockefeller in un progetto per promuovere 100 città resilienti nel mondo, unica in Italia insieme a Milano, aveva messo in piedi un gruppo di lavoro inter-disciplinare per delineare una strategia di resilienza che comprendesse anche il tema dell'adattamento ai cambiamenti climatici. Era l'epoca della giunta Marino: il defenestramento del "sindaco marziano" e l'arrivo del commissario Francesco Paolo Tronca hanno interrotto il percorso, archiviato poi definitivamente con la salita al soglio capitolino di Virginia Raggi. «Purtroppo il programma si è arenato prima che il gruppo di lavoro potesse passare alla fase di formulazione delle proposte», dice l'urbanista Alessandro Coppola, che ne curava il coordinamento. Nel frattempo c'è stata la crisi idrica dell'estate del 2017, in cui la crescente richiesta di acqua dalla capitale ha rischiato di prosciugare il lago di Bracciano, e innumerevoli episodi di allagamento in occasione di piogge intense. Il rischio è particolarmente acuto in alcune aree vicine ai fiumi - l'Aniene e il Tevere - che varie volte sono stati sul punto di esondare. «L'eventualità che straripi il Tevere in alcune zone della città come Ponte Milvio è più che concreta. Se dovesse succedere, si ripeterebbero gli eventi della grande alluvione del 1448: avremmo tre metri d'acqua al Pantheon», evidenzia Filpa. A fronte di questa situazione, l'amministrazione è immobile. La strategia di resilienza pubblicata nel 2018 dedica all'adattamento tre pagine su 158. L'osservatorio sui cambiamenti climatici, istituito presso il dipartimento ambiente, non ha prodotto negli ultimi anni alcun documento pubblico (né dato seguito alle nostre ripetute richieste di intervista).

BOLOGNA E LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA. Se Roma è all'anno zero, Bologna è senz'altro la città italiana più all'avanguardia. Grazie al supporto di un progetto europeo, ha pubblicato già nel 2015 un piano di adattamento, in cui vengono individuati i principali elementi di rischio e le azioni da intraprendere. «Abbiamo seguito le linee guida europee e ci siamo inventati un metodo: abbiamo fatto un profilo climatico locale, fissato alcuni obiettivi e coinvolto nel processo diversi enti, istituzioni e portatori di interesse», racconta l'ingegnera Raffaella Gueze, che sovrintende al gruppo di lavoro. I principali problemi di Bologna sono in estate le ondate di calore e la scarsità idrica, in autunno e inverno le piogge alluvionali. Per fronteggiarli sono state identificate alcune azioni, che vanno dalla riduzione del consumo idrico a un'edilizia più resiliente, fino alle cosiddette "nature-based solutions" (aumento delle alberature, sistemi di gestione alternativa delle acque piovane, orti urbani, tetti e corridoi verdi). Ma l'elemento più innovativo del piano è quello della democrazia partecipativa. Il comune ha avviato un percorso per elaborare soluzioni sul tema climatico in cui sia coinvolta direttamente la popolazione: cittadini estratti a sorte e rappresentativi delle diverse componenti della società si dovranno confrontare e definire proposte condivise attraverso vere e proprie assemblee deliberative. Il processo è ancora in fieri, ma l'amministrazione pare intenzionata ad attivarlo concretamente prima delle prossime elezioni.

MILANO, CAPITALE GREEN. Città compatta, intensamente occupata da edifici in cemento e lontana dall'azione mitigatrice del mare, Milano ha un problema serio: si sta scaldando rapidamente. Dal 1901 a oggi ha registrato un aumento della temperatura media di 2,2 gradi centigradi, che potrebbero aumentare di altri due gradi al 2050. Le isole di calore sono quindi la principale preoccupazione climatica della città lombarda, insieme all'annoso problema delle esondazioni del Seveso (per il quale stanno partendo i lavori per le famose vasche di laminazione). «Dobbiamo adattare la nostra città al nuovo scenario climatico». A parlare è Piero Pelizzaro, nominato nel 2017 Chief Resilience Officer della città, con il compito di mettere le politiche climatiche al centro delle azioni e del discorso pubblico. Milano ha deciso di non fare un piano di adattamento vero e proprio, ma di innervare di questo tema tutte le politiche, dalla mobilità all'edilizia, dalla gestione del verde pubblico al ripensamento degli spazi urbani. «Nelle nostre azioni di adattamento, cerchiamo di usare al meglio le risorse di cui disponiamo, coinvolgendo anche i privati», spiega Pelizzaro. Così, ad esempio, per le ristrutturazioni edilizie è stato introdotto l'indice di riduzione di impatto climatico (Ric), elemento necessario per avere le autorizzazioni. Anche nel progetto Forestami, che prevede la piantumazione di 3 milioni di alberi entro il 2030, sono stati coinvolti cittadini e aziende. A differenza di quanto è avvenuto a Roma, la città ha colto l'opportunità del progetto sulle 100 città resilienti per assumere un ruolo di leadership. Con ogni evidenza, Milano punta a diventare la capitale italiana del contrasto ai cambiamenti climatici: non è un caso che qui si terrà a settembre lo Youth4Climate, incontro dei giovani preliminare alla COP26, la conferenza dell'Onu sul clima indetta a Glasgow.

NAPOLI, L'UNIVERSITÀ GUIDA IL CAMBIAMENTO. A Napoli è stata l'università a portare all'attenzione dell'amministrazione il tema dell'adattamento climatico. Un gruppo di ricerca del dipartimento di architettura della Federico II, coordinato dai professori Valeria D'Ambrosio e Mattia Leone, conduce da anni studi di impatto su alcune aree della città e riflessioni sulle politiche di rigenerazione urbana che devono essere messe in campo per adattare i quartieri al nuovo contesto climatico. Con il progetto Clarity, lanciato nel 2017 e finanziato con fondi europei, la collaborazione tra università e amministrazione è diventata più strutturata. Il progetto ha permesso di stendere un profilo climatico molto preciso e di individuare le principali criticità. Napoli è particolarmente vulnerabile alle ondate di calore, destinate ad aumentare sensibilmente negli anni, e agli allagamenti. «Grazie al lavoro fatto in concerto con l'amministrazione, il tema del cambiamento climatico è entrato a far parte integrante delle direttive strategiche», sottolinea Leone. Non c'è un piano di adattamento, ma il Piano urbanistico comunale, così come il nuovo Piano d'azione per l'energia sostenibile e il clima (Paesc), tengono conto del tema della prevenzione del rischio climatico. Il progetto Clarity ha permesso anche di fare una stima dei costi dell'adattamento a Napoli da qui al 2050. La cifra non è piccola: 17 miliardi di euro, la gran parte dei quali destinati ad adattare edifici vetusti e molto vulnerabili.

TORINO E LA RESILIENZA AL 2030. Città collinare attraversata da quattro fiumi, Torino ha una particolare vulnerabilità legata al rischio idraulico e idrogeologico. Al di là della possibile esondazione dei corsi d'acqua - i torinesi sono ormai abituati al Po che straripa ai Murazzi - la maggiore intensità delle piogge può produrre allagamenti e disfunzioni del sistema fognario. Insieme alle ondate di calore estive, questa è la principale criticità analizzata dal Piano di resilienza climatica, approvato dal consiglio comunale nel novembre 2020. «È stato un lavoro di tre anni, fatto da un gruppo che includeva diversi servizi dell'amministrazione e grazie al supporto tecnico di Arpa Piemonte», dice Mirella Iacono, responsabile del dipartimento ambiente. Per fronteggiare queste problematiche presenti e future sono state identificate una serie di azioni: dalle nature-based solutions per mitigare le isole di calore, aumentare la permeabilità del suolo e rallentare il deflusso delle acque meteoriche in fognatura all'utilizzo di materiali innovativi che consentano il raffreddamento delle pavimentazioni urbane e aumentino l'albedo, cioè la capacità di riflettere i raggi solari. L'obiettivo è rendere Torino una città resiliente al 2030, come indica uno slogan su cui l'amministrazione sembra puntare molto. Nel piano c'è un indice di monitoraggio, ma non si indicano le previsioni di spesa per le singole azioni. «Per alcuni interventi possiamo utilizzare risorse che abbiamo già in bilancio. Per altre dovremmo intercettare altri fondi», dice ancora Iacono. Con la vistosa assenza di Roma, le altre grandi città hanno insomma cominciato a muoversi, sia pure con tempi e modalità diversi e in evidente ritardo rispetto al resto d'Europa. Ma su tutti gli interventi immaginati sembra pesare un'incognita grande come un macigno: i soldi. Alcune azioni possono essere adottate modificando l'approccio di interventi ordinari, molte altre necessitano invece di imponenti risorse straordinarie, come evidenziano a Napoli le stime del progetto Clarity. Da dove dovrebbero venire questi fondi e chi li deve amministrare? «Ci vorrebbe una struttura di governance efficace sia a livello verticale che orizzontale, cioè una cabina di regia nazionale capace di coordinare gli interventi degli enti locali e regionali, che restano i soggetti più indicati per mettere in campo politiche concrete di adattamento», dice Castellari. Bisognerebbe prima di tutto approvare il famoso Piano nazionale di adattamento. Il 2021 è da molti indicato come l'anno in cui questo vedrà finalmente la luce. Parte dei fondi del Next Generation Eu potrebbero essere usati per la prevenzione del rischio climatico nei nostri territori e nelle nostre città, sempre che il nuovo Recovery Play tenga conto di questa urgenza. Saremo in grado di recuperare il tempo perduto? Riusciremo a far entrare la parola adattamento ai cambiamenti climatici nelle priorità dell'azione politica? Se ce la faremo, forse Darwin ci concederà una seconda occasione.

Da Mauritius a Israele: un anno di maree nere. L'ultimo disastro segnalato in ordine di tempo è nel Mediterraneo, lungo le coste israeliane, dove spiaggia e animali si sono riempiti di catrame. Pochi mesi fa è accaduto in Sri Lanka e altri cargo negli oceani rappresentano minacce costanti per gli ecosistemi marini. Giacomo Talignani su La Repubblica il 22 febbraio 2021. Le immagini, purtroppo, sono sempre le stesse: tartarughe e uccelli ricoperti di greggio, pesci morti, cetacei spiaggiati, ecosistemi distrutti, animali intrappolati nel greggio e acque del mare dove galleggiano inquietanti chiazze nere. Istantanee di problemi destinati a durare nel tempo e a compromettere duramente la salute degli ecosistemi marini. L'ultimo disastro in Israele, a cominciare dalle prime avvisaglie di mercoledì scorso, quando sulle spiagge sono apparse le prime chiazze: 170 chilometri di coste del Paese, su un totale di 190 chilometri, sono state inquinate a causa di una fuoriuscita di petrolio, probabilmente di una nave offshore su cui ora si stanno svolgendo indagini. Senza mezzi termini i ministeri che si occupano di ambiente lo hanno definito come un enorme "disastro ecologico", uno dei più importanti della storia di Israele. Ad oggi centinaia di volontari sono impegnati nel tentativo di ripulire spiagge dove sono già stati ritrovati decine e decine di animali morti, una carcassa di balena e dove il futuro di diverse spiagge è a rischio. Mentre si indaga sulle cause, si alzano le prime proteste da parte degli ambientalisti che chiedono più sforzi per una transizione ecologica che ci permetta di dismettere l'uso di combustibili fossili, ma soprattutto un maggiore impegno nella sicurezza delle navi che trasportano greggio. D'altra parte, solo nell'ultimo anno, abbiamo assistito purtroppo a numerosi e terribili tragedie ambientali e ad altre solo sfiorate ma ancora a rischio, quasi tutte legate a sversamenti di petrolio e carburanti di origine fossile. Il 25 luglio scorso la nave cargo Mv Wakashio si è incagliata al largo di Pointe d'Esny, a sud-est dell'isola di Mauritius. Dopo dieci giorni 1000 tonnellate di carburante hanno iniziato a riversarsi in mare. La chiazza nera - visibile anche dallo spazio, come documentato dal satellite europeo Sentinel-2 - ha raggiunto in estate un'estensione record di ventisette chilometri quadrati. Il disastro ha colpito un ambiente naturale, quello della barriera corallina, già messo a dura prova dalla crisi climatica e dall'acidificazione degli oceani. Anche l'economia del piccolo stato insulare, che ha nel turismo un'importante fonte di sostegno, ne esce gravemente danneggiata. Oggi, a cento giorni esatti dall'incagliamento, l'emergenza è ben lontana dall'essere superata.

MAURTIUS. Luglio 2020 - Sono ancora fresche, nella memoria, le immagini del paradiso delle Mauritius devastato da una fuoriuscita di petrolio destinata a cambiare per anni l'equilibrio degli ecosistemi marini. ll 25 luglio scorso la nave cargo Mv Wakashio, che trasportava 4000 tonnellate di carburante, tra cui il Very Low Sulfur Fuel Oil (VLSFO),  si è incagliata al largo di Pointe d'Esny, a sud-est dell'isola di Mauritius. Migliaia di tonnellate di carburante si sono riversate in mare mettendo in ginocchio il Paese con enormi ripercussioni sull'ecosistema marino, la barriera corallina, ma anche turismo ed economia del piccolo stato insulare. Almeno 1000 tonnellate di carburante si sono riversate nelle acque intorno alla nave per decine di chilometri e, dopo che la nave si è spezzata in due e numerosissimi interventi da parte di operatori e volontari per tentare di arginare il disastro, le Mauritius pagano ancora oggi in termini di ecosistemi compromessi un altissimo prezzo legato a questo disastro ambientale.

SIBERIA. Maggio 2020 - Il 29 maggio del 2020 in Siberia, nella zona di Noril'sk, si è verificato un enorme incidente legato al guasto di una centrale idroelettrica che ha portato allo sversamento di circa 21mila metri cubi di gasolio nelle masse d'acqua della zona di Kajerkan, inquinando fortemente fiumi, corsi d'acqua ed ecosistemi. Dichiarato lo stato di emergenza nel territorio di Krasnojarsk, quello siberiano è stato definito come uno dei più gravi sversamenti della storia recente della Russia e ha interessato diverse aree in prossimità dell'Artico. Fiumi come l'Ambarnaya e il suo affluente Daldykan sono stati purtroppo teatro di morte di centinaia di specie di pesci, uccelli, di flora e fauna. Nonostante i tentativi di contenimento, l'inquinamento ha raggiunto persino il lago Pyasino. Le operazioni di pulizia e ripristino delle acque, secondo le autorità, potranno durare anche dieci  anni, con una spesa stimata intorno ai 10 miliardi di rubli.

CARAIBI. Settembre 2020 - Quello della petroliera Nabarima per fortuna è nell'elenco dei potenziali disastri, ma non è ancora escluso che possa presto diventare realtà. A largo del Venezuela da ormai quasi due anni è bloccata la petroliera Nabarima, gestita dalla PDVSA, compagnia statale responsabile del petrolio in Venezuela. Si stima che a bordo della nave ci siano almeno 1,3 milioni di barili di greggio: nonostante sia monitorata, la condizione di questa nave preoccupa per il potenziale disastro ambientali e per le conseguenze enormi che potrebbe avere. Nel settembre del 2020 la situazione è sembrata precipitare, con l'imbarcazione in sofferenza a causa di infiltrazioni di acqua: si è temuto per un possibile sversamento che avrebbe interessato larga parte dei Caraibi, da Venezuela a Trinidad e Tobago. Pesca, mangrovie, ecosistemi e organismi marini, sono tutt'oggi fortemente minacciati dalla presenza di questa nave:  le autorità venezuelane sostengono che la petroliera è stabile e lo sversamento "non è verosimile" ma da tutto il mondo rimbalzano appelli per intervenire prima di un eventuale e irreparabile disastro.

 YEMEN. Novembre 2020 - Un altro gigantesco e potenziale disastro ambientale riguarda il fragilissimo Yemen, territorio devastato dalla guerra. Qui a largo del paese da anni è incagliata la FSO Safer, petroliera con circa 160 mila tonnellate di greggio che doveva servire come terminale per altre petroliere e che, nel novembre 2020 e a più riprese negli anni, ha mostrato cedimenti allo scafo lanciando l'allarme per una vera e propria bomba a orologeria a livello di disastro ecologico. Vecchia di 45 anni, questa imbarcazione sempre più arrugginita al largo della costa occidentale dello Yemen rischia nel caso di una fuoriuscita di impattare tragicamente sul futuro del Mar Rosso. Per gli esperti è una "bomba galleggiante" che, a causa delle sue precarie condizioni, potrebbe esplodere da un momento all'altro. A causa della guerra per diverso tempo le operazioni legate a impedire lo sversamento del petrolio sono state rimandate: recentemente le forze ribelli hanno dato un primo ok a una ispezione della petroliera da parte delle Nazioni Unite, ma il futuro sullo smaltimento della nave resta un'incognita e secondo diverse ong internazionali il disastro ecologico potrebbe solo essere questione di tempo.

SRI LANKA. Settembre 2020 - La fragilità dei sistemi di trasporto del petrolio è stata sottolineata anche nel settembre scorso quando al largo della costa orientale dello Sri Lanka sulla petroliera New Diamond è scoppiato un grosso incendio nella sala macchine. La nave trasportava 2 milioni di barili di petrolio e si è temuto per un drammatico scenario all'interno dell'Oceano indiano. Per fortuna non si è verificato uno sversamento e l'incendio è stato domato, ma in quei giorni le immagini e i video della petroliera in fiamme, rimbalzate a livello globale, hanno riaperto per l'ennesima volta la discussione sui rischi del trasporto in mare di carburante.

CO2, il nemico da abbattere: l’Italia ha l’arma della tecnologia. In salita la strada del Bel Paese per cercare di centrare gli obiettivi fissati dalla Ue. Luigi dell'Olio su La Repubblica il 23 febbraio 2021. Decarbonizzazione, è l’ora di accelerare. A questo punto non c’è altro tempo da perdere. L’Italia, che già era in ritardo rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione (il processo di riduzione del rapporto carbonio-idrogeno nelle fonti di energia) fissati in passato, è in una situazione di oggettivo affanno nel raggiungere i target più ambiziosi decisi dal Green Deal europeo nei mesi scorsi. Si spera nel contributo del Recovery Plan (68,9 miliardi di euro previsti per la rivoluzione verde), pur nella consapevolezza che i nodi da sciogliere non sono relativi solo alle risorse economiche, ma coinvolgono anche la capacità di spendere i fondi europei e di farlo in fretta, superando le pastoie burocratiche.

Il ritardo accumulato. Andando per punti, secondo l’ultima analisi dell’Energy and strategy group del Politecnico di Milano, per centrare gli obiettivi comunitari di riduzione delle emissioni di CO2, l’Italia deve tagliare quasi 100 milioni di tonnellate entro il 2030. Una cifra enorme. Il ritardo del nostro Paese è confermato da è un report di Ember, think-tank che ha analizzato i principali Piani nazionali per l’energia e il clima (Pniec), arrivando alla conclusione che la Penisola è tra i sette Stati poco virtuosi, che saranno responsabili dell’80% delle emissioni del settore elettrico dell’Unione europea entro il 2030 a causa della loro “dipendenza dal carbone e dal gas fossile e insufficiente diffusione dell’elettricità a zero emissioni di carbonio”. Secondo l’analisi, nei prossimi lustri l’Italia continuerà a essere uno dei territori più dipendenti dal fossile per l’elettricità: i passi in avanti negli ultimi anni non sono mancati, soprattutto grazie all'esplosione delle rinnovabili ma il ritmo del progresso è molto lento. “L’Italia sta bloccando la transizione dell’energia elettrica dell’Ue”, è la laconica conclusione alla quale arrivano gli analisti.

Il cambio di rotta necessario. Questo a legislazione vigente, ma in realtà l’avvento del Green Deal europeo ha portato nelle scorse settimane a rivedere al rialzo gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. In attesa che i nuovi target vengano dettagliati, è inevitabile pensare a una revisione della normativa e degli obiettivi della politica energetica nazionali per rispecchiare le maggiori ambizioni in materia di clima. Intanto, uno degli ultimi atti del Governo Conte è stato l’invio all’Ue della “Strategia Italiana di lungo termine per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra”. Un documento di 100 pagine fondato su tre pilastri: riduzione della domanda di energia, grazie soprattutto al calo della mobilità privata e dei consumi in ambito civile; accelerazione nella produzione delle rinnovabili e dell’idrogeno; potenziamento e miglioramento delle superfici verdi per assorbire la CO2. Un intervento incisivo su queste leve, spiega il documento messo a punto dal ministero dell’Ambiente, si rende necessario perché il mero “trascinamento delle tendenze attuali, per quanto virtuoso, sarebbe insufficiente a centrare il target fissato per il 2050”, cioè la neutralità climatica. Vale a dire la condizione in cui le emissioni di gas a effetto serra non superano la capacità della terra di assorbirle. Il che comporta la necessità di agire in parallelo sulla riduzione delle emissioni e sugli sviluppi tecnologici. Questi ultimi consentono ad esempio di aumentare le capacità di assorbimento grazie all’impiego diffuso del digitale nell’agricoltura e di accelerare la transizione energetica: si pensi ai passi in avanti sul fronte delle batterie per gli autoveicoli elettrici, alla diffusione delle soluzioni di smart building e alla crescente diffusione dell’idrogeno verde nei processi produttivi. Nella consapevolezza che il cambiamento climatico non è solo una questione ambientale, ma presenta enormi ricadute sul piano sociale ed economico.

Passaggio di testimone. Il dossier adesso passa nelle mani del Governo Draghi, che ha istituito un ministero per la Transizione ecologica, affidandolo a Roberto Cingolani. Questo nella consapevolezza che l’ambito green sarà tra i più importanti del Recovery Plan, con fondi per 68,9 miliardi di euro. Gli interventi attesi vanno da un maggiore ricorso alle energie rinnovabili alla realizzazione di ciclovie (con mille km di piste ciclabili in città e 1.626 km di piste turistiche), dal rimboschimento fino al riciclo dei rifiuti e alla riqualificazione degli edifici, considerato che questi ultimi sono tra i maggiori responsabili dell’emissione di inquinanti nell’ambiente. Non solo: nel corso del 2019 (ultimo consuntivo disponibile) le emissioni prodotte dall’edilizia e dagli edifici a livello globale hanno segnato livelli record, per cui siamo ancora lontani anche solo da stabilizzare questo indicatore. Probabilmente la crisi pandemica porterà a un bilancio 2020 su un livello più contenuto, ma in termini strutturali l’impiego di carbone, petrolio e gas naturale per il riscaldamento, l’illuminazione e le attività di cucina continua a crescere e ha raggiunto ormai il 38% di tutte le emissioni di CO2 legate all’energia.

Tre filoni d'intervento. Tornando al Piano nazionale di ripresa e resilienza, i fondi in arrivo dall’Europa punteranno a tre obiettivi: ridurre le emissioni; migliorare l’efficienza energetica; proteggere e conservare l’ambiente naturale, uno degli asset più importanti del nostro Paese. Ovviamente il risultato non è scontato, dato che le sfide che ci attendono sono particolarmente ambiziose. Di certo c’è che questa volta non sono le risorse finanziarie a scarseggiare, anche se già in passato si è visto come questa sia una condizione necessaria, ma non sufficiente a raggiungere i traguardi prefissati. Dalle pastoie burocratiche ai contenziosi legali, fino alle diverse visioni tra Stato e regioni, il rischio di perdere l’ultima chance per invertire la rotta è alto. Ma lo è altrettanto la consapevolezza che la svolta green potrà essere il volano di una ripartenza strutturale.

Riscaldamento a legna e pellet e polveri sottili: cosa fare per migliorare la qualità dell'aria. Il riscaldamento domestico in Italia rappresenta una fonte importante di polveri sottili, soprattutto nel bacino padano. La Repubblica il 25 febbraio 2021. Per capire le dimensioni del problema basti pensare che nel nostro Paese contribuisce per il 54% delle emissioni primarie di polveri (PM10). In inverno queste emissioni sono per lo più generate dalla combustione domestica di legna da ardere e pellet: proprio quei deliziosi caminetti e le stufe che fanno atmosfera e riscaldano le nostre serate più fredde. Naturalmente non tutte le stufe e i caminetti inquinano così ma solo quelli datati e con tecnologie di combustione superate, ovvero installati da più di 10 anni. Si tratta di 6,3 milioni di apparecchi, ovvero il 70% del parco installato, una fonte di combustione che da sola contribuisce all'emissione dell'86% delle polveri sottili derivanti dalla combustione domestica della biomassa legnosa. I moderni apparecchi a biomasse invece sono caratterizzati da emissioni da quattro a otto volte inferiori rispetto alle tecnologie più datate. Le soluzioni a questo tipo di problema sono principalmente due: rottamare i vecchi apparecchi grazie agli incentivi del conto termico e educare gli utenti affinché utilizzino correttamente gli apparecchi a legna e pellet, usando combustibili di qualità certificata, installando correttamente gli apparecchi avvalendosi di tecnici qualificati e facendo le manutenzioni annuali. Il cosiddetto turn over tecnologico rappresenta insomma la soluzione per contribuire alla riduzione dell’impatto della combustione domestica di legna da ardere e pellet sulla qualità dell'aria, ma per garantirlo è necessario avviare una azione di informazione e sensibilizzazione degli utenti importante, rivolgendosi in particolare a chi utilizza legna da ardere. Di queste istanze si fa portatrice AIEL, l'Associazione italiana energie agroforestali, attraverso il libro bianco “Rottamare ed educare”, documento che fa il punto sullo stato dell'arte della qualità dell'aria nel nostro Paese riferendosi in particolare delle regioni più colpite, ovvero quelle del bacino padano: il tema è particolarmente attuale, considerando che recentemente la Corte di giustizia europea ha condannato l'Italia per il superamento del livello di polveri sottili nell'aria. AIEL propone la sostituzione di almeno 350.000 apparecchi l'anno, educando al contempo il consumatore finale. L'effetto combinato di queste due strategie non solo contribuirebbe a riscaldare le famiglie italiane con una fonte di energia rinnovabile e sostenibile, ma andrebbe a ridurre in 10 anni le emissioni di particolato del 70%, di cui il 35% riconducibile alla sostituzione complessiva di 3,5 milioni di apparecchi e il 35% alla scolarizzazione dell’utente. Una conduzione scorretta dell’apparecchio a legna, infatti, può causare incrementi notevoli delle emissioni di polveri sottili e carbonio organico anche di 10 volte rispetto a un utilizzo ottimale. Questo percorso potrà essere attivato migliorando, specializzando e garantendo i sistemi incentivanti già esistenti a sostegno del turn over tecnologico, primo fra tutti il Conto Termico. Fondamentale è che il Conto termico venga confermato anche per il settore residenziale privato e garantito per i prossimi 10 anni, e potenziato non in termini di budget ma di capacità di fruizione, dato che non più del 30% delle risorse annualmente disponibili viene al momento impiegato; ed è anche necessario che il Conto termico venga ulteriormente semplificato nel meccanismo di richiesta dell’incentivo. Per raggiungere gli obiettivi fissati dal Pniec (Piano energia e clima) al 2030 la sola sostituzione degli apparecchi domestici superati non è sufficiente e, ricorda AIEL, è importante diffondere soluzioni progettuali virtuose, attuabili con il Superbonus e l'Ecobonus e in grado di prevedere la sostituzione di fonti fossili con moderne tecnologie a biomasse legnose combustibili, supportando i progettisti affinché legna e pellet diventino non un’opzione fra tante ma quella da preferire, magari in abbinamento a interventi sull’involucro degli edifici e installazione di altre fonti energetiche rinnovabili, come il solare termico e le pompe di calore. Un intervento paragonabile alla sostituzione delle automobili a diesel, più vecchie e quindi più inquinanti, con altre alimentate a gas o a metano, oppure addirittura elettriche. 

Federico Del Prete per businessinsider.com il 12 febbraio 2021. L’età contemporanea – sarebbe ormai meglio dire: l’eterno presente – tende sempre più a confondere certezze e opinioni ereditate dal passato, grazie al magma di informazioni nel quale siamo immersi ogni giorno. Del resto, qualsiasi convinzione può essere messa in discussione, se vista alla luce di nuove consapevolezze: e non si può certo dire che la scienza non faccia incredibili progressi, giorno dopo giorno. Prendiamo una delle invenzioni più rivoluzionarie della storia dell’umanità: la ruota. Gira ormai da oltre quattromila anni, ed è il simbolo del dominio dell’uomo sul tempo e sullo spazio. Ha dato uno straordinario impulso all’economia, favorendo la diffusione del commercio e le esplorazioni, perfino quelle condotte oltre i confini terrestri. Può una tale benefica innovazione avere effetti negativi? Alla luce dell’attuale emergenza ambientale, sì. Quando un temporale finisce di abbattersi sulle coste californiane della Bay Area, può capitare di vedere strani individui con serbatoi e contenitori immergere lunghe sonde nei canali di deflusso verso l’oceano dell’acqua piovana riversatasi sul territorio. Sono i ricercatori del SFEI (San Francisco Estuary Institute) che accumulano dati sulle possibili cause di una inquietante e massiccia moria di salmoni argentati rilevata in tutta la costa pacifica di Nord-Ovest. Analizzando l’acqua piovana durante il deflusso nella baia, l’equipe del SFEI ha rilevato la presenza di Chinone 6PPD, una sostanza tossica molto probabilmente responsabile della morte della gran parte dei salmoni argentati della costa, il 90% della popolazione di questa specie soltanto nello Stretto di Puget, il braccio di mare di fronte a Seattle, nel confinante stato di Washington. La notizia non è questa: da decenni, se non da secoli, l’uomo sversa in mare le peggiori tracce di sé stesso, facendo perdere valore a interi settori dell’economia. La California è lo stato con il maggior reddito da pesca USA, con oltre $ 20 miliardi di vendite e oltre 100.000 addetti. Il salmone argentato, ora seriamente minacciato, pesava oltre 10.000 t /anno nel conto del pescato della costa pacifica. Anche per la siccità dovuta al riscaldamento globale, la pesca del salmone più in generale fa registrare un sensibile calo. Per ciò che riguarda il valore del salmone commerciale, si è passati dai $244 Mln. del 2013 a poco più di $ 88 Mln. nel 2015. La vera notizia è il “veicolo” che ha portato il Chinone 6PPD fin nelle acque abitate dai salmoni. Quando un temporale lava le strade, le acque vicino alla costa si riempiono di sostanze chimiche. I salmoni, che com’è noto si avvicinano alla costa per risalire i torrenti e deporre le uova, sono morti in massa. I salmoni argentati sono grandi e colorati, ed è facile accorgersi quando stanno agonizzando. Per ciò che riguarda altre specie, come il salmone chinook e la trota iridea, no. In un suo studio, lo SFEI aveva rilevato che almeno la metà dei 7,2 trilioni di microplastiche che ogni anno si riversano in quella parte dell’oceano provengono dall’usura degli pneumatici e dell’asfalto. Nelle analisi seguite alla moria dei salmoni, una tecnica di osservazione mediante microscopio elettronico ha permesso di riconoscere una “scioccante” quantità di elementi a forma di sigaro di circa un decimo di millimetro di spessore, di cui è stata accertata l’origine: frammenti microscopici di pneumatici dei veicoli, misti ad asfalto. Il Chinone 6PPD è un antiossidante, inserito nella mescola degli pneumatici per evitare il precoce decadimento delle prestazioni degli pneumatici, dovuto all’ozono. I frammenti di copertone sono più densi dell’acqua, e nel corso delle forti piogge che spazzano le strade si depositano sui fondali sottocosta, dove arrivano nello stomaco delle specie animali come salmoni e ostriche. Un tempo gli pneumatici erano fatti per la maggior parte di gomma naturale, gradualmente sostituita da polimeri plastici, fino al 60% del totale. Le sostanze chimiche contenute nei frammenti, come il Chinone 6PPD, si disperdono nell’acqua, arrivando così negli organismi marini. Lo studio dei frammenti di pneumatici nelle acque reflue è cosa relativamente recente, e non esiste quindi ancora un protocollo di verifica stabilito, né per il loro riconoscimento, né per la loro definizione, o misurazione. Nonostante il progresso tecnologico fatto dagli pneumatici, qualcosa non è mai fatalmente cambiato: i copertoni sono progettati e costruiti secondo il principio della loro usura. La tenuta di strada, l’accelerazione, la frenata di un veicolo dipendono esattamente dal fatto che un certo numero di frammenti di battistrada sia costantemente perso per la via. Funzionano soltanto così. Uno studio olandese del 2017 diffuso dal The National Center for Biotechnology statunitense ha stabilito che l’usura degli pneumatici contribuisce in modo significativo al totale delle microplastiche che disperdiamo nell’ambiente, fino al 10% di quelle che finiscono poi negli oceani. Ciascuno di noi lascia letteralmente per strada da poco più di due etti a quasi cinque chili di rifiuti gommosi l’anno (0.23 – 4.7 kg), per una media globale di 0,81 kg/anno. Lo studio ha accertato la presenza dei frammenti di pneumatico nella catena alimentare umana, concludendo che sono necessarie ulteriori ricerche per accertare rischi per la nostra salute derivanti da questa contaminazione. Questa sottile forma di inquinamento – dei suoli, delle acque, dell’aria – è ormai una preoccupazione globale. La realtà dei fatti pone grosse ipoteche sul futuro “verde” dell’automobile: il motore potrà essere anche a “zero” emissioni, ma l’automobile del Ventunesimo Secolo non potrà mai esserlo, almeno finché non inizi a… volare. Secondo una stima del nostro Ministero dell’Ambiente (Mattm 2012) seguita alle prime procedure di infrazione UE per il superamento dei limiti di PM nell’atmosfera, il contributo su base nazionale delle emissioni da abrasione (pneumatici, freni, asfalto) è del 4,6% per il PM10, pari al 28% delle emissioni dei trasporti su strada (cioè di tutti i veicoli); il 3% e 17% per il PM2.5, rispettivamente. Parliamo di primario, cioè quello emesso direttamente in fase di utilizzo dei veicoli; c’è poi il secondario, ovvero quando il primario diventa precursore di altre emissioni inquinanti, e il risollevamento, ovvero quanto del PM già depositato sul manto stradale torna in aria al passaggio di altri veicoli. Il Mattm precisa che la quantità di frammenti dispersi nell’aria per abrasione “diviene via via percentualmente più rilevante man mano si riduce l’emissione dal tubo di scappamento introducendo nuove tecnologie motoristiche.” Vale a dire che ben presto, con l’affermazione delle automobili elettriche, in genere più pesanti di un’auto a combustione interna, la quota di emissioni legata all’abrasione aumenterà. Già adesso è notevole: secondo Emission Analyitcs, azienda indipendente per l’analisi delle emissioni veicolari “real-world”, vale a dire effettive, misurate cioè a livello strada e non in laboratorio, le emissioni NEE (Non-exhaust Emissions, che non provengono cioè dal tubo di scarico) sono pari al 60% per il PM2,5 e del 73% per il PM10 sul totale. Un test di Emissions Analytics ha verificato che un’automobile tre volumi media, con pneumatici nuovi e gonfiati alla pressione corretta, perde 5,8 grammi di pneumatico per chilometro. Lo pneumatico è stato definito un ibrido “mostruoso” dagli specialisti di rifiuti: c’è dentro gomma naturale – la produzione di pneumatici è stata ed è una delle cause storiche di deforestazione globale – gomma sintetica (dal 20% al 60%), zolfo, zinco, silicio, carbonio, acciaio, cadmio, piombo, idrocarburi policiclici aromatici e altro, come ben sanno i salmoni della California. Per fare un singolo pneumatico di automobile ci vogliono quasi trenta litri di petrolio, per uno da camion più di ottanta. Questa complessità li rende anche difficili da riciclare. Se ne producono circa un miliardo l’anno in tutto il mondo. Una delle soluzioni adottate, una volta frantumati, è quella di riutilizzarli per ripavimentare le strade: sono notevoli i benefici in quanto a riduzione del rumore e maggiore resistenza della carreggiata, per non parlare dello stimolo all’economia circolare. Tornando ai nostri salmoni, dallo SFEI sorgono però dubbi sul fatto che sia una buona idea utilizzare il cosiddetto “polverino” (pneumatico macinato < 0,8 mm.) per additivare l’asfalto. Le sostanze chimiche e i metalli pesanti contenuti nel polverino potrebbero passare nel ciclo delle acque, tornando così a chi aveva pensato di liberarsene. Il progresso della scienza porta innovazioni tecnologiche necessarie, ma anche maggiori consapevolezze sul nostro ruolo nella crisi ambientale in atto. Dalla Mesopotamia del V° Millennio a. C. a oggi, la storia della ruota insegna che ogni nostra scelta, perfino la più naturale e legittima, porta con sé effetti raramente stabili nel tempo, in quanto a efficienza. La ruota, simbolo millenario del dominio dell’uomo sul tempo e sullo spazio e motore di economia, nel mondo contemporaneo rischia di scadere a icona della pericolosa trascuratezza con la quale concepiamo il nostro rapporto con la natura. Quello della sostenibilità di una semplice ruota è un monito a riflettere sulle soluzioni più agevoli, apparentemente positive, che la crescita economica chiede ai suoi stessi beneficiari.

Nel 2020 abbiamo respirato aria più inquinata rispetto al 2019 (nonostante il lockdown). Riccardo Liquori su L'Inkiesta il 25/1/2021. Nel 2020 le emissioni di particolato atmosferico PM10, che compromettono la salubrità dell’aria e quindi la nostra salute, non sono diminuite rispetto al 2019. Anzi, in alcune zone d’Italia sono addirittura aumentate. Nonostante il lockdown nazionale. A testimoniarlo sono i dati registrati dalle 530 stazioni di monitoraggio, disseminate lungo tutta la Penisola, pubblicati dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa). I numeri denunciano un superamento del valore limite dell’inquinante (che per la normativa nazionale ed europea non deve superare più di 35 volte in un anno i 50 μg/m3) in 155 stazioni, collocate soprattutto nel bacino padano. Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia sono così le regioni più colpite da questo problema. Il valore limite ancora più stringente suggerito dall’Organizzazione mondiale della Sanità (sempre 50 μg/m3, da non superare però più di 3 volte in un anno) è stato invece superato in 400 stazioni, interessando così tutta Italia con la sola eccezione della provincia di Bolzano. Una prima spiegazione deriva dal fatto che il particolato atmosferico non viene prodotto solo dal trasporto su strada, che pure è la sorgente primaria di questo inquinante e che nel 2020 ha registrato una forte diminuzione grazie alle restrizioni imposte dal piano pandemico. Tra le cause, un posto di rilievo hanno le sorgenti secondarie, come l’uso di impianti di riscaldamento alimentati a biomassa (legnosa), che invece non si sono arrestate nemmeno lo scorso marzo (durante il lockdown). Anzi, complice un inverno più freddo, nel 2020 hanno infatti registrato un incremento rispetto al 2019. «Questo deve farci riflettere su quanto sia importante adottare delle strategie più sostenibili partendo proprio dalle nostre case», sottolinea Giorgio Cattani, coordinatore rete nazionale dei referenti sulla qualità dell’aria Snpa. «Penso alla possibilità di scegliere combustili a bassa emissione, o di riconvertire gli impianti vecchi (come quelli a camera aperta) di cui disponiamo con altri ad elevata efficienza, che bisogna ricordarsi di sottoporre a una corretta e periodica manutenzione. È poi importante usarli con intelligenza, per esempio servendoci di dispositivi che in autonomia permettono di contenere la temperatura domestica entro un tetto massimo. Sono scelte che non solo fanno bene all’ambiente ma che ci permettono anche di risparmiare». Oltre al riscaldamento domestico, anche le attività agricole e zootecniche possono incentivare l’inquinamento da particolato, perché liberano nell’aria particelle gassose, come gli ossidi di azoto, l’ammoniaca e alcuni composti organici volatili, che in atmosfera interagiscono con le molecole presenti diventando particolato. «La loro formazione è favorita, soprattutto in inverno, da determinate condizioni atmosferiche come le temperature basse, l’alta pressione, la scarsa ventilazione e l’assenza di precipitazioni», ricorda Cattani. «Sono fenomeni che generano una sorta di cappa che, a sua volta, provoca stagnazione atmosferica incentivata dall’inversione termica che intrappola le sostanze inquinanti nell’aria». Si tratta di eventi che caratterizzano soprattutto l’entroterra e le zone pianeggianti del Paese, come la Pianura Padana, la Valle del Sacco (Lazio) e alcune zone interne dell’Umbria e del Molise. Viceversa, le aree costiere soffrono meno di questo problema grazie anche a un maggiore rimescolamento dell’aria. «Purtroppo il lockdown non ha fermato né le emissioni agricole e zootecniche né quelle derivanti dal riscaldamento domestico», spiega Cattani. «E questo ha fortemente contribuito all’aumento dei giorni di sforamento del PM10 imposti dalla legge». Ma c’è anche una notizia positiva, che proviene dallo studio dei trend su periodo lungo (10 anni) delle emissioni inquinanti. «Abbiamo osservato una lenta, ma progressiva, riduzione delle concentrazioni di PM10», sottolinea il tecnologo del Snpa. «Ci sono oscillazioni annuali, è vero, ma la tendenza di fondo è alla riduzione, che però non è ancora sufficiente». Detto questo, se sul meteo non possiamo agire, abbiamo però a disposizione un’importante carta da giocare, come per altro sottolinea Snpa: abbattere, in modo sinergico e su ampia scala, tanto le emissioni prodotte dal trasporto su strada, quando quelle da ricondurre alla combustione di biomassa e alle attività zootecniche e agricole. «Il lockdown ci ha insegnato quanto queste sorgenti siano impattanti e, indirettamente, quanto sia urgente gestirle meglio, convertendole il più possibile alla sostenibilità», conclude Cattani.

Andrea Senesi per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2021. Da martedì 19 gennaio a Milano non si potrà più fumare nei parchi, nei cimiteri, alle fermate del tram, negli stadi (quando riapriranno al pubblico) a meno che non ci sia a una distanza di sicurezza di dieci metri da altre persone. Un divieto soft, quasi fantasma. Perché le sigarette saranno messe al bando, ma almeno per nella primissima fase senza avvisi pubblici né particolari campagne di comunicazione sul tema. Semplicemente da domani i vigili in servizio riceveranno l’indicazione del nuovo divieto, ma senza l’imperativo di sanzionarne i trasgressori. Sarà insomma più un invito che un divieto, più un’opera di moral suasion che una caccia alle streghe. Sarà una campagna «gentile» per indurre i milanesi a dimenticarsi delle sigarette almeno nei luoghi considerati più sensibili. In realtà, la norma approvata nel novembre scorso col regolamento comunale sulla qualità dell’aria sarebbe dovuta entrare in vigore dal primo gennaio. Poi, per ragioni amministrativo-burocratiche, l’avvio del divieto è slittato al 19 gennaio. Ma la pandemia, la zona rossa, la crisi economica consigliano evidentemente un avvio molto soft. I cartelli informativi verranno posizionati in corrispondenza di alcune fermate dei tram e all’ingresso delle principali aree verdi. Non da domani, però. Il provvedimento, va detto, ha anche una valenza antismog oltre che di tutela dei polmoni dei milanesi. Le sigarette sarebbero corresponsabili della pessima qualità dell’aria cittadina, «insieme alle auto, ai riscaldamenti, ai forni a legna delle pizzerie», come aveva spiegato l'assessore Marco Granelli. Così lo stop nei parchi e alla fermate degli autobus sarà solo propedeutico al divieto assoluto di sigaretta all’aperto che scatterà in tutta la città dal 2025. L’ambientalista del Pd Carlo Monguzzi è contento solo per metà della nuova norma: «Giusto vietare il fumo, provoca il cancro e contribuisce per il 5 per cento alla formazione del Pm10. È però veramente un peccato che Milano non faccia come le altre città del mondo e come chiesto dal sindaco Sala, ma che invece si fumi distanziati di 10 metri, una misura sbagliata e proprio incontrollabile». Quanto ai vigili, in questa fase le priorità sono il rispetto dell’obbligo di mascherine e il distanziamento sociale. La crociata anti-fumo aspetterà tempi migliori. Daniele Vincini, storico sindacalista dei ghisa, osserva: «Chi andrà a far rispettare il divieto nelle curve degli ultras? Noi non siamo votati al martirio».

ECCO I MOTIVI MEDICI PER VIETARE IL FUMO (ANCHE ALL'APERTO). Roberta Boffi, Silvano Gallus, Fabrizio Faggiano, Paolo D'Argenio, Giuseppe Gorini, Giovanni Viegi, Vincenzo Zagà, Maria Sofia Cataruzza, Silvio Garattini per il "Corriere della Sera" il 27 gennaio 2021. Caro direttore, abbiamo letto con stupore e rammarico l'intervento del 24 gennaio intitolato «Un divieto ipocrita, fumerò all'aperto (senza disturbare)» di Antonio Scurati, stimato giornalista e scrittore. L'articolo critica la recente introduzione, da parte del Comune di Milano, del divieto di fumare all'aperto a meno di 10 metri di distanza dagli altri, per ora soltanto alle fermate dei mezzi pubblici, nei parchi e negli stadi e, dal 2025, in tutta la città. Non si tratta per noi medici e ricercatori impegnati nella lotta al tabagismo di una grande novità: siamo abituati da decenni a dover fronteggiare le campagne diffamatorie delle multinazionali del tabacco - e dei loro sostenitori e simpatizzanti - rivolte a screditare i nostri studi e i conseguenti adeguamenti legislativi in tema di fumo passivo e dei suoi danni alla salute. Ricordiamo bene, per esempio, gli articoli di giornalisti contrari all'approvazione della legge Sirchia, ormai una delle più amate e rispettate tra i non fumatori ma anche tra i fumatori stessi. Sono passati più di 15 anni e ci ritroviamo a dover difendere un altro illuminato decisore politico che tenta di cambiare in meglio la salute dei cittadini. Siamo sorpresi che la firma dell'editoriale sia di Antonio Scurati, un uomo che ha avuto un ruolo di innovatore civile, impegnato nella cura dell'anima del Paese, e che riteniamo indipendente da qualsiasi conflitto di interesse. Ci spiace soprattutto che il Corriere della Sera, dopo il bell'articolo - molto dettagliato e ben documentato - di Gianni Santucci del 20 gennaio sul fumo passivo outdoor («Picchi di polveri alle fermate dei bus. Stretta salutare: Milano sia capofila»), abbia sentito l'esigenza di suggerire che il nuovo divieto sia una norma non solo «ingiusta» ma addirittura «ipocrita» e «ridicola». Al contrario, noi che da decenni ci occupiamo di controllo del tabagismo sosteniamo con forza questa nuova politica ambientale che parte da Milano, ma che si è già estesa ad altre città, come Firenze. Auspichiamo, anche, che possa essere adottata a livello nazionale e possa ispirare, come fece la legge Sirchia, altri Paesi in Europa e nel mondo. Questo perché siamo ben consci delle evidenze scientifiche. È utile ricordare, infatti, che il fumo passivo è un agente cancerogeno del gruppo 1 (quindi certamente cancerogeno per l'uomo) secondo quanto stabilito dall'Agenzia Internazionale della Ricerca sul Cancro (Iarc) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). È stato inoltre dimostrato, anche da alcuni studi dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che le concentrazioni di polveri fini e ultrafini liberate nell'ambiente dal fumo passivo di una singola sigaretta sono superiori a quelle degli scarichi di autovetture diesel e benzina. È importante pertanto che i più di 11 milioni di italiani che ancora fumano siano ben consci che il loro consumo annuo di 65 miliardi di sigarette contribuisce significativamente all'aumento dell'inquinamento ambientale, indipendentemente da dove si fuma. Senza retorica, il fumatore non può essere considerato un capro espiatorio, è la vittima di una dipendenza psicofisica indotta dall'industria del tabacco che, statisticamente, lo può portare a una morte anticipata mediamente di 10 anni. Settanta anni di ricerca e decine di migliaia di studi scientifici hanno dimostrato come il fumo, attivo e passivo, non solo provochi più di 80 mila morti ogni anno solo in Italia, ma sia causa di una disabilità che incide sulla qualità della vita. Fortunatamente, il fumo di tabacco non si considera più un «inestirpabile vizio»; si può smettere e oggi, con l'aiuto di supporti psicologici o farmacologici, è ancora più facile. E non può valere l'argomento, citato da Scurati, che Milano e tutta la Pianura Padana sono una delle zone più inquinate di Europa, per sostenere l'inutilità di un provvedimento del genere. Anzi, vale il ragionamento contrario: proprio perché abbiamo a che fare nello stesso luogo con i due più importanti fattori di rischio ambientali, dobbiamo fare il massimo per contrastare entrambi, raccogliendo l'appello lanciato dall'Oms nell'ottobre 2018 ad agire su scala globale contro l'inquinamento atmosferico, responsabile di oltre 7 milioni di morti anticipate all'anno nel mondo. Lo sappiamo, quando si parla di prevenzione e promozione della salute i divieti non bastano. Soprattutto i divieti irritano quando li interpretiamo come privazione di un diritto ad una scelta che, nel caso del fumo, sembra libera. Ma spesso sono necessari per il bene di tutti. E sulla libertà del singolo fumatore deve sempre prevalere il diritto alla salute pubblica oltre che il rispetto delle categorie più sensibili, come i malati di patologie respiratore, cardiache e oncologiche, gli anziani, i bambini e le donne in gravidanza.

RISPETTO LE REGOLE MA STA SPARENDO LA NOSTRA LIBERTÀ. Antonio Scurati per il "Corriere della Sera" il 27 gennaio 2021. Fumare fa male alla salute, molto male alla salute. Non c'è alcun dubbio su questo. Oggi lo sanno perfino i bambini, anzi, soprattutto i bambini (qualunque fumatore con figli in età infantile, costantemente costretto sulla difensiva dagli assalti censori della propria prole, potrà confermarlo). Noi tutti dobbiamo, per questo motivo, gratitudine ai medici e ricercatori da anni impegnati in campagne di sensibilizzazione sui rischi del tabagismo. Io per primo, colpito dalla loro garbata reprimenda, voglio pubblicamente ringraziarli per il loro prezioso lavoro di cura, ricerca e educazione sanitaria. Io sono un vizioso fumatore gaudente ma mi auguro che proprio grazie al loro lavoro le mie figlie non considerino mai la sigaretta come un piacere. Sono, però, sicuro che tutti loro, pur deprecando il vizio del fumo, non disdegnino il vizio del libero pensiero. E, allora, mi consentiranno di far notare che il mio intervento - che è stato pubblicato su mia iniziativa - non era un articolo sulla nocività del fumo per il fumatore (argomento fuori discussione oramai da anni) ma un articolo sulla libertà dell'individuo, sempre più minacciata da nuove, sottili forme di coercizione e dunque quanto mai bisognosa di un nuovo pensiero. Spostare il ragionamento dalla controversa questione riguardante la libertà dell'individuo all'evidenza scientifica della nocività del fumo significa rinunciare a misurarsi con la prima, liquidando chiunque la ponga come un nemico della scienza e della salute pubblica. Niente affatto, esimi scienziati. Io ho molto a cuore la salute pubblica e sono un seguace della scienza. Non meno, però, di quanto lo sia della coscienza e, soprattutto, dell'autocoscienza. Lo spirito critico, essenza del pensiero occidentale, da cui scaturisce anche la gloriosa impresa scientifica, mi spinge dunque a dubitare dell'informazione scientifica quando affermi che «le concentrazioni di polveri fini e ultrafini liberate nell'ambiente dal fumo passivo di una singola sigaretta sono superiori a quelle degli scarichi di autovetture diesel e benzina». Perdonatemi ma si tratta di un'affermazione talmente vaga e tendenziosa (quante autovetture? su quale durata di emissioni? a che distanza dal fumatore si calcola la passività?) da suonare come una di quelle scorciatoie retoriche che si propongono non di formare ma di supplire alla coscienza dell'individuo. Soprattutto mi rifiuto di considerarmi come «vittima di una dipendenza psicofisica indotta dall'industria del tabacco» e come «gravato da una disabilità che incide sulla qualità della vita». Questa, consentitemelo, è una visione che relega l'individuo in una sorta di perenne stato di minorità e che, dunque, autorizza lo Stato, la Scienza o il Comune di Milano a esautorarlo della sua facoltà di decidere in piena coscienza se fumare o meno, se sorbirsi un whiskey o meno, se mangiare il gorgonzola (sommo piacere, apportatore, purtroppo, di colesterolo) o meno. Insomma, ciò su cui invitavo a riflettere è che il fumo di una sigaretta, proprio in virtù della odierna consapevolezza, non è espressione di una sorta di deficienza ma atto di piacere sovrano. Una piccola ma preziosa forma di sovranità che chiama in causa la fondamentale questione della libertà individuale. Gentili lettori, io non ho mai scritto di volermi ribellare alle regole di elementare civismo che proibiscono di fumare alle pensiline dei mezzi pubblici o in qualsiasi altro luogo che obblighi un non fumatore e sorbirsi il mio fumo passivo. Ci mancherebbe altro! Mi ribello, però, all'idea che l'intera città di Milano, per liberarsi dalla cappa di smog che l'opprime debba liberarsi anche di me (e di quelli come me) e, soprattutto, mi ribello all'idea che Milano, per guadagnarsi un futuro ecologico, debba rinunciare alla libertà individuale e ai piaceri della vita. La mia libertà finisce dove inizia quella altrui. Sono pienamente d'accordo. Anche questo, oggi, per fortuna, lo sanno pure i bambini. Proprio oggi, però, in queste nostre vite sempre più avviluppate in una rete di proibizioni, prescrizioni, obblighi, vincoli e profilassi che ci stringono da ogni lato, il vero tema non è dove finisca la libertà ma dove cominci.

Vittorio Giacopini per “il Venerdì di Repubblica” il 16 gennaio 2021. Nel borsino delle voghe para-culturali di tendenza, la figura di David Henry Thoreau - l'apostolo della disobbedienza civile, il cantore selvaggio della vita nei boschi - torna in auge a fasi regolari, ambiguamente. Molto citato, pochissimo letto davvero e inteso a fondo, l' hanno trasformato in un' icona à la page, inoffensiva, o in un marchio di comodo, giustificante. Il "re barbaro" - così lo chiamava Stevenson - scrollerebbe le spalle, probabilmente piuttosto incredulo, certamente disgustato, spazientito. In suo nome ne hanno dette abbastanza di tutte, dalla giustificazione filosofico-politica dell' evasione fiscale e altre piccole-grandi truffe contabili, alla celebrazione elegiaca dell' esodo dalle grandi città verso la malìa dei bei casali finemente ristrutturati in campagna o dentro l' incanto dei "piccoli borghi". In tempi di coronavirus & smart working il ritornello sta diventando addirittura stucchevole: "l' Italia è piena di borghi abbandonati, da salvare. Abbiamo un' occasione unica per farlo"; "Nei boschi, nei campi, l' uomo è solo una presenza tra tante, non c' è rischio di movida, il distanziamento è un dato di fatto". Dopo l' utopia pret-à-porter del bosco verticale e altre bislacche trovate di urbanistica, si passa - con dubbia disinvoltura - alla "fase due": la pandemia come grande occasione di teorizzazione e santificazione del sogno (signorile, però) del "voglio vivere in campagna" (con buona pace dei vecchi Marx-Engels e dei loro - sacrosanti - sberleffi sull' idiotismo della "vita rurale"). Via dalla pazza folla, è giunto il momento. Pressato dal lockdown, dagli affanni di carriere e attività più o meno immateriali e smart, preso da ennui per il rito trito e ritrito dell' aperitivo rinforzato o dell' apericena, il topino di città vuol farsi topino (e signorotto) di campagna, con vista su colli e valli e cangianti filari di vigna, e camino scoppiettante e, naturalmente, pannelli solari e cappotto termico da ecobonus, cose così. Ma la "récupération" di Thoreau in chiave postmoderna New Age o in salsa green (per non parlare del tentativo di eleggerlo santo patrono degli evasori fiscali), è impraticabile. L' uomo era di ben altra pasta e indole - intrattabile - e nei sui scritti non c' è un filo di elegia, consolatoria. A modo suo era un asceta epicureo, e un vero ribelle. Stevenson, che l' aveva intuito benissimo, l' ammirava per questo: «Il vero tema di Thoreau era il miglioramento di sé, combinato a una critica ostile della vita così quale è nella nostre società» scriveva in Il re barbaro, un breve testo ripubblicato dalle Edizioni dell' asino qualche anno fa.  Altro che buen retiro in campagna, nel casaletto. A Walden, Massachusetts, Henry David Thoreau s' era costruito una cabin con quattro assi in croce, tra i boschi di pini, e alla resa dei conti la sua non era certo una fuga, piuttosto una sfida. Aveva scelto di appartarsi nel «grande mare della solitudine dove si svuotano i fiumi della società», per dichiararsi nemico giurato di un' intera struttura sociale, e di uno stile di vita. «La maggior parte di ciò che i miei concittadini stimano buono io credo con tutta l' anima che sia invece cattivo; se c' è qualcosa di cui mi pento, nove volte su dieci è della mia buona condotta». Libri come Walden e La disobbedienza civile sono la cronaca di questo conflitto tra un uomo e gli schemi. Il vero motivo della sua secessione era non pagare tributo a uno Stato «che compra e vende, come bestie, uomini, donne e bambini» ma - lo sapeva - la società prepara sempre vendetta contro gli irregolari e «un uomo, dovunque vada, sarà sempre inseguito dagli altri uomini che lo acchiapperanno con le loro sporche istituzioni e, se possono, lo costringeranno ad appartenere alla loro disperata massoneria». Quanto alla natura, aveva scelto la vita selvaggia e l' estremo, non certo le consolazioni "carine" della campagna. Anche i due testi ripubblicati adesso da La Nuova Frontiera (Una passeggiata in inverno e Camminare, tradotti - benissimo - da Tommaso Pincio, illustrati - benissimo - da Rocco Lombardi) vanno letti in questa luce, e in questa chiave ribelle. Al solito, Thoreau parte dal suo imperativo di metodo - «Guarda le cose!» - per introdurci in un' altra dimensione, e in un altro mondo. Nei fondi boschi del Maine, in pieno inverno «la natura confonde quel che in estate distingue il giorno è soltanto una notte scandinava. L' inverno è un' estate artica». Se parla di selve è per introdurci a un rito di passaggio che prevede di tagliare tutti i ponti con la società (per magari farci ritorno, dopo, più arrabbiati e coscienti, con gelida furia disobbediente). E se usa la parola "rigenerarsi", parla sul serio, fuori da ogni narcisismo terapeutico e da quell' apprensione per il sé che oltre un secolo dopo il suo compatriota Christopher Lasch avrebbe diagnosticato come il più tipico dei mali (post)moderni. «Quando voglio rigenerarmi, mi metto in cerca della foresta più buia e della palude più intricata, più impenetrabile e, per la gente di città, più tetra. Mi addentro in una palude come in un luogo sacro, un sancta sanctorum. Vi si percepisce la forza, il midollo della Natura. Il bosco selvaggio ricopre il terriccio vergine e quello stesso suolo è benefico, sia per gli uomini sia per gli alberi». Voltate le spalle alle città, e ai borghi, e ai casolari, all' uomo non resta altro che camminare, ma fuori da ogni pista battuta, e senza mappe. Il sarcasmo di Thoreau contro la retorica della vita all' aria aperta intesa come sport o svago salutista è inesorabile: «Non siamo che pavidi crociati, le nostre spedizioni non sono che scampagnate, al termine delle quali, a sera, torniamo sempre al vecchio focolare da cui siamo partiti. Metà del cammino consiste nel ripercorrere i nostri passi. Dovremmo invece imbarcarci anche nella più breve delle passeggiate con spirito avventuriero e imperituro, quasi non si dovesse tornare mai più; pronti a rispedire il cuore imbalsamato, come una reliquia, ai nostri regni desolati». Il suo invito, piuttosto, era a un viaggio diverso, senza nostos, ritorno. Siamo «tutti figli della nebbia», diceva, siamo confusi, ma dovremmo spezzare gli ormeggi, andare a Ovest. Alludeva a un West metafisico, e abissale: «L' Ovest di cui parlo non è che un altro nome con cui chiamare la Natura selvaggia. I nostri antenati erano selvaggi. La storia di Romolo e Remo allattati da una lupa non è una favola priva di senso». Naturalmente si poneva anche lui il problema del futuro, dentro il presente. «Non possiamo permetterci di non vivere dentro il presente ma speranza e futuro, per come la vedo io, non vanno cercati nei campi coltivati e nei prati all' inglese, né si trovano in villaggi e città, ma nelle paludi impervie e instabili». Per Thoreau la contraddizione essenziale è l' opposizione tra il mondo e la società. Anche l' elogio della natura selvaggia, e delle paludi, è una forma estrema di disobbedienza e rifiuto, una secessione dalla società: «Voglio prendere la parola in favore della Natura, della libertà assoluta e della vita selvatica, contrapposte a una libertà e a una cultura soltanto civili; considerare l' uomo un abitante della Natura o comunque una sua parte integrante, anziché un membro della società. Voglio fare una dichiarazione estrema e pertanto categorica; la civiltà ha fin troppi paladini: che se ne occupino i pastori e i comitati scolastici o chiunque altro tra voi».

Valentina Arcovio per "il Messaggero" il 12 gennaio 2021. In Sicilia sbocciano le mimose e in Veneto si ghiaccia. Nel palermitano e nel messinese tirrenico si sono toccate punte di 27° C, quando invece a Dolina di Campoluzzo, sull' Altopiano di Asiago le temperature sono precipitare a -39,6° C, un record! È un meteo pazzo quello di questi giorni. È come se avesse spaccato in due l' Italia. Tra Sicilia e Piemonte si è registrato un netto divario termico, che è arrivato a superare anche i 20°C. Ma non è solo l' Italia a vivere una situazione meteorologica così strana. Anche in Europa si registrano estremi davvero impressionati: in Grecia un' ondata di caldo così insolito ha portato a temperature sopra i 20° C, mentre la Spagna imbiancata dalla neve è scesa a quota 15° C sotto lo zero. Nel Sud di Creta, con una temperatura di 28,3 gradi a mezzogiorno, la più alta a gennaio da 50 anni, sembrava di essere in piena stagione estiva; mentre a Madrid, con piazze e viali piene di neve, le scuole sono state addirittura chiuse per il maltempo. Il caldo fuori stagione ha inoltre fatto superare alcuni record per gennaio a Malta con massime fino a 29°C e in Tunisia dove il termometro ha toccato quota +34°C.

SITUAZIONI PARADOSSALI. Situazioni paradossali, queste, che sono molto evidenti nel nostro paese. Il Nord Italia è ancora alle prese con freddo polare. Gelo in Veneto e Alto Adige. A Trieste, ieri mattina, la bora ha soffiato fino a quasi 100 chilometri orari. Sulle Alpi del Friuli Venezia Giulia è stato segnalato un pericolo valanghe marcato fino a domani. In Sicilia tutto un altro meteo, quasi surreale. Nel mezzo un' Italia molto dinamica che però si prepara all' arrivo delle classiche perturbazioni invernali. Da ieri è già allerta gialla in 7 regioni: Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Molise, Puglia e Umbria. Si prevedono pioggia e neve al Centro-Sud; pioggia e neve sulla Sardegna; e codice giallo per ghiaccio in Toscana. Sul resto d' Italia ci saranno ampie schiarite ma un drastico calo delle temperature, soprattutto la notte quando si scenderà a -5/-6°C sulla Pianura Padana. Sottozero Roma, Firenze e Perugia. Ma per la Capitale ci sarebbero pochissime possibilità che la neve faccia capolino. E sarà così almeno fino al 20 gennaio prossimo.

INTENSE GELATE. Farà freddo, certo. E pure tanto. In tutto il Lazio le temperature, specialmente le massime, infatti subiranno nei prossimi giorni un ulteriore calo fino ad attestarsi intorno allo zero di notte o al mattino presto, con intense gelate. Le previsioni sono piuttosto chiare: oggi, domani e dopodomani il cielo resterà sereno, senza fenomeni di rilievo, poi a partire dal 15 e il 16 e 17 gennaio ci sarà un' ondata di aria fredda proveniente dai Balcani, che arriverà a lambire anche il Lazio e le regioni tirreniche, superando gli Appennini. Secondo il colonnello Mario Giuliacci, l' aria fredda, sospinta dal vento di Bora, ci farà percepire temperature ancora più rigide di quelle che realmente segneranno i termometri. È anche allerta gialla intorno a Bologna: le temperature dovrebbero scendere fino a 12 gradi sotto lo zero sulle montagne e sulle colline del Parmigiano, del Reggiano, del Modenese e del Piacentino. Poco prima del prossimo weekend, le previsioni annunciano un nuovo calo delle temperature con 10 gradi in meno in tutta l' Italia. Prevista neve sui 200-300 metri sull' Appennino centrale e in tendenza anche su quello meridionale. Non si esclude qualche spruzzata di neve anche in pianura o lungo le coste adriatiche. Altrove non avremo fenomeni, ma un marcato calo delle temperature ad iniziare dalle regioni settentrionali, con forti venti tra Nord e Nord-est. Il momento più freddo è atteso nella notte tra domenica 17 e lunedì 18 gennaio. Come ogni inverno, sono forti le preoccupazioni per l'agricoltura: il maltempo purtroppo porta con se danni soprattutto nelle zone rurali e agricole. La Cia-Agricoltori Italiani che sta monitorando la situazione stima una perdita di svariati milioni di euro, e ricorda al Governo l' urgenza di un Piano nazionale di manutenzione del territorio con programmi che possano trovare spazio nel Recovery Fund. Il 19 gennaio l'ondata di aria fredda si sposterà poi al Sud, con una risalita delle temperature nel Lazio e nelle regioni centrali. Ma sarà solo un brevissimo periodo di tregua dal gelo invernale. Si intravedono infatti nuove ondate di freddo. Del resto siamo solo all' inizio dell' inverno. La prossima ondata di freddo è prevista per il 23.

La Pianura Padana sul banco degli imputati: neanche il lockdown abbatte l'inquinamento. Nei mesi di chiusura per la pandemia la qualità dell’aria non è migliorata. Ridurre gli scarichi delle auto non basta. Il problema sono le emissioni agricole, animali e umane, e la geografia della zona. Ora l’Europa ci chiede di agire. Fabrizio Gatti su  L'Espresso il 30 dicembre 2020. Ogni volta che l’epidemia di coronavirus trasforma la Pianura Padana in zona rossa, il cielo diventa un po’ più blu. Come la scorsa primavera, anche l’ultimo confinamento autunnale, stando alle mappe pubblicate dalla Regione Lombardia, ha migliorato la qualità dell’aria: ma soltanto per la minor concentrazione di biossido di azoto, dovuto alla riduzione del traffico. Il particolato in sospensione, misurato attraverso la quantità di polveri Pm10 più grossolane e Pm2,5 più sottili, purtroppo resta uguale. Questa è una brutta notizia, poiché entro il 2025 l’Italia deve rispettare i parametri stabiliti dall’Unione Europea. Se nemmeno il drastico confinamento di marzo ha dato risultati soddisfacenti.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 5 gennaio 2021. Tutti i giornali hanno pubblicato con notevole evidenza che Greta Thunberg ha compiuto 18 anni. Il mio primo pensiero è stato il seguente: "E chi se ne frega?". Allorché un qualsiasi personaggio salito agli onori o ai disonori della cronaca celebra il proprio genetliaco, la cosa non eccita nessuno. Fatti suoi. O mi sbaglio? Invece per Greta è stata fatta una eccezione che francamente non capisco, perché ormai questa ragazza, che ha mobilitato le masse ambientaliste per qualche mese, conta come il due di bastoni quando la briscola è a spade. È stata senza dubbio un fenomeno mediatico, spiegabile in un unico modo: alla gente più sprovveduta piace stralunarsi davanti a uomini e donne predicatori di sventure. Secondo Greta - chissà chi glielo ha riferito -, i cambiamenti di clima minacciano la sopravvivenza del pianeta. Mentre è noto a chiunque che caldo e freddo si alternano su questa Terra senza che l'essere umano possa intervenire sulle escursioni termiche. Le subisce come subisce con rassegnazione le calamità naturali. In questi giorni, per esempio, in Italia, non certo a causa di torride temperature, si sono registrate nevicate pazzesche che hanno paralizzato non soltanto le località di montagna, ma anche le metropoli, come Milano. Io sono abbastanza vecchio e di memoria lunga, cosicché ricordo che durante la mia infanzia, esattamente come ora, ho vissuto battendo i denti e soffocando per l'afa. Nulla è mutato rispetto ad allora. Vari fessi a un certo punto hanno dichiarato la morte delle mezze stagioni, e invece per fortuna sono morti loro portandosi i pregiudizi nella tomba. Primavera, estate, autunno e inverno si susseguono adesso come sempre e la colonnina di mercurio va su e giù come Dio comanda a prescindere dalle idee balzane degli scienziati privi di scienza e pieni di boria. Pertanto la cara Greta può andare a scopare il mare, questo sì che è pieno di ogni schifezza prevalentemente umana.

Jaime D'Alessandro per repubblica.it il 5 gennaio 2021. Abbiamo smesso di muoverci e la natura ha ripreso il suo spazio, molto più velocemente di quel che era lecito aspettarsi. La fotografia che emerge dall’analisi delle immagini satellitari nel progetto Earth Data Covid-19 della Nasa sembrano dimostrare questo: sono bastate alcune settimane di lockdown perché l’inquinamento atmosferico diminuisse di un terzo e la qualità dell'acqua e dell’aria migliorasse di oltre il 40%. Ne Il mondo senza di noi, saggio scritto tredici anni fa da Alan Weisman e tradotto in 34 lingue, si raccontava con minuzia maniacale come la Terra cambierebbe se l’umanità di colpo non ci fosse più. La metropolitana di New York ad esempio verrebbe allegata dopo appena due giorni senza il lavorio delle pompe che assorbono le continue infiltrazioni di acqua, ovunque nel mondo l’asfalto inizierebbe a creparsi al primo inverno, mentre i palazzi prenderebbero a sgretolarsi l’anno successivo. Stavolta sono state sufficienti alcune settimane per notare cambiamenti sensibili. “Abbiamo guardato diverse aree per poi concentrarci su alcune città come San Francisco e New York”, racconta Nima Pahlevan, ricercatore iraniano d’adozione americana del Goddard Space Flight Center della Nasa che ha osservato in particolare all'impatto della pandemia sulla qualità dell'acqua. “Solo a New York due milioni di pendolari hanno cessato di andare e venire da Manhattan durante il lockdown e i mutamenti sono stati evidenti, stando a quanto abbiamo rilevato in collaborazione con la Columbia University. La riduzione del traffico lungo il fiume Hudson ha permesso alle acque di tornare trasparenti. Non è un fattore univoco della loro qualità, ma certo è un indicatore”. È successa la stessa cosa a Venezia, secondo una ricerca del Cnr pubblicata a maggio sulla rivista Science of the Total Environment, partita dai dati dei satelliti Sentinel-2 del programma europeo Copernicus. “È la conseguenza della riduzione della pesca dei molluschi sui bassi fondali e del passaggio delle navi commerciali nel canale industriale Malamocco-Marghera", ha commentato Federica Braga del Cnr-Ismar.

Il ritorno della natura. Nel caso del progetto Earth Data Covid-19 le istituzioni che hanno partecipato sono state ben sette, compresa l’Agenzia Spaziale Europea (Esa), e i primi risultati li ha presentati l'American Geophysical Union. Tutti hanno riscontrato effetti macroscopici in assenza della pressione esercitata dall’uomo sull’ambiente, anche se i risultati non sono univoci. "Abbiamo bisogno di ulteriori ricerche per attribuire chiaramente il cambiamento ambientale all’emergenza Covid", ha affermato Timothy Newman, coordinatore del programma nazionale di osservazione terrestre per il Servizio geologico degli Stati Uniti (Usgs). Eppure il nesso sembra chiaro. Le attività industriali in India, inclusa l'estrazione e la frantumazione di pietre per il settore delle costruzioni, hanno subito un rallentamento o si sono interrotte a causa delle misure anti Covid-19 e subito dopo le misurazioni dell'aria e i dati all'infrarosso dei satelliti Landsat hanno mostrato che i livelli di inquinamento erano diminuiti di circa un terzo rispetto al periodo pre-pandemico. Ned Bair dell’Earth Research Institute presso l'Università della California di Santa Barbara, che studia i cambiamenti del bacino del fiume Indo, è riuscito a rilevare un grado maggiore di pulizia della neve come non si vedeva da venti anni. Essendo più riflettente, la neve si è sciolta con più lentezza evitando che una massa di acqua sufficiente a riempire per due volte il Lago Maggiore finisse nell’Indo. Anche Pahlevan ha usato le informazioni raccolte dei Landsat oltre a quelle dei Sentinel-2. I dati hanno mostrato un calo di torbidità dell’acqua superiore al 40% nel fiume Hudson. “Ma non durerà”, spiega lui stesso. “Se dovessimo tornare alla quotidianità che avevamo prima della pandemia tutto quel che abbiamo rilevato, ogni singolo miglioramento, nel giro di pochi mesi svanirebbe”. Alla stessa conclusione sono arrivati i ricercatori del Cnr sulle acque di Venezia. L’Earth Data Covid-19 è per ora un progetto che riguarda solo alcune città come San Francisco, New York, Tokyo, i porti di Dunkirk e Ghent, Los Angeles, Togo e Pechino. Non si tratta di un monitoraggio continuo come invece avviene per la qualità dell’aria, né ha ovviamente tenuto conto di altri fattori come i danni economici prodotti dalla pandemia limitandosi. Ma anche dei tre parametri ambientali presi in esame, per alcune aree i dati non sono completi. Strano a dirsi ma abbiamo un controllo della Terra dallo spazio che è ancora pieno di falle. “Credo che arriveremo ad una analisi in tempo reale continua in dieci anni circa”, conclude il ricercatore del Goddard Space Flight Center della Nasa. “Quel che abbiamo fatto con questo progetto è solo un primo passo”. 

Milano, lo smog aumenta anche senza traffico di automobili. Strade vuote per il Covid, ma polveri sottili più alte del 2019. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 06 gennaio 2021. Premessa: tutti vogliamo un'aria più pulita. Però il discorso è complesso e non si liquida con un facile slogan, come quello della "lotta indiscriminata alle auto". Prendiamo i dati sulle polveri sottili a Milano negli ultimi quattro mesi dell'anno. Li abbiamo comparati scaricandoli dal sito dell'Arpa (l'Agenzia regionale per la protezione ambientale) tra il 2019 e il 2020: non sono ancora stati validati dal report annuale dell'ente, ma sono disponibili a chi abbia la pazienza di spulciarli. E niente, il lockdown che ci ha tappati in casa non è stato granché d'aiuto. Sì, noi abbiamo lasciato l'auto in garage per settimane e ci siamo riempiti di piste ciclabili, ma il problema resta lì, a penzolare sopra le nostre teste. Le medie da settembre a dicembre di Pm10 sono aumentate in tutti i casi, in uno sono addirittura raddoppiate. Segno che il tema c'è, ma lo stiamo affrontando dal verso sbagliato. Cioè: la concentrazione media di polveri sottili nell'aria, a settembre 2019, era di 22 microgrammi per metro cubo, nello stesso periodo del 2020 è salita a 23,7. Lo stesso è accaduto a ottobre (29 µg/m³ nel 2019; 31,2 nel 2020), a novembre (23,3 µg/m³ un anno fa; ben 57,9 µg/m³ nel 2020) e a dicembre (33,5 µg/m³ contro i 35,7 µg/m³ del 2020). Le cifre si riferiscono alla centralina Pascal-Città Studi della Madonnina. I fattori in campo, ovvio, sono molteplici: dalle condizioni atmosferiche (quest' autunno ha piovuto meno), alle vecchie caldaie che andrebbero rammoderniate e che costituiscono uno dei nodi principali dell'intero fenomeno. Invece, specie a Milano, la tiritera propinata a ogni piè sospinto è un'altra: colpa del traffico, ripete da tempo la sinistra di Palazzo Marino, serve una svolta "green". Per questo il Comune ha deciso di puntare, col coronavirus, sulla mobilità alternativa: via le quattro ruote, sì alle bici. Ma i risultati, stando alle tabelle, stentano ad arrivare. Tanto per capirci: il valore più alto riscontato è stato segnato il 27 novembre 2020, 101 microgrammi per metro cubo, ben oltre la soglia d'allerta. Peccato che, quel giorno, era già scattata la "zona rossa" che ci aveva chiusi tutti dentro, con spostamenti ridotti al lumicino e le attività sforbiciate di netto. Lo stesso giorno del 2019, quando di quarantena di massa non sapeva nulla nessuno, la rilevazione atmosferica segnava quota 25: meno di un quarto. Il copione è simile a quanto era già accaduto durante il primo lockdown: il traffico era crollato, le polveri sottili no, come confermato anche dai report ufficiali degli enti preposti alla misurazione. «Non siamo contrari agli obiettivi del piano clima, siamo contrari al percorso che questa amministrazione ha messo in essere perché non tiene conto della parte sociale ed economica della città», sbotta Andrea Mascaretti, consigliere comunale di Fratelli d'Italia a Milano. Mascaretti da tempo si occupa della questione: «Purtroppo questo progetto ambientalista di Sala e Granelli (sindaco e assessore alla Mobilità meneghina, ndr) parte da un presupposto sbagliato, cioè la colpevolizzazione degli automobilisti. Noi vogliamo combattere il pm10, non chi usa la macchina per andare a lavorare». «Il risvolto di questa guerra ideologica e inutile, invece», conclude, «è che creerà disagi e sofferenza a quella fascia più debole ed economicamente più fragile di cittadini che si sposta per necessità con la propria auto. Dati simili si sono letti già durante il primo lockdown, quello di marzo. Ora il ritornello sembra non cambiare". Dello stesso avviso è Gabriele Abbiati, collega leghista in Piazza Scala: «Questi numeri sono l'ennesima dimostrazione che l'agguerrita lotta che sta facendo l'amministrazione comunale alle auto è solo ideologica», spiega l'esponente del Carroccio. «Nessuno di noi vuole incentivare l'utilizzo scriteriato della macchina, ma l'accanimento della giunta è inutile; sarebbe meglio utilizzare risorse ed energie per offrire un servizio di trasporto pubblico più efficiente».

·        La Decrescita felice e l’ambientalismo catastrofico.

Articolo di “The Wall Street Journal”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 21 dicembre 2021. I ghiacciai dell'Himalaya si stanno sciogliendo ad un ritmo impressionante, con una nuova ricerca che mostra che i vasti strati di ghiaccio si sono ridotti 10 volte più velocemente negli ultimi 40 anni che nei sette secoli precedenti. Valanghe, inondazioni e altri effetti dell'accelerazione della perdita di ghiaccio mettono in pericolo i residenti in India, Nepal e Bhutan e minacciano di sconvolgere l'agricoltura per centinaia di milioni di persone in tutta l'Asia meridionale, secondo i ricercatori.  E poiché l'acqua proveniente dallo scioglimento dei ghiacciai contribuisce all'innalzamento del livello del mare, la perdita di ghiaccio glaciale nell'Himalaya si aggiunge anche alla minaccia di inondazione e ai relativi problemi affrontati dalle comunità costiere di tutto il mondo – scrive il WSJ. "Questa parte del mondo sta cambiando più velocemente di quanto nessuno si sia reso conto", ha detto Jonathan Carrivick, un glaciologo dell'Università di Leeds e co-autore di un documento che descrive in dettaglio la ricerca pubblicata lunedì sulla rivista Scientific Reports. "Non è solo che l'Himalaya sta cambiando molto velocemente, è che sta cambiando sempre più velocemente". Gli scienziati hanno da tempo osservato la perdita di ghiaccio dai grandi ghiacciai in Nuova Zelanda, Groenlandia, Patagonia e altre parti del mondo. Ma la perdita di ghiaccio in Himalaya è particolarmente rapida, secondo il nuovo studio. I ricercatori non hanno individuato una ragione, ma hanno notato che i fattori climatici regionali, come i cambiamenti nel monsone dell'Asia meridionale, possono avere un ruolo. La nuova scoperta arriva mentre c'è un consenso scientifico sul fatto che la perdita di ghiaccio dai ghiacciai e dalle lastre di ghiaccio polari deriva dall'aumento delle temperature globali causate dalle emissioni di gas a effetto serra dalla combustione di combustibili fossili. Molti studi scientifici peer-reviewed hanno identificato l'attività umana come causa dell'aumento delle temperature globali. Così ha fatto un rapporto pubblicato in agosto dal Comitato intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, che ha detto che "l'influenza umana è molto probabilmente il principale motore del ritiro globale dei ghiacciai dagli anni '90". Per il nuovo studio, il Dr. Carrivick e i suoi colleghi hanno analizzato le foto satellitari di quasi 15.000 ghiacciai della regione alla ricerca di segni di grandi creste di roccia e detriti che i ghiacciai lasciano dietro di sé mentre lentamente macinano la loro strada attraverso le valli. Usando le posizioni di queste antiche tracce glaciali, gli scienziati hanno stimato la durata della copertura dello strato di ghiaccio nei secoli precedenti. Poi l'hanno confrontato con l'attuale copertura di ghiaccio per arrivare a una stima di quanto ghiaccio è stato perso da un periodo di raffreddamento globale tra 400 e 700 anni fa, noto come la Piccola Era Glaciale. La stima: tra 390 e 586 chilometri cubici di ghiaccio - abbastanza per aumentare il livello globale del mare da 0,92 a 1,38 millimetri, o circa 1/20 di pollice. Summer Rupper, professore di geografia all'Università dello Utah, ha definito il record secolare della perdita di ghiaccio himalayano risultante dalla nuova ricerca "assolutamente critico". Il record aiuterà gli scienziati a sviluppare previsioni più accurate del cambiamento glaciale e dell'aumento del livello del mare nei prossimi decenni, ha detto. Il nuovo studio si distingue dagli sforzi precedenti a causa del "gran numero di ghiacciai con cui hanno fatto questo", ha aggiunto. Oltre alle inondazioni, l'aumento del livello del mare può causare l'erosione del suolo e mettere in pericolo l'integrità strutturale di strade e ponti, così come le centrali elettriche e altri impianti industriali di importanza critica situati nelle zone costiere. Negli Stati Uniti a partire dal 2014, quasi il 40% della popolazione vive in zone costiere che probabilmente saranno colpite da questi cambiamenti nei prossimi anni, secondo la National Oceanic and Atmospheric Administration. "C'è un sacco di parti diverse per l'aumento del livello del mare, ma i ghiacciai di montagna storicamente e probabilmente nei prossimi decenni sono stati i contributori più significativi", ha detto il dottor Rupper. L'impatto della perdita di ghiaccio nella regione dell'Himalaya potrebbe essere particolarmente forte. L'acqua di fusione dei ghiacciai della regione alimenta i principali fiumi che sostengono la vasta cintura agricola settentrionale dell'India. Come i ghiacciai continuano a ridursi, la disponibilità di acqua per l'irrigazione e l'acqua potabile potrebbe diminuire drasticamente, secondo i ricercatori. E le valanghe potrebbero diventare comuni, poiché la perdita di ghiaccio rende i pendii più instabili. "L'implicazione dei nostri risultati è che se la perdita di massa sta accelerando, allora aumenta solo l'importanza di essere in grado di mitigare questo sul terreno", ha detto il dottor Carrivick. Tra il 1994 e il 2017, la Terra ha perso abbastanza ghiaccio da coprire lo stato del Michigan con uno strato spesso 100 metri, secondo uno studio pubblicato a gennaio sulla rivista The Cryosphere. I ghiacciai di montagna dovrebbero scomparire completamente in alcune regioni entro il 2100, secondo alcuni studi recenti.

(ANSA-AFP il 2 dicembre 2021) - Il riscaldamento globale ha giocato solo un ruolo minimo nella carestia che ha colpito il Madagascar. Lo sostiene un nuovo studio della rete di scienziati World Weather Attribution, pubblicato oggi, che contraddice la tesi delle Nazioni Unite che descrivono la situazione in Madagascar come una "carestia del cambiamento climatico". "Sulla base delle osservazioni e dei modelli climatici, il verificarsi di scarse piogge osservate da luglio 2019 a giugno 2021 nel sud del Madagascar non è aumentato in modo significativo a causa dei cambiamenti climatici causati dall'uomo", ha affermato la rete di scienziati World Weather Attribution. Il Madagascar è stato colpito dalla peggiore siccità degli ultimi quattro decenni. A giugno il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha affermato che il Madagascar è "il primo paese al mondo che sta vivendo condizioni simili alla carestia a causa della crisi climatica". Ma i risultati del nuovo studio, pubblicato oggi dalla rete di scienziati World Weather Attribution (WWA), non supporta la teoria secondo cui la carestia del Madagascar è stata indotta dai cambiamenti climatici. Lo studio della WWA rileva che "la mancanza di pioggia nei 24 mesi da luglio 2019 a giugno 2021 è stata stimata come un evento di siccità che avviene 1 anno su 135, evento superato in gravità solo dalla devastante siccità del 1990-92". E poi sostiene: "Sulla base delle osservazioni e dei modelli climatici, il verificarsi di scarse piogge osservate da luglio 2019 a giugno 2021 nel sud del Madagascar non è aumentato in modo significativo a causa del cambiamento climatico causato dall'uomo". "Non sorprende. Questi risultati corrispondono a quelli di un rapporto pubblicato ad agosto dall'Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, che indicava che il riscaldamento globale non dovrebbe influenzare i livelli di siccità in Madagascar fino a quando non raggiunge i due gradi Celsius sopra il epoca preindustriale. Al momento l'aumento è di circa 1,1 C. I nostri risultati non sono sorprendenti, sono molto in linea con gli studi precedenti", ha dichiarato Friederike Otto dell'Environmental Change Institute dell'Università di Oxford. "Sono rimasto più sorpreso dal fatto che le Nazioni Unite lo definiscano chiaramente come il cambiamento climatico indotto", ha aggiunto, dicendo che "gli eventi estremi sono sempre una combinazione di cose". "È davvero importante non presumere automaticamente che ogni cosa brutta che sta accadendo sia dovuta al cambiamento climatico, non è vero". Il climatologo Robert Vautard, capo dell'Istituto francese Pierre-Simon Laplace e anche tra gli autori dello studio, è d'accordo. Nel caso del Madagascar "se c'è un'influenza del cambiamento climatico è minima", anche troppo piccola per essere rilevabile, ha detto.

Una passeggiata nella storia. La Groenlandia era una terra verde e poi si ghiacciò: spiegatelo a Greta.

Paolo Guzzanti su Il Riformista il 28 Novembre 2021. Questo è un primo articolo sulla cattiveria umana osservata dal punto di vista politico. Gli economisti si sono finalmente trovati abbastanza d’accordo sul fatto che far scomparire la povertà dalla Terra è, fra l’altro, un ottimo affare. Una di quelle cose che gli americani chiamano “Win-Win”, vinci tu che vinco anche io, vincono tutti. Per molto tempo la soluzione tentata era stata quella di far sparire materialmente i poveri, ma non ha mai funzionato per quanti forni e camini fumassero e fosse comuni si riempissero come le astanterie e le camere mortuarie. Ciò è promettente. Anche il fulminante presidente del Consiglio Draghi l’ha detto recentemente, da economista: «Far sparire la povertà è un eccellente affare perché stabilizza le società e attiva non solo le coscienze, ma anche i mercati». Ho citato più volte in passato il giovanissimo e tisico (morì a vent’anni) filosofo illuminista napoletano Gaetano Filangieri il quale premette su Benjamin Franklin affinché il nuovo grande Stato rivoluzionario – gli Stati Uniti d’America – adottassero fra i loro principi irrinunciabili il diritto a cercare ciascuno la propria dedicata dose di felicità, “The Pursuit of Happiness”, che non vuol dire il diritto alla felicità. Che non significa nulla, ma il diritto a cercare col proprio lanternino la propria piccola personale felicità. Sembra nulla, ma è tutto. Gli esseri umani come noi – Sapiens, non più clava ma bancomat – sono in giro da pochi minuti geologici: centomila anni. In questi centomila anni hanno prevalso gli impulsi e il tentativo di organizzarli in collettività oppure di predare i risultati degli impulsi altrui. Da pochi secondi appena, siamo su una strada nuova e si comincia a chiedere seriamente che cosa siano la cattiveria e la bontà, lasciando da parte Francesco che è sicuro che circoli Satanasso in persona che abbiamo sempre sognato di intervistare. Prima osservazione.

La cattiveria e la bontà umane vanno d’accordo con la meteorologia. La politica anche: ieri notte si è diffusa la catastrofica notizia di una nuova variante – che merita il nome di mutazione del maledetto Covid – ed è un’altra bestiaccia. Per cui di colpo è crollato il prezzo del petrolio grezzo nella previsione di un arresto planetario della produzione industriale e una serie di studi di mosse e contromosse per arginare popolazioni affamate, popolazioni terrorizzate e sempre alla ricerca di un capro espiatorio. Questa la parola chiave: capro espiatorio. Se qualcosa di male accade, di qualcun altro deve esserci una colpa. Idea: uccidiamolo fra atroci torture. morti viventi e i viventi che potrebbero morire, come accadde con la prima grande peste del XIV Secolo descritta da Giovanni Boccaccio che cambiò lo stato del mondo, del bene e del male, dell’economia, della poesia, della politica, della letteratura, del commercio, della grandezza dei fiumi.

Che cosa era successo? Una sciocchezza: era finito il mezzo millennio di surriscaldamento del pianeta che aveva liquefatto tutti i ghiacci e ghiacciai e iceberg, era tornato il freddo, anzi il gelo, il grano moriva, le bestie morivano e un terzo dell’umanità morì di fame e di peste che derivava dal non smaltibile accumulo di cadaveri e carogne in tutto il mondo. Avvenne quasi di colpo: con Dante, andava ancora bene. Con Boccaccio, arrivo del morbo, fine della già dimenticata felicità, la fine del paradiso terrestre del mondo caldo, caldissimo, molto più caldo di oggi, quando si coltivavano uve rarissime vicino al Polo Nord e le popolazioni dei ghiacci, come nel Trono di Spade, non trovandosi più davanti al naso muri di ghiaccio e orsi affamati, poterono finalmente scendere a vele spiegate sull’Islanda, la Groenlandia, e poi sulle isole inglesi in cui – come racconta drammaticamente Winston Churchill nel primo volume della sua Storia dei Popoli di Lingua Inglese, non rimase traccia di una sola parola di latino, fu spazzato via tutto ciò che era appartenuto all’antica preda del console Britannicus quando ancora “Britannia” non comandava sulle onde e sui popoli.

Era un mondo che moriva, e non c’erano i dinosauri. C’erano i cristiani, c’erano i musulmani, gli ebrei, i pagani e forme di società tribali sanguinarie. Cambiò la cattiveria, la distruttività, la capacità di progettare anche se i nuovi venuti dal nord furono chiamati Normanni e fecero castelli bellissimi e Federico II talmente s’appassionò al gioco di creare una lingua italiana artificiale e per poco non ci riuscì con un gruppo di poeti pazzi come Ciullo d’Alcamo.

Rischio: quello che i lettori, specialmente quelli con uno zainetto politico omologato da portare come una seconda parte di sé, potrebbero obiettare che qui si raccontano favole, per favore parliamo di cose serie. Basta partire da due date facili: dall’incoronazione di Carlo Magno nella notte di Natale dell’800, alla morte di Dante, visto che siamo di settecentenario, 1321. Mezzo migliaio di anni. Che accadde? Un caldo da far paura, altro che l’ultima estate. Dove correvano tutti quei pinguini? Come mai i vichinghi si erano piazzati nella lussureggiante Terra Verde, la Green Land o Groenlandia e facevano legna per le flotte con cui traversavano un braccio di mare abbastanza corto e si insediavano in Canada?

E poi, con Dante, come sanno gli scolari, vennero Petrarca e Boccaccio. Boccaccio ci interessa, per la peste. Lasciando da parte il Decamerone – un Netflix animato in una lontana cascina per proteggersi in quarantena contro la peste, e godersi gioie proibite – Boccaccio fu anche un eccellente cronista. Mi è capitato di leggere in inglese la relazione di Boccaccio sull’arrivo a Messina di navi provenienti dall’Oriente e che portavano con i topi e le pulci la peste nera che si abbatté rapidamente sull’umanità eliminandone un terzo e cambiandone per sempre tutti gli aspetti civili, religiosi, politici, letterari. La peste arrivò in seguito – non scriviamo “a causa” – di un evento climatico: la Terra, il nostro grazioso pianetino blu passato alla svelta dal caldo al freddo. Arrivò una piccola micidiale glaciazione. Le meravigliose terre ai confini del polo che davano i vini più dolci e la Groenlandia che era piena di paesini di pietra, chiese di pietra e grandi montoni che rifornivano di pelle tutta Europa, si congelò nell’orrore universale. Un papa finanziò una spedizione per andare a indagare perché i cari fratelli di Groenlandia non dessero più notizie: «Sono tutti morti congelati nelle loro case e chiese, con le bestie senza trovare la forza di saltare su una barca e tentare la fuga». «Preghiamo rispose il papa, affinché il maledetto ghiaccio liberi le nostre terre amate e i cristiani che le abitavano». Poi passano i secoli e compaiono titoli brutali: «Si sta fondendo il ghiaccio della Groenlandia e di tutte le terre che fanno da ponte fra America ed Europa: è un disastro». Alla piccola Greta, sempre più pop, cercando finché possono di tenerle nascosto l’evento.

Secondo punto. Compratevi se già non l’avete letto Il Capro espiatorio di René Girard, in Italia presso Adelphi, sul telefonino a sette euro, che è un testo sconvolgente in cui si radunano tutte le notizie, vere o fantastiche ma di numerosi autori fra loro ignoti che narrano come l’umanità fosse traumatizzata dalle epidemie che provocarono quarantene e lockdown talvolta ispirati alla segregazione razziale anche perché – come ti sbagli – a fare le spese della peste e del vaiolo, erano sempre gli ebrei accusati di avvelenare pozzi e fiumi con miscele torbide e putride e venefiche loro fornite da gruppi di cristiani loro complici. Molte delle notizie che oggi circolano sul grande complotto dietro il Covid sono del tutto simili, anche se oggi la parola “Ebrei” è stata parzialmente sostituita da “Multinazionali” che ne sono in parte l’up-grade. Ma non perdiamo di vista il filo conduttore: la temperatura. Secondo filo: la fragile e mostruosa capacità umana di dedicarsi alla distruzione dei suoi simili.

Detto di passaggio ma mica tanto, quando andai in Africa alle radici della nascita del mercato che trasferì in America milioni di africani venduti ai mercanti francesi, inglesi, spagnoli e olandesi, appresi che c’erano dei trafficanti portoghesi che acquistavano nell’Africa lusitana popoli interi di tribù prigioniere di re africani, i cui componenti sarebbero stati messi a morte secondo una cerimonia rituale. Lo stesso facevano i romani quando trascinavano intere popolazioni sotto di loro. Archi di trionfo per poi rifornire i denti del parco belve del Colosseo o risolvere il problema dell’illuminazione notturna delle strade consolari con torce umane impiastrate di grasso e dunque di lunga durata. L’uso del fuoco per uccidere con lentezza da bagnacauda, era estremamente popolare ed ammirato: il cronista che descrisse l’agonia di Giordano Bruno tra le fascine di Campo de’ Fiori scrisse che “il corpo era grasso ed ardeva allegramente”. Quando Thomas More, il celebrato Tommaso Moro amico di Erasmo da Rotterdam che per lui scrisse l’Encomion Moriai, maltradotto come “Elogio della pazzia” mentre si trattava di gioco di parole per alludere all’elogio di Moro (“Moriae”), bene: lo stesso Thomas, ancora al solerte servizio del suo re Enrico VIII prima che quello si incaponisse con Anna Bolena, provvedeva personalmente a caricare di legna i cestoni di ferro in cui venivano cotti gli eretici i quali si vedevano negare o favorire una morte più veloce implorando: “Più legna, sir Thomas, più legna, in nome di Dio, stiamo soffrendo troppo”.

Tornando in America, il cerino in mano di nazione schiavista è rimasto agli Stati Uniti che, in quanto nazione libera, non acquistò più schiavi ai mercati arabi e africani (salvo alcune imprese di pirateria di sottocosta) mentre le nazioni che introdussero e alimentarono fino alla fine lo schiavismo in America furono prima di tutto i portoghesi, poi gli spagnoli, poi a pari merito francesi e inglesi. Le tredici colonie americane avevano una dotazione di personale servile (schiavi) per usi agricoli che i land-owner di Dixieland (i futuri Stati Confederati della guerra civile americana) erano convinti di trattare con eccellente welfare. visto che davano loro tetto, lavoro, cibo, medicine e – negli Stati più avanzati – l’accesso ad alcune chiese cristiane – ancora oggi a prevalenza nera come gli Episcopali – con tutela delle unità familiari e la protezione delle donne dal diritto padronale di stupro.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Una passeggiata nella storia. Quello che Greta Thunberg non vuole farvi sapere: la terra era calda, col freddo arrivò la peste. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Nel precedente articolo ho ricordato ciò che è scritto su tutti i libri di storia ma che si finge non sia mai accaduto: per mezzo millennio, fra Carlo Magno e Dante il pianeta terra si riscaldò molto di più di quanto sia bollente oggi e prosperò in uno dei periodi più fecondi e di maggior progresso. Questa storia è interessante sia perché ci riguarda da un punto di vista cronologico, sia perché è anche la storia di una verità coperta. Se si fa credere oggi che il buon pianeta terra si sia arroventato per colpa dei bipedi umani che soffiano anidride carbonica come neanche i vulcani sanno fare e che per colpa loro stiamo andando incontro la più grande catastrofe della storia planetaria, si deve omettere per forza l’approfondimento su ciò che con pudore viene chiamata l’ “anomalia del medioevo”, una curiosa bizzarria di cui sarebbe meglio non parlare altrimenti Greta si arrabbierebbe.

La bizzarria non era affatto tale visto che è soltanto quella più recente e non risale ai tempi dei dinosauri ma dell’Europa più o meno come la conosciamo oggi. Ho già ricordato che la Groenlandia era la Green Land ovvero la terra verde coperta dalle foreste con cui si costruivano le navi vichinghe dirette in Canada e che tutti i suoi abitanti cristiani erano crepati di freddo, ancora visibile attraverso le lastre di ghiaccio di quella terra. Ma se aprite i giornali scoprirete che spurgano urla di dolore perché, orrore degli orrori, in Groenlandia si stanno scongelando i ghiacciai. Non si scongelano soltanto i ghiacciai della Groenlandia ma anche quelli del circolo polare, tant’è che tutte le nazioni interessate ai minerali si sono catapultate sui mari che erano coperti di ghiaccio e si minacciano fra loro con navi armate e diplomazie minacciose. Ma la cosa forse più interessante e istruttiva per noi non è che cosa accadde durante il mezzo millennio di caldo quasi tropicale, ma ciò che successe quando il caldo finì. Le masse dei poveri a quell’epoca si nutrivano soltanto di pane, o comunque cibo fatto con dei cereali che non erano esattamente come i nostri che si potevano coltivare durante il caldo quasi ovunque sfamando milioni di persone. Poi arrivò una prima estate con piogge e grandine anche a giugno e a luglio, mentre ad agosto sembrava già Natale. E allora accadde che i grani non maturarono e marcirono e le strade si riempirono di morti perché a quell’epoca si moriva di fame per strada.

Nell’indifferenza generale, il freddo portò la peste e la peste distrusse quasi un terzo dell’umanità arrivando per nave a Messina coi corpi dei marinai, dei topi e delle pulci e provocando delle reazioni spropositate di cui non abbiamo memoria diretta. Si può leggere il famoso saggio di René Girard Il capro espiatorio per avere un’idea delle reazioni di allora per farne un modesto paragone con le reazioni di oggi. Gli esseri umani sono sempre stati abituati a cercare chi perseguitare come responsabile di ciò che accade. infastidendolo e anche uccidendolo. In genere a fare da capro espiatorio bastavano gli ebrei che erano stati accusati anche in quella occasione di avere avvelenato fiumi e pozzi e pagarono questo inesistente delitto con soppressioni di massa e omicidi rituali, nel consenso pressoché unanime di tutti i persecutori e senza che questi eventi lasciassero alcuna traccia etica nella storia ma soltanto dei verbali di tribunale tuttora esistenti, rintracciabili e leggibili. La peste provocò un rilancio della caccia alle streghe e nei processi in cui le donne venivano condannate ad ardere vive in mezzo alla piazza nessuno dubitava, neppure le condannate pienamente confessa, dell’esistenza della stregoneria, dei sabba col demonio con cui le imputate confessavano di avere sempre avuto rapporti carnali benché in una dimensione da sogno, e tutti trovavano ciò perfettamente normale.

La normalità del male era granitica, senza scalfiture né dubbi. Cosa che a noi oggi riesce difficile da comprendere ma soltanto perché abbiamo rivisto qualcosa di simile con la shoah, un evento in cui sei milioni di ebrei sono stati liquidati perché si erano accoppiati sia col demonio del capitalismo che con quello della rivoluzione sovietica, e comunque qualcuno doveva pur pagare per la incomprensibile sconfitta della Germania alla fine della Prima guerra mondiale, quando i tedeschi stavano vincendo e di colpo furono costretti ad arrendersi. La politica i politici non hanno tempo da perdere per leggere libri e studiare la storia. E questo è grave. Ma ciò che accade oggi col Covid e con le furiose consorterie che si creano, le leggende torbide, gli auguri di morte, le maledizioni e le urla, l’uragano di insulti e di escrementi che passa attraverso internet e i social, sono la dimostrazione evidente ed eloquente del fatto che l’essere umano contiene al proprio interno non soltanto un vago orientamento sul bene e il male ma anche una scatola nerissima che lo porta ad agire nelle direzioni che noi consideriamo irrazionali o come si dice ormai frequentemente di pancia, per cui far prevalere il buon senso scientifico, la logica, la statistica, la realtà nel suo complesso, è praticamente impossibile.

Ciò che prevale è ormai la narrazione, traduzione dall’inglese the narrative, che vuol dire appunto la prevalenza del racconto fantastico sul resoconto autentico di come stanno le cose. Il Trecento, inteso come l’enigmatico quattordicesimo secolo, fu spaccato fra il pensiero dantesco che si occupava delle donne che hanno intelletto d’amore, e quello del Boccaccio cronista della peste. Ma non ci fu soltanto la peste. Ci furono stragi reattive ovunque, una depressione crescente e una serie di riti che sostanzialmente miravano tutti alla caccia del colpevole, il quale non era colpevole di nulla e per questo veniva chiamato il capro espiatorio, la vittima sacrificale che paga per la collettività e che con il suo sangue, ecce “agnus dei qui tollis peccata mundi”, riscatta dal male e apre le porte del paradiso ovvero quelle della vita.

Passate le ondate di peste il mondo si raffreddò raggiungendo le soglie di una piccola glaciazione che spazzò via ogni germoglio di cereale sui terrazzamenti le, le colline, le montagne. Terminata la peste, constatate le perdite, guardato il termometro che ancora non esisteva ma si riconosceva nella ridottissima produzione dei frutti, i superstiti si riorganizzarono, fecero tesoro del fatto che la strage aveva lasciato ai superstiti molto posto e molte risorse, e il mondo ripartì.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La storia nascosta. Influenza spagnola, storia della grande pandemia del ‘900 che fu rimossa e censurata. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Quello che successe 1918 e il 1920 con la furia della febbre cosiddetta spagnola che uccise più del doppio dei morti nelle due guerre mondiali, è stato completamente rimosso e dimenticato. Anche perché quando quella febbre arrivò addosso ai soldati americani che si erano infettati nei campi di addestramento del Kentucky prima di salire sulle navi che li avrebbero sbarcati in Francia per combattere a fianco degli inglesi e dei francesi il nemico tedesco, i comandi militari di tutte le nazioni in guerra furono d’accordo nel decidere che le notizie sulla epidemia non dovessero essere date in pasto alla stampa e l’opinione pubblica e fu così che essendo la Spagna uno dei pochi paesi fuori dal conflitto, chi per caso lesse i giornali spagnoli apprese da quelli che nella penisola iberica infuriava un morbo sconosciuto dal resto del mondo appunto era esattamente il contrario: il resto del mondo aveva il morbo e il morbo aveva infettato anche la Spagna prima di devastare l’Africa, l’Asia, l’Australia e poi tornare rinvigorito nel Sud America e finalmente negli Stati Uniti da cui aveva avuto origine.

Le notizie su quella peste di un secolo fa furono vietate con la censura militare in tutti i paesi che avevano combattuto da una parte o dall’altra la grande guerra anche dopo la fine della guerra. Mentre erano in corso le faticose trattative di Versailles la peste colpì anche il presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson che nel 1919 si era trasferito a Parigi. Wilson aveva portato in Europa la sua utopistica idea di assicurare a ogni etnia una patria e una bandiera, cosa che provocò reazioni violente e truculente, rivolte, rivoluzioni, massacri, pogrom, colpi di Stato nei paesi che, come l’Italia, erano entrati in guerra soltanto per ottenere vantaggi territoriali, asfaltando la strada di Mussolini e di Hitler per ragioni inverse e coincidenti. Il presidente americano si ammalò gravemente di febbre spagnola, che gli provocò un ictus e un’ischemia per cui al risveglio dopo una incerta guarigione si ritrovò orribilmente diverso.

Lo racconta l’economista Keynes che faceva parte della delegazione inglese alle trattative di Parigi e che fuggì scandalizzato scrivendo in un libro la facile previsione: l’intervento di Wilson a sostegno del primo ministro francese Clemenceau che voleva lo smembramento dei popoli di lingua tedesca caricati di un debito insostenibile che conteneva anche il costo delle pensioni militari del Regno Unito oltre al mantenimento del distaccamento militare francese che occupava mezza Germania in cui si moriva letteralmente di fame per strada come accadde col raffreddamento anomalo del XIV Secolo, avrebbe certamente portato a una nuova guerra. Quello dell’epidemia e della follia di Wilson e delle reazioni popolari fu un caso non casuale, utile per dare un’idea di come le epidemie possano determinare gli eventi umani. L’assetto del mondo così come ci appare sotto gli occhi oggi è pervaso da una sua interna complessità che pochi sembrano in grado di volere affrontare, chiarire appunto, prima che una nuova catastrofe pandemica e bellica si abbatta sull’umanità del nostro secolo. Quel che sta accadendo alle frontiere bielorusse e polacche e in Lituania da una parte e il forte rialzo delle corde vocali dei colloqui via Internet tra Putin e Biden promette guerra. L’atteggiamento giustamente inflessibile ma altrettanto rischioso dell’Unione Europea anche. Le parole del presidente cinese non sono da meno, così come quelle del governo di Canberra. Così come quelle del governo di Tokyo. Così quelle del governo indonesiano. I venti di guerra hanno soffiato tante volte nel corso degli ultimi ottanta anni ma poi si sono spenti senza che il fuoco si accendesse. Negli anni Ottanta si dava per scontata la guerra fra Unione Sovietica e Cina comunista lungo la frontiera del fiume Ussuri che poi non ci fu. Ma altre cento piccole e medie guerre hanno corroso la pace e la percezione della differenza fra pace e guerra. Nessuno è in grado di dire come andranno le cose, ma nessuno sarà neppure in grado di dire come si svilupperanno sentimenti e risentimenti e quali “capri espiatori” verranno chiamati sull’altare del coltello e del fuoco.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Attenti al "Dio verde" che sacrifica gli umani. Camillo Langone l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Giulio Meotti mette in luce tutti i pericoli di un ecologismo che si trasforma in fanatismo. Il titolo indica perfettamente il bersaglio: Il dio verde ossia l'ambientalismo come nuova religione. Non il fenomeno, la moda, la tendenza, no, e nemmeno la filosofia, proprio la nuova religione dell'Occidente fatiscente che va a sostituire il cristianesimo il cui spegnimento è stato accelerato dalla pandemia: chiese chiuse o socchiuse, fede invisibile, clero silenzioso, vescovi proni ai virologi in un contesto di resa senza condizioni al secolo e alla cosiddetta scienza (la scienza ondivaga e strumentale dei comitati governativi). Giulio Meotti è il massimo specialista italiano di deculturazione, una brutta parola per dire qualcosa di ancora più brutto, il collasso di una cultura sotto la spinta di modelli culturali alieni. In questo filone inevitabilmente apocalittico il giornalista del Foglio, toscano di Arezzo, non teme rivali e ogni suo pamphlet è una miniera di informazioni, tanto preziose quanto tormentose. Io per esempio non sapevo, o forse avevo accuratamente rimosso, che nel 2017 la Pontificia Accademia delle Scienze invitò a parlare in Vaticano addirittura Paul Ehrlich, professore a Stanford e teorizzatore, in nome della salvaguardia dell'ambiente, di pratiche quali aborto forzato e sterilizzazione di massa. Uno scienziato pazzo? Direi piuttosto un sacerdote del dio verde, accolto con tutti gli onori da coloro che sono, o che furono, sacerdoti del Dio-Uomo. Dal punto di vista della Chiesa cattolica lo spazio concesso a Ehrlich è un notevole esempio di masochistica deculturazione. È così che un magistero si inabissa. È così che i pulpiti si rovesciano. È così che oggi i rapporti dell'Onu sull'ambiente vengono considerati dai media «totalmente infallibili come un tempo la parola dei papi». Meotti, meritoriamente pubblicato da una piccola casa editrice che ha la libertà fin dentro il nome (Liberilibri), mostra il lato politico, teocratico-illiberale, della religione ambientale: «Nessun Paese industrializzato raggiungerà mai gli obiettivi posti dai missionari verdi senza sottoporsi a una forma di socialismo». Ne svela lo spietato meccanismo: «Seminare il panico. Generare la paura. Atterrire. Sconvolgere. Angosciare. Numeri a sei cifre. Fine del mondo entro vent'anni. È questo che serve per mettere una tassa su tutto: una tassa per entrare nelle grandi città, una tassa sull'acqua, una tassa sui rifiuti, una tassa sugli hamburger, sulle sigarette...». Non si poteva dire meglio: l'ambientalismo significa tasse, povertà, multe, proibizioni. Ogni volta che su un cibo, un'auto, un servizio spunta la fasulla parola green ecco che quel cibo, quell'auto, quel servizio viene a costare di più. Ogni volta che Greta Thunberg parla la benzina aumenta e il nostro potere d'acquisto diminuisce. E insieme al nostro portafoglio evapora il potere della nostra nazione importatrice di energia, obbligata a inchinarsi ai Paesi produttori, a svenarsi per riscaldarsi e muoversi perché il dio verde non vuole le centrali nucleari, non vuole gli inceneritori, non vuole le piattaforme metanifere in Adriatico: vuole farci battere i denti mentre ci battiamo il petto per accusarci dei nostri peccati ambientali. Non c'è nemmeno da sperare nell'assoluzione: mentre il Dio celeste perdonava sempre, al termine della confessione, chi si dichiarava pentito, questo dio molto terrestre (l'ambientalismo è una forma di panteismo) non intende darci requie. Come scrive Meotti «se la CO2 è il problema, sapendo che non c'è gesto umano che non la produca allora è l'intera azione umana che deve essere contenuta tramite razionamento, divieti e sanzioni». Per me Dante non è un anniversario, è una sapienza, dunque credo che se un dio non è Dio appartiene al novero degli «dèi falsi e bugiardi» (Inferno, canto primo). Ma se a credere nel dio verde sono decine di milioni di italiani, centinaia di milioni di europei, dov'è che posso nascondermi? La salatissima bolletta ambientalista sono costretto a pagarla anch'io, maledizione. Da anni Meotti è un infaticabile traduttore e intervistatore di liberi pensatori, specie francesi e statunitensi. Leggendo i suoi articoli e i suoi libri ho appreso l'esistenza di una internazionale anticonformista che se aspettavo la grande editoria italiana avrei continuato a ignorare per il resto dei miei giorni. Stavolta gli sono grato per avermi fatto conoscere il meteorologo Richard Lindzen, uno scienziato con carriera nel Mit di Boston, non un opinionista televisivo. Ebbene, Lindzen si è sempre scagliato contro l'allarmismo climatico segnalandone l'esito statalista e oppressivo: «Il controllo del carbonio è il sogno dei burocrati. Se controlli il carbonio, controlli la vita». A questo punto mi ritorna in mente Ezra Pound, secondo il quale è difficile scrivere di un paradiso quando tutte le informazioni che ci giungono fanno pensare a un'apocalisse. Pertanto Meotti, che di mestiere raccoglie informazioni e le gira ai suoi lettori, non può che concludere il libro con queste righe terribili: «Dio non è morto, Dio è diventato verde e in sacrificio chiede la morte dell'Occidente». Se volete un finale diverso, uccidete il dio verde. Camillo Langone

La svolta dei "green jobs": il futuro del lavoro nell'era della transizione energetica. Andrea Muratore il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. La svolta dei "green jobs": il futuro del lavoro nell'era della transizione energetica passa per una nuova serie di posizioni ad alta richiesta di competenze. La transizione energetica si preannuncia destinata ad essere un fenomeno di profonda ristrutturazione delle economie occidentali e ad impattare profondamente su settori che saranno destinati a essere modificati dalla nuova commistione tra cambiamento nelle fonti energetiche e nuova digitalizzazione dei processi produttivi e dei servizi. Logico, di conseguenza, pensare che questo creerà delle grandi conseguenze sul mondo del lavoro. Nella letteratura anglosassone da diversi anni si parla dei green jobs, letteralmente i "lavori verdi". Definizione che può apparire a un primo tratto forzata, ma che è entrata nel gergo giornalistico e imprenditoriale per definire la macro-categoria delle professioni destinate ad essere create o ristrutturate dai processi di transizione energetica. Includendo, dunque, anche quelle dei nuovi mercati che la sostenibilità schiuderà. Per dare un'idea della portata del cambiamento in arrivo, il solo settore delle energie rinnovabili, secondo le previsioni del Global Renewables Outlook 2020 di IRENA (International Renewable Energy Agency), potrebbe produrre ben 42 milioni di posti di lavoro entro il 2050, quattro volte quelli di oggi. Del resto, il progresso è esponenziale in una fase che ha visto nel mondo salire il solo fotovoltaico installato da 25 GW a 660 GW tra il 2010 e il 2020, il prezzo della generazione nel settore calare dell'81% e quello da eolico del 46%. Ad oggi, nei soli Stati Uniti, per esempio, ci sono già 2,7 milioni di posti di lavoro nell'energia pulita, un motore per la creazione di posti di lavoro: per ogni milione di dollari investito nella transizione energetica negli States, si generano infatti mediamente 16,7 posti di lavoro green, oltre tre volte i 5,3 posti di lavoro per milione di dollari creati dalle tradizionali industrie dei combustibili fossili. Il campo più ampio dei lavori legati al nuovo mondo della sostenibilità sarà di dimensioni ancora maggiori. Tanto da dover portare, in futuro, a capire quali debbano essere i confini del suo perimetro. Può essere definito green job sia la posizione di mobility manager di un'azienda di trasporti, ma anche quella di un ingegnere che progetta materiali ecosostenibili per l'edilizia. Può esserlo il meccanico che sceglie di diventare "meccatronico" come il tecnico esperto di gestione e installazione di reti sostenibili. Vi saranno posizioni legate all'agricoltura di prossimità, alla cucina sostenibile, all'agroalimentare "circolare". Ma molti lavori saranno legati alla digitalizzazione e all'alta tecnologia: dalle professioni nel settore del design e della produzione di veicoli efficienti, dallo sviluppo di nuovi sistemi di trasporto basati sulla digitalizzazione, come lo sharing di auto e bici, alla definizione degli impianti di economia circolare. La società della transizione energetica sarà una società ad alta domanda di competenze. Come scrive Wise Society, infatti, "i green jobs in Italia sono caratterizzati da un più elevato livello dei titoli di studio richiesti: in un caso su tre (35,2%) si richiede un livello d’istruzione universitario; una bella differenza rispetto alle altre figure professionali (9,8%). Dai “professionisti verdi” le imprese si aspettano non solo formazione più elevata, ma anche una esperienza specifica nella professione", ma sono pronte a garantire maggiore stabilità contrattuale: "le assunzioni a tempo indeterminato, infatti, superano il 49,2% nel caso dei green jobs, quando nel resto delle altre figure tale quota scende a 25,7%". Al 2018, secondo il report della Fondazione Symbola sulla green economy, i settori legati alla sostenibilità occupavano circa il 13% della forza lavoro, impiegando tre milioni e 100mila persone circa. Settore cardine sarà l'economia circolare, eccellenza nascosta del sistema-Paese, che supera i 500mila addetti. Ma le prospettive di crescita sono ampie ovunque. E questo porrà, di converso, un secondo problema: evitare che a perdersi siano i posti di lavoro tradizionali, dei settori avviati alla dismissione o degli impiegati colpiti dal mix tra nuovi paradigmi energetici e digitalizzazione. I green jobs creeranno veramente sviluppo occupazionale solo se imprese, istituzioni, scuole investiranno risorse ed energie sulla promozione e lo sviluppo di competenze, sul re-skilling e il rafforzamento generale del sistema, senza lasciare indietro nessuno. Anche questo significa fare vero sviluppo sostenibile.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione. 

Economia circolare, quel settore "nascosto" in cui l'Italia è leader. Andrea Muratore il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. L'Italia è leader in Europa nell'economia circolare. E ci sono ancora grandi margini di miglioramento possibili. Ridurre, riusare, riciclare: le tre "R" dell'economia circolare sono spesso citate come una vaga prospettiva, un impegno ideale, una guida di "buone maniere" per i singoli cittadini piuttosto che uno scenario di concreta applicazione industriale. E invece rappresentano la base di partenza per analizzare un settore in cui, silenziosamente, l'Italia è leader. Su scala globale il Circularity Gap Report 2021 del Circle Economy – che misura la circolarità dell’economia mondiale – ha fatto presente raddoppiando l’attuale tasso di circolarità dall’8,6% (dato 2019) al 17%, si possono ridurre i consumi dei materiali dalle attuali 100 a 79 gigatonnellate e tagliare le emissioni globali di gas serra del 39% l’anno. Un obiettivo ambizioso, in vista del quale l'Italia si sta attrezzando. Il Rapporto nazionale sull’economia circolare in Italia 2021 realizzato per il terzo anno consecutivo dal Circular Economy Network (Cen), la rete promossa dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile lo conferma: parametri analizzati oggettivamente dal network di associazioni coordinate dal Cen in collaborazione con l’Enea (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) danno al nostro Paese la medaglia d'oro dell'economia circolare tra le economie europee di punta. La Commissione europea, nel recente secondo Piano d’azione per l’economia circolare, ha sottolinea come con un modello lineare di economia, basato su un alto consumo di risorse e di energia, non sia possibile raggiungere la neutralità climatica e che l'economia circolare rappresenti un fattore strategico per ottenere un'accelerazione del processo di svolta verso un vero sviluppo sostenibile. In particolare, i Paesi devono riuscire a ottenere una quota di produzione maggiormente orientata all'utilizzo di materie prime rigenerative, conseguire la diminuizione della quantità di materiale usato nella realizzazione di un prodotto o nella fornitura di un servizio attraverso il design circolare, promuoverne il riutilizzo laddove possibile e combattere l'obsolescenza dei beni allungandone la vita utile. Il rapporto realizzato dal Cen e dai suoi partner ha valutato su questi punti la performance delle cinque maggiori economie europee, garantendo all'Italia il primo posto con 79 punti davanti a Francia (68), Germania, Spagna (65 punti entrambe) e Polonia (54). Da sola la nostra nazione dà all'Ue a 27 Paesi un contributo significativo nel quadro della generazione di posti di lavoro nei settori dell'economia circolare: le persone occupate nei settori dell’economia circolare sono circa 3,5 milioni e con 519.000 occupati, riporta il report, l’Italia si è attestata al secondo posto dopo la Germania (680.000 occupati). Insieme i due Paesi assommano quasi un terzo dell'occupazione nel settore. Nel settore critico del riciclo dei rifiuti urbani nel 2019, secondo i dati Ispra, con un risultato del 46,9% l'Italia linea era sempre al secondo posto dopo la Germania, ma nel campo del riciclo di tutti i rifiuti il risultato saliva al 68%, staccando nettamente la media europea (57%). Berlino, invece, è ben lontana dal raggiungere il risultato italiano in materia di utilizzo circolare di matera, con il 12,2% contro il 19,3% del nostro Paese, che è nell'ordine di grandezza della Francia (20,1%) ed ha davanti significativamente solo Paesi Bassi (28,5%) e Belgio (24%), arrivando ben oltre la media Ue (11,9%). Inoltre, il nostro Paese ha riciclato il 73% degli imballaggi che usa, mentre solo per il 2025 l’Europa ha fissato il target del riciclo del 65%. Secondo un altro rapporto, di Circoeconomia, si evidenzia quanto il Nord Italia sia in questo contesto un'eccellenza mondiale. Come riporta La Stampa, tra "le diverse Regioni, spicca il Piemonte: tendenzialmente ricalca l’andamento dell’insieme delle Regioni del Nord ma nei 17 indicatori considerati si colloca al secondo posto nel ranking globale, subito dopo l’Olanda". Ermete Realacci, Presidente di Fondazione Symbola e Carlo Montalbetti, Direttore Generale di Comieco, hanno invece sottolineato che l'economia circolare consente all'Italia di risparmiare ogni anno 23 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e l’emissione di 63 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Il Recovery Fund può dare un'altra spinta in tal senso al rafforzamento settoriale dell'Italia. E le proiezioni che il Ministero della Transizione Ecologica ha fatto nel suo rapporto sull'economia circolare pubblicato il 30 settembre scorso sono ambiziose: si prevede di rafforzare la capacità d'azione del sistema-Paese nella circolarità dell'elettronica, della plastica, della gestione dei settori idrici e, soprattutto, dell'edilizia. E, come ricorda il principale quotidiano italiano di settore, c'è spazio anche per rafforzare la capacità di recupero e riutilizzo dei veicoli rottamati, che l'Europa chiede di riciclare all'85%. Insomma, le prospettive non mancano, ma per l'Italia il bicchiere è ben più che mezzo pieno. Assieme all'ambito delle rinnovabili, delle reti energetiche e delle infrastrutture di frontiera, quella dell'economia circolare è una corsa in cui l'Italia può giocare, senza dubbio, da grande potenza. Creando valore aggiunto all'economia e dividendi ambientali positivi.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è

I "grandi" immersi nella "grande bellezza". Lorenzo Vita il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Roma appare la scenografia perfetta di un summit in cui tutti sembrano svestire i panni di leader per essere turisti tra le strade della capitale. E la cancel culture sparisce di fronte alla Bellezza. Il lancio della monetina nella Fontana di Trevi segna una delle tappe finali del G20 di Roma. Un vertice che ha l'ambizione di dare un futuro migliore al mondo, ma che per farlo sembra ripartire dal passato, da quel flusso eterno che ha nella capitale tra i suoi simboli migliori e noti. Un punto di partenza o forse una lezione viva e a cielo aperto che i leader del mondo sembrano apprezzare. Immersi nella storia e nella "grande bellezza", come un set cinematografico che riporta Roma a essere città universale, i capi di Stato e di governo girano tra incontri e passeggiate solitarie come turisti affascinati dalla capitale prima ancora che leader con gli occhi del mondo puntati addosso. L'etichetta cede il passo ai gusti, l'importanza dell'incontro arretra di fronte a quello che sembra il vero protagonista del G20: il luogo. Boris Johnson visita privatamente al Colosseo e all'alba di oggi i Fori Imperiali. Jair Bolsonaro si concede passeggiate tra San Pietro e Castel Sant'Angelo. Angela Merkel, che si appresta a lasciare il trono di Berlino a Olaf Scholz, guarda con meraviglia quella fontana dove ha appena lanciato la monetina e tocca l'acqua con le mani come una turista qualsiasi: non una cancelliera, ma una turista come tante che si aggira per le vie di Roma. Narendra Modi e Joe Biden "passano il ponte" e incontrano Francesco, ma con quel senso di visita più personale che pubblica, è Biden il cattolico più che Biden il presidente a voler incontrare Sua Santità. E nella notte da "Doce Vita", Emmanuel Macron e consorte, come Johnson e Charles Michel, scelgono di camminare di notte per le vie di Roma, tra ristoranti tradizionali e passeggiate che qualcuno azzarda anche "romantiche". Se l'immagine tradisce un messaggio, allora forse quello che traspare da questo incontro romano è che ad attrarre i leader del mondo resta sempre l'eterno e il bello. Turisti prima di essere leader, si aggirano per Roma come osservatori che si godono un "Grand tour", pensando davvero di essere nella scenografia di un film e non in un summit che potrebbe decidere questioni fondamentali della società di oggi. Invece la capitale, che tutto assorbe, tutto abbraccia e tutto riesce a sedimentare, sembra quasi scansare questioni momentanee di fronte all'eterno. Tutto passa in secondo piano. Anche i problemi. Forse è solo un'inquietante e per certi versi divertente impressione: ma Roma sembra il set ideale per incontri in cui non si deve e non si può litigare. Oziosa e "cinematografica", la città eterna accoglie gli ennesimi leader della sua storia come accoglieva nobiluomini per il Grand Tour. Mostra la sua parte migliore, annichilisce chiunque pensi di poter contare più di imperatori e Papi, copre quel senso di caos e disordine che la quotidianità fa dire a tanti romani che qualsiasi altra città sarebbe migliore. Un sedativo potente di fronte a un mondo in ebollizione: un divano per mettersi comodi mentre intorno va in scena il disastro. Un film che piace ai turisti: il tipico film che racconta una Roma che non esiste se non nei cuori e nei sogni di tutti, quasi che i romani siano veramente assorti tra le rovine e le chiese e non tra lavoro, traffico e disordine. Eppure, nel rischio di vedere questi leader come tanti "Nerone" che suonano la cetra mentre la città brucia (falso storico che però ormai è diventato icona), un sorriso ce lo strappa proprio questa Roma. Funestati da mode passeggere, influencer, grida scandalizzate per revisionismi e "cancel culture", il mondo si rasserena. C'è qualcosa di più importante, è fuori e prima di tutti. E torniamo tutti a sentirci "nani sulle spalle di giganti". Oppure semplicemente turisti di passaggio in chi ha già visto e assistito a tutto. 

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta tra cuore e testa. Ho scritto un libro: "L'onda turca"

Draghi, Italia triplica impegno per clima a 1,4 mld l'anno. (ANSA il 31 ottobre 2021) - "Per i prossimi 5 anni", annuncia il premier al G20. "Sono lieto di annunciare che l'Italia triplicherà l'impegno finanziario a 1,4 miliardi l'anno per i prossimi 5 anni" per il fondo green sul clima, ha detto Draghi chiudendo il G20. 

G20: mille miliardi di alberi piantati entro il 2030 (ANSA il 31 ottobre 2021) - "Riconoscendo l'urgenza di combattere il degrado del suolo e creare nuovi vasche di assorbimento del carbonio, condividiamo l'obiettivo ambizioso di piantare collettivamente 1.000 miliardi di alberi, concentrandoci sugli ecosistemi più degradati del pianeta". Lo si legge nella dichiarazione finale del vertice del G20 di Roma. "Sollecitiamo gli altri Paesi a unire le forze con il G20 per raggiungere questo obiettivo globale entro il 2030, anche attraverso progetti per il clima, con il coinvolgimento del settore privato e della società civile", si legge ancora. (ANSA). 

Draghi, G20 per la prima volta si impegna sui 1,5 gradi (ANSA) -  "Sul clima per la prima volta i Paesi G20 si sono impegnati a mantenere a portata di mano l'obiettivo di contenere il surriscaldamento sotto i 1,5 gradi con azioni immediate e impegni a medio termine. Anche sul carbone i finanziamenti pubblici non andranno oltre la fine di quest'anno". Lo detto il premier Mario Draghi in conferenza stampa al termine del G20.

G20: Johnson, Draghi ha fatto un lavoro superbo sul clima 

(ANSA il 31 ottobre 2021) "Mario ha fatto un lavoro superbo" al G20 di Roma nel "mantenere il focus" sul clima. Lo ha detto il primo ministro britannico Boris Johnson rispondendo a domande in conferenza stampa a conclusione del G20. Johnson ha quindi sottolineato di voler rivolgere un ringraziamento diretto alla presidenza italiana del G20 in vista della Cop26.

Il secondo giorno di vertice a Roma. Al G20 la global minimum tax c’è, l’intesa sul clima no: il 2050 diventa un vago "metà secolo". Riccardo Annibali su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Il G20 di Roma è cominciato all’insegna di persone, pianeta e prosperità, i tre maggiori focus dell’agenda italiana. Il summit dei Venti alla Nuvola di Fuksas all’Eur si è aperto dopo che il premier Mario Draghi ha accolto tutti i capi di Stato. TAVOLO IRAN – Incontro tra Joe Biden e i partner europei Boris Johnson, Angela Merkel (insieme al suo successore Olaf Scholz) ed Emmanuel Macron sull’Iran, a margine del G20 a Roma. Prima della riunione, a un cronista che chiedeva a Biden se volesse che i negoziati con l’Iran sul nucleare riprendessero, riporta l’emittente statunitense Cnn, il presidente Usa ha risposto: “Così è previsto”. L’incontro, ha già fatto sapere una fonte della Casa Bianca, è interlocutorio. Servirà ad allineare le posizione sulla ripresa dei colloqui con Teheran. LE DONNE IMPRENDITRICI – L’Italia ha posto l’empowerment femminile al centro della sua presidenza del G20. “Non ci può essere una ripresa rapida, equa e sostenibile se ci dimentichiamo di metà del mondo” ha detto Draghi all’apertura della sessione pomeridiana su ‘Sostenere le imprese femminili per costruire un futuro migliore’ con la regina Maxima dei Paesi Bassi. “Serve una crescita più equa e sostenibile”, ha detto nel suo intervento in cui ha indicato tre piani d’azione per aiutare le donne imprenditrici: digitalizzazione; investimenti su capacità e competenze; e accesso ai finanziamenti.

POST SOFAGATE – Si è tenuto il bilaterale a margine del G20 tra la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. I due leader si incontrano per la prima volta dopo lo scandalo diplomatico ad Ankara, quando il premier turco ha relegato la presidente Von der Leyen su un divano, e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, su una sedia accanto a sé.

CLIMA – L’ultima versione della bozza delle conclusioni del G20 testimonia la difficoltà di trovare un compromesso tra l’Occidente e le potenze asiatiche sul taglio delle emissioni e sulla lotta al cambiamento climatico. Cina e India si rifiutano di impegnarsi ad azzerare le emissioni di gas serra, sostenendo che le loro economie, e molti altri Paesi in via di sviluppo, pagherebbero un prezzo troppo alto da una stretta sui combustibili fossili. La nuova bozza, rispetto alla prima versione anticipata da Reuters, elimina i riferimenti alle “azioni immediate” necessarie a limitare l’incremento della temperatura globale a 1,5 gradi centigradi, come previsto dagli accordi di Parigi, e afferma che “per mantenere l’obiettivo degli 1,5 gradi a portata di mano occorreranno azioni significative ed efficaci da tutti i Paesi”. Più significativa l’eliminazione del riferimento al 2050 come termine entro il quale portare a zero le emissioni di gas serra. Nella nuova bozza si parla genericamente di “metà secolo”, una evidente concessione alla Cina, che ha chiesto di spostare l’obiettivo al 2060, e all’India, che non ha preso finora alcun impegno specifico. La Cop26 di Glasgow, che inizierà lunedì subito dopo la conclusione del G20, non sembra quindi partire sotto buoni auspici. 

PANDEMIA – “Dobbiamo stare attenti alle sfide che affrontiamo collettivamente. La pandemia non è finita e ci sono disparità sconvolgenti nella distribuzione globale dei vaccini. Nei Paesi ad alto reddito, oltre il 70% della popolazione ha ricevuto almeno una dose. Nei Paesi più poveri, questa percentuale crolla a circa il 3%. Sono differenze moralmente inaccettabili, e minano la ripresa globale”. Ha detto il premier. “Siamo molto vicini a raggiungere l’obiettivo dell’Oms di vaccinare il 40% della popolazione globale entro la fine del 2021. Ora dobbiamo fare tutto il possibile per raggiungere il 70% entro la metà del 2022“.

CLIMA – “Dalla pandemia al cambiamento climatico, a una tassazione giusta ed equa, fare tutto da soli, semplicemente, non è un’opzione possibile. I risultati (sulle tasse ndr.) ci ricordano con forza quelli che possiamo raggiungere insieme. Ci devono incoraggiare ad essere altrettanto ambiziosi in tutti gli ambiti in cui lavoriamo insieme”. Prima riunione in presenza dei leader mondiali in oltre due anni dedicata a ‘Economia globale e salute globale’ poi alle 15 ci sarà un evento a margine sul sostegno alle piccole e medie imprese ed alle attività gestite dalle donne con l’intervento della regina Maxima d’Olanda. Durante i lavori, a quanto si apprende, ci saranno delle interruzioni per dare modo ai capi di Stato e di governo di avere una serie di incontri bilaterali, anche fuori del contesto del G20. Alle 19 è previsto per i leader e le consorti un evento culturale alle Terme di Diocleziano, a cui Biden non parteciperà, quindi i leader saranno ospiti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per una cena al Quirinale. Il Secondo giorno del vertice al via alla Fontana di Trevi, con il tradizionale lancio delle monetine da parte dei leader mondiali. I lavori riprenderanno con una sessione dedicata al ruolo del settore privato nella lotta ai cambiamenti climatici: atteso un appello del Principe Carlo. Quindi si terrà la seconda sessione “Climate Change and Environment” e la terza sessione di “Sustainable Development”. Prevista alle 15:40 la sessione conclusiva del vertice e, a seguire, la conferenza stampa di Mario Draghi. Il premier italiano incontrerà in due bilaterali il primo ministro del Canada Justin Trudeau e il ministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese Wang Yi. Riccardo Annibali

Francesca Santolini per “La Stampa” il 31 ottobre 2021. Senza enfasi: stiamo camminando sull'orlo dell'abisso. Desertificazioni, ondate di calore sempre più violente, inondazioni, flussi migratori, si moltiplicheranno nei prossimi anni con costi devastanti dal punto di vista economico e in termini di vite umane. Il cambiamento climatico non minaccia soltanto gli ecosistemi terrestri, le calotte glaciali o le barriere coralline. A rischio è la stabilità dei nostri sistemi economici, il benessere delle future generazioni, la sopravvivenza stessa di interi popoli. Il cambiamento climatico - e le sue conseguenze - rappresenta oggi il più importante dei problemi economici. Certo non solo un problema ambientale. Per gli economisti si tratta di un "cigno verde", un evento dalle conseguenze straordinarie e irreversibili, di cui è certo il verificarsi (a meno che non muti il contesto), ma incerto il momento in cui accadrà - certus an, incertus quando, direbbero i giuristi. A tracciare un quadro preciso degli impatti del cambiamento climatico attesi nei prossimi decenni nei paesi più industrializzati del mondo, è il rapporto del CMCC - Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici. Nello scenario peggiore, senza un'azione urgente per ridurre le emissioni di carbonio, le perdite di Pil dovute ai danni climatici nei Paesi del G20 aumentano continuamente, salendo ad almeno il 4% annuo entro il 2050; si potrebbe addirittura superare l'8% entro il 2100, generando il doppio delle perdite economiche dovute alla pandemia Covid-19. Entro il 2050, emerge dal rapporto del Cmcc, «il potenziale pescato potrebbe diminuire di un quinto in Indonesia, sradicando centinaia di migliaia di mezzi di sussistenza». L'innalzamento del livello del mare potrebbe danneggiare le infrastrutture costiere entro 30 anni, con il Giappone destinato a perdere 404 miliardi di euro e il Sudafrica a 815 milioni di euro entro il 2050, con una situazione che permane ad alte emissioni di gas serra. A livello globale, secondo il World Economic Forum, nello scenario più catastrofico, con un aumento della temperatura fino a 3,2 gradi, l'impatto del cambiamento climatico potrebbe spazzare via fino al 18% del Pil dell'economia mondiale già entro la metà del secolo. Tutto questo, naturalmente, con costi paurosi in termini di vite umane. L'innalzamento delle temperature a livello globale ha già determinato un notevole aumento dei disastri. Secondo un rapporto dell'Oms e dell'Ufficio delle Nazioni Unite per lo studio dei disastri, nei 50 anni tra il 1970 e il 2019, oltre 2 milioni di persone sono morte a causa di eventi climatici estremi e le perdite economiche sono state pari a 3,64 trilioni di dollari. In Europa, le morti per caldo estremo potrebbero aumentare da 2.700 all'anno a 90.000 ogni anno, entro il 2100. Un dato scioccante ci riguarda molto da vicino. Nel ventennio 1999-2018 l'Italia è stato il sesto Paese al mondo per vittime provocate da eventi climatici estremi, come riporta il report Climate Risk Index della ONG tedesca Germanwatch. La domanda cruciale da porci, oggi, non dovrebbe essere quanto costi la transizione energetica, ma quanto ci costerebbe non farla. Consapevoli che la frontiera della decarbonizzazione non è una landa inesplorata: altri Paesi la stanno occupando, pezzo dopo pezzo, scoprendone le potenzialità e gli infiniti campi di applicazione. Nel 2019 abbiamo celebrato i 50 anni dallo sbarco di Neil Armstrong sul suolo grigio del nostro satellite. Quell'evento ha, indirettamente e irreversibilmente, trasformato la vita delle nostre società. Materiali nuovi hanno cambiato i nostri utensili quotidiani, i nostri vestiti, gli oggetti più comuni. L'esigenza di ridurre pesi e dimensioni degli apparati elettronici ha condotto i ricercatori a inventare il transistor; e una serie di transistor collegati fra loro ha consentito l'evoluzione dell'elettronica e dei computer che hanno completamente rivoluzionato la cultura, la comunicazione, la tecnologia. A distanza di oltre cinquant' anni da quel famoso passo di Armstrong, sappiamo che non è stato il modulo lunare a cambiare la nostra vita, ma il grande lavoro di ricerca che è stato finanziato grazie all'obiettivo della Luna. Oggi la nuova frontiera da conquistare non è il nostro satellite, ma l'equilibrio del nostro pianeta. È una frontiera che giustifica i grandi investimenti pubblici che non coinvolgono solo la ricerca, ma anche la gestione dei processi di produzione di energie non inquinanti. Sono investimenti produttivi? Sono paragonabili a quelli che si fanno per costruire ferrovie, aeroporti, strade? La risposta a questi interrogativi non può che essere affermativa. Non si tratta di ecologismo ideologico, ma di un semplice calcolo economico. Il deterioramento del territorio, i cambiamenti climatici, la cattiva gestione dell'acqua, l'accumulo dei rifiuti, costituiscono una voce fortemente negativa nel bilancio economico di un paese e, soprattutto, per le nuove generazioni, per le quali il futuro non è una variabile ipotetica, ma la dimensione concreta di un'esistenza ancora in larga parte in divenire e che a noi spetta di tutelare.

La dichiarazione finale. G20, raggiunto l’accordo sul clima: tetto massimo surriscaldamento globale fissato a 1,5 gradi. Antonio Lamorte su Il Riformista il 31 Ottobre 2021. È arrivato alla fine l’accordo sul cambiamento climatico al vertice del G20 in corso a Roma: l’intesa per limitare a 1,5 gradi l’aumento della temperatura globale. Lo apprende l’Ansa da fonti diplomatiche. Dopo gli accordi sulla minimum tax e sulla spinta alla campagna vaccinale a livello mondiale, quello sull’accordo era uno dei punti salienti del summit e che ieri era stato mancato. Il negoziato per raggiungere un accordo sulla dichiarazione finale, con la questione del clima come la più problematica tra tutte, è andato avanti per tutta la notte. La dichiarazione finale del G20 di Roma faceva riferimento secondo alcune fonti alla scadenza di “metà del secolo” per il raggiungimento dell’obiettivo “emissioni zero”. L’accordo sulla deadline non è stato raggiunto alla fine ma il premier Draghi si è detto fiducioso che si raggiungerà comunque “gradualmente”. Fonti dell’Eliseo confermano anche il fondo per il clima da 100 miliardi per il sostegno ai Paesi in via di sviluppo: l’impegno poi sarebbe di “intraprendere ulteriori azioni” sul clima “in questo decennio”. I leader mondiali del G20 rappresentano oltre l’80% del Pil mondiale e il 60% della popolazione del pianeta. La seconda giornata del vertice del G20 a Roma si era aperta stamattina con la passeggiata dei leader mondiali alla Fontana di Trevi e il tradizionale lancio delle monetine (tutte da 1 euro e coniate in Italia, quelle con l’Uomo Vitruviano simbolo del G20). I lavori sono ripresi alle 10:30 con una sessione dedicata al ruolo del settore privato nella lotta ai cambiamenti climatici. “La conferenza Cop26 che inizia domani a Glasgow è la nostra ultima chance per salvare il pianeta – ha detto il principe Carlo nel suo intervento – Dobbiamo trasformare belle parole in azioni ancora più belle”. Stessi toni da parte del Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: sul clima si deve agire ora “o avremo conseguenze disastrose” e quindi “la lotta al clima è la sfida del nostro tempo. O agiamo ora e affrontiamo i costi della transizione e riusciamo a renderla più sostenibile o rinviamo e rischiamo di pagare un prezzo più alto dopo. La presidenza italiana del G20 vuole spingere la crescita economica e renderla più sostenibile: lo dobbiamo ai cittadini, al pianeta e alle future generazioni”. Sempre in mattinata il bilaterale tra il primo ministro britannico Boris Johnson e il Presidente Francese Emmanuel Macron – assenti illustri invece il Presidente russo Vladimir Putin e quello cinese Xi Jinping. A seguire la seconda sessione “Climate Change and Environment” e la terza sessione “Sustainable Development”. Alle 15.40 la sessione conclusiva del vertice e, a seguire, la conferenza stampa del presidente del Consiglio Mario Draghi. Il premier ha in programma anche due bilaterali: con il primo ministro del Canada, Justin Trudeau e con il ministro degli Affari Esteri della Repubblica popolare cinese, Wang Yi. L’impegno preso sul fronte coronavirus riguarda l’obiettivo di raggiungere con i vaccini il 70% della popolazione mondiale entro metà 2022. Via libera anche al nuovo sistema fiscale globale che istituisce una tassazione minima sugli utili del 15% per le imprese. USA e Unione Europea hanno anche raggiunto un accordo per eliminare alcune tariffe sull’importazione di acciaio e alluminio: un’intesa che consente che “limitati volumi” entrino negli Stati Uniti senza dazi e quindi Bruxelles lascerà cadere i suoi dazi sulle merci americane. La fine del “protezionismo degli scorsi anni” per Draghi. Si legge nella bozza finale: “Per contribuire ad avanzare verso gli obiettivi di vaccinare almeno il 40% della popolazione in tutti i paesi entro la fine del 2021 e il 70% entro la metà del 2022, prenderemo iniziative per contribuire ad aumentare la fornitura di vaccini e prodotti e strumenti medici essenziali nei Paesi in via di sviluppo e rimuovere i relativi vincoli di approvvigionamento e finanziamento – e quindi – Rafforzeremo le strategie per sostenere la ricerca e lo sviluppo, nonché per garantire la loro produzione e distribuzione rapida ed equa in tutto il mondo”. I leader del G20 si impegneranno a sostenere gli sforzi per ridurre a 100 giorni il periodo necessario per sviluppare nuovi vaccini, farmaci e test in caso di nuove pandemie. Proteste e manifestazioni intanto in centro a Roma: attivisti del Climate Camp hanno bloccato il traffico in via IV Novembre mentre altri si erano incatenati ai cancelli del Foro di Traiano.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Pierfrancesco Vago e la differenza tra realtà e percezione. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista l'11 Ottobre 2021. “Che fai rumore qui. E non lo so se mi fa bene. Se il tuo rumore mi conviene” canta Diodato nella sua canzone che ha vinto il festival di Sanremo 2020. Il cantante si riferisce alle relazioni umane, ma la strofa può essere presa in prestito per affrontare un tema centrale della contemporaneità: lo scarto tra percezione e realtà. Nel mio lavoro di lobbista, mi capita di avere a che fare con comparti industriali che hanno una pessima fama, malgrado la realtà sia diversa e malgrado le iniziative, non solo di comunicazione, messe in atto dagli operatori per cambiare la propria reputazione. Questo, in parte, ha un’influenza sulla mia attività, in quanto il decisore politico o il responsabile di un’istituzione si trova a dover mettere in atto misure in un settore dove il dibattito è particolarmente acceso o addirittura infiammato. Ci sono infatti argomenti polarizzanti, sui quali si creano fazioni, spesso indipendentemente dalla reale evoluzione del settore di riferimento. Uno tra questi è il mondo delle crociere. Ne abbiamo parlato con Pierfrancesco Vago, Executive Chairman di MSC Crociere e Global Chairman di CLIA-Cruise Lines International Association, che abbiamo intervistato per il mensile di Telos A&S. La stessa parola crociera genera una reazione pro e contro: chi la ama, considerandola un ottimo modo per viaggiare in pieno relax e divertendosi; e chi le odia, ritenendo l’esperienza un non-viaggio, e la nave da crociera un non-luogo. Ma la questione, ovviamente non finisce qui. L’industria crocieristica, nel senso comune, viene associata con un primato di impatto ambientale. Anche se la realtà è diversa. “Riguardo all’impatto ambientale vorrei dire che – se guardiamo ai dati con obiettività – non è esattamente così. Il mondo dello shipping è responsabile infatti solo del 3% delle emissioni di CO2 a livello globale e l’industria crocieristica conta per appena il 3% delle emissioni complessive del settore. Vi sono dunque comparti che hanno un impatto ambientale molto maggiore del nostro. È vero, invece, che il mondo delle crociere è tra i più avanzati sotto il profilo ambientale, nonché tra i principali investitori globali in tecnologie anti-inquinamento” commenta Vago. Tanto rumore per nulla? Non esattamente. I temi ambientali non devono essere sottovalutati ed è un fattore certamente positivo che l’attenzione al green sia un tema molto sentito nel nostro Paese. Secondo il Rapporto Ispos per Conou 2019, il 70% degli italiani è interessato ai temi della sostenibilità. Inoltre il 78% delle aziende europee che ha adottato pratiche di economia circolare ha visto un miglioramento reputazionale. La sfida, dunque, è demolire i luoghi comuni e farsi giudicare per quello che realmente si fa, superando il rumore di fondo. Non è poco.

Gian Micalessin per “il Giornale” l'11 ottobre 2021. Altro che transizione verde. Mentre noi sogniamo a occhi aperti e costringiamo premier e ministri a imbarazzanti bla-bla con Greta Thunberg e il suo codazzo di adolescenti illusi, la Cina ordina ai responsabili delle miniere di carbone d'innalzare la produzione ai massimi livelli. E si prepara, come sempre, a sputare nell'atmosfera più Co2 di quanta non ne producano Europa, Africa e America Latina messi assieme. Ovviamente tutti particolari rigorosamente omessi dal libro dei sogni dei sostenitori di Greta, sempre pronti a scordare che il più grande inquinatore globale non abita né in Europa, né in Occidente. La conferma arriva dalle stesse autorità cinesi che giovedì scorso, dopo una riunione del Consiglio di Stato presieduta dal premier Li Keqiang, hanno ordinato a 51 miniere della regione dello Shanxi e a 72 della Mongolia Interna di operare alla massima capacità. «La commissione sul carbone - spiegano le agenzie cinesi - ha sollecitato le miniere ad aumentare la produzione senza compromessi e la stessa commissione verificherà che venga garantita la domanda di elettricità e riscaldamento per l'inverno». Come dire bando agli indugi e, anche, alla promessa di attenersi ai Trattati di Parigi riducendo del 65% la produzione di energia legata al carbone. «Le autorità interessate devono dare priorità al trasporto del carbone per garantire che venga inviato dove è più necessario in modo tempestivo - spiega un documento del Consiglio di Stato - la fornitura di elettricità e carbone è fondamentale. Non ci deve essere alcun rallentamento nei nostri sforzi». Ordini e direttive che ci fanno capire quanto le preoccupazioni per un'economia sostenibile siano lontane da una Cina preoccupata solo di mantenere l'egemonia produttiva. Un'egemonia messa a dura prova dalle indagini sulla corruzione nel settore minerario che nel corso dell'ultimo anno hanno rallentato o bloccato l'attività di molti stabilimenti minerari. Ma ora, dopo una serie di «black out» che hanno compromesso la capacità cinese di rispondere all'aumento della domanda globale ogni scrupolo è stato messo da parte. E persino il pretesto della corruzione, usato da Xi Jinping per ridimensionare e incarcerare i funzionari troppo potenti, o i privati troppo ricchi o poco controllabili, torna secondario rispetto alla necessità di ripristinare i consueti livelli produttivi. Livelli a cui corrisponderà un effetto serra di pari proporzioni. Un effetto serra di cui la Cina è da sempre la principale responsabile visto che fino al 2016 il carbone ha rappresentato il 69,9% delle sue fonti energetiche mentre i dati del 2018 le attribuiscono la produzione del 28,5% delle emissioni globali di Co2. In tutto questo il carbone resta il principale propellente energetico di quelle acciaierie cinesi che garantiscono metà della produzione mondiale di acciaio e sfornano quantitativi che superano di cinque volte quelli delle industrie europee. Ma l'illusione più grave di chi sogna la transizione verde in Occidente è forse quella di poterla realizzare senza l'apporto di un'industria cinese che da una parte inquina più di chiunque sul pianeta, ma dall'altro detiene, a partire dalle batterie, tecnologie e materie prime indispensabili per garantire la realizzazione. «Il rischio, ben chiaro ad americani ed europei - spiegava il segretario di stato americano Antony Blinken in un'intervista al Corriere - è che parte delle centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund vadano in Cina, piuttosto che alle aziende europee».

Da ansa.it il 17 settembre 2021. Il buco dell'ozono quest'anno ha raggiunto un'estensione superiore a quella dell'Antartide, una delle più grandi e profonde degli ultimi anni: lo mostrano le osservazioni del satellite Sentinel 5P, una delle sentinelle della Terra del programma Copernicus gestito da Commissione Europea e Agenzia Spaziale Europea (Esa). I dati sono stati raccolti nell'ambito del servizio di monitoraggio atmosferico Copernicus Atmosphere Monitoring Service (Cams) del Centro Europeo per le Previsioni Meteorologiche a Medio Raggio. Il dato arriva in occasione della Giornata internazionale per la preservazione dello strato di ozono, che si celebra oggi. Il buco nello strato di ozono si forma ogni anno durante la primavera australe, tra agosto e ottobre, e raggiunge il massimo tra metà settembre e metà ottobre. Quest'anno, dopo una condizione iniziale piuttosto nella norma, è aumentato notevolmente parecchio la scorsa settimana ed è ora più grande del 75% rispetto alle misure rilevate in questo stesso periodo dell'anno a partire dal 1979. "Seppur simile a quello del 2020, quest'anno il buco dell'ozono si è trasformato in uno dei più duraturi mai registrati", osserva Vincent-Henri Peuch, direttore del Copernicus Atmosphere Monitoring Service. Per Antje Inness, del Centro Europeo per le Previsioni Meteorologiche a Medio Raggio, "il monitoraggio del buco dell'ozono al Polo Sud va interpretato con cautela, visto che le dimensioni, durata e concentrazioni sono influenzati dai venti locali. Tuttavia ci aspettiamo che si chiuda entro il 2050". Con la fine della stagione primaverile dell'emisfero australe, quando le temperature nella parte superiore della stratosfera cominciano a salire, l'impoverimento dell'ozono rallenta, il vortice polare si indebolisce e, infine, si rompe, portando i livelli di ozono alla normalità entro dicembre.

Città sott’acqua, cicloni e migrazioni. Cosa ci aspetta se scompaiono i ghiacciai. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2021. In meno di un secolo il riscaldamento globale ha alterato le caratteristiche del ciclo dell’acqua come mai accaduto negli ultimi 50 milioni di anni. Con la rivoluzione industriale e tecnologica il pianeta è entrato in una nuova era, l’antropocene: significa che gli elementi fondamentali della Terra non seguono più i ritmi geologici, ma si adattano ai tempi dell’attività umana. La grande accelerazione si è innescata negli ultimi 70 anni con il forte incremento di CO2 immessa dall’uomo nell’atmosfera. Tra gli effetti più evidenti la progressiva e inarrestabile fusione dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare e l’acidificazione degli oceani. Quali conseguenze per l’intera umanità?

I ghiacciai si fondono a ritmi record. L’acqua copre il 71% della superficie terrestre: il 97% si trova negli oceani, il 2,1% nelle calotte polari e nei ghiacciai, mentre lo 0,65% è concentrato in fiumi, laghi, falde acquifere e nell’atmosfera. L’attuale fase di fusione dei ghiacciai è iniziata negli anni ’50, dapprima lentamente e poi con un ritmo sempre più veloce. Dalle ultime immagini della Nasa, relative a 217 mila ghiacciai (il 99,9% del totale) fra il 2000 e il 2019, si può stimare una fusione accresciuta del 130%, con una perdita del volume totale dei ghiacciai rilevati del 4%. La maggiore riduzione si è registrata in Alaska (25%), Groenlandia (12%), nelle estremità nord e sud del Canada (10%) e nel territorio dell’Hindu Kush Himalaya (8%). 

La Groenlandia e «il punto di non ritorno». Negli ultimi mille anni l’evoluzione dei ghiacciai non è stata uniforme: in alcune zone si sono estesi, in altre si sono ridotti adattandosi alle oscillazioni climatiche. Oggi invece sono tutti in regressione. Tra i casi più critici, la Groenlandia e l’Hindu Kush Himalaya. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista «Nature Communications Earth and Environment», in Groenlandia, che è la più estesa terra artica, si è raggiunto «il punto di non ritorno» ovvero la neve accumulata non riesce più a compensare la quantità di ghiaccio sciolto, e anche se il riscaldamento climatico si arrestasse la calotta glaciale continuerebbe a sciogliersi. Nel 2019 la Groenlandia ha perso 532 miliardi di tonnellate di ghiaccio, segnando un record millenario. Lo scorso luglio, a causa delle alte temperature, in soli due giorni (28-29 luglio) 17 miliardi di tonnellate di neve e ghiaccio sono diventate acqua e defluite nell’Oceano Atlantico. Ad agosto, per la prima volta nella storia, al posto dei cristalli di ghiaccio è scesa la pioggia. In media negli ultimi 20 anni lo spessore dei ghiacciai della Groenlandia si è ridotto di circa 50 centimetri l’anno.

Dall’Himalaya l’acqua per 1,6 miliardi di persone. Altro caso critico è quello dell’Hindu Kush Himalaya, macroregione ribattezzata «il Terzo Polo», formata da quasi 55 mila ghiacciai che alimentano 10 grandi bacini fluviali come il Mekong, il Gange, i grandi fiumi cinesi e l’Indo che attraversano otto nazioni dell’Asia meridionale tra cui Cina, India e Pakistan, fornendo acqua ed energia a un territorio dove vivono 1,65 miliardi di persone: «I ghiacciai — scrive Andri Snær Magnason ne Il tempo e l’acqua — assorbono le precipitazioni delle bufere invernali e delle piogge monsoniche per rilasciarle quando c’è bisogno di acqua, nei periodi di siccità. Questa attività mitigatrice si sta riducendo sempre più velocemente». Dal 1975 al 2000 i principali ghiacciai dell’Himalaya hanno perso 4 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno, dal 2000 al 2016 la media è di 8 miliardi di tonnellate, con una riduzione di spessore media di circa 50 centimetri ogni 12 mesi. Secondo lo studio «The Hindu Kush Himalaya Assessment. Mountains, Climate Change, Sustainability and People», se il riscaldamento climatico aumenterà «solo» di 1,5 gradi Celsius rispetto all’epoca pre-industriale, dalla macroregione sparirà un terzo dei ghiacciai entro il 2100, che diventerebbero 2 terzi se invece si toccassero i 2 gradi. Questo causerà nel tempo la riduzione della portata dei fiumi himalayani, mentre la sovrabbondanza d’acqua nella stagione dei monsoni e la grave siccità in quella secca provocheranno crolli, inondazioni, la migrazione di milioni di persone e inevitabili scontri geopolitici per il controllo dell’acqua. 

Le Alpi si sciolgono più velocemente. I ghiacciai alpini si stanno sciogliendo a velocità doppia rispetto alla media mondiale. Secondo uno studio dei ricercatori dell’Università di Erlangen-Norimberga rilasciato a giugno dell’anno scorso, tra il 2000 e il 2014 i ghiacciai alpini hanno perso il 17% del proprio volume (circa 81 centimetri di spessore all’anno). Qui la temperatura è già aumentata di 2 gradi dal 1880. Il ritiro delle aree glaciali influenza l’idrologia delle zone alpine, provocando secche anche sui fiumi e laghi della Pianura Padana: «Se consideriamo gli scenari più catastrofici, ovvero in assenza di consistenti misure di adattamento — spiega Daniele Bocchiola, docente di Idrologia e Costruzioni Idrauliche al Politecnico di Milano — ci sarà un forte ritiro dei ghiacciai dalle Alpi entro il 2050. Per allora si troverà ghiaccio solo oltre a quote molto elevate. Verosimilmente oltre i 3mila metri».

L’innalzamento dei mari. La fusione dei ghiacciai continentali e polari ha causato negli ultimi 20 anni fino al 21% dell’innalzamento del livello del mare, circa 0,74 millimetri all’anno. Gli esperti prevedono che entro il 2100 gli oceani subiranno un innalzamento compreso tra i 30 cm e il metro mettendo a rischio metropoli e litorali in tutto il mondo, ovvero aree in cui vivono circa centoquindici milioni di persone. Secondo le proiezioni dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, entro quella data città come Venezia e Giacarta rischiano seriamente di finire sott’acqua. Ma già entro il 2050, senza provvedimenti drastici contro il pericolo di inondazioni, l’IPCC segnala danni tra 1.600 e 3.200 miliardi di dollari per 136 grandi città costiere. Tra le più colpite ci sono anche New York, Mumbai, Tokyo, Shanghai, Miami, Rotterdam, Città del Capo. 

Il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani. Il riscaldamento globale a sua volta provoca la migrazione dei pesci, l’acidificazione dei mari e gli eventi estremi. Già oggi, secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, ormai «il merluzzo, lo sgombro e l’aringa nel Mare del Nord migrano verso acque più fredde, seguendo la loro fonte di cibo: i copepodi». Uno studio pubblicato su Nature dimostra come gli oceani assorbano il 90% del calore in eccesso nell’atmosfera prodotto dalle emissioni antropiche. Più sale la temperatura, più gli oceani accumulano energia che deve essere liberata, provocando un aumento di intensità di uragani e cicloni tropicali, che diventeranno sempre più devastanti, visto che entro la fine del secolo la temperatura media dello strato più superficiale dei mari potrebbe aumentare da 1 a 4 gradi. L’acidificazione degli oceani, invece, è dovuta al fatto che il mare, assorbendo circa il 30% della C02 rilasciata dalle attività umane nell’atmosfera, abbassa il pH oceanico (già sceso da 8,2 a 8,1 su scala logaritmica). Entro la fine del secolo si prevede di arrivare a 7,7, valore mai raggiunto negli ultimi 25 milioni di anni. Tra le conseguenze più gravi: il degrado delle barriere coralline, habitat di almeno il 25% di tutta la biodiversità marina e la riduzione delle comunità di plancton che producono il 60% di tutto l’ossigeno del pianeta.

Una sfida ambiziosa. Ormai lo sappiamo che non esiste alternativa se non quella di ridurre drasticamente le emissioni di CO2. Nel 2020 sono diminuite del 6,4%, ma è un calo dovuto principalmente al Covid che ha limitato le attività economiche e sociali in tutto il mondo. L’accordo di Parigi sul clima firmato da 195 Stati ha come obiettivo di limitare l’incremento del riscaldamento climatico entro 1,5 gradi oltre i livelli pre-industriali. Vuol dire che le emissioni di CO2 dovranno essere azzerate entro i prossimi 30 anni. Gli scienziati dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA) hanno calcolato che per creare un nuovo sistema energetico sostenibile e pulito occorre investire il 5% del Pil mondiale per diversi decenni (circa 4.400 miliardi di dollari all’anno), concentrandosi su produzione di energia solare, sfruttamento dell’energia termica, installazione di turbine eoliche, elettrificazione dei trasporti, risparmio energetico, conversione per il riscaldamento domestico globale. La sicurezza climatica creerebbe anche 122 milioni di posti di lavoro nel settore energetico entro il 2050. Ma nessuna trasformazione sarà possibile senza la consapevolezza che stiamo lasciando ai nostri figli e nipoti un pianeta sempre più inospitale. Vuol dire cambiare le nostre abitudini di consumo come usare l’auto per andare a fare la spesa sotto casa, prendere l’aereo invece del treno per le tratte brevi, tenere il rubinetto dell’acqua aperto anche quando non serve, mangiare carne tutti i giorni, lasciare accese le luci di casa in tutte le stanze. Sembrano piccole cose, ma a minacciare la nostra stessa sopravvivenza è anche la somma delle pessime abitudini.

La grande speculazione del fotovoltaico sui terreni agricoli. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 30 agosto 2021. Le Regioni non hanno individuato le aree idonee e le aziende offrono cifre da capogiro agli agricoltori. Con il rischio di stravolgere il paesaggio e di perdere produzione agricola. Il ministro Cingolani: “Convocheremo i governatori, per me vanno utilizzate le aree dismesse”. Battono palmo a palmo le campagne più belle offrendo una montagna di soldi agli agricoltori sfiancati da un mercato che li mette sempre più ai margini. Dal Veneto all’entroterra siciliano gli imprenditori vendono così la loro terra ai grandi intermediari delle aziende, conosciute e spesso sconosciute, che vogliono realizzare mega impianti di fotovoltaico sfruttando il far west delle regole e delle autorizzazioni in materia nel nostro Paese. Con il rischio concreto di una perdita di produzione agricola importante e uno stravolgimento del paesaggio in alcune aree a causa di una concentrazione di pannelli fotovoltaici che non avrà pari nel resto d’Europa. L’Italia è la terra del sole e l’Europa chiede al nostro Paese di raddoppiare da qui al 2033 la produzione elettrica da energia solare: una partita che vale 2 miliardi di euro di investimenti privati per raggiungere questo obiettivo, ai quali si aggiungono quasi 4 miliardi di incentivi messi a disposizione dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un fiume di denaro con la conseguente pressione, fortissima, sia delle aziende che vogliono realizzare questi impianti e preferiscono i terreni agricoli perché già pronti all’installazione, sia dello stesso governo Draghi che vuole raggiungere gli obiettivi chiesti dall’Ue. Non a caso, anche qui senza molto clamore, sono passate in Parlamento norme che consentono a Palazzo Chigi di autorizzare direttamente gli impianti superiori ai 10 megawatt, con tanto di possibile esproprio dei terreni per pubblica utilità nel caso in cui le Regioni siano lente nel dare il via libera. Ma c’è di più: con un’altra norma il governo «ha introdotto delle deroghe al divieto di fruizione degli incentivi statali per gli impianti solari fotovoltaici con moduli a terra in aree agricole». Il governo Draghi accelera forte del fatto che, dati alla mano, per raggiungere il risultato di raddoppiare la produzione da energia solare ed eolica al massimo si dovrebbe occupare «solo lo 0,7 per cento del suolo del Paese». Peccato però che lo 0,7 per cento è una cifra elevata, se si tolgono le aree già cementificate, e senza regole i grandi impianti si concentreranno in alcune valli e colline stravolgendone davvero il paesaggio come temono diverse associazioni ambientaliste. Ma se è vero che l’Europa fissa dei target ambiziosi, è anche vero che esplicitamente Bruxelles ha chiesto di fare prima una «localizzazione delle aree idonee» a ospitare questi impianti. In Italia invece, complice il caos delle competenze in materia tra enti locali e Stato, le principali regioni interessate al fotovoltaico, Veneto, Lazio, Sardegna, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, non hanno fatto alcuna mappatura delle aree idonee e il governo Draghi, guarda caso, ha accentrato tutte le competenze tranne una: quella sulla localizzazione delle aree idonee. Così in Italia oggi è in corso la grande vendita dei terreni agricoli con il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che a L’Espresso ammette la situazione e aggiunge: «Convocherò al più presto un tavolo con i governatori per accelerare sulla localizzazione delle aree, ma non possiamo intervenire direttamente». 

LA CORSA ALLA TERRA. L’Italia oggi produce energia da sole per 21 gigawatt. Entro il 2033 deve arrivare a quasi 50 gigawatt. In termini di aree occupate significa 82 mila ettari, pari a 117 mila campi da calcio. Il governo ha quindi previsto procedure veloci per dare le autorizzazioni ai grandi impianti, con poteri sostitutivi in capo al ministero della Transizione ecologica in caso di inerzia delle Regioni. Negli ultimi mesi sono arrivate centinaia di domande per realizzare grandi impianti: oltre duecento solo in Sicilia (la regione con la maggiore esposizione solare nel giorno), cento in Sardegna, settanta in Veneto, una cinquantina in Puglia e Calabria, altrettante nel Lazio dove è appena stata votata in Consiglio regionale una moratoria fino al 2022 a nuove autorizzazioni dopo che alcune zone, come quella del Viterbese, sono state già riempite di pannelli fotovoltaici. Per chiedere l’autorizzazione, le aziende interessate devono dimostrare di avere dei contratti di acquisto o affitto delle aree dove vogliono realizzare questi impianti. Da qui la corsa a farsi cedere i terreni migliori e già pronti all’uso. In Veneto il governo Zaia ha dato il via libera a un parco fotovoltaico da 50 ettari (70 campi da calcio) nelle campagne di Rovigo. La società che ha ottenuto l’autorizzazione è la Marco Polo Solar 2 che vede come amministratore unico l’ex presidente dell’Istituto regionale Ville Venete Luciano Zerbinati. Dietro questa iniziativa c’è la Shell, il colosso petrolifero inglese e olandese, che ha una opzione sulle azioni dei soci della Marco Polo Solar 2. Una secondo impianto a breve sarà autorizzato a Porto Viro per undici ettari e, ancora, altri terreni agricoli sono stati ceduti ad aziende di fotovoltaico nelle aree di Occhiobello. Scene che si ripetono in molte regioni. In Sicilia la domanda pendente per uno degli impianti più grandi riguarda la Big Fish srl del gruppo Falck, che ha presentato un progetto da 256 megawatt con panelli solari che occuperebbero un’area di 560 ettari tra Catania, Lentini e Motta Sant’Anastasia. Nella domanda ha allegato i preliminari di affitto dei terreni: come quello con il proprietario S.T. per 36 ettari di terreni al canone annuo di 84mila euro. Tra le aree interessate da mega impianti anche le terre narrate dal Verga tra Vizzini, Mineo e Buccheri con domande pendenti per mille ettari di terreni agricoli. Tra le società che hanno presentato domanda c’è la Sun Project, di proprietà a sua volta della Innovazione energia srl, partecipata da Maria Papa e Maria Carmela Bevacqua, entrambe di Messina. Qualche mese fa hanno venduto tutto a un gruppo di energie rinnovabili danese, European Energy, che vuole investire 150 milioni di euro. In Sicilia ha presentato diverse domande per mega impianti nell’ennese anche il colosso tedesco Ib Vogt. Un altro progetto è stato invece già in parte autorizzato nel Val di Noto per 100 ettari in pieno sito Unesco. Dal Veneto alla Sicilia le cifre di prelazione sui terreni sono simili: 2-3 mila euro di affitto all’anno per un ettaro con opzione di acquisto da 20 a 30 mila euro. 

LE AREE DISMESSE E LE PROTESTE. Nessuna delle Regioni maggiormente interessate dalle domande di fotovoltaico ha approvato la localizzazione delle aree idonee. Il governatore Luca Zaia tiene fermo nel cassetto il suo piano, lo stesso fanno i colleghi delle altre regioni. Così, nel frattempo, non ci sono paletti e le aziende decidono in totale autonomia dove fare gli impianti. In Italia però, dati Istat alla mano, ci sono 9 mila chilometri quadrati di aree industriali dismesse, per non parlare dei tetti degli edifici non di pregio: «Prendiamo la Sicilia: nel piano energetico regionale, ancora non approvato, sono state inserite aree industriali dismesse, ex discariche e cave per un totale di 1.265 siti che potrebbero ospitare 4.600 ettari di fotovoltaico con raddoppio della potenza installata in questa regione. Certo, ci sarebbe un piccolo extra costo a carico delle aziende per sistemare cave e miniere, ma sarebbe ampiamente compensato dai tempi di autorizzazioni veloci», dice Mario Pagliaro, ricercatore del Cnr. Invece si vendono i terreni agricoli. La Coldiretti ha avviato una battaglia nazionale e il presidente Ettore Prandini al meeting di Rimini di Comunione e liberazione ha fatto un intervento durissimo: «Pongo una questione chiave al governo italiano, noi vogliamo che il fotovoltaico vada sui tetti delle aziende agricole e non accettiamo che si tolga un solo ettaro di terreno destinato alla produzione di cibo, diciamo no a scenari speculativi». Italia Nostra sta sostenendo le proteste delle comunità locali contro il pannello selvaggio in tutto il Paese. Come racconta la presidente Ebe Giacometti: «Siamo convinti che se tutte le Regioni fossero dotate di Piani paesaggistici operativi la pianificazione in campo energetico avrebbe strumenti di reale controllo sulla trasformazione del nostro paesaggio. Una trasformazione che rischia di stravolgere asset importanti dell’economia italiana ma soprattutto di condannare all’oblio luoghi celebrati per la loro bellezza. Con lo stravolgimento del paesaggio rischia di evaporare una ricca fetta del nostro Pil collegato alle attività connesse al turismo e al settore agroalimentare, che ha un valore pari al 25 per cento del Pil. Italia Nostra insieme ad altre 15 associazioni ha chiesto al governo di individuare le superfici e le aree idonee e non idonee per gli impianti da fonti rinnovabili guardando al minimo impatto sull’ambiente, sul territorio e sul paesaggio. Ad oggi non sono arrivate le risposte». 

IL MINISTRO CINGOLANI. Il volto della transizione ecologica in Italia, il ministro Roberto Cingolani, si dice preoccupato per quanto sta accadendo: «Di certo c’è che dobbiamo potenziare le rinnovabili, altrimenti tutto il resto diventa un sogno. Dobbiamo stare dentro gli accordi di Parigi e non abbiamo né esiste un piano B. Qui se cominciano a dire “no nel mio giardino o nel mio territorio” sbagliamo di grosso. Detto questo, purtroppo i piani di localizzazione delle aree dipendono non solo dalle Regioni, ma anche dalle mappe solari e del vento. Adesso accerteremo con le varie Regioni lo stato dell’arte sapendo bene che occorrerà molta attenzione. Io sono per realizzare questi impianti nelle aree industriali dismesse e per sostenere l’agrifotovoltaico, cioè per far diventare le aziende agricole autosufficienti sul consumo energetico attraverso pannelli sulle stalle e sui capannoni: non a caso abbiamo messo quasi 2 miliardi di euro di incentivi in questo preciso settore».

LA TRANSIZIONE DIFFICILE. Il governo in una prima bozza del “decreto semplificazioni” aveva provato a introdurre una norma per togliere competenze sulla localizzazione alla Regioni inerti. Ma in Parlamento ha trovato una opposizione trasversale che minacciava di far saltare tutto. In ballo ci sono tanti soldi. E tanti interessi.

Energia green: pannelli e pale "consumano" tanto spazio. Ma manca una mappa su dove metterli. Per ottenere i 70 GW richiesti entro il 2030 dal Pnrr servono fino a 175mila ettari, quanto mezza Val d'Aosta. Quali aree usare? Le proposte in campo, in mancanza di un elenco ufficiale di siti candidati a ospitare parchi fotovoltaici ed eolici. Luca Fraioli su La Repubblica il 26 agosto 2021. La transizione energetica prossima ventura ha bisogno di suolo, più o meno quanto una provincia di medie dimensioni. Perché per spegnere le centrali alimentate da combustibili fossili e produrre elettricità con il Sole e il vento si dovranno costruire grandi impianti fotovoltaici ed eolici. E occorre che una parte del territorio italiano venga dedicata a questo scopo.

Da Ansa.it il 9 agosto 2021. Nel 2019, le concentrazioni atmosferiche di Co2 erano le più alte degli ultimi 2 milioni di anni e quelle dei principali gas serra (metano e biossido di azoto) le più elevate degli ultimi 800.000 anni; negli ultimi 50 anni la temperatura della Terra è cresciuta a una velocità che non ha uguali negli ultimi 2.000 anni; l'aumento medio del livello del mare è cresciuto a una velocità mai vista negli ultimi 3000 anni. Sono alcune delle indicazioni contenute nella prima delle tre parti, diffusa oggi, del Sesto rapporto dell'Ipcc (il gruppo di scienziati esperti in cambiamento climatico) approvato dai 195 governi dell'Onu. Tutti i più importanti indicatori delle componenti del sistema climatico (atmosfera, oceani, ghiacci) stanno cambiando a una velocità mai osservata negli ultimi secoli e millenni, affermano gli scienziati - tra i quali tre ricercatori italiani dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche - ricordando che le emissioni antropiche hanno raggiunto nel 2019 concentrazioni di 410 parti per milione per la Co2 e 1.866 parti per miliardo per il metano. La temperatura media globale del pianeta nel decennio 2011-2020 è stata di 1,09 gradi centigradi superiore a quella del periodo 1850-1900 con un riscaldamento più accentuato sulle terre emerse rispetto all'oceano. La parte preponderante del riscaldamento climatico è causata dalle emissioni di gas serra derivate dalle attività umane, ribadisce il Working group I che valuta le nuove conoscenze scientifiche emerse rispetto al rapporto precedente del 2014. Nei prossimi decenni, dicono gli esperti, un aumento dei cambiamenti climatici è atteso in tutte le regioni. Per le città, alcuni aspetti dei cambiamenti climatici possono risultare amplificati. Tra questi, le ondate di calore, le inondazioni dovute a forti precipitazioni e l'aumento del livello del mare nelle città costiere. Il continuo aumento del livello del mare è uno dei fenomeni dei cambiamenti climatici già in atto, "irreversibili in centinaia o migliaia di anni". Lo affermano gli scienziati del Gruppo di lavoro 1 dell'Ipcc nel rapporto "Cambiamenti climatici 2021 - Le basi fisico-scientifiche", la prima delle tre parti del Sesto Rapporto di Valutazione che sarà completato nel 2022. Gli esperti rilevano che il climate change riguarda ogni area della Terra e tutto il sistema climatico. Tuttavia, avvertono, forti e costanti riduzioni di emissioni di Co2 e di altri gas serra limiterebbero i cambiamenti climatici. Per le aree costiere ci si attende un continuo aumento del livello del mare per tutto il XXI secolo che potrebbe portare inondazioni più frequenti e gravi e all'erosione delle coste. Eventi estremi riferiti al livello del mare che prima si verificavano una volta ogni 100 anni, entro la fine di questo secolo potrebbero verificarsi ogni anno, avvertono gli scienziati. Il rapporto parla di un riscaldamento che procede molto velocemente e fornisce nuove stime sulle possibilità di superare il livello di global warming di 1,5 gradi centigradi nei prossimi decenni. A meno che non ci siano riduzioni immediate, rapide e su larga scala delle emissioni di gas serra, limitare il riscaldamento a circa 1,5 o addirittura 2 gradi centigradi sarà un obiettivo fuori da ogni portata. Lo studio mostra che le emissioni di gas serra provenienti dalle attività umane sono responsabili di circa 1,1 gradi di riscaldamento rispetto al periodo 1850-1900. Mediamente nei prossimi 20 anni, la temperatura globale dovrebbe raggiungere o superare 1,5 gradi di riscaldamento. "Questo rapporto è un riscontro oggettivo", ha detto la copresidente del Gruppo di Lavoro I dell'Ipcc, Valérie Masson-Delmotte. "Ora abbiamo un quadro molto più chiaro del clima passato, presente e futuro, che è essenziale per capire dove siamo diretti, cosa si può fare e come ci possiamo preparare". Con 1,5 di riscaldamento globale, ci si attende un incremento del numero di ondate di calore, stagioni calde più lunghe e stagioni fredde più brevi. Con un riscaldamento globale di 2 gradi, gli estremi di calore raggiungerebbero più spesso soglie di tolleranza critiche per l'agricoltura e la salute. Il rapporto dell'Ipcc mostra che le attività umane hanno ancora il potenziale per determinare il corso del clima futuro. È chiara l'evidenza scientifica, dice l'Ipcc, che mostra che l'anidride carbonica (Co2) è il principale motore dei cambiamenti climatici, anche se altri gas serra e inquinanti atmosferici contribuiscono a influenzare il clima. La riduzione delle emissioni di Co2 porterà effetti positivi sulla qualità dell'aria, osservabili su una scala temporale di alcuni anni. Diversamente, gli effetti sulla temperatura del pianeta saranno visibili solo dopo molti decenni. Da qui l'estrema urgenza di interventi tempestivi e sostanziali per la riduzione delle emissioni clima-alteranti. In questo Rapporto, vengono simulati cinque possibili scenari con il relativo clima del futuro che descrivono contesti in cui non vi è alcuna sostanziale mitigazione rispetto alle emissioni di Co2, un contesto intermedio, con mitigazione modesta e contesti che descrivono scenari a basso contenuto di Co2 con emissioni nulle raggiunte nella seconda metà del 21/o secolo. È atteso che la temperatura superficiale globale continuerà ad aumentare almeno fino alla metà del secolo in tutti gli scenari di emissioni considerati La temperatura superficiale globale della Terra continuerà ad aumentare almeno fino alla metà del secolo corrente. I livelli di riscaldamento globale di 1,5 e 2 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali saranno superati entro la fine del 21/o secolo a meno che nei prossimi decenni non si verifichino profonde riduzioni delle emissioni di Co2 e di altri gas serra. Nello scenario con le emissioni di Co2 valutate più basse, cioè con una diminuzione delle emissioni globali di gas serra dal 2020 in poi e il raggiungimento di emissioni nette di Co2 pari a zero negli anni 2050, il riscaldamento globale durante il 21/o secolo è estremamente probabile che possa rimanere al di sotto dei 2 gradi. Negli scenari con elevate emissioni di Co2, si prevede che la capacità di assorbimento del carbonio da parte degli oceani e degli ecosistemi terrestri diventerà meno efficace nel rallentare il tasso di crescita della Co2 atmosferica. Molte delle variazioni già osservate nel sistema climatico, fra cui aumento della frequenza e dell'intensità degli estremi di temperatura, ondate di calore, forti precipitazioni, siccità, perdita di ghiaccio marino artico, manto nevoso e permafrost, diventeranno più intense al crescere del riscaldamento globale. Si può affermare che ogni mezzo grado di riscaldamento globale provoca un aumento chiaramente percepibile della frequenza e della durata di estremi di temperatura (ondate di calore), dell'intensità delle precipitazioni intense e della siccità in alcune regioni del pianeta.

Pale e pannelli non fanno l’Italia bella: la Costituzione dà energia al paesaggio. LA MIA VENTENNALE BATTAGLIA CONTRO GLI OBBROBRI DEI LUOGHI E DEI PANORAMI. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud l'1 agosto 2021. Dispiace che i lettori del “Quotidiano del Sud” siano costretti a soffrire la traduzione in lingua istituzionale dei pensieri che io ho fatto espresso nell’arco di più di 20 anni in difesa del paesaggio italiano contrastando la speculazione criminale, in molti casi sostenuta dalla mafia delle cosiddette energie rinnovabili per le quali sulla stampa Paolo Vineis interroga il ministro Cingolani. Tra le domande che Vineis, professore di epidemiologia ambientale a Londra, pone al ministro sono vitali la terza: “in quale conto si terranno valori come il paesaggio e i beni culturali? Che cosa verrà incluso e che cosa verrà escluso dai siti prescelti?”; la quinta: è stata effettuata una ricognizione ( o se necessario la ricerca sistematica ) di tutte le potenziali soluzioni che tengano conto dell’impatto paesaggistico? “; la settima: “in quale conto si terranno le disuguaglianze sociali? E’ infatti elevato il rischio che pale eoliche e pannelli solari saranno particolarmente concentrati nelle zone più socialmente deprivate”; infine l’ottava, con una proposta semplice e intelligente:” è giusto usare prioritariamente aree già edificate (tetti, e in particolare quelli degli edifici più recenti e di quelli industriali), aree industriali e abbandonate, cave, aree marginali e degradate?” e con un dubbio: “non vi è in questo modo – almeno in parte-una moltiplicazione del degrado? Per questo, come risposta del Parlamento, ho indirizzato ai ministri competenti e al Presidente Draghi, che avevo informato, un ordine del giorno, firmato anche dal collega Dario Bond, che impegna il governo a garantire la tutela, prevista dalla Costituzione, del paesaggio. È la prima volta che contro la selvaggia aggressione, consentita dallo Stato e dagli Enti locali, si richiamano i principi fondamentali per la tutela di valori spirituali, prima che materiali. Il paesaggio è un patrimonio dell’anima, è una identificazione dello spazio di appartenenza, e tiene in sé la memoria storica dei luoghi dove si è vissuti. Trasformarlo o alterarlo è un delitto. Ecco il testo dell’ordine del giorno: “A.C. 3146-A Ordine del giorno La Camera, Considerato che:

la tutela del paesaggio, inteso come elemento di riferimento identitario e di ritrovo dei propri valori culturali ai sensi della Convenzione Europea del Paesaggio, CEP 2000) è inserita tra i principi fondamentali della Costituzione italiana all’articolo 9;

la Corte costituzionale dopo avere forgiato il concetto della primarietà del valore estetico-culturale del paesaggio, ha stabilito che la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo (sentenza n. 85/1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria, dunque non divisibile;

coerentemente con quanto affermato dalla Consulta, il regolamento europeo n. 2021/241 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 con il quale si istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza, fondamento del provvedimento in esame, prescrive che le misure del PNRR devono proteggere gli ecosistemi senza produrre alcun danno ambientale;

il Paesaggio italiano non si limita alle aree protette, ma si estende a molte parti del territorio nazionale, che sia naturale o creato da generazioni di sapiente lavoro dei nostri predecessori, sia in ambito agricolo che edilizio. Non a caso il Presidente della Repubblica, nel domandarsi: “quante volte abbiamo ascoltato il vocabolo “bellezza” associata a “Italia”, ha osservato che “il disegno dell’art. 9 della Costituzione è di straordinaria importanza, perché non solo prescrive un dovere per i pubblici poteri, ma sprona ogni singolo cittadino a farsi carico in modo attivo della bellezza del nostro Paese”; con riferimento alle attività necessarie per la realizzazione delle opere connesse al PNRR il provvedimento in esame contiene diverse disposizioni che attenuano la protezione del Paesaggio italiano, stabilendo tempi più ristretti per gli iter autorizzativi, comprimendo i poteri del Ministero della cultura e sopprimendo il parere vincolante delle Soprintendenze per le aree contermini a quelle protette, estendendo, in favore degli impianti di generazione energetica da fonte rinnovabile, sia le aree in cui possono essere installati, sia il concetto della loro pubblica utilità, il quale diviene prevalente sugli altri interessi pubblici;

autorevolmente ci si è domandati se l’idea di “transizione ecologica” non rischi di fagocitare la funzione di tutela del Paesaggio, presa nella trappola logica del “pensare globale, agire locale” (lo slogan degli ambientalisti industriali) in forza della quale si sacrifica, qui e ora, la bellezza dei paesaggi italiani in nome di una speranza, futura e incerta, di riduzione planetaria dei gas a effetto serra;

destano preoccupazione le parole recentemente pronunciate dal Ministro competente, che “la transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue” sia in termini di vulnus al Paesaggio che di oneri a carico dei cittadini. Peraltro occorre rilevare il paradosso che nel mentre si lavora per inserire l’ambiente in Costituzione lo si esclude da una specifica tutela ministeriale, diventando, sia la difesa delle aree protette che quella della biodiversità, una mera questione di transizione ecologica;

occorre infine rilevare che il Paesaggio è anche una risorsa economica, in quanto influisce sulla funzione turistico ricreativa del territorio, contribuisce a creare l’immagine locale (marketing territoriale) e influenza il benessere dei residenti, sia in termini di salute, che di qualità della vita, che di valore delle attività economiche e delle proprietà immobiliari;

impegna il Governo ad assicurare in sede di attuazione del PNRR la massima attenzione alla tutela del valore del Paesaggio italiano, inteso come bene identitario nazionale diffuso e non limitato alle aree espressamente protette, prevedendo la massima trasparenza e il pieno coinvolgimento delle comunità locali nelle decisioni sui procedimenti relativi alle opere attuative del Piano che impattano sul loro territorio, nel rispetto della Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, ratificata con legge 16 marzo 2001, n. 108; sull’accesso alle informazioni e la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali in materia ambientale.”.

Per i lettori meridionali ciò di cui parlo è molto evidente, per la sistematica violenza che la diffusione delle pale eoliche ha imposto nelle loro terre, sfigurandole per sempre in Puglia e in Sicilia, mentre, nelle zone in cui io ho combattuto, tra Salemi Mazara del Vallo e Marsala, imperversano con una criminale diffusione. In Sicilia sono centinaia i progetti di parchi fotovoltaici che copriranno porzioni di territorio coltivabile con gli specchi solari sacrificando le produzioni agricole. A breve nasceranno due grandi parchi agro-fotovoltaici, uno nei pressi di Gela, e uno a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. I parchi eolici hanno modificato per sempre lo skyline dell’isola. La stessa cosa hanno fatto anche i parchi fotovoltaici. Distese di grano trasformate in enormi specchi per catturare i raggi solari e trasformarli in energia. Ma la corsa al sole e al vento ha prodotto, tra le altre cose, due controindicazioni: terreni destinati alla produzione agricola sono stati trasformati in altro, con un mercato dei prodotti che ne ha fortemente risentito. I proprietari di terreni hanno preferito vendere o affittare per i parchi eolici e fotovoltaici anzichè continuare a coltivare. E poi c’è l’aspetto più propriamente energetico. Tutta questa energia prodotta, dove va a finire? Non è una domanda di poco conto, perchè, come è stato acclarato in diversi studi,la rete siciliana è satura. Gli impianti fotovoltaici al posto del grano, degli olivi, della vite e degli agrumi. Per Giuseppe Li Rosi sono oltre 400 i progetti di impianti fotovoltaici proposti da ditte straniere in Sicilia, e “quasi tutti verranno approvati perché non esistono regole serie per la salvaguardia del paesaggio, dell’ambiente, dei terreni agricoli e dell’economia isolana. Questo accade perché ormai gli agricoltori sono all’ultima spiaggia: vendere o affittare le loro terre per dar da mangiare alle famiglie”. E lo Stato dov’è? Si nasconde dietro l’autonomia della Regione? E l’Europa? Ma non fu Goethe a dire: “L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita“? Venisse oggi vedrebbe la distruzione di tutto questo, e la sua Germania complice della violenza.

Città più inquinate d'Europa: tra le prime 10, 4 sono italiane. Ecco come inquinare meno. Le Iene News il 22 giugno 2021. Secondo la classifica pubblicata dall’Agenzia Europea dell’ambiente, tra le 10 città più inquinate d’Europa nel periodo 2019-2020 ben quattro sono italiane: Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza. Con la nostra Nadia Toffa vi avevamo dato tanti piccoli consigli per inquinare meno: ognuno può fare la propria parte. Pagella davvero non lodevole per l’Italia quella che arriva dall’Agenzia Europea dell’ambiente. Nella graduatoria delle 10 città più inquinate d’Europa, ben quattro sono italiane: Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza, tutte nella Pianura Padana. Il rapporto prende in considerazione la concentrazione di polveri sottili misurate tra il 2019 e il 2020 e classifica le città sulla base dei livelli medi di particolato fine (PM2,5). Dai dati, raccolti in 323 città, emerge che in 127 città i livelli di particolato fine nel periodo di riferimento erano inferiori ai limiti fissati dall’Oms, che ha indicato 10 microgrammi di PM2,5 ogni metro cubo d’aria come soglia consentita. La qualità dell’aria è considerata molto scarsa quando a lungo termine i livelli di PM2,5 sono pari o superiori a 25 microgrammi per metro cubo. Ma veniamo alla classifica. Cremona occupa il secondo posto, dietro solo alla città di Nowy Sacz, in Polonia. La seconda città italiana che compare nella classifica è Vicenza. Per quanto riguarda le città europee più pulite, le prime tre sono state Umeå (Svezia), Tampere (Finlandia) e Funchal (Portogallo). Del problema dell’inquinamento in Italia vi avevamo parlato già nel 2018 con la nostra Nadia. Abbiamo intervistato Simone Molteni, ingegnere che da anni si occupa di sostenibilità. “Noi abbiamo un impatto ambientale enorme senza accorgercene”, ci ha detto. Tanti piccoli gesti quotidiani, infatti, possono avere un impatto sull’ambiente di cui magari non siamo neppure consapevoli. Un esempio? Mangiando una ciliegia fuori stagione, si spiega nel servizio che potete vedere qui sopra, si inquina 100 volte di più che a mangiare una mela di stagione. Per fare un paragone, 1 Kg di ciliege che arriva dall’altra parte del mondo per soddisfare un nostro sfizio, inquina in termini di Co2 come prendere la propria auto e fare la tratta Milano-Bologna. Nadia Toffa, con l’aiuto di due ingegneri specializzati, ci ha raccontato tanti piccoli consigli per inquinare meno senza nessuno sforzo: dalla frutta che scegliamo durante l’anno al riscaldamento e raffreddamento eccessivo degli ambienti fino allo spreco alimentare e i trasporti. Ognuno può fare la propria parte.  

Gabriele De Stefani per “la Stampa” il 4 giugno 2021. Arrivi un giorno in azienda e per un microprocessore che un anno fa costava tre dollari e mezzo te ne chiedono 817,90. Calcolare la percentuale di rincaro è un puro esercizio di stile, la sostanza è che così non si può lavorare: «Siamo stati costretti a fermare la linea produttiva per una settimana, finché non abbiamo trovato il microchip a 40 dollari, comunque un prezzo altissimo» dice Giordano Riello, che con la sua NPlus a Rovereto produce schede elettroniche. È la grande crisi delle materie prime: da mesi introvabili e schizzate a livelli record per il combinato disposto della ripresa, dell'aumento della domanda, dell'inflazione e della storica iniezione di soldi pubblici nell' economia. E le prospettive, dicono gli analisti, non sono incoraggianti: i rincari proseguiranno per un altro anno e mezzo. La manifattura si arrangia come può, tra fermate, cali dei margini e ripercussioni sui prezzi proposti ai clienti. «Noi lavoriamo con materiali ferrosi e plastica - spiega Giorgio Luitprandi della Edilmatica, che a Mantova produce prefabbricati per l'edilizia -. Siamo in difficoltà, l'ultima sorpresa pochi giorni fa. All' improvviso una mail da un fornitore: "Non rispettiamo le consegne previste, possiamo darvi solo materiali di minore qualità". Stiamo correndo il rischio di perdere clienti, non ci sono alternative e non possiamo scaricare tutto sui prezzi. Ed è impossibile programmare a sei mesi come eravamo abituati, al massimo si ragiona su qualche settimana». Se far pagare tutto ai clienti fa finire fuori mercato, la sponda non arriva da chi sta a monte della catena: «Si è creata una bolla speculativa tra i fornitori - ragiona Francesco Frezza, industriale del legno di Bari -, noi abbiamo dovuto annullare contratti già firmati, era impossibile rispettarli con prezzi schizzati da 400 a 800 euro al metro cubo e con gli imballaggi rincarati del 30-40%. Procediamo con accordi settimanali sperando di spuntare di volta in volta condizioni migliori, e tutti ci propongono consegne non prima di settembre-ottobre». Basta poco per perdere i clienti: «Magari un concorrente cinese che la materia prima ce l'ha in casa, visto che siamo tutti dipendenti da loro - si sfoga Riello -. Pechino arriva a mettere i dazi in uscita, sono manovre per indebolire i mercati occidentali a cui dovremmo rispondere. Servono interventi a livello europeo per proteggerci». L' inflazione pesa anche sull' agroalimentare: a maggio + 40% per le commodities, dice la Fao. Record dal 2011. Le cause e gli scenari I numeri dicono che il petrolio è ai massimi da due anni e che in dodici mesi il rame è rincarato di quasi il 150%, alluminio e nickel circa del 70%. «È uno scenario che ha origine soprattutto nel ciclo macroeconomico - spiega Daniela Corsini, senior economist della Direzione Studi e Ricerche di Intesa San Paolo -. Da una parte c' è la ripartenza che dalla Cina si è estesa a tutto il mondo e ora ai servizi, dall' altra le politiche fiscali che hanno portato grandi iniezioni di liquidità in tutto il mondo occidentale, per redistribuire il reddito dopo la pandemia. In più a spingere l'inflazione ha contribuito la svalutazione del dollaro». Dinamiche rafforzate da fenomeni più transitori e legati alla pandemia: «Ne individuiamo due - prosegue Corsini -. Il primo è l'improvviso cambiamento dei consumi, che ha spinto il packaging, e dunque carta e plastica, e l'immobiliare negli Usa, che ha fatto impennare la domanda di legno. Il secondo sono i colli di bottiglia a trasporti e produzione: il distanziamento sociale ha frenato molti siti produttivi, come le miniere, mentre i bassi livelli di scorte decisi nei mesi dei lockdown rendono ora meno rapida la risposta nelle consegne. Per questo spesso non si rispettano le consegne nonostante i prezzi elevatissimi». Il mix di variazione dei consumi e magazzini svuotati sta tutto nel caso dei microchip introvabili: quando le case automobilistiche hanno cancellato gli ordini durante i lockdown, i produttori asiatici si sono spostati sui chip per l'informatica e ora, con il mercato in ripresa, manca quel che serve all' automotive, in attesa che i fornitori si riallineino. Secondo le previsioni del centro studi di Intesa, le imprese dovranno stringere i denti ancora per un anno e mezzo: «Gli investimenti pubblici in infrastrutture e transizione verde manterranno alta la domanda e quindi i prezzi - aggiunge Corsini -. Penso soprattutto ad acciaio e rame, che non è sostituibile nei processi di elettrificazione e soffre anche i freni alla produzione in America Latina, dove c' è un rinnovato interesse per i temi ambientali. Penso anche a energia e gas: è fortissima la concorrenza dell'Asia, che vuole ridurre le emissioni e cerca gas naturale. Le aziende devono prepararsi a convivere con i rincari, non si tornerà ai livelli del 2019». È l'altra faccia della svolta green: la domanda si concentra sulle materie prime e le fonti energetiche che devono alimentarla, facendo correre le quotazioni. E, nei prossimi mesi, anche le bollette delle imprese: previsti aumenti per i diritti di emissione di anidride carbonica.

DALLA MUCCA PAZZA AGLI ALLEVAMENTI INTENSIVI. UN BLOCCO PADANO, RETROGRADO E VORACE, IMPEDISCE LA SVOLTA GREEN. Pietro Fucile l'1.04.2021 su movimento24agosto.it. Chi non è giovanissimo ricorderà il clima da psicosi che, vent’anni fa, generò la scoperta dell’encefalopatia spongiforme bovina nella “vacca 103” della cascina Malpensata di Pontevico, nella Bassa Bresciana. Era il tempo della “Mucca Pazza”, animale biologicamente erbivoro e invece nutrito con farine animali, oggi vietate. Una crisi economica per la filiera della carne più che un’emergenza sanitaria vera e propria che, per il clamore e per l’interesse che suscitò, può essere accreditata quale chiave di volta di una più generale consapevolezza e attenzione rispetto al cibo che mangiamo. Da quella vicenda derivarono importanti misure a tutela della sicurezza alimentare, ma non venne messo in discussione un modello che, ancora oggi, principalmente con gli allevamenti intensivi, ha per cardine la massimizzazione del profitto a discapito della salute e dell’ecosistema. Da allora molte inchieste se ne sono occupate e, mostrando in Tv la miserrima vita da cloni a cui sono condannati milioni di animali, hanno indotto una fetta di cittadinanza (ancora largamente minoritaria) a comportamenti alimentari eticamente conseguenti. Ma, anche a voler tenere l’etica un po’ da parte, ci sarebbero molte ragioni, meno incisivamente raccontate, che consiglierebbero di procedere verso un’immediata e radicale trasformazione del settore zootecnico. Uno studio dell’Ispra ha certificato che gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di inquinamento per “polveri sottili”, arrecando più danni di quelli che fa l’industria. Per l’unità investigativa di Greenpeace le emissioni di gas serra degli allevamenti intensivi rappresentano in Europa il 17 per cento delle emissioni totali, pari a quelle di tutte le automobili, i furgoni e le moto messe insieme. Per produrre proteina animale occorre un quantitativo di acqua sei volte superiore rispetto a quanta ne occorre per la proteina vegetale, vale a dire che per fare un hamburger ci vogliono quasi 3.000 litri di acqua. Può poi tacersi, in piena pandemia, il ruolo ben riconosciuto svolto da questo tipo di allevamento nella diffusione di infezioni virali simili al Covid? Si stima che tre quarti delle malattie infettive abbia origine animale e le specie allevate trasferiscono all’uomo un numero straordinario di virus. Un recentissimo studio di Demetra, ci ha dato conto di quanto sia diventato insostenibile il costo della carne: oltre il prezzo sullo scontrino, ci sono 36 miliardi di “costo nascosto”, 19 euro per ogni chilo, corrispondente al valore economico dei danni ambientali e di quelli sanitari. Per avere un ordine di grandezza, si tratta di una cifra che in Italia è equivalente alla somma di tre imposte: quella sull’energia elettrica (14,4 miliardi), l’addizionale regionale (11,8 miliardi), e quella sui tabacchi (10,5 miliardi). Tuttavia, la ricca lobby degli allevatori, massimamente concentrata in Lombardia, è riuscita a saldare i propri interessi a quelli di un blocco politico del Nord la cui più forte rappresentanza risiede nella Lega Nord, divenendo con esso un blocco elettoralmente egemonico, capace di intercettare le cospicue sovvenzioni nazionali e i generosi sussidi provenienti dall’Ue e parallelamente impedire qualsiasi ipotesi di ragionevole transizione verso una produzione di carne ecosostenibile. In barba ad ogni evidenza, sono molti i paladini padani degli allevamenti intensivi, così come dell’agricoltura industriale. Ed è istruttiva la consultazione del seguitissimo blog del leghista bresciano Fabio Rolfi, titolare dell’assessorato all’Agricoltura della Regione Lombardia, che tra interventi dal sapore propagandistico e prese di posizione contro i migranti, infila con sistematicità contributi che minimizzano e scherniscono le tesi, ampiamente dimostrate, degli ambientalisti, ridotti da Rolfi ad “estremisti ideologici”. Non c’è speranza di svolte green, non c’è la possibilità di poter ridurre l’impatto ecologico. Nessuna persona ragionevole può essere interessata a lasciare queste questioni nelle mani di un blocco padano, retrogrado e vorace, sempre pronto a sacrificare sull’altare del (proprio) “profitto”, sia l’Ambiente che la Salute delle persone, come anche il Futuro di tutti.

Il climatismo, una catastrofica ideologia. Riguardo il grande tema della sostenibilità vorrei riprendere in mano un libro controcorrente di Mario Giaccio che si intitola Il climatismo: una nuova ideologia (21º Secolo editore). Nicola Porro, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Riguardo il grande tema della sostenibilità vorrei riprendere in mano un libro controcorrente di Mario Giaccio che si intitola Il climatismo: una nuova ideologia (21º Secolo editore). Scrive bene il prefatore professor Umberto Crescenti che con l'approvazione del COP21 di Parigi nel 2015 si «è raggiunto un accordo storico con la fine dell'era dell'energia fossile a vantaggio delle fonti di energie pulite e rinnovabili». In linea con le richieste dell'intoccabile e indiscubile IPCC sostenitore delle ragioni antropiche (cioè è colpa solo dell'uomo) del riscaldamento globale. Il riscaldamento globale porterà a distruzioni inaudite (peggio del Covid senza mascherina e vaccini) e gli unici disastri che non hanno legato al riscaldamento, ricorda il nostro geologo, sono terremoti e maremoti: per il resto è tutta colpa dell'anidride carbonica prodotta dall'uomo. Lo stesso padre del concetto di riscaldamento globale, James Hansen, ritenne quell'accordo «un falso» sia nelle premesse sia nelle soluzioni. La cosa finirebbe con una disputa tra esperti, se queste intese internazionali, che se non rettificano gettano gli Stati e i loro leader nel girone infernale dei negazionisti, non costassero un mucchio di quattrini. Non vogliamo qui entrare nelle numerose prove che Giaccio riporta dell'alternanza di riscaldamenti e raffreddamenti nella recente era terrestre, e tanto meno nelle numerose bugie, truffe e censure che hanno riguardato questa criminalizzazione dell'attività umana da parte dei grandi organismi Onu. Resta il principio ideologico: si ritiene che non possa che andare a finire così. Ci permettano di accostare l'ideologia della climatologia catastrofista a quella marxiana dell'ineluttabilità della morte del capitalismo. È dal 1848 che si prevede e non è mai accaduta. È almeno dagli anni '70, dal Club di Roma, che si pronostica la fine del mondo fossile e si inocula la colpa nello spirito dell'uomo. Eppure le cose non sono andate nei tempi pronosticati. Ma ciò che oggi maggiormente ci interessa, pazzi dell'idea di mettere un mucchio di quattrini europei per la sostenibilità (etichetta dai mille contenuti) e innamorati di ministeri green, è il seguente profetico passaggio: «Con il pretesto della sostenibilità ogni aspetto della nostra vita sarà regolato e controllato da esponenti della finanza e tecnocrati. Il protocollo di Kyoto propone la costruzione di mostri burocratici nazionali e sovranazionali, che dovrebbero razionare le emissioni e di conseguenza l'attività economica mondiale, con restrizioni obbligatorie e sanzioni Ovviamente il climatismo è uno strumento per effettuare prove generali di un governo globale, ovviamente monocratico e non sussidiario». La prima edizione di questo libro è stata scritta nel 2015: non sapevano che sarebbe arrivato il virus che ha portato più velocemente i medesimi risultati. Se dovesse scomparire, ci penserà la sostenibilità. Preoccupiamoci.

Gli integralisti dell'ecologismo. Chicco Testa il 20 settembre 2020 su Il Foglio. Salvare il pianeta significa innovare e guardare avanti, non rottamare gli ultimi 50 anni di benessere. Riflessioni sui danni creati dal catastrofismo ambientalista. La natura è una grande macchina che produce vita e morte. Fa nascere e fa morire. Tutto: dal piccolissimo al grandissimo. Dai batteri alle galassie. Si nasce e si muore ed è solo una questione di tempo. Ottant’anni e rotti per un uomo o una donna occidentali (in media), 4,5 miliardi di anni (da adesso) per il Sole (tanto per fare un esempio). Da questa macchina abbiamo molto da imparare e molto da capire. Ma non è una macchina né giusta, né buona, né bella. Questi sono giudizi e proiezioni umani. La natura di noi non si cura. Va avanti e basta. E quando la si usa per giustificare comportamenti, giudizi e valori si producono errori e talvolta tragedie. La lunga storia della specie umana è contraddistinta invece dagli sforzi continui per superare i limiti imposti dalla natura. E’ un lungo viaggio dal naturale all’artificiale. E lo abbiamo fatto grazie alla nostra intelligenza e soprattutto alle tecnologie sempre nuove di cui disponiamo.

I danni dell’ambientalismo catastrofico in un libro di Chicco Testa. Ernesto Auci il 25 Settembre 2020 su firstonline.info. “Elogio della crescita felice – Contro l’integralismo ecologico”, edito da Marsilio, è il titolo del nuovo libro di Chicco Testa, che stronca i tanti luoghi comuni di un ambientalismo tutto ideologico e contro il progresso scientifico, che non difende affatto la natura. Chicco Testa è stato uno dei primi ambientalisti italiani. Già negli anni ’70 era presidente di Legambiente, poi è stato deputato e presidente dell’Enel. Ha sempre seguito i problemi dell’inquinamento, dell’energia, dello smaltimento dei rifiuti vedendo crescere un irrazionale atteggiamento ambientalista basato sulla colpevolizzazione dell’uomo, del progresso scientifico e tecnico, una ideologia che sogna un ritorno al buon mondo antico. Una utopia non solo impossibile ma anche non desiderabile perché porterebbe ad un generale impoverimento degli abitanti della terra ed una drastica riduzione del loro numero. Per contestare questa ondata di luoghi comuni, che purtroppo sta conquistando anche una parte importante della classe dirigente, Chicco Testa ha scritto un nuovo libro (dopo quello di qualche anno fa intitolato in maniera provocatoria “Contro la Natura”) che prende di petto fin dal titolo uno dei tic ambientalisti più diffusi e più deleteri, quello della “decrescita” ritenuta indispensabile per distruggere meno beni primari e ridare equilibrio alla natura maltrattata dallo sfrenato consumismo dell’uomo. Il titolo infatti è “Elogio della crescita felice. Contro l’integralismo ecologico”, edito da Marsilio, da qualche giorno in libreria. Il libro dimostra con riferimenti storici precisi e con statistiche incontrovertibili sugli effetti di certi provvedimenti ambientalisti, che certe teorie estremistiche non solo sono sbagliate dal punto di vista sociale, ma quando sono state applicate, anche parzialmente, hanno condotto a risultati opposti a quelli desiderati o, quantomeno, hanno provocato un notevole spreco di risorse che poi i cittadini, in un modo o nell’altro sono stati chiamati a pagare. Basti ricordare, ad esempio, l’eccesso di incentivi dato alle rinnovabili che costano agli italiani nella bolletta elettrica, circa 15 miliardi l’anno. In conclusione il libro dimostra che non c’è contraddizione tra la salvaguardia dell’ambiente e la crescita economica e sociale. E che anzi questa conciliazione può avvenire solo in società democratiche, aperte verso il resto del mondo, dove si realizza una corretta integrazione dei compiti tra gli interventi dello Stato e l’agire del mercato e degli imprenditori. Un libro quindi da leggere se si vuol partecipare alla costruzione del nostro futuro come cittadini responsabili e non disposti a farsi prendere per i fondelli dai venditori di paure. È l’esatto contrario di quello che sembra essere il sentire comune della gente trascinata verso un confuso sentimento ambientalista da una élite politica e religiosa non si sa quanto sinceramente preoccupata dei destini del mondo e quanto spinta cinicamente a cavalcare le paure delle persone che sentono di non avere più il controllo di fenomeni così generali da risultare poco comprensibili. Ecco allora che la globalizzazione, le multinazionali, le stesse innovazioni scientifiche suscitano paure o nel migliore dei casi appaiono portatrici di grandi incertezze. Questa corsa verso l’ignoto, secondo il sentire comune, sta consumando una gran quantità di risorse naturali che non possono essere rimpiazzate, e che per di più danno luogo all’inquinamento e portano cambiamenti climatici che generano ansia sul futuro della umanità intera. Il libro di Chicco Testa è una serrata requisitoria contro le credenze più diffuse e i luoghi comuni dell’ambientalista collettivo, cioè di quel diffuso sentimento che fa credere a tutti di essere buoni e amici della natura. Si parte dalla dimostrazione che i secoli passati non erano affatto più felici di quelli attuali. La povertà coinvolgeva oltre il 90% della popolazione, le malattie falcidiavano grandi e piccini, della libertà nemmeno a parlarne. Ora, specie negli ultimi 70 anni abbiamo compito progressi enormi non sono in campo economico, ma anche nel sociale e nel politico. La povertà, ad esempio, è scesa a circa il 10% della popolazione mondiale, aumentata da qualche centinaio di milioni o 7,5 miliardi. Coloro che danno la croce addosso al nostro recente passato o sono ignoranti o sono in mala fede. Poi si criticano le battaglie che negli ultimi anni hanno caratterizzato l’ambientalismo catastrofico: dalla lotta alla plastica, all’opposizione al TAP, alla battaglia contro l’olio di palma, per finire in questi giorni, all’opposizione contro il 5G. Si ricorda poi quanto fatto contro il glisolfato in agricoltura, la crociata contro gli OGM, per arrivare all’opposizione alla ricerca di idrocarburi in adriatico (mentre in altre parti del Mediterraneo si possono fare), e alla contrarietà a qualsiasi impianto per il trattamento dei rifiuti proprio mentre si invoca a gran voce la necessità dell’economia circolare, cioè del riciclo dei nostri rifiuti. E naturalmente, non si trascura il nucleare verso il quale c’è, specie in Italia, una opposizione totale, quanto immotivata e disinformata. Nessuna di queste battaglie ambientaliste ha un fondamento scientifico, anzi tutti gli studiosi del mondo hanno detto che l’olio di palma non arreca nessun danno, che la tubatura del gas che passa sotto le spiagge pugliesi non sono pericolose e neanche si vedono. E così via per ognuno dei temi sollevati dai “comitati del NO” che hanno paralizzato l’Italia. Purtroppo a diffondere un eccessivo allarmismo ambientalista non c’è solo Greta Thumberg, ma anche Papa Francesco si è fatto prendere la mano affermando che l’uomo sta rovinando il creato, e che deve espiare i propri peccati ripristinando la Natura così come Dio l’ha creata. Dimenticandosi di ricordare che sono secoli, se non millenni, che l’uomo cerca di addomesticare la natura per proteggersi e per trarre da essa mezzi per il proprio sostentamento. Gli Egizi hanno imbrigliato le acque del Nilo per avere raccolti più abbondanti. Questo non vuol dire che non dobbiamo fare nulla per salvaguardare l’equilibrio ambientale, ma bisogna fare le cose giuste, non inseguire utopie distruttive. E la strada giusta c’è già. Si è visto che il primo nemico dell’ambiente è la povertà. Sono le società dove il benessere è diffuso e dove c’è la ragionevole prospettiva di una crescita continua, quelle che più hanno fatto e stanno facendo per combattere l’inquinamento e contenere le emissioni di gas clima alteranti. Bisogna avere fiducia nella scienza e nelle tecnologie che ci daranno una mano per conciliare l’aumento della produzione e quindi del benessere di tutti i cittadini, con la riduzione delle materie prime consumate. Le ultime pagine del libro contengono una rapida rassegna dei progressi scientifici già in atto o prevedibili a breve, che sembrano proiettarci in un film di fantascienza e che invece sono già realtà. Non è quindi contrastando il progresso che si salverà l’ambiente, ma proprio continuando ad investire e a studiare, che potremo assicuraci un futuro prospero e con un buon equilibrio naturale.

Ernesto Auci. Nato a Roma il 9 febbraio 1946 diventa giornalista professionista nel 1970. Dopo una breve esperienza iniziale a Il Globo si trasferisce a Milano a Il Sole 24 Ore dove rimane fino al 1980 raggiungendo la qualifica di vice direttore. Dopo un passaggio all'Europeo ed a Il Mattino di Napoli, nel 1984 diventa responsabile delle relazioni esterne di Confindustria con la presidenza Lucchini. Nel 1992, al termine della presidenza Pininfarina,si trasferisce alla Fiat come responsabile della comunicazione. Nel 1997 diventa direttore del Il Sole 24 Ore di cui nel 2001 assume l'incarico di amministratore delegato. Nel 2003 assume la carica di amministratore delegato di Itedi e de La Stampa e nel 2005 passa alla Fiat come responsabile dei rapporti istituzionali.

Chicco Testa: povertà peggiore inquinatore, no all’integralismo ambientalista. Affari Italiani Giovedì, 8 ottobre 2020. Politico, manager, professore: secondo Enrico Testa la plastica, il petrolio, gli impianti sono i falsi miti degli ambientalisti.

Elogio della crescita felice, contro l'integralismo ecologico. La decrescita, un disastro. Petrolio, difficilissimo sostituirlo. Plastic free, uno slogan stupido e diseducativo. "Io sono per un ambientalismo che poggi sulla ricerca scientifica, sullo sviluppo tecnologico e sulla capacità di trasformare la nostra industria in maniera positiva". Così all'AdnKronos Chicco Testa parla del suo ultimo libro, "Elogio della crescita felice. Contro l'integralismo ecologico" (Marsilio), il cui messaggio, dice, "è quello di Indira Gandhi: è la povertà il peggiore inquinatore". "La decrescita è un disastro, lo abbiamo visto in questo periodo - spiega Testa - crea problemi sociali e mette in secondo piano i problemi ambientali, perché quando il problema diventa sbarcare il lunario tutto il resto passa in secondo piano. Si può crescere in tanti modi facendo cose utili per tutti, e gli investimenti in ambiente e tecnologia possono essere una delle direzioni di questa crescita". L'Italia è pronta? "Sì, se investiamo nella direzione giusta e non buttiamo via i soldi, puntando a creare un output positivo usando meno risorse naturali. Come in agricoltura, dove oggi utilizziamo meno terreno di 50 anni fa per produrre una ricchezza molto maggiore". Dalla catastrofe pandemica all'emergenza ambientale, dalla crisi climatica alla crisi petrolifera, il libro di Testa vuole essere un invito a mettere da parte ideologie e luoghi comuni. Ecco qualche esempio, dal petrolio alla plastica per restare su alcuni dei temi al centro del dibattito attuale. Partiamo dal petrolio. "Non sta finendo tant'è che i prezzi scendono e se i prezzi scendono vuol dire che ce n'è tanto, casomai è la domanda che latita, al momento - dice Testa. Il petrolio non finirà per mancanza di petrolio così come l'età della pietra non è finita per mancanza di pietra, il petrolio c'è e in abbondanza, e sarà difficilissimo sostituirlo perché se nella produzione di elettricità ormai si usa pochissimo, nei trasporti, nella petrolchimica e nella farmaceutica le cose sono più complicate. La transizione dal petrolio è possibile se fatta con ragionevolezza ma richiederà molti anni". Plastic free, "uno slogan stupido e diseducativo che dà l'idea che si possa vivere senza plastica e che associa la plastica alle cannucce delle bibite. In realtà, gran parte dei manufatti che ci circondano hanno al proprio interno plastiche di varia natura e genere che hanno sostituito altri materiali, fortunatamente anche risorse naturali come avorio e tartaruga. In questo periodo di Covid abbiamo scoperto quanto la plastica sia utile, dalle mascherine agli imballaggi. Il bando della plastica dell'Ue si è limitato a una serie di oggetti che pesano forse lo 0,1% sul totale dei rifiuti, stiamo parlando di placebo, una cosa che fa pensare a una cura ma in realtà serve a poco o niente". "Non esiste un solo ambientalismo, altrimenti diventa una religione; per perseguire il bene dell'ambiente insieme con quello della specie umana bisogna decidere quali politiche adottare, quali scelte fare. È un ambientalismo senza senso quello di predicare la transizione verde e poi manifestare contro gli impianti di rinnovabili o di riciclo dei rifiuti". A queste teorie Chicco Testa, che si è occupato di temi ambientali prima alla guida di Legambiente e poi come presidente di Enel, oppone un punto di vista a sostegno del progresso scientifico ed economico, unico in grado di migliorare l'efficienza energetica, diminuire l'inquinamento atmosferico e garantire ricchezza e benessere per le generazioni future. Passando dai falsi miti dell'agricoltura biodinamica e della pericolosità degli Ogm a casi concreti come quelli di Ilva, Tap e 5G, l'autore offre un vademecum per difendersi dagli estremismi dell'ecologismo radicale e ribadire che il principale nemico dell'ambiente non è l'uomo, ma la povertà. Chicco Testa, politico, manager, già presidente di Legambiente e di Enel, è stato alla guida di diverse società. Deputato dal 1987 al 1994, scrive regolarmente sulle maggiori testate italiane, tra cui il Corriere della Sera e Il Foglio. Ha insegnato all'Università di Napoli e alla Luiss Guido Carli di Roma. Autore di vari Libri, con Marsilio ha pubblicato "Contro (la) natura. Perché la natura non è buona né giusta né bella" (con Patrizia Feletig, 2014) e "Troppo facile dire no. Prontuario contro l'oscurantismo di massa" (con Sergio Staino, 2017).

Papa Francesco, la stoccata di Chicco Testa: "Per lui l'uomo moderno è accecato dall'egoismo". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 13 ottobre 2020. C'è un ambientalista che ama la plastica, il nucleare, l'Alta Velocità, il gasdotto Tap, il glisolfato, il 5G e lo sviluppo economico. In compenso è vagamente allergico ai verdi italiani, non vuol prendere lezioni da Greta Thunberg, avrebbe da dire un paio di cose a Papa Bergoglio sul rapporto tra uomo e natura ed è convinto che il pianeta Terra non sia a rischio, almeno per qualche miliardo di anni. L'eretico si chiama Chicco Testa. Era presidente di Legambiente quando tutti i ragazzi del movimento gretino Friday for Future che il venerdì saltano la scuola per protestare in favore del verde dovevano ancora nascere. Ed era parlamentare di sinistra quando ancora c'era il Partito Comunista e i futuri progressisti si occupavano degli operai e non si alleavano con i teoreti della decrescita felice e i seguaci di Grillo, milionario che ama la povertà altrui. Testa ha scritto un libro, Elogio della crescita felice. Contro l'integralismo ecologico, che è un manifesto a favore dello sviluppo scientifico ed economico come unica strada per preservare l'ambiente e oppone riflessioni alte ed esempi concreti alla narrazione di moda che vede nel rallentamento del progresso l'unica via per evitare l'estinzione della nostra specie. «Molti ambientalisti mi ricordano la sinistra anni Settanta, dogmatici e settari, conformisti ed eternamente insoddisfatti, al punto da essere incapaci perfino di riconoscere i propri successi» spiega l'autore del libro, che non riesce a digerire l'insanabile contraddizione dei talebani verdi, i quali combattono la tecnologia nonostante essa sia la sola strada che può condurli al loro scopo, il rispetto della natura. «Avverti il bisogno della psicoanalisi (come quello per l'ambiente ) solo oltre un certo livello di reddito», Testa cita Gramsci. «Se sei povero, pensi a sfangarla, non all'ambiente. Tant' è che sono i Paesi più poveri quelli con il maggior tasso d'inquinamento. L'Europa produce meno 10% di CO2 nel mondo, in continua diminuzione, mentre India e Cina sono i più grandi appestatori del pianeta. Il nemico numero uno dell'ambiente è la povertà. Lo diceva Indira Ghandi nel 1972».

Presidente, perché ritiene che Greta Thunberg sia un testimonial negativo per l'ambiente?

«Non forse negativo, ma certo controverso. Ha mandato un messaggio potente di salvaguardia della natura, ma non corretto. È una ragazzina, non pretendo che abbia una visione olistica della situazione, però non si può lasciarle passare una condanna così violenta e inappellabile di quanto fatto finora dall'umanità. Greta nega i benefici del progresso, veicola una visione disperata, emette una condanna totale del mondo contemporaneo che dimentica gli enormi benefici che il progresso ci ha regalato».

È una piccola snob?

«Non se ne rende conto, ma è figlia della civiltà industriale che critica. La sua è una protesta, che non vede la fatica che ha fatto l'umanità per tirarsi fuori da una millenaria condizione di miseria. Io la penso come Obama, che agli studenti americani disse che accadono ogni giorno cose terribili, ma il mondo non è mai stato più nutrito e salubre e meno violento di oggi. E pieno di opportunità».

Cosa direbbe a Greta, se ce l'avesse davanti?

«Quello che dico ai miei figli: noi e i nostri padri abbiamo fatto un pezzo di strada, abbiamo migliorato la situazione; è vero, ci sono dei problemi, ma voi avete i mezzi per risolverli».

Lei non condivide neppure l'ambientalismo di Bergoglio.

«Fa un racconto della Terra e della natura che non tengono conto della storia e della scienza. Francesco descrive il pianeta come un dono di Dio, regalato perfetto e pulito all'uomo e che l'uomo moderno, accecato dall'egoismo, sta distruggendo. In realtà la Terra c'è da 4,5 miliardi di anni e l'uomo sapiens da 200mila. Prima della nostra comparsa ci sono state cinque estinzioni di massa nelle quali cataclismi naturali hanno sterminato fino al 90% delle specie viventi. Compresi i dinosauri, scomparsi 60/70 milioni di anni fa; e io dico per fortuna, altrimenti noi non ci saremmo. Quella di Francesco è una cosmologia magica e primitiva».

Presidente, vuole andare all'inferno?

«Ma no, però non posso condividere la visione panteistica della natura che il Vaticano trasmette. Nella dottrina cattolica, il primato e la responsabilità dell'uomo sul resto del pianeta sono sempre stati un assunto fondamentale e la personificazione della natura, quasi a dotata di anima, è ritenuto un concetto pagano».

Natura madre o matrigna?

«Quello della natura benefica è un mito. L'uomo, per sopravvivere, ha dovuto sempre combattere contro le forze della natura, che viene troppo spesso, erroneamente, confusa con l'ambiente. La natura non è né buona né giusta, non è un giardino regalatoci per farci stare bene. Anche i virus sono naturali. E ben più antichi di noi. Ma non mi pare che ci siamo movimenti per preservarli. Eppure svolgono anche essi una funzione. Hanno aiutato l'evoluzione».

Qual è l'errore, non teologico, di Bergoglio?

«Ha una visione del Terzo Mondo ferma agli anni Sessanta, alla teoria del buon selvaggio. Attualmente Cina, India,Brasile e Africa sono tra i più grandi inquinatori del pianeta, come lo siamo stati noi nel XIX e nel XX secolo, mentre oggi a confronto con i nostri padri, abbiamo il pollice verde. E poi c'è la grande contraddizione della difesa della vita a oltranza».

Questa me la deve spiegare.

«La nostra vita è una lotta continua all'unica legge inesorabile della natura, che è la morte, alla quale noi ci opponiamo con la scienza, che la Chiesa benedice».

L'ambientalismo è di destra o di sinistra?

«Quello di moda adesso, che io chiamo collettivo, rubando a Giuliano Ferrara una definizione che egli diede di certo giornalismo, è impregnato da un insieme di manifestazioni, credenze, comportamenti, placebi, emozioni, stereotipi culturali e spesso fake news mai verificate che sovrappongono, in uno Zibaldone confuso, problemi grandi e piccoli. Certo poi non mancano le persone serie, ma io mi riferisco alla vulgata predominante».

Ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia, cantava Giorgio Gaber.

«È quella che attanaglia una buona parte di ambientalisti moderni, che si schiera contro tutto a prescindere e non comprende che l'ambiente si difende con l'economia circolare e l'innovazione tecnologica. La soluzione ai problemi di inquinamento è il disaccoppiamento: produrre benessere utilizzando meno risorse ambientali possibili».

E a che punto siamo?

«Buono. I terreni coltivati oggi hanno quadruplicato la loro resa rispetto alla superficie usata. Con la stessa superficie agricola di 70 anni fa sfamiamo sette miliardi di persone e questo solo grazie ai miglioramenti tecnologici».

Se le dicessi che la sua difesa della plastica è ideologica?

«Le regalerei i miei occhiali, in plastica. Quelli di mio nonno erano in avorio e tartaruga. Sostanze naturali strappate a milioni di animali uccisi».

È contro la plastic tax, quindi?

«Le tasse ambientali vanno maneggiate con molta cura, perché rendono odiose le battaglie ecologiste e possono avere effetti controproducenti, specie se applicate solo localmente. Non è raro l'esempio di balzelli verdi che hanno fatto chiudere aziende occidentali, che tutto sommato rispettavano criteri ambientali minimi, e hanno favorito mercati asiatici, molto meno sensibili di noi ai temi ecologici».

Cosa pensa dei finanziamenti alle energie rinnovabili?

«In Italia si sono impegnate cifre spropositate, che attualmente per lo più arricchiscono i grandi fondi d'investimento. Il finanziamento alle rinnovabili ha causato un aggravio pesante delle bollette e favorito l'importazione di tecnologie cinesi, visto che noi ne eravamo quasi privi. Con l'equivalente di ciò che oggi paghiamo per le rinnovabili avremmo potuto realizzare ogni anno due linee di alta velocità, cinque linee metropolitane e una decina di tramvie. Con enormi benefici per l'ambiente. Oppure avremmo potuto eliminare, con la spesa di un solo anno, tutte le centrali a carbone esistenti».

Dietro la spinta verde si nasconde una lobby che punta a fare affari esasperando la battaglia ambientalista?

«Certo le lotte ambientaliste vengono utilizzate anche per far denaro, ma devo dire che nel mondo industriale si registra uno sforzo sincero verso la conversione a politiche sostenibili, anche perché lo richiede il mercato».

Non teme che quello del bollino verde diventerà terreno di caccia per approfittatori?

«Confido che il fenomeno resterà marginale».

Il nostro governo ha il pollice verde o fa solo finta?

«Le politiche ambientali finora seguite sono modaiole, poco significative. Alcune addirittura sbagliate».

Quali, presidente?

«La politica del No a tutto, alla Tav, che decongestiona il traffico, o alla Tap, che poi è stata fatta senza spostare un solo asciugamano dalle spiagge pugliesi. Sono le conseguenze dell'aver costruito una cultura ambientale basata su restrizioni e atteggiamenti punitivi anziché sulla ricerca del connubio tra ambiente e crescita. Il caso Ilva è emblematico: era stato trovato un buono compromesso sul risanamento, poi è saltato tutto perché non sono state concesse le garanzie promesse a chi doveva investire».

Cosa teme di più per il futuro?

«Che quando arriveranno gli aiuti europei non riusciremo a usarli perché prevarrà un atteggiamento negazionista in tema di opere pubbliche. Temo che si preferirà spendere il denaro in inutili prebende piuttosto che sfidare le sovrintendenze per fare investimenti».

La pandemia ha dato fiato alle trombe dei talebani dell'ambientalismo.

«Sono nate teorie sciagurate sul rapporto tra inquinamento e Covid, che leggono l'epidemia come una punizione divina, dimenticando che le epidemie ci sono sempre state. La malcelata soddisfazione che si vede in queste teorie mi inorridisce, ma la cosa che più mi manda in bestia è l'ipocrisia dell'andrà tutto bene».

La crisi come promotrice del cambiamento salvifico?

«Che alcuni auspicano diventi un ritorno alla preistoria. Le crisi fanno male, i boom fanno bene, questa è la verità. E quanto all'Italia, l'arrivo dle Covid ha palesato profondi contrasti nell'identificazione dell'interesse nazionale e una governance confusa e contraddittoria. Andrà tutto bene? Per quel che si è visto, non ci giurerei».

Chicco Testa: “l’integralismo ecologico è il vero nemico dell’economia green”. Chi è l'integralista ecologico e perché è un problema per l'ambientalismo. Ce lo spiega uno dei fondatori di Legambiente, oggi presidente di Fise-Assombiente e autore del libro "Elogio della crescita felice. Contro l'integralismo ecologico". Rosa Oliveri il 6 Novembre 2020 su wisesociety.it. Chicco Testa, bergamasco, attivista ecologista di Legambiente di cui è stato segretario e presidente dal 1980 al 1987; deputato di sinistra, prima col Pci e successivamente con il  Pds; dirigente d’azienda ha pubblicato Elogio della crescita felice. Contro l’integralismo ecologico. Partendo da questo abbiamo chiacchierato con lui di ambientalismo e futuro.

Cos’è per lei l’integralismo ecologico?

«Non è una risposta semplice da dare. Principalmente è non capire che la transizione verso la sostenibilità non avviene solo per sottrazione, quindi evitando azioni che danneggino l’ambiente, ma anche per addizione. La sostenibilità, infatti, si concretizza anche attraverso la realizzazione dei tantissimi impianti che servono per costruire un’economia green. Per fare un esempio concreto: impianti per le fonti rinnovabili, per lo smaltimento dei rifiuti, per il miglioramento della rete dei trasporti pubblici e molto altro. L’ambientalista integralista, invece, ritiene che tutto vada fermato».

Parla dei fautori della decrescita felice?

«Ci sono anche loro. Più banalmente, però, si tratta di comitati locali animati da un forte egoismo territoriale e di chi, in questo ambito, lavora per ottenere visibilità. Andando a guardare i curricula politici di attuali deputati, in particolare dei 5 Stelle, si scopre che tanti hanno acquistato popolarità mettendosi alla testa di un qualche comitato “contro”: Tav, Tap, abbattimento degli ulivi malati di Xylella in Puglia solo per fare qualche esempio. Ma ci sono micro comitati contro qualcosa in ogni pezzo d’Italia. A monitorarli è l’Osservatorio Nimby Forum (Nimby è l’acronimo inglese di “Not in my back yard” che in italiano sarebbe “non nel mio cortile”)».

Fermando le realizzazioni di questi impianti, quindi, l’effetto paradosso è l’impossibilità della transizione a un’economia green.

«In parte è già così, l’Italia sta perdendo una montagna di occasioni. L’Italia ha approvato un piano energetico che prevede la realizzazione di enormi quantità di energie rinnovabili (il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030, nda) ma è stato calcolato che, procediamo con il ritmo attuale, invece che dei 10 anni previsti ce ne impiegheremo 67».

Dette da uno che, come lei, è un ambientalista ante litteram avendo contribuito alla fondazione di Legambiente, sono parole pesanti.

«E’ vero, ma più che di ambientalisti occorre parlare di politiche ambientali. Essere ambientalista è diventato un concetto generico che può testimoniare una certa sensibilità per l’ambiente e, onestamente, in pochi non manifestano – almeno a parole – questa sensibilità. Il problema è che tipo di ambientalista sei e quali politiche ambientali sostieni. A Roma la Raggi crede di essere ambientalista perché non realizza alcun impianto per smaltire rifiuti, ma poi da Roma partono ogni giorno i camion per portar via i rifiuti dei romani mettendo a nudo una forma di incoerenza».

Questo ha a che fare con l’ambientalista eretico di cui parla nel suo libro?

«Io faccio una distinzione tra l’ambientalista collettivo, che è quello che si nutre di luoghi comuni “informandosi” sui social o dalla Tv, e quello eretico che è colui che ha il desiderio di contrapporsi alla vulgata comune e, per esempio, è capace di dire che c’è la necessità di realizzare i nuovi impianti per la transizione».

Lei, quindi, è un ambientalista eretico?

«Io considero eretici gli altri (sorride). Anche Lutero considerava eretico il papa mentre il papa considerava eretico Lutero… È sempre una questione di punti di vista. Senza volermi paragonare ai grandi della storia, credo di conoscere bene i problemi ambientali visto che li studio da 40 anni».

Ci spiega, allora, perché non è contro la Tap, il 5G, la plastica, i grattacieli, il nucleare che sono il mantra di un certo ambientalismo?

«Perché alcune, al contrario di quanto affermano alcune fake news, non sono nocive, altre migliorano la qualità ambientale. L’olio di palma, per esempio, è un olio come gli altri, ma come per l’utilizzo degli altri oli bisogna utilizzarlo con accortezza. Bisogna sempre approfondire».

Tornando ai paradossi, in un capitolo del libro Lei fa riferimento al coronavirus come organismo vivente, che come tale dovrebbe essere preservato.

«Io contesto certe dottrine e comportamenti che si basano sull’idea che la natura abbia sempre ragione, tanto che un mio libro del 2014 s’intitola Contro (la) natura perché la natura non è né bella, né buona, né giusta. Quando pensiamo alla natura non dobbiamo fermarci soltanto ai bei paesaggi di cui l’Italia è piena, ricordandoci anche che la maggior parte di quei paesaggi sono il risultato del lavoro dell’uomo. Della natura fanno parte anche i virus che sono molti più degli uomini e li precedono, nella linea evolutiva, di alcuni miliardi di anni. Ma non mi risulta sia nato un movimento per la loro difesa. A noi, quindi, piace la natura addomesticata, quella che non è nemica dell’uomo perché è tenuta sotto controllo. Da tutta l’altra natura cerchiamo di difenderci: quando prendiamo un antibiotico ci difendiamo da un attacco che ci viene dalla natura».

Occorre quindi tenere sempre presente che natura e ambiente sono due concetti diversi.

«Esatto, e sono da maneggiare con cura e con le necessarie differenze. La natura è governata da leggi di un certo tipo, va dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, ed è composta da milioni di specie non tutte benefiche. L’ambiente è un ecosistema con il quale cerchiamo di convivere, sono le risorse che utilizziamo per la nostra esistenza».

Da presidente di Fise-Assoambiente come mette insieme le esigenze delle aziende che si occupano di rifiuti e nuove risorse e l’ambientalismo?

«Non lo dico io, ma il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani che per realizzare l’economia circolare abbiamo bisogno di realizzare centinaia di impianti di smaltimento. Il 40% dei rifiuti che produciamo è frazione umida, oggi mancano in Italia una cinquantina di impianti che li trattino e li mandiamo in giro per il mondo. Allo stesso modo abbiamo bisogno di centinaia di impianti di energia rinnovabile».

Come si convincono gli ambientalisti integralisti e gli attivisti Nimby che questo è necessario?

«Con la forza della legge e senza le complicità del mondo politico perché si corre il rischio che l’Italia non riesca a spendere i fondi del Recovery Fund per lo sviluppo dell’economia green perché ci si troverà di fronte ai Comitati del No, alle Sovrintendenze, al Ministero dell’Ambiente e a una legislazione supercomplicata che permette sempre di trovare un punto debole nell’iter di approvazione di un progetto che permetta di appellarsi a qualche organo bloccando l’intera opera».

Lei afferma che la povertà, il cui azzeramento è il primo degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, è nemica dell’ambiente.

«Basta guardare i dati. Oggi i più grandi inquinatori del pianeta si chiamano India e Cina, che stanno facendo lo stesso nostro tragitto in ritardo. Le nostre economie inquinano di meno perché si sono terziarizzate, e poi perché adottiamo tecnologie migliori».

Come se ne esce?

«Lo spiego nell’ultimo capitolo del mio libro. Per fortuna l’innovazione tecnologica va avanti anche contro la nostra volontà e noi disporremo sempre più di tecnologie avanzate realizzando l’obiettivo vero di una politica ambientale, il disaccoppiamento. Quest’ultimo è un processo in corso da molti secoli per il quale si è in grado di produrre un output economico con un uso sempre minore di risorse aziendali. L’esempio migliore affinché tutti comprendano: con più o meno la stessa estensione di terre coltivate del Dopoguerra con cui si nutrivano 2 miliardi di persone oggi ne nutriamo 7 miliardi. A essere cambiata è la produttività dei terreni attraverso la rivoluzione verde e l’agricoltura di precisione».

Quindi dovremmo difenderci dalla mancata conoscenza di massa?

«L’ignoranza di massa è diventato il più grande problema della società. Viviamo in democrazia e difenderci dalle fake news e dai luoghi comuni è diventato davvero molto complicato. Bisognerebbe partire dalle responsabilità: che la celeberrima casalinga di Voghera non sia una scienziata è normale, ma il problema sono le élite che hanno l’obbligo di informarsi».

·        I Disinquinatori.

Ecco la nuova arma contro le emissioni di CO2 del metano. Alessandro Ferro il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. Una start-up sta mettendo a punto un sistema per ridurre le emissioni nocive di metano risparmiando il 60% di energia ed inquinando per l'85% in meno: ecco di cosa si tratta. Qualcosa che potrebbe cambiare per sempre i consumi del metano e ridurre notevolmente le emissioni di CO2 in atmosfera è rappresentato da un nuovo materiale progettato per venire incontro all'ambiente e provare a contenere l'aumento della temperatura ad 1,5 gradi.

Cos'è il processo Osmoses

Per ridurre l'inquinamento del solo metano che ogni anno rilascia nell'atmosfera 3,8 mila miliardi di metri cubi e ben il 23% della domanda energetica del mondo ci pensa il progetto Osmoses, una start up nata tra la collaborazione del Mit di Boston e l'Università di Stanford (co-fondatore l'italiano Francesca Maria Benedetti) che, tramite un sistema composto da sottili canali che filtrano le molecole più piccole di angstrom (unità metrica di lunghezza), consentono di migliorare le separazioni chimiche con canali 100mila volte più sottili di un capello umano, incredibile al solo pensiero.

Qual è il risparmio reale

Le prime stime dicono che potrà essere risparmiato il 60% di energia rispetto a prima riducendo, di conseguenza, l'inquinamento di CO2. Miglioreranno anche i costi, dal momento che le vecchie membrane avevano uno scarso rapporto qualità-prezzo. Il sistema è progettato per essere utilizzato negli impianti di gas più grandi ed evitare l'immissione in atmosfera di un milione di tonnellate di anidride carbonica con l'85% in meno di dispersione di metano che normalmente avviene durante il processo. Insomma, una rivoluzione ecologica che farebbe risparmiare una quantità pari al riscaldamento di 7 milioni di case l'anno. Questo progetto consentirebbe di ottenere anche l'ossigeno purificato per aumentare l'efficienza delle combustioni di acciaio (come ci siamo occupati sul Giornale.it) e vetro oltre ad essere impiegato per produrre azoto, idrogeno e catturare direttamente la CO2 presente nell'atmosfera.

L'intelligenza artificiale può accelerare la transizione energetica

Quali sono i consumi nocivi

Non lo vediamo ma il metano è presente in tantissimi usi quotidiani: come riporta Repubblica, lo utilizziamo per cucinare, riscaldare le case oltre alla produzione in sè. Quello più inquinante e nocivo, però, è estratto dal terreno (come il petrolio) e rilascia nell'aria sostanze altamente inquinanti come l'idrogeno solforato, il propano, il butano e lo zolfo per dare un'idea di quanta CO2 viene immessa ogni giorno nell'atmosfera. Con la creazione dei sottili canali di cui abbiamo parlato prima, quantomeno, si eviterebbe l'emissione di una percentuale notevole di sostanze inquinanti. Come abbiamo trattato di recente sul nostro Giornale, però, lo sforzo deve essere collettivo: c'è l'accordo per mettere fine alla deforestazione entro il 2030 e a firmare la dichiarazione finale stavolta ci saranno anche Russia, Brasile e Cina, i cui tre leader sono i grandi assenti della Cop26 di Glasgow. E poi c'è l'impegno di oltre 100 Paesi a ridurre le emissioni di metano del 30%, sempre per il 2030 anche se in questo caso, i tre grandi inquinatori Cina, India e Russia, hanno deciso di non aderire. La strada è ancora in salita, lunga e tortuosa, ma stavolta qualcosa si sta muovendo davvero.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

·        Gli Inquinatori.

Gli insospettabili. In Italia la prima minaccia per l’ambiente sono agricoltura e allevamento. Riccardo Liguori su L'Inkiesta il 21 dicembre 2021. Dal nuovo rapporto redatto dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale emerge che attività intensive, utilizzo di pesticidi, emissioni climalteranti derivanti da questo settore produttivo stanno compromettendo interi habitat e specie animali e vegetali. Agricoltura e allevamento sono la più forte pressione sull’ambiente in Italia e, insieme, la prima minaccia alla biodiversità. Lo attesta il rapporto Ispra “Transizione Ecologica Aperta. Dove va l’ambiente italiano” presentato il 13 dicembre alla Camera dei Deputati. Come si legge nel documento redatto dall’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) “il grande problema della produzione del cibo è la competizione con la natura selvatica per una risorsa fondamentale: il territorio”. Gli interessanti numeri emersi dal report sono stati pubblicati circa tre settimane dopo l’approvazione della nuova politica agricola comunitaria (Pac), esito di una trattativa durata tre anni. Votata dall’Europarlamento, entrerà in vigore nel 2023 e per quattro anni potrà contare su 386,6 miliardi di euro, circa un terzo del bilancio pluriennale dell’Unione Europea. 

I dati

Guardando ai dati forniti dal nuovo report Ispra, si capisce quanto politiche agricole errate possano compromettere non solo la nostra salute ma anche quella dell’intero territorio. In Italia, la biodiversità sta attraversando una profonda crisi, come evidenziato dall’elevato numero di specie a rischio di estinzione, concentrato soprattutto nelle pianure e lungo le coste, in particolare negli ambienti di acqua dolce. E il principale fattore di minaccia è rappresentato dalla distruzione e frammentazione degli habitat naturali, processi incentivati soprattutto dall’agricoltura. Nel 2019, questo settore ha rappresentato l’8,1% delle emissioni totali di gas serra in Italia. E nonostante dal 1990 al 2019 abbia fatto registrare una riduzione delle emissioni del 17,3%, le attività agricole e zootecniche oggi continuano a favorire non solo la perdita di biodiversità ma anche, ad esempio, la stragrande maggioranza delle emissioni di ammoniaca, potente inquinante dell’aria la cui volatilizzazione contribuisce alla formazione di aerosol e di particolato in atmosfera. Una volta depositata a terra, l’ammoniaca può anche aumentare l’acidità del suolo, influenzando la biodiversità e intervenendo nei processi di eutrofizzazione delle acque. Un altro problema riguarda l’agricoltura intensiva, che anche se in grado di garantire una maggiore produzione di cibo restituendo molti territori ai boschi, soprattutto in collina e in montagna, ha spesso un impatto molto forte sull’ambiente. Stessa cosa avviene con l’allevamento intensivo: da una parte i pascoli abbandonati sono tornati al bosco, ma la produzione di mangimi richiede che la terra coltivabile venga dedicata a questo scopo. “Non è facile uscire da questa contraddizione, ma è chiaro che non ci può essere transizione ecologica senza un forte ridimensionamento dell’impatto ambientale della produzione del cibo”, si legge nel report. Questo, infatti, è l’obiettivo della nuova strategia europea Farm to Fork, che fra le altre misure prevede entro il 2030 la riduzione del 20% dell’impiego di fertilizzanti e del 50% dell’impiego di pesticidi, e la destinazione ad agricoltura biologica del 25% della superficie agricola europea. La sostenibilità è anche l’obiettivo di moltissime innovazioni che hanno già cominciato a cambiare il volto dell’agricoltura, e che vanno dalla digitalizzazione nella cosiddetta “agricoltura di precisione” alla lotta integrata ai parassiti, dal miglioramento genetico al vertical farming, oltre naturalmente al continuo affinamento delle tecniche tradizionali. “Una parte della soluzione è anche il cambiamento delle abitudini alimentari – ha spiegato Ispra – a parità di potere nutritivo la carne ha un impatto sull’ambiente maggiore rispetto agli alimenti vegetali”.

Le strategie climatiche europee

Le politiche climatiche europee hanno stabilito che l’Italia dovrà ridurre le emissioni di gas serra complessivamente prodotte dai settori agricoltura, residenziale, trasporti, rifiuti e impianti industriali non inclusi nella Direttiva EU-ETS (European Union Emission Trading Scheme) del 33% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. “Questo obiettivo – si legge nel report – è in fase di revisione, sulla base del nuovo e più ambizioso obiettivo di riduzione fissato nel pacchetto legislativo europeo Fit for 55, che servirà al raggiungimento della neutralità climatica al 2050 stabilita nella strategia europea del Green Deal”. 

Come sottolineato dall’Ispra, per ridurre le emissioni possono essere impiegate diverse tecniche di mitigazione. Prendendo ad esempio la produzione di metano dovuta al processo digestivo in particolare dei ruminanti, le emissioni possono essere ridotte attraverso la somministrazione di diete più digeribili, la riduzione di proteina ingerita, l’integrazione nella dieta di additivi o nutrienti o integratori naturali. Per quanto riguarda la gestione dei reflui zootecnici, le tecniche di mitigazione prevedono interventi nelle stalle, la copertura degli stoccaggi, il recupero del metano dal cosiddetto “biogas”, una miscela di diversi gas, tra cui metano, prodotto dalla fermentazione dei reflui zootecnici e di altri residui organici in assenza di ossigeno. Le emissioni da parte delle coltivazioni possono invece essere ridotte attraverso un uso più mirato dei fertilizzanti di sintesi con l’aiuto di tecnologie dell’agricoltura di precisione.

I grandi inquinatori piantano alberi contro la CO2 in cambio di crediti. Perché è un inganno. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2021. Il presidente di Cop26 Alok Sharma con le lacrime agli occhi si scusa disperato, il vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans si rivolge alla platea: «Tutti voi avete figli e nipoti, se non mettiamo in atto oggi tutte le strategie per bloccare l’aumento della temperatura, non ci perdoneranno». Alla fine uno degli accordi più significativi è stato lo stop alla deforestazione entro il 2030. La Dichiarazione firmata da 110 nazioni potrà contare su un investimento di 19,2 miliardi di dollari: 12 saranno fondi pubblici, 7,2 privati. Ma intanto per altri nove anni si potrà continuare a disboscare, mentre per i grandi inquinatori la «soluzione» è stata trovata da tempo: compensare il proprio inquinamento piantando alberi, finanziando impianti a energia rinnovabile o acquistando sul mercato certificati di crediti di carbonio emessi da organismi internazionali che serviranno a bilanciare le emissioni di CO2 emesse ogni anno. 

Come funziona il sistema dei crediti

Ogni credito costa circa 60 euro e rappresenta l’equivalente di una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita in un progetto ecologico. I criteri della contabilizzazione delle emissioni e dell’assorbimento dei gas-serra nel settore agricolo e forestale sono stabiliti dal report «Guidelines for National Greenhouse Gas Inventories» dell’IPCC. Ad acquistare i crediti di carbonio, proprio quelle multinazionali che sono tra le più inquinanti al mondo, determinate a riabilitare la propria immagine. Nella classifica delle società che hanno prodotto più CO2 nell’ultimo mezzo secolo ai primi posti troviamo giganti petroliferi come Chevron, Saudi Aramco, BP, Gazprom e Shell. Le prime 20 aziende della lista hanno contribuito al 35% delle emissioni di CO2 dal 1965 per un totale di 480 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (tCO2e). 

Quanto piantano i grandi inquinatori

Nel 2020 Chevron dichiara di aver piantato 30 mila alberi in un’area dismessa della Columbia Britannica (Canada); Gazprom più di 60 mila alberi in Russia. Nel 2021 Total in collaborazione con Forêt Ressources Management sta piantando acacie in una foresta di 40 mila ettari sugli altipiani di Bateké in Congo. Saudi Aramco presenta come riforestazione 5,3 milioni di mangrovie lungo la costa del Golfo Persico, BP 100 mila piante di nettare per l’allevamento delle api in Azerbaigian. Anche le compagnie aeree fanno la stessa cosa. Nel 2019 Iberia ha riforestato un terreno vicino all’aeroporto di Madrid con i primi 1.500 alberi che dovrebbero diventare 4 mila entro il 2022; Ryanair ha riforestato con 135 mila alberi territori colpiti da incendi nell’Algarve in Portogallo, EasyJet ha comprato 3,1 milioni di crediti di carbonio per progetti di riforestazione in Perù ed Etiopia, Air France attraverso il programma «Trip And Tree» in tre anni ha piantato oltre 200 mila alberi tra Francia, Libano, Cina, Cambogia e Amazzonia ecuadoriana. Infine ci sono le società tecnologiche che acquistano sul mercato crediti di compensazione. 

Cosa fanno i colossi di Internet

Nel 2020 Microsoft ha acquistato crediti per 1,3 milioni di tonnellate di CO2, Facebook per 145 mila, Google per 8 milioni negli ultimi 5 anni. Contemporaneamente Microsoft Advertising ha piantato 279.765 alberi in Uganda, Burkina Faso e Brasile, Google 5.396 nella San Francisco Bay Area , HP Papers 25 mila in Florida per il progetto «Arbor Day Foundation» e Accenture 3.828 in Danimarca. Verizon dichiara di aver promosso dal 2009 la piantumazione di oltre 6,1 milioni di alberi. Meglio di tutti fa la piccola Ecosia, motore di ricerca con sede a Berlino lanciato nel 2009. Dal suo debutto in rete la società, che non beneficia di crediti di carbonio, dona l’80% dei profitti a organizzazioni che si concentrano sulla riforestazione, dichiara di aver piantato più di 137 milioni di alberi.

Risultati

Risultati decisamente scarsi, sia a fronte della quantità di CO2 emessa dai grandi inquinatori, sia per il fatto che la riforestazione prevede in media mille piante per ettaro: ci vorranno decenni per compensare appena una frazione delle emissioni globali emesse. Secondo uno studio di Oxfam per assorbire tutto il carbonio che i grandi inquinatori continuano ad emettere occorre riforestare 1,6 miliardi di ettari, equivalenti a 5 volte le dimensioni dell’India. In altre parole non c’è abbastanza terra sulla Terra. Facciamo due conti. Le foreste occupano il 31% della superficie terrestre e in totale superano i 4 miliardi di ettari . Tra il 2001 e il 2019 sono stati persi 386 milioni di ettari di foreste nel mondo mentre nello stesso periodo ne sono stati recuperati attraverso la riforestazione e la rigenerazione spontanea solo 59 milioni, un’area più grande della Francia.

Per evitare l’aumento della temperatura non ci sono scorciatoie e il mercato dei crediti non è altro che una operazione di marketing per abbellire i piani di sostenibilità

Sono tutti d’accordo: occorre bloccare da subito la deforestazione, e cambiare modello di produzione per ridurre le emissioni. Poi piantare alberi, certo, ma per pulire e non per continuare ad inquinare. 

Perché le foreste pluviali non vanno toccate

Le foreste pluviali come l’Amazzonia sono le più importanti perché ospitano una ricca biodiversità e sono essenziali per lo stoccaggio del carbonio. Quelle che hanno subito la maggiore deforestazione negli ultimi 20 anni si trovano in Brasile (26,2 milioni di ettari cancellati), Indonesia (9,7 milioni) e Repubblica Democratica del Congo (5,3 milioni). In totale i 10 Paesi che ospitano le maggiori superfici di foresta pluviale hanno subito la deforestazione di 54 milioni di ettari. L’espansione agricola resta il principale motore del disboscamento, ma negli ultimi decenni hanno inciso pesantemente lo spazio fatto ai pascoli per allevamenti intensivi e alle coltivazioni per cibo animale, l’estrazione di materie prime, il commercio di legname e la creazione di nuovi insediamenti urbani. 

La foresta pluviale più grande del mondo

L’Amazzonia è la foresta pluviale più grande del mondo ed è cruciale per l’equilibrio climatico del pianeta. Si estende su una superficie di 634 milioni di ettari: oltre il 60% si trova in Brasile, il resto in otto Paesi sudamericani. Si stima che sopra e sotto la superficie della foresta siano immagazzinate circa 123 miliardi di tonnellate di carbonio. Il disboscamento selvaggio dell’Amazzonia brasiliana è iniziato negli anni ’70 e in mezzo secolo ha distrutto il 19% della superficie.

La politica di Bolsonaro

Con l’arrivo del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, supportato dalla lobby dell’agro-business, l’intero ecosistema rischia il collasso. Nel solo 2021 sono scomparsi 10.476 km quadrati di vegetazione, un’area 13 volte più grande di New York, il livello più alto del decennio. In tre anni tra incendi e disboscamento sono stati cancellati 2.866.400 ettari di foresta (28.664 km quadrati), lo 0,6% dell’intera foresta brasiliana. Solo per bilanciare l’immenso danno servirebbero subito circa tre miliardi di alberi.

Il timore è che la foresta pluviale si trasformi in fonte di anidride carbonica (emettendone più di quella catturata) e che questa tendenza, già in atto nei territori interessati dal disboscamento, diventi irreversibile

Secondo uno studio pubblicato nel 2018 dal climatologo Carlos Nobre e dal ricercatore Thomas Lovejoy il punto di non ritorno per l’Amazzonia sarà raggiunto quando il 25% dell’intera foresta pluviale sarà cancellata: «La capacità delle foreste di assorbire carbonio dipende dal loro benessere — spiega Giorgio Vacchiano, docente di Gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano —. Nelle aree incendiate, anche dopo la ricrescita l’assorbimento del carbonio è del 25% più basso rispetto alle foreste intatte per un periodo di 30 anni». E in buona parte delle aree amazzoniche ormai adibite ad altro uso non potranno più ricrescere le secolari piante perdute per sempre. Nei tre anni di governo Bolsonaro gli alberi abbattuti o bruciati sono stati oltre 2,8 miliardi. 

Nel 2019 Norvegia e Germania, i principali finanziatori della riforestazione in Amazzonia, hanno congelato i fondi in risposta al «taglia e brucia» del presidente, che ha sconfessato completamente le politiche del precedessore Lula. Monitoraggio satellitare, mobilitazione di personale sul campo, linea dura verso i trasgressori, finanziamenti esteri contro il disboscamento: così nel primo decennio del XXI secolo il Brasile aveva ridotto la deforestazione dell’80% e allo stesso tempo abbattuto del 52% le emissioni di CO2 (passate dai 2,5 miliardi del 2004 all’1,25 del 2010), facendo crescere il Pil del 32% e liberando dalla povertà oltre 23 milioni di persone.

L’era dei ricatti

Bolsonaro non era presente a Glasgow, ma ha mandato il suo ministro degli Esteri Carlos Franca, che ha firmato l’impegno a non distruggere le foreste. A partire dal 2030. In realtà per Bolsonaro lo stop potrebbe anche partire subito, in cambio vuole un miliardo di dollari l’anno per bloccare la deforestazione illegale fino al 40%. Una strategia che ricorda quella degli autocrati Erdogan e Lukashenko con l’Europa. Clima e migranti: è iniziata l’era dei ricatti.

Acque avvelenate da fabbriche inquinanti e i manager nascondono tesori offshore. L'Espresso e Icij su L'Espresso il 22 novembre 2021. Le aree contaminate dalla Solvay in Italia, il disastro dei pesticidi in India, lo scandalo dell’ammoniaca in Russia e dei prodotti chimici tossici in Indonesia. Mentre migliaia di famiglie invocano bonifiche e risarcimenti, i Pandora Papers svelano le manovre dei big delle industrie più inquinanti per mettere al sicuro montagne di soldi nei paradisi fiscali. Un mattino del febbraio 2021 carabinieri e magistrati arrivano alla fabbrica della Solvay a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria. Entrano decisi negli uffici e, sventolando fogli di autorizzazioni, sequestrano documenti. Che non fosse un raid normale, lo capiscono subito gli impiegati, temendo il peggio. Con più di un motivo. Infatti, sulla base di esami di laboratorio svolti in precedenza, erano state trovate tracce di un nuovo tipo di PFAS, ovvero sostanze perfluoroalchiliche provenienti dalla Solvay, in falde acquifere, a distanza di chilometri.

Lago d’Aral, dove si trova e perché è scomparso. Andrea Muratore su Inside Over il 12 novembre 2021. Il disastro di Chernobyl è oggigiorno ricordato come uno dei momenti in cui maggiormente il mondo ebbe modo di accorgersi del declino strutturale e sistemico del regime sovietico in via di dissoluzione. E soprattutto i fatti del 1986 sono ricordati per aver suscitato in tutta Europa un moto di critica verso l’utilizzo senza sicurezza del nucleare e a favore di un nuovo ambientalismo. Ma c’è un’altra vicenda, altrettanto importante, che connette un disastro ambientale e umano al declino dell’Unione sovietica: quella del Lago d’Aral, il bacino dell’Asia Centrale che fu quasi completamente prosciugato dalle scelte gestionali disastrose prese dalla leadership sovietica in campo agricolo e di gestione idrica. L’Aral (che era chiamato in uzbeco Orol Dengizi, letteralmente “mare di isole”) era il quarto bacino interno più vasto al mondo e per la natura salata delle sue acque era chiamato spesso “mar d’Aral”. Le sue acque dividevano le repubbliche socialiste sovietiche e gli attuali Stati dell’Uzbekistan e del Kazakistan. Come per Chernobyl, anche per l’Aral l’anno fatale fu il 1986, anno in cui vennero al pettine i nodi accumulatisi nel corso dei tre decenni precedenti, durante i quali le sue acque e quelli dei principali immissari, i fiumi Amu Darya e Syr Darya, furono sfruttate intensivamente per alimentare la monocoltura di cotone a cui la leadership centralista sovietica aveva indirizzato le repubbliche centroasiatiche. In quell’anno, l’Aral iniziò a ritirarsi inesorabilmente. Lago antico, che assieme al Mar Caspio e al Mar Nero rappresentava ciò che resta dell’antica Paratetide, risalente a 5,5 milioni di anni fa, l’Aral era conosciuto per esser stato sfiorato e a volte affrontato dalle carovane che affrontavano l’antica Via della Seta tra Occidente e Oriente. L’epopea della colonizzazione russa dell’Asia Centrale e dell’Oriente portò con sé l’esplorazione massiccia delle sponde dell’Aral e la fondazione, a inizio Novecento, della cittadina di Aralsk, fondata nel 1905 come porto di pescatori. Mezzo secolo dopo, l’Unione Sovietica volle indirizzare ai progetti di potenziamento agricolo le acque del lago. Il Politburo di Mosca guidato da Nikita Krushev, desideroso di modernizzare in forma accelerata il Paese e di fare dell’Urss una superpotenza agricola, puntò sul cotone e sulle acque dei due fiumi e dell’Aral per provare a rendere il deserto centroasiatico un’oasi verde. Oasi che, scientemente, avrebbe previsto il sacrificio del lago stesso. Nel 1964 Aleksandr Asarin dell’istituto “Hydroproject” evidenziava il fatto che il lago era condannato dalla volontà dei dirigenti sovietici di far sì che un graduale prosciugamento del bacino dell’Aral aprisse la strada alla massiccia coltivazione del riso sulle sponde lasciate libere all’agricoltura, spiegando che “ciò fa parte dei piani quinquennali approvati dal Consiglio dei ministri e dal Politburo. Nessun appartenente a un livello inferiore avrebbe osato contraddire questi piani, anche se così il destino del lago fu segnato”: già nel 1952 parte della foce dell’Amu Darya era essiccata, nel solo decennio 1961-1970 ci fu una decrescita media delle acque di 20 cm all’anno, accelerata nel decennio successivo. Dal 1986 in avanti si passò a oltre 80 cm l’anno e al massiccio tracollo delle acque del lago. Anno dopo anno iniziò a palesarsi l’ampio deserto sabbioso-salino formato sul fondo della sezione prosciugata del serbatoio e chiamato Aralkum. Nuova landa inospitale creata dall’uomo dopo che la natura aveva già reso inclemente l’avvicinamento all’Aral, dato che er raggiungerlo, si doveva percorre una strada che corre attraverso l’inospitale deserto del Kyzylkum e l’enorme altopiano di Ustyurt, dalla quale si apre un panorama lunare reso ancora più estremo dalla vista del lago gradualmente prosciugato. l rapido processo di de-essicazione ha portato con sé un numero impressionante di problemi ambientali.  In primo luogo, la salinità accresciuta dell’acqua non ha più reso possibile permesso l’attività della pesca, che rappresentava la maggior risorsa economica di sostentamento per le popolazioni residenti sulla riva del lago. Venti delle ventiquattro specie ittiche del lago da 60mila chilometri quadrati si sono estinte mentre l’Aral si riduceva a due bacini nel suo troncone nordoccidentale. In secondo luogo, lo scioglimento dell’acqua del lago ha creato una situazione di caos nel microclima locale segnato da sbalzi estremi, con temperature fino a –35°C d’inverno e 50°C d’estate, facendo venire meno la funzione mitigatrice dell’Aral soprattutto nei mesi invernali. In terzo luogo, facendo ironicamente modo che le previsioni sovietiche venissero smentite, il terreno desertico lasciato libero dalle acque lacustri e le dune del deserto del Kyzylkum è stato reso tossico dall’accumulazione di fertilizzanti e diserbanti utilizzati per potenziare la produzione del cotone. Di fatto ogni anno le bufere e le tempeste di sabbia che si verificano sul letto prosciugato del lago spargono per la regione al confine tra Uzbekistan e Kazakistan una quantità di materiale che si calcola possa essere in grado di portare con sé 43 milioni di tonnellate di sabbie e polveri intossicate o contaminate, che hanno causato un’impennata dei fenomeni di tumore e cancro alla gola nell’area. Ma il problema principale è legato al fatto che il prosciugamento del lago ha fatto sì che si ricongiungesse alla terraferma l’isola nel centro del lago, che portava il nome di Vozrozhdeniye (che, ironicamente, in russo significa “rinascita”), sede per decenni di test sovietici di armi chimiche e batteriologiche basate su agenti patogeni. Fu nell’isola divenuta penisola prima e istmo poi che le spore di antrace e i bacilli di peste bubbonica furono trasformati in armi e le stesse immagazzinate. Una bonifica del 2002, al costo di 5 milioni di dollari, ha portato allo stoccaggio e all’eliminazione di oltre 100 tonnellate di patogeni. Ma oggigiorno è tuttora difficile capire quanto sia inquinato e rovinato l’ambiente della terra di Vozrozhdeniye a quasi ottant’anni dai primi esperimenti del 1948. Come nota Icona Clima, “un esempio tristemente importante di quanto i danni ambientali abbiano influito sulla vita della popolazione locale è rappresentato dalla cittadina uzbeka di Moynaq, un tempo uno dei centri costieri più attivi. Le rive del lago di sono allontanate di circa 50 km da questa città; gli abitanti hanno perso così la fonte della loro sussistenza economica e a causa dell’inquinamento dell’aria, malattie come tubercolosi, cancro alla gola ed epatiti si riscontrano tre volte in più della media del Paese”. Il caso del Lago d’Aral insegna molto anche al presente. E ci ricorda che il problema ambientale, fatto che informazione e policy-maker sottostimano o ignorano, è uno dei pochi settori in cui entrambe le grandi utopie della seconda metà del Novecento si sono rivelate incapaci di offrire soluzioni e hanno anzi contribuito a ingigantire i problemi pre-esistenti. Se sono noti in Occidente i danni causati da alcuni esempi scriteriati di devastazione ambientale, è doveroso ricordare che anche il socialismo reale ha fatto danni su larga scala.  Oltre ai disastri legati a casi come il Lago d’Aral, il sistema centrato sull’Unione Sovietica ha nel periodo della Guerra Fredda prodotto un industrialismo irrigidito e un’economia eccessivamente schematica che hanno contribuito a creare alcuni dei disastri ambientali più irreversibili. Basti pensare alle conseguenze tremende sulla situazione ambientale delle piattaforme industriali dell’ex blocco socialista: l’aria di Ostrava, ex centro industriale cecoslovacco, e di altri centri dell’Est sembra la stessa, tossica di trenta anni fa. Ma nulla appare tragicamente irreversibile come il disastro dell’Aral: il lago antico che fu spazzato via dall’estremismo ideologico della centralizzazione totale. Un bacino idrico rigoglioso la cui pressoché totale scomparsa insegna molto sui problemi che la tracotanza umana può causare.

Cosa c’è di vero nelle accuse dei Verdi all'Ue di finanziare con 13 miliardi di euro nuovi gasdotti. Carlo Canepa e Federico Gonzato su La Repubblica il 12 novembre 2021. Il tweet di un attivista su progetti per la distribuzione del gas naturale in Europa, rilanciato da Greta Thunberg, ha indignato i parlamentari e diverse associazioni ambientaliste. Al di là delle posizioni in campo, ecco quali sono le infrastrutture al centro delle critiche e le risposte di Bruxelles. Negli ultimi giorni il gruppo dei Verdi al Parlamento europeo e diverse associazioni ambientaliste hanno duramente criticato la Commissione europea, colpevole a detta loro di voler finanziare decine di infrastrutture legate al trasporto del gas, ritenute prioritarie a livello energetico. "Oggi è scoppiato uno scandalo: l'Unione europea vuole finanziare 30 progetti per il gas per un valore di 13 miliardi di euro", ha...

L'uso dei condizionatori aumenterà in tutto il mondo, con danni per il clima e per i più poveri. La crescita vertiginosa di impianti porterà a una grande domanda di energia, con importanti e nuove emissioni di CO2. "Servono nuovi studi per valutare le potenziali conseguenze ambientali di questo circolo vizioso". La Repubblica il 9 novembre 2021. Uno studio finanziato dal Consiglio Europeo della Ricerca fornisce la prima analisi comparativa di come il clima e le caratteristiche delle famiglie, tra cui il reddito, guidino l'acquisto di impianti per l’aria condizionata in quattro economie emergenti: Brasile, India, Indonesia e Messico. Secondo il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, al quale afferisce la scienziata Enrica De Cian, prima firmataria della ricerca che è stata pubblicata su Nature communications, la diffusione capillare dei condizionatori nelle case private di tutto il Pianeta è sul punto di diventare una nuova emergenza climatica, complicando di molto la necessaria riduzione delle emissioni in atto in tutti Paesi.

Maurizio Stefanini per "Libero quotidiano" il 9 novembre 2021. È facile essere d'accordo sul principio che bisogna ridurre le emissioni di gas in atmosfera per combattere il riscaldamento globale; più difficile trovare il modo di riuscirci. Se ne deve essere accorto anche Joe Biden, che è sì riuscito a far varare un piano da 1000 miliardi per rinnovare le infrastrutture Usa nella chiave non solo di rilancio dopo la pandemia ma anche di contributo alla transizione energetica; alla Cop26 di Glasgow ha pure potuto così annunciare una ambiziosa strategia di riduzione dell'impatto di CO2 a base di nucleare pulito e aree forestali più estese; e nella stessa sede non è però riuscito a impedire una imbarazzante emissione di gas dal proprio intestino, proprio in presenza della Duchessa di Cornovaglia Camilla Parker Bowles. «La sora Camilla tutti la vogliono e nessuno la piglia» recita un noto detto romano, che sembra ispirato ai problemi di solitudine dopo la vedovanza di Camilla Peretti, sorella maggiore di Papa Sisto V. La sua omonima inglese di quattro secoli dopo invece non solo se la ha infine presa l'eterno principe ereditario Carlo dopo la vedovanza, non solo ha avuto quel titolo nobiliare che per lo meno a un orecchio italiano sembra beffardamente alludere ai problemi coniugali della povera Lady Diana, ma sembra essere anche una pettegola terribile. Come che sia, quel segreto che puzzava è stato da lei spiattellato alla stampa britannica, che subito ha rilanciato, riferendo come la Duchessa non riuscisse proprio a «smettere di parlare dell'accaduto». «Era lungo e rumoroso», avrebbe dettagliato al Daily Mail, spiegando anche come sia stato emesso alla presenza non solo del principe Carlo, ma anche del primo ministro Boris Jonhson. E la cosa va assieme al modo in cui sempre Biden durante il discorso di apertura al Cop26 è stato sorpreso ad appisolarsi, mentre stava parlando l'attivista per i diritti dei disabili Eddie Ndopu, è stato a occhi chiusi per 22 secondi, prima che un assistente lo scuotesse. Ma questo era un suo problema già noto, tanto è vero che Trump lo aveva ribattezzato "Sleepy Joe". Intendiamoci, anche il predecessore alla Casa Bianca quanto a emissioni di gas incontrollate avrebbe un curriculum di tutto rispetto. Gliene è stata infatti attribuita una mentre faceva una telefonata per chiedere il riconteggio dei voti in Georgia, un'altra durante un'intervista, altre ancora durante discorsi. Ma se è per questo anche Biden è recidivo, dal momento che durante un incontro con Papa Francesco si sarebbe addirittura inzaccherato le mutande. Attenzione, poi, che l'evento si è verificato a un ricevimento alla Kelvingrove Art Gallery, Ora, il termine che in italiano evoca il gesto di far scorrere la cintura (=correggia) per allentare la tensione sul ventre è invece espresso con un termine "fart" che si presta a facili giochi di parole: prima di tutto con una Kelvingrove Fart Gallery, ma anche con i titoli di laurea anglo-sassoni, Master of Arts e Master of Fine Arts. Insomma, una sorta di gara su chi più meriterà il titolo di Master of Fine Farts tra l'attuale presidente, che a 79 anni quasi compiuti è il più anziano nella storia Usa, e il suo predecessore. 

Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” l'8 novembre 2021. Dopo decenni di oblio, l'industria dello spazio sta vivendo il suo Rinascimento, spinta in gran parte dalle ambizioni della Cina e dai programmi in rapido sviluppo di miliardari visionari come Elon Musk, il patron di Tesla, che con la sua SpaceX vuole costruire un'enorme «mega-costellazione» di satelliti Internet. Quest'anno, i lanci in orbita saranno alla fine oltre 130, per la prima volta dagli anni Settanta, cui si aggiungono le escursioni turistiche di Jeff Bezos (Amazon) con Blue Origin o di Richard Branson (Virgin Group). Ma quanto costa al pianeta la brama cosmonautica dei nuovi nababbi? Il conto l'ha fatto, in occasione di Cop26, la ong Oxfam che ha presentato uno studio in collaborazione con l'Institute for European Environmental Policy e lo Stockholm Environmental Institute: un singolo volo spaziale - la nuova moda fra i super-ricchi - inquina quanto il miliardo di persone più povere del mondo nel corso della loro vita. O detto in modo più specifico: le emissioni di CO2 prodotte da ogni passeggero per un volo spaziale di appena 11 minuti sono pari ad almeno 75 tonnellate, secondo le stime del rapporto di Lucas Chancel, mentre le persone del miliardo più povero del mondo emettono meno di una tonnellata di CO2 l'anno. Non solo, nel 2030 le emissioni di anidride carbonica dell'1% più ricco dell'umanità sono sulla buona strada per essere 30 volte superiori a quanto è compatibile con il mantenimento del riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C. Per centrare l'obiettivo, l'1% più ricco dovrebbe ridurre le proprie emissioni del 97%. Per questo, gli scienziati esortano i governi a «limitare il consumo della CO2 del lusso» dei jet privati, dei megayacht e dei viaggi nello spazio. «Viviamo in un mondo in cui una ristrettissima élite sembra avere il permesso di inquinare senza limiti, alimentando condizioni ed eventi metereologici sempre più estremi e imprevedibili - dice Nafkote Dabi, responsabile delle politiche climatiche di Oxfam -. Le emissioni del 10% più ricco, da sole, potrebbero spingerci verso un punto di non ritorno. E a pagarne il prezzo più alto, ancora una volta, saranno le persone più povere e vulnerabili del pianeta».

I miliardari e l’ambiente: l’ipocrisia dell’élite che si atteggia a rivoluzionaria. Andrea Muratore su Inside Over il 9 novembre 2021. Sono tutti in parata, uno dopo l’altro, al Cop26 e non solo. I miliardari e gli esponenti delle grandi multinazionali finanziarie e del tech parlano un giorno dopo l’altro di sostenibilità, ambientalismo, transizione. Rimbottano i governi, si presuppongono filantropi e offrono contributi per “salvare il mondo”, a seconda che si tratti di promuovere lo sviluppo dell’Africa, combattere le esternalità negative come l’aumento dell’instabilità alimentare.

Miliardari rivoluzionari?

Da élite tra le élite parlano da icone rivoluzionarie. E i media e i politici pendono dalle loro labbra. Ma quella dei Paperoni globali in sfilata a Glasgow, pronti a parlare dell’emergenza ambientale e delle sue conseguenze, è una retorica che non nasconde componenti di ipocrisia.

I miliardari fattisi avanguardia della rivoluzione verde inseguono l’ideologia pop dominante del momento; vengono meno a qualsiasi discorso realistico sulla necessità di pragmatismo strategico e operativo in campo di transizione energetica per farsi versioni di Greta Thunberg più scaltre e invecchiate, senza nemmeno la stessa sincera carica emotiva della giovane attivista svedese; da inquinatori più importanti del mondo, parlano sostanzialmente dei problemi che hanno contribuito a causare atteggiandosi a loro risolutori.

Jeff Bezos, fondatore del colosso americano Amazon e uomo fra i più ricchi del mondo, nella giornata del 2 novembre ha promesso nell’ambito della conferenza Onu Cop26 di Glasgow una donazione da 2 miliardi di dollari per ridare vita a terreni “degradati” dal cambiamento climatico in Africa. Si fa patrono della sostenibilità a tutti i costi ma Oxfam, in uno studio prodotto insieme all’Institute for European Environmental Policy allo Stockholm Environment Institute, denuncia: con la sua nuova attività di super-lusso, i viaggi spaziali fa sì che ogni passeggero spaziale, per restare appena 11 minuti in orbita, contribuisca all’emissione di 75 tonnellate di anidride carbonica. Più di quanta ne emette in tutta la sua vita una persona scelta tra il miliardo di uomini e donne più povero del pianeta.

Una sostanziale ipocrisia

“Viviamo in un mondo in cui una ristrettissima élite sembra avere il permesso di inquinare senza limiti, alimentando condizioni ed eventi metereoogici sempre più estremi e imprevedibili”, ha dichiarato Nafkote Dabi, responsabile delle politiche climatiche di Oxfam. Oxfam nel suo studio riporta che l’1% più ricco della popolazione ha un impatto sull’ambiente trenta volte maggiore di quello che andrebbe mantenuto per rendere realistico un target di emissioni entro i limiti degli Accordi di Parigi, e per la Dabi “le emissioni del 10% più ricco, da sole, potrebbero spingerci verso un punto di non ritorno. E a pagarne il prezzo più alto, ancora una volta, saranno le persone più povere e vulnerabili del pianeta”, per i quali a parole si dichiara pronto a battersi Bezos. Che su questo punto di vista è un tutt’uno con il rivale per il titolo di uomo più ricco del mondo, Elon Musk. Imprenditore che difende l’idea della transizione incentrata sulle auto elettriche e che dopo l’ammissione di Bezos su Twitter ha scritto di essere disposto a mettere sul piatto sei miliardi di dollari per mettere fine alla fame del mondo.

Nonostante l’impegno finanziario minore in questa fase, né Bezos né Musk riescono però a toccare i picchi di attenzione politica toccati da Bill Gates, che al Cop26 ha dichiarato, sobriamente, di avere un “messaggio per il mondo” sulla necessità di investire sulle tecnologie verdi. Diventando partner dell’Eu Catalyst Partnership, programma da un miliardo di dollari in partnership con la Commissione europea per incoraggiare gli investimenti in tecnologie per il clima.

Gates, Bezos e Musk sono accomunati da un’idea chiara: la superiorità ineludibile del mercato sugli Stati e sulle società, la volontà mecenatistica utilizzata come strumento di consenso politico, la filantropia come strumento di sedazione di qualsiasi dibattito sul cambiamento strutturale degli interi contesti. “Oggi si sta vivendo una seconda età dell’oro della filantropia”, spiega Nicoletta Dentico nel saggio Ricchi e buoni?, “che nasce esattamente nel momento in cui è fallita la richiesta di globalizzazione dei diritti richiesta dai movimenti altermondialisti, dove attori arricchitisi grazie alla deregolamentazione dei mercati hanno iniziato a giocare un ruolo centrale nelle grandi sfide globali per i diritti, per l’ambiente, per la salute”. La filantropia serve sostanzialmente a cancellare ogni dibattito sul fatto che essa consiste in fin dei conti nel tentativo (legittimissimo dal punto di vista dei suoi autori) di quella che Oltremare definisce “una classe di tycoon, vincitori sulla scena della globalizzazione economica, che colgono l’occasione per dipingersi come salvatori globali.

Il capitalismo della filantropia

Si ripropone sull’ambiente il problema di fondo della “filantropia capitalista”, criticata in passato da Peter Buffett, figlio del noto investitore Warren Buffett, a lungo ai primi posti tra gli uomini più ricchi del mondo. Come ha scritto Peter Buffett in un’analisi realizzata per il New York Times scritto nel 2013, “la filantropia sta diventando un business enorme (con 9,4 milioni di occupati che distribuiscono 316 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti), ma le disuguaglianze globali continuano a crescere a spirale, fuori controllo e altre vite e comunità vengono distrutte dal sistema che crea immense quantità di ricchezza per i pochi”, dominato proprio da coloro che al termine del processo promuovono questa modesta redistribuzione.

Attraverso le donazioni milionarie, i “filantropi” assumono un peso politico sempre maggiore,  si aprono la strada a nuovi mercati, e si sostituiscono agli Stati, mettendo di fatto un sigillo a ogni prospettiva di evoluzione sistemica in forma complessa. In altre parole, come combattere lo smodato dominio della finanza sull’economia reale in un contesto in cui i suoi vincitori sono in prima fila a mostrare la molteplicità degli usi dei dividendi ottenuti? Come discutere di disuguaglianze, lotta alla povertà e progetti di lungo periodo se si dà il via libera alla prassi che alla programmazione preferisce gli atti unilaterali di un singolo Paperone? Come rimettere l’uomo al centro nella partita per lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la crescita se essa avviene nel quadro di una cornice nota da tempo?

A queste domande è difficile dare risposta. Ma se questo è a prescindere un problema, sul clima si arriva al parossismo. Alzi la mano chi ha mai visto una rivoluzione guidata dalle élite andare a buon fine. La “superclasse” vincitrice della crisi finanziaria, della pandemia, delle politiche della globalizzazione ora si fa guida moralizzatrice e piange lacrime verdi, in un’identificazione della prima causa del problema ambientale (l’iper-accumulazione capitalista) nella sua presunta soluzione. Un cambio di paradigma tale da rendere potenzialmente fallace qualsiasi discorso sulla possibilità di un reale processo di discontinuità sullo sviluppo sostenibile negli anni a venire.

Da adnkronos.com il 5 dicembre 2021. Il principe Carlo, noto per il suo contributo alla lotta ai cambiamenti climatici, ha rifiutato l'invito di Greta Thunberg a marciare insieme a migliaia di attivisti Glasgow. Una partecipazione ''difficile'' la sua, ha detto il principe di Galles, aggiungendo di condividere la "frustrazione" delle generazioni più giovani. Intervenendo alla Cop26, il principe si è rivolto proprio ai giovani dicendo che il "peso della storia" grava sulle loro spalle. Parlando della ''grande marcia, alla quale secondo alcune persone dovrei unirmi'', il principe Carlo ha detto ai leader mondiali di ''non dimenticare le persone là fuori. Non dimenticare che si tratta del loro futuro'', ascoltate la loro ''rabbia e frustrazione''. 

Luigi Ippolito per il "Corriere della sera" il 3 novembre 2021. «Sono cautamente ottimista»: così Boris Johnson ha riassunto lo stato delle cose al termine dei due giorni di vertice dei leader mondiali che ha aperto la Cop26, la conferenza internazionale di Glasgow sul clima. Non bisogna «esagerare con l'entusiasmo», ha ammonito il premier britannico, perché «c'è ancora molta strada da fare» e bisogna «restare in guardia contro le false speranze»: ma nella conferenza stampa prima del ritorno a Londra Boris ha cercato in qualche modo di dissipare le nubi che si erano accumulate su Glasgow. E abbandonandosi alla metafora calcistica, ha concluso che se prima «perdevamo 5 a 1» nella partita contro il cambiamento climatico, adesso «abbiamo segnato uno o due gol e forse riusciamo ad andare ai supplementari». Qualche ragione Johnson ce l'ha: ieri è stato annunciato un importante accordo per fermare le deforestazioni entro il 2030, un'intesa cui hanno aderito anche Paesi come Brasile e Cina; e più di 100 nazioni hanno promesso di ridurre del 30% le emissioni di metano entro la fine di questo decennio. Sul primo punto, che copre l'85% delle foreste del pianeta, c'è anche un impegno di quasi 18 miliardi di euro di fondi pubblici e privati per recuperare le foreste danneggiate. Ma forse ancora più importante è l'intesa sul metano: è stata firmata da 103 Paesi e include metà dei maggiori 30 emettitori (anche se non ci sono Cina, India e Russia, che sono fra i primi cinque). L'intesa è stata particolarmente voluta dagli Stati Uniti ed è stata esaltata da Joe Biden, che ha affermato che «taglierà la metà delle emissioni di metano nel mondo». Il presidente americano ha fatto un riferimento indiretto a Greta, lodando «la passione dei giovani e degli attivisti, che ci rammentano i nostri obblighi verso le generazioni future». Ma ha poi lanciato un attacco al leader cinese Xi Jinping, rinfacciandogli il «grave errore» di non essere venuto a Glasgow: «È una questione enorme e se ne sono andati: come possono rivendicare il mantello della leadership?». Biden ha tuttavia concluso anche lui su una nota di ottimismo: a Glasgow i leader «hanno premuto il bottone del riavvio». Insomma, nei corridoi si comincia a dire che questa Cop potrebbe essere un successo. D'altra parte c'era da aspettarsi che prima Boris suonasse le campane a morto, come aveva fatto al termine del G20 a Roma, per poi attribuirsi il merito di aver portato la conferenza di Glasgow a un traguardo insperato. Fin dall'inizio si era detto che sarebbe stato difficile raggiungere alla Cop un accordo che impegnasse tutti i Paesi a ridurre le emissioni nocive in tempi ragionevoli: e infatti Cina e India sono arrivate alla conferenza dicendo che per loro il traguardo delle emissioni zero non può essere raggiunto prima del 2060 e 2070, rispettivamente. Per cui si puntava piuttosto a una serie di intese di settore, in grado di far dire che qualcosa di importante è stato ottenuto: ed è quello che puntualmente si sta verificando. I prossimi giorni ne daranno la conferma.

Cop26, tempo di bilanci: davvero il vertice di Glasgow sta fallendo? Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. Travolto dall’onda dei manifestanti, il presidente Alok Sharma ha ammesso: «Capisco la loro frustrazione». Tempo di bilanci all’inizio della seconda settimana di COP26. Travolto dall’onda dei manifestanti, il presidente Alok Sharma ha ammesso: «Capisco la loro frustrazione». Non tutto è perduto, però. Perché ci sono sempre due vertici che viaggiano parallele: quello dei leader (assenti e presenti), con dichiarazioni altisonanti ma non vincolanti, e quello dei negoziatori, che lavorano nell’ombra. Una Cop dentro la Cop, che entra da oggi nel vivo e da cui dipenderà il successo o il fallimento. Lunedì e martedì scorso hanno parlato 120 capi di Stato e di governo, e anche se l’assenza di Xi Jinping si è fatta sentire, Sharma è andato avanti con la strategia dei «pledges» o impegni: mini-intese che dovrebbero fare da apripista su questioni chiave. «Se tutti gli impegni presi saranno pienamente raggiunti», ha detto il direttore dell’International Energy Agency (Iea), Fatih Birol, «metteranno il mondo sulla buona strada per limitare il riscaldamento globale a 1,8 °C». Siamo 0,3° sopra l’obiettivo invocato dagli scienziati ma è un grosso salto rispetto al +2,7° prospettato all’apertura di COP26. Gli impegni, però, non sono vincolanti e solo tra qualche anno sapremo se le promesse saranno state mantenute. Oltre 100 Paesi si impegnano a «fermare e invertire» la deforestazione a livello globale entro il 2030, una dichiarazione supportata da investimenti pubblici e privati, che aiuterà principalmente a proteggere l’Amazzonia e le foreste tropicali in Indonesia e nel bacino del Congo. «Ci aspettavamo più dettagli — ha commentato Jo Blackman, esperto forestale di Global Witness —. I governi hanno già fatto in passato dichiarazioni simili che non sono state rispettate». Sono 103 i Paesi che hanno firmato l’accordo per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030. Se pienamente attuato, l’impegno potrebbe ridurre di 0,2°C il riscaldamento globale entro il 2050, ma tre dei maggiori emettitori — Cina, India e Russia — non hanno firmato. Oltre 20 Paesi, tra cui l’Italia, si impegnano a terminare i finanziamenti all’estero per tutti i combustibili fossili per il 2022. Altri 40 Paesi ad uscire dal carbone (entro il 2030 i Paesi sviluppati, entro il 2040 quelli in via di sviluppo), ma Cina, Russia e Usa hanno detto no. «Joe Biden si è affrettato a criticare l’assenza di Xi Jinping, ma la sua decisione di non firmare il patto sul carbone ha dato un duro colpo a quella che doveva essere una politica di punta della COP», commenta il Financial Times. Il 90 % dell’economia globale è «impegnata» a raggiungere le emissioni zero verso metà secolo. «Ma se i piani nazionali per i tagli alle emissioni di CO2, di più breve periodo, non ci mettono subito sulla traiettoria verso il Net Zero, i modelli su cui si basano le proiezioni dell’Iea cadranno a pezzi molto rapidamente», avverte Jennifer Allan dell’Earth Negotiations Bulletin. L’india ha promesso di raggiungere il Net Zero nel 2070, 20 anni dopo Usa e Ue e dieci anni dopo Cina, Russia e Arabia Saudita. L’India si è impegnata anche ad ottenere metà dell’energia da fonti rinnovabili entro il 2030. John Kerry, inviato speciale Usa sul clima, avverte: «Le parole non significano nulla se non sono seguite dai fatti». Survival International denuncia che «nelle foreste dell’India centrale sono state pianificate 55 nuove miniere di carbone e l’ampiamento di 193 esistenti». Nei prossimi giorni non si tratta di assumere ulteriori impegni per ridurre le emissioni. I piani nazionali (o NDC) sono stati presentati dalla maggioranza dei 190 Paesi e anche se «non sono sufficienti per raggiungere l’obiettivo di 1,5», come ha ricordato la presidente dell’Unfcc Espinosa, è improbabile che cambieranno. I negoziatori ora si concentrano su tre temi chiave. 1) Trasparenza — al momento non esiste un format comune per gli NDC o per verificare che i Paesi fanno ciò che promettono —, 2) finanza climatica — l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 non è stato ancora raggiunto e alcuni Paesi in via di sviluppo hanno sottolineato che i finanziamenti non possono essere sotto forma di prestiti —, 3) definire le regole di un mercato globale del carbonio per sostenere la compensazione delle emissioni e raggiungere l’obbiettivo Net Zero. Sul tavolo i delicatissimo tema dell’adattamento ovvero a fornire le soluzioni pratiche (e finanziarie) necessarie per adattarsi agli impatti climatici e affrontare le perdite e i danni, soprattutto quelli subiti dalle nazioni più vulnerabili (e meno inquinanti). La premier delle Barbados Mia Amor Mottley è stata molto dura: «L’incapacità di fornire le finanze critiche e quella delle perdite e dei danni ricade, amici miei, sulle vite e sui mezzi di sussistenza delle nostre comunità. Questo è immorale ed è ingiusto».

Chiara Bruschi per il Messaggero il 7 novembre 2021. In duecentomila, per gli organizzatori, hanno marciato per le strade di Glasgow contro il climate change ma la giornata di ieri ha visto riempirsi le strade di molte altre città, da Londra ad Amsterdam e Sidney. La richiesta è una sola: basta con i bla bla bla citati nei giorni scorsi dalla loro leader, la 18enne Greta Thunberg, è ora che gli Stati passino all'azione nella lotta al cambiamento climatico. La stessa attivista ieri avrebbe dovuto tenere un altro discorso in seguito a quello pronunciato venerdì, in cui aveva definito la Cop26 «un fallimento», «un evento di pubbliche relazioni dove nessuno stava prendendo serie drastiche decisioni per il clima». Tuttavia, ha cancellato il suo intervento per lasciare spazio ai rappresentanti delle tante popolazioni indigene giunti da ogni parte del mondo per denunciare le conseguenze che le loro terre stanno già subendo. E a lasciare il segno, ieri, è stato il video messaggio di Simon Kofe, ministro delle Isole Tuvalu - Stato insulare polinesiano nell'oceano Pacifico - che ha deciso di farsi riprendere con le gambe immerse nell'acqua fino alle ginocchia, per denunciare i rischi che il suo arcipelago sta vivendo a causa del cambiamento climatico. Sostiene il suo governo: «La dichiarazione affianca l'ambientazione della Cop26 con la situazione della vita reale affrontata nelle Tuvalu, a causa dell'impatto del cambiamento climatico e dell'innalzamento del livello del mare, e sottolinea l'azione determinata che Tuvalu ha intrapreso per affrontare le questioni molto urgenti della mobilità umana nel quadro del cambiamento climatico».

L'EMERGENZA Un'emergenza sottolineata anche dall'arcipelago delle Maldive che si trova ad affrontare non una ma tre emergenze: l'innalzamento del livello del mare che minaccia di sommergere alcune delle isole entro la prossima decade; i monsoni e i temporali tropicali che stanno diventando sempre più frequenti e più violenti ed erodono le coste; e infine la minaccia delle temperature sempre più alte che stanno mettendo a dura prova la vita sulla barriera corallina. Nel frattempo, si è chiusa ieri la prima settimana della conferenza, con una giornata dedicata alla Natura, con particolare attenzione all'utilizzo della terra, all'agricoltura sostenibile e alla lotta alla deforestazione. Venti Nazioni, Brasile e Indonesia inclusi - hanno siglato il Forest, Agriculture and Commodity Trade (FACT), un patto in cui si impegnano a dare supporto ai piccoli coltivatori e a intensificare la lotta contro l'abbattimento degli alberi.

PUNTO DI PARTENZA George Eustice, ministro dell'ambiente del governo Johnson ha posizionato questo tema «al centro delle sue ambizioni per Cop26». «La natura è essenziale per Cop26», ha ribadito sottolineando la speranza che quello di Glasgow sia un inizio non un punto di arrivo. E dopo Leonardo DiCaprio è stata la volta di Idris Elba che in qualità di ambasciatore delle Nazioni Unite per l'International Fund for Agricultural Development (IFAD) ha denunciato l'importanza di agire adesso per combattere la fame nel mondo. «Quelle immagini di persone e famiglie che aspettano il cibo in fila a Los Angeles sono destinate a diventare una realtà se non troviamo il modo di fare qualcosa subito», ha sottolineato nel sostenere l'attivista Vanessa Nakate. «La crisi climatica porta fame e morte in tutta l'Africa», ha denunciato quest'ultima, ponendo l'accento su come le stagioni di pioggia sempre più corte e la siccità sempre più grave abbiano già compromesso l'intero settore delle coltivazioni. 

Ottavio Cappellani per la Sicilia il 7 novembre 2021. Vabbé, dai ragazzi, Greta Thunberg ha ragione ed è una ingenua. La battaglia per il clima è giustissima e inutile. Qui c’è da assicurare il benessere dei paesi sviluppati, dei ricchi che campano alle spalle del terzo mondo, del consumo energetico di  chi ha bisogno di case parquettate e calde, di device, di alexa, di frigoriferi smart e climatizzatori. Qui abbiamo una generazione di manager che hanno famiglia, che devono assicurare alla loro discendenza fondi d’investimento, azioni in borsa, assicurazione, progresso progresso progresso, sviluppo sviluppo sviluppo. Sapete che un manager deve assicurare, ogni anno, un aumento di fatturato? E’ questo che chiedono gli investitori (che tengono famiglia, come i manager, del resto). Ha ragione Greta, il Cop26 è stata una grande e ridicola operazione di “greenwashing”, un lavarsi la coscienza parlando di “green”, un bidet dell’apocalisse climatica, un “bla bla” inutile. Peggio: la reazione di Greta e dei “gretini” rischia di essere una grande giustificazione, rischia di veicolare la falsa informazione che esista una controcultura del clima, rischia di fare credere che ci sia una nuova generazione di “cciofani” che stanno lottando per il clima, rischia di diventare qualcosa da ammirare e totalmente inutile. Greta ha un potere, quello della parola, che da tempo, oramai, non ha alcun effetto sulla realtà, in cui legiferano le leggi dell’economia e dello sviluppo (che orrore). Epperò, tutti questi che “tengono famiglia”, che perseguono l’interesse della “famiglia” (come in ogni “mafia”), e per questo non criticabili (l’interesse dei figli e dei nipoti è “intoccabile”, parla al sentimento), vivono in una contraddizione insanabile: distruggono il pianeta per “amore” della propria discendenza ma, al contempo, condannano la propria discendenza a vivere in un mondo distopico, apocalissizzato. Veramente non è proprio così, a dirla tutta: i ricchi troveranno sempre oasi dove rintanarsi, dove non pagare i propri debiti nei confronti del mondo, dove godere dei frutti dell’appropriazione, del furto, della meschinità orripilante, mentre i poveri del mondo soffriranno di desertificazione, di perdita di posti di lavoro, di pil legato all’agricoltura e al turismo che andranno in fumo. Il mediterraneo è spacciato. Già da tempo. Attraversato da guerre, migrazioni, signori della guerra, mafie, esseri ripugnanti, mentre la narrazione ‘politica’ vuole ancora parlare di paradisi turistici e luoghi di investimento, ma fatemi il piacere: anche se lo so che la verità bisogna tacerla per spartirsi quei quattro finanziamenti. Greta ha ragione ma è ingenua, quasi una “utile idiota”. La verità, semplicemente, è che il “terzo mondo” è destinato ad allargarsi, sempre di più. Che il mondo sia destinato a bruciare è inevitabile. Resteranno isole di benessere, protette. Con il climatizzatore attaccato direttamente alla giugulare di altri esseri umani. Benvenuti nella distopia dei vampiri.

Cop26, migliaia di giovani in corteo con Greta Thunberg: "È chiaro che il summit è un fallimento". Antonello Guerrera su La Repubblica il 5 novembre 2021. La leader svedese di Fridays for Future in corteo con tanti giovani per le strade di Glasgow. Vanessa Nakate: "L'inazione dei leader distrugge l'ambiente". "È chiaro a tutti che la Cop26 è un fallimento". Tra applausi e urla di approvazione di migliaia di seguaci e ambientalisti, Greta Thunberg affonda ancora una volta il cruciale vertice del clima di Glasgow, dal palco in George Square, dopo una marcia di alcuni chilometri nel centro della città scozzese. L'attivista e star svedese contro il cambiamento climatico non lascia scampo agli accordi su deforestazione, metano e carbone annunciati in questi giorni alla Cop26, allargando ancora di più il solco tra i lavori all'interno dello Scottish Event campus dove si tiene il summit. Dopo le accuse di "festival di greenwashing" di ieri (ossia promesse farlocche di finanza, banche e istituzioni per "ripulirsi la reputazione") e "l'evento più esclusivo di sempre sul clima", Thunberg è tornata all'attacco di leader e negoziatori: "Sono soltanto bei discorsi per nascondere parole vuote e bla bla bla", diventato oramai un mantra e un motto di tutti, qui in Scozia tra manifestanti e ambientalisti, dopo averlo pronunciato per la prima volta a Milano qualche settimana fa durante la Cop dei giovani. Secondo Thunberg, non si può affrontare la minaccia del cambiamento climatico "con gli stessi metodi che hanno portato il mondo a doverla affrontare". Non solo. La giovane svedese accusa leader e delegati di fornire volontariamente "cavilli e statistiche incomplete degli accordi annunciati", tutto ciò, secondo Greta, "per salvaguardare il business e lo status quo". È un grido forte e pugnace, dunque, quello che arriva dalle strade e dalla piazza di Glasgow, mentre dentro il campus i negoziatori stanno discutendo giorno e notte per cercare di arrivare a una sintesi accettabile che si avvicini quanto più possibile all'obiettivo campale, ossia il contenimento dell'aumento della temperatura a +1,5 °C nei prossimi decenni. La soglia per cui, secondo gli scienziati, potrà essere salvato il pianeta e il futuro delle prossime generazioni. Ma secondo Thunberg, "i leader non stanno facendo nulla", ha detto a una folla di migliaia di persone che ha risposto con roboanti applausi. "Sembra che il loro obiettivo principale sia continuare a lottare per lo status quo", ha concluso poi Greta, alla fine della manifestazione di Fridays for the Future partita stamattina da Kelvingrove Park, alla quale hanno partecipato moltissimi ragazzi, teenager e bambini, ma anche adulti e genitori. Tutti, qui in strada, sono con Greta, accolta da star come sempre e scortata da un servizio di sicurezza monstre, con decine di ragazzi e volontari che l'hanno protetta costantemente da media e seguaci. Critico anche l'altro giovane astro nascente dell'ambientalismo mondiale, ossia la 24enne ugandese Vanessa Nakate, che ha parlato dal palco di George Square un'ora prima di Greta: "Quanto dovrà passare prima che i leader delle nazioni capiranno che la loro inazione distrugge l'ambiente? Siamo in una crisi, un disastro che avviene ogni giorno. L'Africa è responsabile del 3% delle emissioni storiche, ma soffre il peso maggiore della crisi climatica. Ma come può esserci giustizia climatica se non ascoltano i paesi più colpiti? Noi continueremo a lottare". A tal proposito, un nuovo rapporto lanciato oggi da Oxfam denuncia come nel 2030 le emissioni di CO2 prodotte dall'1% più ricco dell'umanità saranno 30 volte superiori a quanto sostenibile per contenere l'aumento delle temperature globali entro 1,5°C.  Le emissioni del 50% più povero sono destinate a restare ben al di sotto della soglia di guardia. Senza una radicale inversione di rotta tra meno di 10 anni, secondo Oxfam, le emissioni prodotte dal 10% più ricco potrebbero portare il pianeta al punto di non ritorno indipendentemente da quello che farà il restante 90% dell'umanità. Da stasera, dopo le accuse di Thunberg, la pressione su leader e negoziatori è abnorme. E domani ci sarà un'altra manifestazione ambientalista con molti più gruppi coinvolti, che potrebbe radunare decine di migliaia di persone per cui questa Cop26, come sostiene Greta, è un fallimento. Eppure, dopo gli annunci sulla deforestazione e gas metano dei giorni scorsi, ieri ne sono arrivati altri due dalla Cop26. Il primo sullo stop a investimenti in combustibili fossili all'estero dal 2022 che l'Italia ha firmato all'ultimo dopo tentennamenti nel governo. Il secondo è quello sul carbone, che, con il 35% di energia mondiale che fornisce e la sua enorme quantità di emissioni nel mondo, è il principale responsabile del climate change. "Ma la fine del carbone è vicina", ha esultato ieri Alok Sharma, il presidente della Cop26, il cruciale vertice del clima in corso a Glasgow. Questo perché ora ci sono altri 23 Paesi, tra cui Indonesia, Corea del Sud, Vietnam, Cile, Ucraina e Polonia (l'Ue ringrazia), che si sono impegnati a rinunciare al carbone e non finanziare nuove centrali. Per le nazioni più ricche, questi obiettivi dovranno essere raggiunti negli anni Trenta di questo secolo (l'Italia si era già impegnata entro il 2025) mentre quelli in via di sviluppo potranno prendersi un decennio in più. Promesse incoraggianti, ma che ovviamente dovranno essere concretizzate. Per esempio l'Indonesia è il più grande esportatore di carbone al mondo e questo è la fonte del 68% della produzione energetica nazionale. Perciò Giacarta sarà tra i primi, insieme a Sudafrica e Filippine, a ricevere parte dei 100 miliardi promessi ai Paesi in via di sviluppo per la transizione verde. L'altro dubbio, che scatena le critiche di associazioni come Greenpeace, è che in questo patto contro il carbone mancano i più grandi responsabili mondiali delle emissioni, vedi Cina e India, che attualmente ospitano la metà delle 2600 centrali a carbone in attività o in costruzione nel mondo. Assenti dal patto anche gli Stati Uniti. Insomma, tutto questo per Greta è assolutamente e insufficiente. E alla fine della Cop26 manca oramai solo una settimana.

Quanto valgono davvero gli impegni di banche e Paesi ricchi per il clima. Eugenio Occorsio su La Repubblica il 5 novembre 2021. Gli obiettivi della Cop26 in cifre: dai governi alla finanza, ecco quanto si investirà nei prossimi anni per fermare il riscaldamento globale. Dalla Banca Mondiale al Glasgow Financial Alliance for Net Zero, passando per fondi di investimento, ecco gli obiettivi "monetizzati" (in dollari) alla Cop26 per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo e gli investimenti orientati alla finanza green. Sono i dollari che i governi dei Paesi sviluppati, Usa in testa, hanno annunciato di dedicare ogni anno, da qui a metà secolo, all'aiuto delle aree più svantaggiate del mondo per la loro transizione ambientale. 

Stiglitz: "Le lobby industriali si opporranno con tutte le loro forze alla transizione ecologica". Eugenio Occorsio su La Repubblica il 5 novembre 2021. Intervista con il Nobel per l'Economia: "Se ben gestita, la transizione si può trasformare in una grandiosa occasione di nuova occupazione e nuovo sviluppo". «Sarà dura. Quella di cui si sta discutendo a Glasgow è la più grande e sacrosanta operazione innanzitutto economica che l’umanità deve fronteggiare. Ma temo l’opposizione tenace, ben finanziata, continua, delle lobby industriali che si oppongono con tutte le loro forze alla decarbonizzazione, almeno nei tempi prospettati. Specialmente qui in America». Joseph Stiglitz, classe 1943, è uno dei più prestigiosi ma anche dei più battaglieri economisti mondiali: ha combattuto strenuamente contro le diseguaglianze, i monopoli, i grandi rentier, perfino l’alta finanza ai tempi di Occupy Wall Street.

Il fallimento del cop26 (e di Greta). Riccardo Pelliccetti il 6 Novembre 2021 su Il Giornale. Ebbene sì, questa volta hanno ragione i giovani, almeno in parte. «Questa non è più una conferenza sul clima, è un festival del greenwashing per i Paesi ricchi», ha denunciato la pasionaria Greta Thunberg, usando un termine azzeccato, cioè lavarsi la coscienza col verde. Come darle torto. D'altronde, al Cop26 di Glasgow c'è stato un grande bla bla, ma pochi fatti concreti. Qualcosa si muove, inutile negarlo, ma appare poco rispetto all'emergenza che il pianeta si trova ad affrontare. Per uno degli obiettivi più qualificanti («consegnare il carbone alla storia») non è stato raggiunto un accordo globale. Al summit scozzese sul clima sono stati circa 40 i Paesi che hanno preso questo storico impegno ma, ahinoi, i principali utilizzatori di combustibili fossili, cioè Cina e Stati Uniti (ma anche India, Russia e Australia) si sono chiamati fuori. I toni entusiasti del ministro britannico per gli Affari e l'Energia, Kwasi Kwarteng, («la fine del carbone è in vista») non hanno un riscontro concreto, se non in piccola parte. L'obiettivo del tetto di 1,5 gradi di riscaldamento globale non è di fatto raggiungibile se i maggiori Paesi inquinatori non firmeranno l'accordo. Come pure le zero emissioni entro il 2050. D'accordo, piccoli passi, come è stato anche per la deforestazione. Non si può pretendere che il mondo cambi da un giorno all'altro, ma almeno l'impegno a farlo in tempi ragionevoli sarebbe già qualcosa. Ma anche il vertice scozzese è stato un fallimento, inutile nascondersi. E, ieri, nella giornata dedicata ai giovani, sono stati proprio loro a urlare la propria insoddisfazione. A Glasgow sono infatti scesi in piazza, come fanno ogni venerdì in ogni parte del mondo, giorno dedicato al consueto sciopero del clima di Fridays for Future. L'invocata «giustizia climatica» e le accuse ai governi mondiali, però, non risolvono il problema. E, manifestare ogni settimana, se da un lato tiene desta l'attenzione sul tema, dall'altro non pare che produca effetti tangibili. D'altra parte, sono molti i Paesi che si sono dati una mossa, la consapevolezza dell'emergenza è concreta, ma non è pensabile azzerare le economie, con relative ricadute su occupazione e Pil, in tempi brevi. La transizione ecologica è ai primi passi e serve anche una svolta culturale. A Glasgow, il ministro Roberto Cingolani ha lanciato la proposta di cominciare dalla scuola. Non è una cattiva idea. Un programma pilota per educare e aggiornare gli insegnanti perché, ha detto, «non c'è una preparazione sufficiente ad affrontare le questioni legate alla transizione ecologica e ai cambiamenti climatici». Un altro piccolo passo. Riccardo Pelliccetti 

Greta Thunberg vuole fare il salto all'età della ragione? Allora vada a pontificare da Xi Jinping. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. Come si dice bla bla bla in cinese? Se Greta Thunberg e le truppe climaticamente corrette vogliono davvero fare il salto all'età della ragione, dagli itinerari in barca con Pierre Casiraghi alla lotta politica, è questa la domanda che dovrebbero porsi. Ieri la giovane Erinni dell'ecofondamentalismo globale si è presa il lusso di cazziare i cosiddetti "grandi della Terra", riuniti a Glasgow in suo nome e già totalmente succubi della sua agenda. Un'evidente dinamica sadomasochista, in cui la frusta la impugna chiaramente lei, e giù scudisciate: «I veri leader non sono là dentro, i veri leader siamo noi». Se vogliamo entrare nella realtà e lasciare per un attimo la sua caricatura allucinata, sempre ieri è arrivata una notizia più saliente di tutte le moine colpevolizzanti in scena alla Cop26, e non nel senso gradito al gretinismo: la Cina ha aumentato la produzione giornaliera di carbone di un milione di tonnellate, portandola a oltre 11,5 milioni. Lo ha annunciato la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc), uno dei mille tentacoli del Politburo comunista. Il quale è tecnicamente il più grande inquinatore del globo terracqueo: il Dragone, sulle ali del nuovo "balzo in avanti" imposto da Xi Jinping, è responsabile del 29,9% di emissioni del mondo. Da sola la Cina emette ogni anno 13 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, più di Stati Uniti ed Europa messi insieme. Ecco allora una magnifica occasione per Greta la "vera leader", Greta l'eroina byroniana, Greta un po' infallibile Cassandra e un po' indomita Giovanna d'Arco: organizzi un bel sit-in della meglio gioventù green davanti allo Zhongnanhai. Lo Zhongnanhai (che significa "comando e governo della nazione") è un complesso di edifici nel centro di Pechino, sede del Partito e del governo della Repubblica popolare (i quali come in ogni totalitarismo che si rispetti coincidono). Se Greta ritiene che il cambiamento climatico dovuto all'inquinamento umano (una tesi contestata da cretini come Antonino Zichichi, che a 16 anni invece di bigiare in yacht studiava) sia l'emergenza fondamentale della nostra epoca, vada al cuore del problema. Che guardacaso è lo stesso della pandemia, lo stesso dello squilibrio commerciale dovuto alla concorrenza sleale, al nuovo schiavismo: la Cina. Certo, è più difficile che prendersela con l'Occidente intontito dal politicamente corretto e scodinzolante davanti alle sue treccine, lo capiamo. Ma che diamine, lei è una "vera leader".

Cop26, generazioni a confronto: ecco come è cambiato il mondo in 30 anni. Giacomo Talignani su La Repubblica il 5 novembre 2021. I baby boomer sono responsabili del più grande spreco di risorse della storia. I dati ecologici di due generazioni a confronto sono impietosi. Nell'estate del 1990, quella delle "notti magiche" dei mondiali di calcio italiani, il dottor John Houghton a capo dell'Ipcc Working Group metteva la firma sul primo rapporto di sempre dell'Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) in cui scienziati di tutto il Pianeta avvertivano sulla pericolosità dei cambiamenti climatici. Probabilmente, a un qualsiasi trentenne di allora, in un mondo dove internet era embrione e i social odierni inimmaginabili, quell'avvertimento sarà sfuggito. Gli scienziati dell'Onu sostenevano che la Terra avesse la febbre: la temperatura media della superficie era aumentata di 0,3-0,6 °C rispetto ai livelli pre-industriali e per quanta CO2 stava finendo in atmosfera le cose sarebbero costantemente peggiorate.

Cop26, la generazione inquinata. Giacomo Talignani su La Repubblica il 5 novembre 2021. I baby boomer sono responsabili del più grande spreco di risorse della storia. I dati ecologici di due generazioni a confronto sono impietosi. Nell'estate del 1990, quella delle "notti magiche" dei mondiali di calcio italiani, il dottor John Houghton a capo dell'Ipcc Working Group metteva la firma sul primo rapporto di sempre dell'Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) in cui scienziati di tutto il Pianeta avvertivano sulla pericolosità dei cambiamenti climatici. Probabilmente, a un qualsiasi trentenne di allora, in un mondo dove internet era embrione e i social odierni inimmaginabili, quell'avvertimento sarà sfuggito. Gli scienziati dell'Onu sostenevano che la Terra avesse la febbre: la temperatura media della superficie era aumentata di 0,3-0,6 °C rispetto ai livelli pre-industriali e per quanta CO2 stava finendo in atmosfera le cose sarebbero costantemente peggiorate.

(AGI il 4 novembre 2021) - La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è presentata alla Cop26 a Glasgow a bordo di un jet privato. Una scelta che stride non poco con l'agenda green dell'Ue. Ma la polemica vera è un'altra e l'ha tirata fuori il quotidiano britannico The Telegraph: von der Leyen ha usato il jet privato 18 volte su 34 viaggi ufficiali fatti finora, di cui uno tra Vienna e Bratislava per una distanza, tra il decollo e l'atterraggio, di cinquanta chilometri. "Un'ora di treno", fa notare il giornale britannico. Non è tutto. Nel 2020, ha preso un jet da Bruxelles a Londra per i negoziati commerciali della Brexit. Il ritorno l'ha fatto con l'Eurostar. E ancora: un gruppo di commissari europei, guidato dalla presidente, si è avvalso del jet privato per la tratta tra Bruxelles e Strasburgo, sede del Parlamento europeo. Nel suo tour per il Recovery fund ha preso il solito jet privato per un viaggio tra Lisbona e Madrid - circa 540 chilometri - prima di volare ad Atene. Da Bruxelles fonti della Commissione si sono giustificati dicendo che quei viaggi "non erano fattibili con voli commerciali". La polemica però è difficile da spegnere. Il gruppo Id al Parlamento europeo, commentando la notizia del Telegraph, ha definito von der Leyen "il vero disastro climatico".

Un jet privato manda all'aria Ursula. Gian Micalessin su Il Giornale il 5 novembre 2021. Altro che Cina e India, il disastro ambientale noi europei ce l'abbiamo in casa. O meglio sopra casa, visto che Ursula von der Leyen è Presidente della Commissione Europea. Ma a dispetto del titolo, e di tanti, illuminati discorsi su transizione ecologica ed economia verde, quel Presidente si guarda bene dal dare il buon esempio. Lunedì scorso si è presentato alla Cop 26, la conferenza Onu sul clima in corso a Glasgow, a bordo di un jet privato. Che - mutatis mutandis - è come dire «se non avete pane mangiate brioche». I jet privati sono, infatti, la vera bestia nera degli ecologisti. Secondo i calcoli dell'Ong ambientalista Transport&Environment (T&E) le due tonnellate di anidride carbonica sputate in una sola ora di volo da un aero-taxi equivalgono a un quarto delle emissioni di CO2 emesse da un comune cittadino europeo nel corso di un intero anno. Eppure più che una disattenzione quella di Ursula sembra un'abitudine. Stando al quotidiano britannico The Telegraph la von der Leyen sarebbe ricorsa al jet privato per almeno la metà dei 34 viaggi ufficiali intrapresi in veste di presidente della Commissione. Non ha rinunciato alla comodità dell'aereo-taxi neppure quando ha dovuto spostarsi tra Vienna e Bratislava, due capitali distanti appena sessanta chilometri. Come dire quaranta minuti d'automobile o meno di un'ora di treno. Abituata a questi agi figuriamoci se la signora si preoccupa di salire su un treno o su auto per distanze maggiori. Nel 2020 ha ordinato un jet da Bruxelles a Londra per arrivare in tempo ai negoziati commerciali della Brexit. E si è ben guardato dal farne a meno quando, in compagnia di un gruppo di frettolosi commissari, ha dovuto spostarsi dalla sede del Parlamento Europeo di Strasburgo a quella di Bruxelles. In auto o in treno quei 440 chilometri non richiedono più di tre ore e mezza, ma in aereo, beata la comodità, volano via in meno di un'ora. Con questi precedenti Ursula si è ben guardata dal risparmiarsi il jet privato quando le discussioni sul Recovery Fund l'hanno costretta ad un trasferimento di 540 chilometri tra Lisbona e Madrid. Dopo le critiche del Telegraph da Bruxelles si è subito fatto sentire Eric Mamer, portavoce e fedele scudiero della Presidente. «I voli ha detto - non li usiamo con leggerezza e la presidente usa il treno ogni volta che può. Ad esempio, per la prima plenaria in presenza post-Covid a Strasburgo la presidente si è recata, con tutto lo staff, in treno Inoltre, il jet utilizzato per Glasgow per la Cop26 era a biocarburante». Ma, bontà sua, si è scordato un precedente non irrilevante. A fine settembre 2019, solo tre mesi dopo il voto che garantì la nomina della von der Leyen, l'Ue portò a 10,71 milioni di euro, con un aumento secco di di 3,5 milioni, il budget quinquennale per il noleggio di jet destinati ai propri funzionari. A Bruxelles, insomma, già lo sapevano. La Presidente ama viaggiar comoda e veloce.

Il no al carbone si ferma a quaranta, l'Italia tra i capofila dei Paesi «puliti». Angela Napoletano, Glasgow, su Avvenire il 5 novembre 2021. Il premier britannico Boris Johnson, padrone di casa della Conferenza Onu sul clima (Cop26), ha sperato fino all’ultimo che da Glasgow, cuore della regione “nera” della Scozia, il Lanarkshire, per gli enormi giacimenti di carbone che per 300 anni hanno alimentato l’industria britannica, potesse arrivare l’accordo che avrebbe relegato al passato l’uso del minerale nero. Così non è stato. L’elenco dei Paesi che hanno rinnovato l’impegno a rinunciare in modo totale al più inquinante dei combustibili fossili, sia a livello domestico che internazionale, si è fermato a quota 40. Ne fa parte l’Italia insieme ad alcune delle nazioni, come Polonia, Indonesia, Sudafrica, Ucraina, Canada e Corea del Sud, che bruciano enormi quantità di carbone all’anno. Pesa tuttavia l’assenza, in parte prevista, dei Grandi: Stati Uniti, Cina, India e Australia. La presidenza di Cop26, per usare le parole di Alok Sharma, ha esaltato la portata «storica» dello sforzo compiuto ai tavoli negoziali scozzesi «in vista» della rottamazione definitiva del carbone e del passaggio a fonti di energia pulita. Il termine entro cui la transizione deve compiersi è diverso a seconda del “peso” economico dei Paesi: il 2030 per le nazioni più sviluppate, il 2040 per quelle più piccole. Una controversa postilla, trapelata sulla stampa britannica, è stata prevista in entrambi i casi: «O il prima possibile negli anni a seguire». Precisazione che secondo gli addetti ai lavori dil uisce nel tempo l’obiettivo originario, completare la conversione all’energia verde entro la metà del secolo, per contenere l’innalzamento delle temperature entro 1,5 gradi. Una serie di accordi collaterali a quello principale alleggerisce il peso dell’obiettivo mancato. Tra questi c’è l’iniziativa di 25 Paesi, tra cui Italia, Canada, Stati Uniti, Regno Unito e Danimarca, a sospendere entro il 2022 i finanziamenti esteri rivolti a progetti del comparto energetico basato sui combustibili fossili. Lo stesso faranno anche istituzioni finanziarie privare come HSBC, Fidelity International e Ethos. Vietnam, Marocco e Indonesia, per citarne un altro, si sono impegnati a non costruire più centrali a carbone. Altre 26 firme, tra cui quelle dei governanti di Cile e Singapore, si sono aggiunte anche alla Powering Past Coal Alliance del 2017 che raggiunge così oltre 160 adesioni nel mondo. I negoziatori statunitensi rimasti a Glasgow cercano di minimizzare la mancata adesione di Washington all’“alleanza” dei Paesi che hanno detto di «no» al carbone spiegando che non è il momento, adesso, di scelte così nette che possono alterare equilibri politici già precari in vista delle elezioni di «mid term» del prossimo anno. Ma non è detto che in futuro possa farlo. Soprattutto se i costi del minerale, schizzati in neppure un anno da 70 a 300 dollari a tonnellata, continueranno a oscillare pericolosamente. Alla tentazione di guardare con ottimismo al futuro cede anche dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea) le cui stime dicono che se tutti gli impegni presi, ieri sul carbone e lunedì sul metano, vengono mantenuti l’innalzamento delle temperature potrebbe essere contenuto entro 1,8 gradi, soglia non lontana dal quell’1,5 inseguito dagli Accordi di Parigi. Al futuro più pulito guardano anche i Paesi in via di sviluppo: Cop26 ha annunciato ieri anche nuove adesioni all’Alleanza verde per l’idrogeno di Africa e America Latina. La transizione energetica di Indonesia e Filippine avverrà con il supporto del Fondo per gli Investimenti sul clima e della Banca asiatica per lo sviluppo.

Carbone addio entro il 2030. Ma i grandi si tirano indietro. Valeria Robecco su Il Giornale il 5 novembre 2021. New York. L'obiettivo alla Cop26 di Glasgow era di «consegnare il carbone alla storia», e qualche passo avanti è stato fatto, pur se si tratta di progressi decisamente ridimensionati rispetto alle attese. Al summit sul clima in Scozia oltre 40 Paesi hanno trovato l'accordo su un impegno storico, quello di eliminare del tutto l'utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica prima del 2050. Impegno a cui però non hanno aderito i principali utilizzatori del combustibile fossile come Stati Uniti e Cina, ma anche Russia, India e Australia. L'eliminazione graduale del carbone secondo l'accordo sarà nel decennio del 2030 per le principali economie, e in quello del 2040 per i Paesi in via di sviluppo. Tra le nazioni che hanno sottoscritto l'impegno ci sono Polonia, Cile, Canada, Vietnam e Ucraina, oltre 100 istituzioni finanziarie e altre organizzazioni internazionali. Il governo britannico, copresidente insieme all'Italia della Cop26, ha salutato l'intesa come «un momento fondamentale nei nostri sforzi globali per affrontare il cambiamento climatico». «La fine del carbone è in vista», ha commentato il ministro britannico per le Imprese, Kwasi Kwarteng. Molti osservatori, tuttavia, sostengono che l'obiettivo cruciale di mantenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi verrà mancato finché i maggiori inquinatori si rifiuteranno di firmare. Per quanto riguarda Washington, nonostante la volontà di Joe Biden di presentare l'America a Glasgow come leader nella lotta al cambiamento climatico, gli analisti hanno letto la scelta come un tentativo di non inimicarsi i rappresentanti in Congresso degli stati ancora legati al carbone, vista la difficoltà che il presidente sta attraversando per mettere a segno risultati nella sua agenda economica e sociale. Un altro impegno sottoscritto in Scozia, in questo caso anche dagli Usa, riguarda l'interruzione dei finanziamenti pubblici per progetti di combustibili fossili all'estero entro la fine del 2022: i firmatari sono 20 paesi, tra cui Italia, Regno Unito e Canada. Non ci sono però i principali stati asiatici responsabili della maggior parte di tali finanziamenti all'estero. L'impegno riguarda tutti i combustibili fossili inclusi petrolio e gas, andando oltre quello assunto quest'anno dai paesi del G20 di fermare i finanziamenti all'estero per il solo carbone. Sono previste comunque esenzioni in circostanze «limitate» non specificate, che devono essere coerenti con l'obiettivo dell'accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. E un altro passo avanti è stato lanciato da Unione Europea e Stati Uniti, con l'adesione di 103 Paesi: si tratta dell'impegno storico per ridurre le emissioni del potente gas serra metano, il secondo maggiore contributore al cambiamento climatico dopo l'anidride carbonica. Una mossa che potrebbe prevenire il riscaldamento globale di 0,2 gradi Celsius. I firmatari - tra cui anche i principali emettitori come Nigeria e Pakistan - cercheranno di ridurre entro il 2030 le emissioni globali di metano del 30 per cento rispetto ai livelli del 2020. «Dobbiamo agire ora, non possiamo aspettare il 2050. Bisogna ridurre rapidamente le emissioni - ha spiegato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen -. Ridurre le emissioni di metano è una delle cose più efficaci che possiamo fare per ridurre il riscaldamento globale a breve termine». Mentre Biden ha affermato che «ciò che facciamo in questo decennio avrà un impatto sulla possibilità o meno di rispettare il nostro impegno a lungo termine». E «una delle cose più importanti che possiamo fare per mantenere gli 1,5 gradi a portata di mano è ridurre le nostre emissioni di metano il più rapidamente possibile». Il metano, infatti, è molto più potente ma ha anche una vita più breve dell'anidride carbonica: il suo effetto di riscaldamento maggiore è nell'arco di due decenni, mentre l'anidride carbonica rimane nell'atmosfera per centinaia di anni. Ciò significa che una riduzione del gas ora può avere un effetto relativamente rapido sulle temperature globali.

Angelo Allegri per "il Giornale" il 3 novembre 2021. Donald Trump, sbrigativo come la caricatura di un uomo d'affari americano, si era offerto di comprare in una volta sola tutto il Paese. Gli abitanti della Groenlandia, 60mila in un territorio grande come mezza Unione Europea, non l'hanno presa bene. Nelle ultime elezioni, tenute in primavera, della proposta si è parlato ancora. E anzi uno dei motivi per cui Trump si era mosso, le enormi risorse minerarie dell'isola più grande del mondo, sono state al centro della contesa elettorale. Alla fine i socialdemocratici, che governavano praticamente senza interruzioni dall'indipendenza nel 1979, hanno perso; a vincere è stato un partito ancora più a sinistra, Ataqatigiit, ovvero «Comunità». I primi avevano mostrato più di un'apertura verso i progetti di sfruttamento minerario, gli esponenti di «Comunità» vogliono frenare su tutta la linea. Nel grande Nord la corsa all'oro è destinata, dunque, con ogni probabilità, a rallentare. Anche se bisogna intendersi: l'oro della Groenlandia non è oro vero (c'è anche quello ma non è più importante come una volta); si parla piuttosto di sostanze minerali. Tutto questo contribuisce a spiegare perché oggi ci sia un unico dominatore del mercato: la Cina, che attualmente gestisce circa il 93% del fabbisogno internazionale. Partendo dal primo e maggiore giacimento di terre rare ancora in attività, quello di Bayan Obo, nella Mongolia Interna, Pechino ha deciso di conquistare un predominio mondiale accettando di devastare dal punto di vista ecologico intere zone del suo territorio. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta tra i maggiori produttori c'erano gli Stati Uniti con la miniera di Mountain Pass in California, che però ha dovuto fare i conti con regolamentazioni ecologiche, processi per risarcimento danni e conseguenti fallimenti. In anni recenti ha riaperto (gestisce circa il 15% del fabbisogno globale) ma trasferendo, ed è un paradosso, le lavorazioni più inquinanti proprio in Cina. La stessa scelta hanno fatto altri produttori mondiali, il che non ha fatto altro che consolidare il primato di Pechino: che quando non fa tutto in casa (si parla delle attività di estrazione, separazione, lavorazione dei materiali) controlla almeno una delle fasi più delicate della cosiddetta «catena del valore». Da notare, tra l'altro, che la stessa Cina ha deciso a sua volta negli ultimi anni di «traslocare» parte del lavoro più sporco in Myanmar, dove gli standard ecologici sono per il momento ancora più bassi. Dal punto di vista geopolitico il risultato di tutta questa evoluzione è quasi grottesco: uno dei settori in cui le terre rare sono ormai indispensabili è l'aviazione e un recente Rapporto del Congresso Usa ha calcolato che un solo F-35 della Lockheed, caccia di ultima generazione dell'aviazione Nato, ne contenga per 417 kilogrammi. A chi devono rivolgersi gli americani per procurarsi questo materiale? Al loro principale avversario, la Cina, appunto. Nessuna meraviglia che le terre rare siano diventate una delle aree di tensione tra i due Paesi. Secondo quanto riferito dal Financial Times le società produttrici cinesi sarebbero state di recente convocate dal governo di Pechino per una serie di audizioni. L'obiettivo era quello di stabilire se un eventuale embargo avrebbe davvero messo in crisi gli americani o se questi avrebbero potuto in qualche modo rivolgersi agli altri (pochi) fornitori presenti al mondo e risolvere così i loro problemi. Sempre Pechino ha poi inserito in una «lista nera» produttori aeronautici o missilistici come Lockheed, Boeing o Raytheon per le loro forniture di armi a Taiwan. E la lista nera potrebbe trasformarsi in un divieto di fornitura. Da parte loro gli americani, Pentagono e Dipartimento di Stato, hanno definito come priorità strategica la creazione di canali alternativi di approvvigionamento. La crisi attuale, secondo molti analisti, assomiglia all'unico precedente, che risale al periodo tra il 2010 e il 2011. Allora la Cina, che già deteneva il semi-monopolio del settore, decise di contingentare le esportazioni per una delle periodiche crisi politiche con il Giappone. Lo scossone fu avvertito, ma l'industria mondiale reagì trovando materiali alternativi o mobilitandosi per trovare nuovi giacimenti. In quel momento, però, l'utilizzo delle terre rare era più limitato rispetto a quello di oggi. Un «infarto» delle forniture rischierebbe di provocare in questi anni conseguenze più gravi. A peggiorare le cose è che la Cina non sta mettendo le mani solo sulle terre rare. «Sia la decarbonizzazione globale dell'economia sia la quarta rivoluzione industriale si basano sulle terre rare e su un gruppo sempre più numeroso di altri minerali critici (in inglese critical raw materials) come il litio e il cobalto», spiega Sophia Kalantzakos, docente alla New York University in un libro («Terre Rare») appena pubblicato da Egea. Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, la produzione di litio e di cobalto dovrà aumentare del 500% entro il 2050 solo per soddisfare la domanda di energia pulita. Per quanto riguarda la produzione di litio il valore è già triplicato nei tre anni dal 2015 al 2018 sfiorando le 100mila tonnellate. La stessa cosa si può dire per altri materiali, e perfino le forniture di nickel e rame, un tempo considerati abbondanti, dice Kalantzakos, sono diventate un problema (vedi l'altro articolo in questa pagina, ndr). Anche in questo caso dice Kalantzakos, la Cina «ha guardato avanti e ha in mano le carte migliori. In Africa e in America Latina, ha creato forum per il dialogo e la cooperazione. Ha inoltre concordato con singoli Paesi partenariati bilaterali che comprendono investimenti in infrastrutture, estrazione di risorse e raffinazione». Tutto per assicurarsi il controllo delle risorse decisive per la quarta rivoluzione industriale. «Per le batterie e i magneti, per esempio, la Repubblica Popolare Cinese domina intere catene di fornitura che non possono essere facilmente ricostruite». Il libro della Kalantzakos fa l'esempio del cobalto, ingrediente fondamentale per batterie, smartphone, laptop e veicoli elettrici. La sua concentrazione geografica assomiglia molto a quella delle terre rare, con la Repubblica Democratica del Congo, uno dei Paesi più poveri dell'Africa, che contribuisce per oltre il 60% alla produzione mineraria e con le più grandi riserve globali. Manco a dirlo a dettare legge in Congo è la Cina, che già produce circa tre quarti delle batterie al litio del mondo e che, dal Cile all'Australia, ha negli ultimi anni fatto shopping di tutte le materie prime destinate a diventare indispensabili. Gli altri Paesi fanno fatica a reggere il confronto con la determinazione strategica cinese. Il primo vero passo dell'Europa è solo dell'anno scorso con la creazione di quella che è conosciuta con la sigla inglese di Erma: alleanza per i materiali critici. Più di un centinaio tra università, centri di ricerca e aziende che hanno come obiettivo rafforzare la competitività europea nel campo delle nuove materie prime strategiche. Quanto alle terre rare il vecchio continente potrà utilizzare nuove miniere in Serbia e Ucraina, che però saranno operative solo dal 2030.

Sintesi dell’articolo di Gianluca Modolo per “la Repubblica”, pubblicato da “La Verità” il 2 novembre 2021. Prendiamo la China Baowu, il più grande produttore di acciaio al mondo, capace di sputare nell'atmosfera più CO2 di un'intera nazione come il Pakistan (211 milioni di tonnellate). O la China Petroleum & Chemical, controllata dal colosso petrolifero Sinopec, che ha contribuito al riscaldamento globale più di quanto abbiano fatto Canada e Spagna insieme (733 milioni). O, ancora, la Saic Motor: 158 milioni, come l'Argentina. L'elenco è sterminato: Huaneng (317 milioni, tanto quanto il Regno Unito), Shagang (77 milioni, praticamente la stessa quantità di metropoli come Chicago e New Delhi messe assieme). Nonostante il singolo cittadino cinese inquini la metà dell'americano medio, la Cina è responsabile di oltre un quarto (il 27,9%) di tutte le emissioni di CO2 del Pianeta.  Il Dragone, da solo, ne produce tante quante Giappone, Russia, India e Stati Uniti insieme. Nel 2019 le emissioni di gas come anidride carbonica, protossido di azoto e metano sono arrivate all'equivalente di 14,09 miliardi di tonnellate di CO2, secondo i dati del Rhodium Group. Con decine di mastodontiche compagnie di Stato che inquinano più di intere metropoli, e addirittura interi Paesi.

(ANSA il 2 Novembre 2021) - La Cina ha aumentato la produzione giornaliera di carbone di oltre un milione di tonnellate negli sforzi per allentare la crisi energetica, mentre a Glasgow, nella cornice della Cop26, i leader mondiali sono impegnati nei colloqui sul clima per scongiurare gli effetti del global warming. La Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc), il massimo organo cinese impegnato nella pianificazione economica, ha reso noto che la produzione media giornaliera di carbone è salita a oltre 11,5 milioni di tonnellate dalla metà di ottobre, con un aumento di 1,1 milioni di tonnellate rispetto alla fine di settembre. Il più grande importatore di carbone al mondo è alle prese negli ultimi mesi con blackout e razionamenti di elettricità che hanno causato gravi problemi alla catena produttiva e di approvvigionamento, scontando gli obiettivi di taglio alle emissioni e i prezzi record dei combustibili fossili, carbone in testa. Diverse fabbriche, infatti, sono state costrette a interrompere le operazioni, sollevando i timori sulla tenuta della supply chain globale. La stretta sta scontando anche la politica della 'tolleranza zero" contro il Covid-19 che ha visto Pechino quasi chiudere i suoi confini con il mondo esterno, ostacolando le spedizioni di materie prime dall'estero, aggravando anche gli effetti del duro scontro diplomatico in corso con l'Australia che ha portato a un drastico calo delle importazioni di carbone. Alla fine di ottobre, dopo vari interventi, la produzione giornaliera di carbone aveva raggiunto 11,72 milioni di tonnellate, un record negli ultimi anni. Anche i prezzi spot del carbone sul mercato domestico stanno "calando rapidamente", con il contratto principale dimezzato a 970 yuan per tonnellata. "Anche i livelli di stoccaggio sono aumentati velocemente con il graduale miglioramento della situazione di domanda e offerta", ha riferito la Ndrc. Da settembre 2020, il presidente Xi Jinping ha annunciato e poi aggiornato l'obiettivo e la visione di picco e neutralità del carbonio, rispettivamente entro il 2030 e il 2060, e ha proposto obiettivi nazionali indipendenti e misure politiche specifiche sul fronte domestico e all'estero, come il blocco ai finanziamenti di nuove centrali a carbone. Allo stato, la Cina è il più grande inquinatore (29,9% di emissioni) al mondo, con l'87% della produzione energetica legata ai combustibili fossili (di cui il 60% costituito dal carbone) e la fase di transizione si è dimostrata complessa. Nella prima metà del 2021 sono stati costruiti 18 nuovi altiforni per l'acciaio (Pechino ha una quota mondiale di produzione del 50%) e 43 centrali elettriche a carbone. Il target di fonti rinnovabili e nucleare è stato aggiornato al 2030 dal 20 al 25%, dal 15% attuale, e all'80% entro il 2060, riducendo l'intensità delle emissioni - la quantità per ogni punto di Pil - di oltre il 65%. Xi ha presentato a Glasgow solo una dichiarazione scritta

Lorenzo Lamperti per "la Stampa" il 2 Novembre 2021. Dopo la videoconferenza, ecco la lettera. G20 e Cop26 devono fare a meno della presenza di Xi Jinping. Il presidente cinese ha inviato a Glasgow un messaggio scritto nel quale dà tre consigli su come affrontare il cambiamento climatico: mantenere il consenso multilaterale, accelerare la «trasformazione verde» con l'aiuto della tecnologia e operare «azioni concrete», invito rivolto ai Paesi sviluppati che «non solo devono fare di più, ma devono fornire anche sostegno ai Paesi in via di sviluppo». Intanto ci si interroga sulla doppia assenza di Xi, che non lascia la Cina da quasi due anni. Ufficiosamente a causa della pandemia, ma in realtà anche per altre ragioni. La prima è simbolica: Pechino ritiene che le piattaforme multilaterali a «guida occidentale» vengano utilizzate al solo scopo di contenere la sua ascesa. Così diventa superfluo o addirittura dannoso cercare dei compromessi coi propri «grandi accusatori». La seconda ragione è interna e politica: Xi ha iniziato la delicata lunga marcia che lo dovrà portare a ottenere il terzo mandato. Col sesto plenum della prossima settimana la Cina entra ufficialmente nei 12 mesi che precedono il congresso del Partito comunista. Dietro i silenzi, è un anno tradizionalmente foriero di trame e rese dei conti. Xi non può mostrarsi debole, né distrarsi sui dossier interni che rischiano di danneggiarlo: dalla crisi immobiliare a quella energetica, fino alla recente carenza di carburante...C'è persino chi immagina che possa tentare un'azione su Taiwan per cementare il suo ruolo ma al momento appare un'ipotesi remota, una carta disperata da rischiatutto che Xi non sembra doversi giocare. D'altra parte, tra una decina di giorni il plenum approverà la terza risoluzione sulla storia dopo quelle che spianarono la strada alle visioni di futuro di Mao Zedong e Deng Xiaoping. Anche Xi, come loro, si vede timoniere. E quel timone in questo momento non può lasciarlo, neppure per G20 o Cop26. 

Federico Rampini per il "Corriere della Sera" il 2 Novembre 2021. La decisione di Xi Jinping di partecipare solo a distanza ai vertici globali di Roma e Glasgow è gravida di conseguenze per il resto del mondo. Per decifrarne i significati va ricordato che il presidente cinese non viaggia all'estero da 21 mesi. Si autoinfligge una delle restrizioni che cambiano la vita dei cinesi. La Cina è ormai l'unica grande nazione a inseguire l'obiettivo irrealistico del «Covid zero», l'eliminazione totale del virus. I metodi sono estremi. È bastato che una sola visitatrice di Disneyland-Shanghai risultasse positiva al test, per costruire attorno al parco divertimenti un cordone sanitario che ha bloccato decine di migliaia di persone. Pochissimi viaggiatori positivi hanno relegato in una quarantena dura tutti i passeggeri di due treni ad alta velocità. Xi Jinping vuole mostrare di non essere al di sopra delle regole. Il Covid è diventato l'occasione per sospendere a tempo indefinito una delle libertà di cui godevano i cinesi: viaggiare all'estero. È uno dei segnali che questa Cina si ripiega su se stessa, o quantomeno vuole ridefinire le condizioni della sua partecipazione all'economia globale: ci sta solo alle sue condizioni e con le sue regole. La partecipazione a distanza al G20 e alla Cop26 rientra in questa logica. La diplomazia della sedia vuota e del videostreaming coincide con una battuta d'arresto nella transizione cinese verso un'economia a zero emissioni. Sul cambiamento climatico Xi non vuole rendere conti a nessuno. A casa sua affronta una crisi energetica ancora più grave di quella che colpisce l'Europa. La ripresa dell'economia cinese e il boom delle esportazioni verso il resto del mondo si sono scontrati con il vincolo dei carburanti e della corrente. Penurie di benzina e gasolio hanno provocato i primi razionamenti. Dei blackout elettrici hanno costretto a chiudere fabbriche, e da due mesi la produzione industriale cala. Xi cerca aiuto dalla più inquinante di tutte le fonti: il carbone. Ha rimesso in servizio miniere di carbone dismesse, al punto che questa produzione aggiuntiva supera tutto il carbone estratto in un anno in Europa occidentale. Già prima di queste misure di emergenza la Cina con il 60% del suo fabbisogno energetico legato a questa fonte consumava da sola più carbone di tutto il resto del mondo. Xi non rinuncia ai suoi piani sulle tecnologie sostenibili. La sfida ambientalista lui la interpreta in chiave geostrategica, come la competizione per dominare le tecnologie del futuro. La Cina ha già conquistato una supremazia mondiale nei pannelli solari (dove le sue esportazioni sottocosto hanno fatto fallire tanti concorrenti occidentali), nell'eolico, nelle batterie; punta verso un semi-monopolio nelle terre rare e nei metalli indispensabili alla produzione di auto elettriche. Prosegue con i suoi piani ambiziosi nel nucleare che considera a pieno titolo come una fonte rinnovabile. Ma Xi non è disposto a bruciare le tappe nell'abbandono delle energie fossili, se questo implica delle rinunce sulla crescita economica, il benessere, la stabilità sociale del suo Paese. La sua assenza fisica dal G20 e da Glasgow tradisce anche l'insofferenza verso le prediche dei governi occidentali o gli slogan apocalittici. Questa presa di distanza ha un peso sostanziale perché la lotta all'inquinamento si decide in Cina, già oggi responsabile per il 28% delle emissioni planetarie di CO2, più di Europa e America messe insieme. Nell'immediato la posizione di Xi ha creato un'opportunità per Joe Biden. Nel sospendere i dazi contro l'acciaio e l'alluminio europeo, Biden ha introdotto il principio di una tassazione ambientalista contro «l'acciaio sporco», quello prodotto in Cina con altiforni a carbone. L'idea di una carbon tax alla frontiera, un dazio verde, circolava già in Europa. La Cina produce il 56% dell'acciaio mondiale, anche in questo settore ha conquistato un ruolo soverchiante. Le convergenze atlantiche prefigurano un nuovo protezionismo che viene incontro a una richiesta ambientalista: l'esigenza di fermare quella corsa al ribasso per cui il commercio internazionale ha consentito di aggirare le regole contro l'inquinamento. Come la global minimum tax vuole invertire decenni di favori alle multinazionali nei paradisi fiscali, così il dazio verde si candida a ostacolare la delocalizzazione delle produzioni sporche negli inferni ambientali. La diplomazia a distanza di Xi segna un'era diversa rispetto a cinque anni fa, quando al World Economic Forum di Davos il presidente cinese era parso l'anti-Trump, il difensore della globalizzazione contro i sovranismi. Però il suo «realismo ambientalista», che rifiuta di sacrificare la crescita economica, ha una risonanza ampia, si candida a raccogliere consensi fra le nazioni emergenti, e nei ceti medio-bassi dei Paesi occidentali.

·        La Finanza sostenibile. 

La finanza sostenibile rimette l'uomo al centro dell'economia. Andrea Muratore il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. La finanza sostenibile (o responsabile) integra i principi ambientali, sociali e di governance (environmental, social and governance, ESG) nelle decisioni degli operatori finanziari. Essa costituisce un’importante innovazione al fine di porre il sistema finanziario al servizio del benessere collettivo. Invertire la lezione, troppo spesso dimenticata, di Faust: vendere l'anima del sistema economico in cambio del profitto di breve periodo è sconveniente per qualsiasi sistema basato sulla finanza. Per questo parlare di finanza sostenibile, oggigiorno, non è solo utile: è oltremodo necessario per dare un equilibrio a un sistema-cardine dello sviluppo economico, troppo spesso deviato dalle tendenze insite negli operatori e nel sistema alla speculazione, alla ricerca del profitto fine a sé stesso. La finanza sostenibile, o responsabile, integra i principi ambientali, sociali e di governance (environmental, social and governance, ESG) nelle decisioni degli operatori finanziari. Essa costituisce un’importante innovazione al fine di porre il sistema finanziario al servizio del benessere collettivo;

La vera risposta alla Grande Recessione?

Vincolare alla sostenibilità la finanza non significa fare del mero marketing, significa cercare di dare una nuova possibilità di ripresa dei sistemi economici coniugando il vincolo della finanza all'economia reale e a obiettivi non solo legati alla creazione di valore economico con una spinta profonda sul fattore umano. Indici crescenti di sostenibilità ambientale, di valorizzazione sociale dell'investimento e di creazione di equità nel contesto finanziario possono permettere una svolta strutturale capace di far sì che il mondo finanziario si metta definitivamente alle spalle le tentazioni di poter replicare le pericolose ambizioni di assoluta libertà operativa che portarono alla Grande Recessione del 2007-2008.

Più volte la finanza occidentale e i suoi operatori si sono illusi che in determinate circostanze si potesse ricercare una soluzione valida in maniera universale per tutti i sistemi economici a prescindere dai percorsi storici delle nazioni: lasciare briglia sciolta alla finanza per permettere un'accelerazione dello sviluppo economico. Proposta fallace, dato che lo sdoganamento dei poteri finanziari spesso invita, parafrasando il protagonista del film "Wall Street", a "fare i soldi con i soldi" trascurando in nome della speculazione obiettivi di lungo periodo.

Già nel 1929, ai tempi della Grande Depressione, si segnò una frattura nelle teorie economiche e si assestò un duro colpo alla teoria liberista. Il ritorno in auge del neoliberismo, secondo Sir John Templeton, avvenne sulla scia della negazione della stessa lezione della Storia: “This time is different!”, secondo Templeton, sono le quattro parole più pericolose della storia umana. Uno dei motivi ritenuti più importanti per l’insorgere della Grande Crisi del 2007-2008 è stata sicuramente l’assoluta ignoranza dei Ceo dei grandi fondi di investimento e gruppi bancari, completamente incapaci di studiare e comprendere la storia e apprendere le lezioni delle precedenti crisi finanziarie, del resto ben scritto da autori come Charles Kindleberger: le crisi finanziarie tendono a ripetersi ciclicamente sulla scia della presunzione di onnipotenza degli attori in campo. Il neoliberismo ha negato volutamente la storia, e dal 2007-2008 ad oggi la risposta alla potenziale riproposizione di una nuova crisi è stata l'accelerazione dello stimolo monetario ai mercati, in un quantitative easing permanente che ha calmierato certamente il rischio di nuove crisi sistemiche ma tutt'altro che disincentivato la ricerca del gigantismo borsistico slegato dall'economia reale. Come del resto gli ultimi anni, era Covid compresa, confermano.

La finanza sostenibile, tra uomo e mercato

Al sistema economico globale serve dunque una svolta strutturale. Dopo il 1929, tramontò il modello della grande banca mista nato a metà Ottocento, preponderante a cavallo tra XIX e XX secolo, in quanto gli istituti erano eccessivamente legati alle grandi imprese e avevano accumulato sofferenze troppo pesanti. Sia negli USA che in Europa si avvertì la necessità di separare la raccolta di depositi dall’attività di investimento: dagli USA all’Italia la specializzazione bancaria divenne il nuovo mantra. In tutti i paesi furono introdotti numerosi meccanismi di garanzia dei depositi dei risparmiatori attraverso l’obbligo di accantonamento di riserve imposto alle banche. Le Banche Centrali furono investite di compiti di vigilanza strutturale.

Dopo il 2007-2008, un'analoga svolta strutturale non si è ancora verificata: e la strutturazione della finanza sostenibile a Stella Polare degli investitori, sulla scia di un movimento che sta già gradualmente prendendo piede, può rispondere a questa esigenza. Secondo l'economista Stefano Zamagni, essa permetterebbe di intervenire alla radice del problema economico: l'anarchia individualista insita nell'attuale sistema finanziario in cui, nota lo studioso su Avvenire, "ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio". Inoltre la finanza occidentale contemporanea "tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide". Per far ciò, Zamagni propone di "trasformare – non basta riformare – interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre»". Una visione imperniata sulla concezione cattolica dell'economista, che fa riferimento al magistero di San Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Francesco, tre pontefici che sulla critica alla finanziarizzazione dei sistemi economici hanno costruito la loro struttura per la Dottrina Sociale della Chiesa. Nel 2017, in un discorso pubblico, anche il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ha perorato la svolta della finanza verso obiettivi capaci di essere "al servizio dell'uomo".

In quest'ottica, la sfida più importante collaterale alla creazione di una finanza al servizio dell'uomo è il rilancio della centralità dei mercati legati all'economia reale, alla produzione, ai sottostanti concreti nel quadro del circuito macroeconomico. Facendo venire meno il peso della speculazione fine a sé stessa in questo campo.

Non sprecare la risposta alla crisi

Alla luce del Covid-19, che unendosi alla crisi ambientale può creare quella che lo storico dell'economia Adam Tooze ha definito una potenziale "Grande Tempesta" per l'economia globale, irreggimentare la finanza, nella sua natura di volano fondamentale per lo sviluppo, a precisi dettami etici in termini di sostenibilità ambientale degli investimenti, presenza di sottostanti reali e creazione di valore sociale e lavoro, è fondamentale per dare un futuro ai nostri sistemi economici. "La finanza ha un ruolo fondamentale per la ripresa, quella eticamente orientata, in particolare, ha di fronte una grande opportunità", commentava poco dopo lo scoppio del Covid Andrea Baranes, vicepresidente di Banca Etica, secondo cui "questa crisi apre spazio per una crescita della finanza etica, a un sistema finanziario che da parte del problema diventi parte della soluzione". E gli operatori stanno iniziando a rispondere alla sfida. Fabio Panetta, membro italiano del board Bce, nel gennaio scorso ha dichiarato in una videoconferenza tenutasi in occasione del 50° anniversario dell’Associazione Italiana per l’Analisi Finanziaria che "dal 2015 a oggi le attività gestite dai fondi d’investimento ESG sono aumentate a livello globale di oltre il 170 per cento. Dal gennaio all’ottobre del 2020 in Europa questa categoria di fondi ha registrato afflussi netti di risparmio per oltre 150 miliardi di euro, l’ottanta per cento in più rispetto all’analogo periodo del 2019". Parliamo ancora di una frazione minoritaria della finanza mondiale: ma la percezione di una svolta destinata a diventare complessiva appare sempre più realistica. Agli operatori pubblici e ai regolatori il compito di vigilare che la svolta non sia solo di facciata ma diventi il volano per un nuovo modello di sviluppo per l'economia globale.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

La corsa globale dei green bond. Matteo Mura il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. La rinnovata consapevolezza in materia ambientale finirà per apportare importanti cambiamenti nel mondo della finanza. Una tendenza che avanza inesorabile verso la conquista di nuove quote di mercato. Il rispetto e la tutela dell’ambiente conquistano anche la finanza internazionale. Entro il 2023 il mercato delle obbligazioni “eco-sostenibili” dovrebbe superare i due trilioni di euro a livello globale. Queste le previsioni del gestore olandese NN Investment partners sul futuro dei listini in cui sono scambiati i cosiddetti green bond. Titoli finanziari che puntano sulle energie rinnovabili, le tecnologie amiche dell’ambiente, i mercati attenti a non sconvolgere l’equilibrio delle risorse naturali e i progetti ad alto impatto sociale. Puntare su questa particolare tipologia di obbligazioni può diventare un modo per guardare al rendimento ma anche al rispetto del pianeta. Le nuove cifre pubblicate nell’ultimo “Green Bond Funds Impact Report 2020” di NN Investment partners mostrano che i suoi fondi obbligazionari verdi, che attualmente hanno un Aum-Asset under management di 3,8 miliardi di euro, hanno risparmiato 561.211 tonnellate di emissioni di anidride carbonica durante l'anno solare. Evidenze che non fanno altro che favorire le penetrazioni sui mercati finanziari. La rinnovata consapevolezza in materia ambientale finirà per apportare importanti cambiamenti nel mondo della finanza. Una tendenza che avanza inesorabile verso la conquista di nuove quote di mercato: dinamiche che avranno il loro epicentro nel Vecchio Continente. L’Europa è infatti la patria delle “emissioni verdi”. Secondo gli analisti, la declinazione del programma Next Generation Eu porterà all’emissione di obbligazioni per circa 250 miliardi di euro nei prossimi cinque anni. Le ragioni del successo non sono dovute alla sola attenzione per le risorse naturali; si tratta di prodotti finanziari direttamente collegati a sottostanti e settori in cui si prevede di registrare incrementi a doppia cifra. La cosiddetta transizione ecologica imporrà infatti di sviluppare tecnologie e brevetti realmente capaci di limitare il consumo di combustibili fossili: dinamiche capaci di creare nuovi mercati e attirare importanti investimenti. Douglas Farquhar, client portfolio manager Green bond, è convinto che il cambiamento riguarderà presto anche gli Usa: “Anche se non abbiamo visto alcun segno in questa fase che il Tesoro degli Stati Uniti stia pianificando di emettere obbligazioni verdi o con altre etichette, potrebbe cercare di emulare il successo europeo nel lungo termine”. Ingrediente che risulterà fondamentale anche per perseguire la diversificazione: elemento cardine di tutte le politiche di investimento oculate. La dinamicità di questo mercato non poteva non attirare le attenzioni della Commissione europea. Organismo deputato alla vigilanza dei fenomeni capaci di innescare un andamento non fisiologico tra gli operatori economici. La Cop26 di Glasgow è stata l’occasione per presentare un dettagliato rapporto in cui emerge con chiarezza il bisogno di una regolamentazione più stringente di questo particolare tipo di investimenti. Mairead McGuinness, commissaria Ue per i Servizi finanziari ed esponente irlandese del Partito popolare, ha usato parole nette in occasione del vertice internazionale: “I mercati dei Green bond e delle obbligazioni sostenibili hanno visto un importante aumento di volume e hanno dimostrato di essere una solida fonte di finanziamento ma è necessario continuare a lavorare allo sviluppo di standard per aumentare la trasparenza”. A fine agosto, un'analisi della Ong Influence Map mostrava che il 71% dei fondi eco-compatibili o collegati a tematiche sociali collocati sul mercato non sono allineati all'accordo di Parigi. Ed ha fatto molto rumore l'indagine delle autorità tedesche e americane su Dws, società di asset management controllata da Deutsche Bank, accusata di greenwashing, pratica commerciale che consiste nel presentare come sostenibili pratiche o prodotti che, in realtà, non lo sono. La Banca europea degli investimenti-Bei si è mossa in autonomia facendo un primo passo a tutela dei mercati. L’organismo finanziario direttamente collegato ai vertici dell’Unione esaminerà con maggiore severità le qualità degli investimenti presentati come “verdi”. Dall'anno prossimo chi vorrà accedere a un prestito Bei dovraà presentare un'agenda per la decarbonizzazione, e non potrà ottenere finanziamenti se continua a investire in attività ad alte emissioni. Una sfida che riguarderà anche le istituzioni italiane. Matteo Mura

Finanza sostenibile: un mercato da 30 trilioni di dollari. Stefano Damiano il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. Dall’Agenda 2030 ai Green Bond passando per il green washing e gli Esg… una mappatura di quanto vale oggi il mercato della finanza sostenibile. Numeri enormi e in continua crescita. Il mercato della Finanza sostenibile rappresenta, oramai, uno dei grandi asset macro-economici verso cui tutti i soggetti del circuito finanziario - dai piccoli risparmiatori alle grandi imprese sino alle banche centrali - guardano con sempre maggiore attenzione e che potrebbe rappresentare il centro di un nuovo sistema di investimenti per lo sviluppo sostenibile globale. Tra strategie internazionali, incertezze economiche e contraddizioni varie, la green finance, attraverso gli Esg, rappresenta, comunque la si guardi, un mercato in espansione se si considera che nel 2018 le cifre economiche erano in crescita del +26% rispetto all'anno precedente aggirandosi su 250miliardi di dollari circa grazie soprattutto all'espansione delle obbligazioni verdi e degli eco-prestiti. Restano ancora tanti interrogativi, soprattutto se si considera il fatto che il settore è ancora molto giovane (la principale spinta propulsiva nasce nel 2015 con l'Agenda 2030 dell'Onu e gli Accordi sul Clima) mentre l'orizzonte, in termini finanziari, sono di lungo termine; tutto lascia presagire, però, che non si tratterà di una nuova "bolla" ma di un settore portante del mercato finanziario globale. Non a caso nel marzo 2018 la Commissione Europea ha pubblicato un "Piano d'Azione per la finanza sostenibile" con cui vengono definite le strategie e le misure per promuovere e realizzare un sistema sostenibile che poggi, principalmente, sugli Esg, Irs e sui green bond come strumenti finanziari.

Gli ISR e gli ESG

Gli Investimenti socialmente responsabili (ISR) rappresentano le fondamenta del mercato della finanza sostenibile. Si tratta di investimenti il cui obiettivo, in termini di profitto, poggia anche sull'ottenimento di risultati attraverso strategie basate su di un modello ecosostenibile frutto di best practice, anche in termini di governance.

Nel 2020, nel solo vecchio continente, i fondi di investimento sostenibile hanno avuto un giro d'affari da 223 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto all'anno precedente. A definire se un investimento è sostenibile sono gli ESG, acronimo che sta per Environmental, Social and Governance, intesi come i tre fattori centrali nella misurazione della qualità e quantità dell'investimento fatto in termini di sostenibilità.

Il sistema dei green bond e blue bond

Solo nel 2017, soprattutto con l'impegno dei governi centrali, sono stati emessi oltre 180miliardi di dollari di green bond a livello globale che continuano ad espandersi se si considera il lancio, a partire del 2018, dei water o blue bond. Si tratta di obbligazione che, al termine di un determinato periodo di tempo, restituiscono una cifra investita con ricadute green (efficienza energetica, edilizia eco-compatibile, nuovi modelli di gestione, trattamento e smaltimento dei rifiuti) con i relativi interessi.

Come sottolineato dall'Ispi “le emissioni di green bonds, vale a dire le obbligazioni vincolate a spese dedicate all’ambiente, valevano l’anno scorso 300 miliardi di dollari ed entro due anni potrebbero raggiungere la soglia dei mille. Più in generale, gli strumenti finanziari ESG tra cui rientrano anche le obbligazioni verdi, valgono ormai dieci volte tanto e nel terzo trimestre 2021 hanno quasi toccato quota 4mila miliardi di dollari”.

Che investe in Finanza sostenibile e cosa succede nell'Ue

Se da un lato i governi spingono verso soluzioni finanziarie green, dall'altro le imprese (non soltanto le big come in precedenza) sono sempre più attente ma i veri investitori di questo mercato, sono i risparmiatori e consumatori, a partire dai Millennials. "La COP26 ha chiarito che il finanziamento della transizione ecologica arriverà in gran parte dai privati, non guidati da intenti solidaristici ma da opportunità di profitto per i propri azionisti".

Sotto il profilo delle istituzioni comunitarie - come scritto in un articolo de ilGiornale.It - dallo European Green Deal l'Ue si è attivata con sempre maggiore interesse sulle politiche si sostegno e promozione della finanza sostenibile riducendo, in brevissimo tempo, il divario con il mercato Nord americano diventando “leader” mondiale.

Con l’Action plan on sustainable finance del 2018, inoltre, l'Ue ha preso posizione sul versante di un’economia che riduca il proprio impatto ambientale con in investimento, nel breve periodo di 180 miliardi di euro all’anno.

La grande innovazione, però, si avrà nel 2022 quando entrerà in vigore una "tassonomia" della finanza sostenibile, cioè la classificazione delle attività economiche che possono essere definite sostenibili secondo specifici criteri ed ambiti di intervento:

mitigazione del cambiamento climatico;

adattamento al cambiamento climatico;

uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine;

transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche a riduzione e riciclo dei rifiuti;

prevenzione e controllo dell’inquinamento;

protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi.

Inoltre, per essere eco-sostenibili si dovrà:

contribuire positivamente ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali;

non produrre impatti negativi su nessun altro obiettivo;

essere svolta nel rispetto di garanzie sociali minime (per esempio, quelle previste dalle linee guida dell’OCSE e dai documenti delle Nazioni Unite). 

Stefano Damiano. Giornalista per passione prima che per professione… Mi occupo principalmente di cronaca economica e politica tentando di “leggere i fatti” e capirne tutte le sfaccettature così da dare un'informazione completa e oggettiva. Non credo nelle posizioni assunte per “principio” ma nel confronto aperto tra idee differenti. 

·        La Risorsa economica della Natura.

La dea Demetra e la sacralità della natura: perché per gli antichi l’ambiente era la loro casa. Il Corriere della Sera il 3 dicembre 2021. Cristina Dell'Acqua / CorriereTv. La dea Demetra e la sacralità della natura: perché per gli antichi l’ambiente era sinonimo di «casa». L’ottava puntata de «I nostri miti», una serie di lezioni sui miti della cultura occidentale per riflettere sul passato e sul presente. Erisíttone aveva abbattuto senza alcun rispetto gli alberi di un bosco sacro a Demetra: la reazione della dea e il senso degli antichi per la natura

Facciamo spesso l’errore di credere che l’ambiente sia al nostro servizio, ma è vero il contrario. Ambiente ed ecologia sono parole moderne, ambiente viene dal verbo latino ambire, che vuol dire andare intorno, ed è un nome che indica lo spazio che ci circonda e nel quale ci muoviamo e viviamo insieme agli altri. è un calco costruito sul greco e (come economia) contiene la parola oikia, la casa, l’ambiente in cui viviamo e che dobbiamo proteggere. I Greci non conoscevano questi due vocaboli, ne avevano però altri che testimoniano la loro sensibilità sul tema. Penso alla parola metriotes, moderazione: secondo Ippocrate, il padre della medicina, tutto ciò che è moderato ci regala le condizioni di vita ottimali dall’alimentazione al clima. Penso all’ubris, la tracotanza, l’arroganza con cui a volte l’uomo pensa di non avere confini se non se stesso e il proprio desiderio di potere.

Penso a un mito, come quello raccontato da Callimaco, un poeta greco del IV sec a. C.

Un giorno Erisíttone aveva abbattuto senza alcun rispetto gli alberi di un bosco sacro a Demetra, la dea che fa crescere il grano, offre agli uomini il cibo e alterna le stagioni in modo equilibrato. La sofferenza di Demetra è un dolore cosmico, universale, che stravolge la terra e la rende infelice, che vuol dire sterile. Nella mentalità degli antichi esistono zone protette, luoghi in cui sembra manifestarsi la presenza di una potenza superiore.

E con un’ascia colpì uno splendido pioppo alto sino al cielo, il grido di dolore della pianta arrivò sino alla dea Demetra che si infuriò. Non servì a nulla cercare di fermare il giovane Erisíttone, colto da senso di onnipotenza: voleva legna con cui costruire una casa dentro la quale offrire banchetti abbondanti ai suoi amici. Su di lui si abbatté Nemesi, la dea della vendetta che non dimenticherà la mancanza di senso del limite del giovane.

Dante porrà Erisíttone nel XXIII del Purgatorio, ma la punizione a cui il giovane andò incontro ha più il sapore del contrappasso infernale: non essendosi preoccupato di rispettare una risorsa sacra e preziosa come quella di un bosco, dovrà patire in eterno una fame impossibile da placare. Fu così che Erisíttone, bulimico, più mangiava più aveva fame, divorava tutto quello che gli capitava davanti agli occhi e un giorno mangiò anche il gatto di casa. E continuò sino a mandare la sua casa in rovina.

Una sacralità della natura che dovremmo ricordare, come dobbiamo ricordare il ruolo fondamentale che abbiamo nell’impatto con l’ambiente. Curioso che ambiente e ambizione derivino dallo stesso verbo latino ambire che nel senso più positivo del termine è un desiderio legittimo di migliorarsi. E uno dei nostri desideri più forti, sin da giovani, è la casa, il nostro posto in cui stare bene nel mondo, un posto da proteggere, l’ambiente nel quale cresciamo ogni giorno e facciamo crescere i nostri figli. In fondo scriviamo ambiente ma leggiamo casa.

La Lavanda. Gemma Gaetani per “La Verità” il 30 settembre 2021. La lavanda è uno di quei prodotti della natura con mille e più proprietà benefiche e un uso letteralmente poliedrico, sulla quale non si scherza mai. Scherziamo allora, una volta, per infrangere il tabù e l'aura seria che circondano questa bella pianta dai profumatissimi fiori violetti. Sappiate che se dite: «La Vanda chi, non la conosco, come fa di cognome?», magari rispondendo a qualcuno che vi ha chiesto se vi piace la lavanda, state sì ironizzando sul nome comune della nostra trasformandolo in nome proprio di donna pronunciato alla settentrionale con articolo determinativo davanti. Ma state anche citando Vanda, un genere di piante della famiglia delle Orchidacee cui appartengono circa 80 specie originarie di India, Cina, Malaysia, Indonesia e Australia, la maggior parte delle quali presentano fiori del bel color lavanda: c'è la Vanda alpina, la Vanda foetida, la Vanda nana e così via. Anche l'ametista ha il bel colore violetto della lavanda: si tratta di una varietà violacea di quarzo, il cui nome deriva dal greco améthystos che vuol dire «non ebbro», poiché i Greci ritenevano che l'ametista fosse un rimedio contro i fumi dell'alcol. Idem i Romani: i commensali dovevano bere vino ogni volta che l'ospite beveva dal suo calice. Solo che il calice dell'ospite conteneva acqua e non era di cristallo come quello dei commensali, ma d'ametista, i cui riflessi viola davano all'acqua la parvenza cromatica del vino. L'ospite restava sobrio e i commensali no. Fino a qualche tempo fa il corindone viola era noto come «ametista orientale», poi, per non ingenerare confusione col quarzo ametista, si è passati alla denominazione «zaffiro viola». Le tonalità di color lavanda sono tante e prendono sempre più piede. Nell'arredamento, nell'abbigliamento, nelle palette cromatiche di smalti per le unghie e di ombretti per le donne e in quelle di cravatte e calze per gli uomini, sono molto gettonate anche per la tintura dei capelli delle più eccentriche (la Fata Turchina di Pinocchio con la chioma celeste oggi sembrerebbe normale) e, in generale, si fanno sempre più strada nella cultura di massa. Nel 2018 l'Istituto Pantone ha decretato colore dell'anno l'ultra violet, il 18-3838, affermando: «Vogliamo un colore che sappia risvegliare la speranza e trasmettere un messaggio ottimista». In effetti, la lavanda infonde fiducia, speranza e entusiasmo se ne ammiriamo il bel colore e anche se la annusiamo o la assumiamo sotto forma di fiore secco o di olio essenziale.  Altro che legalizzazione della cannabis e poterla coltivare in vaso in casa per fumarsela, come auspicano i promotori del referendum e del disegno di legge dedicati al suo sdoganamento. Coltiviamo in casa una bella pianta di lavanda, piuttosto, puntiamo ogni tanto il naso verso le sue caratteristiche infiorescenze a spiga e inebriamoci del suo odore. La lavanda appartiene al genere Lavandula, l'unico di piante dell'omonima tribù - categoria tassonomica intermedia tra famiglia e sottogenere che riunisce i generi con simile evoluzione in una sottofamiglia - della famiglia delle Lamiaceae. Il nome deriva dal latino lavandum, sì, il gerundio del verbo lavare e il suo nome vuol dire «che deve essere lavato»: nell'antichità ci si detergeva con infusi in acqua della pianta.  Tipica dal Mediterraneo fino all'India, del Nord Africa e dell'Asia, nell'area europea ci sono 22 specie di lavanda, in Italia 5. In primo luogo, la Lavandula angustifolia, con foglie strette, anche detta lavanda officinale o lavanda vera. In Italia si trova, in maniera discontinua, lungo la costa tirrenica. Raggiunge i 3-12 decimetri di altezza, al massimo 18, mentre le spighe dell'infiorescenza (raggruppamento di rami che portano fiori) sono lunghe dai 3 agli 8 centimetri. Arbusto tipico della macchia mediterranea, questa lavanda vive bene nel terreno arido e sassoso esposto al sole, per dirla dal punto di vista dei piani altitudinali, sia quello planiziale a livello del mare, sia quelli collinare, montano e subalpino, fino a un'altitudine di 1.800 metri. Abbiamo poi la Lavandula latifolia, con foglie, come indica il nome latino poiché latus vuol dire «largo», «esteso», e fólium significa «foglia». Sono foglie più grandi rispetto, per esempio, alla angustifolia (angustus vuol dire «stretto», «sottile»). La lavanda latifolia sviluppa un'altezza tra i 30 e gli 80 centimetri, in Italia è abbastanza rara, si trova lungo la costa tirrenica e quella ligure, il suo habitat tipico è il pendio arido e cespuglioso e arriva fino a 1.000 metri di altezza nei piani altitudinali planiziale e collinare. C'è poi la Lavandula multifida, anche detta «lavanda dell'Egitto», le cui piante sono alte da 30 centimetri a 1 metro e vivono bene nell'habitat delle garighe e incolti aridi, in Italia si trova a Sud-ovest e, a livello di altitudine, solo fino a 600 metri. Poi abbiamo la Lavandula stoechas, anche nota come lavanda selvatica o stecade, con altezza dai 30 centimetri a 1,2 metri, presente in Italia sulle coste tirreniche fino a 600 metri, in Liguria, sulle coste occidentali dall'Apuania alla Calabria, in Sicilia, Sardegna, Corsica e isole minori, mancando completamente nelle regioni del versante adriatico. Secondo Dioscoride, il nome stecade deriva da Stoichades, nome con cui anticamente erano indicate le isole di Hyères, isole francesi della regione provenzale nelle quali la specie è molto diffusa. Infine, abbiamo la Lavandula dentata, cioè la lavanda dentata anche detta spigonardo, con altezza da 30 centimetri a 1 metro, coltivata per la profumeria e raramente rintracciabile selvatica. Nonostante siano presenti 5 tipi di lavanda sul territorio, essa è ancora considerata un prodotto di nicchia: c'è chi la ignora completamente e non tutti coloro che, invece, ne conoscono le proprietà sfruttate dall'erboristeria la apprezzano in cucina e viceversa. Per la presenza e qualità di sostanze aromatiche, infatti, la lavanda è impiegata in cucina, in profumeria, in liquoreria e in farmacia. L'olio essenziale che si ricava dai suoi fiori è versatile e gli sono riconosciuti vari effetti: in primo luogo quello antistress, ansiolitico e antidepressivo, poi decongestionante contro raffreddore e influenza, poi digestivo. Fatene cadere una o due gocce su un fazzolettino, e annusatelo ogni tanto nei giorni più impegnativi, oppure sul cuscino prima di andare a dormire. La lavanda contrasta anche l'ipertensione, ha attività antispasmodica e perciò rilassa anche la muscolatura contratta (si trova in molti oli e creme da massaggio e si può anche realizzare una crema alla lavanda al momento sciogliendo 3 gocce di olio essenziale in un poco di crema, di gel di aloe o di olio di oliva), calma il prurito da punture di insetti e disinfetta in virtù della sua capacità antibatterica di bloccare la generazione dei batteri e antisettica di impedire o rallentare lo sviluppo dei microbi. Un uso molto diffuso in Francia, e poco in Italia, è quello di assumere lavanda tramite il miele di lavanda. Essa, infatti, è un'ottima pianta mellifera e le api sono profondamente attirate dai suoi fiori. Il miele di lavanda non è però così facile da produrre perché per poter realizzare un monoflora sono necessarie grandi coltivazioni di lavanda che in Italia, rispetto per esempio alla Francia, terra elettiva di produzione di lavanda e di miele di lavanda, non ci sono. Qui da noi si produce pochissimo miele di lavanda, per lo più dalla lavanda selvatica, mentre quello di lavanda angustifolia si trova solo nelle regioni nelle quali essa è presente. I due mieli sono differenti anche nel gusto: quello di lavanda selvatica è meno aromatico e ha un gusto più delicato rispetto a quello di angustifolia e, volendoli provare, a nostro avviso sono ottimi entrambi. I fiori della lavanda sono commestibili e si espande sempre più la loro presenza in cucina. Se fino a poco tempo fa li vedevamo al massimo nei biscottini, adesso li troviamo ovunque, dal gelato alle carni. Anche le foglie sono commestibili: provate a usarne un rametto al posto del rosmarino, magari quando preparate le patate al forno. Vi stupiranno. Come ci si stupisce scoprendo come già in passato la lavanda fosse una complice erboristica di tanti momenti della vita umana. Il bel libretto Mille usi. Lavanda di Simonetta Bosso, Gribaudo editore, spiega come fosse: «Impiegata dagli Egizi come balsamo nel processo di mummificazione» e «sia i Greci sia i Romani ne conoscevano i pregi e la usavano per confezionare rimedi, prodotti di bellezza, per aromatizzare i piatti. Nell'antichità si apprezzavano anche le proprietà calmanti, antisettiche e battericide della lavanda. Le levatrici la usavano nell'acqua per lavare il neonato e la madre. Nel Medioevo era coltivata nei giardini dei monasteri e, insieme con le altre piante aromatiche, era uno degli ingredienti principali della farmacopea; inoltre, i suoi balsamici effluvi erano considerati benefici contro morbi e affezioni. I fumenti di lavanda erano utilizzati nelle chiese e nelle case come disinfettante durante le terribili epidemie di peste; la lavanda era anche uno degli ingredienti del famoso rimedio "aceto dei 4 ladri" e le proprietà medicamentose che le si attribuivano erano svariate: analgesiche, balsamiche, cicatrizzanti, vermifughe eccetera.  La pianta era considerata anche un talismano contro la malasorte. Durante il Rinascimento si comincia a distillare l'essenza: è il momento in cui la lavanda entra definitivamente nel campo della profumeria. Particolarmente celebri sono i profumi inglesi. Nella tradizione popolare si mettono spighe di lavanda nel corredo della sposa come augurio di buon auspicio». Per non trovare odore di chiuso nelle case delle vacanze al momento della riapertura, si possono lasciare vasetti di pot-pourri con fiori secchi di lavanda sparsi nelle stanze. Per convincere le formiche a cambiare strada, se vi sono entrate in casa, preparate una soluzione con 250 millilitri di alcol denaturato e 10 gocce di olio essenziale di lavanda e spruzzatela più volte al giorno laddove si sono insediate. Aspirate un po' di fiori secchi di lavanda con l'aspirapolvere dopo aver messo il sacchetto nuovo, vi si depositeranno ed elimineranno futuri odori sgradevoli. Cucendo un sacchettino pieno di fiori secchi di lavanda potrete realizzare un efficiente e profumato puntaspilli, cucendone uno più grande (due quadrati di stoffa di 25x25 centimetri) avrete un cuscino «perfetto per conciliare il sonno di grandi e piccini» da usare sopra o dentro il vostro abituale cuscino. Ponendo 2 o 3 gocce di olio essenziale di lavanda su una o due pietre porose in bagno e rinnovandole ogni 10 giorni, si avrà un deodorante ecologico e naturale. Gli usi della lavanda, dei suoi fiori, secchi e freschi, e dell'olio essenziale sono infiniti (se ne trovano tanti altri nel libriccino già citato dal quale abbiamo estratto questi).  

Dagotraduzione dal Guardian il 2 settembre 2021. Secondo il rapporto State of the World’s Trees tra un terzo e la metà delle specie di alberi selvatici del mondo è a rischio estinzione. Il rischio è quello di un più ampio dell’ecosistema. Il documento è stato pubblicato ieri insieme ad un appello per un’azione urgente che fermi il declino. Il disboscamento delle foreste per fare posto all’agricoltura è di gran lunga la principale causa del depauperamento. Lo studio, che è durato cinque anni, ha rilevato che 17.510 specie di alberi sono minacciate, il doppio rispetto a mammiferi, uccelli, anfibi e rettili a rischio messi insieme. Le specie di alberi minacciate rappresentano il 29,9% delle 58.497 specie di alberi conosciuti al mondo. Ma è probabile che la percentuale a rischio sia più alta considerato che un ulteriore 7,1% è stato ritenuto «possibilmente minacciato» e il 21,6% non è stato valutato a sufficienza. Solo il 41,5% è stato indicato come stabile. Il Brasile, che ospita la foresta più diversificata del pianeta, l’Amazzonia, ha il record di specie minacciate: 1.788, tra cui tra cui mogano dalle grandi foglie, palissandro ed eugenia. In Cina, la sesta nazione al mondo per biodiversità, magnolia, camelia e acero sono tra le 890 specie a rischio. Gli stati insulari tropicali, in particolare il Madagascar, sono colpiti in modo sproporzionato, in particolare l'ebano e il palissandro, ma anche in Europa – che è relativamente povera in termini di diversità naturale – c'è stato un preoccupante calo del numero di sorbi. In Nord America, parassiti e malattie stanno causando gravi perdite di popolazioni di frassino. I botanici descrivono gli alberi come «la spina dorsale dell'ecosistema naturale». Sebbene finora solo lo 0,2% delle specie si sia estinto, gli autori affermano che un declino accelerato potrebbe avere effetti a catena. Gli esseri umani vengono direttamente colpiti dalla perdita dell’assorbimento del carbonio, della produzione di ossigeno, del legname per le costruzioni, del combustibile per gli incendi, degli ingredienti per le medicine e del cibo, degli ammortizzatori delle tempeste e del benessere che deriva dall'ombra e dalla bellezza. E ancora più importanti sono gli impatti indiretti sui sistemi naturali di supporto vitale. In molte parti del mondo, gli alberi sono i pilastri di un ecosistema sano. Senza di loro, altre piante, insetti, uccelli e mammiferi lottano per sopravvivere. «Gli alberi sono essenziali… è come una torre Jenga. Tira fuori quello sbagliato e l'ecosistema cade a pezzi», ha affermato l'autore principale del rapporto, Malin Rivers, responsabile delle priorità di conservazione presso il Botanic Gardens Conservation International (BGCI). «Quando guardo questi numeri, sento che dobbiamo agire ora». Il rapporto identifica le principali minacce per gli alberi. L'agricoltura (coltivazioni per il 29% e bestiame per il 14%) occupa il primo posto, seguita da disboscamento (27%), edilizia abitativa e altri sviluppi commerciali (13%), incendi (13%), estrazione mineraria (9%), piantagioni di pasta di cellulosa (6%) e specie invasive (3%). Il cambiamento climatico (4%) è in fondo alla lista, anche se è stato considerato in che modo influisce sul numero di incendi e sull’agricoltura. Gerard T Donnelly, presidente del Morton Arboretum nell'Illinois, negli Stati Uniti, sperava che i responsabili delle politiche avrebbero utilizzato lo studio innovativo come strumento di conservazione: «Questo rapporto chiarisce che gli alberi del mondo sono in pericolo. È stato sviluppato in anni di vigorosa ricerca e collaborazione tra le principali organizzazioni mondiali per la conservazione degli alberi e guiderà ulteriori azioni scientificamente informate per prevenire l'estinzione degli alberi». BGCI ha raccomandato un'espansione della copertura dell'area protetta per le specie minacciate, portando avanti campagne incentrate sulle popolazioni più a rischio, una più stretta collaborazione globale, maggiori finanziamenti per gli sforzi di conservazione e maggiori sforzi per il backup delle specie negli orti botanici e nelle banche di semi. Il gruppo ha lanciato il portale GlobalTree, un database online che tiene traccia degli sforzi di conservazione a livello di specie, di paese e a livello mondiale. «Per la prima volta sappiamo quali specie sono minacciate, dove sono e come sono minacciate, così possiamo prendere decisioni di conservazione più informate», ha affermato Rivers. «Queste specie non sono ancora estinte. C'è ancora speranza. Ci sono ancora modi per riportarli indietro dal baratro». 

Eleonora Barbieri per “il Giornale” il 21 giugno 2021.

«Gli alberi sono una sintesi del paesaggio in cui viviamo, soprattutto nel Mediterraneo». E in particolare nella sua Sicilia, alla quale Giuseppe Barbera, professore di Colture arboree all' Università di Palermo, ha dedicato un viaggio molto speciale, «da Omero all' Antropocene», nel suo Il giardino del Mediterraneo (ilSaggiatore). 

Qual è il legame fra alberi, paesaggio e uomo?

«I paesaggi sono sempre in cambiamento, evolvono, con la storia e la natura; gli elementi vivi che più durano nel tempo, e che sono in grado di raccontare la storia, sono gli alberi». 

Come la raccontano?

«Con la loro presenza e, anche, all' interno del loro legno. Tutti gli aspetti del mondo, notava già Leonardo, si possono leggere attraverso gli anelli di crescita. Anello per anello, la scienza ci consente di capire quello che è successo nel paesaggio: per esempio, nel legno dei platani i colleghi di Torino hanno scoperto quando è stata realizzata la rete tramviaria della città». 

A Sant' Alfio, in provincia di Catania, c' è uno degli alberi più antichi d' Italia.

«Il Castagno dei cento cavalli, che si dice abbia 3000 anni, anche se nessuno li ha mai contati davvero... È così grande che ospita una piccola casa al suo interno. Anche certi olivi sono antichissimi, come quelli della Valle dei Templi, che Pirandello chiamava saraceni; ma l'olivo è impossibile da studiare, perché il legno è contorto e cresce su sé stesso. Il platano è più semplice». 

Di che cosa hanno bisogno questi alberi?

«Di essere letti, apprezzati e guardati con poesia. Il rapporto fra uomo e albero è intimo e personale, non è misurabile in numeri o formule. Infatti il mio libro precedente si intitolava Abbracciare gli alberi».

In cui spiega, fra l'altro, che il senso del sacro nasce al cospetto degli alberi.

«Capita a tutti, quando si entra in una foresta, o in un bosco, di abbassare la voce, come in chiesa. Questa sensazione ci riporta ai primitivi, all' infanzia delle religioni, quando nacque il senso del sacro di fronte a questi alberi altissimi, con le loro radici nelle profondità della terra, che ogni inverno sembravano morire e poi, a primavera, risorgevano...». 

Che ruolo hanno gli alberi nel Giardino del Mediterraneo?

«Ne sono gli elementi fondamentali. Benché spesso, parlando di alberi, si pensi ai Paesi nordici, o alle montagne, nei boschi del Mediterraneo la biodiversità è molto più ricca». 

Che valore hanno oggi queste piante? Che cosa ci dicono?

«In certi casi ci dicono di paesaggi che abbiamo perso, perché sono stati distrutti o sovrasfruttati; in altri sono il ricordo di paesaggi domestici, perché piantati dall' uomo. In ogni caso ci dicono di un equilibrio fra uomo, natura, storia e paesaggio, che c'era, e che va assolutamente ritrovato».

Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 17 giugno 2021. Gli alberi hanno molto da insegnarci. Sanno un paio di cose sulla sopravvivenza negli anni difficili e sul prosperare durante quelli buoni: possono mostrarci l'importanza di avere una visione a lungo termine. Sono maestri nella resilienza, sopportano periodi di maggese ogni inverno e rifioriscono ogni primavera. Sono generosi: condividono i nutrienti con altri alberi e piante e a noi forniscono aria pulita e ombra. Di certo sanno invecchiare bene. E gli alberi provocano stupore, quella risposta emotiva a qualcosa di vasto che si espande e sfida il modo in cui vediamo il mondo. È l'antidoto perfetto per il modo in cui ci sentiamo in questo momento: un percorso verso la guarigione. La ricerca mostra che lo stupore riduce lo stress, l'ansia e l'infiammazione. Può calmare le nostre chiacchiere mentali disattivando la rete di modalità predefinita del nostro cervello, l'area che è attiva quando non stiamo facendo nulla e che può essere assorbita dalla preoccupazione e dalla riflessione, secondo Dacher Keltner, professore di psicologia all'Università della California, Berkeley e direttore di facoltà del Greater Good Science Center dell'università, che studia con soggezione. Può migliorare le nostre relazioni, facendoci sentire più supportati e più propensi ad aiutare gli altri, più compassionevoli e meno avidi. Un po' di soggezione fa molto: il Dr. Keltner consiglia da otto a 10 minuti al giorno, anche se dice che provare soggezione anche una volta alla settimana è sufficiente per iniziare a raccogliere benefici. E la ricerca mostra che la nostra capacità di soggezione si accumula nel tempo. Ogni esperienza che abbiamo ci rende più propensi a notare ulteriori opportunità di stupore intorno a noi. Ecco perché hai bisogno di un amico albero. Perché non è sempre possibile trovare una montagna, una spiaggia o un tramonto nelle vicinanze, tanto meno fare il bagno in una foresta (anche se tutto ciò suscita stupore). Ma puoi quasi sempre trovare almeno un albero da qualche parte vicino. E gli alberi offrono diversi modi per provare stupore. Puoi apprezzare le loro foglie, corteccia o rami contro il cielo; guarda le creature che ospitano; contemplare la loro esistenza. Quando sei amico di un albero, torni più e più volte, costruendo la tua capacità di stupore e aumentando i benefici. Suzanne Simard ha un amico albero (Beh, due per l'esattezza). Rinomata ecologista e scienziata degli alberi, ha dedicato la sua vita allo studio di vaste reti di alberi, mappando come sono interconnessi e come hanno bisogno l'uno dell'altro per sopravvivere. Eppure ha ancora dei preferiti. Quasi ogni giorno, la dottoressa Simard fa un'escursione di due ore su per la montagna dietro casa sua a Nelson, nella Columbia Britannica. In alto sul sentiero, si ferma a un abete Douglas alto più di 100 piedi, con rami che pendono a terra, accarezzandone la corteccia e chiedendo: «Ciao, come stai?». Ma l'albero più vicino al suo cuore è più in basso lungo il sentiero: una ponderosa alta quasi altrettanto. La dottoressa Simard saluta anche questo albero e talvolta si appoggia a un punto piatto sulla sua corteccia, inalando il suo profumo. (Ha odore di vaniglia, perché produce vanillina, dice). «Questi alberi sono lì da così tanto tempo, che vivono insieme pacificamente mentre il mondo è impazzito. Sono solidi. Prevedibili. Sono solo in soggezione nei loro confronti», afferma Simard, professore di ecologia forestale presso l'Università della British Columbia e autrice del nuovo libro "Finding the Mother Tree: Discovering the Wisdom of the Forest". «È un momento significativo e mi sento subito meglio». È stato mio padre a insegnarmi a fare amicizia con gli alberi. Ho scritto a casa dal campo per dirgli che ero solo. Mi ha risposto e mi ha consigliato di visitare lo stand dei sicomori in riva al lago. «Vai a parlare con loro», ha scritto. «Sono buoni amici e manterranno i tuoi segreti!». Ma come, esattamente, fai amicizia con un albero? Inizia scegliendone uno. Non deve essere stupendo o grandioso; è più importante che sia accessibile, afferma Patricia Hasbach, psicoterapeuta a Eugene, Oregon, specializzata in ecoterapia, che incorpora la natura nel processo di guarigione. Una volta trovato il tuo albero, siediti accanto ad esso. Fai alcuni respiri profondi e nota cosa attira la tua attenzione. Usa tutti e cinque i sensi. Torna a visitare regolarmente il tuo albero. «Questo favorisce un senso di appartenenza a qualcosa di più grande di te stesso», afferma Hasbach, co-direttore del programma di certificazione di ecopsicologia al Lewis & Clark College di Portland, Oregon, e co-editore di "Rediscovery of the Selvaggio.” E assicurati di ringraziare il tuo albero: dì qualche parola, dagli una carezza, raccogli i rifiuti. «La relazione è basata sulla reciprocità», dice Hasbach. «E quella connessione fa parte dello stupore». Lisa Gabriele ha scoperto il suo albero lo scorso gennaio mentre camminava lungo il lago St. Clair a Belle River, in Ontario, dove possiede una casa. Ha visto un albero sulla spiaggia e gli ha fatto una foto. Poi è tornata il giorno dopo e ne ha preso un altro. È rimasta sbalordita nel vedere spuntare un ramo che non aveva notato prima. «Guardare un albero invernale che era vivo e in movimento mi ha riempito il cuore», dice. La signora Gabriele ha iniziato a chiamare il suo albero «albero della spiaggia» e a visitarlo ogni pochi giorni, postando regolarmente foto su Instagram. Sperava di ispirare gli altri a scegliere un albero speciale. Un giorno è apparso un tavolo da picnic e ora il suo albero ha altri visitatori. Per prima cosa, un uomo sedeva rannicchiato al tavolo, fissando il lago. Poi una famiglia ha riso e mangiato sotto alla sua ombra. La signora Gabriele ha iniziato a divertirsi nel vedere altre persone interagire con il suo albero. «Ma non vedo l'ora di tornare indietro e rivedere il mio albero da sola», dice. Lo scorso inverno, l'artista di Chicago Lincoln Schatz ha trascorso due settimane a fotografare alberi nei parchi della città, inquadrando i loro rami scuri e spogli contro il cielo luminoso. La temperatura si aggirava intorno allo zero. Doveva guadare la neve alta fino agli stinchi. Le batterie della sua macchina fotografica si sono esaurite per il freddo. Eppure il signor Schatz si è sentito sollevato, dopo un anno di isolamento e tristezza. «Quegli alberi erano ancora più austeri e freddi di me, e stavano per tornare», dice. «Questo mi ha dato un enorme conforto che anche noi torneremo. E lo cavalcheremo insieme». Il signor Schatz ha diversi alberi nel suo giardino che considera amici: due pioppi che ha piantato quando si è trasferito a casa sua 10 anni fa (lui e sua moglie si sono sposati ad Aspen, in Colorado) e un ginkgo - "Ginkie" per la sua famiglia. Lo aiutano a scandire il passare del tempo. Torna anche regolarmente a visitare uno dei pioppi che ha fotografato lo scorso inverno che secondo lui dovrebbe avere circa 150 anni. «Questi alberi mi fanno sentire connesso a qualcosa di molto più grande di me stesso, e questa è una sensazione trascendente», afferma il signor Schatz. «Se potessero parlarmi, credo che direbbero: “Andrà tutto bene”». 

L’allarme: «Basta sfruttare l’Oceano». Fondamentali per l’equilibrio del pianeta i grandi mari sono sempre più sfruttati come risorsa economica. Ma ora scienziati, economisti e (pochi) politici ci mettono in guardia: bisogna ridurne il declino. di Anna Bonalume su L'Espresso il 26 maggio 2021. L’oceano è il futuro dell’umanità? Ricercatori e aziende non hanno dubbi. Negli ultimi dieci anni lo sfruttamento di mari e oceani ha subìto un’intensa accelerazione a livello globale, sollevando grandi preoccupazioni. È iniziata la corsa a soluzioni per ridurre il declino dei mari, ma la domanda è: oggi un’economia blu sostenibile è possibile? Le cifre dello sfruttamento dei mari sono impressionanti. Nel 2010 il contributo dell’economia oceanica globale è stato di 1,5 trilioni di dollari, circa il 2,5% del valore aggiunto lordo mondiale, secondo l’Ocse. La regione in cui l’accelerazione economica è maggiore è il sud-est asiatico, trainato dalla Cina, dove il valore aggiunto è passato da 157 miliardi di dollari nel 2010 a più di 175 miliardi di dollari nel 2015 (dati Ocse 2021). Mentre le risorse terrestri si stanno esaurendo, lo sfruttamento sempre più intensivo dell’ambiente marino costituisce un grande pericolo. Due terzi della superficie terrestre sono ricoperti dall’oceano, un’immensa risorsa da sfruttare, ma soprattutto una garanzia di sopravvivenza per l’uomo. Infatti, oltre a costituire l’habitat delle specie animali della nostra catena alimentare, l’oceano svolge un ruolo decisivo nella regolazione del clima: produce più del 50% dell’ossigeno che respiriamo, assorbe circa il 90% del calore generato dall’aumento delle emissioni di gas serra e il 30% delle emissioni di Co2. Eppure questo ecosistema è sotto attacco. La crescita dei bisogni della popolazione globale in aumento incoraggia abusi delle risorse marine provocando fenomeni devastanti. L’inquinamento, l’aumento delle temperature e dei livelli del mare, il rumore subacqueo, l’acidificazione degli oceani e la perdita della biodiversità sono solo alcuni dei rischi che il mare sta già correndo a causa dell’uomo. Sono recenti il disastro ambientale della petroliera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico o la controversa decisione del governo nipponico di rilasciare acqua radioattiva della centrale nucleare di Fukushima nell’Oceano Pacifico. L’economia blu comprende industrie fondamentali come: petrolio e gas offshore, attrezzature e costruzioni marine, produzione e lavorazione di frutti di mare, spedizione di container, costruzione e riparazione di navi, turismo di crociera, attività portuali ed energia eolica offshore. Le ultime proiezioni Ocse precedenti la pandemia suggeriscono che tra il 2010 e il 2030, l’economia dell’oceano potrebbe più che raddoppiare, superando i 3mila miliardi di dollari in valore aggiunto globale. Una crescita particolarmente forte è prevista nei settori dell’acquacoltura marina e dell’energia eolica offshore. In questo settore il Regno Unito è un modello per la transizione energetica: nel 2019 per la prima volta la sua produzione di elettricità da fonti rinnovabili ha superato quella generata dagli idrocarburi. Di fronte a questa situazione, istituzioni e scienziati lanciano l’allarme. Piera Tortora coordina il progetto Ocse “Sustainable Ocean for All” (Un oceano sostenibile per tutti), iniziativa nata per sostenere la transizione verso un’economia blu globale sostenibile, della quale possano beneficiare anche i paesi più poveri. «L’economia blu rappresenta il 2% del Pil dei paesi a reddito alto e l’11% dei paesi a reddito basso-medio. In un contesto di espansione mondiale delle industrie legate all’oceano, la maggiore dipendenza dei paesi in via di sviluppo da queste industrie crea opportunità di crescita economica, ma nello stesso tempo li rende più vulnerabili alle conseguenze delle crescenti pressioni antropogeniche sugli ecosistemi marini». La situazione dell’oceano è senza precedenti: anche se ci limitassimo ad un aumento della temperatura terrestre di 1,5° nei prossimi anni, il 90% dei coralli è destinato a sparire. Un gruppo di quattordici leader mondiali, tra i quali la primo ministro norvegese, ora sta lavorando con l’Ocse per definire i criteri di sostenibilità dell’oceano. Oggi il termine “sostenibilità” è sovrautilizzato, «bisogna evitare che il settore privato se ne impossessi producendo effetti di “greenwashing”, occupandosi di definire gli standard di sostenibilità al posto dei ricercatori», osserva Jean-Baptiste Jouffray, ecologo ricercatore allo Stockholm Resilience Centre dell’Università di Stoccolma. Per lo scienziato, la plastica rilasciata negli oceani non è l’unica urgenza, «il cambiamento climatico ha un impatto fortissimo. Il riscaldamento terrestre e l’aumento della temperatura non solo provocano la morte dei coralli, a causa del fenomeno dello sbiancamento, ma anche lo scioglimento dei ghiacci e quindi l’aumento del livello dei mari», determinando erosione costiera e inondazioni. «Il riscaldamento dell’acqua causa anche la migrazione degli stock ittici con conseguenze devastanti per le comunità costiere che dipendono dalla pesca per il loro sostentamento». Per Jouffray «la pesca intensiva e la pesca profonda esercitano grandi pressioni sull’oceano: causano la perdita della biodiversità e impediscono agli stock di pesce di rinnovarsi naturalmente». Le associazioni e la società civile si stanno muovendo contro il degrado marino di cui si parla ancora poco. In Francia nel 2014, grazie a una grande campagna di mobilizzazione, l’associazione Bloom è riuscita ad ottenere da Intermarché, principale armatore francese, l’abbandono di tutte le attività di pesca in acque profonde al di sotto degli 800 metri. Più recentemente, il documentario diffuso da Netflix “Seaspiracy” ha scatenato diverse polemiche. Punta il dito contro l’industria della pesca a colpi di cifre e slogan: la tesi è che la pesca commerciale sia il principale motore della distruzione dell’ecosistema marino. Sotto accusa diverse organizzazioni e Ong per la conservazione marina, come l’Earth Island Institute e la sua etichetta Dolphin Safe, o per la riduzione della plastica domestica, il cui impatto reale sarebbe inferiore a quello delle reti per la pesca abbandonate in mare. Nonostante abbia il merito di dare visibilità al problema, secondo Daniel Pauly, biologo marino e professore all’University of British Columbia, il film «fa più male che bene»: distorcendo la narrazione sulla distruzione degli oceani, sostiene l’idea che noi «possiamo salvare la biodiversità degli oceani diventando vegani». Una scelta abbastanza controversa: infatti se per un ragazzo europeo può rappresentare un vanto etico, la vita di milioni di persone, per esempio in India, dipende dalla pesca sia dal punto di vista alimentare che economico. Alcune istituzioni stanno facendo i primi passi per proteggere gli oceani fornendo norme e obiettivi internazionali, ma ad oggi le azioni realizzate sono insufficienti. Tra i diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’Onu c’è quello volto a conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile. «Oggi meno del’1% degli aiuti pubblici per lo sviluppo è impiegato per finanziare la transizione verso un’economia degli oceani sostenibile nei paesi in via di sviluppo. Fra il 2013 ed il 2018, la spesa ammontava a circa 3 miliardi di dollari in media all’anno. Queste cifre fanno dell’economia sostenibile degli oceani, assimilabile all’obiettivo 14 dell’Agenda 2030, l’obiettivo di sviluppo sostenibile meno finanziato fra tutti», sottolinea Tortora. Nel 2012 la Commissione europea ha adottato la “Strategia di crescita blu”. L’economia blu, che oggi dà lavoro a 4,5 milioni di persone e fattura 650 miliardi l’anno in Europa (Blue Economy Report 2020), è parte integrante dello “European Green Deal”. Ancora una volta, bisognerà vedere come gli Stati europei decideranno di integrare concretamente le proposte delle istituzioni internazionali. In un’ottica di sostegno e influenza internazionali, oggi rivestono un ruolo importante la “Fondazione Institut Prince Albert II de Monaco” e la “Fondazione Leonardo Di Caprio”, che ambisce a proteggere il 30% degli oceani del mondo entro il 2030 attraverso la creazione e l’espansione delle aree marine protette. Per capire da dove vengono i finanziamenti delle attività marine, i ricercatori dello Stockholm Resilience Center e della Duke University hanno identificato le 100 multinazionali che traggono maggior profitto dalle risorse dell’oceano. La classifica “Ocean 100” è dominata dalle compagnie petrolifere e del gas offshore con un fatturato totale di 830 miliardi di dollari. Nel 2018 il gruppo delle 100 aziende ha generato entrate pari a 1,1 trilioni di dollari. In cima alla lista si trovano Saudi Armaco, Petrobras e la National Iranian Oil Company, mentre l’Eni figura al 18° posto. In questo contesto economico, riorientare la finanza internazionale è un passo fondamentale per la sostenibilità. Non solo richiede la creazione di nuovi strumenti finanziari come i blue bonds, ma anche nuove regolamentazioni finanziarie e dei mercati del credito che spingano all’adozione di standard di sostenibilità. Nel 2018 le Seychelles, arcipelago di 115 isole a nord del Madagascar, sono state il primo Stato ad emettere Blue Bond. La prima obbligazione blu sovrana al mondo alimenta progetti di pesca sostenibile ed è riuscita a raccogliere 15 milioni di dollari di investimenti. Un caso esemplare di finanza blu sostenibile viene dall’Olanda: la banca Rabobank ha organizzato un prestito “verde e sociale” di 100 milioni di dollari con la società cilena Agrosuper, la principale azienda di salmone del paese e il secondo produttore di salmone al mondo. Il contratto di prestito contiene diverse condizioni ambientali e sociali che AgroSuper deve rispettare, come l’impegno a ridurre l’uso di antibiotici e ad aumentare il numero di eco-certificazioni. Thai Union Group, il più grande produttore mondiale di tonno in scatola, ha ottenuto il suo primo prestito legato alla sostenibilità di 400 milioni di dollari da un gruppo di istituzioni finanziarie. Se l’azienda raggiunge gli obiettivi prefissati, come il rafforzamento della tracciabilità dei suoi frutti di mare, il tasso di interesse viene abbassato. A livello internazionale le iniziative non mancano, è ora che anche l’Italia faccia la sua parte.

Articolo del "Financial Times" - dalla rassegna stampa estera di "Epr comunicazione" il 21 maggio 2021. Wall Street deve la sua fortuna allo scambio di azioni e obbligazioni, ma oggi inizia a guardare al valore finanziario della natura e a come inserirlo nelle strategie di investimento. Difficile stabilire, per fare un esempio, quanto vale un'ape. All'inizio di quest'anno è nata la Natural Capital Investment, una joint venture tra più società che si propone di raccogliere 10 miliardi di dollari entro il 2022. I soldi saranno destinati a progetti per la protezione o il ripristino di foreste, oceani e barriere coralline. Operazioni come questa sono frequenti, e spaziano dagli investimenti in aziende che prevengono l'inquinamento da plastica al risanamento di interi terreni. A lungo termine la speranza è quella di creare una gamma diversificata di beni legati alla natura. Le banche stanno iniziando a includere obiettivi di sostenibilità tra i requisiti dei prestiti. L'anno scorso BNP Paribas ha concesso un incentivo finanziario alla messicana Cemex che aveva in progetto di preservare la biodiversità delle sue cave e migliorare la fornitura d'acqua nelle regioni aride. Molti attivisti combattono l'idea che per impedire alle aziende di distruggere il pianeta si debba pagare. I sostenitori della finanza verde, invece, lo vedono come un buon investimento per chi crede nell'ecologia, alternativo al semplice acquisto di obbligazioni verdi o al limitare i fornitori ai più virtuosi. Quest'anno le Nazioni Unite hanno avvertito che la lotta contro le emissioni di gas serra non deve essere l'unico obiettivo degli sforzi verdi. Un rapporto del 2020 sull'economia della biodiversità del professor Partha Dasgupta ha mostrato che la distruzione della natura comporta seri rischi finanziari. «Per l'industria è suonato come una chiamata alle armi» ha detto Michael Ridley, senior responsible investing specialist di HSBC. Le fonti di reddito che derivano dall'investire in natura sono tutte legate alla vendita di compensazioni di carbonio. Sono unità che le organizzazioni possono acquistare per compensare le loro emissioni e che vengono generate da progetti per la riduzione del volume di carbonio nell'atmosfera. Ma queste iniziative variano significativamente in qualità e legittimità. E stanno diventando sempre più interessanti per le aziende, impegnate a rispettare l'obiettivo delle emissioni zero. HSBC Pollination Climate Asset Management intende lanciare un fondo di compensazioni di carbonio fino a 2 miliardi di dollari. Un terzo del fondo di capitale naturale da 500 milioni di euro lanciato da Mirova, uno dei primi a muoversi in questo spazio, è legato a progetti di compensazione del carbonio. Mirova ha detto che si aspetta che i crediti legati ad altri risultati ambientali, come il ripristino della biodiversità di una regione, diventeranno un'area su cui crescere. La maggior parte del fondo di Mirova si divide tra prestiti per la produzione di materie prime sostenibili e investimenti di tipo azionario in aziende che affrontano l'inquinamento da plastica o sostengono la pesca sostenibile. Tuttavia, secondo i gestori degli investimenti stanno emergendo opportunità insolite. Per HSBC Pollination l'acquisto e il ringiovanimento delle "terre marginali" per l'uso agricolo è un'opportunità chiave, anche se il gruppo non può indicare alcun esempio di accordo. In questo momento, il mercato è piccolo, ma crescerà. Nel gennaio 2021 una serie di aziende tra cui BlackRock, Fidelity International, Bank of America e Schroders hanno firmato l'iniziativa Terra Carta del principe Carlo che si propone di «mettere la natura, le persone e il pianeta al centro della creazione del valore globale». Una delle difficoltà a sviluppare prodotti finanziari innovativi legati alla natura è valutare accuratamente le risorse naturali. Gli accademici del Natural Capital Project della Stanford University stanno riunendo ricercatori di università e ONG di tutto il mondo per sviluppare modelli che «mappino e valutino i beni e i servizi della natura che sostengono e realizzano la vita umana». Il loro software open-source, l'Integrated Valuation of Ecosystem Services and Trade-offs, offre una serie di strumenti per valutare il modo in cui gli ecosistemi, attraverso processi come l'impollinazione delle colture e la mitigazione delle inondazioni, contribuiscono all'economia. Ma dare un prezzo alla natura non è sufficiente a preservarla, ha detto Gretchen Daily, direttore di facoltà del Natural Capital Project. «Dire "questo è ciò che vale" non cambierà assolutamente nulla se non c'è una politica ambientale e un qualche meccanismo che garantisca, nell'investimento, il capitale naturale». Johan Floren, a capo della sostenibilità all'AP7, il fondo pensione svedese da 80 miliardi di euro, crede che proteggere la biodiversità e il capitale naturale sia una priorità, ma resta scettico che possa diventare un'attività a sé. Invece di investire sul capitale naturale, AP7 preferisce spingere le società del suo portafoglio a ripulirsi. «Non è che ogni obiettivo di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite sia un investimento possibile», ha detto.

·        La Risorsa dell’acqua. Fogne e scarichi fuori controllo.

Fogne e depuratori, la Sicilia in ritardo di trent'anni: su 66 opere in appalto solo 4 completate.  Gioacchino Amato su La Repubblica il 7 settembre 2021. Nell'Isola ben 8 comuni su 10 sono stati multati dall'Unione Europea per scarichi inesistenti o non a norma. Le sabbie finissime e gli scogli a strapiombo, il mare cristallino che si fa rosso al tramonto nell'estate del boom turistico siciliano nascondono un putrido segreto vecchio di almeno trent'anni che ogni tanto affiora a pelo d'acqua proibendo ai bagnanti un tratto di costa. Ma che sta lì come una silenziosa bomba ecologica che con l'ambiente distrugge anche la già fragile economia della Sicilia.

Liquami in mare e depuratori funzionanti solo sulla carta. Vignaroli: “In Italia un quadro sconfortante”. Il presidente della commissione Ecomafie interviene dopo l’inchiesta dell’Espresso sugli sversamenti da fogne in diversi tratti di costa e nei laghi: “La politica ha preferito non chiedere soldi ai cittadini per la depurazione, tanto alla fine tutto si getta sempre in acqua”. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 14 luglio 2021. Scarichi abusivi, depuratori che lasciano andare acque reflue non trattate. Interi pezzi di costa non balneabili o di strano colore a causa di tonnellate di liquami da fogna. La commissione parlamentare Ecomafie in questi tre anni ha ascoltato decine di ambientalisti, procuratori, inquirenti sul tema della mancata depurazione e il quadro che ne è venuto fuori, raccontato dall’Espresso in una ampia inchiesta, è sconfortate. Anche in zone che del turismo e dell’ambiente fanno la loro forza, come Sicilia, Campania o Calabria.  Il presidente della commissione, Stefano Vignaroli, lancia l’allarme: «Ci troviamo davanti un quadro sconfortante, molti per anni non hanno affrontato questa tema cruciale. La politica spesso ha preferito non chiedere soldi ai cittadini per la depurazione, tanto alla fine tutto si getta sempre in mare»».

Presidente, in quasi tre anni di audizioni emerge un quadro allarmante in molte parti del Paese su versamenti in mare di liquami. Quali sono le situazioni peggiori? Che dati avete raccolto?

«Quello della depurazione delle acque è un tema molto importante per il Paese e che nessuno ha affrontato in maniera approfondita. Tranne il Trentino, ogni regione ha delle irregolarità. Come commissione ci siamo concentrati sulla Sicilia, ma anche Calabria e Campania sono in condizioni critiche. E ci sono anche zone del Nord che hanno problemi. Ma la situazione peggiore è sicuramente quella della Sicilia, dove il valore aggiunto del mare è importante anche per l’economia, non solo per l’ambiente».  

La Sicilia è un caso limite e state dedicando molte audizioni a questa regione. Cosa sta emergendo secondo lei di davvero grave?

«La cosa che ci ha colpito di più è quella di aver trovato impianti fittizi che non funzionavano, come quello di Balestrate in provincia di Palermo. Lì ci sono stati sversamenti in mare, come confermato anche dai procuratori di Palermo in audizione. Ma il vero problema è quello dei controlli che non si fanno. L’Arpa non ha personale, in tutta Italia e in Sicilia in particolare. E questo è un problema molto grave che va risolto in qualche modo, facendo concorsi e selezionando personale qualificato».

La commissione si è occupata anche della Calabria. Lì cosa avete trovato?

«In Calabria mi ha colpito che molti impianti di depurazione siano sommersi dalla vegetazione e irraggiungibili. Qui parliamo di totale abbandono da decenni, significa che non si depura. E anche qui parliamo del mare della Calabria, una risorsa fondamentale per la regione». 

Secondo lei cosa si può fare per porre rimedio a questo stato dell'arte? Dopo anni e anni di commissariamenti, perché le opere non vengono realizzate?

«Non si è fatto nulla perché forse conveniva risparmiare: perché investire o chiedere ai cittadini il costo della depurazione se posso buttare tutto a mare? Forse è questo il vero motivo, profondo, dell’immobilismo in questo settore».

Questi ritardi costano all’Italia 165 mila al giorno, a causa delle procedure di infrazione. Una cifra che potrebbe salire ancora perché altre procedure sulla stessa materia sono state avviate da Bruxelles. Da anni sono stanziati miliardi per la depurazione ma non si riesce a realizzare questi impianti.

«Adesso i soldi ci sono e c’è la volontà politica di mettere fine a questa partita chiudendo le procedure di infrazione, che sono già quattro. La prima con due sentenze ci è costata 25 milioni al momento della condanna, più la multa giornaliera. Altre due sono arrivate a sentenza di condanna, la quarta a breve arriverà. Non possiamo più fare finta di niente, ma quello che mi preoccupa è che i casi attenzionati dall’Ue non sono tutti quelli che non vanno. Abbiamo verificato il malfunzionamento di depuratori che non erano in alcuna procedura di infrazione. Ci sono decine di siti che non funzionano ed è un fatto gravissimo. In Sicilia otto Comuni su dieci sono in procedura di infrazione e c’è un abusivismo diffuso. Il 40 per cento dei siciliani non è servito da depurazione, e dei depuratori 463 quasi il 17 per cento è inattivo, mentre meno del 20 per cento opera con autorizzazione allo scarico in corso di validità».

Anche al Nord ci sono casi di mancata depurazione delle acque?

«Il tema è certamente nazionale. E’ tutta l’Italia in procedura di infrazione. La Lombardia ha diverse procedure di infrazione e sulle cronache è arrivato anche il caso di sversamenti sul Lago di Garda, come avete raccontato anche sull’Espresso. Occorre che ci sia però una forte presa di coscienza della situazione drammatica di certe parti d’Italia non solo da parte della politica ma anche da parte della società civile, che protesta poco di fronte al proprio mare inquinato».

Goccia a goccia. Report Rai PUNTATA DEL 18/12/2017 di Giuliano Marrucci. Tra tecniche irrigue all'avanguardia, riuso della stragrande maggioranza delle acque reflue in agricoltura, giganteschi impianti per la desalinizzazione e una lotta senza frontiere alle perdite della rete, Israele oggi, nonostante il clima arido, la continua crescita demografica e l'ambizione mai sopita a conquistare l'autosufficienza alimentare, ha più acqua di quanta ne consumi. In Italia, invece, di acqua ce ne sarebbe, ma ne sprechiamo una quantità spropositata, soprattutto in agricoltura. Il risultato è che abbiamo sempre meno acqua e i periodi di siccità sono diventati la norma. Meno male che da qualche anno un nuovo approccio alla gestione del ciclo idrico si sta facendo avanti. È il fenomeno dei servizi ecosistemici, dove l'agricoltura, invece di consumare risorse e inquinare i territori, diventa la prima custode dell'acqua.

“GOCCIA A GOCCIA” Di Giuliano Marrucci

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà perché poi, invece, da altre parti hanno capito bene che l’acqua è una risorsa unica, guai a perderla. Hanno addirittura investito in un sistema satellitare per individuare le perdite di acqua e limitarle. E così insomma, guai a sprecarla, anche se te la fanno pagare cara, in un posto dove hanno il 15% di acqua rispetto a quella che abbiamo noi grazie al riutilizzo e all’ottimizzazione sono riusciti a far crescere un filo d’erba anche nel deserto.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Israele. Tra il Mar Morto e il Mar Rosso si estendono i 13mila chilometri quadrati del deserto del Negev, in quelle che una volta erano terre dei beduini, oggi vive Arik, che per sbarcare il lunario s’è messo a fare l’ultima cosa che ti verrebbe in mente se sei in un deserto: coltivare pomodori.

ARIK WEINSTEIN - AGRICOLTORE Questi li abbiamo piantati due mesi fa, e li cominceremo a raccogliere la prossima settimana. GIULIANO MARRUCCI E quanti raccolti fate l’anno?

ARIK WEINSTEIN - AGRICOLTORE Dai 12 ai 14. E oltre ai pomodori, coltivo anche peperoni. In tutto solo io ho poco meno di dieci ettari di serre, ci sono circa altri 150 agricoltori come me.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Qui siamo in uno dei tanti centri che governo e comunità ebraiche sparse per il mondo finanziano per studiare colture e tecniche di irrigazione in grado di funzionare nel deserto.

EFFI TRIPLER - CENTRAL AND NORTHERN ARAVA R&D Questi sono dei sensori che misurano l’umidità del terreno. Vicino ai sensori passano queste tubazioni, con questi fori. L’acqua esce da lì e va direttamente alla radice della pianta, e solo quanta serve e quando è necessario. E con questa copertura in plastica evitiamo ogni tipo di evaporazione. In questo modo l’85% dell’acqua viene sfruttata della pianta. Con altri sistemi di irrigazione si raggiunge a fatica il 40%. Il problema è che comunque la pochissima acqua che c’è qua è anche molto salata, e sta rovinando il suolo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E siccome, nonostante Israele dreni anche gran parte dell’acqua che sarebbe destinata ai palestinesi, di acqua dolce da mandare fin nel deserto non ce n’è, pescano da quella degli scarichi provenienti dalle abitazioni, con tanto di bisogni fisiologici dentro. Questa è l’area metropolitana di Tel Aviv. Poco meno di 4 milioni di abitanti che ogni anno producono 130 milioni di metri cubi di acque reflue, che finiscono tutte in questo depuratore. Ma che dopo essere state ripulite, invece che in mare, finiscono in questi laghetti qua.

TOMER KRATZER – WATER SUPPLY ENGINEER MEKOROT Ci sono una cinquantina di laghetti così. In un giorno li riempiamo e in un giorno il terreno assorbe tutta l’acqua. Si fa 100 metri di terreno e alla fine arriva in una falda che teniamo isolata. Da lì la preleviamo con dei pozzi e la mettiamo in un sistema di tubature che arriva direttamente nel deserto del Negev. Dove la usano per irrigare.

GIULIANO MARRUCCI Ma non è ancora sporca?

TOMER KRATZER – WATER SUPPLY ENGINEER MEKOROT No, no, no. Non ci sono più batteri, non ci sono più virus, in realtà l’acqua che esce potrebbe essere usata anche per bere.

GIULIANO MARRUCCI Ma le zozzerie che erano dentro nell’acqua da qualche parte dovranno andare.

TOMER KRATZER – WATER SUPPLY ENGINEER MEKOROT Ogni volta che allaghiamo un laghetto poi lo lasciamo secco per un paio di giorni, muoviamo la terra, e i batteri scompaiono grazie all’azione dell’aria e del sole. E in questo modo il processo è replicabile all’infinito.

GIULIANO MARRUCCI E quanta acqua riuscite a riutilizzare così?

TOMER KRATZER – WATER SUPPLY ENGINEER MEKOROT Tutti i 130 milioni di acque reflue dell’area metropolitana di Tel Aviv vengono utilizzati per fini agricoli nel deserto. E non è solo qua. In tutto Israele viene riutilizzato per fini agricoli l’85% delle acque reflue.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Nonostante una percentuale di riuso che non ha pari al mondo, si è deciso di prendere l’acqua del mare, infilarla dentro a mega impianti come questo, e tirarne fuori acqua così.

ZIV SHOR – IDE TECHNOLOGIES Assaggiala un po’ e dimmi che ne pensi.

GIULIANO MARRUCCI Un’ora fa questa era nel mare, giusto?

ZIV SHOR – IDE TECHNOLOGIES Esatto.

GIULIANO MARRUCCI Beh, buona. ZIV SHOR – IDE TECHNOLOGIES Altroché. Dati alla mano è migliore di molte acque minerali in commercio. La svolta decisiva è arrivata una quindicina di anni fa, in seguito a un lungo periodo di siccità. Due anni dopo è stato inaugurato il primo impianto, due anni dopo un altro, e poi questo di Sorek dove siamo adesso, è il desalinizzatore più grande del mondo.

GIULIANO MARRUCCI E oggi qual è il contributo complessivo di questi impianti?

ZIV SHOR – IDE TECHNOLOGIES Parliamo di circa il 70-75%.

GIULIANO MARRUCCI Cioè, il 75% dell’acqua potabile oggi in Israele…

ZIV SHOR – IDE TECHNOLOGIES Viene dal mare, esatto.

GIULIANO MARRUCCI Per non sprecarla negli ultimi 15 anni hanno investito per individuare e limitare al massimo le perdite nelle condutture, che nell’area metropolitana di Tel Aviv oggi sono intorno al 10%.

JONATHAN JACOBI - UTILIS Sfruttando le caratteristiche chimiche dell’acqua potabile, siamo in grado di utilizzare immagini satellitari per individuare in un colpo solo tutte le perdite che avvengono in un’area di 3.500 chilometri quadrati, anche le più piccole.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Qui siamo a Mancasale, provincia di Reggio Emilia. Come a Tel Aviv hanno piazzato a valle del depuratore tradizionale un secondo grande impianto di depurazione. Che fa passare l’acqua prima in queste cisterne piene di sabbia, e poi sotto il raggio purificatore di queste potenti lampade ultraviolette.

EUGENIO BERTOLINI - DIRETTORE GENERALE DI IRETI SPA Quest’acqua andava in un torrente, e quindi andava a mare. GIULIANO MARRUCCI E invece oggi?

EUGENIO BERTOLINI - DIRETTORE GENERALE DI IRETI SPA Oggi, invece, viene pompata all’interno di un canale, e quindi viene utilizzata per l’irrigazione dei campi.

GIULIANO MARRUCCI E la beffa è che per raccogliere queste briciole, la Regione ha dovuto procedere in deroga alla legge nazionale. RUDY ROSSETTO – SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA Si procede in deroga alla legge nazionale perché i limiti sono molto restrittivi a livello di qualità delle acque.

GIULIANO MARRUCCI Prima dell’impianto di Mancasale questi l’acqua da dove la prendevano?

RUDY ROSSETTO – SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA Dal reticolo superficiale in Pianura Padana.

GIULIANO MARRUCCI Cioè dal Po.

RUDY ROSSETTO – SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA Che ha una qualità peggiore di quella del refluo trattato di Mancasale.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Qui nel vicentino gli agricoltori hanno sempre attinto a queste rogge, piccoli canali che i veneziani hanno costruito circa 800 anni fa. Il problema è che qui l’acqua scorre più abbondante d’inverno, quando agli agricoltori non serve, ed è tutta acqua buona che finisce in mare. D’estate invece l’acqua non basta mai, e gli agricoltori sono costretti ad attingere alle falde sotterranee, e così la falda piano piano s’è abbassata di 70 metri.

GIANFRANCO BATTISTELLO - CONSORZIO DI BONIFICA ALTA PIANURA VENETA Da questo è nata l’idea, nel periodo autunno, inverno, primavera, di prendere in quel periodo l’acqua per immetterla in falda, quindi per cercare di impinguare, di riempire le falde.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Tramite una semplicissima paratoia, nella stagione giusta, l’acqua della roggia viene deviata e mandata in pozzi come questo, dove viene filtrata da due metri di ghiaia, e poi diventa disponibile per quando di acqua non ce n’è.

GIANCARLO GUSMAROLI - COORDINATORE PROGETTO LIFE AQUOR Un pozzo come questo è in grado di ricaricare in falda fino a 100 litri al secondo, 50 pozzi di questa tipologia distribuiti nell’alta pianura vicentina sarebbero in grado di compensare il volume che andiamo a perdere.

GIULIANO MARRUCCI E quanto costerebbe fare una roba così, al sistema?

GIANFRANCO BATTISTELLO - CONSORZIO DI BONIFICA ALTA PIANURA VENETA Allora, per realizzare un pozzo costa circa dai 10 ai 15 mila euro, quindi con un milione di euro si potrebbe fare.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Qua siamo a Carmignano di Brenta, dove un’azienda agricola di punto in bianco ha deciso di prendere due ettari e mezzo di terra che prima erano dedicati alla coltivazione del grano, pulirli bene bene, scavare un chilometro e mezzo di canali per far scorrere l’acqua, e tra un canale e l’altro, piantare un vero e proprio bosco. Che oggi, è così.

LUCIO BROTTO - ETIFOR Queste sostanzialmente sono delle canalette di una profondità di circa un metro e mezzo, che passano i 40 centimetri di terreno e toccano la ghiaia, perché qui sotto il terreno ha ghiaia, in maniera tale che l’acqua scorrendo, con una pendenza del tre per mille, quindi molto lenta, si infiltra nel terreno. Un milione di metri cubi. Abbiamo le sonde all’entrata, abbiamo le sonde all’uscita del bosco, non è mai uscito un metro cubo di acqua in cinque anni.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Per riequilibrare il bilancio idrico dell’area basterebbe convertire a bosco 100 ettari sui 17mila coltivati. Ma i quattrini dove si trovano?

LUCIO BROTTO - ETIFOR Si è creato una connessione tra il proprietario del fondo agricolo, quindi del bosco, il consorzio di bonifica, che paga ogni anno, con contratto decennale, il servizio di ricarica della falda, quindi un agricoltore pagato per fare acqua pulita.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma in un’annata come questa dove i fiumi sono completamente a secco, la priorità rimane usare bene la poca acqua che c’è. Proprio come fanno quelli del consorzio di bonifica del canale emiliano-romagnolo, che da oltre 60 anni oltre a fornire l’acqua agli agricoltori, cercano anche di spiegargli come usarla in modo efficiente.

PAOLO MANNINI - CONSORZIO DI BONIFICA PER IL CANALE EMILIANO ROMAGNOLO Noi abbiamo studiato per anni le esigenze di ogni singola cultura, in ogni sua fase biologica e simuliamo questo accrescimento delle radici, questo accrescimento delle foglie, per fare un bilancio idrico molto preciso.

GIULIANO MARRUCCI Quindi in base ai dati metereologici, in base a com’è fatto il terreno, in base al tipo di pianta, voi sapete dire…

PAOLO MANNINI - CONSORZIO DI BONIFICA PER IL CANALE EMILIANO ROMAGNOLO Irriga oggi questa cultura, non irrigare quest’altra, con tanto di millimetri da erogare a ogni appezzamento.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Grazie a questa app, oggi, l’informazione arriva ogni giorno agli abbonati tramite un messaggino vocale come questo.

MESSAGGIO APPLICAZIONE “Ciao, Gioele. Queste le tue informazioni irrigue di oggi: pesco, appezzamento 4, da irrigare oggi con 15 millimetri. Saluti dal Consorzio di bonifica del canale emiliano romagnolo”.

PAOLO MANNINI - CONSORZIO DI BONIFICA PER IL CANALE EMILIANO ROMAGNOLO Noi stimiamo, a seconda dell’annata, in un’annata molto arida come il 2017, circa 100 milioni di metri cubi d’acqua risparmiati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Servirebbe anche a non costruire ulteriori bacini e a cementificare di meno. Ecco perché poi la storia del nostro paese ci insegna che non sempre la via della grande opera è la migliore. Perché impieghiamo decenni per costruirle e spesso sono inutilizzate o non terminate. Ecco e poi ci insegna anche che, più che riequilibrare i bilanci idrici del paese, serve per riequilibrare quelli di alcune aziende amiche. Che cosa ci insegna, invece, l’esempio positivo, gli esempi positivi che abbiamo visto? Che bisogna cambiare paradigma. Trasformare il mondo degli agricoltori da un mondo che inquina e brucia risorse in un mondo che, invece, conserva l’acqua piovana, ne migliora la qualità e, se serve, rabbocchi le falde acquifere. Chi meglio di loro, che vivono a contatto con la natura e vivono dalla natura? E quale migliore soluzione di fare, di aiutare la natura a… fare la natura? Ecco, in attesa che tutto questo diventi sistema e venga messo in rete, intanto, impariamo ad utilizzare meglio l’acqua. Dopo la pubblicità vedremo invece gli esempi dove noi abbiamo perso irrimediabilmente questa risorsa e dove, addirittura, paghiamo un miliardo di euro di incentivi per spostarla e generare conflitti. Tra tre minuti...

Fogne e scarichi fuori controllo: il romanzo criminale del mare d’Italia. Antonio Fraschilla su La Repubblica il 16 giugno 2021. Depuratori guasti o inesistenti. Divieti aggirati o ignorati. Sversamenti in acqua da Nord a Sud, dal Lago di Garda alla Sicilia. Nelle decine di indagini in corso e nelle centinaia di pagine dei verbali della commissione Ecomafie consultati dall’Espresso il racconto di come si sta inquinando uno dei beni più preziosi per l’ambiente e l’economia del Paese. A leggerlo sembra di aver davanti il grande romanzo criminale del mare, scritto da un autore che va dritto al cuore nero della storia senza molti giri di parole. Racconti di fogne che finiscono nei golfi di Sicilia tra i più belli d’Italia, di pezzi di costa campana dove sì, i batteri, in alcuni momenti dell’anno, sono inferiori al limite, ma la schiuma e il colore marroncino lasciano poco spazio ai dubbi. Di fiumi in Calabria che finiscono in mare dopo essere stati inquinati non solo dalle aziende ma anche dalle fogne urbane non filtrate. Perfino i laghi del Nord fanno capolino in questo libro nero di un Paese che è in cima alla classifica europea per procedure di infrazione dovute alla mancata presenza di fogne e depuratori: oggi l’Italia paga una penale da 126 mila euro al giorno per questo. Ma nel grande romanzo criminale in questione ci sono storie di impianti che non sono nemmeno nel mirino di Bruxelles, perché sulla carta perfetti, e che invece non funzionano e riversano in mare gli scarichi di centinaia di migliaia di persone. Il tutto nella totale impunità, o quasi, dei responsabili, con i magistrati che si trovano davanti a un ginepraio di leggi, norme, competenze e rimpalli di responsabilità delle quali spesso non riescono a venire a capo. L’Espresso ha letto le centinaia di pagine dei verbali della commissione Ecomafie dal 2019 ad oggi e davvero quello che emerge è «inquietante, assurdo e paradossale», come dice il presidente Stefano Vignaroli. Ma, approfondendo anche attraverso le indagini in corso di diverse procure, il quadro è ancora più grave. 

FOGNE A MARE

Il romanzo criminale del mare inizia dalla Sicilia. Qui su ampi tratti di costa a Palermo, nel golfo di Castellammare, in quello di Trapani, nella baia dei faraglioni tra Acireale e Catania, e nel tratto tra Augusta, Siracusa e Pachino, fanghi e liquami da fogna finiscono in mare senza depurazione. Giorgio Azzarello, commissario nominato dalla Regione per la provincia di Siracusa, a domanda di Vignaroli ha così risposto: «Posso dire che Augusta scarica a mare senza nessuna condotta. Un altro scarico a mare è quello relativo al depuratore di Avola. Un’altra criticità è quella relativa alla città di Portopalo di Capo Passero, che non ha un impianto di depurazione». Il procuratore aggiunto di Siracusa, Fabio Scavone, continua: «Su Pachino invece il problema nasce nella frazione di Marzamemi che d’inverno è popolata da circa 500 persone, mentre d’estate è popolata da circa 6.000 persone, con picchi in occasioni particolari sicuramente ancora maggiori. Si dice che si arrivi anche a 20.000 presenze. Quindi, un impianto strutturato per 500 persone dimostra delle assolute inadeguatezze, i liquami fuoriescono da ogni pozzetto e arrivano in mare non depurati». Andando verso Catania la situazione è addirittura peggiore. Dicono il procuratore Carmelo Zuccaro e l’aggiunto Agata Santonocito: «Tutti gli impianti di depurazione esistenti nel nostro territorio sono assolutamente inadeguati. A cominciare dal più grande, il sistema fognario che interessa la città di Catania e l’impianto di depurazione di Pantano D’Arci che, se funzionasse, dovrebbe interessare un bacino di utenza di oltre 540.000 utenti. Invece serve soltanto 70 residenti». Ma allora come è possibile rendere balneabile la grande spiaggia della città, la Playa? «In quella zona, normalmente, nel periodo invernale e autunnale arrivano in maniera incontrollata tutti gli scarichi che non vengono assolutamente depurati. Quindi d’estate che cosa si fa per consentire la balneazione? Si blocca il corso di determinate acque reflue e così si impedisce che queste acque sversino nel mare, cosa che invece avviene durante il resto dell’anno. In ogni caso, la compromissione ambientale è veramente notevole». Ad Acitrezza c’è uno scarico della fogna direttamente a mare, proprio nell’area marina protetta. Sul fronte Occidentale, da Palermo a Trapani, si è scoperto il malfunzionamento di diversi impianti di depurazione. La procura di Palermo ha aperto una mega indagine: «Le parti offese di questa indagine», dicono gli aggiunti Marzia Sabella e Sergio Demontis, «dal punto di vista dell’ambiente sono certamente il Mar Tirreno, per il depuratore di Acqua dei Corsari, il golfo di Castellammare, che peraltro è anche un’area protetta, per il depuratore di Balestrate, il torrente Ciachea per quanto riguarda Carini, e il fiume Nocella per Trappeto. Ora che cosa è stato accertato in particolare? Andiamo al depuratore di Acqua dei Corsari di Palermo che è il depuratore più importante. Nel corso dei vari sopralluoghi è emerso che la linea dei fanghi era inattiva da diverso tempo e questo alla lunga causava la fuoriuscita in mare. Ci siamo serviti del nucleo elicotteri per fotografare le chiazze marroni che si erano formate nel mare in corrispondenza di questo depuratore, ma abbiamo voluto fare anche degli approfondimenti con il nucleo subacquei che nel corso di un’ispezione sottomarina, hanno accertato il flusso costante di questo liquido in uscita di colore marrone, leggo testualmente, “con particelle di piccola dimensione in sospensione”». Cacca, insomma. «Per il depuratore di Balestrate (nel golfo di Castellammare, città che non ha depuratore tra l’altro, ndr) possiamo dire che si è accertato che quel depuratore non funziona e che quando è stato messo in funzione ha provocato l’intasamento delle vasche e, chiaramente, tutti questi fanghi si sono riversati in mare. Per quanto riguarda gli altri comuni, Carini e Trappeto, sui quali sono state svolte queste prime indagini, ci sono situazioni assolutamente sovrapponibili a quelle che abbiamo verificato per gli altri due depuratori». Tradotto: sversamenti in mare e fanghi non trattati. «Non a caso il Comune di Trappeto ha appena rinnovato il divieto di balneazione alla foce del fiume Nocella, in quello che era un paradiso naturalistico poi distrutto dagli anni Ottanta ad oggi», dice Maria Teresa Noto di Legambiente, mentre osserva una strana piena improvvisa del fiume: «Qualcuno starà scaricando liquami». 

I FIUMI AL VELENO

In Calabria i fiumi sembrano scarichi fognari a cielo aperto. Racconta alla commissione Alfio Nicola Raciti, comandante del Noe di Reggio Calabria: «Parti di alcune zone della città non sono collegate a impianti di depurazione, quindi vanno direttamente nelle fiumare e scaricano a mare, con effetti sulla costa. Inoltre abbiamo in corso delle attività sulla parte di Vibo Valentia, del tratto costiero che va da Pizzo fino a Nicotera, e ci stiamo concentrando sia sul mancato collegamento delle condotte fognarie delle abitazioni agli impianti di depurazione, sia, ultimamente, su alcune condotte sottomarine, che esistono in quella zona, e che stiamo cercando di capire che tipo di manutenzione ricevano». Giorgio Maria Borrelli, che guida il comando regione carabinieri forestali, aggiunge: «In Calabria i depuratori che abbiamo controllato sono 196: 83 sono risultati irregolari e 21 posti sotto sequestro. Per irregolari noi intendiamo tutti quei depuratori che non completavano il ciclo di depurazione, quindi sia in maniera colposa che, come in alcuni casi è stato riscontrato, anche in maniera dolosa, le acque venivano riversate tal quale nei corsi d’acqua». Il fiume Crati porta acqua inquinata nel mare della provincia di Cosenza. Ne parla il procuratore Mario Spagnuolo: «Il fiume Crati è il fiume che insiste su quelle zone. Il depuratore è stato sequestrato. Inoltre abbiamo riscontrato che vi è un tessuto di insediamenti, anche abbastanza cospicui, che formalmente dovrebbero essere serviti da depuratori, ma sostanzialmente non lo sono. Dei cento impianti di depurazione una buona metà esisteva solo sulla carta, nel senso che si tratta di strutture dismesse, ma non più utilizzate, e per arrivarci occorreva disboscare, perché l’erba si era fatta alta due o tre metri. In buona sostanza, tutto finisce all’interno del fiume Crati e poi da lì viene portato a mare, con l’inquinamento delle zone. Per quanto riguarda il depuratore consortile, che segue i reflui di 200.000 abitanti, abbiamo verificato che i responsabili del depuratore azionavano un bypass per cui consentivano che la roba andasse direttamente all’interno del fiume Crati». Procedendo verso la Campania, si trova prima l’inquinamento del Sarno e poi della costa Nord di Napoli. Pasquale Starace, comandante del gruppo tutela ambientale di Napoli, ha indagato sugli scarichi nel fiume Sarno e alla commissione ha detto: «Fino ad ora abbiamo controllato 290 aziende, sequestrato una settantina di scarichi abusivi, denunciato una novantina di persone». Salendo, si arriva all’indagine, recente, sullo sversamento in mare di fanghi da discarica non depurati dagli impianti di Napoli Nord, Marcianise, Succivo, e Regi Lagni. Il presidente di Legambiente Campania, Giancarlo Chiavazza, dice all’Espresso: «In base agli ultimi aggiornamenti risultano 108 su 151 gli agglomerati della Campania cui viene contestata la non conformità ai dettami della direttiva comunitaria sulla depurazione. Inoltre da Mondragone a salire abbiamo segnalato più volte l’anomalia nella schiuma e nella colorazione dell’acqua». Qualche giorno fa il sindaco di Torre del Greco ha vietato la balneazione in un ampio tratto di costa dopo le indagini batteriologiche. Interdette alla balneazione, tra le altre, anche la “Spiaggia grande” di Positano, alcune spiagge di Furore, Praiano, Maiori, Sapri, Massa Lubrense, Ercolano, Salerno, Castellammare di Stabia e Torre Annunziata. 

I LAGHI E LA SCURE DELL’UE

Recentemente, casi di sversamento di liquami fognari sono stati denunciati anche sul Lago di Garda: sarebbero ben 9 milioni i metri cubi di liquami da fognatura finiti in acqua a causa del sovraccarico del sistema di depurazione, soprattutto quando piove o nella stagione estiva con una maggiore presenza di turisti. Anche il Nord è nel mirino dell’Ue per infrazioni in tema di depurazione. Nella classifica delle regioni con più irregolarità nello smaltimento delle acque reflue dopo Sicilia, Campania e Calabria al quarto posto si piazza la Lombardia con 130 agglomerati irregolari: «Il tema è nazionale, e riguarda il nostro mare e le nostre acque. Ma per assurdo sembra un argomento che interessa a pochi», dice Vignaroli, «per questo con la commissione Ecomafia ci stiamo concentrando sulla depurazione e presenteremo un corposo dossier che davvero lascerà allibiti per la gravità dei fatti scoperti».

Fanghi e liquami in mare, le foto shock della costa di Palermo. Carabinieri e Guardia costiera su mandato della procura hanno fotografato gli sversamenti in acqua dei depuratori non funzionanti avvenuti dal 2015 al 2021. Ecco le foto in esclusiva.  Antonio Fraschilla su L'Espresso il 23 giugno 2021. Il mare di Palermo inquinato perché i depuratori non funzionano e sversano spesso i fanghi e i residui delle acque reflue. Sono delle foto shock quelle allegate all’ordinanza della procura di Palermo, nell’inchiesta coordinata dall’aggiunto Marzia Sabella e portata avanti dal sostituto Andrea Fusco. Immagini che documentano dal 2017 al 2021 chiazze color marrone che spesso si creano nel mare davanti alla costa Sud della città e nella parte che guarda verso il Golfo di Castellammare, con i depuratori di Balestrate e Carini che non funzionano. Un tema che ha già portato la commissione Ecomafie diverse volte nell’Isola e con decine di audizioni, come raccontato in una inchiesta dell’Espresso. Le informative dei carabinieri, con le foto allegate, sono molto chiare e nette sulla pessima situazione della depurazione nel capoluogo siciliano, tanto che poi, in base a queste verifiche, la procura ha chiesto e ottenuto il commissariamento dell’azienda municipalizzata, l’Amap, sul versante dei depuratori da lei gestiti. La procura in realtà aveva chiesto il commissariamento dell’intera azienda. Il Gip, Piergiorgio Morisi, ha concesso il commissariamento solo per gli impianti di depurazione. Ma resta un quadro sconfortante. Con degli elicotteri i carabinieri lo scorso settembre fanno ad esempio delle riprese video e scattano delle foto in corrispondenza del pennello a mare, «cioè del punto terminale della condotta di 1.2 Km che porta le acque dal depuratore verso il mare del Golfo di Palermo», si legge nell’ordinanza che vede indagati dirigenti dell’Amap, compresa l’attuale assessore della giunta al ramo, Maria Prestigiacomo. Si legge ancora nell’informativa dei carabinieri: «Il Nucleo Elicotteri metteva insieme alcune riprese svolte nel periodo dal 16 giugno 2015 al 06 giugno 2020, dalle quali è chiaramente visibile una grossa macchia marrone sulla superficie del mare, del classico colore dei fanghi da depurazione. Dunque, malgrado la condotta ed il pennello siano posti sul fondo, i fanghi risalgono sulla superficie del mare, prima di disperdersi grazie alle correnti marine. Ad esempio, come meglio descritto nella informativa del 13 giugno 2019, veniva effettuato questa ricognizione aerea, nel corso della quale venivano realizzati alcuni scatti fotografici e filmati video dalle quali è chiaramente visibile una grossa macchia scura sulla superficie del mare, del classico colore dei fanghi da depurazione. Malgrado la condotta sia posta nel fondo, i fanghi diluiti all’interno del corpo ricettore risalgono in superficie prima di disperdersi completamente nell’ambiente sottomarino. Relativamente agli scatti fotografici dei giorni 30/04/2020 e 06/06/2020, occorre fare una precisazione: lo sversamento in mare dei fanghi non avviene in mezzo al mare in corrispondenza del pennello, ma sotto costa, dallo scarico di “troppopieno” del depuratore. In pratica, quando la portata delle acque è eccessiva, si attiva un sistema alternativo che scarica le acque direttamente sotto costa, a ridosso della battigia vicina a via Messina Marine». Le indagini segnalano che anche negli anni 2015, 2016 e 2017, allorché l’impianto smaltiva ufficialmente 2.000 tonnellate di fanghi l’anno, «la produzione reale era ancora maggiore, tant’è che parte dei fanghi veniva smaltita in mare». «Nella informativa del 13 giugno 2019, viene anche spiegato che i Carabinieri effettuavano in data 17 ottobre 2018 un secondo accesso presso l’impianto di depurazione di Acqua dei Corsari, unitamente a personale tecnico dell’ARPA - Struttura Territoriale di Palermo. Gli operanti notavano che in corrispondenza dello stramazzo, i reflui giungevano particolarmente torbidi, con la presenza massiccia di zolle solide di fanghi visibili ad occhio nudo ed in concentrazione maggiore. Inoltre, durante il sopralluogo, i militari operanti notavano alcuni operai dell’Amap che, con fare alquanto sospetto, erano intenti ad effettuare alcune manovre in prossimità del vicino canale di clorazione. Questi soggetti sentiti a sommarie informazioni affermavano che la linea trattamento fanghi era ferma da diversi mesi, e che quindi non venivano più prodotti fanghi solidi o palabili; che si cercava di mantenere i fanghi molto liquidi e, con un sistema di pompe, di riportarli in testa all’impianto. Inevitabilmente, questa non corretta pratica gestionale generava la fuoriuscita costante di una parte di fanghi che, non potendo essere trattenuti all’interno del ciclo di depurazione, venivano sversati nel Mar Tirreno». Non va meglio negli altri impianti della costa palermitana. I sommozzatori dei carabinieri hanno ad esempio prelevato «due campioni di sedimenti marini, intorno al punto di sversamento della condotta sottomarina di Balestrate»: «Il primo veniva prelevato proprio in corrispondenza del punto di immissione in mare, ed il secondo ad una distanza di oltre 10 m da detto punto. In entrambi i casi – si legge nell’informativa messa agli atti - venivano rilevati superamenti enormi dei limiti tabellari previsti dalla legge in materia di parametri. Microbiologici, nello specifico Escherichia Coli e Streptococchi fecali (rispettivamente di oltre il 4695% e di oltre il 21200%). Il 25 febbraio gli agenti del nucleo subacquei della Guardia Costiera, effettuavano delle immersioni al fine di rilevare mediante riprese video l’impatto che gli sversamenti del pennello a mare del depuratore di Balestrate avevano avuto sulla flora e fauna marine. Una prima immersione è stata effettuata a 1,2 km dallo scarico, in un punto definito “bianco”. Una seconda immersione è stata fatta invece nei pressi del pennello a mare del depuratore. In questo punto, e per un raggio di 50 metri intorno al pennello, l’acqua è torbida e maleodorante, a causa dello sversamento di acque reflue non trattate, le quali per di più trasportano con sé zolle di fango staccate dalle vasche di ossidazione e fanghi in sospensione; questi scarti si sono andati depositando sul fondale marino, la cui sabbia si presenta torbida, e priva di alghe nonché di qualsiasi altra forma vivente in ragione dell’effetto deossigenante delle sostanze organiche immesse in mare mediante la condotta».

Le conclusioni della procura. Scrivono i magistrati: «Le attività di indagine svolte hanno dimostrato che l’Amap gestisce in modo totalmente illecito i fanghi di depurazione nei depuratori di Balestrate e Acqua dei Corsari: li accumula a tempo indeterminato nelle vasche dei depuratori, e poi li smaltisce in mare. Nel caso del depuratore di Carini i fanghi vengono invece smaltiti nel torrente Ciachea, che quindi li porta in mare. I risultati delle due immersioni effettuati in data 25.2.2020 sono la prova principe della compromissione dell’ambiente provocata dallo sversamento in mare dei fanghi e degli scarti anomali provenienti dal depuratore: mentre ad una certa distanza dal pennello a mare, la situazione del sistema marino è normale, in prossimità dello stesso si ha una situazione di inquinamento che appare ictu oculi anche all’uomo comune sulla sola base dei video registrati dagli agenti della Guardia Costiera: dal pennello fuoriescono zolle di fanghi di depurazione, oltre che un continuo flusso di fanghi in sospensione. Lo scarico ha infatti prodotto un ambiente totalmente contaminato, privo di qualsiasi specie vivente e privo di quelle alghe che costituiscono la base primaria dell’ecosistema marino. Dal video si vede anche come lo scarico di fanghi e di altri rifiuti nel mare è continuo, non dipendente cioè̀ da particolari fasi di lavorazione del depuratore di Balestrate. Sotto la pressione dei liquami cittadini, vengono espulsi con un flusso continuo tutti i fanghi che intasano l’impianto, insieme appunto ai liquami».

·        Gli Oceani.

Un cimitero negli abissi. Ecco cosa succede a Point Nemo. Lorenzo Vita su Il Giornale il 19 Giugno 2021. Immaginato dagli scrittori e poi calcolato dagli scienziati, Point Nemo è il luogo più distante dalla civiltà umana. Più lontano dalla costa che dalla Stazione spaziale internazionale. Se qualcuno ha mai pensato di fuggire, di essere circondato solo dal mare e di essere distante migliaia di chilometri da qualsiasi forma di vita umana, allora Point Nemo è il posto adatto per lui. Point Nemo (o il Punto Nemo) è chiamato anche Polo dell'inaccessibilità oceanica. Deve il suo nome al mitico capitano e ideatore del Nautilus, l'immaginario sottomarino che solcava gli abissi nel libro di Jules Verne "Ventimila leghe sotto i mari". Un luogo in cui il protagonista è solo uno: il mare. E intorno a lui il nulla. Per molti secoli, nessuno aveva calcolato quale potesse essere il punto più lontano dalle terre emerse. Solo negli anni Novanta del secolo scorso gli scienziati iniziarono a domandarsi dove potesse trovarsi un luogo così irraggiungibile. E con una serie di calcoli matematici che facevano riferimento a ogni singola linea costiera e ogni isolotto di cui sono costellati gli oceani, riuscirono a trovare le coordinate: 48°52.6'S e 123°23.6'W nelle acque del Pacifico meridionale. E fu chiamato Point Nemo. Un luogo non troppo lontano da quello immaginato da Howard Phillips Lovecraft per la città sommersa di R'lyeh, costruita dai sudditi di Chtulu. Una prossimità per cui è impossibile non scorgere una coincidenza: segno che già ai tempi di Lovecraft si parlava di questo luogo disperso nel mare lontano da qualsiasi forma di civiltà. Per capire quanto possa essere inaccessibile e anche affascinante questo luogo dell'Oceano Pacifico, basta riflettere su un numero: 2.688. E cioè i chilometri che distanziano Point Nemo dai luoghi terrestri a lui più vicini: le isole Pitcairn, Moto Nui e Maher Island. Tre luoghi praticamente alla stessa distanza, ma disabitati. Per raggiungere una prima forma di civiltà bisogna allungare di almeno un centinaio di chilometri e raggiungere Auckland, in Nuova Zelanda. Calcolando che l'orbita della Stazione Spaziale Internazionale è a 400 chilometri dalla superficie terrestre, è possibile che una persona che si trovi a Point Nemo sia più vicina a un uomo nello spazio che a un uomo sulla Terra.

Naturalmente questa particolare distanza da qualsiasi forma di civiltà - e quasi anche da ogni forma di vita, visto che le correnti e la profondità del luogo non hanno permesso lo sviluppo di un grande ecosistema - non è passata inosservata agli scienziati e a tutti coloro (governi e militari) che cercavano un luogo lontano da ogni essere umano per alcune delle loro attività. Per questo motivo, Point Nemo oggi non è solo il luogo più lontano dalle terre emerse, ma anche una sorta di cimitero in cui vengono inviate tutte le navicelle spaziali dirette sulla Terra nel loro rientro programmato. Lontano da occhi indiscreti, ma soprattutto per evitare di colpire centri abitati o navi che solcano quelle acque, lì giacciono i detriti dei vettori spaziali. Più vicino all'Universo che alla terraferma, Nemo diventa così il punto perfetto che congiunge l'immensità dell'oceano a quella del cielo. E ci fa sentire più piccoli... e lontani da tutto.

Lorenzo Vita.  Nato a Roma il 2 febbraio 1991, mi sono laureato in giurisprudenza nel 2016 con una tesi in diritto internazionale. Dopo la laurea, ho conseguito un master in geopolitica e ho seguito corsi sul terrorismo internazionale. Lavoro per ilGiornale.it dal 2017 e seguo in particolare Gli Occhi della Guerra. Da settembre 2018 mi sono trasferito a Milano e lavoro nella redazione del sito. Mi occupo prevalentemente di Esteri, con un occhio di riguardo alla politica estera del Nostro Paese: fin troppo dimenticata negli ultimi anni. Passioni sportive? Solo la Ro…

Dagotraduzione dal New York Post il 12 giugno 2021. La National Geographic Society sta cambiando la mappa del mondo. Martedì, l'organizzazione no-profit di esplorazione e istruzione ha celebrato la Giornata mondiale degli oceani dichiarando che le acque intorno all'Antartide saranno ora conosciute come l'Oceano Antartico, il quinto oceano del pianeta. «L'Oceano Antartico è stato a lungo riconosciuto dagli scienziati, ma poiché non c'è mai stato un accordo a livello internazionale, non l'abbiamo mai riconosciuto ufficialmente», ha affermato il geografo della National Geographic Society Alex Tait. «In un certo senso è una sorta di nerdismo geografico», ha detto Tait. «L'abbiamo sempre etichettato, ma l'abbiamo etichettato in modo leggermente diverso (rispetto ad altri oceani). Questo cambiamento sta facendo l'ultimo passo e vogliamo riconoscerlo per via della sua diversità ecologica». I cartografi del National Geographic hanno elencato quattro oceani sulla Terra da quando la società ha iniziato a creare mappe nel 1915: gli oceani Atlantico, Pacifico, Indiano e Artico. Storicamente, le enormi acque che circondano il continente più meridionale sono state catalogate come un'estensione degli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano. Ma negli ultimi anni, gli scienziati si sono concentrati sulla natura delle acque antartiche, in gran parte a causa delle correnti uniche che vi scorrono, note come Corrente Circumpolare Antartica, ha affermato la rivista National Geographic. La corrente rende le acque più fredde e leggermente meno salate, il che aiuta a immagazzinare il carbonio in profondità nell'oceano e ha un impatto critico sul clima della Terra. «Chiunque ci sia stato farà fatica a spiegare cosa c'è di così affascinante, ma sarà d'accordo sul fatto che i ghiacciai sono più blu, l'aria più fredda, le montagne più intimidatorie e il paesaggio più accattivante di qualsiasi altro luogo in cui puoi andare», ha detto lo scienziato marino Seth Sykora-Bodie, un esploratore del National Geographic.

·        Le Alluvioni razziste: in Germania è colpa del clima impazzito; in Italia è colpa del dissesto idrogeologico.

A COME ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

La Natura vive. Alterna periodi di siccità a periodi di alluvioni e conseguenti inondazioni.

La Natura ha i suoi tempi ed i suoi spazi.

Anche l’uomo ha i suoi tempi ed i suoi spazi. Natura ed Uomo interagiscono, spesso interferiscono.

Un fenomeno naturale diventa allarmismo anti uomo degli ambientalisti.

Da sempre in montagna si è costruito in vetta o sottocima, sul versante o sul piede od a valle.

Da sempre in pianura si è costruito sul greto di fiumi e torrenti.

Da sempre lungo le coste si è costruito sul litorale.

Cosa ci sia di più pericoloso di costruire là, non è dato da sapere. Eppure da sempre si è costruito ovunque perché l’uomo ha bisogno di una casa, come gli animali hanno bisogno di una tana.

Invece, anziché pulire gli alvei (letti) dei fiumi o mettere in sicurezza i costoni dei monti per renderli sicuri, si impongono vincoli sempre più impossibili da rispettare.

Invece di predisporre un idoneo ed aggiornato Piano Regolatore Generale (Piano Urbanistico Comunale) e limitare tempi e costi della burocrazia, si prevedono sanzioni per chi costruisce la sua dimora.

A questo punto, quando vi sono delle disgrazie, l’allarmismo dell’ambientalismo ideologico se la prende con l’uomo. L’uomo razzista ed ignorante se la prende con i meridionali: colpa loro perché costruiscono abusivamente contro ogni vincolo esistente.

Peccato che le disgrazie toccano tutti: in pianura come in montagna o sulla costa, a prescindere dagli abusi o meno fatti da Nord a Sud.

Solo che al Nord le calamità sono disgrazie, al Sud sono colpe.

Peccato che i media razzisti nordisti si concentrano solo su temi che discriminano le gesta dei loro padroni.

Polesine, novembre 1951, settant’anni fa l’alluvione che travolse il Veneto. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2021. Cento morti e un esodo di sfollati che non si arresta: così la piena del fiume segnò la regione, e l’Italia, a pochi anni dalla fine dell’incubo della guerra. «L’acqua saliva sempre. Sul camion c’era tutto il gruppo. Io ero un po’ più in alto perché ero sulla sponda. Avevo stretto col braccio sinistro tre miei figli, e mia moglie con l’altra figlia sulle spalle, dall’altra parte. L’acqua arrivava, continuava a salire, era quasi alla gola. Io continuavo a tenermi stretto... Sono passate molte ore… Tutti piangevano. Io non resistevo più. Ma non potevo decidermi a lasciare questo o quel braccio che sarebbero andati sotto i miei figli e mia moglie. Non potevo decidermi...». Finché Giovanni Bellinello, come raccontò giorni dopo a «L’Unità», non riuscì più a resistere lì in piedi sul pianale, appoggiato alla cabina del vecchio Alfa Romeo 85/C del 1937 che aveva già fatto una guerra e 14 passaggi di proprietà prima che l’acqua gli bloccasse il motore quella notte su uno dei tanti rettilinei del Polesine, a Frassinelle. Gli mancarono le forze. Cedette: «Ho pensato di unirci tutti e di andare sotto tutti insieme…». E insieme andarono sotto, nell’acqua che inghiottiva il camion fino al tettuccio, la moglie Valentina, cinque figlioletti, il fratello Mario, sua moglie Nazzarena e i bambini loro e altri padri, altre madri, altri figli per un totale di ottantaquattro persone. La gran parte delle vittime dell’alluvione, un centinaio…Lui, Giovanni Bellinello, portato via esausto dalla corrente, si ritrovò aggrappato a una balla di paglia, sbattuto contro un salice, raccolto infine semisvenuto da una barca dei soccorsi. Vivo, ma spezzato dentro per sempre. Col magone di aver sbagliato a lasciare la casa dove erano rifugiati per salire tutti, pigiati all’inverosimile, su quel camion requisito dal prefetto per distribuire viveri e ora diretto a Rovigo, ma subito bloccato dall’acqua. Invano, scriverà anni dopo Pietro Radius su «Famiglia Cristiana», il padrone del mezzo Attilio Baccaglini «suonò il clacson finché la batteria resistette. Invano qualcuno accese una fiaccola con una camicia immersa nel serbatoio. Nessuno poteva giungere in soccorso. Peggio ancora: nessuno sapeva». «Mano a mano che l’acqua saliva, un’acqua freddissima e sporca, qualcuno, specie i bambini e i vecchi, moriva», scriverà Gian Antonio Cibotto nelle strepitose Cronache dell’alluvione raccogliendo le parole di un amico sopravvissuto: «Era una morte sempre uguale, silenziosa: un fiotto di sangue dalla bocca e poi via, trascinati dalla corrente. I corpi sparivano, riapparivano, sparivano ancora per sempre...». Era la notte tra il 14 e il 15 novembre 1951. E quella tragedia del «camion della morte», dentro l’alluvione del Po più grave di tutti i tempi, fu per l’Italia intera, uscita solo sei anni prima dalla guerra, la traumatica interruzione di un sogno. Quello di anni finalmente sereni e spalancati a un futuro migliore. Le foto dell’epoca dicono tutto: una sagra paesana, un palo della cuccagna, una corsa coi piedi in un sacco ed erano tutti allegri. Anche in quel Polesine affondato nella povertà. Tra la foce del Po di Levante e quella del Po di Goro, scrive l’ingegnere agricolo Alfredo De Polzer in un rapporto del 1950, l’anno prima della piena, ci sono una dozzina di villaggi appartenenti tutti a pochi latifondisti, dove i seimila abitanti non posseggono nulla, vivono in «costruzioni senza mattoni, salvo focolaio e camino, cioè recinti chiusi con pertiche e coperti di canna palustre, detti casoni, divisi di solito in due vani privi di pavimentazione; mentre all’esterno le pareti sono intonacate di calce, all’interno sono tappezzate da fogli di giornali illustrati». Di più: «Nella stagione invernale le case sono circondate da fanghiglia nella quale si affonda spesso fino al ginocchio...». In ogni stanza vivono mediamente in quattro ma spesso in otto, le donne partoriscono in media 9 o 10 volte ma non sono rari i casi di 18 parti anche se poi molti dei bimbi muoiono infanti, bevono l’acqua dai canali, mangiano quel che pescano e il riso delle risaie padronali dove lavorano tutti dai nove anni in su «mentre i bambini, anche quelli in tenerissima età, restano abbandonati a se stessi» e «l’analfabetismo è al 90%»...

È su quest’umanità dolente che in quel novembre del ’51 s’avventa la grande piena. I veneziani sapevano quanto il Po potesse essere pericoloso. E nel 1600, temendo che il fiume dopo il terremoto di Ferrara spingesse troppo verso nord, avevano deciso di fargli «un salasso come si dovrebbe fare a un corpo infermo, che per sanarlo conviene fare un diversivo degli umori sovrabbondanti». Quattro anni di lavori e, «con il favor del Signor Dio», il Taglio largo all’inizio 167 metri, era già finito. E per tre secoli e mezzo, come spiega il professor Fabio Luino, tra i massimi esperti del tema, autore del saggio Le inondazioni storiche del fiume Po (in L’Italia dei disastri, a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, Bononia University Press, 2014), evitò davvero gran parte dei disastri. Quel mese d’autunno, però…«In cinque giorni, dall’8 al 12 novembre 1951, sull’intero bacino del Po precipitarono circa 17 miliardi di metri cubi d’acqua, pari alla quantità che solitamente cade in sei mesi», scrivono ne L’alluvione: il Polesine e l’Italia nel 1951 (Metauro, 2014) gli storici Mihran Tchaprassian e Paolo Sorcinelli, «a questa già notevole massa d’acqua si aggiunsero le abbondanti precipitazioni che avevano colpito la stessa area nell’agosto e nell’ottobre precedente, e che avevano ridotto al minimo le capacità di assorbimento del terreno». Non solo, la subsidenza aveva causato un abbassamento del fondo marino del Delta, aggravato a partire dagli anni Trenta dall’estrazione nel sottosuolo di acque metanifere. Fatto è che quando la grande piena ruppe gli argini a Occhiobello, spiega Luino, «furono allagati circa 100.000 ettari di terreno, i due terzi della provincia, con altezze variabili intorno a 2 metri con punte fino a 5-6. E non meno di 8 miliardi di metri cubi d’acqua inondarono il Polesine». «Una superficie più grande del lago di Ginevra», denunciò la Croce rossa internazionale. Quasi doppia. La tivù non c’era ancora ma le prime pagine dei giornali e i filmati dei cinegiornali, ora a disposizione di tutti grazie all’archivio dell’Istituto Luce, si conficcarono negli occhi e nella memoria di tutti. Le famiglie infagottate sui tetti delle case. Il gatto in cima a un albero. Le cronache epiche su Paride Fabbris, che da Arquà Polesine «senza esitare, si tuffò nell’acqua gelida, cosparsa di carogne, e via a nuoto» per dare l’allarme a Rovigo. E poi la donna impegnata a far bollire sull’argine un brodo di gallina annegata. Le vacche mugghianti strattonate via con la testa a pelo d’acqua. L’arrivo claudicante del presidente Einaudi. E i pompieri, vigili, poliziotti e carabinieri e volontari coinvolti in una straordinaria operazione di salvataggio e consolidamento degli argini... Era l’Italia che, dopo la guerra civile strascico avvelenato del conflitto mondiale, riscopriva la necessità di stare insieme. Ricominciare. Ripartire. Non tutti però poterono farlo lì, in Polesine. Perso tutto, almeno 116.569 polesani furono costretti ad andarsene per «catàr fortuna» altrove. Soprattutto restando legati al «loro» fiume, ma dalle parti in cui il Po nasce, in Piemonte. Molti si sono affermati, altri meno. Tutti sono pieni di nostalgia. Anche quelli che, come Galliano Dalpasso, di Lama Polesine, baffoni e cappello di paglia calcato in testa, hanno memoria della fame: «Ricordo una vacca morta, dicevano, di difterite. Il veterinario ordinò di abbatterla e seppellirla. In realtà la carne, sottobanco, fu venduta. E la testa seppellita nel nostro letamaio. La notte però mio papà Felicino venne a svegliarmi: “Shhh! Non far rumore, alzati, dammi una mano” Tirò fuori la testa dal letame, le diede con mia mamma una bella lavata e la misero in pentola. Era la vigilia di Pasqua del 1955. E quella fu la nostra Pasqua. Miseria era. Tanta». Settant’anni dopo i polesani restano ancora meno di quanti erano la notte in cui il Po li tradì. «Arriviamo in vista del fiume. Sembra il mare. Corre lento, gonfio, terroso, portandosi dietro migliaia di relitti che vengono a urtare contro la riva girando come trottole». Nei giorni dell’alluvione del 1951, Gian Antonio Cibotto (Rovigo, 1925-2017), giornalista e critico, è nel Polesine: racconterà la tragedia in un libro, «Cronache dell’alluvione», che segna il suo debutto letterario, nel 1954. Un diario che La nave di Teseo riporta in libreria dall'11 novembre in una nuova edizione arricchita dai testi di Gian Antonio Stella, Cesare De Michelis, Vittorio Sgarbi ed Elisabetta Sgarbi (pp. 144, euro 16). L’uscita segna l’avvio della ripubblicazione delle opere di Cibotto. Oltre che per il Polesine, dice Elisabetta Sgarbi, Cibotto «ha fatto molto per la letteratura. Dimenticarlo sarebbe come perdere una parte di noi».

Alluvioni Germania: cronache di una morte annunciata. Piccole Note il 24 luglio 2021 su Il Giornale. Sono circa 180 le vittime nelle inondazioni che hanno colpito la Germania occidentale, l’Olanda e il Belgio il 14 e 15 luglio, bilancio destinato a salire perché tanti sono ancora i dispersi. La catastrofe ha dato nuovo alimento alla spinta per contrastare il cambiamento climatico, centro e motore della politica del pianeta. Tale emergenza è stata anche al centro dei commossi interventi di Angela Merkel, che governa il Paese più colpito, la quale ha potuto così eludere la mannaia del famoso detto “piove, governo ladro”, troppo spesso applicata con leggerezza. E richiami a tale emergenza hanno accompagnato la narrazione mediatica globale, dato che è il tema del momento, anzi di stretta attualità, visto che era prossimo il vertice del G-20 sul clima, fissato per il 22 e 23 luglio a Napoli. Vertice che si è chiuso con un accordo quasi totale, mancando ancora solo l’intesa per fissare una scadenza per l’eliminazione del carbone dal novero delle risorse energetiche, obiettivo sul quale però c’è unanime consenso.

Tutto previsto nel dettaglio. Eppure, nel caso delle alluvioni tedesche, l’emergenza climatica può forse spiegare cose, ma non tutto, dato che la catastrofe era stata prevista e l’allarme lanciato. Riportiamo l’incipit di un articolo del Wall Street Journal. “Il primo preciso avvertimento che la Germania stava per essere colpita da una violenta tempesta che avrebbe potuto scatenare un’alluvione potenzialmente mortale è arrivata al servizio meteorologico del Paese nelle prime ore del 12 luglio, quasi tre giorni prima che si verificasse il disastro” . “Era lunedì mattina e il supercomputer di questa agenzia governativa, una macchina delle dimensioni di una pista da hockey, aveva appena generato un modello di previsione che prevedeva con oltre il 90% di certezza e una precisione fino a 2 chilometri quadrati che una serie di comunità della Germania occidentale sarebbe stata probabilmente colpito da gravi inondazioni entro la fine di mercoledì”. “L’allarmante previsione […] è stata rilevata dal meteorologo di turno dell’agenzia che alle 6 del mattino ha prontamente attivato il sofisticato sistema di allarme alluvione del Paese, avvisando immediatamente il governo, i servizi di emergenza, la polizia e i principali media della catastrofe incombente”.

Allarmi inascoltati e vittime eccellenti. Allarmi rimasti per lo più inascoltati, riferisce il giornale, al netto dell’attivazione di alcune – poche – autorità locali, che hanno provato ad avvertire la popolazione interessata, con scarso successo. Il climate change consensus ha così evitato imbarazzi alle autorità tedesche, anche se hanno dovuto registrare una vittima illustre tra le proprie fila, il leader dei cristiano democratici Armin Laschet, pescato a scherzare durante la visita ai luoghi del disastro. Successore designato della Cancelliera, dovrà fare altro. L’alluvione tedesco ha così alimentato l’urgenza del climate change, perno centrale della politica globale la cui narrativa si alimenta di un po’ di tutto, a volte anche in maniera strumentale e sempre in modalità enfatica. Questo, ad esempio, un titolo: “Alluvione Germania: scienziati scioccati per l’entità del disastro” (non ce ne voglia il sito, che fa un ottimo lavoro).

Luglio 1342: l’alluvione che sommerse l’Europa. Così riferiamo, anche qui a titolo di esempio, quanto scritto da Andrea Giuliacci, meteo-expert, sulle “immani alluvioni del nel luglio del 1342, quando un vortice di bassa pressione incredibilmente attivo e insistente si stabilì sul cuore del continente e per diversi giorni consecutivi e portò piogge battenti su gran parte dell’Europa Centrale; in alcune regioni, in pochi giorni, cadde più della metà della pioggia normalmente attesa in un anno intero”. “Le conseguenze furono devastanti: i corsi d’acqua si ingrossarono sempre più finché, intorno al 20-22 di luglio, quasi tutti i principali fiumi europei esondarono allagando un’enorme fetta di territorio. La grande alluvione colpì con particolare durezza Francia, Germania, Austria, Ungheria, l’odierna Repubblica Ceca, Slovacchia e Nord Italia, lasciando dietro di sé migliaia e migliaia di morti”. “L’alluvione fu talmente violenta e straordinaria, da cambiare persino la geografia stessa dell’Europa: lungo il bacino del Danubio, per esempio, la piena fu così impetuosa e potente che in pochi giorni vennero trascinati via dalla forza dell’acqua oltre 10 miliardi di metri cubi di terreno, dando così vita a un fenomenale processo erosivo, paragonabile a quanto solitamente si compie in circa 2000 anni”.

Relativizzare e diversificare. Non citiamo l’esperto o il caso specifico per derubricare il climate-change a sciocchezza, ma solo per osservare che se è un bene che si affronti la criticità, è però un male che essa sia l’unico tema del dibattito globale, obliterando altri altrettanto urgenti. Basti pensare alla “fame del mondo”, tema centrale del dibattito globale per anni e ora praticamente scomparso, nonostante resti drammaticamente attuale. Oppure la tragica sperequazione economica del pianeta, con i magnati che vanno nello spazio e le moltitudini in affanno. O lo strapotere delle Big Tech, privati più potenti di Stati che pure partecipano al G-20, o quello parallelo delle Big Pharma, altri privati che presiedono alla vaccinazione pandemica, dettando legge. Sarebbe bene che il G-20 o altri summit dedicassero qualche minuto di riflessione anche a tali tematiche, cosa che non avviene proprio a causa dell’enfasi totalizzante sul clima. Infine, nel dibattito sul climate-change interpella certa deriva fondamentalista, che a volte conferisce alla dottrina ambientalista i caratteri di una religione. Nel caso specifico, la definizione della religione come oppio dei popoli potrebbe risultare niente affatto indebita.

 La vergogna della giornalista: il gesto prima della diretta. Gerry Freda il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. La giornalista, che era stata inviata nella Renania settentrionale-Vestfalia, è stata sospesa per il suo tentativo di rendere "più autentico" il servizio. Si è abbattuta una vera e propria tempesta di polemiche ai danni della telegiornalista di un'emittente privata tedesca; la donna in questione è accusata di essersi "cosparsa apposta di fango" prima di una diretta dalle zone recentemente alluvionate del Paese. La cronista incriminata è la 39enne Susanna Ohlen, finora in servizio presso il canale privato Rtl.de. Nel dettaglio, la giornalista, questo lunedì, era stata inviata a Bad Münstereifel, nella Renania settentrionale-Vestfalia, ossia uno dei territori maggiormente funestati dalle letali alluvioni della scorsa settimana; nel proprio servizio, la Ohlen doveva raccontare, su decisione della redazione del programma Guten Morgen Deutschland, la sofferenza dei residenti, ma, sostengono i suoi detrattori, la stessa, per rendere "più autentico" il servizio, avrebbe deciso di fare finta di avere "attivamente aiutato" i residenti nel lavoro di pulizia e di essere stata a stretto contatto con le macerie melmose. Di conseguenza, lei si sarebbe messa a "sporcarsi apposta i vestiti" e, quale prova del suo tentativo di ingannare i telespettatori, vi è un video che sta impazzando sul web. La cronista è stata infatti filmata mentre, prima del collegamento, si spalma intenzionalmente del fango sulla canotta bianca e sul viso, per fingere di essere appena stata in mezzo ai detriti a prestare assistenza ai cittadini in difficoltà; dopo la pubblicazione in rete del clip, Rtl.de ha deciso di sospendere la 39enne per "comportamento non etico". Quest'ultima, dopo l'esplosione dello scandalo, ha ammesso di essersi sporcata in maniera intenzionale per fare finta di avere aiutato la popolazione alluvionata. Lei, tramite un messaggio-confessione apparso ieri sul suo profilo Facebook, ha appunto rivolto le proprie scuse ai telespettatori ingannati e ha contestualmente provato a spiegare il suo gesto: "Lunedì ho commesso un grave errore nell'area alluvionata, di fronte alle telecamere di 'Guten Morgen Deutschland'. Dopo aver già aiutato privatamente i soccorsi nella regione colpita dall'alluvione nei giorni precedenti, quella mattina mi sono vergognata, davanti agli altri aiutanti, di stare davanti alla telecamera con addosso un top pulito. Poi, senza pensarci due volte, ho spalmato fango sui miei vestiti. Da giornalista, non sarebbe mai dovuto succedere. Come persona che ha a cuore la sofferenza di tutte le persone colpite, è successo a me. Scusatemi".

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Germania, la strage per le alluvioni: Merkel "sconvolta". Morti e dispersi, mai vista una roba simile: clima impazzito, il legame col Canada in fiamme. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. La strage del maltempo mette in ginocchio la Germania: una catastrofica alluvione ha provocato almeno una sessantina di morti e un migliaio di dispersi di cui non si riesce ad avere alcuna notizia nella regione di Ahrweiler, ma il bilancio è assolutamente provvisorio vista la drammaticità della situazione e la difficoltà nei soccorsi. Centinaia di abitazioni sono pericolanti, interi villaggi sono stati spazzati via dalle esondazioni dei fiumi, regioni collinari sono rimaste senza via di comunicazione fisiche e digitali e i soccorritori sono costretti a entrare nelle case e salvare gli abitanti uno ad uno. Uno scenario apocalittico, che la cancelliera Angela Merkel ha commentato su Twitter con parole emblematiche: "Sono sconvolta". Secondo il sito Die Welt, sono interrotte anche le forniture di energia elettrica per almeno 165mila persone. I video che arrivano dalla Renania-Palatinato e dal Nord Reno-Wesfalia, Land della Germania occidentale, mostrano strade trasformate in fiumi, auto capovolte, abitazioni sventrate. I meteorologi hanno già definito la sciagura figlia del surriscaldamento globale, un clima impazzito che lega con un inquietante filo rosso quanto accaduto alcune settimane fa in Nord America e in Canada in particolare, flagellato dagli incendi per i picchi di calore, e quello che sta colpendo ora l'Europa, Germania ma anche Belgio. Almeno sei morti per il maltempo, con la città di Liegi che ha invitato tutti i residenti ad andarsene. Precipitazioni record sono cadute in alcune parti dell'Europa occidentale, causando lo strappo degli argini dei grandi fiumi. Nei Paesi Bassi danneggiati molti edifici nella provincia meridionale del Limburgo. Alcune case di cura sono state evacuate. Prima il caldo record, poi le bombe d'acqua: no, non è solo un caso.

Alluvioni in Germania, frana gigantesca in Vestfalia: altre decine di morti, la foto che sconvolge il mondo. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. La tragedia della Germania continua: una nuova impressionante frana in Vestfalia ha letteralmente inghiottito case e auto. Ancora incerto il bilancio delle vittime: si parla di altri 20 morti, che si aggiungono agli almeno 93 provocati dalle devastanti alluvioni e le bombe d'acqua che hanno colpito e messo in ginocchio gli stati del Nord. Le immagini della frana, provenienti da Erftstadt-Blessem, stanno facendo il giro del mondo. "Nessuno può dubitare che questa catastrofe dipenda dal cambiamento climatico", ha denunciato il ministro dell'Interno Horst Seehofer, parlando allo Spiegel. "Un'alluvione con così tante vittime e dispersi io non l'ho mai vissuto prima". Nelle ore del dramma, la cancelliera Angela Merkel si è detta "sconvolta" per il disastro, con 1.300 persone ancora disperse. Molte di loro non sono raggiungibili perché in molti villaggi della Germania occidentale i collegamenti fisici sono interrotti così come le comunicazioni via telefonino. I soccorritori sono costretti a raggiungere le abitazioni pericolanti e salvare gli abitanti uno a uno con ogni mezzo, dagli elicotteri ai gommoni utilizzati nelle stradine trasformatesi in fiumi di fango e detriti, fino alle boe galleggianti usate come scialuppe di salvataggio assolutamente d'emergenza. La paura, non detta, è che si arrivi sui luoghi inondati in ritardo, esponendo gli abitanti ad altre ore di stenti e pericolo. Il bilancio di queste ore continua non a caso a salire. Le regioni più colpite sono la Renania-Palatinato con 50 morti e il Nordreno Vestfalia con 43. Un bilancio purtroppo ad aggiornarsi tragicamente con il passare delle ore, nonostante i messaggi di speranza delle autorità.

La cancelliera tedesca Merkel in visita nelle zone devastate. “Scende l’acqua, affiorano i morti”, oltre 180 le vittime delle alluvioni in Germania e Belgio. Vito Califano su Il Riformista il 18 Luglio 2021. È attesa oggi, nelle zone devastate dalle alluvioni dei giorni scorsi, la cancelliera tedesca Angela Merkel. Il bilancio delle vittime è salito in Germania ad almeno 156 vittime, 27 in Belgio. Quindi più di 180. E sono ancora centinaia i dispersi. Merkel nei giorni scorsi aveva parlato di “catastrofe, si può parlare di una tragedia” e si era detta “sconvolta dalle notizie in arrivo. Sono ore in cui parlare di una forte pioggia e di alluvione descrive la situazione in modo insufficiente. È davvero una catastrofe”. La cancelliera visiterà oggi la località di Schuld, prima di recarsi ad Adenau con Malu Dreyer, il premier della Renania-Palatinato, dove si sono verificate almeno 110 vittime. È il land più colpito con il Nord Reno-Vestfalia, messo in ginocchio da piogge torrenziali e disastrose inondazioni di fiumi e canali artificiali. Il bollettino della polizia tedesca riporta inoltre almeno 670 feriti e decine di sfollati. Più di centomila case sono senza elettricità. Martedì il Belgio osserverà una giornata di lutto nazionale per le vittime. 103 i dispersi. Danni e allerta anche in Olanda. Il premier olandese Mark Rutte ha parlato chiaramente di disastro dovuto al cambiamento climatico. Almeno 77 miliardi di euro di danni hanno causato dal 1995 al 2017 le alluvioni, le tempeste, la siccità e i terremoti secondo il progetto di ricerca Titan del programma europeo Espon. È quindi corsa contro il tempo per soccorrere e salvare i superstiti. Si cerca sotto le macerie degli edifici, si scava. È sceso in campo l’esercito. Il distretto più colpito è quello di Ahrweiler, in Renania Palatinato, 98 lee vittime. 43 nel Nord Reno-Vestfalia. Decinee di persone risultano ancora disperse. Troppo presto per quantificare i danni economici, che avranno proporzioni enormi. Le piogge si sono intanto spostate nella zona orientale della Germania, verso la Sassonia. E già sono caduti fino a 100 litri d’acqua per metro quadro. A preoccupare è anche la tenuta della diga di Steinbach, nel distretto di Euskirchen. L’amministrazione del distretto di Colonia ha fatto sapere ieri che potrebbe ancora cedere. Dovrebbe essere svuotata per due terzi entro oggi pomeriggio. Il ministro dell’Interno della Renania-Palatinato Roger Lewentz ha riferito che “quando svuotiamo le cantine dall’acqua continuano ad affiorare vittime”. Nella sua zona sono caduti fino a 150 litri di pioggia per metro quadrato in 24 ore. Una zona turistica, famosa per le colline e il vino, devastata, inondata e quindi minacciata dalle frane. Ieri a Erfstadt le visite del Presidente della Repubblica Federale Frank-Walter Steinmeier e il ministro Presidente del Nord Reno-Vestfalia Armin Laschet. Quest’ultimo è finito però nella bufera dopo le immagini che lo hanno ripreso, in gruppo con il Presidente e le autorità locali, mentre rideva. Lo stesso ministro che aveva parlato di “disastro del secolo” si è dovuto scusare. È il candidato cancelliere della Cdu alle prossime elezioni ed è spesso criticato per le sue posizioni sull’ambientalismo, meno propenso di altri a riconoscere il superamento dell’energia fossile e la riduzione delle emissioni di gas serra. Il Reno in questi giorni ha intanto raggiungo un’altezza di 8 metri superiore al suo libello abituale: 8,06 metri a Colonia. Il servizio meteorologico tedesco ha spiegato che la devastante ondata di piogge è stata causata da un’area di bassa pressione che ha occupato la Germania occidentale che è stata affiancata su tutti i lati da aree di alta pressione.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro. 

Elena Tebano per il Corriere.it il 18 luglio 2021. «Bisogna vedere se la diga di Steinbach regge, dipende tutto da quello. La stanno svuotando per ridurre la pressione, ma ci vuole tempo». Volkert Kremer è un pompiere esperto, arrivato a Erfstadt per dare una mano ai colleghi del posto, dopo che una frana ha portato via tre case e un pezzo dello storico castello nella frazione di Blessem, e ora minaccia di inghiottire altri edifici («Ho fatto anche l’alluvione del 2002, ma una cosa così non l’avevo mai vista», dice). Fa caldo, ci sono quasi trenta gradi e il sole che illumina campi e strade non tradisce niente di quello che è successo solo due giorni prima. «Ma adesso iniziano a venir fuori tutti i danni strutturali, il terreno è intriso d’acqua, instabile» spiega Kremer. Quello a cui guarda con più preoccupazione è proprio la diga, qualche decina di chilometri più a sud, nel distretto di Euskirchen. Ieri mattina sembrava che la situazione fosse migliorata, poi nel pomeriggio, dopo i controlli, l’amministrazione del distretto di Colonia ha comunicato che può ancora cedere. I vigili del fuoco pompano migliaia di litri d’acqua all’ora, ma per metterla in sicurezza devono svuotarla per due terzi, e non ci riusciranno prima di oggi alle 15. Se va tutto bene. Per questo altri residenti della zona sono stati evacuati. Nessuno vuole pensare a cosa potrebbe succedere se venisse giù. A Erfstadt la gente continua a passare sul ponte dell’Erf, incredula: è pieno fino all’orlo di acqua marrone, ma anche così non supera i venti metri di larghezza. Se quello che è poco più di un canale ha trascinato con sé mezza collina, figurati cosa può fare la diga. La zona della frana intanto è transennata e sorvegliata dagli elicotteri, molte strade sono state bloccate, è crollato un pezzo di autostrada, in tutto il distretto si circola solo sulle vie secondarie. Ieri sera le autorità hanno dovuto ribadire ai residenti della frazione di Blessem il divieto di avvicinarsi alle loro case: il fronte della frana è ancora attivo, troppo pericoloso. Kremer con la sua squadra, che è addetta a mettere in sicurezza strade e abitazioni, in meno di quattro ore ha fatto tre interventi, tra cui uno per fermare una fuga di gas causata dagli smottamenti e l’altro per evacuare una casa di riposo che rischia di crollare. Poco più in là i blindati dell’esercito hanno portato via i camion e le auto accartocciate che erano rimasti nel fiume e incastrati sotto un ponte. Erano vuote, ieri pomeriggio non risultavano vittime. Con il bilancio provvisorio dell’alluvione di giovedì salito a 156 morti confermati solo in Germania, tra cui quattro vigili del fuoco (oltre ai 27 in Belgio), sembra un miracolo, e tutti sperano che rimanga tale. Ieri a Erfstadt sono arrivati anche il presidente della Repubblica federale Frank-Walter Steinmeier e il ministro presidente del Nord Reno-Vestfalia, Armin Laschet. «Molte persone in queste regioni non hanno più nulla se non la loro speranza. E noi non dobbiamo deludere questa speranza. Il loro destino ci strappa il cuore» ha detto Steinmeier con tono grave davanti al quartier generale dei soccorritori. «È un momento di bisogno e in questo momento il nostro Paese sta insieme». Più che le sue parole, però, a colpire i tedeschi è stato il volto di Laschet, che rideva alle sue spalle, circondato dalle autorità locali. Una reazione a qualcosa che gli era stato detto, ma la sua risata è stata rimandata all’infinito da siti e tv, con sdegno. Tanto che poi si è scusato. Davanti ai microfoni aveva parlato di «disastro del secolo», espresso ammirazione per i soccorritori, promesso ai cittadini che arriveranno aiuti diretti «in modo molto poco burocratico». Laschet, oltre che premier del Land, è il candidato cancelliere della Cdu alle prossime elezioni. E ieri i media tedeschi hanno commentato che «Angela Merkel non lo avrebbe mai fatto». Laschet ha già molto da farsi perdonare sul clima, è il candidato che frena di più sul superamento dell’energia fossile e la riduzione delle emissioni di gas serra, portati in primo piano nel dibattito politico proprio da questo disastro (per gli scienziati non ci sono dubbi che sia una conseguenza del surriscaldamento globale). Negli ultimi due giorni è stato molto presente nei luoghi dell’alluvione. Il cancelliere (o aspirante tale) «in stivali di gomma» è una figura retorica molto amata nella politica tedesca da quando il socialdemocratico Gerhard Schröder si fece riprendere nel fango durante l’alluvione del fiume Elba, nell’agosto 2002, secondo alcuni assicurandosi così la rielezione. Ma ora la risata di Laschet dà forza a chi ritiene che la sua sia strategia politica, più che interesse per i cittadini. Quelli di Erfstadt ieri avevano altre priorità. Molti erano in fila di fronte al centro per gli aiuti. «Casa mia è in piedi, si è allagata solo la cantina. Ma siamo da tre giorni senza elettricità e quindi senza cibo. Tutti gli apparecchi elettrici sono rotti» dice Nicole Kuhnke, 37 anni. Beate Recht cerca soprattutto informazioni: «Sono qui con mio figlio Fabian, è in attesa di un trapianto di reni — spiega —. Giovedì abbiamo fatto in tempo a fare l’ultima visita necessaria all’autorizzazione, poi hanno evacuato l’ospedale. Ora non so più che fine hanno fatto i documenti, se li hanno inoltrati a chi di dovere». In molte altre zone la situazione è ancora più grave. Il distretto di Ahrweiler, in Renania-Palatinato, è il più colpito: ieri sera contava 98 vittime accertate (sono 43 quelle nel Nord Reno-Vestfalia). Si cercano ancora i dispersi, con poche speranze di trovarli in vita: si scava «negli edifici, sotto le montagne di masserizie ammucchiate, nei veicoli e in altre cose portate via dalla massa d’acqua» ha fatto sapere la polizia. Mancano all’appello oltre 370 persone. Poi ci sono i danni economici, che nessuno ha ancora provato a stimare. A Schuld, dove oggi arriverà Angela Merkel, gran parte delle case sono distrutte, l’odore di fango marcio e carburante invade le strade. L’intera cittadina è senza gas e ci vorranno settimane se non mesi prima che sia ripristinato. Il centro di Bad Münstereifel è pieno di sampietrini divelti. «Irriconoscibile», secondo la gente del posto. Non lontano, nella cittadina termale di Bad Neuenahr, il capoluogo del circondario, l’alluvione ha distrutto insieme a molte strutture ricettive anche i vigneti. «Non si riconosce il paesaggio» dice Michael Lang, il proprietario dell’enoteca del paese. Sono tutte località turistiche, meta estiva richiesta per le terme, la natura e il buon vino. Questa estate doveva garantire la ripresa a un settore duramente provato dalla pandemia. L’alluvione segna un altro colpo pesantissimo. Intanto le piogge si sono spostate nella zona orientale della Germania, in Sassonia. Ieri alcune cittadine —Neustadt, Sebnitz, Bad Schandau, Reinhardtsdorf-Schöna e Gohrisch — non erano più accessibili e il Centro di sorveglianza delle acque del Land ha lanciato l’allarme per il rischio inondazioni. Sarebbero caduti fino a 100 litri d’acqua per metro quadrato. La paura è che l’incubo si ripeta. 

Dal Corriere.it il 18 luglio 2021. Bufera sul candidato per la Cdu alla successione della cancelliera tedesca Angela Merkel, il governatore del Nord Reno-Vestafalia Armin Laschet. Durante il discorso tenuto dal presidente Frank-Walter Steinmeier a Erftstadt, una delle più colpite dalle alluvioni che hanno causato oltre 160 morti in Germania, lo si vede ridere e scherzare con alcuni politici locali: proprio mentre Steinmeier parla, con il volto serio, del disastro che ha colpito il Paese. Il video è diventato subito virale e ha scatenato rabbia e polemiche: molti hanno criticato il cinismo dell’uomo politico, tanti lo hanno dichiarato inadatto a un compito così prestigioso come la successione della Merkel. Laschet è stato costretto a scusarsi: «Mi sono comportato in modo inappropriato, sono desolato». Per Laschet non si tratta della prima gaffe: due giorni fa ha chiamato «ragazza» una giornalista che lo stava intervistando sulla tv locale WDR. I cristiano democratici restano comunque in testa nei sondaggi per le elezioni del 26 settembre.

Giampaolo Cadalanu per Repubblica il 18 luglio 2021. Fra la disperazione di chi ha perso i suoi cari e le lacrime di chi rimane senza casa dopo le inondazioni nell’ovest della Germania, c’è lo spazio per una riflessione cinica: che succederà alle elezioni di settembre? Il tema dei cambiamenti climatici è da sempre il cavallo di battaglia dei Grünen. Ma il partito ecologista attraversa un momento delicatissimo, con Annalena Baerbock, co-presidente e candidata alla Cancelleria, al centro delle polemiche per la presunta copiatura di parti del suo libro “Jetzt”, “Adesso”. Le precipitazioni eccezionali che hanno sconvolto NordReno-Westfalia e Renania-Palatinato, più che una conferma degli allarmi ecologisti, potrebbero sembrare quasi un regalo della sorte per i Verdi. Ma sarebbe un regalo elettorale maledetto, perché il maltempo ha preteso vite umane e ha causato danni immensi. E nella sede di Platz vor dem Neuen Tor hanno capito subito che il rischio era altissimo: l’idea di una strumentalizzazione avrebbe spazzato via ogni speranza per il partito. Così l’ordine di scuderia era chiaro, guai a chi si azzarda a dire: «Noi l’avevamo previsto». Robert Habeck, il filosofo che guida il partito assieme ad Annalena Baerbock e vanta un’esperienza da ministro dell’Ambiente nello Schleswig-Holstein, ha scelto di non avvicinarsi nemmeno alle zone colpite. «So per esperienza diretta che i politici in visita, quando non sono specialisti, danno solo fastidio ai soccorritori», ha detto Habeck. La Baerbock ha voluto vedere da sé i danni, ma senza pubblicizzare il viaggio e senza portare giornalisti al seguito, limitandosi a twittare che i suoi pensieri erano «con la gente che ha perso la casa». Konstantin von Notz, membro del Bundestag, si è lasciato scappare un tweet polemico, per poi cancellarlo subito. E anche la capogruppo Katrin Göring-Eckardt, dopo aver definito la catastrofe «una chiamata al realismo», è tornata al silenzio. Non è ancora il momento di incassare il credito politico conquistato in decenni di campagne contro il riscaldamento globale: verrà più avanti, suggerisce la stampa tedesca. Ma se le inondazioni in Renania potranno influire nel voto, per ora non è semplice valutare quanto e come. In realtà paradossalmente la coscienza ecologica è così radicata in Germania che potrebbe persino non costituire un vantaggio per i Verdi alle urne, perché il tema del clima non è più loro esclusiva. Lo dimostrano le dichiarazioni di Angela Merkel e del ministro per gli Interni Horst Seehofer, considerati poco entusiasti sui problemi ambientali ma ora favorevoli a interventi rapidi. Lo dimostra la decisione con cui Armin Laschet, candidato alla Cancelleria per la Cdu e ministro-presidente del NordReno-Westfalia, ha subito attribuito il disastro al clima reso folle dall’uomo. Laschet in realtà doveva rimediare alla goffaggine con cui aveva risposto sul tema in un’intervista in tv. «Non si cambia la politica per una giornata come questa», aveva detto: una frase che sicuramente lo perseguiterà nei giorni a venire, scrive Der Spiegel. Ma le gaffe del candidato cristiano-democratico sono proseguite: ieri Laschet è stato immortalato in un video mentre rideva e scherzava spensierato a Erftstadt, città colpita dal disastro, mentre il capo dello Stato parlava delle vittime dell’alluvione. Il filmato è stato diffuso online, suscitando polemiche violente. Eppure Laschet non è un politico inesperto, che sottovaluta il valore delle immagini. Nei giorni scorsi, visitando le zone delle inondazioni, indossava stivali di gomma. In Germania tutti ricordano la campagna elettorale del 2002, quando il ciclone Jeanett aveva colpito la parte est della Repubblica federale, uccidendo 12 persone. Allora Gerhard Schroeder aveva strappato la conferma alla Cancelleria presentandosi in stivali di gomma davanti alle tv e comparendo «alla guida» delle operazioni di soccorso. Conscio dell’effetto che avrebbe fatto l’accusa di approfittare della tragedia recitando lo stesso copione vincente di allora, davanti alle telecamere il candidato cristiano-democratico è tornato ai mocassini. 

Alluvioni in Germania, Federico Rampini a L'aria che tira: "No all'ambientalismo apocalittico, ecco le vere ragioni". Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. "Un disastro": Federico Rampini ha commentato così le alluvioni in Germania e in Belgio in collegamento con L'Aria che tira. Il giornalista ha spiegato di trovarsi proprio a Bruxelles in questo momento: "Sono nel secondo Paese più colpito da questo disastro alluvionale. Qui abita mia madre e spero di portarla in Italia per una vacanza". Parlando della catastrofe causata dal maltempo, l'ospite del talk di La7 ha detto la sua sul tema del "climate change": "Se mi calo nei panni di un abitante del Bangladesh dico che preferirei essere un tedesco quando arrivano queste catastrofi". Rampini poi ha spiegato la sua affermazione dicendo: "La cura è più sviluppo economico, non meno sviluppo economico: più i Paesi sono ricchi, più hanno gli strumenti per difendersi. Se la Germania fosse un Paese molto povero, le case sarebbero ancora più fragili, sarebbero state travolte molte più abitazioni e saremmo di fronte a un bilancio ben più spaventoso di vittime. Non bisogna propugnare un ambientalismo pauperistico e apocalittico, bisogna avere tante risorse e investirle nelle tecnologie giuste". Il giornalista, però, ha anche detto che secondo lui nessuno sta ignorando la questione del clima al momento: "Non credo che siamo in assenza di una consapevolezza del problema. Biden ha subito deciso di rientrare negli Accordi di Parigi, di cui è entrata a far parte anche la Cina nel 2015 con una svolta politica. Le cose stanno cambiando in meglio nel senso della consapevolezza".

Germania e alluvioni, Mario Tozzi: "Cambiamento climatico anomalo e accelerato. Sono gli ultimi avvisi prima del disastro". Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Dietro al caldo record del Canada, allo scioglimento dei ghiacciai e da ultimo le alluvioni della Germania, scrive il geologo Mario Tozzi in un inquietante articolo su La Stampa, c'è il cambiamento climatico. "A guardare quanto sta accadendo in Germania sembra di essere in Italia: alluvioni come mai viste da tre secoli, decine di vittime, case e infrastrutture distrutte, ponti crollati e villaggi sommersi. In poche ore sono caduti fino a 250 litri di pioggia per metro quadro, in un quadro tipico di flash flood, alluvioni istantanee che ormai flagellano non solo il nostro martoriato territorio. E che si accoppiano con le temperature estreme registrate in Canada, con la fusione dei ghiacciai polari e con l'innalzamento del livello dei mari". Tutto questo, continua Tozzi, "ha un nome e un cognome e si chiama cambiamento climatico, che è anomalo e accelerato rispetto al passato e che, diversamente dai secoli scorsi, dipende esclusivamente dalle attività produttive dei sapiens che vomitano in atmosfera milioni di tonnellate di gas clima alteranti derivati dalla combustione e dall'uso improprio del territorio". Insomma è ormai evidente a tutti, anche agli scettici, che "questi fenomeni sono legati dal minimo comune denominatore dell'estremizzazione del clima, il fenomeno ambientale più grave non tanto per il pianeta quanto per il benessere e, in casi sempre più frequenti, per la vita dei sapiens", osserva il geologo. "Non volendo tornare sulle cause ormai arcinote, e sapendo benissimo che l'unica cosa da fare nell'immediato è azzerare le emissioni clima alteranti, esattamente come prevede l'Unione Europea nelle sue ultime proposizioni, possiamo domandarci come evolverà la situazione climatica nei prossimi tempi". "Che scenario possiamo immaginare?", si chiede Tozzi. Risposte certe non ce ne sono "ma i modelli meteorologici finora affinati hanno anticipato molto bene la realtà: le perturbazioni a carattere violento saranno più frequenti, più potenti, fuori stagione e anche fuori dalle regioni normalmente coinvolte. Tutto questo se l'incremento di temperatura dell'atmosfera si limiterà al massimo a due gradi, perché se sarà maggiore le conseguenze saranno catastrofiche e irrimediabili. Sono reversibili queste tendenze? La risposta è no, non lo sono in tempi brevi, anzi peggioreranno senz' altro perché l'atmosfera ha un'inerzia spaventosa". Insomma è già troppo tardi secondo il geologo: "Se azzeriamo di colpo tutte le emissioni, prima di vedere scendere la curva delle temperature dovremmo aspettare un tempo che non possiamo permetterci". Possiamo però "rendere più lento il surriscaldamento dell'atmosfera e limitarlo dentro i due gradi, agendo prima di tutto sulle cause, cioè levando ogni forma di sovvenzione ai petrocarbonieri, evitando di cercare e trivellare nuovi giacimenti e ricorrendo alle fonti rinnovabili". Sono "gli ultimi avvisi di disastro", conclude amaro.  

Germania, il paese simbolo della manutenzione del paesaggio è vittima dei cambiamenti climatici: ecco perché accade. Luca Mercalli su Il Fatto Quotidiano il 16 luglio 2021. Il territorio della Germania occidentale è un’icona della buona manutenzione del paesaggio: colline e vallecole con campi coltivati alternati a boschetti, centri abitati lindi e ordinati con le tipiche case a graticcio. Ma soprattutto un ottimo servizio meteorologico nazionale, una proverbiale organizzazione di protezione civile e un grande senso civico dei cittadini. Tutto ciò non è bastato a impedire una catastrofe alluvionale con decine di vittime ed enormi danni agli abitati e alle infrastrutture. Segno che l’evento meteorologico ha passato la misura, ha assunto intensità eccezionali, giudicate dai climatologi tedeschi come possibili non più di una volta al secolo. Il problema è che ormai l’evento eccezionale – definito tale quando confrontato con i dati del passato – sta diventando la nuova normalità per il clima contemporaneo. Normalità statistica, non sociale. Perché al fango in salotto non potrai mai abituarti, e meno ancora alla sofferenza per la perdita di una persona. Sono caduti sulla regione che comprende Germania, Belgio e Olanda, circa 150 mm di pioggia in una giornata, dopo settimane di pioggia precedente che avevano già saturato i suoli. Lo scroscio aggiuntivo ha innescato l’onda di piena e il trasporto di detriti che ha invaso i paesi e abbattuto le case sfondando le pareti o erodendone le fondazioni. Questi episodi intensi sono sempre più causati dalla persistenza per giorni sulle stesse aree geografiche di grandi strutture meteorologiche lente a muoversi. In questo caso si è trattato della depressione “Bernd”, così denominata dall’Università di Berlino, bloccata nel suo movimento da due anticicloni, a est e a ovest. Così la pioggia insiste continuamente sui medesimi luoghi aumentando il rischio di dissesti. D’altra parte il tempo caldo e asciutto che si instaura sotto gli anticicloni persistenti alimentati da aria tropicale è la ragione di altri estremi, come i 49,6 gradi di fine giugno in Canada o i 34,3 gradi nel nord della Norvegia, ben oltre il Circolo Polare Artico. Perniciose alternanze che con sempre maggior evidenza vengono attribuite al rallentamento della corrente a getto polare: come un fiume quando perde velocità in una piatta pianura produce ampi meandri, così il fiume d’aria ad alta quota tende a produrre vaste e lente ondulazioni all’interno delle quali ristagna aria ora calda ora fresca. Se sei nella cresta dell’onda calda vai a fuoco come a Lytton, se sei nel cavo fresco vai a bagno come a Schuld. E perché la corrente a getto polare rallenta? Molto probabilmente perché la banchisa artica si sta riducendo e l’oceano Artico si sta riscaldando, così diminuisce la differenza di temperatura tra Equatore e Polo Nord e si affievolisce per così dire il “tiraggio” delle correnti atmosferiche che regolano il clima, da cui il mutamento dei loro percorsi millenari sui quali abbiamo calibrato la nostra civiltà. Tutto è legato in atmosfera. Ciò che succede in remote regioni disabitate si riflette poi nel cielo sopra Liegi. Ma sono le emissioni del petrolio bruciato a Liegi, a Milano o a Pechino a causare il riscaldamento globale che amplifica e rende più frequenti gli eventi meteorologici distruttivi. Di cronache come queste ne abbiamo già scritte tante, e sempre avviene che dopo qualche giorno, ripulito il fango e fatti i funerali delle vittime ci si dimentica di tutto e si torna a vivere come prima al grido di “crescita, crescita!”. Bisognerebbe una volta per tutte mettere in relazione queste catastrofi climatiche con il nostro stile di vita e con la nostra economia insostenibile. Da un lato i politici costernati dicono che bisogna occuparsi del clima, dall’altro invocano proprio quella crescita economica, che – come ha affermato anche la Agenzia Europea dell’Ambiente – è la causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale. E se vengono annunciate nuove misure di contenimento e tassazione delle emissioni come ha fatto un paio di giorni fa la Commissione europea, tutti pronti a protestare per i costi aggiuntivi. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Lo vieta la termodinamica. Se vogliamo proteggere il nostro presente e soprattutto il futuro dei giovani da una crisi climatica sempre più severa e pericolosa, occorre saper rinunciare a qualcosa del nostro attuale stile di vita energivoro e dissipativo. Il tentativo di dare una mano di vernice verde al business-as-usual non può funzionare. La transizione ecologica è come una dieta ferrea, va percorsa con convinzione e con determinazione, non è e non sarà una passeggiata. Però se pilotiamo noi il processo invece che lasciar fare alle mazzate climatiche, avremo ancora la possibilità di tagliare il superfluo per garantirci il necessario. Altrimenti, quando il placido torrente decide di entrarti in casa, non chiederà permesso e si porterà via tutto.

Nubifragi estremi. La causa delle alluvioni in Germania e nel Nord Europa (e come evitare che accada in Italia). Riccardo Liguori il 17 Luglio 2021 su l’Inkiesta.it. Nella parte ovest della Germania, è partita una corsa contro il tempo per scongiurare la morte di centinaia di cittadini a causa delle incessanti piogge che continuano a sferzare l’area. Anche questa volta centra il cambiamento climatico così come le strategie di adattamento e mitigazione. Dalla Svizzera ai Paesi Bassi, passando per il Lussemburgo e il Belgio fino alla Germania occidentale si abbattono con violenza intensi nubifragi che hanno innescato l’esondazione di fiumi, lo sradicamento delle fondamenta di diverse case – obbligando molti cittadini a cercare rifugio sui tetti – causando oltre 100 morti e centinaia di dispersi nei Länder di Renania-Palatinato e Nord Reno Westfalia. Come riporta l’Agi, nella sola città di Ahrweiler sono stati recuperati almeno 18 corpi; più a nord, nel distretto di Euskirchen, le vittime sono state 15. A sud di Bonn, nel comune di Schuld, sei case sono state spazzate via dalla furia delle acque e quattro persone sono morte, mentre diversi corpi sono stati rinvenuti nelle cantine. Berlino ha dispiegato 400 soldati per aiutare nelle operazioni di ricerca e soccorso, mentre decine di migliaia sono rimaste senza elettricità. Nella provincia di Limbourg, nei Paesi Bassi, che confina con la Germania e il Belgio, diverse strade e un’autostrada sono state chiuse per il rischio di allagamenti dovuti alle esondazioni. «Quello accaduto in Germania e in Belgio è un vero disastro climatico, dove in pochi giorni è caduta la pioggia che un tempo scendeva in due mesi. Nemmeno la Germania, che da anni ha avviato politiche per ridare spazio ai fiumi, è al sicuro dalle conseguenze peggiori del cambiamento climatico», ha dichiarato a Greenkiesta Andrea Agapito Ludovici, responsabile acque del Wwf Italia. «Nei giorni precedenti a questo disastro l’Europa è stata interessata da un anticiclone che ha portato a un riscaldamento della terra – ha spiegato a Linkiesta il fisico del clima Antonello Pasini – A questo si è aggiunta una grande massa di aria fredda che è rimasta per molto tempo sulla Germania, provocando precipitazioni forti, ma soprattutto persistenti. Il fatto che gli eventi estremi di questo tipo rivelino una “deriva climatica” violenta, e in qualche caso anche una maggiore frequenza, dipende in gran parte dal riscaldamento causato dall’uomo, a causa del quale aumenta la temperatura media e dunque, mediamente, l’energia incamerata in atmosfera che poi viene scaricata violentemente sui territori. Dall’altro lato, cambia anche la circolazione dell’aria, con forti correnti calde da sud e infiltrazioni fredde da nord che creano alluvioni, enormi grandinate e in generale disastri come quelli che abbiamo visto negli ultimi giorni». La cancelliera Angela Merkel si è detta «sconvolta» dalla catastrofe e dal «disastro umanitario» e ha parlato di «tragedia» per la nazione mentre Armin Laschet, candidato Cancelliere per la Cdu alle prossime elezioni e governatore del Nord Reno-Westfalia, ha chiamato in causa il climate change, chiedendo di accelerare gli sforzi globali per contrastarlo. Su richiesta della Commissione europea, si è messa in moto la macchina dell’assistenza internazionale europea: un team della Protezione civile e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ha già raggiunto Liegi e da Venezia è partito un volo C-130 dell’Aeronautica militare, specializzato nel supporto della ricerca e soccorso in contesti alluvionali. Oggi un elicottero della Difesa raggiungerà il Belgio per supportare le attività di ricerca dei dispersi. Guardando a quanto accaduto in Germania, il Wwf Italia ha chiesto di avviare un grande piano di ripristino ambientale, come prevede anche la Strategia Europea per la Biodiversità che impegna gli Stati a rinaturalizzare e riconnettere almeno 25000 km di fiumi entro il 2030.  Secondo l’associazione ambientalista «non c’è più tempo e l’azione climatica va accelerata a ritmi esponenziali se vogliamo evitare le conseguenze più pericolose e ingestibili. L’azzeramento delle emissioni – la mitigazione – va attuato nel più breve tempo possibile, ben prima del 2050, e vanno parallelamente messe in campo davvero le politiche di prevenzione. In Italia, per esempio, il Piano di adattamento è ancora fermo e non è mai passato alla fase attuativa. Pensando a quanto successo in Germania, dobbiamo immediatamente rendere operativa una politica basata sul ripristino degli ecosistemi fluviali e sul recupero degli spazi che abbiamo rubato ai fiumi. Dal dopoguerra aa oggi, nel nostro Paese, abbiamo tolto ai fiumi circa 2000 chilometri quadrati, un’enormità di spazio e le conseguenze di questo sono e saranno sempre più devastanti». Secondo la meteorologa e climatologa Serena Giacom proprio l’adattamento, che insieme alla mitigazione rappresenta lo strumento principale per affrontare la crisi climatica, può giocare un ruolo importante anche in situazioni meteorologiche estreme come queste. «Si tratta non solo di rendere i territori più resistenti ma anche i cittadini più consapevoli e informati. A tal fine diventa fondamentale la corretta comunicazione tra mondo scientifico e mondo dell’informazione». Quello che ha interessato il Nord Europa è un evento critico cui dobbiamo prestare grande attenzione, come ha sottolineato il fisico Pasini. «Il fenomeno preoccupa perché crea fenomeni violenti su territori densamente modificati dall’uomo e urbanizzati, dunque su suoli fragili e vulnerabili alle precipitazioni intense e persistenti. Il fatto che il riscaldamento globale di origine antropica stia facendo espandere verso nord la circolazione equatoriale e tropicale pone la nostra Italia a rischio ondate di calore e siccità, ma soprattutto dal nord Italia in su il rischio di questi eventi di precipitazioni estreme aumenterà ancora se non faremo nulla per mitigare il clima».

Tutte le bufale green dopo le alluvioni in Germania.  Franco Battaglia il 20 Luglio 2021 su Nicola Porro.it e su Il Giornale. Una delle frasi più cattive è «chi è causa del proprio mal… etc.». E, pensando ai disastri in nord Europa per le alluvioni, noi non diciamo quella frase. Anche perché la causa del male non sono gli europei, ma è l’Unione europea. Con, al primo posto, quella che, senza una vena di rossore sul volto e con non poco cinismo, ha dichiarato: «L’intensità e la durata di questi eventi sono favoriti dal riscaldamento globale», sottintendendo – va da sé – che le misure da prendere son quelle da essa stessa proposte, e cioè il riversamento di 1500 miliardi del denaro dei contribuenti nelle tasche di chiunque sia coinvolto, o perché fabbricante o perché venditore o installatore, di turbine eoliche, parchi fotovoltaici e automobili elettriche. Costei è la tedesca commissaria della Ue. Da manicomio: se io gestissi le finanze di casa mia come costei il denaro dei cittadini della Ue, sarei proposto dai miei più stretti parenti per l’interdizione. Così accadrebbe se io, avendo impegnato in un progetto le risorse finanziarie di casa mia, e dopo averle perdute una volta, riproponessi il progetto per la seconda volta, e poi, dopo il secondo insuccesso, per la terza volta. All’inizio del millennio, la Ue per diversi anni infastidì il mondo intero inducendolo ad approvare il Protocollo di Kyoto, che si proponeva di ridurre le emissioni, entro il 2012, di circa il 5% rispetto a quelle del 1990. Quando nel 2008 era evidente che quel proposito era niente più che una pia illusione, visto che quell’anno le emissioni, lungi dal mostrare una pallida riduzione, erano invece aumentate del 40%, orbene nel 2008 la Ue approvò il pacchetto 20-20-20: le emissioni, la cui riduzione del 5% si rivelava impossibile, dovevano essere ridotte del 20% entro il 2020. Da manicomio. I fiumi di denaro continuarono a scorrere verso l’insano progetto anche quando, nel 2012, anno-obiettivo del Protocollo di Kyoto, si poteva benissimo costatare che le emissioni, anziché diminuire del 5%, erano invece aumentate del 50%. Giunti al fatidico 2020, si dovette costatare che le emissioni, anziché diminuire del 20%, erano aumentate del 60% rispetto ai livelli del 1990. Cionondimeno, questa signora dai biondi capelli sulla zucca, ma con, sembrerebbe, non molto sale dentro, insiste. Il suo Paese ha installato, più di tutti al mondo, oltre 50 gigawatt fotovoltaici e oltre 60 gigawatt eolici. E, ci fanno sapere, e case automobilistiche tedesche sarebbero pronte a immettere sul mercato auto full-electric. All’uopo, e con la promessa che servivano per proteggersi dai cambiamenti climatici avversi, dalle tasche dei cittadini tedeschi saranno stati prelevati, a occhio e croce, euri 300 miliardi, a tenerci bassi. Il clima è rimasto insensibile alla mossa geniale. La recentissima alluvione ha fatto cadere 200 mm di pioggia in un giorno. Ma, non dobbiamo dimenticare, nel novembre 1951 vi fu un’alluvione peggiore nel Polesine, con oltre 1500 mm di pioggia in quattro giorni, oltre 100 morti e quasi 200 mila senza tetto. E nel settembre del 1868 ce ne fu una altrettanto devastante in Svizzera, con 1120 mm di precipitazioni in una settimana, oltre 50 morti e immensi danni economici. In quell’anno, il lago Maggiore raggiungeva i 200 metri di profondità. Ma, a dispetto dei pensieri geniali che passano per la tua testa, cara Ursula, nel 1951 s’era in pieno global cooling. E nel 1868 le attività umane presunte climalteranti erano assenti. Quei pensieri che attraversano la tua graziosa testolina sono un pericolo per l’intera Unione europea. La quale farebbe bene a rispedirli alla mittente, e allocare le proprie risorse per proteggersi da eventi coi quali, fin dai tempi di Noè, l’umanità deve imparare a convivere e dai quali deve imparare a difendersi. Franco Battaglia, 20 luglio 2021

Il disastro di 100 anni fa che sconvolse l'Europa centrale. Paolo Mauri il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. La tragica alluvione che ha colpito la Germania, il Belgio e l'Olanda causando più di cento morti e migliaia di dispersi non è affatto un evento eccezionale. “Una vasta area della Sassonia è sott'acqua; si pensa che siano perite centinaia di persone e i danni causati dall'inondazione successiva alla tempesta di sabato sono incalcolabili. Le acque hanno invaso la valle raggiungendo un'altezza tra i cinque e i sette piedi, trascinando tutto con sé”. No, non è l'incipit di un articolo inerente alla tragica alluvione che ha colpito Germania, Belgio e Olanda lo scorso 15 luglio che ha causato più di 100 vittime e un numero impressionante di dispersi (circa 1300), bensì l'inizio di un articolo del New York Times del 24 luglio 1927. Un evento catastrofico, avvenuto il 10 luglio di quell'anno, che ai tempi era stato definito “il peggiore in 50 anni” e che ebbe ripercussioni anche in Italia, con effetti definiti “particolarmente distruttivi” al centro e al nord. Le similitudini tra i due fenomeni non si limitano all'arco temporale in cui sono avvenuti (la parte centrale del mese di luglio): entrambi sono stati preceduti da una forte ondata di calore. Sempre nel Nyt di quel luglio 1927 si legge che “gli esperti attribuiscono il fenomeno catastrofico all'usuale ondata di caldo avvenuta in Germania nei giorni precedenti” che, scontratasi con una zona di bassa pressione artica, ha causato la genesi di violente tempeste. Qualcosa che ricorda molto quanto accaduto nei giorni scorsi e che ha causato la distruzione nella Renania-Palatinato. Un fatto “usuale” secondo gli esperti dell'epoca, dovuto alla particolare geografia dell'Europa Centrale, dove non ci sono alte catene montuose a proteggere il territorio dalle incursioni di aria fredda artica, che quando si scontra con quella calda e umida delle estati continentali può dare luogo a fenomeni meteorologici molto intesi, perfino disastrosi. Nihil sub sole novi quindi, pur nella sua tragicità. Occorre quindi fare una riflessione su quanto accaduto e sulla narrazione che se ne sta facendo, pur con la consapevolezza che, in questo momento, ci sono persone che hanno perso tutto, anche la vita. Partiamo da un presupposto: i cambiamenti climatici sono un dato di fatto. Le temperature medie dell'emisfero boreale sono aumentate, il ghiaccio ricopre per meno giorni l'anno le distese del Mar Glaciale Artico rendendolo navigabile per più tempo (da qui la corsa alla Northern Sea Route). Che ogni evento atmosferico catastrofico sia però da attribuire ai cambiamenti climatici in atto non è corretto, ed è un facile paravento per celare la propria memoria corta. Sì, perché se c'è una cosa che l'uomo proprio non è capace di fare è quella di ricordarsi degli eventi storici, anche se non sono così lontani nel tempo come la disastrosa alluvione dell'Europa Centrale del 1927. Lo vediamo ad ogni terremoto: dopo la distruzione e la morte, il sentore comune è sempre quello dello stupore per il verificarsi di un evento così catastrofico. Eppure la terra ha sempre tremato, così come i vulcani hanno sempre eruttato, e le tempeste violente ci sono sempre state, e basterebbe guardarsi indietro per capire che certi fenomeni hanno un tempo di ritorno che si può quantificare, più o meno, e che ogni lustro o decennio di ritardo nel loro ripresentarsi è solo tempo guadagnato al disastro. Disastro. Sì. Perché se c'è un'altra cosa che l'uomo non impara mai è rimediare ai propri errori. L'ultima eruzione del Vesuvio, uno dei vulcani più pericolosi del mondo, è del 1944, eppure nel secondo dopo guerra nessuno ha pensato che si dovesse evitare di costruire selvaggiamente sulle sue pendici. Nessuno pensa, dopo le alluvioni o le esondazioni dei fiumi, che i corsi d'acqua, piccoli o grandi che siano, hanno bisogno di evolversi, di muoversi, di trovare il loro equilibrio e pertanto necessitano di una fascia di rispetto. Nessuno mai pensa che se un terremoto ha distrutto Messina nel 1908 (con tanto di maremoto), quest'evento particolarmente violento, sebbene eccezionale, può ripresentarsi dopo un certo lasso di tempo (stimabile tra i 100 e i 200 anni): quello che, come detto, viene definito “tempo di ritorno”. Più un evento è violento, in linea di massima, più ha un tempo di ritorno lungo – misurabile in decenni, secoli, perfino decine di migliaia di anni per certi eventi geologici particolarmente catastrofici – ed è proprio questo il guaio: il suo ricordo svanisce nel tempo, restando affidato solamente alla memoria scritta e polverosa di qualche cronaca del medioevo o di qualche quotidiano del secolo scorso. Il cambiamento climatico non può essere il capro espiatorio per qualsiasi pioggia torrenziale, siccità o inondazione. Non possiamo ciecamente pensare che tutto sia causato dalla modificazione del clima (di origina antropica o meno, non è questo il punto) e quindi dimenticarci che certi fenomeni ci sono sempre stati e che quindi bisogna coesistere con essi, il che significa coesistere con l'ambiente che ci circonda, quindi trovare un equilibrio tra la presenza umana e i normali, ciclici, eventi naturali. Diffondere la cultura ambientale non significa scendere in piazza come delle pecore ammansite per Greta Thunberg e “per il clima”, significa conoscere il territorio in cui si vive, conoscerne le dinamiche di corto, medio, lungo e lunghissimo periodo, per capire quello che si può fare ma soprattutto quello che non si può fare: chi costruisce una casa sulla golena di un fiume, o sulla sabbia in riva al mare, non deve poi stupirsi quando le acque gliela porteranno via, non deve lamentarsi per “i cambiamenti climatici”. Il cambiamento climatico, come già detto, non deve essere il paravento dietro il quale nascondiamo la nostra memoria corta e la nostra ignoranza ambientale, un'ignoranza che, peraltro, i nostri nonni e bisnonni mostravano spesso di non avere. 

Paolo Mauri. Nato a Milano nel 1978 trascorro buona parte della mia vita vicino Monza, ma risiedo da una decina d’anni in provincia di Lecco. Dopo il liceo scientifico intraprendo studi geologici e nel frattempo svolgo il servizio militare in fanteria a Roma. Ho scritto per Tradizione Militare, il periodico dell’Associazione Nazionale Ufficiali Provenienti dal Servizio Attivo

L’Italia del dissesto idrogeologico. Eugenio Melotti il 27 Ottobre 2017 su aulascienze.scuola.zanichelli.it. Frane e alluvioni sono fenomeni ben noti nel nostro Paese. Ogni anno si ripetono con drammatica regolarità, provocando vittime e danni ingenti. Sappiamo che gran parte del territorio italiano è a rischio idrogeologico. Un po’ per la sua natura prevalentemente montuosa, ma soprattutto a causa delle attività umane. Il dissesto idrogeologico è figlio dell’incuria e della cattiva gestione del territorio. I costi ambientali, sociali ed economici sono elevatissimi, ma gli interventi per la messa in sicurezza sono spesso bloccati dall’inerzia della politica e dalle lungaggini burocratiche. Cerchiamo allora di analizzare il problema, evidenziando criticità e suggerendo buone pratiche, in un’ottica di maggior rispetto e tutela dell’ambiente. 

Che cos’è il dissesto idrogeologico?

Con il termine “dissesto idrogeologico” si intendono tutti quei processi che hanno un’azione fortemente distruttiva sul suolo. Alcuni si manifestano in modo più graduale e prolungato nel tempo, come l’erosione superficiale, legata principalmente all’azione delle acque meteoriche e alla natura dei suoli. Altri possono essere improvvisi e catastrofici, come le frane e gli smottamenti che si verificano nei terreni montani e collinari, e le alluvioni che inondano quelli pianeggianti.

Come accade nel caso dei terremoti, gli effetti del dissesto idrogeologico sono meno evidenti in aree naturali o poco antropizzate, mentre possono assumere connotati drammatici quando colpiscono abitazioni, infrastrutture e coltivazioni. 

Piogge torrenziali e bombe d’acqua, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico, stanno rendendo più frequenti frane, smottamenti e alluvioni.

Quali sono le cause del dissesto?

Non è sbagliato associare il dissesto idrogeologico allo zampino umano. Esistono fattori naturali che contribuiscono al rischio idrogeologico, come condizioni meteorologiche estreme (piogge particolarmente abbondanti), geomorfologia del territorio (pendenza dei versanti o caratteristiche del bacino idrico) e variazioni climatiche (repentini aumenti della temperatura).

In un ambiente integro, tuttavia, il loro impatto è trascurabile. Inoltre alcuni di questi, come le anomalie climatiche, sono in realtà favorite dal riscaldamento globale di origine antropica. Il principale responsabile del dissesto idrogeologico, quindi, è l’uomo. Le attività umane che vi contribuiscono maggiormente sono la deforestazione, l’eccessivo consumo di suolo e la cementificazione. Analizziamole in dettaglio una alla volta. 

In che modo la vegetazione riduce il rischio di frane?

Il primo beneficio della copertura vegetale, ancor più della produzione di ossigeno (il maggior contributo viene dal fitoplancton) è il consolidamento del suolo. Con le loro radici, le piante trattengono il terreno impedendo il suo dilavamento, cioè l’erosione provocata dalle piogge e dal ruscellamento. Inoltre, assorbono una parte consistente dell’acqua piovana, e ne smorzano la violenza, favorendo al contempo la sua penetrazione in profondità. 

Il 28 luglio del 1987, dopo piogge eccezionali un’enorme frana di 40 milioni di metri cubi travolse la Val Pola, una valle laterale della Valtellina, creando una diga alta 50 metri che sbarrò il fiume Adda. Tra frane ed esondazioni 53 persone persero la vita, e i danni furono ingentissimi (immagine: Wikimedia Commons) 

Dove la copertura vegetale viene eliminata a causa del pascolo eccessivo, degli incendi o della deforestazione, le piogge (e in misura minore il vento) asportano rapidamente il suolo più superficiale, fertile e ricco di humus. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle aree tropicali deforestate, dove i violenti acquazzoni stagionali dilavano rapidamente il sottile strato fertile. In pochi anni, erosione e alterazione del ciclo dell’acqua – la stessa foresta produce il 50% della pioggia che la bagna – possono trasformare ciò che un tempo era bosco o foresta in una distesa arida e brulla.

Nelle zone temperate, invece, il rischio maggiore non è rappresentato tanto dalla desertificazione (comunque presente nel sud d’Italia e nelle isole maggiori), quanto dalle alluvioni e dagli smottamenti. L’acqua non più assorbita dalle radici e dal terreno ingrossa torrenti e fiumi facendoli esondare, mentre dai versanti disboscati di montagne e colline si staccano più facilmente frane.

Un pendio boscoso, dove le radici degli alberi trattengono il suolo, è molto più stabile di uno disboscato. Questo è quello che purtroppo hanno drammaticamente sperimentato gli abitanti di Sarno e Quindici, due Comuni campani in provincia di Salerno e Avellino. Le colline circostanti, private della copertura vegetale che teneva ancorati gli antichi depositi piroclastici del Vesuvio, non ressero alle piogge particolarmente abbondanti e tra il 5 e il 6 maggio del 1998 provocarono il distacco di una grande frana. Due milioni di metri cubi di fango e detriti piombarono sui due paesi sottostanti, travolgendo ogni cosa e provocando 160 vittime.

Da che cosa sono provocate le alluvioni?

Altre cause del dissesto direttamente riconducibili a un’errata gestione del territorio sono gli interventi per regolare il flusso di fiumi e torrenti. Il rapporto dell’uomo con l’acqua è antichissimo. I primi insediamenti stabili, a partire da circa 12 000 anni fa, erano costruiti lungo le sponde di laghi e fiumi o presso le foci. L’acqua infatti è sempre stata indispensabile per dissetare umani e bestiame, coltivare i campi, cucinare e per tutti gli usi quotidiani. Lo è ancora oggi, anche se la tecnologia ci consente di costruire città in pieno deserto, come Las Vegas, con tutti i problemi ecologici che ciò comporta.

Il rovescio della medaglia di risiedere vicino all’acqua è il rischio di alluvioni. Un incubo ricorrente, specialmente da quando abbiamo smesso di vivere sulle palafitte. Lungo le sponde del Nilo, in realtà, le esondazioni annuali erano attese e festeggiate dagli antichi Egizi perché apportavano limo fertile ai campi coltivati. Ma gli Egizi conoscevano bene il loro fiume e sapevano gestire le sue piene. 

Vale la pena ricordare che molte grandi pianure, compresa la Pianura Padana, si sono formate grazie ai sedimenti trasportati e accumulati dal Po e dai suoi affluenti. Nelle aree pianeggianti, i corsi d’acqua tendono ad avere alvei pensili. I sedimenti trasportati alzano progressivamente il letto del fiume finché il cedimento di un argine lo fa esondare. L’alluvione allaga vaste aree, depositando ciottoli, sabbia, limo e argilla, strato dopo strato.

In condizioni naturali, tutti i fiumi cambiano il proprio corso nel tempo. Quelli che hanno un alveo pensile, dopo una grande esondazione non possono rientrare nel vecchio letto, ma devono scavarsene uno nuovo, come testimoniano i paleoalvei ancora oggi visibili nelle foto aeree dei campi. Di solito, però, le alluvioni catastrofiche sono eventi eccezionali. Infatti le golene, vaste aree comprese fra le rive e gli argini del fiume, fungono da invasi di emergenza dove il fiume può espandersi in caso di piene eccezionali, senza esondare. 

Anche la vegetazione spontanea che cresce nelle aree golenali è utile, perché rallenta notevolmente la velocità della corrente. Purtroppo oggi molte golene sono occupate da coltivazioni (per esempio pioppeti), se non addirittura da abitazioni e infrastrutture. Una pratica dannosa ma ancora molto diffusa è la cosiddetta “pulizia degli alvei”, cioè la rimozione periodica della vegetazione ripariale, cui partecipano con entusiasmo i volontari della Protezione Civile.

Una golena coltivata a pioppeto e invasa dall’acqua. La rimozione della vegetazione ripariate, oltre a creare danni ecologici, è un fattore di rischio idrogeologico perché aumenta la potenza delle piene

Vivendo da millenni lungo i fiumi, dovremmo avere acquisito una profonda conoscenza, anche empirica, della loro ecologia, e saper prevenire per contenere la loro periodica esuberanza. Purtroppo è vero il contrario. L’intensa urbanizzazione e il consumo di territorio negli ultimi 50 anni hanno assediato i fiumi, ridotto il loro spazio vitale e aumentato la loro pericolosità. Costretti entro angusti argini e privati delle aree golenali, molti grandi corsi d’acqua, come l’Arno e il Tevere, sono diventati protagonisti in passato di catastrofiche alluvioni. E alcuni rischiano di esserlo anche in futuro.

Il 4 novembre 1966, dopo un’eccezionale ondata di maltempo, l’Arno straripò provocando una delle più devastanti alluvioni della storia italiana. Non solo Firenze, ma anche Pisa e gran parte della Toscana furono sommerse. In alcuni punti, il livello dell’acqua superò i 5 metri, provocando 35 morti e danni irreparabili a capolavori dell’arte fiorentina. È passato più di mezzo secolo, ma sul fronte della prevenzione si è fatto ben poco. Anzi, recenti simulazioni hanno mostrato che se oggi dovesse ripetersi un’alluvione come quella del 1966, con le stesse modalità, l’acqua supererebbe di due metri i livelli raggiunti allora. Come se non bastasse, molte aree che all’epoca erano disabitate o coltivate oggi sono quartieri industriali o densamente popolati.

Perché è importante frenare la cementificazione selvaggia?

Negli ultimi decenni, la pressante richiesta di nuovi terreni da coltivare e spazi per costruire strade, case e infrastrutture ha provocato una sconsiderata cementificazione di molti corsi d’acqua. Gli alvei sono stati rettificati, ristretti, imbrigliati e ingabbiati entro sponde di cemento che hanno trasformato fiumi e torrenti in canali. Oltre alle gravi ripercussioni sugli ecosistemi fluviale e ripariale, completamente stravolti, questi interventi aumentano il rischio di alluvioni, perché l’acqua non trova ostacoli e scorre più impetuosa. 

Il torrente Ausa prima attraversava il centro di Rimini, ma ai primi del ‘900 fu deviato nel fiume Marecchia tramite un canale di cemento e trasformato in uno scarico fognario della città

È quello che succede, in Liguria, a Genova, dove diversi torrenti sono stati a tratti intombati, cioè coperti di cemento e costretti a scorrere in tubature. Alcune case si trovano proprio sopra i torrenti e nel loro alveo. Basta che una piena improvvisa crei un tappo di rami e detriti, per far finire sott’acqua interi quartieri della città. Anche la Sardegna, in particolare la zona di Olbia, rivive periodicamente l’incubo delle alluvioni. 

Durante l’alluvione di Genova del 4 ottobre 2010 sono straripati diversi torrenti, tra cui il Molinassi che ha allagato Sestri Ponente

L’impermeabilizzazione del suolo nelle aree urbane è un altro fattore di rischio, perché l’acqua non può penetrare nel terreno e tende a ruscellare, provocando allagamenti. Un fenomeno che a causa del riscaldamento globale sarà sempre più frequente. L’aumento delle temperature infatti aumenta la probabilità di nubifragi, e quindi anche di fenomeni di piena. Secondo il Rapporto Ecomafia 2017 di Legambiente, in Italia nel 2016 sono stati costruiti 17 000 nuovi immobili abusivi, in media circa 46 al giorno. Quotidianamente, vengono impermeabilizzati da cemento e asfalto 75 ettari di suolo.

Per approfondire il tema dei reati ambientali legati al consumo del territorio, dall’abusivismo edilizio al business del cemento, si può leggere il Rapporto Ecomafia 2017 di Legambiente, scaricabile da questo sito o acquistabile in libreria.

Quali sono i numeri del dissesto in Italia?

Un rapporto del Ministero dell’Ambiente pubblicato nel 2008 rivela che sono a elevato rischio idrogeologico l’82% dei Comuni italiani, e 5,8 milioni di persone. Le regioni più colpite sono Campania, Calabria, Piemonte, Sicilia e Liguria. Un altro rapporto, redatto nel 2012 da Ance (Associazione Nazionale costruttori edili) e Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio), denuncia che sono a rischio 6250 scuole, 550 ospedali e circa 500 mila aziende.

Se si aggiungono appartamenti e case residenziali, si arriva a un totale di 1,2 milioni di edifici. Dal 1900 a oggi, in Italia si sono verificate 486 mila frane; nel resto d’Europa sono state 214 mila. Date queste premesse, non sorprende che nello stesso lasso di tempo le vittime del dissesto idrogeologico siano ben 12 600.

Sul sito dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, si trovano altre mappe della popolazione a rischio idrogeologico in Italia, separate per frane e alluvioni.

Per quanto riguarda i costi, sconforta lo sperpero di denaro pubblico. Nel solo biennio 2010-2012 sono stati spesi 7,5 miliardi di euro in risarcimenti e ricostruzioni. Per i 65 anni precedenti la spesa (fatte le debite conversioni) sale a 54 miliardi di euro. Nel suo rapporto del 2008, il Ministero dell’Ambiente ha stimato che con 4,1 miliardi di euro si potrebbero mettere in sicurezza le zone più a rischio su tutto il territorio italiano. Evitando futuri sprechi e tante vittime.

In un documento dell’Anbi (Associazione nazionale delle bonifiche, delle irrigazioni e dei miglioramenti fondiari) del 2012, i costi per gli interventi salgono a 6,8 miliardi di euro. Si tratta comunque di una cifra minima rispetto all’enorme spesa per tamponare i danni, senza contare che un piano nazionale di questa portata creerebbe 44 000 nuovi posti di lavoro. 

Che cosa si può fare per ridurre il rischio idrogeologico?

Il modo migliore per prevenire le frane è fermare il disboscamento nelle aree a rischio e non concedere l’edificabilità sui pendii instabili. Dove il danno è già stato fatto, bisogna intervenire per consolidare e stabilizzare i versanti con rimboschimenti e sostegni come muri, gabbioni o reti metalliche. Sarebbe auspicabile un regolare monitoraggio per verificarne la stabilità.

Sul fronte delle alluvioni, invece, la strada giusta è la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua rettificati, imbrigliati e cementificati. Ovviamente, va impedita la costruzione di abitazioni nelle aree golenali e sui torrenti intombati. Un esempio virtuoso ci viene dalla Germania, che sta progressivamente smantellando le sponde di cemento. Dove possibile vengono ripristinate le golene e sulle rive sono piantati alberi d’alto fusto.

Anche le briglie, sbarramenti che dovrebbero correggere la naturale pendenza dell’alveo e smorzare la forza dell’acqua, spesso si sono rivelate controproducenti e andrebbero rimosse. Trattengono infatti i sedimenti a monte e aumentano i fenomeni erosivi più a valle, accelerando le piene.

Le casse di espansione rappresentano una possibile alternativa alle aree golenali, laddove sono state rimosse, per contenere le piene. A volte assumono anche una certa importanza naturalistica come zone umide. Per saperne di più sulle buone pratiche legate al dissesto idrogeologico si può leggere questo vademecum scaricabile in formato pdf. Una pubblicazione recente sul tema è Il dissesto idrogeologico. Previsione, prevenzione e mitigazione del rischio, di Giuseppe Gisotti, Dario Flaccovio Editore, 2012. Tra i siti che si occupano di dissesto idrogeologico ci sono isprambiente.gov.it, legambiente.it, ideegreen.it. 

·        La Green Economy. La Risorsa dei Rifiuti.

Un esercito di interinali, immigrati e senza diritti: ecco gli sfruttati della green economy. Il Trentino è in cima alla classifica del riciclo. Ma chi lo rende possibile sono lavoratori sottopagati e senza garanzie. Un simbolo del lavoro in Italia. “Le mansioni sono retribuite diversamente in base la colore della pelle”. Tommaso Giagni su L'Espresso il 25 giugno 2021. Massaman è stato mandato via di colpo, dopo tredici anni di contratti di un mese, rinnovati volta per volta. Era maggio e Massaman è diventato un simbolo per chi lavorava con lui, la rassegnazione che faceva sopportare l’insopportabile è diventata altro. Da alcune settimane, così, un gruppo di operai della raccolta differenziata in Trentino dà battaglia. Si sono rivolti al sindacato, hanno fatto tre giornate di sciopero. Sono africani, in regola con i documenti e guadagnano poco più di 6 euro netti (8,77 lordi) all’ora per separare e imballare il materiale per il riciclo. Da anni il loro orizzonte è mensile come la durata del contratto. Non hanno tredicesima, non maturano scatti di anzianità. Chiedono una stabilizzazione, ma ha più senso parlare di dignità. «Quando esco per il turno non sono mai contento, nel cuore. Il fatto che non sono istruito, non vuol dire che non capisco. Siamo schiavi moderni», dice Adama, maliano, figura chiave della lotta e delegato Usb. Eppure è anche merito suo e degli altri operai, se la Provincia di Trento può vantarsi di essere ai vertici delle classifiche nazionali della differenziata. Daniel Agostini, funzionario Usb che segue la vicenda, è sbalordito: «Mi sembra di vivere nell’Ottocento, quando i diritti non esistevano. Varcati i cancelli dell’azienda, si entra nel passato». L’azienda è la Ricicla Trentino 2 Srl, che nella Provincia si occupa della separazione di plastica, metallo e vetro. Tra le pieghe della sostenibilità ambientale, del Green Deal, dello slancio ecologista verso il futuro, esistono ombre che ospitano i vecchi problemi del lavoro, neri come il carbone. Nel tedesco monatlich, mensile, Alessandro Manzoni individuava l’origine della parola «monatto». Un lavoro legale e detestabile. «D’altronde la legge non sempre è giustizia», dice Agostini. Questi lavoratori hanno un contratto a tempo indeterminato con un’agenzia interinale, Gi Group, e contratti mensili di missione con l’azienda. Se Ricicla Trentino lascia a casa il lavoratore, l’agenzia gli paga una sorta di disoccupazione. «Sì, per massimo otto mesi, a un massimo di 800 euro lordi», dice Agostini: «L’agenzia dovrebbe ricollocarli altrove, ma non lo fa mai, non offre alternative». Così RT ricorre sistematicamente a un bacino di manodopera a basso costo. Zona industriale di Lavis, all’ombra della Paganella, pochi chilometri a nord di Trento. In fabbrica, selezionare i materiali è un lavoro ripetitivo che pretende estrema attenzione. Turni di sette ore al giorno. Dai centri di raccolta sparsi per la provincia arrivano i rifiuti, che in seguito verranno spediti altrove per lo smaltimento. Dopo un lungo nastro di prima differenziazione, un macchinario incanala su nastri più piccoli, dove la precisione aumenta: il vetro blu va separato dal vetro verde, il nylon dal polipropilene. Agostini spiega che «il nastro viene accelerato, i materiali corrono anche a ottanta chilometri orari», per chi viene considerato esperto. È il caso di Adama, addetto ad alluminio e tetrapak, con le cuffie per difendersi dal rumore delle lattine. Ha trentatré anni, dal Mali è arrivato in Algeria attraverso il deserto, poi in Libia. Era il 2010, ha lavorato come elettricista. Pochi mesi dopo è scoppiata la guerra, passare le frontiere è diventato proibitivo, restare impossibile, l’unica via di fuga era l’Italia. Sul barcone erano in trecento, tre i giorni che sono serviti a raggiungere Lampedusa. E lui riassume così il viaggio: «Se hai fortuna, vivi, se no muori». Non è mai andato a scuola perché la famiglia non poteva permetterselo, quindi in Italia ha imparato a leggere e scrivere, su uno dei pochi mobili di casa c’è un manuale di italiano. Fawali separa le bottiglie su un altro nastro. «Sono cresciuto tra Mali e Guinea, poi sono andato dove potevo vivere meglio: in Libia». Ha una postura che gli anni in fabbrica e i mesi da stagionale in Puglia e a Rosarno non hanno piegato. Ancora ricorda che sul barcone arrivato a Lampedusa erano 183 persone. In Trentino ha lavorato in una fabbrica di trattori, prima di essere mandato via per la crisi nel 2008. RT è stata un’opportunità: «Ho preso questo lavoro contento, perché nel settore non c’è crisi». A tredici anni di distanza, con la famiglia lontana e a condizioni di lavoro indegne, lo spirito è ben altro. Quasi tutti hanno i figli in Africa con la moglie. Hosei ne ha uno, in Ghana, nato quando iniziò a lavorare qui, sedici anni fa. Lo vede solo durante le ferie, dall’ultima volta sono passati due anni, dice che si conoscono poco. Kanda da tredici anni lavora per RT e di figli in Mali ne ha cinque. Vorrebbe averli sempre con sé ma non li vede dall’ottobre prima della pandemia. Impossibile portarli in Italia, sarebbe un passo più lungo della gamba, queste condizioni tengono tutto nell’incertezza. «Anche volendo, non potrebbero: per il ricongiungimento va dimostrato di avere un lavoro stabile, una casa abbastanza grande e le capacità economiche per mantenere i familiari», commenta Agostini. Già è un problema trovare casa per sé: affitti inaccessibili, proprietari che non vogliono inquilini neri o che chiedono garanzie più consistenti di un contratto mensile. Si finisce per dividere appartamenti piccoli e bui a Trento Nord, l’area urbana stigmatizzata dove gli affitti sono meno cari. Avrebbero un mese di ferie all’anno, ma non sempre vengono accordate dall’azienda. Alla richiesta di Adama, l’anno scorso, è stato risposto che troppi lavoratori erano via. «La dicitura “congruo preavviso” è talmente arbitraria che viene girata come si vuole», dice Agostini. Ora che Adama ha maturato un altro mese di ferie, ne ha chiesti due di seguito. «Possono anche darglieli, ma il rischio è che al ritorno non gli ridiano subito il lavoro o che non venga ricollocato affatto», prosegue Agostini. L’incertezza accompagna le loro vite. Così le relazioni familiari passano per il telefono e per i soldi inviati ogni mese, con la tagliola delle commissioni tra il cambio di valuta e il trasferimento di denaro, «nove euro su 100», spiega Fawali. A insistere nell’ombra si scopre che le stesse mansioni vengono pagate in modo diverso, a seconda che a svolgerle sia un dipendente o un interinale. Cioè: a seconda del colore della pelle. RT dichiara, da visura camerale, sette dipendenti, «tutti italiani» spiega Agostini. «Ma a lavorare sono una quarantina, con gli interinali: che sono tutti africani, tutti lavoratori svantaggiati». Una categoria, questa, appetibile per chi dà lavoro: prevede sgravi fiscali e permette di aggirare il tetto che limita il ricorso agli interinali. «Svantaggiato è chi è straniero, chi non ha un titolo di studio concorrenziale sul mercato, chi non conosce bene l’italiano». Hosei è addetto al muletto e alla ruspa, in questi sedici anni ha visto via via gli italiani arrivati dopo, addetti a ruspa e muletto, venire strutturati mentre lui restava coi contratti mensili. Come per gli altri africani, il contratto firmato con Gi Group non era in doppia lingua perché non è obbligatorio che lo sia. «Un vuoto normativo, così hanno accettato condizioni indegne, Gi Group li ha fregati. Per esempio il contratto non riconosce che la missione sia a tempo indeterminato, benché il lavoro per l’azienda sia continuativo e per anni», lamenta Agostini. Secondo Usb c’è ancora altro: «Una carenza di sicurezza». Gli odori sono violenti, già solo all’esterno della fabbrica. Soprattutto, i lavoratori sono a contatto con polveri pericolose, per esempio quelle del vetro. Non è raro che sentano dolore tra le scapole e abbiano problemi respiratori. Prima del Covid-19 l’azienda li dotava di mascherine adeguate. «Ora che sul mercato è esplosa l’offerta, la mascherina è diventata l’FFP2. Economica e insufficiente. L’azienda ne fornisce circa otto al mese», spiega Agostini. In più, gli operai dovrebbero avere qualcosa che protegga l’avambraccio dai pezzi di vetro e plastica che maneggiano sul nastro che corre. Invece RT fornisce solo i guanti, e loro si arrangiano indossando sugli avambracci calzini lunghi a cui tagliano le punte. L’attenzione alla sostenibilità può essere una retorica vuota, anche nel virtuosissimo Trentino. I lavoratori migranti non hanno intenzione di cedere all’ipocrisia e al ricatto: l’Italia è il posto dove vivono da anni e vogliono restarci. A condizioni finalmente dignitose, come quelle dei bianchi che nella stessa azienda svolgono le stesse mansioni. «Durante un presidio ai cancelli della fabbrica, un amministratore di RT si è avvicinato dicendo che se ai lavoratori non andava bene così, potevano andarsene», racconta Agostini. L’assemblea sindacale del sabato, sul terrazzo in cima alla sede Usb di Trento, si chiude con l’esortazione in italiano a non mollare finché non si vincerà. È sabato e il prossimo turno inizia lunedì, coi materiali sul nastro a cinquanta, settanta, ottanta chilometri orari. È sabato ma i materiali sul nastro li accompagnano comunque, nella vita fuori dai cancelli, come spiega Adama: «Le cose continuano a girarti nella testa».

Articolo del "Guardian" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 16 giugno 2021. Le bottiglie di plastica sono state convertite in aroma di vaniglia usando batteri geneticamente modificati, la prima volta che una sostanza chimica di valore è stata prodotta dai rifiuti di plastica. L'upcycling delle bottiglie di plastica in materiali più redditizi potrebbe rendere il processo di riciclaggio molto più attraente ed efficace. Attualmente la plastica perde circa il 95% del suo valore come materiale dopo un singolo utilizzo. Incoraggiare una migliore raccolta e uso di questi rifiuti è la chiave per affrontare il problema dell'inquinamento plastico globale. I ricercatori hanno già sviluppato enzimi mutanti per scomporre il polimero polietilene tereftalato usato per le bottiglie di bevande nelle sue unità di base, l'acido tereftalico (TA). Gli scienziati hanno ora usato gli insetti per convertire l'AT in vanillina riporta The Guardian. La vanillina è ampiamente utilizzata nell'industria alimentare e cosmetica ed è un importante prodotto chimico sfuso usato per fare prodotti farmaceutici, prodotti per la pulizia ed erbicidi. La domanda globale è in crescita e nel 2018 è stata di 37.000 tonnellate, superando di gran lunga l'offerta dai semi di vaniglia naturali. Circa l'85% della vanillina è attualmente sintetizzata da sostanze chimiche derivate da combustibili fossili. Joanna Sadler, dell'Università di Edimburgo, che ha condotto il nuovo lavoro, ha detto: "Questo è il primo esempio di utilizzo di un sistema biologico per riciclare i rifiuti plastici in una preziosa sostanza chimica industriale e ha implicazioni molto interessanti per l'economia circolare". Stephen Wallace, anche lui dell'Università di Edimburgo, ha detto: "Il nostro lavoro sfida la percezione che la plastica sia un rifiuto problematico e dimostra invece il suo uso come una nuova risorsa di carbonio da cui si possono fare prodotti di alto valore". Circa 1 milione di bottiglie di plastica sono vendute ogni minuto nel mondo e solo il 14% viene riciclato. Attualmente anche quelle bottiglie che vengono riciclate possono essere trasformate solo in fibre opache per vestiti o tappeti. La ricerca, pubblicata sulla rivista Green Chemistry, ha usato batteri E coli ingegnerizzati per trasformare l'AT in vanillina. Gli scienziati hanno riscaldato un brodo microbico a 37C per un giorno, le stesse condizioni della produzione della birra, ha detto Wallace. Questo ha convertito il 79% dell'AT in vanillina. Successivamente gli scienziati modificheranno ulteriormente i batteri per aumentare ulteriormente il tasso di conversione, ha detto: "Pensiamo di poterlo fare abbastanza rapidamente. Abbiamo un incredibile impianto di assemblaggio del DNA robotizzato qui". Lavoreranno anche a scalare il processo per convertire maggiori quantità di plastica. Altre molecole di valore potrebbero anche essere prodotte dall'AT, come alcune usate nei profumi. Ellis Crawford, della Royal Society of Chemistry, ha detto: "Questo è un uso davvero interessante della scienza microbica per migliorare la sostenibilità. Usare i microbi per trasformare la plastica di scarto, che è dannosa per l'ambiente, in una merce importante è una bella dimostrazione di chimica verde". Una recente ricerca ha mostrato che le bottiglie sono il secondo tipo di inquinamento plastico più comune negli oceani, dopo i sacchetti di plastica. Nel 2018, gli scienziati hanno accidentalmente creato un enzima mutante che rompe le bottiglie di plastica, e il lavoro successivo ha prodotto un super-enzima che mangia le bottiglie di plastica ancora più velocemente.

Dagotraduzione dal DailyMail il 6 giugno 2021. I ricercatori del Colorado hanno scoperto che i livelli di metano nei gas serra sono aumentati lo scorso anno di 14,7 parti per miliardo, il doppio rispetto al 1983, anno in cui è iniziato il monitoraggio. «È un aumento più grande di quello registrato nei primi anni '80, quando l'industria del gas era in forte espansione» ha detto Euan Nisbet, professore di scienze della terra alla Royal Holloway di Londra al New Scientist. Secondo alcuni esperti l'eccessiva produzione di metano è da attribuire al fracking, una tecnologia per estrarre il petrolio o ad altre attività umane, come l'allevamento di bovino e ovini. Ma il metano analizzato dai ricercatori del Colorado è ricco di carbonio-12, un elemento chimico che è associato alle zone umide e all'agricoltura più che ai combustibili fossili. «I combustibili fossili fanno sicuramente parte del quadro, ma è difficile spiegare i nostri dati senza avere un aumento del metano biogenico», cioè del metano prodotto dai processi di decomposizione in determinate condizioni climatiche. Gli scienziati hanno provato a spiegare il fenomeno partendo dalle temperature: i microbi producono più metano quando fa caldo, e il clima più caldo genera più microbi, creando un ciclo mortale. «E se sottili cambiamenti di temperatura e precipitazioni aumentassero le emissioni naturali di metano?» dice Ed Dlugokencky, un chimico ricercatore presso la NOAA. «Sarebbe coerente con i segnali isotopici osservati. Ma complicherebbe anche la sfida di ridurre le emissioni di gas serra per stabilizzare il clima». Secondo il recente Global Methane Report delle Nazioni Unite le emissioni di metano devono essere ridotte del 45 per cento per evitare l'aumento di 0,3 gradi Celsius di riscaldamento globale - e 255.000 morti premature - entro il 2040. Abbattere le emissioni di metano dovrebbe essere più semplice che agire sull'anidride carbonica. Tra gli sforzi da mettere in pratica c'è quello di vietare le discariche scoperte ed evitare perdite nei pozzi di gas e nelle conduttore. Una startup europea ha escogitato una soluzione ancora più ingegnosa: il produttore anglo-svizzero Mootral ha ideato un integratore alimentare a base di aglio e agrumi che promette di ridurre la flatulenza dei bovini del 30%. La Cnn ha calcolato che se fosse adottato in tutto il mondo, si eviterebbe una quantità di emissioni di metano equivalente a quella di 300 milioni di auto.

Rifiuti, come pagare una Tari più bassa e smaltirli meglio (con vantaggi per l’ambiente). Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Dataroom su Il Corriere della Sera il 12/1/2021. Per chi ancora non lo sapesse: avanzi di cibi crudi e cotti, erba e foglie secche – detti anche organico o umido – possono essere trasformati in biometano. È un combustibile prodotto da fonte rinnovabile che può essere utilizzato per le auto, i camion e i mezzi pubblici e che può essere immesso nelle reti del gas per il riscaldamento. Per farlo servono impianti di digestione anaerobica (che trasformano l’umido in assenza di ossigeno). In Italia oggi ce ne sono 58 (47 dei quali al Nord), la stima è che ne servirebbero altri 30 al Centro-Sud. Invece i rifiuti che finiscono nella raccolta indifferenziata possono essere utilizzati per produrre energia termica ed elettrica (rinnovabile al 51%). È il recupero energetico che consentono i termovalorizzatori più all’avanguardia. Oggi ce ne sono 36, ne servirebbero altri quattro (anche qui quasi esclusivamente al Centro-Sud). I calcoli di quanti impianti sono necessari all’Italia per consentire un circolo virtuoso dei rifiuti che produciamo in un anno sono nel nuovo report di Utilitalia, la federazione che riunisce le aziende dei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas. Vorrebbe dire dare elettricità e riscaldamento da fonte rinnovabile a 2 milioni di abitazioni, togliendo inquinamento dalle città, dove le caldaie sono responsabili del 64% delle emissioni di Co2. A Brescia il termovalorizzatore connesso alla rete di teleriscaldamento fornisce elettricità a 200 mila famiglie e scalda 60 mila appartamenti. A Torino 17 mila e copre il fabbisogno elettrico di 185 mila famiglie. È la più grande rete italiana interconnessa. Per l’Ue la gestione dell’immondizia è la quarta maggiore fonte di produzione di gas serra in Europa dopo la combustione, l’agricoltura e l’industria. Con la situazione attuale in Italia ogni anno vengono emesse dai rifiuti 18,5 milioni di tonnellate di Co2. Il 75% arriva dalle discariche, dove buttiamo il 20% dei rifiuti, compreso l’umido nelle Regioni nelle quali non viene differenziato. Il 16% di gas serra proviene, invece, dai 107 mila viaggi dei camion che trasportano l’immondizia dalle zone senza impianti a quelle che li hanno e che percorrono ogni anno 49 milioni di chilometri. Bruxelles impone ridurre le emissioni del 30% entro 10 anni (accordo di Parigi) ed entro il 2035 di dimezzare tutto quello che buttiamo in discarica (non deve superare la quota del 10%).

Vuol dire che bisogna far sparire 5,6 milioni di tonnellate di Co2. La stima è che solo con la realizzazione dei 34 impianti che mancano, eviteremmo quasi 1 milione di tonnellate. L’imperativo è quello di produrre meno rifiuti possibile, differenziare e riciclarli: oggi con la differenziata siamo al 61%, con forti differenze tra città e città ma per quanto riguarda l’effettivo riciclo siamo ancora al di sotto del 50%, mentre l’obiettivo da raggiungere entro il 2035 è il 65%. Nel mentre dobbiamo fare i conti con la quotidianità. In Italia vengono prodotte 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani all’anno: vuol dire 500 chili pro capite. Il 20% che finisce in discarica corrisponde a 6,1 milioni di tonnellate e solo il 19% viene bruciato (5,5 milioni). La Germania produce 615 chili di rifiuti pro capite: in discarica ci va il 2% e il 31% finisce nei 96 termovalorizzatori. In Francia, 527 chili di rifiuti pro capite: 21% in discarica e 35% bruciato. Insomma: nonostante una produzione pro capite maggiore, Francia e Germania hanno una gestione complessiva migliore grazie ad impianti innovativi.

A Flourish chart. Per la realizzazione degli impianti di digestione anaerobica e dei termovalorizzatori necessari per colmare il gap infrastrutturale e per conseguire gli obiettivi previsti dall’economia circolare sarebbe necessario un investimento di circa 4,1 miliardi euro, che possono rientrare nelle politiche green del Recovery Plan. Quindi non è nemmeno un problema di soldi. Ma politico e sociale.

Gli impianti, seppur di ultima generazione, non puoi imporli ai cittadini e alle comunità. Devono essere accettati. Significa spiegare loro quali tecnologie saranno utilizzate, quale sarà il livello di emissioni, e che più si aumenta la differenziata, meno si brucia e meno discariche ci sono. In sostanza non ci sono soluzioni miracolose e non è sopportabile scaricare sugli altri i propri rifiuti. Tutto questo oggi significa pessima qualità ambientale e tariffe più alte: 75 milioni di euro in più sulla Tari (sui 10,5 miliardi totali), il 90% dei quali a carico delle regioni del Centro-Sud. Nel 2019 la spesa per il servizio è pari a 310 euro, con forti differenze tra le aree: 273 euro al Nord, 322 euro al Centro, 355 euro al Sud. Un contesto che danneggia tutti e favorisce soltanto una sola categoria: la criminalità specializzata nel traffico di rifiuti.

·        La Dannosità dei rifiuti.

Gadani, l’inferno in terra dei lavoratori in Pakistan. Daniele Bellocchio su Inside Over il 30 settembre 2021. Karachi, adagiata sul Mar Arabico, prima città del Pakistan per numero di abitanti e seconda megalopoli al mondo, è un monolite di cemento, un leviatano febbricitante, un coacervo di pirati del giorno d’oggi dove tutto è il contrario di tutto senza ordine e ordini. È in questa Geenna di terra d’Oriente che sacro e profano, opulenza e miseria, vita e morte si mescolano e si uniscono in una ridda di voci e urla, suppliche e imprecazioni, sirene e spari senza soluzione di continuità. Karachi è la città più pericolosa al mondo e la guerra e la contraddizione sono connaturati in ogni suo aspetto. Grattacieli e minareti si contendono il cielo, salafiti e faccendieri si contendono le strade e tra i vicoli dei sobborghi dove i risciò suonano all’impazzata, i muli trainano carretti, i taxi invertono le marce e l’odore di spezie si mischia con quello del sangue che esce dalle macellerie halal si incontra il popolo dell’abisso pakistano. Alcuni uomini travolti dalla miseria vivono ricercando nei rifiuti che invadono i canali di scolo il proprio appiglio alla sopravvivenza, altri sono costretti a mendicare pietà e rupie sui marciapiedi, altri ancora invece emigrano, poco distante, a solo cinquanta chilometri, alla ricerca di un lavoro in un luogo dove si lavora per vivere e si vive per morire: Gadani. Questo è il nome della spiaggia che ospita i cantieri di demolizione delle navi provenienti da tutto il mondo, un anfiteatro del disumano dove tutto sembra essere stato infettato dalla morte, l’acqua del mare così come il sole che incendia la sabbia, e dagli gli scafi arrugginiti e abbandonati dei mercantili si solleva una nebbia venefica che infetta un’aria derelitta e malata. Lo scibile umano perde ogni suo orientamento quaggiù dove, nel cimitero delle barche, seppellisce la propria esistenza una falange di lavoratori dimenticati da Dio e dagli uomini, gli empi della “terra degli uomini puri”, il Pakistan. Il primo novembre 2016, il mondo conosce i cantieri di demolizione delle navi in Pakistan, perchè, di primo mattino, un’esplosione all’interno di una petroliera provoca la più grande tragedia della storia di Gadani. Una bombola di gas esplode, carburante e idrocarburi presenti nella stiva del cargo prendono immediatamente fuoco, le deflagrazioni si moltiplicano e crolli e fiamme investono gli operai che stanno lavorando allo smantellamento del bastimento. L’incendio dura 24 ore, il bilancio finale sarà di 29 lavoratori morti, i feriti oltre 60, alcuni dei quali in gravissime condizioni e impossibilitati ad essere soccorsi perchè non ci sono abbastanza ambulanze per trasportarli all’ospedale più vicino che dista oltre cinquanta chilometri. L’accaduto porta sotto la luce dei riflettori il centro di demolizione di Gadani e solo allora il mondo prende coscienza di quanto avviene sulla spiaggia pakistana dove oggi sono impiegati approssimativamente 6000 operai, la maggior parte dei quali migranti provenienti da Karachi e dalle regioni più povere del Paese e che, senza alcuna misura di sicurezza, senza ferie e diritti lavorativi, mettono a repentaglio quotidianamente la propria vita lavorando in condizioni disumane per una paga che, secondo il sindacato Industri All Global Trade Unione è quantificabile, tra i 3 e i 6 euro al giorno, ovvero un salario mensile che oscilla tra i 90 e i 180€ al mese. Sono passati cinque anni da quel tragico giorno ma, dopo l’iniziale choc internazionale e la consequenziale capillare copertura mediatica, nel giro di pochi mesi, i riflettori si sono di nuovo spenti su Gadani, dove le condizioni sono rimaste analoghe a prima dell’incidente. I lavoratori continuano a operare tra temperature incendiate e, senza alcun tipo di garanzia e diritto contrattuale, sono continuamente esposti a sostanze cancerogene e chimiche e non hanno in dotazione alcuna protezione. Migliaia di uomini in infradito e salwar kameeze si muovono tra i rottami delle barche e con martelli e fiamme ossidriche smantellano i giganti del mare che provengono principalmente dall’Europa, dagli Usa e dalla Cina. Gadani, come Chittagong e Alang-Sosiya, luoghi analoghi rispettivamente in Bangladesh e India, spesso definiti i cimiteri delle navi o l’ultima spiaggia dei giganti del mare, sono l’osservatorio privilegiato per essere testimoni oggi di una correlata e ciclica distruzione dell’ambiente e dell’uomo. I danni causati all’ambiente dallo smaltimento delle barche su queste spiagge sono infatti incommensurabili. L’ong Shipbreaking platform, che da anni si batte per la chiusura di questi siti, ha denunciato che il prezzo che si paga per poter smaltire queste navi titaniche su spiagge soggette a maree, in termini di danni alla popolazione e all’ambiente, è immenso. Le mareggiate infatti provocano lo sversamento di rifiuti in acqua e nel sottosuolo, inoltre l’area è priva di strutture per lo smaltimento dei rifiuti, quindi tutto i materiali di scarto, compresi quelli tossici, vengono semplicemente scaricati in mare o fuori dai siti di demolizione delle navi e il processo sembra inarrestabile. Gli attivisti locali hanno presentato una denuncia chiedendo che le attività di demolizione navale operino in linea con la Convenzione di Basilea. Finora, il governo di Islamabad e quello regionale del Baluchistan però non hanno avviato alcuna modifica e Gadani è rimasto l’implacabile e inclemente cimitero delle navi, degli uomini e del mare.

Quanto inquina davvero la nostra tavola? Nel piatto il 35% dei gas serra. Mariella Bussolati su La Repubblica il 14 settembre 2021. Un nuovo studio su Nature Food analizza l'intera filiera alimentare: dal campo o dalla fattoria fino al trasporto e al consumo. La ricerca quantifica le emissioni per 171 tipi di coltivazioni e 16 prodotti animali in oltre 200 Paesi e 9 regioni. Di studi sulle responsabilità del settore agricolo relative al riscaldamento globale ne sono usciti molti. Le più autorevoli, come quelle dell'Ipcc e dell'Epa americana, si attestano intorno al 25%. Finora però venivano considerate solo le emissioni relative alla produzione agricola, non all'intero sistema agroalimentare. Venia in questo modo a mancare una fetta importante, quella relativa alla fine del percorso, ovvero alla nostra nutrizione.

Articolo di “The Guardian”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 7 settembre 2021. Venti aziende zootecniche sono responsabili di più emissioni di gas serra di Germania, Gran Bretagna o Francia - e stanno ricevendo miliardi di dollari di sostegno finanziario per farlo, secondo un nuovo rapporto degli attivisti ambientali. L'allevamento del bestiame contribuisce significativamente alle emissioni di carbonio, con l'agricoltura animale che rappresenta il 14,5% delle emissioni di gas serra nel mondo. I rapporti scientifici hanno scoperto che i paesi ricchi hanno bisogno di enormi riduzioni nel consumo di carne e latticini per affrontare l'emergenza climatica – scrive The Guardian. Tra il 2015 e il 2020, le aziende globali di carne e latticini hanno ricevuto più di 478 miliardi di dollari di sostegno da 2.500 società di investimento, banche e fondi pensione, la maggior parte dei quali con sede in Nord America o in Europa, secondo l'Atlante della carne, che è stato compilato da Friends of the Earth e la fondazione politica europea, Heinrich Böll Stiftung. Con questo livello di sostegno finanziario, il rapporto stima che la produzione di carne potrebbe aumentare di altri 40 milioni di tonnellate entro il 2029, per raggiungere 366 milioni di tonnellate di carne all'anno. Anche se la maggior parte della crescita potrebbe avvenire nel sud del mondo, i maggiori produttori continueranno ad essere Cina, Brasile, USA e i membri dell'Unione Europea. Entro il 2029 questi paesi potrebbero ancora produrre il 60% della produzione mondiale di carne. In tutto il mondo, dice il rapporto, tre quarti di tutti i terreni agricoli sono utilizzati per allevare animali o per le colture per nutrirli. "Solo in Brasile, 175 milioni di ettari sono dedicati all'allevamento del bestiame", un'area di terra che è circa uguale all'"intera area agricola dell'Unione Europea". Il rapporto sottolinea anche il consolidamento in corso nel settore della carne e dei latticini, con le aziende più grandi che comprano quelle più piccole e riducono la concorrenza. L'effetto rischia di comprimere i modelli di produzione alimentare più sostenibili. "Per tenere il passo con questo [livello di produzione di proteine animali] l'allevamento industriale è in aumento e continua a spingere i modelli sostenibili fuori dal mercato", dice il rapporto. Il recente interesse mostrato dalle aziende di proteine animali per le alternative e i sostituti della carne non è ancora una soluzione, hanno detto gli attivisti. "Questo è tutto per il profitto e non sta realmente affrontando le questioni fondamentali che vediamo nell'attuale sistema alimentare incentrato sulle proteine animali che sta avendo un impatto devastante sul clima, sulla biodiversità e sta effettivamente danneggiando le persone in tutto il mondo", ha detto Stanka Becheva, un attivista per l'alimentazione e l'agricoltura che lavora con Friends of the Earth. La linea di fondo, ha detto Becheva, è che "dobbiamo iniziare a ridurre il numero di animali da cibo sul pianeta e incentivare diversi modelli di consumo". È necessaria anche una maggiore regolamentazione dell'industria della carne, ha detto, "per assicurarsi che le aziende paghino per i danni che hanno creato in tutta la catena di approvvigionamento e per ridurre al minimo ulteriori danni". Per quanto riguarda gli investimenti, Becheva ha detto che le banche private e gli investitori, così come le banche di sviluppo come la Banca Mondiale e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo devono smettere di finanziare progetti di produzione intensiva di proteine animali su larga scala. Rispondendo al rapporto, Paolo Patruno, vice segretario generale dell'Associazione Europea per l'Industria della Lavorazione della Carne (CLITRAVI), ha detto: "Non crediamo che nessun settore alimentare sia più o meno sostenibile di un altro. Ma ci sono modi più o meno sostenibili di produrre alimenti vegetali o animali e noi siamo impegnati a rendere più sostenibile la produzione di proteine animali". "Sappiamo anche che le emissioni medie di GHG [gas serra] nell'UE provenienti dal bestiame sono la metà della media globale. La media globale è di circa il 14% e la media dell'UE è del 7%", ha aggiunto. In Inghilterra e nel Galles, la National Farmers' Union ha fissato l'obiettivo di raggiungere zero emissioni nette di gas serra in agricoltura entro il 2040.

Dagotraduzione dal Guardian il 18 settembre 2021. I rifiuti degli allevamenti di mucche spesso contaminano il suolo e i corsi d’acqua, e contribuiscono alle emissioni di gas serra e all’acidificazione del suolo. Per risolvere questo problema, o almeno attenuarlo, un gruppo di scienziati tedeschi ha provato ad addestrare i bovini a fare i loro bisogni in un vasino. In Germania, i ricercatori dell’Istituto di ricerca per la biologia degli animali da fattoria (FBN) hanno provato un metodo chiamato approccio MooLoo per insegnare a un gruppo di vitelli a usare un bagno appositamente costruito nella loro stalla. In questo modo l’urina può essere raccolta e trattata. «I bovini, come molti altri animali, sono piuttosto intelligenti e possono imparare molto» ha raccontato Jan Langbein, psicologo animale. «Perché non dovrebbero essere in grado di imparare a usare il bagno?». I vitelli sono stati addestrati tramite un sistema di ricompense e punizioni lievi. Quando urinavano nell’area assegnata, veniva data loro una bevanda dolce o un po’ d’orzo schiacciato, mentre quando facevano la pipì in altri luoghi, venivano sorpresi da un breve getto d’acqua. Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Current Biology, dopo circa 15 sessioni di addestramento e in poche settimane, 11 dei 16 vitelli erano stati addestrati con successo. I cinque vitelli rimasti indietro, secondo i ricercatori, avevano solo bisogno di più tempo per imparare. Il team sta ora lavorando per creare un sistema automatizzato che potrebbe essere utilizzato per addestrare i vitelli senza quasi alcun intervento umano. «Vogliamo sviluppare una sorta di tecnologia dei sensori che sia all-inclusive» ha detto Langbein. La sua speranza è che «in pochi anni tutte le mucche andranno in bagno». L'ammoniaca prodotta nell'urina delle mucche non contribuisce direttamente alla crisi climatica, ma quando filtra nel suolo, i microbi la convertono in protossido di azoto, che è il terzo gas serra più significativo dopo il metano e l'anidride carbonica. L'agricoltura è la principale fonte di emissioni di ammoniaca, e l'allevamento di bestiame che rappresenta più della metà di questo contributo. Secondo Langbein, le prime stime suggeriscono che se l'80% dell'urina del bestiame fosse raccolta in una stalla, le emissioni di ammoniaca sarebbero ridotte di oltre la metà. 

I colossi della carne inquinano più della Germania e persino di Big Oil. Paola Rosa Adragna su La Repubblica il 9 settembre 2021. Le aziende zootecniche hanno un impatto ambientale significativo, ma nessun governo impone dei tetti alle emissioni di gas serra. E grazie ai miliardi di finanziamenti che ricevono la produzione di proteine animali non farà che aumentare. La produzione di carne sta mettendo a rischio la salute del Pianeta. Le prime 20 aziende zootecniche del mondo sono responsabili di più gas serra di quanto ne producano da soli Stati come la Germania, la Francia o il Regno Unito. Questi giganti della carne e dei latticini emettono insieme 932 milioni di tonnellate di CO2, mentre la Germania - che è il Paese che inquina di più tra i 3 - si ferma a 902. La multinazionale brasiliana Jbs, la più grande azienda zootecnica al mondo in base alle vendite, è responsabile da sola di più di un quarto di queste emissioni. Se si considerano le sole prime cinque queste insieme producono più anidride carbonica di big del petrolio come Exxon, Shell o Bp. Ricevendo miliardi di finanziamenti senza che i governi mettano un tetto alla loro possibilità di inquinare l'atmosfera.

Emissioni a confronto. Una fotografia allarmente scattata dal Meat Atlas 2021, l'ultimo resoconto in “fatti e cifre sugli animali che mangiamo” redatto dagli attivisti della rete ambientale Friends of the Earth Europe e dalla fondazione politica Heinrich Böll Stiftung. L'atlante mette insieme una serie di dati e ricerche di varie ong e di istituzioni per delineare l'impatto della produzione di carne sul mondo di oggi, clima compreso. L'allevamento rappresenta il 14,5% delle emissioni mondiali di gas serra. L'Organizzazione dell'alimentazione e dell'agricoltura delle Nazioni unite (Fao) stima che il 45% delle emissioni legate al bestiame provenga dalla produzione e dalla lavorazione dei mangimi, il 39% dalla fermentazione enterica - cioè il gas metano prodotto dall'apparato digerente dei ruminanti come bovini, ovini e caprini - e il 10% è attribuito allo stoccaggio e alla gestione del letame. Oltre il 90% delle emissioni dei produttori di carne proviene quindi dalla filiera o dagli animali stessi. In tutto il mondo tre quarti di tutti i terreni agricoli vengono utilizzati per allevare animali o le colture per nutrirli. Solo in Brasile sono dedicati all'allevamento 175 milioni di ettari, più dei campi coltivati in tutta l'Unione europea. A livello globale non un singolo governo richiede alle aziende zootecniche di documentare le proprie emissioni o standardizzare gli obiettivi di riduzione in modo da consentire confronti. L'intero settore si basa sull'autodichiarazione. E nonostante questo, secondo il rapporto, tra il 2015 e il 2020, queste aziende hanno ricevuto più di 400 miliardi di euro di sostegno da 2.500 società di investimento, banche e fondi pensione, la maggior parte con sede in Nord America o in Europa. Una cifra superiore ai 365 miliardi di euro che l'Unione europea destina ogni 7 anni alla politica agricola comunitaria.

A dove arrivano i soldi all'industria della carne. Per affrontare il cambiamento climatico e ridurre le emissioni molti studi hanno evidenziato come i Paesi più ricchi dovranno dimezzare il consumo di carne e latticini. Ma con finanziamenti di questo tipo, come stima l'atlante, la produzione di carne potrebbe aumentare di ulteriori 40 milioni di tonnellate entro il 2029. Raggiungendo i 366 milioni di tonnellate all'anno con Cina, Brasile, Stati Uniti e Paesi dell'Unione Europea responsabili del 60% dell'intera produzione mondiale, nonostante il consumo aumenterà specialmente nei Paesi in via di sviluppo. "L'attuale modello di produzione di carne e derivati ha un impatto devastante sul clima, sulla biodiversità e sta effettivamente danneggiando le persone in tutto il mondo", afferma al Guardian Stanka Becheva, attivista per l'alimentazione e l'agricoltura che lavora con Friends of the Earth. "Dobbiamo iniziare a ridurre il numero di animali da cibo sul Pianeta, incentivare diversi modelli di consumo e assicurarci che le aziende paghino per i danni che hanno creato lungo tutta la catena produttiva". Continuare di questo passo avrà conseguenze molto dure non solo sul clima ma anche sulla concorrenza - con le grandi aziende che acquistano le piccole schiacciando modelli di produzione più sostenibili - e sulla disparità di genere. Infatti più dei due terzi dei 600 milioni di allevatori poveri di bestiame del mondo sono donne che affrontano svantaggi perché hanno un accesso limitato a terreni, servizi e proprietà dell'azienda agricola.

I numeri degli allevamenti intensivi di polli sono spaventosi. Stefano Liberti su L'Espresso l'8 settembre 2021. Un secolo fa, per un errore di fornitura, nacquero i “polli in batteria”. Oggi negli Usa vengono prodotte 75 miliardi di uova all’anno e in Italia nel 2020 sono stati macellati 573 milioni di capi. Tutto comincia da Bwwaauk, l’ovaiola che ritrova se stessa. Fuggendo dal capannone in cui vive stipata insieme ad altre 150mila compagne di sventura, diventa la protagonista di una storia di riscossa, che coinvolge un manipolo di attivisti animalisti, due ispettrici statali pentite, la figlia del proprietario dell’allevamento trasformata in eco-terrorista e un numero imprecisato di galline in fuga. La storia non finisce granché bene per noi esseri umani, condannati infine all’estinzione, ma molto meglio per i pennuti d’allevamento, i cui discendenti ritroveranno insieme alla libertà la loro originaria natura selvatica e una sorta di ingegnosa intelligenza aviaria. Senza volerne spoilerare troppo la trama, il folgorante romanzo Capannone n. 8 di Deb Olin Unferth (edizioni Sur) è una specie di manifesto per la liberazione animale, che invita a riflettere sul rapporto stabilito nell’ultimo secolo tra l’homo sapiens e il bestiame che alleva. Neanche cent’anni sono infatti passati da quando videro la luce in Delaware, sulla costa est degli Stati Uniti, i primi allevamenti intensivi di polli. Le cronache narrano che l’industria nacque per errore: in un giorno imprecisato del 1923 una contadina del posto, Cecile Steele, ordinò 50 pulcini per produrre uova. L’addetto alle vendite comprese male l’ordine e gliene inviò 500. Invece di rimandarli indietro, la signora li chiuse in un capannone dando loro mais e integratori alimentari e vide che in poco spazio e con poco dispendio poteva far crescere un numero incredibile di animali. Li vendette quindi con profitto ai ristoranti della zona e ne ordinò altri 1.000. Poi diecimila. Poi ancora 26mila. La signora Steele avviò così un sistema di allevamento che si è diffuso in tutti gli Stati Uniti e poi nel mondo intero: oggi nel Delaware ci sono 200 polli per persona, mentre globalmente vengono allevati ogni anno 25 miliardi di galline da uova e polli da carne. La trovata di Steele ha contribuito a modificare profondamente il rapporto essere umano-animale e ha avviato una trasformazione genetica dei capi allevati, che devono oggi rispondere a un’unica esigenza: garantire la massima produzione nel più breve tempo possibile. Così, sono stati artificialmente selezionati i capi con petti più grandi, sono stati somministrati loro antibiotici e ormoni per la crescita, sono stati escogitati sistemi per stimolare le galline a deporre uova giorno e notte forzando i loro cicli biologici. Gli allevamenti sono diventati verticali, su più piani, giganteschi hangar capaci di contenere milioni di capi. Esperimenti sempre più rocamboleschi sono stati fatti per adattare gli animali alla crescente richiesta di carne degli esseri umani: nel 2002, il governo cinese ha persino inviato tre uova su una navicella in orbita intorno alla Terra, nella speranza di creare una razza aliena più resistente e produttiva (oggi le discendenti di quelle galline spaziali vivono all’aperto in una fattoria biologica vicino a Pechino). Di sperimentazione in sperimentazione, i polli da carne modificati geneticamente sono passati da un peso medio di un chilo a quattro chili dopo due mesi di vita. Le galline ovaiole sono passate dalle 100 uova l’anno covate in media negli anni ’40 alle odierne 300. Oggi, negli Stati Uniti vengono prodotti 75 miliardi di uova all’anno. In Italia nel 2020 sono stati macellati 573 milioni di polli, più di mille esemplari al minuto. Non li vediamo. O meglio, vediamo solo il risultato del processo: carne bianca messa sotto vuoto in involucri di plastica o uova allineate in confezioni di cartone. Se questi miliardi di volatili si trovassero improvvisamente a razzolare all’aperto, come la gallina Bwwaauk in fuga dal Capannone n. 8, probabilmente ci chiederemmo perché abbiamo trasformato questi animali in una massa di impulsi e carne. E probabilmente avremmo difficoltà a trovare una risposta sensata.

Cina e aziende del Nord Est: il doppio traffico di rifiuti e denaro. La Guardia di finanza nell’operazione Via della seta ha scoperto come centinaia di imprese hanno smaltito illegalmente tonnellate di metalli e un clan cinese ha riciclato centocinquanta milioni di euro. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 17 giugno 2021. Oltre mille aziende del Nord-Est hanno venduto in nero 150 mila tonnellate di rifiuti metallici da scarto di produzione a scatole vuote e le grandi acciaierie in Lombardia e Veneto hanno bruciato questo materiale non controllato. Centinaia di camion hanno fatto la spola in mezza Italia facendo finta di trasportare acciaio acquistato all’estero, con un inquinamento da smog enorme. Il tutto mentre due organizzazioni criminali internazionali, con base in Friuli, in Veneto e in Cina trasferivano illecitamente 150 milioni di euro a società fittizie con il sospetto della Guardia di finanza che dietro vi sia una delle più grandi operazioni di riciclaggio di denaro sporco avvenuto in anni recenti nel nostro Paese. Con cinesi che così avrebbero ripulito e inviato in Cina il nero fatto in Italia, probabilmente anche attraverso attività illecite come prostituzione e traffico di stupefacenti oltre al non fatturato nel commercio.  La Guardia di finanza di Pordenone guidata dal comandante Stefano Commentucci dopo tre anni di indagini ha scoperto un grande traffico di rifiuti alimentato da centinaia di aziende che hanno frodato il Fisco per quasi 300 milioni di euro e un sistema molto sofisticato che ha consentito di riciclare decine di milioni di euro ad una organizzazione criminale cinese con sede in Italia e punti di appoggio in Cina: cinque imprenditori veneti e friulani sono finiti agli arresti, altre 53 persone sono indagate mentre le Fiamme gialle adesso cercano il gran capo cinese che si è presentato agli italiani proponendo il riciclaggio e mettendo sul piatto 150 milioni di euro di denaro contante: un pezzo grosso, un capo dei capi probabilmente dei clan cinesi con base in Italia. Ma su questo vige il più assoluto riserbo tra gli inquirenti, al momento. La storia è complessa ma lo schema utilizzato dalle due organizzazioni criminali, italiana e cinese, è alla fine sintetizzabile in questo modo: centinaia di aziende della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna per smaltire gli scarti metallici da produzione, senza pagare le imposte e senza garantire il controllo dell’origine dei materiali, hanno venduto in nero 150 mila tonnellate di rame, ottone, alluminio e altri metalli a delle società (Metal Nordest, Femet ed Ecomet) create da tre imprenditori, Stefano Cossarini, Roger Donati e Fabrizio Palombi: quest’ultimi facevano finta poi di acquistare lo stesso quantitativo di materiale da tre società in Repubblica Ceca e in Slovenia, a loro volta intestate o controllate da loro: la Kovi Trade, la Steel distribution e la Biotekna. In questo modo con delle carte fasulle si certificava l’origine di questo materiale dall’estero. Ma in realtà i metalli erano stati comprati in nero in Italia e venivano poi venduti con “regolari” certificazioni alle grandi acciaierie del Nord: a quanto pare a loro insaputa, visto che tutte le certificazioni erano a posto e dichiaravano la provenienza dall’estero. Ma l’operazione non finisce qui: formalmente le tre società della Slovenia e della Repubblica Ceca ricevevano i bonifici della Metal Nordest, della Femet e della Ecomet e quindi incassavano soldi veri, circa 150 milioni di euro. A questo punto, sempre fittiziamente, le tre società estere facevano finta di acquistare a loro volta il materiale ferroso in Cina, facendo quindi ulteriori pagamenti veri accreditati in un conto cinese. E qui entra in gioco il clan criminale della Cina: la Guardia di finanza con delle intercettazioni e il posizionamento di telecamere ha scoperto che gli imprenditori italiani si davano appuntamento in centri commerciali cinesi all’ingrosso a Padova e Milano e qui ricevevano da cinesi buste con i soldi in contanti: «In sintesi, i cinesi italiani riuscivano così a far arrivare in Cina del denaro eludendo tutte le norme sull’antiriciclaggio, e gli italiani si vedevano tornare indietro i soldi spesi per acquisti fittizi di materiale metallico che servivano a “pulire” quello acquistato in nero da moltissime fabbriche e fabbrichette del Nord-Est», dice il comandante Commentucci. Questo grande traffico illecito di metalli ha comunque coinvolto ben 7 mila camion che hanno trasportato questo materiale, ma altre centinaia di camion hanno girato per il Nord Italia del tutto vuoti, facendo finta di trasportare il materiale acquistato in Slovenia e Repubblica Ceca. Ieri su delega della Direzione Distrettuale Antimafia di Trieste, sono state fatte cinquanta perquisizioni nelle provincie di Udine, Gorizia, Treviso, Padova, Belluno, Verona, Venezia, Brescia e Como. E, assicurano gli inquirenti, questa storia non finisce qui perché resta una domanda di fondi: chi è il clan cinese con base in Italia che ha una liquidità di 150 milioni di euro, soldi tutti fatti in nero, che si è messo a disposizione degli italiani?

Brescia, dall'inchiesta sui fanghi tossici nei campi le intercettazioni shock: "Quel mais lo mangiano i bambini". La Repubblica il 27 maggio 2021. Le parole sono di Antonio Carucci responsabile commerciale della Wte. Sotto sequestro sono finiti gli impianti a Calcinato, Calvisano e Quinzano della società bresciana i cui vertici sono indagati. Sapevano che stavano lavorando contro le regole, ma non si sono fermati se non quando la loro azienda è stata perquisita due estati fa. E la consapevolezza di quanto stavano facendo emerge da alcune intercettazioni inquietanti. Come quella del 31 maggio 2019. "Io ogni tanto ci penso, cioè, chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuto sui fanghi", dice Antonio Carucci. È il geologo di origine milanese addetto alle vendite della Wte srl, azienda bresciana, presieduta da Giuseppe Giustacchini, da anni nel mirino di ambientalisti e residenti e ora al centro di un'inchiesta della Procura bresciana che contesta la vendita di 150.000 tonnellate di fanghi contaminati da metalli pesanti, idrocarburi ed altre sostanze inquinanti spacciati per fertilizzanti e smaltiti su circa 3.000 ettari di terreni agricoli nelle regioni Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna. Parlando con una collega che gli dice che quello che stanno facendo "è per il bene dell'azienda", Carucci risponde: "Siamo talmente aziendalisti da non avere più pudore". Sotto sequestro sono finiti gli impianti a Calcinato, Calvisano e Quinzano della Wte i cui vertici sono indagati. Quindici complessivamente i coinvolti. Sei di loro hanno evitato l'arresto in carcere e altri due i domiciliari come avrebbe voluto la Procura bresciana che si è invece vista rigettare la richiesta da parte del gip che non ha ravvisato la necessità di applicare misure cautelari perché da agosto 2019 l'attività di traffico illecito di rifiuti della azienda bresciana di sarebbe fermata, o quantomeno rallentata, dopo una prima perquisizione dei carabinieri forestali. "Dalle tabelle emergono dati impressionanti" scrive il gip nella sua ordinanza che ha portato al sequestro degli impianti. "Nei campioni dei gessi in uscita dall'azienda e in spargimento le sostanze inquinanti (fluoruri, solfati, cloruri, nichel, rame, selenio, arsenico, idrocarburi, zinco, fenolo, metilfenolo e altri) erano decine, se non addirittura centinaia di volte superiori ai parametri di legge". Tra gli indagati, con l'accusa di traffico di consulenze illecite, figura anche Luigi Mille, direttore generale dell'Aipo, autorità interregionale per il fiume Po, che, si legge nell'ordinanza, sfruttando relazioni esistenti con il sindaco del Comune di Calvisano e relazioni esistenti o comunque asserite con altri pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio e in particolare il presidente di Coldiretti Ettore Prandini, l'assessore regionale all'Agricoltura Fabio Rolfi, Fabio Carella, direttore generale di Arpa Lombardia e Guido Guidesi, assessore regionale lombardo allo Sviluppo Economico, (nessuno di loro è indagato) "indebitamente - scrive il gip - si faceva dare e promettere da Giuseppe Giustacchini denaro, vantaggi patrimoniali ed altre utilità quali il prezzo della propria mediazione illecita verso i suddetti pubblici ufficiali, finalizzata a favorire le attività imprenditoriali condotte da Giustacchini quale titolare della Wte srl". "Confidiamo che chi ha commesso questa azione criminale contro l'ambiente, l'ecosistema e la salute dei cittadini paghi in modo "esemplare": ed applicare quel sano principio "Chi inquina paga"", spiega il coordinamento provinciale dei Verdi di Brescia che aggiunge: "laddove si dovessero riscontrare profili penali che hanno rischiato di compromettere la salute dei cittadini, la Federazione dei Verdi-Europa Verde Brescia è pronta a costituirsi parte civile in un eventuale procedimento giudiziario".

Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 27 maggio 2021. «Sono un mentitore. A un piemontese ho raccontato che personalizziamo la ricetta del correttivo in base al pH del terreno. Io finisco all' inferno». E giù una bella risata. «A Sizzano bei posti che hanno sono veramente belli, proprio paesisticamente (sigh). Andiamo proprio a rovinarli con i gessi». Altra risata. «Io sono stato un delinquente. Chissà il bambino che mangia la pannocchia di questo mais cresciuto sui fanghi». E, almeno qui, non ride nessuno. Per avere un'idea di cosa sia la «terra dei fanghi» tutta padana descritta nell' ordinanza firmata dal gip di Brescia Elena Stefana basta scorrere le telefonate del geologo Antonio Carucci, addetto alle vendite della «Wte srl», intercettato dai carabinieri forestali guidati dal comandante Pier Edoardo Mulattiero. Nelle parole del geologo c' è già una sintesi del sistema di smaltimento illecito dei rifiuti che, tra l'inizio del 2018 e il maggio del 2019, avrebbe fruttato guadagni per 12 milioni di euro e inquinato tremila ettari di terreni agricoli da Vercelli a Verona, insozzando con 150 mila tonnellate di concimi contaminati anche il Novarese il Piacentino e le province lombarde. Sono quattordici le persone indagate insieme a Giuseppe Giustacchini, amministratore delegato e direttore tecnico della Wte. Fra queste, oltre a dipendenti e collaboratori della Wte, c' è Luigi Mille, direttore generale dell'Aipo (l' autorità interregionale per il fiume Po) che è accusato di influenze illecite: avrebbe fatto da mediatore fra Giustacchini e alcuni rappresentanti istituzionali. Il gip ha respinto le 8 misure cautelari chieste dalla procura. Il sistema ruotava intorno ai tre impianti bresciani di Calvisano, Calcinato e Quinzano d' Oglio, oggi sotto sequestro: i fanghi, provenienti da depuratori pubblici e privati, dopo un «sommario trattamento di recupero...quali elettroliti derivanti da batterie esauste e acido solforico esausto», venivano fatti uscire come «gessi di defecazione da fanghi» creando ad hoc dei campioni utili a passare i controlli. In realtà la «pappa», come la chiamavano in gergo gli addetti della Wte, non rispettava i parametri di legge perché conteneva dosi eccessive di metalli pesanti e inquinanti di ogni tipo. La lista è lunga: stagno, idrocarburi, toluene, fenolo, solfati, floruri, cianuri, nichel, rame, selenio, arsenico. A questo punto i Tir e gli spargiletame partivano verso i campi degli ignari agricoltori che accettavano di «concimare» i loro terreni con i fanghi pagando cifre irrisorie oppure in cambio di denaro o di alcuni lavori. «Gli ho detto che è solo roba di scarti di lavorazione di frutta, verdura, tutte ché le bale le go dit (tutte quelle balle gli ho detto, ndr) - racconta un altro indagato - Te l' ho béle entortàt, so ok? (te l' ho già intortato, ndr). Gli ho detto che gli fai l'aratura». È nel rapporto con i «clienti» che gli attori di questa economia circolare criminale in cui le uniche unità di misura sembrano essere i piò (gli appezzamenti da 3.200 metri quadrati in dialetto bresciano) da riempire e gli sghèi che se ne ricavano, mostrano il loro volto più inquietante. Gli investigatori scrivono che «approfittano di circostanze di minorata difesa quali l' età avanzata, lo scarso livello culturale o le difficoltà psichiche delle persone a cui si rivolgevano». Cristian Franzoni, ad esempio, uno degli autisti del gruppo, parlando di due agricoltori da convincere, non ha problemi a puntare sull' anello debole: «C' è suo cugino, quello che mangia le nutrie; pur di risparmiare farebbe di tutto. Teniamocelo buono». 

Pietro Gorlani e Mara Rodella per corriere.it il 26 maggio 2021. «Io ogni tanto ci penso eh… Chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi… Io sono stato consapevolmente un delinquente». Così parla Antonio Maria Carucci, laureato in Scienze geologiche e a libro paga della Wte, al telefono con Simone Bianchini, un contoterzista che quei fanghi li spandeva nei campi della bassa bresciana. Lasciano di sasso le intercettazioni telefoniche e ambientali condotte dai Carabinieri Forestali su delega della procura, contenute nelle 204 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Elena Stefana nell’ambito dell’inchiesta che conta 15 indagati e ha portato al sequestro della ditta bresciana produttrice di fanghi e gessi di defecazione. Ben 150 mila le tonnellate finite nei campi degli agricoltori dal gennaio 2018 al 6 agosto 2019. Agricoltori spesso ignari del potere inquinante di quelle sostanze, che — a detta di Arpa e del consulente della procura, l’ingegner Santo Cozzupoli — erano veri e propri rifiuti. Agli agricoltori gli addetti della Wte raccontavano si trattasse di scarti della produzione agroalimentare. «Sono un mentitore!... Io…finisco all’inferno» dice ridendo in modo spregiudicato ancora Carucci (ex dipendente della Cre srl di Sesto San Giovanni, che si occupa di trattamento di fanghi della depurazione in agricoltura, con alle spalle una condanna per traffico illecito di rifiuti) al telefono con Ottavia Ferri, dipendente della Wte, che replica, sempre ridendo: «Lo facciamo per il bene dell’azienda!». L’azienda è quella dell’ingegner Giuseppe Giustacchini, amministratore delegato della Wte, finita al centro di esposti e denunce presentati dai cittadini già dal 2011 per le molestie olfattive prodotte dai fanghi. La Provincia negli anni le ha più volte contestato l’irregolarità delle lavorazioni, imponendo migliorie agli impianti e Arpa ha dimostrato il carico inquinante di quei fanghi, con il superamento dei limiti soglia per zinco, stagno, idrocarburi, toluene, fenolo, cianuri, cloruri, nichel-rame, solfati, arsenico, selenio. Ma è solo con l’inchiesta scattata a gennaio 2018, condotta dal pm Mauro Tenaglia (trasferito a Verona) e passata al collega Teodoro Catananti, che i Carabinieri Forestali dimostrano le condotte illecite e spregiudicate del «re» bresciano dei fanghi, dei suoi collaboratori e dei contoterzisti pagati (fino a 100 mila euro al mese) per spargerli sui terreni agricoli. Fanghi che stando all’accusa non venivano lavorati a norma di legge, risparmiando così una montagna di soldi, tanto che Giustacchini poteva recuperare la materia prima da società pubbliche e private ad un prezzo imbattibile. Dalle analisi prodotte con le autocertificazioni tutto però era regolare. Giustacchini ha potuto contare anche sul supporto di Luigi Mille, direttore dell’Agenzia Interregionale per il fiume Po, che aveva un rapporto di consulenza con Giustacchini ed è finito indagato per traffico di influenze illecite. «Sfruttando relazioni esistenti con Giampaolo Turini (ex sindaco di Calvisano) e relazioni esistenti (o comunque asserite) con altri pubblici ufficiali — scrive il gip nell’ordinanza — in particolare con Ettore Prandini (presidente Coldiretti), Fabio Rolfi (assessore all’agricoltura di Regione Lombardia), l’onorevole Guido Guidesi (ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio), Fabio Carella (direttore generale Arpa Lombardia), Loredana Massi (funzionaria ufficio rifiuti della Provincia), nonché con il sindaco di Calcinato Nicoletta Maestri, intrecciate (o da intrecciarsi) per il tramite del segretario provinciale della Lega Alberto Bertagna, indebitamente si faceva dare e promettere da Giustacchini denaro, vantaggi patrimoniali e altre utilità (regalie, incarichi di consulenze) quale prezzo della propria mediazione illecita verso i suddetti pubblici ufficiali». Autorità pubbliche, deve essere molto chiaro, che non sono in alcun modo coinvolte nell’indagine ma che Mille sosteneva di poter contattare. Ettore Prandini ad esempio ci tiene a precisare che «non è mai stato contattato da Mille in merito alla Wte» e sottolinea il suo impegno e quello di Coldiretti «contro l’uso dei gessi di defecazione in agricoltura e per la tracciabilità dei fanghi, unica organizzazione agricola a farlo non solo a Brescia ma su tutti i tavoli nazionali». Idem l’ex sindaco di Calvisano, Turini, che due anni fa fece anche un’ordinanza per vietare lo spargimento di fanghi sul suo territorio (impugnata al Tar da Giustacchini). L’ingegner Mille invece l’ 8 agosto 2018 viene intercettato negli uffici del settore Ambiente della Provincia, dove sollecita la funzionaria Massi in merito all’autorizzazione per il nuovo impianto Wte a Calcinato («sono venuto qui per la solita cosa, che aspetta una delibera…»), sentendosi rispondere che l’istanza era inammissibile: «L’è impossibile quel che domanda quel gnaro lì…sono arrivati i corpi di polizia e gli hanno fatto un casino». La procura aveva chiesto alcune misure personali: gli arresti domiciliari nei confronti di Mille e di Cristian Franzoni (un contoterzista) e la custodia cautelare in carcere invece per Giustacchini e altri suoi dipendenti o terzisti che spargevano fanghi (oltre a Carucci anche Ottavia Ferri, Simone Bianchini, Vittorio Balestrieri, Gabriele Fogale). Per il gip, però, gli illeciti più gravi sono cessati dall’agosto 2019, con un primo blitz delle forze dell’ordine in azienda. Quindi non si ravvisa il rischio di reiterazione del reato o dell’inquinamento probatorio, viste le prove già raccolte in abbondanza. Il giudice ha però disposto il sequestro di 12,36 milioni di euro (per gli illeciti profitti ottenuti dal 1 gennaio 2018 al 6 agosto 2018): oltre 11 milioni a carico della Wte, altri 683 mila euro alla società lavorazioni agricole Gruppo Bianchini di Mazzano, 173 mila euro alla la società Agri E.N.T. srl di Calvisano, 81 mila euro alla società Franzoni Luca e Oscar (riconducibile a Cristian Franzoni) di Calvisano e 127 mila euro alla società di Balestrieri Vittorio &C-sas di Castelvisconti (Cr). Nelle tante intercettazioni finite agli atti è però Giuseppe Giustacchini che (parlando con Simone Bianchini e Carucci) palesa come i fanghi non venissero trattati secondo le norme di legge, impartisce ordini su come camuffarli ed esprime la volontà di trovare a tutti i costi terreni dove spargerli («non mi faccio inc… dalla Forestale perché voi non mi avete trovato i terreni, perché la prossima volta mi chiudono eh!»). A lui e ai suoi sodali vengono contestati anche i reati di molestie olfattive e la creazione di discariche abusive, per la quantità abnorme di fanghi sparsi sui terreni decine di volte oltre i limiti consentiti.

Raccolta rifiuti in Sicilia e Calabria, così le mafie entrano nelle società chiedendo assunzioni. I casi delle amministrazioni giudiziarie chieste dalle procure di Reggio Calabria e Catania per provare a ripulire due grandi aziende del settore: Avr e Tech servizi. Un dirigente diceva: “Se c’è il posto di lavoro si prendono quello, una volta ti venivano a cercare per soldi”. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 21 aprile 2021. Non chiedono più il pizzo o di entrare in società. Ma vogliono assunzioni e, se è possibile, subappalti. Ma preferibilmente assunzioni, perché nelle terre più povere d’Europa il lavoro, e relativo stipendio, vale come oro. In cambio aiutano le imprese a vincere gli appalti e garantiscono la “sicurezza”. Le mafie entrano così ormai nella gestione di uno dei pochi business legali, almeno sulla carta, rimasti a Sud di Roma: i rifiuti, la raccolta l’immondizia che solo tra Calabria e Sicilia muove ogni anno 1,5 miliardi di euro di soldi pubblici, pagati tutti con la Tari. Come dimostrano due operazioni della procura di Catania e della procura di Reggio Calabria che hanno messo in amministrazione giudiziaria, evitando al momento sequestri e poi confische, due grandi aziende nel settore dei rifiuti e degli appalti collegati: la Tech servizi in Sicilia e la Avr, colosso romano del settore che da anni si occupa della manutenzione strade e della raccolta porta a porta a Reggio Calabria e dintorni. Due aziende che fatturano insieme quasi 250 milioni di euro e danno lavoro a oltre duemila persone. 

L’azienda siciliana regina degli appalti. La storia della Tech servizi è emblematica perché a cercare l’appoggio del mafioso competente per territorio, dai clan siciliani fino a quelli della ‘ndrangheta, sono per primi gli imprenditori. La procura di Catania guidata da Carmelo Zuccaro, con un provvedimento del pubblico ministero Fabio Regolo, ha incrociato i dati derivanti da decine di indagini che avevano sfiorato la società e così ha chiesto e ottenuto all’amministrazione giudiziaria di questa azienda in grande ascesa nell’Isola. La Tech servizi, della famiglia La Bianca di Siracusa, che dal 2008 ad oggi ha visto passare il suo fatturato da 6 milioni di euro a 40 milioni, diventando una delle principali società nel settore rifiuti in Sicilia. Ha iniziato con alcuni sub appalti a Siracusa e a Palermo, dove era incappata nella storia dei cestini “spagnoli”, un’operazione fatta dalla vecchia azienda municipalizzata Amia che aveva affittato i cestini pagando canoni d’oro. Poi la Tech è cresciuta e con appalti e affidamenti diretti ha avuto incarichi in mezza Sicilia, da Bagheria a Vittoria, da Fiumefreddo a diversi Comuni del Siracusano. Secondo i i magistrati questa ascesa è stata «sostenuta» dalla mafia, che in cambio ha ottenuto assunzioni. Tra il 2019 e il 2020, secondo la procura di Catania e il provvedimento firmato dal pm Regolo, la società amministrata da Christian La Bella ha «intrattenuto rapporti di natura economica con diversi esponenti delle consorterie criminali attive in diverse aree della Sicilia e della Calabria». Una reciproca «convenienza che ha consentito alla Tech servizi di aumentare in maniera assai significativa il suo volume di affari e alle cosche di ottenere assunzioni e l’impiego dei propri mezzi». Sebastiano Mortellaro, già procuratore della Tech servizi, intercettato dalla Dda di Catania diceva: «Cercano di prendersi il lavoro, bello chiaro! Se c’è il posto di lavoro si prendono quello, una volta ti venivano a cercare 500 euro al mese, ora dice “c’è mio figlio senza lavoro, fallo lavorare”…perché sanno che c’è solo carcere…poi l’andazzo dei pentiti vedi che li ha ammazzati a tutti». La Bella ha contatti con i mafiosi referenti nelle varie province. A Catania ha «contatti reiterati e finalizzati alla conclusione di affari economici, in particolare di gare di appalto in diverse aree dea Sicilia Orientale, con la criminalità organizzata e, in particolare, con Giuseppe Guglielmino del clan Cappello-Bonaccorsi». Per ripulire alcune società finite sotto la lente di ingrandimento della procura, Guglielmino grazie a La Bella crea una Ati d’impresa con la Tech servizi e altre due società ripulite, ma una delle quali sempre nelle sue mani con prestanome: la Clean up e la Eco Business. A raccontare come sono andate le cose è lo stesso Guglielmino intercettato con la moglie dopo una cena per festeggiare l’accordo con La Bella e altri soci: «Ha portato 100 mila euro, li ha messi nell’atto, a giorni lo scrivono». Questa Ati inizia così ad aggiudicarsi diversi appalti di raccolta rifiuti nel Catanese «dove l’egemonia del clan Cappello-Bonaccorsi si manifesta in modo pieno finanche a confrontarsi con le ulteriori realtà che esistono», scrive il pm Regolo. Così in poco tempo l’Ati inizia a ricevere affidamenti diretti e ad aggiudicarsi appalti a Fiumefreddo, Giarre, San Gregorio. Ed erano i mafiosi ad andare al Comune quando l’ente non pagava in tempo, come fa Carmelo Ferlito a Mascalucia.  A Ragusa La Bella ha contatti con Franco Giudice, sodale del clan Mormina: nella Tech Servizi vengono assunti un figlio di Giudice e la sua convivente. Il gruppo vince una gara a Scicli. E intercettato Guglielmino dice: «C’è Christian, c’è il napoletano. Io gli do i mezzi e gli operai, lui fa la fattura, prende i soldi e mi gira il 50 per cento. Meglio di così?». A Vittoria, come sciolto per mafia, nel 2019  la Tech servizi di La Bella ottiene un affidamento per somma urgenza. Scrive il magistrato Regolo: «I contatti del La Bella con i membri dell’amministrazione comunale di Vittoria sono iniziati già nel 2015 quando tramite Carmelo Mancuso che, già assunto alla Tech, favoriva un incontro tra il La Bella e l’allora sindaco pro tempore di Vittoria». La Tech ha poi ottenuto affidamenti a Bagheria dall’amministrazione 5 stelle dopo il fallimento dell’azienda Coime, poi chiusa perché infiltrata dalla mafia, e puntava a crescere in Sicilia Occidentale, a Palermo e Marsala. La Bella vuole crescere anche oltre la Sicilia e punta ad espandersi con la sua azienda in Calabria. E qui, tramite il suo procuratore Mortillaro, allaccia rapporti con Francesco Barreca, uno dei vertici della cosca De Stefano. Intercettato La Bella dice: «Sono persone che valgono oro, cento, valgono cento….minchia dove arrivano arrivano». Alla luce di tutto questo il pm Regolo ha chiesto e ottenuto l’amministrazione giudiziaria per la Tech con l’obiettivo di ripulire la società dalle infiltrazioni ed evitare quindi sequestri e poi confische dell’azienda. Un provvedimento innovativo, che punta a restituire la società ai proprietari una volta ripulita dalle infiltrazioni. Facendola quindi rimane sul mercato, almeno provandoci per il momento.

Il grande gruppo romano sceso in Calabria. La procura di Reggio Calabria, guidata da Giovanni Bombardieri, in una operazione coordinata  dall’aggiunto Gaetano Paci ha condotto una lunga inchiesta sulla Avr: azienda molto nota con base a Roma, 200 milioni di fatturato e 1.700 dipendenti. La Avr si occupava da tempo della manutenzione strade in provincia di Reggio Calabria e due anni fa ha vinto l’appalto per la raccolta dei rifiuti. Lo scorso anno è stata messa in amministrazione giudiziaria per sei mesi, da poco rinnovati per altri sei. L’indagine, condotta dai carabinieri, nasce dalle dichiarazioni del collaboratori di giustizia Vincenzo Cristiano, che indica un dipendente della Avr quale referente delle cosche. E interrogato dai pm Stefano Musolino, Walter Ignazitto e Alessandro Moffa, afferma: «Sì, perché Angelo Benestare…mi ha detto che voleva lavorare, ma quindi io siccome conosco Andrea Maviglia (dipendente della società), gli ho detto vediamo, se non all’Avr, l’altra società dell’Avr che è l’Ase». Un altro collaboratore di giustizia riferiva ai magistrati che «Maviglia si era allontanato dai clan De Stefano e su suo consiglio era stato “sostituito” da Giglio Genovese (dipendente Avr) quale referente della cosca all’interno della società». In un caso, scrivono i pm, lo stesso Cristiano si era rivolto all’Avr tramite Maviglia: «Gli ho chiesto la cortesia per far assumere un ragazzo a Villa temporaneamente e l’ha fatto. Su Campo Calabro, pure, in tutti i Comini, su Scilla, tutti tutti …quello dove andava, poi il sindaco o l’assessore di turno, gli indicava un nome». Il collegio che ha dato il via libera all’amministrazione giudiziaria conclude così: «Dalle complessive risultanze emerge chiaramente la permeabilità delle società Avr e della controllata Ase rispetto ad infiltrazioni della criminalità organizzata, nonché la agevolazione effettuata dalle imprese proposte con il favore di più soggetti legati alle locali cosche di ‘ndrangheta. Ciò risulta dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Lucibello, Aiello e Cristiano, i quali hanno espressamente riferito dell’infiltrazione dell’azienda da parte delle cosche reggine, in particolare della cosca De Stefano, notoriamente egemone nella città di Reggio Calabria attraverso i suoi esponenti di vertice Paolo Caponera e Paolo Rosario De Stefano». E poi prosegue: «La predetta infiltrazione mafiosa, attraverso il consueto strumento del subappalto, risulta altresì dai rapporti contrattuali intrattenuti con numerosi soggetti appartenente alla ‘ndrangheta, in particolare i citati Francesco Maduli e il figlio Giuseppe (vicini alla cosca Pesce/Cacciola), Domenico Pelle (appartenente alla costa di San Luca), Leonardo Capogreco (henero di Giuseppe Commisso , capo della cosca omonima) e Domenico Laurenti (attualmente detenuto per partecipazione alla cosca Alvaro a cui appartiene il citato Cosimo Alvaro, in diretti rapporti con il dipendente Avr Purrone) nella consapevolezza in capo ai dirigenti apicali Avr della caratura criminale dei citati personaggi».  

Arriva Bubble Barrier, l’ostacolo per i rifiuti di plastica per gli oceani più puliti. Elisabetta Panico su Il Riformista l'8 Giugno 2021. E’ un’idea geniale quella della “Bubble Barrier“, in italiano barriera di bolle, che ha tutti i requisiti necessari per essere d’aiuto all’inquinamento degli oceani. “The Bubble Barrier” è stato sviluppato in un modo molto semplice ed è in grado di intrappolare l’86% dei rifiuti che altrimenti finirebbe negli oceani. E’ composto da un compressore d’aria che invia l’aria attraverso un tubo perforato che corre diagonalmente sul fondo del mare, creando un flusso di bolle che intrappola i rifiuti e li guida verso un sistema di raccolta. La Bubble Barrier è stata installata nell’ottobre 2019 in meno di cinque ore ad Amsterdam e ha confermato la percentuale bloccata di rifiuti che altrimenti fluirebbe nel fiume IJssel e più avanti nel Mare del Nord, secondo Philip Ehrhorn, co-fondatore e chief technology officer di The Great Bubble Barrier, l’impresa sociale olandese dietro il sistema. Ehrhorn dice che l’idea è quella di catturare la plastica senza avere una barriera fisica come una rete o un braccio che blocca il fiume, che potrebbe disturbare la vita acquatica o interferire con la navigazione. Il compressore si trova a 50 metri di distanza dalla barriera, all’interno di un apposito container ed è alimentato da energia rinnovabile. Secondo Ehrhorn, la piccola vita acquatica alla deriva può rimanere impigliata nella corrente della cortina di bolle, ma con il tempo è in grado di passare attraverso il sistema di raccolta. Ora un’azienda esterna sta studiando il movimento dei pesci intorno alla barriera. Ehrhorn, di origine tedesca e con una laurea in architettura navale e ingegneria oceanica ha avuto l’idea mentre trascorreva il suo Erasmus in Australia. “E’ come una vasca idromassaggio – ha detto Ehrhorn – Quello che ho notato è che parte della plastica che le persone avevano buttato nel water si stava raccogliendo in un angolo“. Quello che Ehrhorn non sapeva che contemporaneamente a lui, altre tre donne olandesi stavano lavorando alla stessa idea ad Amsterdam.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 aprile 2021. Uno studio, pubblicato sulla rivista Science la scorsa settimana, ha scoperto che ogni anno più di 1.000 tonnellate di minuscole particelle di plastica, l'equivalente di oltre 120 milioni di bottiglie, cadono sulla Terra insieme alla pioggia. Le particelle, troppo piccole per essere viste ad occhio nudo, vengono sospinte dal vento. Sono così leggere che rimangono in aria e spesso viaggiano per centinaia, persino migliaia di chilometri intorno al globo. E mentre salgono nell'atmosfera, agiscono come nuclei attorno ai quali il vapore acqueo si condensa per formare le nuvole. L'allarme è stato lanciato da Craig Bennett, amministratore delegato del British Wildlife Trusts, che ha definito il crescente utilizzo di plastica monouso una «enorme, enorme preoccupazione». Un recente studio statunitense ha dimostrato che oltre il 98% dei campioni di pioggia e aria raccolti in 14 mesi in 11 delle parti più remote del paese erano inquinati da microplastiche. Alcune microplastiche sono prodotte appositamente per una serie di prodotti come dentifrici, detergenti, cosmetici, vernici e detergenti. Altre derivano dall'usura di prodotti come pneumatici o tessuti sintetici: secondo un calcolo, un lavaggio in lavatrice produce 700.000 fibre microplastiche. La maggior parte però proviene dai pezzi di plastica più grandi che buttiamo via. Ogni singolo grammo degli otto miliardi di tonnellate di plastica - il peso di oltre un miliardo di elefanti - che il mondo ha prodotto è ancora in circolazione. Invece di degradarsi, la plastica si scompone in pezzi sempre più piccoli; un sacchetto di plastica buttato via decenni fa rimane ancora, in innumerevoli minuscoli pezzi di microplastica che circondano il globo. E più passa il tempo, più piccoli - e più pericolosi e disperdibili - diventano i pezzi. Sono state trovate microplastiche che ricoprono le Alpi più alte e il fondo della Fossa delle Marianne, il punto più profondo degli oceani del mondo. Si trovano sulle spiagge delle Maldive e nel ghiaccio artico e antartico. Si ritiene che fino a 125 trilioni di minuscole particelle di plastica inquinino gli oceani del mondo. E più di mezzo milione di tonnellate si siano accumulate nei suoli cinesi. Le particelle influenzano la struttura del suolo, per esempio provocando la germinazione di un minor numero di semi e rallentando la crescita delle piante e delle colture. E anche quelle degli animali: hanno portato alla riduzione delle dimensioni e del peso dei lombrichi, influenzato la capacità dei pesci di galleggiare e ridotto quella di cozze e ostriche di filtrare l'acqua. È stato dismotrato che le microplastiche diminuiscono l'alimentazione di alcune specie e in altre attraversano la barriera emato-encefalica. Causano danni fisici agli organi interni, ma questo è solo un aspetto del pericolo che rappresentano. Circa tre quarti dei prodotti di plastica di uso quotidiano contengono sostanze chimiche tossiche. Tra i più pericolosi ci sono gli ftalati e il bisfenolo A. Si tratta di sostanze chimiche che causano danni fisici e problemi di riproduzione. Ed è stato provato che la microplastica può attrarre altre sostanze dannose, come pesticidi e batteri, e trasportarle nell'organismo. Non c'è motivo per pensare che gli esseri umani ne siano immuni.  Le particelle entrano nei raccolti e si accumulano nelle catene alimentari su cui facciamo affidamento. Uno studio della Plymouth University ha scoperto che un terzo del pesce catturato dalle imbarcazioni britanniche - tra cui merluzzo, eglefino e sgombro - ne conteneva. Microplastiche sono state trovate anche nel sale, nello zucchero, nella birra e nella carne di pollo. Un'indagine sull'acqua del rubinetto nei cinque continenti ha rilevato che l'83% di tutti i campioni prelevati era inquinato da particelle di plastica. E l'acqua in bottiglia normalmente ne contiene molto di più. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Environment Science and Technology, le persone consumerebbero circa 50.000 particelle microscopiche all'anno in cibi e bevande. E altre 24.000 vengono respirate con l'aria. Per lo più queste sostanze vengono espulse: alcuni studi hanno trovato un'ampia gamma di diverse microplastiche nelle feci umane. Ma altre ricerche indicano che alcune di queste rimangono nel corpo e nei suoi organi, inclusi fegato, reni e cervello. Uno studio condotto in Italia ad inizio anno ha mostrato che le microparticelle sono state trovate sia sul lato materno che su quello fetale della placenta, conseguenza di un passaggio dalla madre al piccolo. Ad oggi non sappiamo però quale effetto possa avere su di noi. Come riconosciuto dalla Royal Society, gli studi sono «alla prima infanzia».

Antonio Signorini per “il Giornale” il 2 aprile 2021. I rifiuti diminuiscono ma la Tari continua ad aumentare un po' ovunque. Come se non bastasse, la riforma che avrebbe dovuto rendere più equa una tassa che si gioca con l'Imu il primato dell'antipatia dei contribuenti, ha peggiorato la situazione. L'Osservatorio tasse locali di Confcommercio ha fatto il punto sulla Tassa sui rifiuti nel 2020 e ha scoperto che nonostante lo stop alle attività economiche del lockdown e, più in generale, il clima depresso per la pandemia da Covid 19, il costo totale è aumentato raggiungendo i 9,73 miliardi. L'incremento negli ultimi dieci anni è stato dell'80%. Dato contestato dai sindaci, che ieri si sono fatti sentire attraverso il segretario generale dell'Anci Veronica Nicotra, secondo la quale il prelievo del 2010 non era di 5,4 miliardi ma di 7,9. L'aumento rispetto all'anno precedente è stato minimo, (era 9,6 miliardi nel 2019), ma un quarto dei comuni ha incrementato la tassa. Incremento in contrasto con l'andamento dell'economia, in contrazione del 9%. Un «paradosso», a giudizio della confederazione dei commercianti. «Le imprese del terziario - ha detto al Giornale il presidente Carlo Sangalli - sono di fronte ad una situazione estrema: sostegni del tutto insufficienti e prospettive di riaprire ancora un miraggio. Si aggiungono poi i costi beffa per le aziende rimaste chiuse come quello della Tari, la tassa per rifiuti mai prodotti. Prima che sia troppo tardi chiediamo al Governo Draghi una svolta che per adesso non si è ancora vista». La beffa degli aumenti dell'era covid si aggrava alla luce del fatto che Arera, l'autorità che regola la distruzione di gas, elettricità e gas, aveva stabilito che il 2020 sarebbe stato l'anno di un nuovo metodo tariffario denominato Mtr il cui fine sarebbe quello di fare pagare tariffe proporzionali ai consumi. Secondo l'analisi dell'Osservatorio su 110 capoluoghi di provincia e città metropolitane, quasi l'80% dei comuni non ha ancora definito questo nuovo metodo e nel 21% dei comuni che, invece, lo hanno recepito, in più della metà dei casi (il 58%) il costo della Tari risulta paradossalmente in aumento, mediamente del +3,8%. L'Anci imputa i ritardi nella complessità del metodo Arera e gli aumenti al passaggio al nuovo metodo che calcola i consuntivi degli anni precedenti. Sarebbe in vigore anche un'altra delibera dell'Arera che invita i comuni a ridurre la parte variabile della tariffa in linea con la minore produzione di rifiuti provocata da covid. Secondo l'Osservatorio, il 60% dei comuni ha mantenuto le tariffe invariate, il 17% le ha diminuite (mediamente del 5%) e il 23% le ha addirittura aumentate (mediamente del 3,8%). Per l'associazione dei comuni, «l'assenza di una norma statale ha determinato nelle deliberazioni delle agevolazioni, che nella gran maggioranza dei casi ci sono state, una non uniformità di effetti economici».

Rob Ludacer per it.businessinsider.com il 18 marzo 2021. Ogni anno in tutto il mondo vengono buttati per terra 5,5 bilioni di mozziconi di sigarette (per dare un’idea visiva con le cifre: 5.500.000.000.000). Per decomporsi ogni mozzicone impiega da uno a cinque anni. Ma ci sono oggetti che per disintegrarsi completamente impiegano anche centinaia di anni. Per questo, abituarsi a riciclare può essere determinante per la sopravvivenza dell’ambiente del nostro pianeta.

“Plastisfera”: da qui verrà la prossima pandemia? Francesca Salvatore su Inside Over il 24 marzo 2021. Sia sulla terra che sul mare, i rifiuti di plastica sono talmente diffusi che alcuni ricercatori hanno persino proposto di etichettarli come una caratteristica “naturale” dell’Antropocene.

“Plastisfera”, una definizione. Nel 2013, studiando al microscopio i rifiuti plastici oceanici, un team di scienziati della Woods Hole Oceanografic Institution, la più grande istituzione privata di ricerca oceanografica del mondo, scoprì che questa gragnola di isole di plastica era abitata da microorganismi diversi da quelli che proliferano normalmente in acqua. Croce e delizia della modernità, la plastica è in grado attrarre forme di vita non visibili ad occhio nudo. Per questa ragione la scienza ha battezzato come plastisfera l’ecosistema che si sviluppa sul materiale plastico presente nei mari e negli oceani. Questi aggregati di rifiuti, oltre ad essere dannosi per la fauna e la flora marina e per intera catena alimentare, sono in grado di divenire habitat di microrganismi potenzialmente dannosi, quali batteri, alghe e virus. Dagli anni Novanta ad oggi gli studi in questo senso sono andati moltiplicandosi, soprattutto in seguito alla scoperta del Pacific Trash Vortex, la gigantesca isola di plastica che fluttua nel Pacifico. I primi a lanciare l’allarme a questo proposito sono stati tre studiosi– Linda A. Amaral-Zettler, Erik R. Zettler & Tracy J. Mincer- che, attraverso micrografie elettroniche a scansione, si sono imbattuti nella complessa geografia della vita microbica sulle superfici abrase e porose di pezzi di plastica invecchiati e alterati dagli agenti atmosferici negli oceani. Si tratterebbe di una vera “barriera microbica” cioè di un ecosistema completo di predatori e prede, organismi che fotosintetizzano per produrre energia dalla luce (simile alle piante sulla terra) e persino parassiti e organismi potenzialmente patogeni dannosi per invertebrati, pesci e esseri umani. Le comunità della plastisfera sono distinte da quelle circostanti acque superficiali, il che implica che la plastica funge da nuovo habitat ecologico nell’oceano aperto. Una biodiversità sorprendentemente elevata, con oltre 1.000 tipi di microbi su residui di soli 5 mm o meno di diametro. Il problema della plastisfera risiede nella lunghissima durata dei materiali di cui è composta: i microbi che proliferano al suo interno possono essere trasportati poi per lunghe distanze, rendendoli una potenziale fonte di specie invasive.

Una possibile bomba batteriologica. Ciò che sconvolge la comunità scientifica è che nella plastisfera si trovano organismi che non si incontrano normalmente nell’oceano aperto come il genere Vibrio. La maggior parte dei Vibrio non sono nocivi, ma alcune specie possono sono tuttavia in grado di giocare un ruolo importante nella patologia umana, e tra di essi il più rilevante è sicuramente Vibrio cholerae, agente eziologico del colera, la terribile tossinfezione dalla quale buona parte del mondo in via di sviluppo non si è emancipata. Nel 2019, una nuova allarmante scoperta ha superato la precedente: mentre studiavano i batteri trovati sui rifiuti di plastica al largo delle coste dell’Antartide, gli scienziati hanno scoperto che questi batteri erano resistenti agli antibiotici quanto i batteri più resistenti presenti negli ambienti urbani. Le plastiche restano nell’ambiente molto più a lungo rispetto ai materiali biodegradabili come il legno, sono capaci così di percorrere grandi distanze in molto tempo. Secondo Tracy J. Mincer, inoltre, il «passaggio digestivo» delle microplastiche attraverso gli animali marini, fornisce un boost di nutrienti ai patogeni della plastisfera rendendoli invincibili. Ulteriori analisi condotta invece al largo della costa belga hanno rilevato, invece, patogeni per l’uomo come E.coli, Bacillus cereus e Stenotrofomonas maltofilia: i primi due sono strettamente collegati a note tossinfezioni alimentari, mentre il terzo è uno dei più comuni batteri che causano infezioni polmonari, soprattutto in soggetti dai polmoni compromessi, spesso multiresistente agli antibiotici. Come prevedibile, anche altre porzioni dell’idrosfera non sono esenti dalle conseguenze batteriologiche dei rifiuti plastici: i generi Pseudomonas e Aeromonas, sono stati associati a plastiche fluviali, le più interessate nel trasporto di patogeni; i primi sono responsabili di infezioni osteoarticolari, polmoniti ed endocarditi e sono resistenti alla maggior parte degli antibiotici, gli altri sono coinvolti in infezioni di ferite e in gastroenteriti, ma almeno non multiresistenti. I rifiuti plastici, inoltre, non sono solo un habitat favorevole per virus e batteri ma anche per numerose altre specie. Nel 2017, appena sei anni dopo che lo tsunami aveva devastato le coste del Giappone e causato l’incidente a Fukushima, gli scienziati americani scoprirono circa trecento specie di invertebrati sulla costa occidentale degli Stati Uniti che non erano mai state rilevate prima. Queste creature avevano attraversato il Pacifico sui detriti messi in moto dallo tsunami: queste specie straniere trapiantate artificialmente da un ecosistema all’altro possono diventare invasive e le plastiche oceaniche sono la loro “autostrada”.

L’ombra del futuro. Comunemente associati ad un inquinamento fisico e chimico, e alle implicazioni sulla fauna marina e sulla catena alimentare, i rifiuti plastici alla deriva non sono mai stati inquadrati nell’ottica di un possibile pericolo batteriologico. L’attenzione sugli eventi pandemici scatenatasi nell’ultimo anno ha portato alla ribalta studi e teorie precedentemente trascurate perché catastrofiste: ora è su questi dati e su queste ricerche che il mondo della scienza ha intenzione di puntare per premere sulla produzione di plastiche maggiormente ecocompatibili e sulla riduzione drastica della plastica monouso: ma come con la pandemia da Covid-19, il più grande ostacolo alla realizzazione di risultati e misure precauzionali condivise è e sarà il carattere transnazionale dell'ottavo continente.

Andrea Ducci per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2021. Su piatti e imballaggi di carta rischia di consumarsi una frattura tra la Commissione Ue e il governo italiano. Il dissidio è in corso da settimane, ma nelle ultime ore le parole dei ministri Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico) e Roberto Cingolani (Transizione ecologica), seguite dall' ennesimo allarme di Confindustria, confermano l'irrigidimento di una vicenda legata a doppio filo al destino di un comparto che occupa 50 mila lavoratori. L'origine del problema sono le linee guida emanate dalla Commissione Ue due giorni fa per l'applicazione della direttiva 904 del 2019, la cosiddetta Sup (Single use plastic), che da quest' anno stabilisce la messa al bando delle plastiche monouso più inquinanti. Una norma che a partire dal 3 luglio mette fuori legge piatti, posate, cannucce, contenitori in polistirolo, cotton fioc e bastoncini per palloncini oltre che tutti i prodotti in plastica oxo-degradabile. L' Italia ha recepito la direttiva, approvandola in via definitiva lo scorso 20 aprile. Senza tuttavia le prescrizioni che Bruxelles ha introdotto soltanto successivamente, stabilendo proprio attraverso le linee guida la messa al bando anche dei prodotti monouso in carta ricoperti da un velo di plastica (come, per esempio, i piatti e i bicchieri di carta). Un dettaglio che modifica gli effetti della direttiva con impatti allarmanti per l'industria cartaria italiana, specializzata nella produzione di piatti e bicchieri di carta e di imballaggi, che impiega appunto 50 mila addetti nelle attività del packaging cartaceo. L' applicazione della direttiva a partire dal 3 luglio rischia, insomma, di cancellare un settore dell'industria italiana. Tanto che nelle settimane scorse, prima dell'emanazione del via libera alle linee guida, il ministro dello Sviluppo economico, Giorgetti, ha chiesto a Bruxelles di togliere il bando ai piatti e ai bicchieri che contengono uno strato di plastica. Anche il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha fato un analogo tentativo scrivendo al commissario all' Economia, Paolo Gentiloni, affinché venissero modificate le linee guida. Il pressing però non ha dato l'esito sperato, la scadenza del 3 luglio appare dietro l'angolo e la frettolosa introduzione di una norma che vieta gli imballaggi di carta plastificata si configura come un danno all' economia nazionale. Non a caso, anche ieri Giorgetti è tornato sulla questione spiegando: «La consapevolezza ambientale, progetto condivisibile e obiettivo da perseguire non può ignorare le conseguenze di un approccio ideologico che penalizza le industrie italiane lasciando sul terreno morti e feriti, in termini di fallimenti aziendali e disoccupazione». Cingolani, in veste di titolare della Transizione ecologica, appare più duro e attacca Bruxelles: «si tratta di una direttiva assurda, per la quale va bene solo la plastica che si ricicla. Questo a noi non può andar bene. L' Europa ha dato una definizione di plastica stranissima, solo quella riciclabile - specifica il ministro - . Tutte le altre non vanno bene». Sul piede di guerra Confindustria, che per bocca del presidente Bonomi lancia l'allarme: «Le linee guida sulla direttiva Sup chiudono di fatto un intero settore industriale. Non vedo reazione decisa e coesa da politica, sindacati, imprese. Sembra non interessi il futuro dei lavoratori del settore del packaging, eccellenza italiana nel mondo».

La plastica che usiamo per difenderci dal Covid-19 sta avvelenando il mondo. Mascherine, guanti e tute certo. Ma anche imballaggi per il cibo da asporto, oggetti usa-e-getta, confezioni monodose. Per superare la pandemia stiamo preparando il terreno a un nuovo disastro ambientale.  Francesca Sironi su L'Espresso il 10 marzo 2021. Sarà lunga, lunghissima, l’uscita dalla pandemia. Ma attraverso vaccini, tracciamento e investimenti, inizia a sembrare possibile. Un’altra pandemia invece cova sotto l’attuale, e uscirne sembra molto più complicato, se non impossibile. Non ci sono infatti barriere o farmaci che possano tener lontana la plastica dall’aria, dall’acqua, dall’ambiente, dal cibo che mangiamo, dagli animali e dagli ecosistemi in cui viviamo. I rifiuti di plastica stanno sommergendo il mondo, inquinando fiumi e oceani, mettendo a rischio specie (700, solo per quelle marine), arrivando a cambiare lo stesso comportamento biologico degli umani. Oggi la prima pandemia chiama la seconda. Perché per proteggersi dal virus sono necessarie distanze e protezioni, fatte di plastica. Ogni mese vengono prodotti globalmente 129 miliardi di mascherine, di plastica; 65 miliardi di guanti, di plastica. A cui vanno aggiunte visiere, sacchetti, pellicole. Con il ritorno massiccio della plastica nelle confezioni monouso per motivi di igiene e l’aumento delle consegne a domicilio, unico spazio rimasto per i ristoratori, la plastica torna padrona di casa e delle strade. Mentre l’industria arranca, così, e produce meno rifiuti, le case ne accumulano come mai prima, soprattutto per quanto riguarda, appunto, pellicole e vaschette. Nel primo quadrimestre del 2020 Corepla, il consorzio per la raccolta della plastica, ha segnato fra aprile e maggio un aumento dell’otto per cento negli imballaggi plastici gestiti, dopo anni di calo, come notava Eva Alessi del Wwf in una presentazione alle Nazioni Unite. Il mercato globale della plastica è proiettato verso la crescita continua: dai 900 miliardi di dollari del 2019 alla cifra stellare di 1.012 miliardi nel 2021, soprattutto grazie alla pandemia. Un’invasione che sta iniziando ad avere conseguenze tangibili anche in Italia. Non solo per la pressione sugli impianti di smaltimento, o per la presenza di rettangoli azzurri da mascherine buttate per strada o sulla spiaggia. Non solo per gli interessi delle mafie nello smaltimento o per i costi dell’export di scarti. Ma anche più semplicemente per il minor impegno sul problema. La minaccia plastica è infatti dimenticabile, apparentemente procrastinabile con l’illusione del riciclo - che un’importante inchiesta trasmessa l’anno scorso dalla Pbs e dalla National public radio (Plastic wars) ha dimostrato essere, di fatto, quasi un’illusione appunto: per molti composti non c’è alcuna possibilità di riuso e per altri è raramente conveniente, ad oggi, sul piano economico o energetico. Nei documenti delle grandi aziende petrolchimiche esposti dai giornalisti il marketing legato al riciclo assume una nuova faccia: pensare che sia possibile dare nuova vita a vestiti o pacchetti fatti di materiali plastici tiene in piedi il consumo. In questi mesi di paura, gli aspetti positivi (igiene, economicità) hanno prevalso poi sul presentimento del peso che ogni confezione gettata dopo poco inesorabilmente avrà sull’ambiente. Dell’aumento dei rifiuti si sono accorti per primi i medici e gli infermieri di ogni reparto d’Italia, uscendo dalle zone-filtro dove devono togliersi le protezioni che indossano (tute, calzari, maschere ffp3, visiere e occhiali), per necessità monouso, da buttare ogni volta. Un rito fondamentale, che si conclude nei bidoncini gialli e neri dei rifiuti sanitari, che devono essere ritirati con una frequenza prima impensabile. Il presidente di Eco Eridania, una delle maggiori società di gestione di rifiuti speciali in Italia, ha parlato di un aumento del 20 per cento delle consegne da parte degli ospedali, spiegando poi che i camion con i bidoni carichi di tamponi usati o dispositivi di protezione viaggiano per lo più verso impianti autorizzati a bruciarne il contenuto (l’Ispra, l’istituto nazionale per la protezione dell’ambiente, ne ha certificati 26). Articoli pubblicati in questi mesi sulle riviste scientifiche internazionali hanno fatto il quadro sul mondo: l’ospedale universitario King Abdullah in Giordania ha prodotto dieci volte tanti rifiuti rispetto all’attività normale, arrivando a buttare 650 chili di spazzatura al giorno per 95 pazienti Covid-19 curati. In Catalogna e in Spagna l’incremento è stato del 350 per cento. L’esempio più citato è quello di Wuhan, dove gli 11 milioni di abitanti della città hanno prodotto in un solo giorno, il 24 febbraio del 2020, 200 tonnellate di rifiuti sanitari, quattro volte il carico che poteva essere bruciato dal termovalorizzatore municipale. In una lettera inviata a dicembre al British journal of Medicine, tre ricercatori ricordavano come il servizio sanitario pubblico inglese (Nhs) invii al recupero solo il 5 per cento delle 133 mila tonnellate di rifiuti di plastica che produce ogni anno. «La pandemia non dovrebbe far eclissare l’emergenza climatica», sottolineavano gli autori. Sembra invece esattamente quello che sta succedendo. I consumi sono tornati ad ancorarsi su materiali il cui fascino sembrava superato: bottigliette d’acqua, merende monodose, frutta confezionata anziché sfusa, e soprattutto, cibo impacchettato consegnato direttamente a casa. «Stiamo assistendo ad un forte incremento del numero di prodotti venduti confezionati: + 2,3 miliardi di confezioni vendute dalla distribuzione moderna nel 2020 rispetto al 2019», racconta Silvia Zucconi dell’osservatorio del packaging del largo consumo di Nomisma: «La crescita delle vendite di prodotti confezionati è certamente dovuta alla ricanalizzazione degli acquisti, ma anche alla ricerca di rassicurazione e di sicurezza. Nel fresco le vendite confezionate a peso imposto sono cresciute nel 2020 del 10 per cento. L’attenzione alla sostenibilità resta ugualmente molto alta però. Il 14 per cento dei consumatori ha smesso di acquistare un prodotto negli ultimi 6 mesi a causa di un packaging ritenuto non sostenibile e il 61 per cento dichiara che potrebbe farlo nei prossimi 12 mesi». Mentre la plastic tax in Italia slitta ancora al primo luglio del 2021, il Financial Times avvertiva il 23 febbraio che il prezzo dei polimeri usati per produrre la plastica è ai massimi degli ultimi sei anni per l’aumento della domanda. Tanto che i produttori europei prevedono di dover alzare i costi per la distribuzione. Plastica e ancora plastica. A Singapore solo nelle otto settimane di lockdown le consegne a domicilio dei pasti hanno prodotto 1400 tonnellate in più di rifiuti plastici. Certo: nelle città ci sono meno turisti, uffici e mense sono a passo ridotto, l’isolamento diminuisce gli sprechi. Fra marzo e aprile dell’anno scorso il calo nell’immondizia urbana è stato del 10 per cento, stima l’Ispra: 500 mila tonnellate di spazzatura in meno nelle città. Un bel sollievo, visto che in compenso i rifiuti dovuti solamente a guanti e mascherine sono stimati in circa 300 mila tonnellate per il 2020, considerando un peso medio di 11 grammi a mascherina. E ci sono altri aspetti da guardare: in un sondaggio promosso fra aziende municipalizzate e impianti di riciclo dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile (ente a cui aderiscono colossi come Terna ed Acea), per il 50 per cento delle imprese che si occupano di rifiuti la qualità della raccolta differenziata è peggiorata durante l’emergenza, fra marzo e maggio. Per tornare a migliorare nei mesi successivi. Il problema è però un altro: la fine che fanno i materiali raccolti. Con le grandi aziende chiuse, in primavera, e poi riaperte solo ad un passo più lento soprattutto nelle esportazioni, i principali acquirenti di imballaggi prodotti da carta o plastica riciclata sono diminuiti drasticamente. Così aumentano gli invii di usa-e-getta a cementifici e termovalorizzatori. Solo che non tutti i rifiuti possono essere bruciati. «Diversi riciclatori di rifiuti in plastica, soprattutto quelli che riciclano rifiuti a più basso valore aggiunto, hanno stoccaggi di materie prime-seconde decisamente superiori allo stock fisiologico», scrive allora la Fondazione per lo sviluppo sostenibile nel rapporto: «Perché hanno supportato il ritiro dei rifiuti nei mesi precedenti quando la domanda era praticamente azzerata». Si accumula. Per evitare che per ragioni di spazio e sicurezza gli impianti smettessero di accettare i rifiuti, il ministero per l’Ambiente aveva diramato subito, a marzo del 2020, una circolare che invitava le regioni a prevedere delle deroghe straordinarie per gli impianti. Regione Lombardia, ad esempio, l’ha fatto subito, alzando la possibilità di accumulo. Alessandra Dolci, il magistrato a capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, l’ha scoperto direttamente da alcuni esponenti della ’Ndrangheta che brigavano per fare affari il più velocemente possibile sui cambiamenti avvenuti durante il lockdown: «Abbiamo appreso dall’attività di intercettazione di una determina della Regione Lombardia del primo aprile, scaduta il 31 agosto, che, in deroga alla disciplina in vigore, consentiva lo stoccaggio di un quantitativo di rifiuti superiore al 20 per cento per le società già in possesso di una regolare autorizzazione a gestire i rifiuti, sulla base di una semplice autocertificazione», ha raccontato il procuratore aggiunto: «Sono bravi ad approfittarne: dell’esistenza di quella determina ne sono venuta a conoscenza dall’attività di intercettazione. Loro lo sapevano prima di me». Aumentare gli stoccaggi, ci insegnano i roghi nelle aziende dismesse usate come discariche alternative, è un rischio e va considerato solo un’emergenza. I roghi degli anni scorsi venivano in parte collegati al blocco dell’importazione di rifiuti plastici di scarsa qualità da parte della Cina. Un blocco che ha avuto conseguenze importanti in Europa. L’ultimo rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente, pubblicato a gennaio, mostra bene cosa sta succedendo: l’export di plastica esausta in Cina è passato dal milione e mezzo di tonnellate del 2015 alle 23.690 del 2019. Non che sia scomparsa la materia. Ora viene spedita in container colmi in Malesia (da 137 mila tonnellate a 404 mila), in Vietnam, Indonesia, e soprattutto in Turchia, passata da importare 579 tonnellate di rifiuti plastici nel 2002 a 409 mila nel 2019. Settecento volte tanto. Un business lucroso per alcuni e necessario per il sistema del commercio ma a discapito, ancora una volta, dell’ambiente: i giornalisti di The black sea stanno monitorando il feroce aumento di vallate tossiche di rifiuti importati nelle province turche.

Traffico di rifiuti, gli affari segreti degli italiani che avvelenano i Balcani. Vittorio Malagutti su L'Espresso l'1 marzo 2021. Migliaia di tonnellate di spazzatura viaggiano ogni anno illegalmente verso l'Est Europa. Tra controlli scarsi e complicità politiche. Mafie, imprenditori e oligarchi locali guadagnano milioni, mentre la Bulgaria si trasforma in un Paese discarica. Non solo moda, buon cibo e calcio. In Bulgaria la nuova frontiera del made in Italy corre tra montagne di immondizia. Il Paese balcanico è diventato la pattumiera preferita dei trafficanti italiani di rifiuti. La conferma arriva dalle indagini più recenti della magistratura bulgara, che ha portato alla scoperta di decine di discariche abusive. È una trama complicata, tra piste che si sovrappongono, mediatori, prestanome e società di comodo. Alla fine, però, il filo rosso degli affari e dei sospetti porta sempre più spesso in Italia, come dimostra questa inchiesta dell’Espresso realizzata insieme al consorzio giornalistico Eic (European investigative collaborations). Il problema è serio, a tal punto che a gennaio del 2020 l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, volò a Sofia per assicurare al collega primo ministro Bojko Borisov la «massima collaborazione» di Roma nella lotta all’ecomafia. Le promesse di Conte si sono perse nel clamore degli scandali. Nell’arco dell’ultimo anno hanno dato le dimissioni il ministro dell’Ambiente e poi il suo vice, accusati di avere coperto, se non favorito, i traffici illeciti di spazzatura, in buona parte proveniente dall’estero. Le frontiere non sono un problema. La Bulgaria fa parte dell’Unione europea e per le merci che arrivano dall’Italia le formalità doganali sono ridotte al minimo. L’export di rifiuti si basa su un sistema di autorizzazioni speciali, ma per eludere gli scarsi controlli basta cambiare i codici che identificano i carichi in viaggio. Rischi bassi, quindi, che si accompagnano a enormi guadagni potenziali, dato che i costi per lo smaltimento sono di molto inferiori a quelli correnti nei circuiti illegali in Italia. Ecco perché la Bulgaria, ultima per reddito pro capite tra i Paesi Ue, è diventata una specie di terra promessa per i mercanti di veleni nostrani.

INTERESSI DI FAMIGLIE. Ottobre 2020: dopo mesi di indagini, i carabinieri del Gruppo tutela ambientale di Milano smantellano una banda di trafficanti capaci di ammassare oltre 24 mila tonnellate di rifiuti in discariche abusive sparse nel Nord Italia, alcune attorno a Milano, altre tra Varese e Como, altre ancora in Piemonte e vicino a Verona. Tra i 16 arrestati su richiesta della Direzione distrettuale antimafia c’è anche il calabrese Antonio Foti, che ha già scontato una condanna per i suoi rapporti con la ’ndrangheta e da qualche tempo, insieme ai figli Giuditta e Luciano, ha investito nel business della spazzatura. Un testimone citato nelle carte dell’inchiesta racconta che la Tecnobeton, una società dei Foti, spedisce i rifiuti in Bulgaria. «Stanno macinando a tutto spiano. Il giro in Bulgaria ce l’hanno sempre loro», dice al telefono un camionista intercettato dagli investigatori. Questa, però, non è l’unica pista che porta nei Balcani. Nella rete dei carabinieri sono finiti anche Mario Accarino, la figlia Laura e il nipote Francesco. Ebbene, secondo quanto L’Espresso ha potuto ricostruire, Mario Accarino, 61 anni, controlla la società bulgara Acar Eco di cui è azionista anche la quarantenne Avni Kadir Musein. Suo fratello Kadir Avni Kadir nel 2012 è stato arrestato per un traffico di cocaina verso l’Italia. Nelle carte della polizia, però, le accuse sono iscritte a carico di Krassimir Zlatanski, il nuovo nome di Kadir registrato all’anagrafe nel 2008. Raggiunto al telefono, Zlatanski-Kadir conferma di conoscere Accarino e spiega che la Acar Eco partecipata da sua sorella avrebbe dovuto importare rottami di ferro dall’Italia, ma al momento è inattiva. Nonostante i guai giudiziari del passato, Zlatanski non ha tagliato i ponti con il nostro Paese. A suo nome risulta registrata una piccola ditta commerciale a Milano. «Ma io non c’entro con gli affari di Accarino», protesta. Di certo, la Acar Eco con sede a Plovdiv, la seconda città della Bulgaria, va ad aggiungersi alla complessa rete di attività ricostruita dalla magistratura in anni di indagini. Insieme al fratello Salvatore, latitante forse in Nord Africa, Mario Accarino ha collezionato arresti e condanne per reati ambientali. Nel 2019 i due trafficanti di rifiuti si sono visti confiscare un patrimonio milionario che comprendeva, tra l’altro, 27 immobili e 28 tra conti correnti e cassette di sicurezza in Italia e in Svizzera.

AMICI A LA SPEZIA. Per quanto facoltosi, gli Accarino non reggono il confronto con i fratelli Atanas e Plamen Bobokov, imprenditori tra i più ricchi della Bulgaria, forti di un patrimonio valutato centinaia di milioni di euro. Anche i Bobokov sono finiti sotto accusa per traffico illecito di rifiuti e la loro storia, come quella degli Accarino, si sviluppa almeno in parte tra l’Italia e i Balcani. Il caso ha fatto scalpore a Sofia, perché i due uomini d’affari si erano costruiti la fama di intoccabili, forti di molteplici rapporti nel mondo della politica. Tutto è crollato a fine maggio dell’anno scorso, quando la coppia è finita in carcere con l’accusa di aver disperso illegalmente almeno 7 mila tonnellate di materiali di varia natura, comprese sostanze tossiche, in diverse località del Paese balcanico. L’indagine ha travolto anche il viceministro dell’Ambiente, Krasimir Zhivkov (dimissionario e arrestato), insieme a Plamen Ouzounov, responsabile per gli affari legali del presidente Rumen Radev. Fin qui la parte bulgara di una storia che porta nel nord Italia. Tre anni fa, infatti, il gruppo Monbat controllato dai fratelli Bobokov ha rilevato la Piombifera Italiana, sede legale a La Spezia e stabilimento a Macrobio, vicino a Brescia. L’azienda ricicla batterie esauste estraendo il piombo destinato all’impianto bulgaro della Monbat per essere riutilizzato come materia prima. I magistrati di Sofia sospettano che gli imprenditori sotto inchiesta abbiano nascosto nelle discariche illegali anche rifiuti provenienti dall’Italia. «Non ne sappiamo niente», taglia corto Paolo Pofferi, amministratore delegato di Piombifera Italiana, che già nel 2019 si è vista rispedire al mittente un carico irregolare in transito dalla Slovenia. Il nome di Pofferi non è nuovo alle cronache. Una trentina di anni fa l’imprenditore originario di La Spezia, classe 1947, aveva fondato una fabbrica di fuoristrada a Nusco, il paese dell’allora potentissimo segretario della Democrazia Cristiana, Ciriaco De Mita. L’azienda ebbe vita brevissima: chiuse i battenti dopo soli tre anni. Pofferi, travolto da una serie di fallimenti, finì al centro di una delle numerose inchieste sugli sprechi di denaro pubblico per la ricostruzione post terremoto in Irpinia e fu anche accusato di aver sepolto a Nusco rifiuti inquinanti provenienti dalle sue aziende al Nord. «Un processo lunghissimo, ma alla fine sono stato assolto», spiega il socio italiano dei Bobokov, che amministra la Piombifera Italiana insieme al commercialista spezzino Giovanni Grazzini, appena nominato commissario di Forza Italia nella città ligure. Anche Grazzini si dice all’oscuro delle grane giudiziarie dei padroni del gruppo Monbat. In Bulgaria però la questione dei rapporti con l’azienda italiana resta più che mai d’attualità. La vicenda potrebbe approdare in un’aula di tribunale già entro la primavera e tre imputati minori si sono già dichiarati colpevoli patteggiando la pena.

PACCHI NAPOLETANI. «Riprendetevi le vostre ecoballe». Ecco in estrema sintesi il verdetto delle autorità bulgare che a febbraio 2020 hanno respinto 3.700 tonnellate di rifiuti stipati in 147 container. Il carico appena sbarcato a Varna è così tornato via mare a Salerno da dove era partito mesi prima. Dentice Pantaleone, la ditta di Avellino che li aveva inviati in Bulgaria, dovrà farsi carico dello smaltimento delle ecoballe provenienti anche dall’impianto di Giugliano, simbolo della catastrofica gestione ambientale nel napoletano. Secondo la versione ufficiale dei bulgari, contestata dalla controparte italiana, il carico era difforme da quanto dichiarato nei documenti di accompagnamento. Il governo di Sofia ha anche sospeso la licenza all’inceneritore che avrebbe dovuto smaltire i rifiuti campani, che erano parte di una spedizione quattro volte più ingente, circa 600 container in tutto. L’immondizia era destinata a una centrale a carbone controllata dal magnate bulgaro dell’energia Hristo Kovachki. Per gestire l’affare nel Paese balcanico era invece scesa in campo una società locale, la Blatsiov di Sofia, che fino al novembre scorso aveva tra i suoi azionisti anche una società di sicurezza privata, la Jupiter Security, con una quota del 15 per cento. Nel capitale della Blatsiov erano presenti anche due italiani, entrambi con una partecipazione del 15 per cento: l’ingegnere napoletano Vincenzo Trassari ed Ezio Buscè. Quest’ultimo, nel frattempo deceduto, è il fratello di Fabrizio Buscè, che interpellato da L’Espresso si è presentato come il «responsabile operativo» della D Log di Napoli, cioè la società che ha organizzato e gestito la spedizione dei rifiuti in Bulgaria. A questo punto il cerchio si chiude, ma c’è un altro gancio italiano da segnalare. Una quota della Blatsion di Plovdiv era intestata a Goran Angelov, già direttore di una grande discarica a Skopje, la capitale della Macedonia del Nord. Caso vuole che la gestione dell’impianto fosse stata affidata un’azienda nostrana, la FCL Ambiente di Frosinone. A questo punto l’intrigo internazionale in salsa balcanica è servito. Le 3.700 tonnellate di rifiuti respinti dalla Bulgaria dovranno essere smaltite in Italia, ma è già un passo avanti rispetto a quanto è successo nel 2015. Nell’estate di sei anni fa una nave partita da Piombino e diretta a Varna gettò in mare al largo di Follonica 65 tonnellate di rifiuti plastici. Le balle sono ancora lì, una bomba ecologica che mette a rischio le acque protette del santuario dei cetacei. Questa inchiesta giornalistica è stata realizzata con il supporto dell'IJ4EU. L'International press institute e lo European Journalism centre non sono responsabili del contenuto dell'articolo e di ogni uso che ne verrà fatto. 

2767 siti di smaltimento illegale: il bilancio dell'ISS. Terra dei Fuochi, la monnezza provoca tumori, asma e leucemia: il report sui 38 comuni. Redazione su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Tumore al seno, asma, varie forme di leucemie e malformazioni congenite tra gli abitanti della cosiddetta “Terra dei Fuochi“, l’area che comprende ben 38 comuni tra le province di Napoli e Caserta, sono legate allo smaltimento illegale dei rifiuti. E’ quanto emerge dal report conclusivo frutto dell’accordo che la procura di Napoli Nord ha stipulato nel 2016 con l‘Istituto Superiore di Sanità. Il rapporto è stato presentato online dal procuratore generale di Napoli Luigi Riello, dal presidente dell’Iss Silvio Brusaferro e dal procuratore di Napoli Nord Francesco Greco. La mappa conta 2767 siti di smaltimento illegale dei rifiuti nei 38 comuni che insistono su 426 chilometri quadrati. Più di un cittadino su tre (il 37% dei 354mila residenti) vive ad almeno cento metri di distanza da uno di questi siti, sorgenti di emissione e di rilascio di composti chimici pericolosi per la salute.

LE 4 FASCE – La mappa divide i 38 comuni in quattro classi, con fattori di rischio crescenti: dall’uno (ovvero quelli meno esposti a fattori inquinanti) a quattro (quelli più esposti). In quarta fascia ci sono i comuni di Giugliano in Campania e Caivano (entrambi nell’area a nord di Napoli); in terza fascia ci sono i comuni partenopei di Cardito, Casoria, Melito di Napoli, Mugnano e Villaricca; in seconda fascia ci sono sette comuni del Casertano (Aversa, Casal di Principe, Sant’Arpino, Casaluce, Gricignano d’Aversa, Lusciano e Orta di Atella) e quattro del Napoletano (Afragola, Casandrino, Crispano e Qualiano); in prima fascia i restanti 20 comuni (Carinaro, Cesa, Frignano, Cesa, Parete, San Cipriano d’Aversa, San Marcellino, Succivo, Teverola, Trentola Ducenta, Villa di Briano, Casapesenna, Villa Literno per il Casertano e Arzano, Calvizzano, Casavatore, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano, Marano e Sant’Antimo).

MORTALITA’ E PATOLOGIE ELEVATE -I risultati del rapporto indicano che la mortalità e l’incidenza per tumore della mammella è significativamente maggiore tra le donne dei comuni inclusi nella terza e quarta classe dell’indicatore di esposizione a rifiuti rispetto ai comuni della prima classe, meno impattati dai rifiuti. Discorso analogo per “l’ospedalizzazione per asma”, già alta nei 38 comuni rispetto al resto del territorio, ma che cresce di molto nella terza e quarta fascia. Anche le malformazioni congenite sono maggiori nei comuni del livello “4”, rispetto al primo. Infine il dato relativo all’incidenza delle leucemie e dei ricoverati per asma nella popolazione da 0 a 19 anni, che aumenta “significativamente passando dai Comuni della classe 1 a quelli della classe successiva, con il rischio maggiore nei comuni di classe quattro”. Per il presidente dell’Iss Brusaferro “è necessario sviluppare un sistema di sorveglianza epidemiologica integrata con dati ambientali nell’intera Regione Campania e in particolare nelle province di Napoli e Caserta, così come nelle altre aree contaminate del nostro Paese, in modo da individuare appropriati interventi di sanità pubblica, a partire da azioni di bonifica ambientale”. Secondo il procuratore di Napoli Nord Greco proprio le bonifiche “devono partire immediatamente. Quella presente in quella fascia di territorio, infatti, secondo il magistrato, “è l’emergenza più importante per Caserta e Napoli dopo il Covid”.

LE CONCLUSIONI – Bloccare qualsiasi attività illecita e non controllata di smaltimento di rifiuti. È quanto si legge nel rapporto conclusivo, frutto dell’accordo tra la Procura di Napoli Nord e l’Istituto superiore di sanità, nel 2016. AÉ necessario bonificare i siti con rifiuti e le aree limitrofe che possono essere state interessate dai contaminanti rilasciati da questi siti; incentivare un ciclo virtuoso della gestione dei rifiuti, attualmente già attivo in alcune aree della Regione Campania; attivare un piano di sorveglianza epidemiologica permanente delle popolazioni; implementare interventi di sanità pubblica in termini di prevenzione-diagnosi-terapia e assistenza.

Le discariche, disonore italiano. “Necessari impianti moderni”. Vito de Ceglia su La Repubblica l'8 settembre 2021. Tra le maglie nere in Europa, il Belpaese bersagliato dalle procedure d’infrazione. Per diventare virtuoso basterebbero alcuni miliardi investiti per il recupero energetico. Nimby e burocrazia frenano. Servono almeno 4,5 miliardi di euro di investimenti per risolvere il problema della gestione dei rifiuti in Italia, cioè un quarto dei soldi con cui il nostro paese finanzia ogni anno i sussidi ambientalmente dannosi legati a combustibili fossili. Questi investimenti sono necessari per costruire nuovi impianti di recupero energetico e di frazione organica, che consentirebbero di generare fino a 11,8 miliardi di euro di indotto economico, con un gettito per lo Stato di 1,8 miliardi e una riduzione della Tari per le famiglie italiane superiore a 550 milioni. Dal punto di vista ambientale, la riduzione del deficit impiantistico porterebbe ad una riduzione di 3,7 milioni di tonnellate di emissione di CO2, pari al totale delle emissioni generate dai settori manifatturieri della produzione del metallo, del ferro e dell’acciaio.

Economia circolare. Le stime si leggono nei “messaggi chiave” numero 8 e 9, tra i dieci enunciati nel Position Paper elaborato da The European House — Ambrosetti in collaborazione con A2A, la più grande multiutility italiana. Il documento (“Da Nimby a Pimby. Economia circolare come volano della transizione ecologica e sostenibile del Paese e dei suoi territori”), presentato in anteprima venerdì 3 settembre in occasione del Forum Ambrosetti di Cernobbio, si pone un duplice obiettivo: la definizione di uno scenario strategico per la gestione circolare dei rifiuti, quantificando prima il reale fabbisogno impiantistico delle Regioni italiane, e delineando poi un modello di sviluppo basato sul superamento della sindrome di Nimby (1 impianto contestato su 3 riguarda la gestione dei rifiuti) e su tempi certi per la realizzazione degli impianti. Tempi che scontano oggi una eccessiva lunghezza della fase di progettazione e autorizzazione che in media assorbe il 60%. Il tutto per rispondere ai diktat del Circular Economy Action Plan dell’Unione europea, adottato lo scorso marzo, che punta su una gestione dei rifiuti orientata al recupero e alla riduzione del ricorso alla discarica, fissando per il 2035 il target di riciclo effettivo di rifiuti urbani al 65% e di conferimento in discarica inferiore al 10%.

Rifiuti in Discarica. Il problema è che il posizionamento dell’Italia risulta ancora lontano dagli obiettivi Ue, in particolare sul fronte “discariche”: la nostra produzione di rifiuti urbani è infatti di circa 30 milioni di tonnellate e il tasso di conferimento in discarica è 30 volte più alto di quello dei Paesi benchmark europei (Svizzera, Svezia, Germania, Belgio e Danimarca) per un totale di 6,3 milioni di tonnellate annue, che equivalgono al totale conferito in discarica dalla Germania e da altri 15 Paesi Ue. In pratica, l’Italia raggiunge una quota del 21% dei rifiuti e solo 4 Regioni — Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia e Campania — rsi posizionano al di sotto del 10% fissato dal Piano Ue. La maglia nera spetta alla Sicilia che utilizza le discariche per trattare più della metà (58%) dei rifiuti urbani generati. Nel complesso, il dato più allarmante è che la capacità residua delle discariche italiane si esaurirà entro i prossimi 3 anni, con differenze significative tra Nord (4,5 anni) e Sud (1,5 anni). Chi sta peggio è la Sardegna che presenta una vita residua delle proprie discariche pari a 0,5 anni.

Procedure d’infrazione. Intanto, nel nostro Paese crescono le procedure d’infrazione “aperte”: passate da 62 alla fine del 2017 al dato odierno di 82. Un aumento del 32% che colloca l’Italia al settimo posto tra i Paesi dell’Ue-27 con il risultato che, dal 2012 ad oggi, le sentenze di seconda condanna inflitte al Belpaese sono costate oltre 750 milioni di euro all’erario, di cui 152 versati per sanzioni forfettarie e circa 600 a titolo di penalità. Nel confronto europeo, siamo di gran lunga il paese che ha dovuto versare la cifra maggiore: Grecia (350 milioni), Spagna (122 milioni) e Francia (91 milioni) si collocano ben distanti. Tra i principali motivi di infrazione si annoverano: la presenza di discariche abusive (ancora quasi 200 attive); la gestione dei rifiuti in Campania (non in linea con gli standard europei per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti); e la mancata conformità delle infrastrutture di gestione e trattamento delle acque reflue (11% sul totale delle infrazioni nel decennio). Emblematico è il caso degli impianti dedicati alla frazione organica: ad oggi, solo la metà di questi rifiuti è trattata secondo canoni avanzati che permettono il recupero combinato di materia (compost) e di energia (biogas). Lo studio segnala inoltre che in futuro il paese sarà costretto a trattare ulteriori 3,2 milioni di tonnellate di frazione organica, pari al 50% in più dei volumi attualmente trattati, con un fabbisogno impiantistico di 38 nuovi impianti, di cui oltre l’80% nei territori del Centro-Sud, per un investimento complessivo di circa 1,3 miliardi di euro. Nel complesso, il trattamento della frazione organica aggiuntiva e la conversione da biogas hanno la potenzialità di generare fino a 768 milioni di m3 di biometano, pari a circa il 10% del potenziale totale di produzione di biometano in Italia.

Recupero energetico. Per raggiungere gli obiettivi europei, l’Italia dovrà ricorrere anche al recupero energetico di ulteriori 3,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, pari al 53% in più del totale ad oggi. Il paese avrà quindi bisogno di realizzare tra 6 e 7 nuovi impianti di termovalorizzazione dei rifiuti urbani, con un investimento complessivo compreso tra 2,2 e 2,5 miliardi di euro. A ciò si aggiunge il fabbisogno relativo ai fanghi di depurazione, il principale residuo dei trattamenti depurativi delle acque reflue: l’ottimizzazione del trattamento dei fanghi ne consentirebbe di avviare a recupero energetico ulteriori 850 mila tonnellate, richiedendo la costruzione di 8 linee aggiuntive per il recupero energetico all’interno di termoutilizzatori già esistenti sul territorio nazionale, o previsti secondo le stime del Position Paper, per un controvalore di investimenti di circa 700 milioni.

Girano le ecoballe. Report Rai PUNTATA DEL 26/03/2018 di Claudia Di Pasquale, Collaborazione di Ilaria Proietti e Eva Georganopoulou. In Italia produciamo più di trenta milioni di tonnellate di rifiuti urbani ogni anno. La plastica, il metallo, la carta, il vetro e l’umido dovrebbero essere differenziati e riciclati. Per legge, nel 2012 avremmo dovuto raggiungere l’obiettivo del 65% di raccolta differenziata. Ma siamo ancora fermi al 52,5%. Una volta buttati nella pattumiera di casa, dove finiscono tutti i rifiuti urbani indifferenziati? Claudia Di Pasquale li ha seguiti, in lungo e in largo, per tutta l’Italia. In Italia produciamo più di trenta milioni di tonnellate di rifiuti urbani ogni anno. La plastica, il metallo, la carta, il vetro e l’umido dovrebbero essere differenziati e riciclati. Per legge, nel 2012 avremmo dovuto raggiungere l’obiettivo del 65% di raccolta differenziata. Ma siamo ancora fermi al 52,5%. Una volta buttati nella pattumiera di casa, dove finiscono tutti i rifiuti urbani indifferenziati? Claudia Di Pasquale li ha seguiti, in lungo e in largo, per tutta l’Italia. Da Palermo a Venezia, passando per Napoli, Roma, Genova, Alessandria scopriremo come non sia sempre facile seguire il percorso che deve fare un sacchetto della spazzatura per essere smaltito. 

- Ringraziamo l’Ispra, Legambiente, il Commissario straordinario per la bonifica delle discariche abusive e le Regioni e le Province Autonome per la collaborazione nel fornirci i dati richiesti.

“GIRANO LE ECOBALLE” Di Claudia Di Pasquale Collaborazione Ilaria Proietti e Eva Georganopoulou Immagini Francesco Di Trapani, Chiara D’Ambros, Davide Rinaldi e Alessandro Spinnato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il centro storico di Venezia conta meno di 54mila abitanti, ma i turisti sono 25 milioni l’anno. Il risultato è che il costo per il servizio dei rifiuti è il più caro d’Italia: 335 euro a testa.

RICCARDO SECCARELLO - VERITAS Abbiamo un grandissimo numero di netturbini, abbiamo un grandissimo numero di barche, è ovviamente facilmente intuibile che in una città molto turistica ci siano dei costi più elevati rispetto a una città non turistica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La raccolta dei rifiuti in una città sull’acqua non è facile. La mattina i cittadini gettano la spazzatura dentro questi cassoni, che poi vengono svuotati dentro queste barche. E se non lo fanno, ci sono poi i netturbini che suonano al campanello. Ma con tutta questa task force, la raccolta differenziata funziona?

RICCARDO SECCARELLO - VERITAS È del 27 per cento, molto bassa, ma ovviamente Venezia centro sconta una forte pressione turistica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sarà anche colpa dei turisti, ma qui nel centro storico non si fa la raccolta dell’organico che viene buttato insieme ai rifiuti indifferenziati.

RICCARDO SECCARELLO - VERITAS Non viene raccolto l’organico perché non conviene assolutamente. Teniamo conto che ogni giorno raccogliamo una cinquantina di tonnellate di rifiuto organico. Che è una percentuale molto, molto bassa. Cioè portarlo direttamente tutti i giorni negli impianti, avrebbe un costo insostenibile.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’organico, con l’indifferenziato, viene portato a Fusina nel territorio di Marghera. E qui ne arrivano di tonnellate di rifiuti.

ADRIANO TOLOMEI – DIRETTORE GENERALE ECOPROGETTO VENEZIA VERITAS SPA Trattiamo circa 170 mila all’anno, per quanto riguarda la città di Venezia sono 38 mila, e il resto di tutta la città metropolitana di Venezia che compone 44 comuni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui i rifiuti vengono triturati, stabilizzati, essiccati, fino a quando non si trasformano in CSS, cioè in combustibile.

ADRIANO TOLOMEI – DIRETTORE GENERALE ECOPROGETTO VENEZIA VERITAS SPA Questo è un combustibile solido secondario con potere calorifico che va oltre i 19mila kilo joule.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La maggior parte del CSS viene poi portata alla vicina centrale a carbone dell’Enel.

ADRIANO TOLOMEI – DIRETTORE GENERALE ECOPROGETTO VENEZIA VERITAS SPA Viene polverizzato e inserito insieme al carbone in una caldaia per produrre energia elettrica.

ILARIA PROIETTI In che percentuale?

ADRIANO TOLOMEI – DIRETTORE GENERALE ECOPROGETTO VENEZIA VERITAS SPA Purtroppo la percentuale è bassa, per quanto mi riguarda, 5 per cento di CSS e 95 per cento di carbone.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Grazie a questo 5% di combustibile ricavato dai rifiuti, la centrale Enel ha potuto usufruito di incentivi, nonostante per il 95% funzioni a carbone e che il limite delle emissioni delle polveri sia quasi il doppio di quello degli inceneritori. In tutto questo l'Enel non si prende neanche tutto il CSS veneziano.

ADRIANO TOLOMEI – DIRETTORE GENERALE ECOPROGETTO VENEZIA VERITAS SPA Il 22-23 per cento viene in questo momento inviato all’estero.

ILARIA PROIETTI Dove in particolare?

ADRIANO TOLOMEI – DIRETTORE GENERALE ECOPROGETTO VENEZIA VERITAS SPA In Ungheria piuttosto che in Slovacchia. Mediamente il trasporto incide a tonnellata insomma, dai 45 ai 55 euro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Finisce sempre così. Li mandiamo all’estero. Ogni anno 433 000 tonnellate, di rifiuti urbani vengono spediti oltre che nei paesi vicini anche a Cipro, in Cina, nell’enclave del Sudafrica, il Lesotho, fino anche in Vietnam. Il terzo esportatore è proprio il Veneto con 40 mila tonnellate. Prima è la Campania con 103 mila tonnellate. Secondo il Friuli Venezia Giulia. L’Europa ci chiede di concludere il ciclo integrato, di favorire la raccolta differenziata e il riciclo dei materiali, per incrementare la cosiddetta economia circolare. Solo che noi abbiamo privilegiato solo il circolare. Nel senso che facciamo circolare i rifiuti. Li facciamo circolare in Italia e anche verso l’estero. Questo perché non ci siamo dotati in tempo degli impianti. E ora ci sono due grandi città e un’intera Regione che stanno per esplodere perché non sanno più dove mettere i rifiuti. La politica miope in questi decenni ha infilato la testa sotto la sabbia, la stessa con cui ha seppellito i rifiuti. Complice di chi ha gestito le discariche, ci ha lasciato un futuro avvelenato. La nostra Claudia Di Pasquale si è messa sulle tracce del sacchetto e l’ha seguito in tutta Italia e ci ha lasciato un’inchiesta straordinaria.

SCHEDA VOCE FUORI CAMPO In Italia produciamo più di 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani ogni anno. Plastica, metallo, carta, vetro e umido dovrebbero essere differenziati e riciclati. Per legge nel 2012 avremmo dovuto raggiungere l’obiettivo del 65% di raccolta differenziata. Siamo ancora al 52,5%. il resto dei rifiuti dove va a finire? Un po’ viene incenerito, un po’ va in discarica. Per legge, però, i rifiuti indifferenziati non possono essere buttati in discarica così come sono stati raccolti. Devono essere tritovagliati, va separata la frazione leggera e secca da quella organica. A sua volta la frazione organica deve essere stabilizzata: cioè lasciata a maturare per diversi giorni fino a quando non si trasforma in una specie di terriccio, che non produce più sostanze tossiche come percolato e gas. L’Europa ci ha chiesto di trattare i rifiuti indifferenziati già nel 1999. L’Italia ha recepito la direttiva europea nel 2003. Ma ha reso obbligatorio il trattamento e la stabilizzazione dei rifiuti solo nel 2013. A distanza di 5 anni come siamo messi?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Genova. 583mila abitanti e quasi 300mila tonnellate di rifiuti urbani all’anno. La raccolta differenziata però non riesce a decollare: non arriva neanche al 33%. E così tutto il resto sono solo rifiuti urbani indifferenziati. Ma dove finiscono? Dal ‘68 in poi, per più di 45 anni, li hanno buttati alle spalle della città in una valle in mezzo ai monti. A oltre 600 metri di altezza, lontano da sguardi indiscreti: nella discarica di Scarpino. Per arrivarci c’è solo questa strada stretta e piena di curve. E quando scende la nebbia non si vede più niente.

ENZO CASTELLO – COMITATO PER SCARPINO La discarica era nata così per… provvisoria. Poi per 40 anni hanno portato spazzatura in una valle, in una valle, che era meravigliosa dove c’erano castagni, c’erano i fiumi, fiumi dove la gente attingeva acqua, dove si beveva acqua potabile.

MAURO SOLARI- INGEGNERE COMITATO PER SCARPINO Ci sono le sorgenti del torrente Cassinelle dentro la discarica.

CLAUDIA DI PASQUALE E quindi cosa accade? Cioè qual è il rischio?

MAURO SOLARI- INGEGNERE COMITATO PER SCARPINO Accade che il percolato uscirà praticamente per sempre e dovrà essere depurato di qua a 40- 50 anni… È un problema grosso perché è moltissimo il percolato: abbiamo 80 metri cubi all’ora. Normalmente una discarica ha 1 – 2 metri cubi, noi siamo a 80.

CLAUDIA DI PASQUALE Ed è mai capitato che questo percolato uscisse fuori?

MAURO SOLARI- INGEGNERE COMITATO PER SCARPINO Certo che è capitato. Il percolato è sempre andato.

CLAUDIA DI PASQUALE Dove?

MAURO SOLARI- INGEGNERE COMITATO PER SCARPINO Eh, nel torrente che nasce dentro la discarica. É un torrente che poi va a mare ovviamente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Solo dal 2008 il percolato della discarica viene incanalato in questa tubazione che arriva fino a questo depuratore per le acque reflue.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo depuratore era idoneo per trattare il percolato o no?

MAURO SOLARI- INGEGNERE No, non era idoneo. Quindi tipo i metalli pesanti passavano tranquillamente.

CLAUDIA DI PASQUALE E quindi finivano sempre a mare?

MAURO SOLARI- INGEGNERE COMITATO PER SCARPINO Sempre a mare, esatto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2014 a causa di un’alluvione il percolato esce dalle vasche di raccolta e finisce nei torrenti. La magistratura apre un’inchiesta, la discarica viene chiusa, e a distanza di 4 anni non è ancora in funzione.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma quanti rifiuti ci sono qua sotto?

MATTEO CAMPORA – ASSESSORE AMBIENTE E RIFIUTI GENOVA Eh, quanti rifiuti ci sono è difficile dirlo. Ci sono rifiuti; e, se si va sotto, si va sotto forse per quasi 100 metri.

CLAUDIA DI PASQUALE Per 100 metri ci sono rifiuti?

MATTEO CAMPORA – ASSESSORE AMBIENTE E RIFIUTI GENOVA Rifiuti. Eh, è così. Lo so. Sembra una cosa assurda, questa discarica ha rappresentato un problema ambientale fortissimo. Lo è ancora perché è una discarica che continueremo a pagare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Pagheranno per metterla in sicurezza, per la realizzazione di un impianto di trattamento del percolato, e per la costruzione di un impianto di trattamento dei rifiuti indifferenziati, che ancora oggi non esiste nemmeno sulla carta.

CLAUDIA DI PASQUALE Com’è che Genova si è ridotta così?

MATTEO CAMPORA – ASSESSORE AMBIENTE E RIFIUTI GENOVA Questa è una domanda che bisognerebbe porre a chi ha governato questa città per gli ultimi 30 anni. Le amministrazioni che si sono succedute – sempre amministrazioni di centro sinistra – non hanno mai individuato come priorità quella di fare un impianto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oggi il direttore della discarica è Carlo Senesi che dal 2007 al 2011 è stato assessore ai rifiuti di Genova. In quegli anni, in concomitanza con le alluvioni, ha proposto all’allora sindaco Marta Vincenzi, di ordinare lo scarico del percolato direttamente nel torrente.

CARLO SENESI - RESPONSABILE IMPIANTI AMIU Qualsiasi pioggia che cadeva sulla discarica diventava percolato.

CLAUDIA DI PASQUALE Quante volte è stato costretto a fare delle ordinanze del genere…

CARLO SENESI - RESPONSABILE IMPIANTI AMIU Io ricordo un paio di volte è stato, se non ricordo male.

CLAUDIA DI PASQUALE Le sembra un buon posto dove fare una discarica questo?

CARLO SENESI - RESPONSABILE IMPIANTI AMIU Assolutamente no. Con le normative attuali non si sarebbe neanche ipotizzato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oggi però l’amministrazione comunale ha annunciato che il prossimo mese di maggio, la discarica di Scarpino sarà riaperta nonostante non ci sia ancora un impianto di trattamento per i rifiuti indifferenziati.

CLAUDIA DI PASQUALE Praticamente “Scarpino Tre” è realizzata sopra “Scarpino Due”?

CARLO SENESI - RESPONSABILE IMPIANTI AMIU Sopra al Due, esatto.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè sopra la vecchia discarica?

CARLO SENESI - RESPONSABILE IMPIANTI AMIU Esattamente, però con una separazione totale.

CLAUDIA DI PASQUALE E invece l’impianto di trattamento dove dovrebbe essere realizzato?

CARLO SENESI - RESPONSABILE IMPIANTI AMIU Nella parte della sommità, lassù in cima.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè sopra la vecchia discarica? CARLO SENESI - RESPONSABILE IMPIANTI AMIU Sopra la vecchia discarica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In tutto questo il comitato contro la discarica è sul piede di guerra.

FELICE AIROLDI - COMITATO PER SCARPINO Ora, se l’alternativa nostra, dopo quasi trent’anni di lotte, è ricominciare tutto da capo… Avete visto dove siamo? Qui siamo in cima a un monte! E l’acqua va a valle! E quindi questa cosa qua non è ancora cambiata! Io non so come fanno a dire che oggi la discarica è in sicurezza se non è cambiato niente; perché il monte è sempre quello, la valle è sempre quella e io mi domando, quando piove, dove finirà tutta quest’acqua?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma intanto che la discarica è chiusa i rifiuti di Genova dove vanno?

GIACOMO RAUL GIAMPEDRONE-ASSESSORE CICLO ACQUE E RIFIUTI REGIONE LIGURIA Guardi, circa l’80 per cento dei rifiuti che vengono trasferiti da Genova, vanno in Piemonte. Il rimanente 20 più o meno, va fra la Toscana e alcuni impianti della Lombardia.

CLAUDIA DI PASQUALE Sono termovalorizzatori?

GIACOMO RAUL GIAMPEDRONE-ASSESSORE CICLO ACQUE E RIFIUTI REGIONE LIGURIA Sono termovalorizzatori, sono impianti tecnici per il rifiuto indifferenziato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Insomma: oggi Genova non sa proprio dove buttare la sua spazzatura che così finisce un po’ a Savona e a La Spezia, un po’ agli inceneritori di Como, Parona, Milano. Fino ad alcune settimane fa li portavano anche a Massa Carrara. La maggior parte però finisce in Piemonte in provincia di Alessandria, nell’impianto di Castelceriolo.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti camion arrivano ogni giorno da Genova?

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Mediamente 10, 11. Questa è la pressa dove il camion, in retromarcia…

CLAUDIA DI PASQUALE Arriva e scarica.

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Arriva e scarica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I rifiuti vengono scaricati qui; poi, vengono tritovagliati e separati in frazione secca e frazione umida.

CLAUDIA DI PASQUALE È soltanto Genova città che vi porta i rifiuti o anche altri comuni liguri?

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Genova più alcuni comuni della zona. A noi fa comodo, lo dico francamente. L’impianto è sovradimensionato rispetto alle esigenze dell’alessandrino e quindi ben vengano i rifiuti da fuori, se no non stiamo in piedi economicamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, voi avete bisogno che vi arrivino dei rifiuti da altre regioni?

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’impianto infatti potrebbe trattare più di 130mila tonnellate di rifiuti indifferenziati l’anno, ma l’ARAL, la società pubblica che lo gestisce, è formata da una trentina di Comuni dell’alessandrino che di tonnellate ne portano solo 37 mila.

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Il bilancio è in rosso.

CLAUDIA DI PASQUALE A quanto ammontano i debiti?

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Non glielo so dire, ma siamo sopra i 15milioni di preciso.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma perché c’è questa situazione finanziaria?

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL È legata alla situazione finanziaria del comune di Alessandria. Alessandria è un comune che è andato praticamente in default.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sarà forse per questo motivo che l’Aral oltre a prendersi i rifiuti di Genova, si è presa anche quelli di Napoli e di Roma. Ma per questa vicenda, è finita sotto la lente della Procura di Brescia. Il Noe di Milano, infatti, ha documentato che i rifiuti napoletani e romani, invece di essere trattati, venivano scaricati dai camion e subito ricaricati e portati in questa discarica, oppure tombati nella vecchia discarica dell’Aral, ormai esaurita e chiusa da anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè sulla carta era stato fatto il trattamento e la stabilizzazione.

PIERO VINCENTI – COMANDANTE NOE MILANO Sì, documentalmente facevano emergere che le operazioni erano avvenute regolarmente. Come le immagini delle telecamere hanno dimostrato, se io arrivo col camion. Lo scarico, e 5 minuti dopo con la pala lo ricarico su un altro che poi esce dall’impianto e va…

CLAUDIA DI PASQUALE In discarica…

PIERO VINCENTI – COMANDANTE NOE MILANO Vuol dire che il trattamento non è avvenuto.

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL A seguito di questa inchiesta ci furono le dimissioni del consiglio di amministrazione…

CLAUDIA DI PASQUALE Lei quindi, com’è che arriva qua?

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Scopro dopo di essere arrivato qua in seguito dell’inchiesta.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E quando arriva fa una brutta scoperta, in realtà l’Aral non era autorizzata a smaltire i rifiuti di altre province nelle discariche della zona…

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL I rifiuti di Napoli e del Lazio stavano in questo capannone. Abbiamo dovuto trovare due discariche in Toscana dove andare a conferire tramite intermediari il materiale che c’era in questo capannone.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E quindi i rifiuti di Roma e Napoli finiti ad Alessandria, sono ripartiti alla volta della Toscana.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto avete pagato?

GIUSEPPE BIOLATTI –CONSULENTE TECNICO ARAL Circa un milione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma funziona così: io costruisco un impianto di trattamento o di smaltimento che è sovradimensionato. Dal mio Comune non arrivano rifiuti a sufficienza. Allora, mi tappo il naso e importo i rifiuti che arrivano dalle altre Regioni. A loro risolvo un problema e io sistemo le mie casse. Tutto questo in nome della sostenibilità economica. Ma in tema di sostenibilità ambientale come la mettiamo? Insomma se io ho interesse a bruciare o smaltire in discarica, è questa la logica, la strategia giusta per incrementare la raccolta differenziata? In mezzo ci sono i cittadini quelli che ospitano questi impianti, quelli che si danno più da fare per riciclare e differenziare nella speranza di inalare meno fumi tossici. Invece non lo sanno, respirano i rifiuti degli altri, perché i rifiuti circolano. Passano di mano e arrivano mascherati.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma come sono finiti i rifiuti napoletani nella discarica esaurita di Castelceriolo in provincia di Alessandria? Per capirlo, andiamo a Giugliano, in uno degli impianti da dove sono partiti i rifiuti. È gestito dalla SAPNA, la società pubblica che si occupa dei rifiuti del napoletano.

GABRIELE GARGANO – AMMINISTRATORE UNICO SAPNA Qua noi raccogliamo i rifiuti di tutti i 92 comuni della provincia di Napoli.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui i rifiuti indifferenziati vengono scaricati, tritovagliati e separati. Il problema è che poi bisogna portarli in altri impianti per recuperarli o smaltirli. Ma la Campania non ne ha un numero sufficiente e quindi la SAPNA è costretta a mandarli fuori.

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Ci sono i termovalorizzatori, che lavorano con noi da sempre, come quello di Bergamo o di Rea Dalmine, un impianto di incenerimento, e poi ci sono impianti di recupero materia.

CLAUDIA DI PASQUALE Quale percentuale va all’estero invece?

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA La percentuale che va all’estero è il 4 per cento.

CLAUDIA DI PASQUALE E va dove esattamente?

GABRIELE GARGANO – AMMINISTRATORE UNICO SAPNA In Portogallo, Spagna e in Austria.

CLAUDIA DI PASQUALE Come ci arriva in Portogallo, Spagna e Austria?

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Allora in Austria ci andavamo con il treno. In Spagna ad Albacete andiamo con navi cargo, facciamo delle navi da circa 3mila tonnellate, circa ogni 15 giorni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Abbiamo provato a ricostruire dove finiscono i rifiuti napoletani. Ma non è un'impresa semplice. Per esempio tra le imprese che hanno vinto le gare della SAPNA c’è il colosso bolognese Herambiente, che ha affidato i rifiuti a un imprenditore lombardo, che li ha fatti arrivare nell’impianto piemontese dell’Aral. Si chiama Paolo Bonacina e secondo le indagini della procura di Brescia ci sarebbe lui al centro del presunto traffico di rifiuti dal sud verso il nord Italia. Bonacina ha vinto con le sue società anche altre gare bandite dalla SAPNA per i rifiuti napoletani.

CLAUDIA DI PASQUALE C’è questo Paolo Bonacina che è stato arrestato…

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Assolutamente sì. Assolutamente sì. L’impianto è ancora autorizzato e sta lavorando. Lei lo sa? Non lavora più per noi, ma sta lavorando.

CLAUDIA DI PASQUALE Quello che è venuto fuori è che questo Bonacina non trattava il rifiuto, ma lo conferiva lo stesso…

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Guardi… c’è un’indagine… ma non siamo coinvolti in nessuna maniera. Quando il rifiuto entra dentro al loro impianto, Bonacina diventa il produttore del rifiuto. Se poi Bonacina non recupera il materiale, non lo brucia o ne fa qualche altra cosa, per cui non è autorizzato, ne risponde lui. Io non faccio il carabiniere. Che faccio? Devo andare là e devo controllare loro che attività fanno sul rifiuto?

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè insomma, Bonacina non trattava questi rifiuti.

PIERO VINCENTI – COMANDANTE NOE MILANO Non li trattava, li trattava in maniera irregolare e faceva un’altra cosa importante che è quella del cambio codice.

PIERO VINCENTI – COMANDANTE NOE MILANO Per un esperto del settore, voleva dire una cosa molto semplice. Abbattere i costi di smaltimento.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Meno tratti il rifiuto e più ci guadagni. In sostanza, secondo le indagini, Bonacina prendeva i rifiuti napoletani, non li trattava in modo corretto e poi li portava lo stesso in più impianti del nord Italia, anche in alcuni inceneritori, come quello di Brescia del colosso A2A, e qui non entravano come rifiuti napoletani.

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE Noi abbiamo registrato che un impianto lombardo ha portato dei rifiuti, classificati con un certo codice, conformi alle nostre autorizzazioni…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma con un codice falso però…

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE Noi non possiamo rispondere di quello che hanno fatto altre società.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè io mi chiedo chi è che controlla… chi controllava il conferimento di questi rifiuti?

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE Su questo non posso dirle altro, in quanto ci sono delle indagini in corso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’inceneritore di Brescia è uno dei più grandi d’Europa. Nell’ultimo anno, ha bruciato 725mila tonnellate di rifiuti. Chi glieli porta, paga. Dalla loro combustione, A2A invece genera energia elettrica e termica, che vende ai bresciani.

PIERCARLO PADERNO –EMERGENZA AMBIENTE BRESCIA Brescia produce in questo momento qua, come città, 50mila tonnellate annue di rifiuto non differenziato.

CLAUDIA DI PASQUALE E l’inceneritore invece quante ne brucia?

PIERCARLO PADERNO –EMERGENZA AMBIENTE BRESCIA L’inceneritore è costruito per bruciare fino a 800 mila

CLAUDIA DI PASQUALE E le altre tonnellate da dove arrivano?

PIERCARLO PADERNO –EMERGENZA AMBIENTE BRESCIA Tutto il resto arriva dalla Lombardia e anche da fuori Lombardia. Quindi dal resto d’Italia, chiunque abbia bisogno di bruciare rifiuti li può portare qua fondamentalmente.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi avete fatto anche una petizione… Cioè?

IMMA LASCIALFARI–COORDINATRICE COMITATI AMBIENTALISTI LOMBARDI Certo. Non è possibile e non lo stiamo facendo perché siamo dei razzisti, ma il bacino deve essere provinciale. Non possiamo giocare con la salute dei cittadini. Non a caso siamo la terza città più inquinata d’Europa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il bello è che esiste anche un osservatorio sull’inceneritore di Brescia, che ogni anno mette nero su bianco da dove arrivano i rifiuti urbani o speciali. Come si può vedere, la maggior parte dei rifiuti risulta provenire dalla Lombardia.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto, magari degli impianti lombardi che vi portano i rifiuti…

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE Possono averli ritirati da altre regioni…

CLAUDIA DI PASQUALE Da altre regioni italiane e questo dato non viene registrato dal vostro osservatorio. LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE No, non viene registrato perché noi riceviamo rifiuti da impianti che sono autorizzati a trattarli, i quali possono ricevere rifiuti anche da diverse provenienze.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A2a Ambiente ha 34 impianti per i rifiuti, di cui sei sono inceneritori. Si trovano tutti in Lombardia tranne uno, quello di Acerra che si trova in provincia di Napoli. Anche questo brucia ogni anno più di 700 mila tonnellate di rifiuti da cui poi recupera energia. Questa è la camera di combustione, mentre questa è la sala controllo.

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE Sono diverse centinaia di computer industriali che rilevano tutte le varie grandezze, quindi temperature, pressioni, emissioni…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Le emissioni contengono polveri e nanopolveri.

CLAUDIA DI PASQUALE Non c’è un limite specifico per le nanopolveri, questo mi sembra di comprendere…

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE No, no.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Su questi grandi schermi i valori appaiono tutti sotto i limiti. Mentre siamo lì a fare le riprese, per qualche istante, per uno dei parametri, appare anche questo messaggio con su scritto “superata soglia limite media giornaliera”.

CLAUDIA DI PASQUALE Una volta che viene bruciato, in che cosa si trasforma il rifiuto?

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE Dalla combustione del rifiuto risulta una cenere; la cenere che rimane in fondo alla griglia di combustione viene recuperata completamente. Poi invece abbiamo una cenere che viene filtrata, è quella che viene catturata dai sistemi di depurazione dei fumi. In questa cenere si concentrano i composti pericolosi.

CLAUDIA DI PASQUALE In Campania esistono degli impianti che trattano queste ceneri?

LORENZO ZANIBONI –RESPONABILE IMPIANTI A2A AMBIENTE No, al momento non esistono.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E così riparte il viaggio dei rifiuti campani ridotti in cenere. Le ceneri non pericolose, quelle del “fondo griglia”, vengono caricate su questi camion e trasbordate poi su treno; finiscono in impianti di trattamento lombardi, veneti e laziali. Le ceneri super tossiche finiscono invece in Germania nelle miniere di Salgemma, ma anche nel Lazio e in Lombardia; ma non sappiamo esattamente in quali impianti: non ce l’hanno voluto dire.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I rifiuti negli anni hanno invertito la rotta: da sud a nord. Perché è lì che hanno capito che sono una risorsa e hanno costruito gli impianti. Dietro i 44 inceneritori ci sono perlopiù le 4 grandi multiutility d’Italia che si occupano di tanti servizi. L’A2a ha fatturato di oltre 5 miliardi di euro. È di proprietà dei comuni di Brescia, di Milano, e grande fetta in mano al mercato azionario. L’emiliana Hera ricavi per 4,5 miliardi. I soci sono i comuni di Bologna, Imola, Modena, Ravenna, Trieste, Padova, Udine e il mercato azionario anche qui. Iren ha ricavi per 3,3 miliardi e ha come soci una finanziaria che di fatti è di proprietà dei comuni di Genova e Torino poi ci sono i comuni di Reggio Emilia, Parma e gran fetta anche qui in mano al mercato. La romana Acea ricavi per 2,8 miliardi, i soci sono Roma Capitale, la multinazionale Suez SA, il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone e anche qui una grande fetta in mano al mercato. Che cosa significa questo? Significa che hanno interesse a bruciare perché a fine anno staccano poi i dividendi per gli azionisti. E i comuni si salvano dal default. Solo che il particolare non trascurabile è che sono gli stessi Comuni che dovrebbero alimentare quelle strategie per la raccolta differenziata. Solo che se diventano troppo virtuosi, poi, devono importare dei rifiuti da altre parti. E più si allunga la catena, il passaggio di mano e più c’è il rischio di perderne la tracciabilità. Quello che invece ci rimane sul groppone è un’eredità pesantissima. Abbiamo pagato una multa di 20 milioni di euro e un’altra ogni giorno dall’estate del 2015 di 120 mila euro. Lo sta pagando lo Stato Italiano che si rivale sulla regione Campania. Che dovrebbe sbrigarsi e poi dovrebbe risarcire. Dovrebbe.

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Siamo sul sito di stoccaggio di Masseria del Re, qui sono stoccati circa 2 milioni di tonnellate di rifiuti. Sono stati abbancati questi rifiuti dal Commissario di governo all’emergenza rifiuti e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri dal 2006 al 2008.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In totale in Campania sono stoccate 5 milioni e 600mila tonnellate di ecoballe, risalenti a più di 10 anni fa. Le avrebbe dovute bruciare l’inceneritore di Acerra che però all’epoca era ancora in costruzione. Le ecoballe poi sono state sigillate dalla magistratura e dissequestrate nel 2013.

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA La Regione dal 2015 ha bandito delle gare internazionali per poter smaltire e recuperare questo materiale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fino ad oggi è stato appaltato lo smaltimento del 15,7 per cento delle ecoballe. Ma quelle effettivamente rimosse sono solo l’1,9 per cento. Valore delle gare 180 milioni di euro. Ecco dove saranno smaltite. Tra le imprese che hanno vinto ci sono: A2a Ambiente, iren Ambiente, la Vibeco, la Defiam, la Bps di quel Paolo Bonacina indagato dalla procura di Brescia, e la Ecosistem inciampata in un’inchiesta sull’Eni in Basilicata.

CLAUDIA DI PASQUALE L’Ecosistem è quella calabrese?

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Calabrese sì.

CLAUDIA DI PASQUALE E vi risulta che sia indagata invece per lo smaltimento…?

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA No guardi, noi onestamente…

CLAUDIA DI PASQUALE Non lo sapete.

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Non abbiamo contratti né con Ecosistem né con Iren.

CLAUDIA DI PASQUALE È la Regione.

ANDREA ABBATE – DIRETTORE TECNICO SAPNA Quindi non facciamo nessun controllo su di loro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La responsabilità delle gare per lo smaltimento delle ecoballe è in capo alla regione Campania, ma il presidente De Luca ha preferito non parlare con noi. Il figlio Roberto, è finito poi sotto i riflettori dell’inchiesta dei giornalisti di Fanpage, che si sono avvalsi di un infiltrato speciale. L’ex boss della camorra Nunzio Perrella, che fingendosi rappresentante di una multinazionale ha proposto al figlio del governatore di smaltire una parte delle ecoballe.

INCHIESTA FANPAGE.IT Noi adesso se prendiamo qua per lavorare 100 camion al giorno c’è bisogno di gente. Eh sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In un incontro successivo un commercialista amico di De Luca jr, comunica la percentuale per la politica.

INCHIESTA FANPAGE.IT Atteniamoci a questo 10-15 per cento, poi vediamo l’operazione se è 9, se 8, se è il 12 se è il 5. 15, compreso, mi ripeti un’altra volta, del signor Roberto? Punto e basta, è così? Esatto. È così.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A seguito dell'inchiesta Roberto De Luca viene indagato per presunta corruzione e si dimette da assessore al bilancio del comune di Salerno. Il padre invece se la prende con i giornalisti di Fanpage.

INCHIESTA FANPAGE.IT ANTONIO MUSELLA - GIORNALISTA FANPAGE Almeno un commento sulle dimissioni di suo figlio?

VINCENZO DE LUCA Via, via, via. Qui solo persone civili.

ANTONIO MUSELLA - GIORNALISTA FANPAGE Perché suo figlio parlava di ecoballe?

VINCENZO DE LUCA Via.

ANTONIO MUSELLA - GIORNALISTA FANPAGE Perché suo figlio parlava di ecoballe?

VINCENZO DE LUCA Via la camorra!

ANTONIO MUSELLA - GIORNALISTA FANPAGE Perché saremmo camorristi?

VINCENZO DE LUCA Via la camorra!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Si calcola che per smaltire tutte le ecoballe ci vorranno 15 anni. Un bel problema visto che l'Italia è stata condannata dall'Europa a pagare una multa di 20 milioni di euro più una penalità di 120mila euro al giorno, fino a quando non saranno smaltite tutte le ecoballe e realizzati gli impianti necessari a garantire l'autosufficienza della Campania nella gestione dei rifiuti. Intanto a Napoli la crescita della raccolta differenziata si scontra con alcune difficoltà.

RAFFAELE DEL GIUDICE - VICESINDACO DI NAPOLI CON DELEGA AI RIFIUTI Siamo al 36 per cento di raccolta differenziata.

CLAUDIA DI PASQUALE In realtà proprio nel dossier di Legambiente sui comuni ricicloni, Loro davano come dato il 31,31 per cento in realtà si è detto la Campania va molto bene. Si arriva oltre il 50 per cento. Napoli in realtà è la pecora nera…

RAFFAELE DEL GIUDICE - VICESINDACO DI NAPOLI CON DELEGA AI RIFIUTI Noi non abbiamo impianti. Faccio un esempio: l’umido noi lo portiamo fuori Regione. A Padova. Va a Padova agli impianti perché qui non abbiamo impianti di compostaggio.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto vi costa di fatto?

RAFFAELE DEL GIUDICE - VICESINDACO DI NAPOLI CON DELEGA AI RIFIUTI Intorno ai 140 euro a tonnellata. Quindi questo è un costo per noi importante.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E i viaggi da sud a nord e i vari passaggi di mano sicuramente non favoriscono la legalità. E infatti i reati sono in aumento: oltre 5700 e in aumento anche i sequestri, oltre 2200. Prima la Campania, poi staccate seconda la Puglia, il Lazio, la Calabria e la Sicilia. E non è esente neppure la candida Valle d’Aosta con 2 sequestri. Dopo la pubblicità invece vedremo come si fa a spendere 15 miliardi di euro e rischiare di rimanere sepolti dai rifiuti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Stiamo parlando della gestione dei rifiuti urbani nel nostro Paese. Abbiamo visto come i rifiuti girano l’Italia. Chi se li tiene in casa invece è la Sicilia; tutt’al più se li passa da provincia in provincia. Ed è fanalino di coda nella raccolta, perché nell’80% dei rifiuti lo seppellisce nelle discariche. Ne ha riempite 500, ne sono rimaste aperte solo 9, ma ancora per poco tempo, la pacchia è finita: a settembre non sapranno più dove metterli. Nello Musumeci, il governatore, appena si è insediato, ha chiesto e ottenuto poteri straordinari. Ma son 20 anni che sono in emergenza: si sono alternati i governatori Capodicasa, Cuffaro, Lombardo, Crocetta, ma la situazione è sempre quella. Cuffaro ha costituito gli Ato, gli Ambiti Territoriali Ottimali. Ha messo insieme i comuni, dovevano essere in realtà 9, uno per ogni provincia, secondo logica, sono diventati 27, ha preferito abbondare e i comuni hanno imbarcato, in un’operazione clientelare, oltre 11 mila impiegati. Poi, un po’ di sprechi, un po’ i cittadini morosi, e hanno accumulato nel tempo un miliardo e 800 milioni euro di debiti. È arrivato Lombardo e li ha messi in liquidazione e ha costituito le Srr, le Società Di Regolamentazione Rifiuti. Erano 18, non hanno fatto in tempo a partire in pieno che sono state poi commissariate e Crocetta ha aggiunto gli Aro, gli Ambiti di Raccolta Ottimale e hanno generato la bellezza di 260 stazioni appaltanti perché ogni comune ha fatto poi gara a sé. Ecco. Per quanti sono, la Sicilia dovrebbe essere pulita come la Svizzera. A partire da quella che è stata insignita come capitale d’Italia per la cultura nel 2018, che può anche contare sull’ausilio di un esercito di oltre 2 mila netturbini.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Una volta atterrati all’aeroporto Falcone Borsellino di Palermo. Basta uscire dall’autostrada, e questo è il benvenuto. In città questo è lo scenario. Qui siamo in periferia, qui vicino al centro, qui nel quartiere popolare dell’Albergheria.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO La città di oggi è sicuramente molto più pulita di come era due anni fa, o di come era tre anni fa.

CLAUDIA DI PASQUALE Basta farsi un giro nell’Albergheria, voglio dire, non è… proprio il massimo.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Se lei va nel suk dell’Albergheria, quello è. Un suk, diciamo, ordinato ancora non l’ho visto, diciamo. Ma fa parte della nostra dimensione di vita, che è una dimensione, qualcuno forse non ha capito, noi siamo una città orgogliosamente mediorientale in Europa.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma la raccolta differenziata che percentuali ha oggi a Palermo?

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO La percentuale è quasi del 15 per cento.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché c’è una percentuale così bassa?

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO C’è purtroppo una non collaborazione da parte dei cittadini nella raccolta differenziata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La responsabilità è anche dei cittadini, ma la raccolta porta a porta, coinvolge poco più di un quinto degli abitanti. E la Corte dei Conti ha ipotizzato un danno erariale di 21 milioni di euro. Tra gli indagati: gli ex governatori Raffaele Lombardo e Rosario Crocetta, l'ex sindaco di Palermo Diego Cammarata e anche Orlando.

LEOLUCA ORLANDO - SINDACO DI PALERMO Mi scusi, allora, non mi faccia dire che io dal 2000 al 2012 non ero sindaco di Palermo. Però mi faccia ripetere che questa città è stata in mano a persone che se la sono mangiata. È chiaro? E che hanno mangiato un’azienda come l’AMIA, fino al punto di farla fallire, caso unico di azienda partecipata al cento per cento in Italia che fallisce.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fallita l’AMIA, il Comune ha creato la RAP. Quel poco di organico che viene differenziato lo portano a 130 chilometri di distanza, a Marsala nel trapanese, in un impianto di compostaggio privato: quello della Sicilfert, che oggi è sotto processo per truffa aggravata.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè voi portate l’organico a questa società senza che ci sia stata una gara?

ANTONIO PUTRONE – DIRIGENTE RAP Da quando è partito il porta a porta Uno, dal 2010, si conferisce lì, mi risulta così.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto costa a Marsala…?

ANTONIO PUTRONE – DIRIGENTE RAP Marsala costa 80 euro a tonnellata, ma c’è anche il viaggio. È troppo oneroso, impegnativo, sotto il profilo organizzativo. Troppo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il paradosso è che a pochi chilometri da Palermo a Bellolampo c’è un nuovo impianto di trattamento dei rifiuti inaugurato nel 2016, è costato circa 28 milioni di euro. Invece che a Marsala, l’organico potrebbero portarlo qui.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi abbiamo a Bellolampo un impianto di compostaggio che non viene usato.

ANTONIO PUTRONE – DIRIGENTE RAP Eh sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Grida un po’ vendetta questa cosa…

ANTONIO PUTRONE – DIRIGENTE RAP Assolutamente sì. C’è stato imposto di non utilizzarlo.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè chi ve l’ha imposto?

ANTONIO PUTRONE – DIRIGENTE RAP Le ordinanze del Presidente della Regione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fino ad oggi l’impianto di Bellolampo è stato usato solo per trattare i rifiuti indifferenziati che rappresentano ben l’85 per cento della mondezza di Palermo.

PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP Il mezzo entra all’interno dell’impianto e scarica il suo rifiuto. Alle mie spalle, inizia il ciclo di trattamento.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Una volta scaricati, i rifiuti vengono separati e triturati tramite questo sistema di nastri e vagli. Si recuperano i metalli, si separa la frazione secca da quella umida che poi viene portata in queste biocelle per essere stabilizzata. Ma ecco che qui sorge un bel problema.

PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP Nominalmente l’impianto può trattare 750 tonnellate.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi?

PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP Ne entrano circa 1000. È messo sotto sforzo diciamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè questo impianto di fatto oggi è sottodimensionato?

PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP No, è sovraccaricato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per legge il rifiuto stabilizzato non dovrebbe superare il limite di 1000 milligrammi di ossigeno. A Bellolampo riescono a rispettarlo?

SALVATORE CALDARA - DIRIGENTE ARPA SICILIA No, i valori che noi abbiamo riscontrato non sempre raggiungono il valore di 1000 anzi raramente, infatti per ora in questo momento sono tutti in deroga rispetto al 1000. Hanno tutti l’autorizzazione a lavorare col 50 per cento, con l’abbattimento del 50 per cento.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè la deroga è ancora oggi vigente?

SALVATORE CALDARA - DIRIGENTE ARPA SICILIA Sì. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quello che non è in deroga è quello che riprendiamo casualmente con le telecamere: un compattatore si dirige sopra la discarica palermitana di Bellolampo e scarica i sacchetti dell’immondizia così come sono stati raccolti, cosa vietata per legge. Poi una pala meccanica spinge i sacchetti in mezzo agli altri rifiuti. I gabbiani fanno festa, le mucche un po’ meno. CLAUDIA DI PASQUALE Questo è un autocompattatore che sale, direttamente in discarica…

LEOLUCA ORLANDO – SINDACO DI PALERMO …la prego di farlo vedere, e di consentirmi di far valere i diritti di questa azienda. È evidente che adesso disporrò tutti gli accertamenti e chi ha sbagliato, paga.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Facciamo allora vedere il video al responsabile dell’impianto di Bellolampo. PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP …quella potrebbe essere immondizia, ma proveniente da strada. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Secondo lui quei rifiuti potrebbero essere residui della pulizia stradale, tipo terra, rami e foglie, che non necessitano di trattamento.

CLAUDIA DI PASQUALE Qua io vedo un ammasso di sacchetti di rifiuti urbani, io questo vedo… sinceramente. La sfido a dirmi che non è così.

PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP Per carità, io adesso lo vedo un po’ così. Potrebbe lasciarmi un po’ perplesso… Ma io non lo vedo, è una ripresa a 200 chilometri, lei mi sa fare un’analisi merceologica di quel materiale?

CLAUDIA DI PASQUALE E voi l’avete fatta l’analisi merceologica di quello che c’era qua dentro per capire cosa c’era? Mi scusi…

PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP Può pure essere che ci sia stato un conferimento non pienamente corretto, che è salito inizialmente con un codice sbagliato, e un compattatore, uno…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma chi deve controllare quello che accade in discarica? Mi scusi…

PASQUALE FRADELLA – DIRIGENTE IMPIANTI RAP Per carità, ma se… se… io sono d’accordo che ci può essere una violazione per un compattatore. E io le dico: può darsi che ci sia stata una violazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso ottobre l’ARPA ha fatto sequestrare una parte della discarica proprio perché erano stati trovati dei rifiuti non trattati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È stato sequestrato perché metterebbe a rischio l’ambiente. Tutto ruota intorno al trattamento dei rifiuti indifferenziati, la parte umida deve essere trattata e deve essere abbassato il così detto “indice respirometrico”, che sarebbe la quantità di ossigeno che viene bruciata dalla parte umida del rifiuto nel momento in cui fermenta. Non deve superare il limite di mille milligrammi altrimenti c’è il rischio che rilasci una volta portata in discarica, percolato e biogas avvelenando acqua e aria per le prossime generazioni. E invece come li trattano?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sempre a Bellolampo, c’è questo piazzale dove scaricano altri compattatori. NETTURBINO La immondizia ne arriva molta, pure, troppa assai l’immondizia.

CLAUDIA DI PASQUALE Qua?

NETTURBINO Sì, certo. Tutta la provincia di Palermo scarica qua.

CLAUDIA DI PASQUALE Qui per terra, lì?

NETTURBINO Ma certo… va bene, dove il camion, non lo so… ma dico, è normale? Poi non lo so, io…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È la spazzatura di altri cinquantadue comuni. A trattarla però è solo questo piccolo tritovagliatore, che separa il secco dall’umido. Poi la frazione umida viene stabilizzata dentro questi salsicciotti. Intanto il percolato cola e i sacchetti volano.

SALVATORE CALDARA - DIRIGENTE ARPA SICILIA Non è una situazione a norma, è chiaro.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, voi avete fatto un controllo, cioè il loro rifiuto che parametro raggiunge? Dovrebbe essere mille…

SALVATORE CALDARA - DIRIGENTE ARPA SICILIA Ha un valore ovviamente altissimo…

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè?

SALVATORE CALDARA - DIRIGENTE ARPA SICILIA Cinquemila. Cioè di fatto confrontabile con un rifiuto non trattato. CLAUDIA DI PASQUALE Cinquemila invece di mille…

SALVATORE CALDARA - DIRIGENTE ARPA SICILIA Cinquemila invece di mille… sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei sa che l’ARPA ha fatto un controllo da cui risultava che l’indice respirometrico, che dovrebbe essere inferiore a mille, nel caso dei vostri rifiuti era cinquemila…

GAETANO MONASTRA – PRESIDENTE CDA ECOAMBIENTE ITALIA …guardi cinquemila…

CLAUDIA DI PASQUALE …che praticamente era – lo ha scritto l’ARPA, non l’ho fatto io il controllo – era praticamente un rifiuto “tal quale”.

GAETANO MONASTRA – PRESIDENTE CDA ECOAMBIENTE ITALIA Vuol dire che l’ARPA aveva dei macchinari che non erano tarati bene…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Monastra è l’amministratore di EcoAmbiente, la società privata che gestisce l’impianto di trattamento mobile di Bellolampo, che tratta i rifiuti di cinquantadue comuni siciliani.

CLAUDIA DI PASQUALE Avete fatto una gara per avere questo…

GAETANO MONASTRA – PRESIDENTE CDA ECOAMBIENTE ITALIA Quando c’è un’emergenza si guarda poco alle gare.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi è stato un affidamento diretto?

GAETANO MONASTRA – PRESIDENTE CDA ECOAMBIENTE ITALIA Ma non c’è neanche un affidamento. Il nostro committente è il Comune. Non è la Regione.

CLAUDIA DI PASQUALE E voi avete fatto una gara coi comuni per avere il servizio?

GAETANO MONASTRA – PRESIDENTE CDA ECOAMBIENTE ITALIA No.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi vi trovate, di fatto, a gestire il trattamento dei rifiuti di cinquantadue comuni senza aver fatto una gara.

GAETANO MONASTRA – PRESIDENTE CDA ECOAMBIENTE ITALIA Che ben vengano altri e lo facciano altri, non è che…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il vero problema ora è che la discarica di Bellolampo è quasi esaurita e i rifiuti trattati dall’impianto mobile di EcoAmbiente da alcune settimane vengono caricati sui camion e portati ad oltre 250 km di distanza, al confine tra Catania e Siracusa, nella discarica di una società privata: la Sicula Trasporti, che negli anni ha abbancato tanti di quei rifiuti da creare una nuova serie di colline.

CLAUDIA DI PASQUALE Tutte queste discariche che area occupano e quanti rifiuti sono in totale abbancati?

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Oh mamma mia. Questo è un numero abbastanza grande, devo fare i conti: uno, due, tre, quattro… più di 10milioni di metri cubi sicuramente.

CLAUDIA DI PASQUALE Di rifiuti. Su un’area di? Quanti ettari saranno?

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Un centinaio di ettari.

CLAUDIA DI PASQUALE Un centinaio di ettari.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui le discariche sono sette. Quella storica è sotto un tappeto d’erba che nasconde i rifiuti sepolti dal 1980 al 2002. Una vera bomba ecologica.

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Questa discarica non ha la copertura finale con i teli impermeabili. Ha in sicurezza…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma chi se ne dovrebbe occupare?

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI La bonifica deve essere effettuata dal comune di Catania.

CLAUDIA DI PASQUALE La Sicula Trasporti però di fatto è stata quella che ha sversato in questa discarica i rifiuti?

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI La Sicula Trasporti è quella che ha effettuato la gestione. Ma la titolarità della discarica è del comune di Catania.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Sicula Trasporti è della famiglia Leonardi e anche sulle altre discariche ci sarebbe qualcosa da dire: per un periodo avrebbero abbancato rifiuti senza le dovute autorizzazioni, nel 2009 invece la Regione ha autorizzato un maxi ampliamento che di fatto avrebbe sanato un milione e 340mila metri cubi di rifiuti. Una discarica di qua, una di là, quello della famiglia Leonardi è diventato un impero.

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Noi trattiamo circa il 40 per cento dei rifiuti che si producono in Sicilia. Da circa 220 comuni di quattro province.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I rifiuti indifferenziati vengono separati in questo grande impianto. La parte umida viene stabilizzata in queste celle, dove dovrebbe restare a maturazione per ventuno giorni. Ma siccome i rifiuti da trattare sono troppi…

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Oggi siamo costretti a trattarlo non più di quindici giorni.

CLAUDIA DI PASQUALE E la Regione vi ha autorizzato a trattare per un numero minore di giorni il rifiuto?

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Ovviamente sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Il rifiuto però dovrebbe raggiungere il cosiddetto indice respirometrico dinamico che non dovrebbe superare i 1.000 mg di ossigeno. Nel vostro caso, voi riuscite a raggiungere questo parametro?

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Beh, nei 15 giorni, no. Sicuramente è più elevato. Valori che sono 1.700-1.800 di media.

CLAUDIA DI PASQUALE Quale è il fatturato della vostra azienda?

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI Quaranta milioni l’anno, circa.

CLAUDIA DI PASQUALE Dai bilanci che ho visto io del 2016 erano 90 milioni.

MARCO MORABITO – DIRIGENTE SICULA TRASPORTI 2016 erano 90?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oggi, però, anche la discarica dei Leonardi è quasi esaurita. E così, una parte dei loro rifiuti viene portata in un’altra discarica privata, di proprietà della Oikos. Si trova in mezzo a due comuni catanesi: Motta Sant’Anastasia e Misterbianco, solo a poche centinaia di metri dalle abitazioni. Qui di discariche, in realtà, ce ne sono due. Questa è quella vecchia, usata dagli anni ottanta fino al 2013. E’ ricoperta da palme, ma sotto è stracolma di rifiuti, e ad oggi non è stata fatta neanche l’impermeabilizzazione definitiva. Intanto nel 2009, la Regione ne ha autorizzato l’ampliamento, in una zona che secondo il piano regolatore è pure a rischio frana.

CLAUDIA DI PASQUALE Lo ha visto lei il prg?

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Ascolti, non mi risulta che sia a rischio frana. Non mi pare che il prg contenga degli studi sulla franabilità di quest’area in cui siamo adesso. A me non risulta.

CLAUDIA DI PASQUALE Se lo vada a vedere.

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Con piacere.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Rocco Todero è l’avvocato di Mimmo Proto, uno dei soci della Oikos, che ha preferito non rilasciarci l’intervista. Nel 2014, Proto viene arrestato. Secondo i magistrati, avrebbe pagato mazzette e vacanze a un funzionario della Regione Sicilia, Gianfranco Cannova, che in cambio gli avrebbe garantito una corsia preferenziale nel rinnovo o nel rilascio delle autorizzazioni.

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Stiamo parlando di un’ipotesi.

CLAUDIA DI PASQUALE Ci sono delle intercettazioni ovviamente ambientali anche e telefoniche che in qualche modo sono a supporto, ovviamente, di quest’accusa.

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Se non sono validate dai giudizi della Magistratura giudicante, stiamo parlando ancora di ipotesi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Secondo le carte della magistratura uno dei soggiorni offerti dalla Oikos al funzionario regionale l’avrebbe prenotato il segretario dell’azienda della Oikos, Giuseppe Arcidiacono, proprio colui che il giorno dell’intervista è impegnato a riprenderci.

CLAUDIA DI PASQUALE Però noi qua abbiamo una fortuna, abbiamo il signor Arcidiacono che viene citato nelle carte che ci sta riprendendo in questo momento, che viene citato esattamente perché anche lui si occupava di prenotare gli alberghi.

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Il signor Arcidiacono non è autorizzato a rispondere.

CLAUDIA DI PASQUALE Poi volevo sapere un’altra cosa dal signor Arcidiacono: è vero che è parente del sindaco di Motta Sant’Anastasia?

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Potrebbe essere, io non lo so.

CLAUDIA DI PASQUALE Glielo può chiedere per favore?

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Ascolti, dica ai telespettatori che noi siamo rimasti d’accordo che l’intervista lei la fa a me e a nessun altro.

CLAUDIA DI PASQUALE Le ho detto che avremmo parlato del processo...

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS E ne stiamo parlando.

CLAUDIA DI PASQUALE …e dell’indagine e nell’indagine viene citato il signor Arcidiacono e io voglio sapere se il signor Arcidiacono che ha prenotato gli alberghi per Cannova che è coinvolto nelle inchieste, è parente del sindaco, dov’è la domanda strana scusi?

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Non so se è parente del sindaco e se vuole lo accertiamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì, accertiamolo.

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Stacchi e lo accertiamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Devo staccare qui?

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Sì, e certo.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché, quello mi sta riprendendo, mi riprende proprio lui, mi scusi, cioè…non capisco.

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Va beh facciamo finta che è parente del sindaco, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Facciamo per finta?

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Sei parente del sindaco Arcidiacono?

GIUSEPPE ARCIDIACONO – SEGRETARIO OIKOS Sì.

ROCCO TODERO – AVVOCATO OIKOS Sì, è parente del sindaco. Bene e adesso?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il funzionario regionale Cannova è stato il presidente delle conferenze di servizio che hanno portato ad autorizzare nel 2009 il maxi ampliamento della discarica di Oikos, per circa due milioni e mezzo di metri cubi.

NICOLO’ MARINO – EX ASSESSORE REGIONALE RIFIUTI SICILIA Che bisogno hai di una discarica così grande, 3 milioni di metri cubi, se tu, se fai la differenziata vai a conferire soltanto una parte residuale? Quindi capisco che c’è qualcosa che non funziona nel sistema.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nicolò Marino è stato assessore ai rifiuti della Regione Sicilia, quando il governatore era Crocetta. Nel 2014 istituisce una commissione proprio sulle discariche private.

NICOLO’ MARINO – EX ASSESSORE REGIONALE RIFIUTI SICILIA Il mio dovere era quello di contrastare il monopolio, di sopperire al monopolio dei privati, ma soprattutto di capire se le autorizzazioni rilasciate dalla regione siciliana fossero autorizzazioni rispettose della legge.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La commissione ha denunciato che gli iter amministrativi per le discariche private siciliane erano piene zeppe di carenze istruttorie, incongruenze, anomalie, documentazione non conforme alla normativa. Questa per esempio è la relazione sulla discarica di Oikos. Questa è quella sulla discarica di Leonardi. Questa invece è la relazione sulla discarica dei Catanzaro nell’agrigentino. Oggi Giuseppe Catanzaro è anche il presidente di Confindustria Sicilia. Ha preferito negarci la visita all’impianto di famiglia.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché dopo lei se ne va dopo neanche un anno e mezzo?

NICOLO’ MARINO – EX ASSESSORE REGIONALE RIFIUTI SICILIA Io vado via rompendo con Crocetta per una ragione gravissima: vado via perché non consentivo a Confindustria di fare quello che riteneva di fare perché Confindustria governava la regione siciliana, parlo di Confindustria, della Confindustria di Montante e di Catanzaro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La commissione ha acceso i riflettori anche sulla discarica di Mazzarrà Sant’Andrea, nel messinese. L’hanno realizzata su un torrente in una zona a rischio sismico, vicino a pozzi ad uso idropotabile. Anche qui, nel 2009 la regione siciliana ha autorizzato un mega-ampliamento che di fatto ha sanato un milione di metri cubi di rifiuti. Nel 2014 però, la discarica viene chiusa e sequestrata dalla magistratura.

SONIA ALFANO – LIQUIDATORE TIRRENOAMBIENTE SPA Se dovesse cominciare a piovere il problema del percolato è un problema imminente.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa potrebbe accadere se piovesse?

SONIA ALFANO – LIQUIDATORE TIRRENOAMBIENTE SPA Sversarsi del percolato.

CLAUDIA DI PASQUALE Il percolato finirebbe nel torrente e quindi a mare.

SONIA ALFANO – LIQUIDATORE TIRRENOAMBIENTE SPA Esattamente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per metter in sicurezza l’area e bonificare, servirebbero 116 milioni di euro, ma la società che gestisce la discarica è in liquidazione. E’ la Tirrenoambiente ed è formata da soci pubblici e privati.

SONIA ALFANO – LIQUIDATORE TIRRENOAMBIENTE SPA Oggi non siamo nelle condizioni di poter andare dai soci privati e dire: è uno scempio che si sta finendo di compiere, mettete mano al portafoglio… Non lo possiamo fare, perché il bando di gara, che prevede quindi anche gli obblighi dei soci privati nei confronti della Tirrenoambiente, è scomparso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra i soci privati troviamo volti noti: la Gesenu, riconducibile fino al 2016 al re dei rifiuti di Roma, Manlio Cerroni. Un 3% è persino di A2A ambiente, e infine ci sono gli ex amministratori, i piemontesi Pino Innocenti e Giuseppe Antonioli, oggi coinvolti in grane giudiziarie.

SONIA ALFANO – LIQUIDATORE TIRRENOAMBIENTE SPA Sono stati arrestati proprio per la gestione criminale della Tirrenoambiente. Stipendi pagati in contanti, promozioni fatte così, telefonicamente, si alzava il telefono… Era un bancomat questa società, un bancomat illimitato h24 per 365 giorni all’anno. Lei pensi che ad oggi la finanza ci ha detto che non sono riusciti a trovare i soldi eh, la finanza, ad oggi, continua a non trovare i soldi.

ANTONIO CONDORELLI - GIORNALISTA “LIVE SICILIA” Ma la cosa imbarazzante è il fatto che sono stati bruciati decine e decine di milioni di euro per realizzare strutture che non sono mai state mai utilizzate.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Antonio Condorelli è un giornalista catanese; ci mostra come è ridotta questa isola ecologica per la raccolta differenziata dei rifiuti di Catania.

ANTONIO CONDORELLI - GIORNALISTA “LIVE SICILIA” È una struttura che è stata inaugurata circa dieci anni fa, sono stati spesi 750mila euro. I cittadini dovevano conferire i rifiuti in questa struttura con una tessera elettronica, il sistema doveva riconoscerti uno sconto sulla tariffa che si paga ogni anno dei rifiuti. Sono strutture all'avanguardia, zincate, però sono state abbandonate subito dopo l’inaugurazione. I soldi sono stati spesi, taglio del nastro, politici in prima fila, risultato: nove anni dopo, tutto abbandonato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Catania la raccolta differenziata oggi non raggiunge neanche il 10 per cento. Insomma, siamo all’anno zero. Qui invece siamo nel trapanese, a Castelvetrano, dove nel 2010 è stato inaugurato questo grande impianto di compostaggio per l’organico della raccolta differenziata. È costato circa 10 milioni di euro e oggi è ridotto così: rifiuti ancora abbancati, mezzi abbandonati e distrutti, campane per la raccolta differenziata liquefatte.

ANTONIO FRASCHILLA – GIORNALISTA “LA REPUBBLICA” In questi vent’anni di emergenza, sentendo soltanto le cifre spese dai contribuenti attraverso il pagamento del servizio e qualche investimento pubblico che è stato fatto con fondi europei, parliamo di una cifra che si aggira tra i 15 e i 16 miliardi di euro spesi per non avere alcun impianto alternativo alle discariche. Per non avere una differenziata degna di questo nome.

 CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel frattempo è stato presentato un progetto per realizzare un inceneritore. Lo vorrebbero fare qui, a San Filippo del Mela, nel messinese, in una zona già fortemente segnata dalla presenza di questa raffineria. Proprio qui accanto c’è la centrale elettrica di A2A. Vorrebbero convertirla in un inceneritore in grado di bruciare circa 400mila tonnellate di CSS, ovvero di combustibile ricavato dai rifiuti: la regione Sicilia e il ministero dei Beni Culturali hanno detto no, il ministero dell’Ambiente sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo inceneritore non potrebbe invece risolvere il problema dei rifiuti che c’è in questo momento in Sicilia visto che ci sono soltanto discariche di fatto?

DAVIDE FIDONE –COMITATO CITTADINI NO INCENERITORE DEL MELA Assolutamente no. Perché questo è un inceneritore di CSS. In Sicilia non esistono impianti che producono il CSS, quindi in atto un inceneritore dovrebbe importare il CSS da altre parti d’Italia; insomma questo inceneritore aggraverebbe e non risolverebbe assolutamente l’emergenza rifiuti attualmente in atto in Sicilia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'emergenza rifiuti è il primo pensiero del neo presidente della regione Sicilia, che il 3 gennaio chiama a raccolta i giornalisti per dichiarare:

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIA Ho bisogno di poteri straordinari. Anche solo a termine. Chiederò al presidente del Consiglio dei ministri la dichiarazione dello stato di emergenza ambientale, non dobbiamo aspettare che i rifiuti vengano incendiati lungo le strade.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Gentiloni ha riconosciuto lo stato di emergenza rifiuti in Sicilia e ha concesso al presidente Musumeci poteri straordinari.

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIA La verità è che, in Sicilia, le emergenze sono sempre utili quando debbono costruirsi intrecci e affari poco chiari. È sul terreno dell’emergenza che si costruisce spesso l’intrallazzo.

CLAUDIA DI PASQUALE Poi di fatto anche lei oggi chiede poteri straordinari per poter affrontare questa emergenza.

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIA Con i poteri del commissario potremo attivare un bando pubblico internazionale per verificare se una parte dei rifiuti potrà andare all’estero.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo potrebbe però ricadere diciamo nelle tasche dei cittadini…

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIA Tutto ricade sulle tasche dei cittadini e questo i cittadini debbono saperlo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Grazie Governatore. Da sempre è così. Ma anche i cittadini, hanno le loro responsabilità per come e dove smaltiscono i rifiuti e anche nel momento in cui scelgono la persona da votare. Se non hanno uno scatto di reni, sono condannati a essere i vinti, condannati alla discarica tra le quali c’è anche quella della famiglia del presidente di Confindustria Sicilia Giuseppe Catanzaro. Ma quale futuro lasciamo? La Corte Di Giustizia Europea nel 2014 ci ha condannato a pagare 42 milioni ogni sei mesi perché abbiamo lasciato sparso sul territorio italiano 200 discariche fuori norma. Il Governo ha nominato da pochi mesi un commissario ad hoc, che dovrà prendersi cura di quelle discariche che erano state al loro tempo amministrate da altri commissari. Ne ha sistemate un pochettino, ci ha messo una pezza, e adesso ce ne sono da sistemare ancora 68. Ma se l’andazzo è quello che abbiamo visto a ogni discarica bonificata ne subentreranno altre avvelenate. Ma che senso ha mettere dei limiti a tutela della salute dell’ambiente se poi vai perennemente in deroga? O sei ipocrita, o sei incapace nel fargli rispettare quei limiti, oppure ci autorizzi, se non prevedi alternative, a sospettare che sei complice di quel sistema. A Roma per decenni la monnezza è stata roba di Manlio Cerroni. E poche settimane fa la procura di Roma ha chiesto per lui la condanna a sei anni di carcere usando parole durissime: ha detto “la gestione dei rifiuti a Roma è stata simile all’associazione di stampo mafioso. Omertà, controllo del territorio e istituzioni erano funzionali a mantenere il potere di un gruppo. Per anni si è buttato tutto in discarica senza fare alcuna raccolta differenziata"; non c’è mai stata una gara pubblica, la gestione dei rifiuti è avvenuta in perenne emergenza, allo scopo di creare e autorizzare il monopolio di una sola persona cioè Manlio Cerroni. Da anni le amministrazioni sapevano che la discarica più grande d’Europa doveva essere chiusa. Eppure…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per circa quarant’anni i rifiuti romani sono stati buttati qua, a Malagrotta. L'Europa aveva chiesto di chiuderla già nel 2007; verrà chiusa solo nel 2013, quando il sindaco di Roma era Ignazio Marino. Chiusa Malagrotta, come funziona oggi la gestione dei rifiuti a Roma?

NATALE DI COLA – FP CGIL ROMA E LAZIO Il vero problema è che le 4mila tonnellate che ogni giorno vengono prodotte nella capitale, l’azienda che dovrebbe gestirle, quindi Ama, non è in grado di gestirle completamente. Perché non ci sono impianti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Basta pensare che fine fa l’organico della raccolta differenziata.

NATALE DI COLA – FP CGIL ROMA E LAZIO L’Ama tratta nei suoi impianti il 9 per cento e il 91 viene dato all’esterno e in particolare viene dato al nord: i famosi camion che fanno centinaia e centinaia di chilometri.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'Ama infatti ha solo questo piccolo impianto di compostaggio che non ce la fa perché è sottodimensionato: e così i camion con l'organico romano vanno a Pordenone, a Padova e a Ravenna. Ci sarebbe anche questo impianto di compostaggio vicino Roma, ad Aprilia, è il più grande del Lazio. Ma è finito sotto sequestro. Anche la maggior parte dei rifiuti urbani indifferenziati viene piazzata altrove.

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA Noi portiamo fuori Regione solamente intorno a 90 mila tonnellate, 400 mila solo a Roma, quindi la spesa di trasporto è minima. Le altre sono a Frosinone, Aprilia.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma vanno ancora a Vienna i rifiuti?

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA Vanno a Vienna e a Colonia.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto paghiamo per mandare fuori i rifiuti indifferenziati?

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA Intorno a 150 euro a tonnellata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Una parte dei rifiuti urbani indifferenziati della capitale va anche in alcuni impianti abruzzesi: questo è quello di Aielli.

ALBERTO TORELLI – AMMINISTRATORE DELEGATO ACIAM SPA La quantità però complessiva autorizzata dagli accordi inter-regionali sono 40 mila tonnellate. Nell’ambito di questi…

CLAUDIA DI PASQUALE In un anno?

ALBERTO TORELLI – AMMINISTRATORE DELEGATO ACIAM SPA In un anno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La proprietà di questo impianto è dell'Aciam, una società mista pubblico privata formata per il 51 per cento da numerosi comuni abruzzesi; ma perché hanno accettato di prendere i rifiuti romani?

ALBERTO TORELLI – AMMINISTRATORE DELEGATO ACIAM SPA I nostri comuni hanno attivato dei sistemi della raccolta differenziata molto spinta, raggiungendo percentuali rilevanti, e in questo impianto ci siamo trovati diciamo, senza rifiuti.

CLAUDIA DI PASQUALE I rifiuti, una volta trattati, dove finiscono?

ALBERTO TORELLI – AMMINISTRATORE DELEGATO ACIAM SPA Raggiungono la regione Emilia Romagna, raggiungono la regione Molise, vanno qualche cosa in Toscana, e anche a Padova.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E così riparte il viaggio dei rifiuti romani: i camion li portano negli inceneritori e nelle discariche di varie regioni italiane. Un altro po’ di rifiuti urbani indifferenziati della capitale finisce anche nel Frusinate, nell'impianto di trattamento meccanico biologico della SAF, partecipata da tutti i comuni della provincia di Frosinone.

ROBERTO SUPPRESSA –DIRETTORE TECNICO SAF Questo macchinario fa la vagliatura, cioè separa la parte secca leggera da quella pesante e umida.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La parte secca è questa: viene bruciata poi nell’inceneritore di San Vittore. La parte umida dei rifiuti indifferenziati deve essere invece stabilizzata in modo da non produrre più percolato; questo processo avviene dentro queste celle dove la frazione umida dovrebbe restare a maturare per 21 giorni. E invece..

ROBERTO SUPPRESSA –DIRETTORE TECNICO SAF Dopo cinque giorni il materiale viene estratto dal biotunnel…

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi qua sta cinque giorni.

ROBERTO SUPPRESSA –DIRETTORE TECNICO SAF Nei biotunnel sta cinque giorni. Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE In realtà secondo la normativa, ci dovrebbe restare almeno tre settimane. Cioè perché resta solo cinque giorni?

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Mah… sono dei processi di stabilizzazione che… in questo caso… a noi ci assicurano comunque l’uscita praticamente all’interno del… rispettando i criteri e le norme che…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma lei è sicuro di questa cosa?

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Sì, sono sicuro sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma l’Arpa Lazio non dice così. Cioè c’è una relazione che risale proprio al 31 di luglio e dai rapporti di prova l’indice detto così respirometrico, che dovrebbe essere massimo 1000, da voi era cinquemila. Tanto che loro dicono che il vostro processo di stabilizzazione del rifiuto non è efficace.

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Sì…

CLAUDIA DI PASQUALE Lei avrà letto questa relazione.

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Sì, l’ho letta sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè di fatto voi portate in discarica questo sott’ovaio con questo indice che è completamente fuori norma. Cioè, ve lo accettano anche?

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Nel senso che la discarica di Rocca Secca ha una deroga da questo punto di vista fino a tremila.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi voi portate cinquemila…

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF È chiaro che… naturalmente abbiamo una deroga…

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè avete una deroga da parte di chi?

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Della Regione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Luciono Migliorelli è il nuovo presidente della Saf. Ma nella vita si è occupato di tante cose.

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Ho fatto il capo della segreteria dell’assessore regionale all’ambiente e rifiuti.

CLAUDIA DI PASQUALE Che è del PD, giusto?

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE E prima ancora che faceva?

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Il capo della segreteria del presidente della Commissione Bilancio del Consiglio Regionale. Ho fatto il consigliere provinciale in provincia di Frosinone per una decina d’anni.

CLAUDIA DI PASQUALE È stato anche segretario del PD.

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Segretario del PD per due anni in provincia di Frosinone, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei è un politico di fatto.

LUCIO MIGLIORELLI – PRESIDENTE SAF Un politico che comunque ha fatto un’esperienza importante nel settore nella regione Lazio.

CLAUDIA DI PASQUALE – FUORI CAMPO Solo un terzo dei rifiuti urbani indifferenziati di Roma viene trattato negli impianti dell'Ama, cioè dell'azienda del comune. Sono due, e si trovano in periferia. Questo è quello del quartiere Salario, a poche decine di metri dalle case; questo è quello di Rocca Cencia. Hanno una cosa in comune: nel giro di qualche chilometro si muore di puzza.

ILEANA MARINI –COMITATO DI QUARTIERE FIDENE Non sappiamo che cosa c’è dietro questa puzza. Quindi se può essere dannoso per la salute, perché tante persone comunque manifestano problemi di nausea, forti mal di testa…

FABRIZIO LAI - COMITATO DI QUARTIERE FIDENE Lo prendessero e lo spostassero in altre zone industriali, dove ci stanno aziende dismesse; facessero i loro esperimenti lì, qui noi già abbiamo dato.

ILEANA MARINI –COMITATO DI QUARTIERE FIDENE Qui c’abbiamo avuti tutti, destra, sinistra, centro, 5 stelle, c’abbiamo avuto tutti. Noi non ci arrendiamo perché l’impianto qua non lo vogliamo. Se è guerra, e guerra sia.

CLAUDIA DI PASQUALE Se uno dice: “Mi fate visitare l’impianto di AMA? Vorrei entrare nell’impianto di trattamento meccanico biologico del Salario o di Rocca Cencia…” non ci avete fatto entrare. Cioè, non ci è stato consentito di visitare gli impianti e siete stati gli unici in tutta Italia.

GIUSEPPINA MONTANARI –ASSESSORA ALLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE COMUNE DI ROMA …io ho portato molti giornalisti dentro. Beh, guardi, a me personalmente la richiesta non è pervenuta.

CLAUDIA DI PASQUALE È da gennaio che chiediamo. Noi abbiamo chiamato AMA, non sto scherzando, decine di volte. L’ufficio stampa…

GIUSEPPINA MONTANARI –ASSESSORA ALLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE COMUNE DI ROMA Io però non ho mai ricevuto la richiesta come assessorato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO All’assessora Montanari lo abbiamo chiesto lo scorso 20 febbraio, mentre ad AMA ancora prima, il 19 di gennaio. Queste immagini le ha realizzate la CGIL dentro i due impianti dell’Ama. Come si può vedere, le fosse sono stracolme di rifiuti. E i cingolati lavorano sopra la mondezza, quasi a sfiorare il soffitto.

NATALE DI COLA – CGIL ROMA E LAZIO Voi dovete immaginare che un impianto che è progettato per lavorare senza rifiuti si trovi invece a lavorare con settemila/ottomila tonnellate di rifiuto all’interno dell’impianto. Non è sicuramente un ambiente salubre.

CLAUDIA DI PASQUALE Dai risultati comunque delle analisi fatte dall’Arpa Lazio risulta che questi rifiuti non siano neanche trattati bene; per esempio, il famoso indice respirometrico dinamico dalle loro analisi risultava 4000 milligrammi di ossigeno quando dovrebbe essere inferiore ai 1000.

MASSIMO BAGATTI –DIRETTORE OPERATIVO AMA Guardi sono venuti di recente al Salario e anche a Rocca Cencia controlli dell’Arpa…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma avete già questi risultati nuovi dell’Arpa?

MASSIMO BAGATTI –DIRETTORE OPERATIVO AMA Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanto è risultato?

MASSIMO BAGATTI –DIRETTORE OPERATIVO AMA Intorno a 1000.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO 1000 però è il risultato del loro controllo, quelli dell’Arpa invece ci confermano il dato fuori norma di 4000 milligrammi. Fino a non molto tempo fa una parte dei rifiuti trattati dall’Ama veniva portata a Colleferro e bruciata da questo inceneritore. Si trova a poche decine di metri dalle case ed è chiuso dal 2016 perché ha tanti di quei problemi di manutenzione da essere stato definito un rottame. Ora la regione Lazio vorrebbe rimodernarlo un po’ per farlo ripartire, ma molti cittadini sono contrari, organizzano manifestazioni e da mesi stanno qui a presidiare.

ALBERTO VALLERIANI – COMITATO RIFIUTIAMOLI Agli inizi di dicembre è arrivato il primo camion che serviva per portare alcuni pezzi su ed è stato bloccato qui. È stato rimandato indietro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Una delle società che gestisce l’inceneritore è la Lazio Ambiente, al 100 per cento della Regione. Ha 6 milioni e mezzo di debiti e non riesce a pagare gli stipendi. Ha sostituito un’altra società finita sotto inchiesta nel 2009 con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti.

ALBERTO VALLERIANI – COMITATO RIFIUTIAMOLI Si bruciava ciò che non si poteva bruciare. Si falsificavano anche i certificati. E falsificavano, manomettevano anche le centraline delle emissioni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Non appena arriviamo davanti al piazzale dell'inceneritore, ecco cosa succede.

LAVORATORE INCENERITORE No, io voglio sapere se lei è autorizzata a fotografare.

CLAUDIA DI PASQUALE Da fuori possiamo fotografare.

LAVORATORE INCENERITORE L’ho vista parlare con un signore che a noi ci sta martoriando…. Quel signore l’ha mandato a pezzi ‘sti impianti. Con la sua politica…

CLAUDIA DI PASQUALE La Commissione sul ciclo dei rifiuti dice che questo impianto ha dei problemi di manutenzione e l’hanno chiuso.

LAVORATORE INCENERITORE State toppando.

CLAUDIA DI PASQUALE E la Regione perché gli vuole fare il revamping.

LAVORATORE INCENERITORE Sono stati gli intralci degli ambientalisti perché questi inquinano e hanno ammazzato la gente.

ALBERTO VALLERIANI – COMITATO RIFIUTIAMOLI Allora, voi pensate che una società che viene dalle ceneri di un’altra società che ha…

LAVORATORE INCENERITORE Ha fatto carne di porco.

ALBERTO VALLERIANI – COMITATO RIFIUTIAMOLI Ha fatto 350 milioni di euro di debiti.

LAVORATORE INCENERITORE Ha fatto carne di porco.

ALBERTO VALLERIANI – COMITATO RIFIUTIAMOLI Arriva questa società che dovrebbe essere la panacea di tutti i mali, cioè che doveva risolvere il problema…

LAVORATORE INCENERITORE E non ha fatto nulla.

ALBERTO VALLERIANI – COMITATO RIFIUTIAMOLI Il primo bilancio in positivo a 117 mila. Il secondo 3 milioni e mezzo di debito, il terzo tredici milioni e mezzo di debito, quarto sei milioni e mezzo di debito. È una società che può continuare ad andare avanti?

CLAUDIA DI PASQUALE Voi siete preoccupati, comunque, per il vostro futuro?

LAVORATORE INCENERITORE Ma siamo in mezzo di un mare di guai.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A conti fatti, oggi nel Lazio ci sono pochi impianti e quelli che ci sono sono pure malandati e sotto processo. Il risultato è che anche i rifiuti trattati negli impianti della Capitale devono essere portati fuori per essere smaltiti. Ecco dove finivano nel 2015. Oggi invece l'ama ha fatto delle gare che sono state vinte da Herambiente e Lineambiente.

CLAUDIA DI PASQUALE Lineambiente tratta nei suoi impianti questi materiali o lo porta da altre parti?

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA A sua volta lo portano a San Vittore, a Herambiente 4200, a Lomellinambiente in zona Pavia e 300 tonnellate, si sta parlando di 10 camion l’hanno portato a Milano vede A2a … CLAUDIA DI PASQUALE Noi vogliamo questo elenco qua.

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA Sì, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra le aziende c'è anche quella di Paolo Bonacina, l'imprenditore lombardo indagato dalla Procura di Brescia.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi lo sapete chi è questa B&B che vedo qua.

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA No, noi non abbiamo contatti diretti con questo elenco.

CLAUDIA DI PASQUALE È di un tale Bonacina, è stato arrestato quest’estate per un presunto traffico… perché è coinvolto in un traffico di rifiuti…

GIUSEPPINA MONTANARI –ASSESSORA ALLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE COMUNE DI ROMA È un problema di Hera, non è un problema nostro.

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA Non è che posso dire portami un’ecografia o una tac o una risonanza di uno che sta qua dentro, non è compito nostro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Finita l'intervista chiediamo la copia dell'elenco che abbiamo consultato.

UFFICIO STAMPA Questi altri no perché c’è la tutela contrattuale. Da contratto, per privacy non possono essere dati. Questi qui si, questi qui no.

CLAUDIA DI PASQUALE Però era proprio quello che mi interessava.

MASSIMO BAGATTI -DIRETTORE OPERATIVO AMA Però bisogna chieda a Hera a questo soggetto qui. Perché loro ce le danno informalmente…è una cosa interna.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tutto questo è successo perché nonostante sapessero, non hanno costruito in tempo gli impianti necessari. Ora c’è lo scarico di responsabilità tra Comune e Regione. I 5 Stelle hanno annunciato di puntare al 70% di raccolta differenziata, vogliono costruire due nuovi impianti entro il 2021; vedremo se ce la faranno nelle condizioni in cui stanno, vedremo cosa accadrà. Nel frattempo il ministero dell’Ambiente retto da Galletti a Natale, a dicembre, ha infilato sotto l’albero di natale una bella circolare dove in linguaggio burocratico, sostanzialmente ha detto che non è più così necessario rispettare quel limite di mille milligrammi di Ossigeno per l’indice respirometrico. Ecco; quel ministero dell’Ambiente di un paese che non ha una strategia nazionale sullo smaltimento dei rifiuti, che ha lasciato sul territorio 1174 discariche chiuse e altre 114 aperte, ha annunciato come soluzione la costruzione di nuovi sette inceneritori. Per capire quanto sia lungimirante questa visione basta andare in Danimarca per vedere come funziona l’ultimo modello di inceneritore.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Copenaghen è considerata una della città più verdi d’Europa. Eppure proprio qui è stato da poco inaugurato un nuovo inceneritore di rifiuti, quello di Amager Bakke. È stato presentato al mondo intero come un esempio unico e straordinario di innovazione tecnologica e di sostenibilità ambientale, economica e sociale. Basta pensare che il tetto dell'inceneritore sarà anche una meravigliosa pista da sci, progettata da una ditta italiana e che tutt'intorno ci sarà un'area picnic dove potranno andare le famiglie.

SUNE SCHEIBYE – COMUNICAZIONE ARC Questo inceneritore produce energia e al momento è quello meno inquinante del mondo. Vedi? Quello che esce dalla ciminiera non è fumo, è solo vapore. Siamo autorizzati a emettere massimo la metà degli altri inceneritori della Danimarca.

LORENZO DI PIETRO Quindi emettete comunque qualcosa, non siete a emissioni zero

SUNE SCHEIBYE – COMUNICAZIONE ARC No no non è zero.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'inceneritore di Amager Bakke è strutturato per bruciare circa 400mila tonnellate di rifiuti l'anno.

SUNE SCHEIBYE – COMUNICAZIONE ARC Ogni giorno arrivano circa 300 camion ma i rifiuti non sono tutti danesi, arrivano anche dalla Scozia, perché non produciamo abbastanza rifiuti per questo inceneritore. È sovradimensionato, decisamente, ma ormai è qui e dobbiamo gestirlo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nella verde Danimarca gli inceneritori sono ben 28 per soli 5 milioni e mezzo di abitanti. E allora per farli funzionare importano rifiuti dal Regno Unito, ma anche dalla Norvegia, dalla Svezia e dalla Germania.

IDA AUKEN - EX MINISTRA AMBIENTE DANIMARCA Io penso che l'inceneritore di Amager Bakke sia uno scandalo. Non per i suoi spazi per il tempo libero. È bella l’idea della pista da sci. Il problema è la tecnologia che c’è dentro, la sua enorme capacità di incenerimento. Abbiamo già abbastanza inceneritori in Danimarca: continueremo a incenerire ancora per anni. Non avevamo bisogno di ulteriore capacità. Sotto quella pista da sci ci sarebbe dovuta essere una centrale a biogas, o un impianto di separazione dei rifiuti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ida Auken è l'ex ministro dell'ambiente danese, aveva presentato un piano rifiuti zero per la Danimarca, ma alla fine nel 2014 si è dimessa per contrasti con il suo partito.

IDA AUKEN - EX MINISTRA AMBIENTE DANIMARCA Volevo trasformare la Danimarca in un paese leader nel riciclo e nel riutilizzo dei materiali. Creare una vera economia circolare. Potremmo importare altri tipi di rifiuti, come i metalli, o le plastiche e creare nuovi materiali. Dobbiamo ripensare l'Europa a partire dalle risorse che abbiamo e non essere dipendenti dall'importazione di materie prime da altre parti del mondo. Il futuro è nel riciclo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Uno dei modelli più virtuosi in Europa di raccolta differenziata si trova proprio in Italia, nel Trevigiano. Qui la raccolta e la gestione dei rifiuti sono in mano a una società al cento per cento pubblica, di nome Contarina, che serve i 50 comuni della provincia di Treviso per un totale di 554mila abitanti.

LORENZO FRASSON - CAPO SERVIZIO CONTARINA SPA Abbiamo sotto carta, cartone, c’è solamente carta.

ILARIA PROIETTI Quindi è un buon riciclo?

LORENZO FRASSON - CAPO SERVIZIO CONTARINA SPA Questo è un buon riciclo, è un buonissimo riciclo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La percentuale di raccolta differenziata arriva all’ 85 per cento. Questo è l’impianto dove vengono lavorati i materiali.

MICHELE RASERA – DIRETTORE GENERALE CONTARINA SPA Questo è il deposito dello zio Paperone, perché questo vale 7 milioni di euro l’anno per noi su una spesa del servizio di circa 70 milioni l’anno.

ILARIA PROIETTI È una buona tariffa quella che pagano i cittadini dei comuni che voi servite?

MICHELE RASERA – DIRETTORE GENERALE CONTARINA SPA Ma se leggiamo i numeri delle statistiche noi abbiamo una tariffa che va intorno ai 180 euro a utenza, quando una media nazionale va circa ben sopra i 250 euro a abitante.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La tariffa è puntuale, significa che meno rifiuto indifferenziato produci, meno paghi.

FRANCO ZANATA – PRESIDENTE CONTARINA SPA I nostri comuni ci hanno dato un obbiettivo di superare di molto, di arrivare al 97 per cento di raccolta differenziata, ed è la sfida che noi come società abbiamo accettato usando tutte le metodologie, nel senso che a partire dalla raccolta differenziata vedere come anche tra l’indifferenziata possiamo estrarre materie.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per cercare di superare se stessi quelli di Contarina si sono lanciati in un progetto unico al mondo; riciclare ciò che per antonomasia non è riciclabile: i pannolini. Il progetto nasce dalla collaborazione fra Contarina e un’azienda privata che ha il brevetto della tecnologia.

GIORGIO VACCARO – RECYCLING PROCESS FATER SPA Il camioncino che raccoglie i pannolini arriva in questo punto dell’impianto, scarica. La fase successiva allo stoccaggio è la fase di sanificazione, terminata la fase di sterilizzazione in autoclave il prodotto va alla fase successiva che è quella dell’asciugatura con aria calda, a questo punto è pronto per l’ulteriore fase, che è la separazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Significa che vengono separati, per poi essere avviati al riciclo, tutti i materiali che compongono il pannolino.

GIORGIO VACCARO – RECYCLING PROCESS FATER SPA Tutte le plastiche vengono separate, purificate e poi triturate per essere conformi alle norme sulle plastiche riciclate.

ILARIA PROIETTI E questo invece che cos’è?

GIORGIO VACCARO – RECYCLING PROCESS FATER SPA Questo è il polimero super assorbente, questo materiale anche se riciclato mantiene l’85 per cento delle sue capacità di assorbimento. Questa è la fibra di cellulosa, può essere adoperata per esempio come materiale termoisolante.

FRANCO ZANATA – PRESIDENTE CONTARINA SPA Questo per esempio è il risultato di un impiego e utilizzo quindi alla plastica che viene fuori da un processo come questo e che produce delle mollette da bucato. Ma da questo livello, le possibilità di impiego sono veramente infinite.

ILARIA PROIETTI Invece con gli altri elementi che si ricavano cosa si può produrre?

FRANCO ZANATA – PRESIDENTE CONTARINA SPA Beh, col prodotto assorbente altri tappetini assorbenti per animali sostanzialmente, per cani e gatti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché invece di esportare rifiuti, non esportiamo il modello di raccolta e di riciclo trevigiano? Dovremmo inserirlo per legge in un piano strategico nazionale sui rifiuti, che va scritto, occorre quel piano. E dovremmo obbligare le aziende che vendono prodotti nel nostro paese a fare imballaggi completamente riciclabili così estrai la materia che altrimenti importi e paghi meno tasse di rifiuti. Abbiamo il dovere e il diritto di ambire a un futuro migliore anche passando attraverso il nostro di senso civico; dobbiamo sapere quello che facciamo nel momento in cui smaltiamo un rifiuto, quale futuro lasciamo.

·        Il martirio territoriale.

Leather Connection. I grandi marchi di moda contribuiscono alla deforestazione dell’Amazzonia. Miriam Tagini su L'Inkiesta il 4 Dicembre 2021. Le catene di approvvigionamento globali del fashion sono tra i responsabili del disboscamento del polmone verde del pianeta: c’entra la produzione di pelle, che si regge su sistemi che distruggono gli ecosistemi più delicati. Lvmh, Prada, H&M, Zara, Adidas, Nike, New Balance, Ugg… cos’hanno in comune tutti questi marchi di moda? Qualcosa che non tutti sapremmo individuare di primo acchito: il loro potenziale ruolo nella deforestazione in Amazzonia. Una nuova ricerca sulle complesse catene di approvvigionamento globali dell’industria della moda ha dimostrato come il settore rischia di contribuire al disboscamento nella foresta pluviale amazzonica per via delle sue connessioni con concerie e altre aziende coinvolte nella produzione di pelletteria nella zona. Il report, pubblicato lunedì dall’ong Stand.earth, ha puntato i riflettori su più di 80 fashion brand, tra i più famosi in tutto il mondo, e i loro molteplici legami con aziende esportatori di pelle note appunto per il loro impatto sulla deforestazione dell’Amazzonia. Lo studio, basato su quasi 500mila righe di dati, ha affermato che 6,7 milioni di ettari di foresta sono stati persi nel bioma amazzonico nell’ultimo decennio (2011-2020), e identifica Jbs, la più grande azienda di carne bovina/pelle in Brasile, uno dei più elevati contributori alla deforestazione nello stato. Svariate prove, raccolte nel corso degli anni, sembrano infatti collegare Jbs al bestiame fornito da una fattoria nell’Amazzonia, che è stata sanzionata per deforestazione illegale. Nel report si legge: «Tutte le aziende di moda che si riforniscono direttamente o indirettamente da Jbs tramite produttori di pelli sono quindi legate alla deforestazione della foresta pluviale amazzonica. Inoltre, questi studi mostrano anche che mentre Jbs è il più grande esportatore di pelle e il più implicato nella deforestazione, questo problema è endemico dell’intera industria della pelletteria». Questi dati non dimostrando un collegamento diretto tra i brand di moda analizzati e la deforestazione dell’Amazzonia. Tuttavia, i risultati contraddicono e mettono direttamente in discussione le politiche recentemente annunciate da una serie di marchi inclusi nel sondaggio contro l’approvvigionamento legato alla deforestazione. Delle 84 aziende analizzate nel report, 23 (tra cui Coach, Lvmh, Prada, H&M, Zara, Adidas, Nike, New Balance, Ugg e Fendi) hanno politiche esplicite contro la deforestazione. I ricercatori però ritengono, sulla base delle loro scoperte, che quelle 23 aziende stanno probabilmente violando le proprie policy, poiché sono stati appunto individuati collegamenti con Jbs e altre concerie e produttori che a loro volta hanno collegamenti con la deforestazione in Brasile. I risultati mettono quindi in dubbio gli impegni aziendali. La casa di moda LVmh, ad esempio, è risultata avere un alto rischio di collegamenti con la deforestazione dell’Amazzonia, nonostante il fatto che all’inizio di quest’anno il marchio si fosse impegnato con l’Unesco per proteggere proprio questa vulnerabile regione. «Dato che un terzo delle aziende prese in esame dispone di un qualche tipo di politica in atto, ci aspettavamo che ciò avrebbe avuto un qualche tipo di impatto [positivo] sulla deforestazione» – ha affermato Greg Higgs, uno dei ricercatori coinvolti nel progetto – «Invece, il tasso di deforestazione è in aumento, quindi le politiche non hanno alcun effetto reale». E i numeri parlano chiaro. Secondo le ultime stime, infatti, per soddisfare la domanda dei consumatori di portafogli, borse e scarpe in pelle, l’industria della moda dovrà macellare 430 milioni di mucche all’anno entro il 2025. Gran parte della pelle in accessori e abiti che abbiamo nei nostri armadi proviene da bovini allevati nella foresta amazzonica. E proprio l’allevamento del bestiame è considerato una delle principali cause di deforestazione, poiché gli alberi vengono distrutti per trasformare la terra in aree di pascolo (53 milioni di ettari distrutti nel bacino amazzonico nel 2017, rispetto ai 14 milioni nel 1985, secondo la piattaforma Mapbiomas, che si occupa di mappare annualmente l’uso e il consumo del suolo in Brasile). Ma non solo. Una recente ricerca mostra che, ancora nel 2020, il 48% della filiera della moda è legata alla deforestazione e a tutto ciò che ne consegue (emissioni di gas serra, biodiversità in via di estinzione, ecc.). Sapevate ad esempio che occorrono dai 70 ai 100 milioni di alberi all’anno per produrre fibre tessili utilizzate in tutti i nostri vestiti? E si stima che la domanda di taglio degli alberi per la produzione di tessuti raddoppierà entro il 2050. Come se non bastasse, il 70% di tutti gli indumenti prodotti con tali fibre finisce ogni anno nelle discariche. Ciò significa che, dopo tutto questo massiccio sfruttamento dell’ambiente, solo il 30% dei nostri vestiti arriva effettivamente al riciclaggio. Il resto contribuisce a un maggior inquinamento. Un’altra ricerca ha dimostrato che l’industria del bestiame è il singolo più grande fattore di deforestazione della foresta pluviale amazzonica e l’industria della moda è un importante ingranaggio nella macchina per l’esportazione della pelle. Tra attività legate in qualche modo al mondo del fashion, attività agricole intensive volute dal presidente Jair Bolsonaro e incendi sempre più frequenti, il polmone verde della Terra ha subito un preoccupante declino negli ultimi tempi, raggiungendo ad oggi i livelli di deforestazione più alti degli ultimi 15 anni. Ci sono un’enorme quantità di problemi che derivano da questa deforestazione. Non solo il cambiamento climatico, ma anche la desertificazione, l’erosione del suolo, la diminuzione dei raccolti, le inondazioni, l’aumento dei gas serra nell’atmosfera e la distruzione degli habitat naturali degli animali. Secondo uno studio pubblicato lo scorso aprile sulla rivista accademia Nature Climate Change, tra il 2010 e il 2019 l’Amazzonia brasiliana ha emesso circa il 18% in più di carbonio rispetto a quello assorbito, con 4,45 miliardi di tonnellate rilasciate, rispetto ai 3,78 miliardi di tonnellate immagazzinate. Sembra proprio che alcuni ancora non riescano a comprendere che il problema della deforestazione e ciò che essa comporta non ricade solo sulle popolazioni limitrofe, ma piuttosto sul mondo nel suo insieme. La graduale scomparsa della foresta pluviale brasiliana è infatti uno dei “punti di non ritorno” individuati dagli esperti che potrebbe portare a un cambiamento drammatico e irreparabile del nostro sistema climatico e ambientale, cancellando per sempre il mondo come lo conosciamo oggi.

Roma ignora il dossier su malattie e petrolio: allarmi insabbiati. Stracciata l’intesa Regione-Iss sui rischi delle estrazioni di Eni in Basilicata. E la giunta Bardi revoca il milione di euro stanziato da Pittella. Leo Amato su Il Quotidiano del Sud il 2 novembre 2021. È destinato a restare avvolto da una cortina di fumo degna di un classico segreto di Stato il rapporto tra le estrazioni di petrolio e gas effettuate da Eni in Val d’Agri, e la salute dei residenti nell’area. Con la complicità proprio delle istituzioni incaricate di dare risposte ai cittadini su problematiche di questo tipo. È la sconcertante realtà che emerge, inequivocabile, dall’epilogo dell’accordo siglato a settembre del 2018 tra la Regione Basilicata e l’Istituto superiore di sanità per provare a fare chiarezza sul tema. A giusto un anno di distanza dalle rivelazioni del Quotidiano del Sud, che a settembre del 2017 aveva svelato le conclusioni shock della prima vera indagine epidemiologica effettuata nei dintorni del Centro olio di Viggiano. Con la scoperta di un’«associazione di rischio sanitario statisticamente rilevante» tra i fumi dell’impianto e i picchi di mortalità e ricoveri per patologie cardiovascolari e respiratorie registrati dal 2000 al 2013 a Viggiano, e nel vicino comune di Grumento Nova. Venerdì scorso il caso è finito al centro dell’ultima seduta della giunta regionale presieduta dal governatore Vito Bardi (centrodestra), che ha ereditato il dossier dal suo predecessore Marcello Pittella (Pd). Ma più che altro si è trattato di prendere atto della situazione, dal momento che il 4 settembre sono scaduti i tre anni previsti dall’accordo Regione-Iss per portare a termine il progetto di ricerca intitolato “Valutazione dell’incidenza dei fattori ambientali sullo stato di salute della popolazione residente con particolare riferimento alle attività estrattive petrolifere”. Nella delibera approvata col voto unanime di Bardi e dei suoi assessori si menziona una comunicazione inviata in merito alla scadenza all’Istituto superiore di sanità, «che nulla ha eccepito al riguardo». Ma si aggiunge, e qui sta l’aspetto sorprendente della vicenda, «che nel tempo di vigenza dell’accordo l’Iss non ha prodotto relazioni né sullo stato di avanzamento delle attività progettuali né sugli esiti finali, seppur dovute in forza dell’articolo 6 dell’accordo e malgrado i numerosi solleciti inoltrati». Da settembre del 2018 a settembre del 2021: il nulla. E a quanto pare senza alcun tipo di spiegazione. Quasi che la navicella con le ansie e le preoccupazioni di tanti lucani, e non solo, fosse approdata in un “porto delle nebbie”, al pari di altri, ben noti, palazzi capitolini. Quelli delle verità insabbiate e dei potenti che la fanno sempre franca. Una situazione ancora più sconcertante, se si considera che l’accordo con la Regione Basilicata risale a un anno e mezzo prima dell’emergenza scatenata, a febbraio del 2020, dalla pandemia di covid 19, che pure ha visto impegnato in prima fila l’Istituto superiore di sanità. E non può passare inosservato nemmeno che quest’ultimo sia un ente che dipende dal Ministero della Salute, dove da settembre del 2019 la Basilicata può contare su un ministro lucano come Roberto Speranza (ArticoloUno). Da registrare, c’è poi un altro aspetto della vicenda che rende il ruolo avuto dall’Istituto superiore di sanità ancora più dubbio. A marzo del 2018, infatti, fu l’allora direttrice del Dipartimento ambiente e salute dell’Iss, Eugenia Dogliotti, a criticare sotto una serie di aspetti l’indagine epidemiologica, denominata Valutazione d’impatto sanitario, commissionata nel 2014 dai comuni di Viggiano e Grumento Nova, al costo di poco meno di 1.200.000 euro, al gruppo di studio Cnr – Università di Bari – Dep Lazio, guidato dal professor Fabrizio Bianchi dall’Istituto di fisiologica clinica del Cnr di Pisa. Critiche raccolte in una relazione di una quindicina di pagine inviata alla Regione Basilicata rispondendo alla richiesta di un parere al riguardo. Una volta filtrate alla stampa, ad ogni modo, proprio le critiche di Dogliotti sarebbero stato rilanciate anche da Eni, sostenendo l’assenza di prove di «una correlazione tra il Centro olio e un aumentato rischio per la salute della popolazione». Proprio per questo, per restituire certezza ai cittadini disorientati dalle tesi contrapposte, la giunta regionale dell’epoca decise di sottoscrivere l’accordo di durata triennale, scaduto agli inizi di settembre, per un approfondimento ulteriore con l’Istituto superiore di sanità, che per missione svolge proprio «funzioni di ricerca, sperimentazione, controllo, consulenza, documentazione e formazione in materia di salute pubblica». E venne stanziato anche un corrispettivo cospicuo per quanto richiesto: 980mila euro da prelevare dal Fondo per lo sviluppo e la coesione territoriali. D’altronde, era stata la stessa Dogliotti a evidenziare la necessità di ulteriori approfondimenti del lavoro svolto dal gruppo di studio Cnr – Università di Bari – Dep Lazio, «sulla base delle criticità emerse nella fase di stima dell’esposizione». S’intende, ovviamente, esposizione alle emissioni del Centro olio di Viggiano. Nel testo dell’accordo sottoscritto a settembre del 2018 si faceva riferimento a divergenze da chiarire tra almeno 3 distinti lavori preesistenti. Incluso uno studio sulla mortalità tra i residenti dei comuni della Val d’Agri dell’ufficio statistico del medesimo Istituto superiore di sanità, che nel 2016 aveva escluso «criticità», pur evidenziando una serie di «eccessi di mortalità». In particolare: «per tumori maligni allo stomaco, per infarto del miocardio, per le malattie del sistema respiratorio nel loro complesso, per le malattie dell’apparato digerente nel loro complesso (ed, in particolare, per cirrosi e altre malattie croniche del fegato)», per entrambi i sessi. Quindi, per i soli uomini: «per mortalità generale, per leucemia linfoide (acuta e cronica), per diabete mellito insulinodipendente, per le malattie del sistema circolatorio nel loro complesso (ed, in particolare, per le cardiopatie ischemiche), per le malattie respiratorie croniche, per sintomi, segni e risultati anormali di esami clinici e di laboratorio, non classificati altrove, e per cause esterne». E per le donne: «per le malattie respiratorie acute». La correlazione tra esposizione alle emissioni e condizioni sanitarie, invece, era stata al centro della Valutazione d’impatto sanitario del Centro olio dell’Eni di Viggiano, resa pubblica a settembre 2017, dopo le rivelazioni del Quotidiano del Sud. Un lavoro di 500 pagine in cui si evidenziava: «un eccesso di mortalità nel periodo 2000-2013 per malattie del sistema circolatorio nelle donne residenti a Viggiano, rispetto sia al livello medio di mortalità regionale sia a quello del complesso dei 20 comuni della Val d’Agri». Eccesso che sarebbe stato «significativamente» associato all’esposizione all’«inquinamento di origine Cova (Centro olio della Val d’Agri, ndr)». Allo stesso modo di: «un rischio di sintomatologia respiratoria più pronunciato», in prossimità dello stesso impianto. Mentre Eni, a dicembre del 2017, aveva escluso la fondatezza dell’allarme sanitario, sostenendo che un confronto tra la Regione Basilicata col resto d’Italia, avrebbe fatto emergere a solo alcune «problematiche sociodemografiche e legate a fattori di rischio per le malattie croniche attinenti gli stili di vita (vedi tassi elevati di obesità e diabete)». Retrodatando gli eccessi di mortalità, ad esempio per malattie cardiovascolari, a prima ancora dell’avvio della produzione del Centro olio di Viggiano. Nella delibera approvata venerdì scorso dalla giunta regionale si prende atto «del mancato espletamento delle attività di cui al progetto di ricerca», che era stato affidato all’Istituto superiore di sanità e viene annullato lo stanziamento di 980mila euro previsto. Soldi che secondo l’accordo andavano versati in 4 rate a fronte di altrettante richieste di pagamento, che l’Iss avrebbe dovuto corredare da relazioni intermedie sui risultati delle attività. Ma a Potenza, in tre anni, non sono state mai recapitate né le prime né le seconde.

Fabio Albanese per "la Stampa" il 28 ottobre 2021. Paolo Claudio Grassidonio, l'uomo di 53 anni che martedì è morto annegato sotto un'auto a Gravina di Catania, era un volontario dell'Associazione carabinieri. Non è l'unica persona che il maltempo si è portato via negli anni a Catania. Prima di lui c'è stata Annalisa Bongiovanni, 21 anni, che nell'ottobre 2003 fu sorpresa da un fiume d'acqua mentre era in motorino. Prima ancora, c'era stata Teresa Cammareri, 74, travolta dall'acqua dopo essere scesa dall'auto guidata dalla nipote. Era il 1985. Non è una data casuale. Perché al 1985 risale l'inizio dei lavori del «Canale di gronda», l'opera che se completata avrebbe potuto almeno rendere meno gravi gli effetti del fiume di acqua e fango che martedì ha attraversato il centro storico di Catania, devastandolo. È un'opera fondamentale: un tubo di 9 km che dovrebbe intercettare a monte della città le acque piovane dei paesi dell'hinterland e di quelli etnei, cresciuti a dismisura negli ultimi 40 anni perché divenuti i luoghi di residenza delle nuove generazioni di catanesi, non facendole arrivare a Catania. L'ultimo rapporto del Sistema nazionale per la protezione dell'ambiente, che risale all'estate scorsa, dice che la Sicilia ha «consumato» ulteriori 400 ettari di suolo tra il 2019 e il 2020, al settimo posto tra le Regioni italiane. Cento ettari a Catania e nell'hinterland dove la maggiore crescita, che significa più cemento e meno terreni che assorbono acqua, è avvenuta a Gravina di Catania, il paese dove è morto Grassidonio, che ha il 50% di territorio «impermeabilizzato», seguita da Sant' Agata li Battiati, Aci Bonaccorsi, San Giovanni La Punta, Tremestieri Etneo, Mascalucia, San Gregorio. Sono tutti Comuni collinari che starebbero dall'altra parte del «Canale di gronda», se fosse funzionante. A chiedere conto della situazione di stallo è il consigliere del Csm e magistrato catanese Sebastiano Ardita, che parla di progetto arenato: «Ma la colpa forse non è da ricercare in Sicilia, o non solo - ha scritto sui social -. L'opera era stata progettata, finanziata ed era pronta per essere appaltata, ma una legge del 2016 ha imposto altri adempimenti. Mancavano i fondi per il nuovo progetto e si è dovuto richiederli al governo nazionale che ha risposto in ritardo. Nel frattempo, i poteri sono stati trasferiti per legge a un commissario regionale». Il primo cittadino Salvo Pogliese, che è anche sindaco della Città metropolitana, dice che il Canale di gronda «è in mano al commissario. Noi abbiamo avuto interlocuzioni con i Comuni che si dovrebbero allacciare ma al momento mi risulta lo abbia fatto solo San Gregorio». È pronta la parte a Est; c'è un progetto definitivo per il «collettore B» nella parte Ovest, che è in mano al commissario della Regione per il rischio idrogeologico Croce con lavori per 53 milioni di euro; c'è un finanziamento di 34 milioni per un ulteriore tratto fino a Sud, al torrente Buttaceto. «Se si aprissero i cantieri, entro 3 anni l'opera sarebbe completata - dice Pogliese -. Altro discorso è però quello che riguarda i Comuni che devono allacciarsi, ma non hanno un euro». Ma se l'opera fosse stata pronta, Catania sarebbe stata risparmiata? «Per l'orografia della città, purtroppo no. E i cambiamenti climatici aggravano la situazione. Quest'estate, avevamo avviato un piano di pulizia delle caditoie e dei torrenti, mai fatto in passato. Non è bastato. Ma il Canale avrebbe mitigato gli effetti».

A Cremona record di polveri sottili, ma la Regione assolve il polo industriale. La città è seconda in Europa per quantità di PM2.5. L’aria della sua provincia è più inquinata che a Milano. E i medici rivelano un’incidenza allarmante di malattie polmonari. Ma l’indagine epidemiologica chiesta dagli abitanti non è mai partita. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 22 ottobre 2021. La zona industriale, fotografata dalle banchine del porto fluviale di Cremona, si specchia nell’acqua immobile davanti agli ormeggi deserti. Soltanto i cigolii metallici e i fumi delle ciminiere danno suono e movimento al grande quartiere. La notizia che da qualche mese preoccupa gli abitanti è nascosta sotto le scarpe. Basta buttare per terra una calamita grande come una moneta da un euro per scoprirla: la polvere, anche quella fine come talco, resta attaccata. Succede sulla balaustra del ponte di via Riglio, a ridosso della fabbrica di un importante marchio alimentare. Oppure tra le crepe nell’asfalto di via Bastida o in via Acquaviva, vicino agli impianti che producono mangimi per animali. E poi per chilometri quadrati tutt’intorno, fin sui balconi dei condomini di Cava Tigozzi, lungo le strade e sui davanzali dei villini di Spinadesco e nelle campagne di Sesto ed Uniti, piccoli borghi che accompagnano il record di questo orizzonte lombardo. Su una classifica di 323 località, Cremona è la prima città in Italia e la seconda in Europa per inquinamento da PM2.5. Si tratta di polveri ultrasottili e particolato fine con diametro inferiore a 2,5 millesimi di millimetro e potenziale incidenza su morti premature e malattie perfino superiore al PM10, per la facilità con cui penetra a fondo nelle vie respiratorie. L’allarme è suonato durante la pandemia quando, subito dopo la vicina Codogno, quella cremonese è stata la prima provincia italiana a riempire le terapie intensive. E la seconda, dopo Bergamo, per eccesso di mortalità nel periodo compreso tra il 20 febbraio e il 31 marzo 2020. La questione è ora sulla scrivania di Letizia Moratti, assessore al Welfare della Regione Lombardia. Un consigliere regionale eletto a Cremona per il Movimento 5 Stelle, Marco Degli Angeli, ha raccolto la preoccupazione di molti suoi concittadini. E, con una serie di interrogazioni, sta cercando di convincere la giunta del governatore Attilio Fontana affinché, con la massima urgenza, sia avviata un’indagine epidemiologica per valutare l’impatto delle polveri sulla salute dei cremonesi. Già un anno prima della pandemia, il 16 gennaio 2019, l’allora responsabile dell’Osservatorio epidemiologico dell’Agenzia di tutela della salute Val Padana che ha competenza sulle province di Cremona e Mantova, Paolo Ricci, ha anticipato l’allarme in un’audizione a Milano davanti alla commissione Sanità della Regione. Quel giorno Ricci mostra percentuali che differenziano Cremona e i comuni limitrofi dalla media del territorio: «C’è un 14 per cento in più di frequenza di ospedalizzazione a Cremona per le patologie respiratorie nel confronto con il resto della popolazione residente in Ats Val Padana. E il 33 per cento per quanto riguarda i comuni limitrofi», spiega l’epidemiologo: «Abbiamo anche una incidenza più elevata del tumore dei polmoni: 7 per cento. Di mortalità per il tumore del polmone: 17 per cento. E poi abbiamo questo dato sulla leucemia con un eccesso del 23 per cento a Cremona. E dell’81 per cento in più, nei comuni limitrofi». Da allora il responsabile dell’Osservatorio epidemiologico, laureato in medicina, è andato in pensione. La Regione l’ha sostituito con un dirigente ad interim laureato in matematica. Paolo Galante, 49 anni, ingegnere civile, rientra dal lavoro poco prima di cena. Subito dopo lo raggiunge la moglie, Michela Barbisotti, 47 anni, impiegata di banca. Dal 2010 abitano a Spinadesco, poche centinaia di metri dalla zona industriale di Cremona. Il rumore più vicino sale dagli altiforni di un’acciaieria. Con un pennello Paolo e Michela raccolgono la polvere finissima che si deposita sui davanzali e sul tavolo sotto la veranda della loro villetta. «È dal 2013 che raccogliamo la polvere con la calamita», raccontano: «Non chiediamo che si chiudano le fabbriche che danno lavoro. Noi ci rivolgiamo agli enti pubblici, ai sindaci coinvolti, alla Provincia e alla Regione perché facciano i controlli necessari per garantire la salute di noi abitanti, ma anche dei lavoratori di queste industrie. Non è normale che queste polveri ricadano fin dentro le nostre case». Non ci sono soltanto i fumi dell’acciaieria, oggi uno dei principali poli siderurgici italiani. Nel giro di qualche chilometro, come precisa nel 2019 il responsabile dell’Osservatorio epidemiologico davanti alla commissione Sanità della Regione, «abbiamo un inceneritore per i rifiuti urbani, un consorzio agrario per la produzione di mangimi, con liberazione di polveri di queste attività. E abbiamo anche Crotta d’Adda: un comune limitrofo a Cremona che oltre a essere potenzialmente raggiunto da queste emissioni, è anche sede di un’importante discarica, un milione di metri cubi di scorie della vicina acciaieria». Sono i sintomi della difficile convivenza tra tutela della salute e attività industriale, che la rapida ripresa economica e il rientro dalla Cina di alcune filiere produttive riproporranno presto in tutta Europa. Ma Cremona sopporta anche le conseguenze sanitarie e ambientali della raffineria aperta nel 1954 e chiusa dieci anni fa sotto il marchio Tamoil. Da via Acquaviva a via Riglio ci si lascia alle spalle le cisterne arrugginite del sogno petrolifero lombardo. Si passa poi davanti alle montagne a cielo aperto di rottami che, senza sosta, vengono trasportati su decine di camion verso la fonderia: milletrecento metri di traffico pesantissimo, da Cava Tigozzi al confine con Spinadesco. E si finisce ai piedi di colline grigie, tra il porto fluviale e l’argine maestro del Po. Qui gli scarti di fusione vengono trattati e frantumati per essere trasformati in materiale da costruzione. «È un materiale generato da attività di recupero, regolarmente autorizzato, di scorie nere di acciaieria. Il prodotto che si ottiene», spiega la dichiarazione che lo certifica, «presenta composizione e caratteristiche chimiche similari alle rocce di origine vulcanica». La vetta di questi cumuli verrà probabilmente abbassata per formare il fondo dell’autostrada Cremona-Mantova, rimasta per ora sulla carta. Ma potrebbe ugualmente costituire la piattaforma della nuova centrale nucleare lungo il Po se i sogni atomici della Lega, confessati da Matteo Salvini, dovessero malauguratamente materializzarsi. Per il momento sono gli agricoltori a disperdere questa ghiaia di fonderia ovunque: ricoprono cortili, strade di campagna, accessi ai campi. Anche l’agricoltura ha perso la sua verginità ecologica. Allevamenti intensivi di bovini e suini, impianti a biogas, abuso di fertilizzanti contribuiscono con importanti percentuali alla formazione di polveri sottili. E rendono più complicato risalire alle cause che, per il particolato fine PM2.5, fanno di Cremona una provincia più inquinata di Milano (posizione 315 su 323), Bergamo (306), Venezia (311), Brescia (315), Vicenza (320), secondo i dati pubblicati dall’Agenzia europea per l’ambiente. La peggiore tra tutte è Nowi Sacz in Polonia. Terza dopo Cremona, Slavonski Brod in Croazia. Subito dietro, gran parte delle città della Pianura Padana e del Veneto, condannate d’inverno a lunghi periodi senza vento. Un’indagine commissionata all’Istituto Mario Negri dai comitati di quartiere, oltre ai soliti inquinanti cancerogeni derivati dai combustibili fossili, ha scoperto la presenza di vari metalli oltre al ferro. «La concentrazione dei metalli nella polvere raccolta sia a Cava Tigozzi sia a Spinadesco mostra anomale concentrazioni che riguardano cadmio, piombo, cromo, rame, stagno e vanadio. Preoccupa soprattutto il cromo, che raggiunge la concentrazione di 749,8mg/kg», rivela Cristina Mandelli, avvocato che assiste i comitati dei due paesi, insieme con il collega Giovanni Siniscalchi. La provenienza di questi elementi non è stata finora accertata. Ma l’Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, in un’ulteriore indagine pubblicata nel 2020 assolve la zona industriale e in particolare l’acciaieria: «Nel bacino aerografico di Spinadesco, le sorgenti principali dell’inquinamento atmosferico sono la combustione non industriale, come il riscaldamento domestico, il trasporto su strada e l’agricoltura. Per quanto riguarda i metalli, le sorgenti principali sono la combustione nell’industria e i processi produttivi... Le attività industriali locali hanno degli effetti maggiori sulla qualità delle polveri che sulla quantità, pur rimanendo rispettati i limiti sulle concentrazioni dei metalli... [Ma] le concentrazioni di PM10», spiega la relazione finale, «sono comunque principalmente determinate da un generale inquinamento della Pianura Padana». Il Gruppo Arvedi, proprietario del polo siderurgico di Cremona, condivide ovviamente le conclusioni di Arpa Lombardia: «Non vogliamo nascondere la verità, ma affermarla. Le ragioni della situazione ambientale in cui si trova Cremona vanno identificate nella sua particolare posizione geografica all’interno della Pianura Padana», spiegano dalla società: «Le polveri che si possono trovare nei dintorni dell’azienda possono essere riconducibili a ossidi di ferro che si originano dalla movimentazione delle materie prime utilizzate e sono grossolane, con diametro maggiore a 10 millesimi di millimetro. Sono visibili, ma non inalabili e non vengono considerate ai fini dell’inquinamento atmosferico, poiché precipitano rapidamente in prossimità della sorgente di emissione. E anche se inalate, non possono entrare nella frazione toracica del sistema respiratorio». Lo stesso, secondo il Gruppo Arvedi, vale per il materiale da costruzione ricavato dalla trasformazione delle scorie: «È possibile che le polveri grossolane calamitino debolmente essendoci una componente di ossido di ferro, come accade con alcuni minerali naturali». Proprio perché la causa del record negativo di Cremona continua a essere incerta, sarebbe urgente un’indagine epidemiologica: «Lo studio continua a subire ingiustificati ritardi», protesta il consigliere Degli Angeli: «Temiamo che sia in corso uno smantellamento dell’Unità di presidio epidemiologico e che la Regione arrivi alla divulgazione di un’indagine monca e incompleta, che non tenga conto dei fattori inquinanti cumulativi. È scandaloso». Durante tutto il 2020, la centralina Arpa del piccolo borgo di Spinadesco ha registrato una media annuale di PM2.5 di 28 microgrammi per metro cubo: tre punti sopra il limite di legge, nonostante due lunghissimi lockdown. Milano si è invece fermata a 25 microgrammi. Millecinquecento residenti e una manciata di fattorie avrebbero quindi sollevato molte più polveri ultrasottili dei tre milioni di abitanti, del traffico e degli impianti di riscaldamento che caratterizzano la grande area metropolitana milanese. Qualcosa non torna, sempre che non si voglia dare l’intera colpa al meteorismo dei maiali. 

Il caldo in Sicilia è troppo forte: scompaiono le arance e arrivano mango e avocado. Il raccolto degli agrumi, meno redditizio, è crollato negli ultimi anni. Nell’isola si moltiplicano gli esperimenti di nuove coltivazioni fino a ieri impensabili. Ma le temperature sempre più alte rischiano di compromettere le nuove produzioni. Alan David Scifo su L’Espresso il 21 settembre 2021. Maruzza, trentacinque anni e una vitalità che supera anche il caldo torrido di agosto, corre nel primo pomeriggio di nuovo nei suoi campi perché un incendio minaccia le sue colture di avocado e mango a Capri Leone, territorio dei monti Nebrodi, nel Messinese. Lei ha investito il futuro suo e della sua famiglia in quella zona e non vuole che tutto vada in fumo, timore che si fa vivo ogni anno nella stagione in cui i terreni da gialli passano al nero: «Per fortuna non è mai successo nulla, anche perché siamo attrezzati ad affrontare questo, adesso i Vigili del fuoco stanno spegnendo le fiamme, ma è un pericolo costante». Anche quest’anno le sue piantagioni sono al riparo dalla condanna che come ogni estate accade si abbatte anche stavolta sui monti siciliani. Il territorio è però perfetto per la coltivazione di frutti tropicali: dalle pendici dell’Etna ai Nebrodi, fino a Terrasini, nel Palermitano, più giù nel meridione dell’isola dove si attestano gli ultimi esperimenti (alcuni falliti) nelle zone dell’Agrigentino e poi nel Belice: sotto i colori della Trinacria sorgono ogni anno nuove aziende che coltivano piante esotiche dove prima c’erano agrumeti. Mango, avocado, ma anche passion fruit, litchi, papaya, banane e altro ancora: nel mondo salutare che strizza l’occhio ai frutti con grandi proprietà la maggiore richiesta ha portato in 5 anni, secondo Coldiretti, a 500 ettari una coltivazione che fino a poco tempo fa non arrivava neanche a 10. Dove c’erano agrumeti, limoni e arance, tipici prodotti siciliani, adesso si parla una lingua straniera: «Quando questi terreni li coltivava mio nonno non c’erano le condizioni per i frutti tropicali. Adesso produciamo mango dove c’erano aranceti e limoneti, ma in alcuni terreni abbiamo ringiovanito gli agrumeti. Non mi piace parlare di sostituzione ma di riorganizzazione», racconta Maruzza Cupane.

Un ex pescheto è adesso coltivato con frutti tropicali, mentre i cambiamenti climatici hanno portato alcuni a spostarsi perché in alcune zone non c’è più acqua. La giovane imprenditrice agricola, laureata in agricoltura biologica, con la sua famiglia ha deciso di lanciarsi nella coltivazione di mango (il suo Marumango, come lo chiama) riprendendo terreni che rendevano poco. Ha trovato la condizione perfetta: «La nostra è una innovazione che ha portato a fare delle scelte anche economiche in quanto i frutti esotici rendono di più. Il motivo essenziale sta nella vocazionalità dei terreni e di questo ambiente, dove non c’è una grande escursione termica, dove l’acqua non manca grazie ai Nebrodi e i terreni sono tendenzialmente “sciolti”». Terreni ottimi per i nuovi frutti che prendono così il posto di quelli tradizionali, alcuni dei quali non vengono neanche più raccolti negli agrumeti ancora in attività. Secondo Coldiretti, il terreno coltivato ad arance è diminuito del 31% negli ultimi 15 anni, mentre quello dei limoni ha subito una riduzione del 50%. Minore quantità ma maggiore qualità per gli imprenditori che adesso mirano da un lato agli agrumi selezionati, come l’arancia rossa, e alle piante tropicali, per cui il caldo non rappresenta un problema. Almeno fino a qualche tempo fa. Il paradosso è infatti che gli stessi cambiamenti climatici favorevoli alle coltivazioni tropicali anche in Sicilia, adesso rischiano di inficiare il raccolto: «Il forte caldo (la Sicilia ha toccato il record europeo questa estate, ndr) ha portato molti frutti a bruciarsi, ad aumentare lo scarto e a portare problemi al mango. Speriamo sia solo una estate torrida straordinaria e quindi un problema momentaneo, ma se queste estati così calde dovessero continuare sarebbe un serio problema per le nostre colture». Dai Nebrodi a Giarre, vicino Catania, le ambizioni e i problemi sono gli stessi: Andrea, dell’azienda “Avocado di Sicilia” da venti anni ha fatto una scelta di vita che lo ha portato a lasciare la carriera legale per l’agricoltura: «L’ho fatto per mio nonno, non l’ho conosciuto ma ho ereditato la sua passione per i campi», racconta: «Adesso l’agricoltura è cambiata, occorre comprendere anche il marketing e la parte commerciale. Io due volte l’anno prendo la macchina e vado da tutti gli acquirenti nella penisola, curo l’immagine di questi frutti che adesso hanno raggiunto i supermercati nazionali e internazionali». La tecnologia ha aiutato Andrea, che otto anni fa si era lanciato nell’e-commerce dell’avocado di Sicilia con ottimi risultati e adesso mira a raggiungere nuovi mercati, non solo con l’avocado ma anche con gli altri frutti che lavora in maniera costante per una richiesta che continua a salire. Il caldo torrido di questa estate però non ha fatto bene: «La vocazione del terreno è essenziale per queste colture, ma dobbiamo fare i conti con l’aleatorietà del clima, perché da noi le condizioni climatiche sono state sempre ottime, da almeno trent’anni». Il forte caldo di luglio e agosto anche per gli avocado e i mango ha portato qualche problema nei 130 ettari e nelle 24 aziende agricole con cui collabora Andrea Passanisi, che guarda con orgoglio i suoi campi verdi di avocado sotto gli occhi di “mamma Etna”, la cui cenere è un rinforzo in più per i terreni. «Il clima, se prima era un fattore favorevole, oggi influisce negativamente, il cambio di stagionalità è diventato drastico, violento», spiega Passanisi, che ricopre anche il ruolo presidente di Coldiretti Catania. «Il nostro resta però un territorio ideale per l’avocado, sia per il terreno che per l’escursione climatica. La speranza è che il forte caldo non ci sia anche i prossimi anni. Il cambiamento è un’arma a doppio taglio ma la soluzione per me è solo una: piantare». Nei suoi campi sembra di stare in Brasile, ma nonostante l’avocado e il frutto della passione lui però non vuole abbandonare i limoni: «Estirpare le vecchie colture sarebbe un fallimento».

Dall’Etna al mare di Terrasini, di cambiamento climatico si parla anche nel Palermitano: «Quest’anno, in queste zone, la produzione di mango sarà in negativo dell’80% rispetto al 2020 a causa dell’inverno troppo caldo», racconta un altro giovane imprenditore agricolo, Rosolino Palazzolo, tra quelli che si stanno facendo strada in Sicilia, regione che oggi rappresenta la maggiore produttrice di frutti esotici in Italia. «Prima l’inverno era più lungo: adesso la stagione si è accorciata, la vegetazione non ha fatto la fioritura. Dall’altro lato vanno bene le coltivazioni di papaya e banane. Il forte caldo di quest’anno mi ha però permesso di sperimentare le coltivazioni di cacao che negli anni scorsi invece non mi erano riuscite. Considerato il cambiamento climatico aumenterò le produzioni. Bisogna adattarsi: ad esempio lo stesso clima ha ucciso la mosca dell’ulivo, quindi ci sono lati positivi e lati negativi, bisogna rinnovarsi». A differenza di quello che accade a Palermo, dove Rosolino nel suo “Orto di Rosolino” è riuscito ad adattarsi ai cambiamenti climatici, testando nuove colture, in alcune zone climatiche gli esperimenti non sono però riusciti. A Menfi, ad esempio, nell’Agrigentino, le coltivazioni di mango non sono andate a buon fine per il troppo caldo. «La pluviometria è cambiata in Sicilia. A Licata, ad esempio, arrivano 300 millimetri di acqua all’anno, nel Messinese mille», spiega il giovane agronomo Piero Cumbo, una laurea in Agroingegneria e una passione sin da giovane per l’agricoltura con un occhio di riguardo per la natura. «Negli ultimi anni c’è una maggior durata dei periodi secchi mentre i periodi caldi sono elevati, ciò comporta la coltivazione di frutti esotici da un lato, ma dall’altro l’abbandono di vecchie colture a causa del clima ma anche per cause economiche, perché la produzione di queste colture nuove rende di più». I frutti esotici infatti hanno più mercato e un’espansione che è nel pieno della sua esplosione a differenza di agrumi, ulivi e vitigni che subiscono la concorrenza dei Paesi stranieri. Il paradosso è anche questo: se negli anni la Sicilia si converte all’esotico, adesso colture tipicamente siciliane si spostano verso Nord. «Gli ulivi siciliani e del sud Italia adesso subiscono la concorrenza di quelli della Pianura Padana, portando a un deprezzamento delle colture storiche siciliane», racconta ancora Piero Cumbo, che della sua passione ha fatto il suo lavoro. Se il presente è quello dell’incremento del mercato, il futuro della “Sicilia tropicale” è in continuo cambiamento, ma i giovani e arrembanti imprenditori agricoli non hanno intenzione di fermarsi a guardare: «Noi studiamo metodi per consumare meno acqua», spiega ancora Maruzza: «Dobbiamo pensare ai nostri figli, per loro dobbiamo rispettare la natura». Anche Andrea pensa a suo figlio, oltre che al futuro dell’azienda: «Non dobbiamo bruciare, dobbiamo piantare sempre e dare ossigeno alla terra, seguendo la vocazione del territorio».

Pfas, al via il processo a Vicenza, otto anni dopo la scoperta dell’inquinamento della falda. Avvelenamento delle acque, disastro doloso, inquinamento ambientale e bancarotta fraudolenta le accuse nei confronti dei 15 imputati, ovvero proprietari vecchi e più recenti della Miteni di Trissino. Quasi 200 le parti civili, tra cui Ministeri, Regione Veneto, Province e Comuni, associazioni ambientaliste, ma soprattutto tanti cittadini. Giuseppe Pietrobelli su Il Fatto Quotidiano l'1 luglio 2021.  Otto anni dopo la scoperta che i Pfas avevano inquinato la seconda falda d’Europa che scorre nel sottosuolo del Veneto, si apre in corte d’Assise a Vicenza il processo per avvelenamento delle acque, disastro doloso, inquinamento ambientale e bancarotta fraudolenta, che vede sul banco degli imputati proprietari vecchi e più recenti della Miteni di Trissino. Si tratta dell’azienda considerata la causa degli sversamenti di sostanze perfluoroalchiliche altamente tossiche per l’organismo, che vengono usate nella produzione industriale per rendere resistenti all’acqua tessuti, carta e contenitori per alimenti, ma che si trovano anche in vernici, farmaci, detergenti. Interessate al colossale inquinamento sono le province di Vicenza, Verona e Padova, circa 350mila persone, nonché gli acquedotti che pescano nel sottosuolo. Ad aprile il rinvio a giudizio di 15 persone, la prima udienza, dedicata alla costituzione delle centinaia di parti civile, si è aperta l’1 luglio. Ministeri, Regione Veneto, Province e Comuni, le Ulss di Vicenza, Padova e Verona, associazioni ambientaliste, ma soprattutto tanti cittadini sono intenzionati a costituirsi in un processo che non giudicherà i singoli danni, bensì l’inquinamento nel suo complesso. Oltre duecento persone avevano già sottoscritto la costituzione nella fase di indagine preliminare. Adesso sono diventate 318. Tra di loro vi sono molti esponenti dell’associazione Mamme No Pfas che hanno contribuito con prese di posizione e assemblee pubbliche a far conoscere il caso fino a Bruxelles. I loro avvocati, assieme ai rappresentanti dell’associazione Medici per l’Ambiente Italia, denunciano come non sia ancora stato mantenuto l’impegno della Regione Veneto di effettuare un’indagine epidemiologica. Matteo Ceruti, assieme a Marco Casellato e Cristina Guasti, è uno dei legali delle Mamme No Pfas. “Sarà un maxi processo perché si è verificato in Veneto un maxi-disastro. Ormai è pacifica la prova che le sostanze sono penetrate nel sangue e nel fisico, causando malattie gravi”. Il rammarico è quello della mancata indagine sanitaria di massa. “Ad oggi non c’è un’indagine epidemiologica, anche se la Regione Veneto aveva deliberato di effettuarla. Ci sono stati gli screening sulla popolazione, con la verifica della presenza di Pfas nel sangue, ma non c’è ancora uno studio sulla relazione tra i Pfas e le malattie insorte nella popolazione”. Lo pensano anche i Medici per l’Ambiente. “ISDE Italia è stata la prima organizzazione nazionale ad occuparsi della problematica dei Pfas per la salute umana, conducendo uno studio nella zona contaminata che ha evidenziato un eccesso significativo di mortalità e chiedendo uno screening sulla popolazione ancora nel settembre 2013. Solo nel 2017 la Regione iniziò a farlo, ma limitandolo alle fasce di età 14-65 anni, escludendo donne in gravidanza, neonati, bambini e anziani che sono le fasce della popolazione più sensibili agli effetti nocivi degli interferenti endocrini”. Ed ecco l’accusa: “Il Veneto non ha mai avviato uno studio epidemiologico nonostante l’avesse deliberato nel 2017 e non ha mai effettuato uno studio prospettico sull’incidenza dei tumori nelle zone contaminate. A distanza di otto anni, ancora non sono stati completati i nuovi acquedotti che dovrebbero portare acqua non contaminata nelle zone contaminate e non è mai stato effettuato uno studio prospettico e serio sulle donne in gravidanza e sui neonati. Anzi, la Regione vieta che chi lo voglia possa farsi a proprie spese il dosaggio dei Pfas nel sangue”. I medici spiegano come le patologie rilevate siano tumori del testicolo e del rene, ipercolesterolemia, colite ulcerosa, malattie tiroidee, ipertensione indotta dalla gravidanza e preeclampsia, nonché varie patologie cardiovascolari quali arteriosclerosi, ischemie cerebrali e cardiache, infarto miocardico acuto e diabete. Inoltre è stata accertata la perdita di fertilità nei giovani, con riduzione del testosterone. Gli imputati sono 15, tra cui i manager giapponesi di Mitsubishi Corporation, della lussemburghese International Chemical Investors (controllante di Miteni dal 2009) e della Miteni stessa. E’ imputata anche la società, con l’addebito di bancarotta per il mancato accantonamento delle somme necessarie per la bonifica dei terreni e delle acque contaminate. Mitsubishi Corporation e International Chemical Investors sono stati citati come responsabili civili. La vicenda dei Pfas divenne di pubblico dominio nel maggio 2013, quando il ministero dell’Ambiente comunicò alla Regione Veneto l’esito di uno studio commissionato al Cnr-Irsa da cui emergevano le concentrazioni preoccupanti di Pfas nelle acque potabili di alcuni comuni veneti. Fino al 1988 l’azienda era denominata Rimar Chimica e faceva parte del gruppo Ricerche Marzotto. In quell’anno fu acquistata da Mitsubishi ed Enichem. Nacque così l’acronimo Miteni. Poi la società divenne completamente di proprietà giapponese. La seconda udienza si terrà il 16 settembre.

La Sicilia devastata dagli incendi, ecco le mani che hanno acceso i roghi. Allevatori, agricoltori, precari forestali e chi ha interessi speculativi nelle riserve e in alcuni terreni. Le indagini degli inquirenti seguono queste piste e dalle intercettazioni arrivano le prime conferme. Nell’isola bruciati quasi gli stessi ettari della Grecia, pur essendo cinque volte più piccola. Antonio Fraschilla su L'espresso il 10 settembre 2021. Sui tornanti della statale che dall’autostrada sale verso Polizzi Generosa a un tratto nonostante la giornata di sole abbagliante tutto si fa scuro. Gli alberi con i loro rami sembrano volersi abbracciare da una parte all’altra della strada, ma sono braccia secche, senza foglie, sottili e nere. I tronchi con grandi buchi sul dorso sembrano imploranti aiuto in un urlo strozzato. Questo angolo delle Madonie la sera dell’11 agosto è stato attraversato da un grande fuoco che ha bruciato tutto. Il paese arroccato su un costone roccioso, nel secolo scorso noto per aver dato i natali all’intellettuale antifascista Giuseppe Antonio Borgese e oggi conosciuto più per averli dati allo stilista Domenico Dolce, è stato assediato per ore dalle fiamme. «Siamo stati circondati dal fuoco, in poche ore qualcuno ha appiccato incendi a nord e a sud, e mentre arrivavano i soccorsi vedevamo partire altri roghi come se ci fosse stata una regia, un coordinamento del male», dice il sindaco Gandolfo Librizzi mentre passeggia in via Itria, un budello che costeggia il versante nord. Entra in un appartamento che dà sulla vallata: «Qui quella sera siamo arrivati con il tubo dell’autobotte attraverso la cucina per spegnere le fiamme che salivano dal fondovalle». Affacciandosi da questa balconata non si viene più accecati dal giallo delle dolci colline da secoli coltivate a grano, ma si resta impressionati dal nero che colora tutto a perdita d’occhio. Una scena che si ripete a macchia di leopardo in tutta l’isola nei paesaggi più belli ridotti a cenere, dagli Iblei ai monti che circondano Palermo. In Sicilia da gennaio ad agosto sono andati in fumo 80 mila ettari di boschi, campi di grano e macchia Mediterranea. Quasi quanto l’intera Grecia, che nell’anno dei record delle fiamme in terra ellenica è arrivata a 110 mila ettari. Con una piccola differenza: l’isola ha una estensione di 25 mila chilometri quadrati, la Grecia di 130 mila. Di fronte a questi numeri le temperature record, con i 48 gradi di Floridia nel Siracusano che hanno fatto registrare il picco storico in Europa, non bastano certo a giustificare una terra messa a fuoco e fiamme. Dietro c’è la mano dell’uomo. Non a caso, nell’area del demanio tra Polizzi Generosa e Gangi, sono stati trovati dagli operai forestali degli inneschi: sacchetti di plastica con dentro della benzina e una sorta di miccia. Ma chi ha dato fuoco a questo pezzo di Madonie? Anzi, chi ha dato fuoco alla Sicilia? Raccogliendo documenti e testimonianze di chi sta indagando vengono fuori storie di pastori, di agricoltori sfiancati dal mercato, di precari forestali e di interessi speculativi in riserve e contrade che valgono oro per la fertilità dei terreni. Storie vere. 

“IL FUOCO SISTEMA TUTTO“. Poco prima di Ferragosto i carabinieri di Siracusa coordinati dal capitano Simone Clemente hanno fermato due pastori, Salvatore e Franco Coniglione, padre e figlio. L’indagine nasce dalla segnalazione di altri due pastori che negli incendi dello scorso anno avevano perso bestiame e pezzi di azienda. Il 28 luglio scorso l’auto dei Coniglione entra nell’area demaniale Bosco Pisano, tra Buccheri e Vizzini. Poco dopo parte un incendio vasto in tutta la vallata con più focolai. Intercettato, il figlio dice al padre: «Due minuti e lì bum bum, tutto a fuoco». Un pomeriggio, davanti alla Sughereta di Buccheri, Salvatore con un suo amico inizia a vantarsi: «Qui dal confine fino a varco Pisana ho pulito quattro salme (sette ettari, ndr)», dice. «Poi ci fu quello che partì da Vizzini e si pulirono altre quattro salme», aggiunge riferendosi a un incendio del 30 luglio. Pulire significa bruciare. Salvatore minaccia di appiccare un grande incendio per Ferragosto: «Ci sarà da piangere per Buccheri… pulisco altre quattro salme… il fuoco sistema tutto… la prima volta avevo bruciato mezza salma poi i figli di buttana l’hanno spento». Ma perché questi pastori danno fuoco a tutto? Lo spiega lo stesso Coniglione: «Le vacche», dice, «dove le devo tenere per loro, nella strada? Ma se la facessero ficcare in culo… tutti questi terreni dove non ti fanno entrare, ma che è giusto? Qui se non fai così terreno non ce n’è, le vacche le devi fare furriare (girare, ndr). E poi per un camion di fieno ci vogliono 1.300 euro. Così brucio tutto». Spesso alcuni allevatori non dichiarano tutti i capi di bestiame che hanno: quindi non possono comprare foraggio per tutti e con regolari ricevute. Allora hanno bisogno di spazi e di terreni, e nei campi incendiati alle prime piogge cresce subito spontaneo proprio il foraggio. Ecco una prima mano che ha dato fuoco alla Sicilia e la pista degli allevatori è seguita anche nel Palermitano per spiegare gli incendi tra Piana degli Albanesi, Altofonte e San Giuseppe Jato. Ma quella di alcuni pastori non è stata la sola mano in azione. Nell’Ennese gli inquirenti stanno seguendo una pista particolare: nella provincia considerata davvero il granaio di Sicilia quest’anno sono andati in fumo 1.400 ettari, in gran parte terreni coltivati a cereali. A quanto pare molti produttori non avevano fatto alcun lavoro di prevenzione. Perché? Il sospetto è che qualcuno (pochi tra i tanti imprenditori onesti) abbia preferito intascare i soldi dell’assicurazione e sperare magari in qualche contributo per gli incendi che arriverà da Palermo o da Roma, piuttosto che vendere al mercato il grano. A maggio il prezzo era bassissimo, 25 centesimi al chilo, e solo alla fine di agosto è salito oltre i 45 centesimi, quando la produzione era ormai diminuita anche a causa delle fiamme. 

GLI INTERESSI SPECULATIVI SULLE RISERVE. Gli agenti del Corpo forestale stanno indagando inoltre sugli strani incendi iniziati già a maggio, con temperature non elevate, in alcune aree del Siracusano: Pantalica, la riserva di Vendicari e l’area dei laghetti di Avola. Raccontano gli inquirenti: «Lì gli incendi sono iniziati in un periodo anomalo, la cosa ci ha colpito e abbiamo fatto delle verifiche. Ad esempio abbiamo scoperto che qualcuno non ha gradito alcuni limiti al transito nell’area dei laghetti di Avola. E quindi per ripicca ha dato fuoco all’area. A Vendicari stiamo verificando alcuni interessi speculativi: lì la riserva è nata quando c’erano già diverse abitazioni. Ad alcuni è stato consentito di fare dei lavori negli anni, ad altri no. Questa cosa non è stata gradita così hanno appiccato incendi». C’è poi un’altra storia che circola nel Siracusano e che gli inquirenti stanno verificando: la politica, regionale e locale, aveva promesso di dare in concessione le stazioni ferroviarie dismesse a privati che erano pronti a realizzare locali e ristoranti. Poi l’affidamento è stato sospeso e qualcuno per lanciare un segnale ha dato fuoco proprio nell’area attorno alle stazioni. Il procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, negli anni scorsi ha coordinato invece indagini sui grandi incendi avvenuti tra il 2017 e il 2018 nel parco dei Nebrodi con migliaia di ettari di bosco andati in fumo. In tre sono stati fermati perché avevano dato fuoco a delle sterpaglie nelle loro terre in giornate di scirocco facendo poi nascere mega incendi: «Quindi una bonifica costante dei territori è fondamentale. Poi, è chiaro, ci sono spesso interessi speculativi e criminali: non si riunisce la Cupola per gli incendi, ma qualche legame con mafiosi c’è, in alcuni casi, grazie alla forza di intimidazione che certi personaggi hanno». 

LA MAFIA C’ENTRA? Le parole di De Lucia trovano conferme. Un’altra area andata a fuoco, dove ha perso la vita anche un agricoltore che cercava di spegnere le fiamme, è stata quella delle campagne di Paternò, in provincia di Catania. In particolare in una contrada che si chiama Sciddicune: qui lavora ed è molto attivo un giovane imprenditore agricolo, Emanuele Feltri, già nel 2013 vittima di attentati intimidatori perché qualcuno non aveva gradito il suo voler chiedere attenzione per queste terre dove i caporali facevano coltivare gli ortaggi ad immigrati senza alcun rispetto delle regole. Ma questa volta gli incendi, che hanno distrutto gli allevamenti e i terreni non solo di Feltri ma anche di altri agricoltori e pastori della zona, sembrano avere altre motivazioni. La pista seguita dai carabinieri è quella di un forte interesse a questi terreni, considerati tra i più fertili del Catanese, da parte di qualche altro agricoltore che vorrebbe averli ceduti a prezzi di comodo. Personaggi magari con precedenti mafiosi. Come il volto apparso nei giorni delle fiamme tra Bronte e Castiglione di Sicilia. Le uniche aree in Sicilia non bruciate sono state quelle dei vigneti, tranne in questo scorcio dell’Isola alle falde dell’Etna. Guarda caso, il giorno nel quale sono stati appiccati diversi roghi attorno ad alcuni vigneti, al bar del crocevia è stato notato un operaio forestale precario conosciuto per i suoi precedenti penali perché legato al clan Brunetto: chiedeva il pizzo agli agricoltori della zona. Una presenza anomala, quasi a voler dire “io sono qui e a me dovete chiedere protezione”. Il fatto è stato segnalato alle forze dell’ordine che stanno facendo verifiche su questo operaio forestale. Ecco, a proposito di operai forestali (il bacino da 20 mila precari chiamati ogni anno a lavorare nei boschi e nelle campagne demaniali), il sospetto che tra loro qualche isolato delinquente abbia contribuito al caos di questa estate c’è. La gran parte è intervenuta quasi in maniera eroica, senza mezzi, per spegnere gli incendi, rischiando la vita. Ma a quanto pare non tutti i precari quest’anno sono stati chiamati in servizio, soprattutto quelli che fanno al massimo 78 giornate lavorative. Già a febbraio un operaio forestale precario di 61 anni era stato fermato sui Nebrodi in flagranza di reato. Voleva iniziare la stagione dei fuochi in anticipo sperando così in una chiamata in servizio da parte della Regione. Queste sono le piste investigative, che raccontano bene il clima che si respira nelle terre di Sicilia (e d’Italia) date alle fiamme in questa calda, caldissima, estate.

La difficile convivenza fra agricoltura e fotovoltaico, così spuntano gli incendi. Resta alta la guardia per evitare che l’energia rinnovabile divori terreni fertili. È emerso il sospetto che dietro il fuoco che ha distrutto boschi e pascoli al Sud ci siano interessi legati alle fonti alternative. Anna Maria Capparelli su Il Quotidiano del Sud il 20 agosto 2021. Scintille sul fotovoltaico. Il rapporto tra pannelli e agricoltura è stato sempre piuttosto difficile. Le energie rinnovabili e dunque anche l’utilizzo dei pannelli solari insieme con biogas e biometano prodotti da scarti agricoli sono considerati strategici dagli agricoltori per lo sviluppo di attività sempre più sostenibili. Ed è stato accolto da un coro di consensi il budget del Recovery Plan per lo sviluppo delle rinnovabili. Ma nello stesso tempo resta alta la guardia da parte del mondo agricolo per evitare che il fotovoltaico divori terreni fertili. In questi giorni in cui il fuoco ha distrutto boschi e pascoli nel Mezzogiorno e con 6 incendi su dieci opera dei piromani è emerso il sospetto che dietro i roghi ci siano interessi legati al fotovoltaico. D’altra parte l’agricoltura ha già pagato un conto salato ai pannelli solari. Gli incentivi alle agroenergie, compreso il fotovoltaico, avevano acceso molti appetiti. E in particolare in Puglia, complice anche la riforma della Politica agricola comune del 2003 che aveva introdotto il disaccoppiamento dei contributi, slegando così i premi dall’effettiva coltivazione dei terreni, in molte aree il grano aveva ceduto il passo ai pannelli. Una situazione che nel 2012 indusse l’allora ministro dell’Agricoltura del Governo Monti, Mario Catania, a tagliare gli aiuti al fotovoltaico nelle aziende agricole lasciandoli solo per gli impianti sui tetti dei fabbricati. Molti infatti avevano deciso di concedere in affitto i terreni per impiantare i pannelli e per chi voleva continuare a produrre grano ampliare la maglia poderale comportava costi insopportabili. Dal combinato disposto di fotovoltaico e riforma Pac è derivato l’abbandono in molte zone vocate della coltivazione del grano. Se dunque la storia è maestra di vita non si può dimenticare quella lezione. Anche perché ancora una volta per il fotovoltaico si guarda al Sud dove c’è più sole da sfruttare e dove i terreni costano meno. Proprio in questa fase in cui il frumento sta riprendendo quota e l’impennata dei prezzi delle materie prime spinge ad acquisire autonomia nella coltivazione di prodotti strategici, come il grano, vanto del Sud e alla base della dieta Mediterranea. Ora si tratta solo di sospetti, ma i danni che gli incendi stanno provocando, anche in termini di vite umane, valutati in oltre un miliardo impongono interventi immediati. Secondo una stima della Coldiretti ogni rogo costa agli italiani oltre diecimila euro all’ettaro fra spese immediate per lo spegnimento e la bonifica e quelle a lungo termine sulla ricostituzione dei sistemi ambientali ed economici delle aree devastate in un arco di tempo che raggiunge i 15 anni. Da qui la petizione lanciata dall’organizzazione agricola per fermare lo “scippo” di superfici coltivabili. Una situazione drammatica come quella di questa rovente estate agevola lo spopolamento delle campagne nelle zone più marginali, quelle che dunque diventano facile preda dei piromani e di chi li “arma”. Non può essere un caso che nel 2021 gli incendi siano aumentati rispetto allo scorso anno del 256%. Lucifero ha avuto forti responsabilità, ma non è la sola causa. E lo spopolamento porta al dissesto del territorio. Prima gli incendi, poi le bombe d’acque. Un copione ormai ricorrente che sconvolge i terreni provocando dissesti e danni idrogeologici. Già ci sono stati i primi assaggi. Con il Recovery Plan ci sono le risorse per intervenire anche in soccorso del settore agricolo e delle aree boschive. Ma nell’immediato è necessario procedere al ristoro delle aziende colpite soprattutto nelle regioni del Sud, dalla Calabria alla Sicilia, dall’Abruzzo al Molise, dalla Sardegna alla Puglia fino alla Calabria. Per prima cosa bisogna però bloccare l’interesse a “liberare” i terreni dagli alberi. La Coldiretti ha messo a punto un pacchetto di proposte che parte dall’inasprimento delle disposizioni dell’articolo 10 della legge 353/2000, con l’obiettivo di portare da 15 a 20 anni il divieto di cambio di destinazione d’uso delle aree boschive e dei pascoli percorsi dal fuoco, estendendo tale norma anche ai terreni agricoli. Intanto l’organizzazione agricola chiede di “attivare subito un piano di ricostruzione e di aiuti economici per le aziende agricole e per gli allevamenti devastati dagli incendi con decine di migliaia di ettari di boschi e macchia mediterranea inceneriti dalle fiamme, animali morti, alberi carbonizzati, oliveti e pascoli distrutti per un danno stimato fino a oggi che sfiora il miliardo di euro senza dimenticare la tragica perdita di vite umane tra gli agricoltori”. I primi soccorsi sono arrivati dagli agricoltori che si sono mobilitati per garantire mangimi agli allevamenti del Mezzogiorno e in particolare gli invii da parte di Consorzi Agrari D’Italia (Cai) e di Bonifiche Ferraresi stanno consentendo agli allevatori di proseguire l’attività con gli animali scampati alle fiamme. Ora però – ha sollecitato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini “occorrono interventi strutturali per ricreare le condizioni economiche e sociali affinché si contrasti l’allontanamento dalle campagne e si valorizzino quelle funzioni di vigilanza, manutenzione e gestione del territorio svolte dagli imprenditori agricoli anche nei confronti delle azioni criminali che sono un danno per l’intera collettività”. Tutelare i territori boschivi, poi, non solo è strategico se si vuole perseguire la nuova politica “green” europea, ma è un imperativo categorico anche per tutelare la ricchezza del patrimonio forestale. A soffrire dei roghi non è solo l’agricoltura, ma anche l’industria del legno in cui l’Italia è leader in Europa che è costretta a importare per carenza di materia prima l’80% del legno da trasformare con una spesa che nel 2020 ha raggiunto 3,4 miliardi e un aumento degli acquisti dall’estero del 33% nei primi cinque mesi del 2021.​

Terra bruciata. Gli incendi in Salento, alimentati dalla Xylella e da anni di populismo. Erika Antonelli su L'Inkiesta il 16 agosto 2021. Nella punta estrema della Puglia i roghi sono solo l’ultimo effetto della desertificazione che affligge il territorio, caratterizzato dalla monocoltura olivicola. Nessuno rimuove gli ulivi malati, le normative regionali non bastano ad arginare le fiamme e spesso sono gli stessi proprietari ad appiccare il fuoco ai loro alberi. Brucia l’Italia e brucia il suo tacco, ancor più il Salento, quel lembo di Puglia che quasi tocca l’Albania. Vicino alle pajare in pietra, una sorta di trulli più rustici, la terra brulla abbonda di ulivi rinsecchiti ai lati della litoranea. Prima di cercare il mare, gli occhi si posano sugli alberi ammalati di Xylella, il batterio arrivato nel 2014, e sui cumuli di spazzatura ai lati della strada. I rami sbilenchi trasformano le campagne in terra di nessuno e diventano torce in grado di propagare le fiamme, alimentate dalle temperature elevate e le raffiche di vento. La Xylella ha infettato 21 milioni di piante, il 40% del territorio regionale, lasciando agli abitanti il sapore amaro di essere rimasti soli ad affrontare una tragedia. «A quai arde tuttu», li senti dire, mentre i proprietari degli ulivi intatti benedicono a voce bassa la loro buona sorte. Ma troppi campi vanno in fumo e per questo Chiara Idrusa Scrimieri ha deciso di fondare il gruppo Facebook “Salviamo gli ulivi del Salento” e dar vita a una petizione su Change.org che finora ha raccolto 36 mila firme. «Chiediamo politiche rurali e agricole capaci di incentivare chi vuole tornare a coltivare la terra tutelando la biodiversità», commenta. La penisola salentina brucia da maggio, con 400 richieste di intervento registrate in un solo mese. I due incendi più grandi sono avvenuti nel comune di Otranto, a Porto Badisco e nella zona che circonda i laghi Alimini, località definite «paradiso dei turisti». Simbologia spicciola. Questi posti non sono dei visitatori saltuari, ma degli abitanti che ogni estate guardano la loro terra bruciare, spenta a fatica da vigili del fuoco cronicamente sotto organico. A Porto Badisco sono bruciati 45 ettari di macchia mediterranea, agli Alimini 30 di area boschiva. Una perdita per la Puglia, la regione che dispone del numero più basso di foreste su tutta la superficie nazionale (9,7 per cento). Secondo i dati diffusi da Coldiretti, nell’estate 2021 gli incendi sono triplicati. Calabria, Sicilia e Sardegna hanno pagato il prezzo più alto, vite ed ettari divorati dalle fiamme. Una situazione drammatica che ha indotto il premier Mario Draghi a parlare di «un piano straordinario di rimboschimento e messa in sicurezza del territorio», come scrive l’agenzia di stampa Agi. Certo il Salento non registra i numeri di queste regioni, ma in Italia detiene un triste primato di cui la Xylella e gli incendi sono solo l’ultima manifestazione. Dopo secoli di sfruttamento del suolo causati dalla monocoltura degli ulivi, spesso coltivati con metodi intensivi, la penisola salentina è a rischio desertificazione. Lo spiega Nico Catalano, agronomo e consulente del Dipartimento Agricoltura Sviluppo Rurale e Ambientale della regione. Una storia vecchia tramandata negli anni, quando la Puglia era “granaio d’Italia” al nord e produttrice di olio al sud. Gli agricoltori, lasciati soli, non se ne fanno nulla della terra sterile, quindi capita appicchino le fiamme per disperazione. Come denuncia Coldiretti: «Non è stata data ancora attuazione agli interventi finanziati che prevedono la rimozione degli ulivi secchi». E allora danno fuoco per disfarsi dei monconi di alberi, trasformare i fondi svalutati in distese di pannelli solari, riscattare il premio assicurativo. Altre volte, i roghi sono la vendetta di screzi tra vicini. La politica si muove a rilento, impantanata nelle visioni divergenti di associazioni ambientaliste, sindacati e società civile. Anche Coldiretti segnala il ritardo e in un comunicato si augura che «la portata epocale del problema stimoli l’impegno comune dei Ministeri alle Politiche Agricole, all’Ambiente e ai Beni Culturali, di concerto con la regione, per riparare i danni ambientali, paesaggistici e socioeconomici a carico del Salento e dell’intera Puglia». Nel panorama confuso, neppure le leggi regionali agiscono da deterrente. Per limitare il propagarsi di roghi incontrollati, un provvedimento del 2016 impedisce di bruciare le stoppie tra il primo giugno e il 30 settembre. Nei mesi restanti è possibile farlo in piccole quantità, con i mezzi appropriati e in caso di vento e calore non eccessivi. A luglio poi la Commissione Agricoltura ha approvato la proposta di legge per la pianificazione del “fuoco prescritto”, una tecnica di applicazione consapevole delle fiamme effettuata da personale esperto. Eppure, le colonne di fumo continuano ad alzarsi dalle campagne e continuano a prendere fuoco i monconi di ulivo. A pochi chilometri i turisti si godono il mare, occupando temporaneamente quei “paradisi” che l’incuria rischia di distruggere. Finirà agosto e andranno via i bagnanti, così come ritorneranno in Svizzera le famiglie di emigranti. E il Salento che brucia sarà di nuovo una questione privata, tra una terra disgraziata e gli abitanti che hanno scelto di non lasciarla.

La civiltà vuole terre libere per farci cottage e gite di ferragosto. Il fuoco che divora i boschi è un affare di città. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 3 Agosto 2021. «Chi dà fuoco al bosco brucerà all’inferno», dicevano i padri, «e l’inferno è il ventre vuoto di un castagno che si cova la brace per settimane e quando spruzza un cielo di scintille nemmeno l’uragano la potrà spegnere». Per i figli dei pastori la minaccia più terribile – l’incendio eterno – ad arderci vivi; la profferivano dopo un rogo, le facce antiche mascherate dal fumo, le braccia ustionate e le mani piagate con stretti i monconi dei rami di pino che erano l’unico, minimo, rimedio contro le fiamme. I pastori, quelli veri, non appiccavano fuochi, sapevano: i roghi succhiano la vita alla terra che poi non pasce pascoli, quando rispunta l’erba è fieno di pancia buono solo a gonfiare gli stomaci degli animali, ma inutile per colmare mammelle, senza sostanza e senza profumo. I pastori veri chiedevano alla quercia uno dei suoi mille bracci, e si riscaldavano un inverno intero. L’acqua se la succhiavano dai capezzoli di roccia e a ogni stagione ringraziavano la grande madre per i suoi tanti frutti. Non si avanzavano pretese sulla natura, le si apparteneva. La civiltà vuole legna, acqua, terre libere da farci i cottage, gli hotel e gli affari. Fare le gite di domenica, immancabilmente a ferragosto. La natura è come l’India, quelli che ci stanno ci sopravvivono e quelli che vanno in vacanza ritrovano il Karma. Sui boschi, sulle montagne, i cittadini raccontano un sacco di balle: la natura è bella, magnifica, rigenerante, -che è lì in mezzo che si dovrebbe vivere. Ma dopo una notte lontano dalla città, scappano via, e fuori dalle casettine di Heidi ci stanno giusto il tempo di un selfie, di farsi venire la fame, poi una bella doccia, panni puliti e pronto in tavola. Le montagne, i boschi, per chi davvero ci ha vissuto, sono stati zecche, pulci, pidocchi, freddo, fame, sudore e tanta tanta puzza, che l’acqua è ghiaccia pure ad agosto. La natura viva non è mai tenera, ma per chi davvero la ama è l’amore di una madre, ed è, soprattutto, un essere vivente che ti ospita, riavvolge e fa ripartire in nastro del pianeta, tutto è suo e tu puoi accettarne i doni. E ogni bosco è un essere a sé, che non è che ne conosci uno e li conosci tutti. Dentro il suo mondo ci stanno creature a miliardi: alberi, animali, torrenti. Tutte creature animate. E con le felci dopo sei mesi ci parli, ma per vincere la ritrosia dei pini ci vogliono sette anni, e perché le querce ti prestino ascolto te ne servono dodici. Quando la foresta brucia, quando muore; i colpevoli spesso stanno fra gli intrallazzi e le frottole cittadine. Stanno fra gli agglomerati che hanno succhiato la vita alle campagne, le hanno spopolate e desolate. Dopo che lo hai perso, il bosco non lo ritrovi nell’ufficio degli oggetti smarriti. Quando l’incendio è divampato le cavallerie dell’acqua servono a poco. Sono l’abbandono e l’incuria le armi formidabili che si infilano fra le dita degli incendiari, a volte solo folli, a volte agli ordini dei tanti profitti che ogni incendio produce. Piangere, bestemmiare, accusare, dopo la devastazione, è solo riconoscere la propria colpa.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film. 

La temperatura registrata nel siracusano. Caldo da guinness in Sicilia, a Floridia registrati 48,8°C: “È record in Europa”. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Erano state previste temperature altissime, quelle che avrebbero reso questa settimana nel cuore di agosto la più calda dell’estate. Così è stato, ed è perfino arrivato il record della temperatura più alta mai registrata in Europa. 48,8°C. Si sfiorano i 50 gradi insomma, e l’ondata è tutt’altro che finita. La temperatura senza precedenti nel continente è stata registrata a Floridia, comune in provincia di Siracusa, oggi pomeriggio alle 14:00. Il dato è stato registrato dal Servizio Informativo Agrometeorologico Siciliano (SIAS). A favorire l’innalzamento a tale livello la conformazione di Floridia e della provincia interna del siracusano. A pochi chilometri di distanza le temperature si abbassano infatti anche di 10 gradi. Sempre nei dintorni di Siracusa, il 20 agosto 1999, era stato registrato un altro record anche se mai ufficializzato di 48,5 gradi. Anche quello odierno è per il momento ufficioso e dovrà essere analizzato e approvato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale grazie all’Arizona State University per diventare ufficialmente record del continente. È tutto il Sud, non solo la Sicilia, a essere tuttavia nella morsa del caldo scatenato da Lucifero, anticiclone africano, una corrente di aria torrida di provenienza sahariana. Domani saranno dieci le città italiane con il bollino rosso per il caldo: Bari, Bologna, Campobasso, Frosinone, Latina, Palermo, Perugia, Rieti, Roma e Trieste. Venerdì diventeranno quindici: Bari, Bologna, Bolzano, Brescia, Cagliari, Campobasso, Firenze, Frosinone, Latina, Palermo, Perugia, Rieti, Roma, Trieste e Viterbo. Il Bollino Arancione, nelle allerte del ministero della Salute, indica le temperature elevate e le condizioni meteorologiche che possono avere effetti negativi sulla salute della popolazione, in particolare in alcuni gruppi di popolazione; quello Rosso indica che la situazione può perdurare per tre o più giorni. L’ondata di caldo dovrebbe quindi spostarsi verso il Nord. Solo domenica, sull’arco alpino, potrebbero registrarsi dei fenomeni temporaleschi nella seconda parte della giornata. L’ondata di calore sta provocando vasti incendi, anche dai tratti drammatici, soprattutto in Sicilia, Sardegna e Calabria. Tre i morti, registrati oggi, due in Calabria e uno in Sicilia. Un agricoltore è morto a Paternò, in provincia di Catania, schiacciato dal suo trattore nel tentativo di spegnere un incendio. Un 76enne a Grotteria, provincia di Reggio Calabria, è morto a causa di un rogo boschivo. Disperso un uomo di Cardeto, altro centro nel Reggino. Le fiamme che stanno divorando il Parco dell’Aspromonte sono sempre più vicine al Santuario di Polsi. Per quanto riguarda la Sicilia, oggi sono stati 112 gli interventi dei Vigili del Fuoco. Ancora vivi i roghi sulle Madonie e nelle pinete del Ragusano. Allerta Rossa per i prossimi giorni su tutta la Sicilia, eccezion fatta per la provincia di Messina. Tutto il Mediterraneo, dal Marocco alla Turchia, è assediato dagli incendi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Le Faggete Vetuste “miracolosamente resistono”. Aspromonte in fiamme, due vittime degli incendi in Calabria: un morto anche in Sicilia. Vito Califano su Il Riformista l'11 Agosto 2021. È emergenza incendi in Italia. Soprattutto in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Il bilancio della giornata di oggi è tragico: due morti in Calabria, uno in Sicilia. Le fiamme stanno avanzando in Aspromonte. Decine e decine le persone che sono state allontanate dalle loro case. Sono state complessivamente 32 le richieste di intervento aereo ricevute dal Centro Operativo Aereo Unificato del Dipartimento della Protezione Civile oggi, di cui 10 dalla Calabria, 9 dalla Sicilia, 4 dalla Sardegna, 4 dalla Basilicata, 2 ciascuna dalla Campania e dal Lazio, una dalla Puglia. Mario Zavaglia, pensionato di 77 anni, è rimasto carbonizzato nel tentativo di spegnere le fiamme che si erano avvicinate troppo al suo casolare in contrada Scaletta, a Grotteria, nella Locride. In quel casolare teneva i sui animali. È stato travolto dalle lamiere del tetto quando le fiamme spinte dal vento di scirocco hanno avvolto la struttura facendo crollare tutto. A trovarlo il figlio, arrivato da pochi giorni da Milano per trascorrere un periodo di ferie. Non riusciva a mettersi in contatto con lui. A Cardato, sempre in provincia di Reggio Calabria, è morto un uomo di 79 anni. Era stato dato per disperso in mattinata. Il cadavere è stato ritrovato coperto di ustioni. Si chiamava Nicola Fortugno. Si era recato nella sua proprietà. Altre quattro persone, tutte civili, sono rimaste ustionate per un incendio a Vinco, frazione pedemontana di Reggio Calabria, e sono state trasportate al Pronto Soccorso dell’ospedale del capoluogo di Regione. La Giunta Regionale, su proposta del Presidente facente funzioni Nino Spirlì ha deliberato la richiesta al Governo di dichiarazione dello Stato di Emergenza “in relazione agli eventi calamitosi derivanti dalla diffusione di incendi boschivi che stanno interessando il territorio della Calabria”. Nella delibera si dà anche atto che “si procederà, con successivi atti, alla quantificazione dei danni derivanti dagli eventi, a seguito di apposita ricognizione che verrà effettuata nei Comuni interessati”. Solo cinque giorni fa a causa delle fiamme erano morti Margherita Cilione e suo Nipote, zia e nipote, 53 e 34 anni, a Bagaladi nel tentativo di salvare il loro uliveto dalle fiamme. Si teme intanto per il Santuario di Polsi, dove si tengono i riti della Madonna della Montagna, circondato dalle fiamme. Una vittima anche in Sicilia: a Paternò è morto un agricoltore di 30 anni, schiacciato dal suo trattore, mentre cercava di spegnere le fiamme. I roghi sono attivi ancora sulle Madonie e tra le pinete del Ragusano. La Protezione Civile ha diffuso un bollettino di allerta rossa per tutte le province siciliane, eccezion fatta per quella di Messina, che sarà arancione, per i prossimi giorni. Preoccupazione anche in Sardegna e in particolare nelle zone del Nuorese e dell’Ogliastra sulle quali le fiamme insistono da tre settimane. Tutto il Mediterraneo nella morsa delle fiamme: dal Marocco alla Turchia. Drammatico il bollettino il Algeria dove sono almeno 65 morti comunicati dalle autorità. Il fuoco ha mangiato ettari di terreno tra Turchia e Grecia dove decine di turisti sono stati costretti a evacuare. Fiamme anche in Croazia, Macedonia del Nord, Albania. L’ondata di calore intanto non accenna a fermarsi: oggi a Floridia, in provincia di Siracusa, è stata registrata la temperatura che se confermata diventerebbe la più alta mai rilevata in Europa. 

Le Faggete Vetuste “miracolosamente resistono”. Minacciate dalle fiamme anche il sito, patrimonio Unesco, della Faggete Vetuste nel Parco Nazionale del Pollino – si tratta di foreste primordiali di faggi dei Carpazi diffuse in diversi punti d’Europa. Al momento sono miracolosamente salve come fa sapere lo stesso Parco del Pollino attraverso i suoi account social. “Nella giornata odierna alcuni uomini dell’Ente Parco e del servizio antincendio del Parco, si sono addentrati nella foresta di Ferraina, arrivando a ridosso della ‘Valle Infernale’. Al momento, miracolosamente, le Faggete Vetuste, patrimonio Unesco, non sono state interessate dalle fiamme, nonostante l’immane incendio che da giorni sta devastando la zona e che ha bruciato uno dei boschi di pino calabro più importante e storico del Parco, quello di Acatti. ‘Le nostre Faggete sono praticamente circondate dai roghi, ma continuano a resistere. La minaccia, però, non è superata, anzi il contesto è complicatissimo perché quell’incendio è particolarmente violento e ampio: la situazione può precipitare in un brevissimo lasso temporale. – ha detto il Presidente del Parco, Leo Autelitano – Siamo tutti all’opera per salvarle: dall’alto i canadair supportano gli uomini ed i mezzi impegnati da terra. È in atto dispiegata tutta la forza possibile per salvare le faggete e domare il fuoco, con i carabinieri del Reparto biodiversità coordinati dal Tenente colonnello Alessandra D’Amico, gli operai dell’ufficio biodiversità coadiuvati dal personale dell’Ente Parco che hanno bloccato le fiamme in una vera e propria azione di resistenza. Alcuni stanno creando, quasi a mani nude, dei percorsi per facilitare l’accessibilità dei mezzi. Il comune di Samo, inoltre, ha inviato sul posto mezzi utili per le attività. Siamo in una condizione difficile e catastrofica in tutte le zone dell’Aspromonte con incendi sullo Zomaro, sulle montagne di Mammola, nell’Area Grecanica fino a Polsi”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Situazione drammatica per Sicilia, Calabria e Puglia. Le fiamme avvolgono il Sud Italia: roghi attivi in Aspromonte e in Salento. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Agosto 2021. Il vento caldo non lascia tregua e in Sicilia, Calabria e Puglia spinge le fiamme sempre più lontano. In una sola giornata, l’11 agosto sono state cinque le vittime, 4 in Calabria e una in Sicilia. Nelle ultime 12 ore sono stati 528 gli interventi dei pompieri: 230 in Sicilia, dove la situazione è ritenuta “sotto controllo”, con 84 squadre al lavoro, mentre in Calabria gli interventi sono stati un centinaio ed è qui che si riscontrano le maggiori criticità. Brucia l’Aspromonte e tutta la provincia di Reggio Calabria. Un rogo ha attaccato anche il Salento, vicino Otranto.

Incendi su tutto l’Aspromonte. Il premier Mario Draghi ha telefonato al sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, per esprimere la solidarietà e la concreta vicinanza del Governo alla città metropolitana e in particolare alle comunità colpite dai roghi che in questi giorni stanno martoriando l’Aspromonte e che ad oggi hanno già causato 4 vittime. Assicurando non solo la vicinanza dell’esecutivo ma anche che verrà messo in cantiere “un programma di ristori per le persone e le imprese colpite, insieme a un piano straordinario di rimboschimento e messa in sicurezza del territorio”. Intanto già domani il capo della protezione civile nazionale Fabrizio Curcio sarà nella città dello Stretto per verificare sul campo la situazione e guidare personalmente il seguito delle operazioni. La situazione in Calabria rimane grave anche se nelle ultime 24 ore, gli incendi si sono ridotti di intensità grazie soprattutto all’intervento di soccorsi e squadre di vigili del fuoco da altre regioni. “Sono 59 i roghi attivi in Calabria. Un dato in diminuzione rispetto alla giornata di ieri, ma la situazione continua a essere grave”, spiega il presidente della Regione Calabria, Nino Spirlì che ieri ha chiesto al governo la dichiarazione dello stato di emergenza. “Dei 59 incendi registrati questa mattina 12 sono di interfaccia – ha precisato – Le squadre impegnate nelle operazioni di spegnimento sono in tutto 70. I mezzi aerei regionali sono attualmente operativi nei comuni di Isca sullo ionio, Cardeto, Longobucco e Orsomarso, quelli dello Stato a Bagaladi. Più nello specifico, è presente un canadair in ognuno dei comuni di Isca, Cittanova, San Luca, Mammola, Aiello. Un elicottero dell’esercito è attivo su Mendicino. Le criticità maggiori si registrano nel Reggino”. Il presidente della regione elenca poi alcune località dell’Aspromonte che risultano oggi tra le più colpite: Bagaladi, Cardeto, Grotteria, Mammola, Martone, San Luca e Cittanova. “Nel condannare, una volta di più, l’azione scellerata dei piromani — conclude Spirlì —, non posso non rivolgere un sentito ringraziamento a tutte le squadre di soccorso regionali e nazionali che si stanno prodigando senza risparmio per fare rientrare questa emergenza”. Il santuario della Madonna di Polsi, vicino a San Luca, resta isolato. Il rettore don Tonino Saraco è provato ma assicura che “la struttura al momento non corre pericoli ma è di fatto isolata per via dei violenti incendi che hanno causato l’interruzione in più punti dell’unica via proveniente da S. Luca, il centro abitato più vicino”. Questa mattina la messa è stata celebrata senza fedeli. E per la cerimonia di ferragosto, qualora la viabilità non dovesse essere stata ripristinata, ci si sta attrezzando per lo streaming. Ieri le fiamme avevano causato due vittime nel reggino, lambito diverse case tanto da causare lo sfollamento, momentaneo, di alcune abitazioni. E anche a Catanzaro qualche famiglia residente nella zona nord del capoluogo di regione era stata costretta a lasciare la propria abitazione per qualche ora.

In Sicilia bruciano i boschi delle Madonie e di Petralia. La situazione è “sotto controllo” ma continua a d essere drammatica in Sicilia dove durante la notte le fiamme hanno ridotto in cenere ettari di terra nei comuni in provincia di Palermo, in particolare sulle Madonie, a Polizzi Generosa, Castellana Sicula e Geraci Siculo. Centinaia di persone sono state evacuate. Da stamattina bruciano anche boschi e macchia mediterranea a Petralia Sottana e Petralia Soprana. Continuano a operare vigili del fuoco, forestale e Protezione civile, intervenuti anche per proteggere abitazioni e aziende insidiate dalle fiamme. All’alba di oggi sono ripresi gli interventi aerei di spegnimento a Enna, dove ieri nella zona residenziale di Pergusa è divampato un violentissimo incendio, proseguito per tutta la notte e che si è spostato verso piazza Armerina. Le fiamme hanno investito la vallata tra Pergusa e Valguarnera, distruggendo due aziende agricole. In una di queste non è stato possibile mettere in salvo il bestiame. Le fiamme ieri sera erano entrate nel centro abitato di Petralia Soprana, nella provincia di Palermo, attaccando parte del paese. Un bilancio di dieci persone lievemente intossicate e cento sfollati. Il sindaco Pietro Macaluso sta facendo la conta dei danni. “Oltre a questo primo bilancio ci sono tre famiglie rimaste senza casa che hanno trovato alloggio in casa di parenti, dieci aziende agricole danneggiate e cento animali morti” ha detto il primo cittadino che ha poi aggiunto: “Ancora il territorio brucia ma la speranza è che il peggio sia passato. Non si capisce perché, ma le Madonie sono state colpite in modo chiaro”. Una vera e propria aggressione, l’ha definita il primo cittadino, di cui occorrerà capire le ragioni. Madonie sono sotto attacco da parte dei piromani, con un disegno ben preciso anche per il sindaco di Polizzi Generosa in provincia di Palermo Gandolfo Librizzi.

Le fiamme divampano nel cuore del Salento. Un rogo di enormi dimensioni è in corso nel cuore del Salento. A Otranto un vasto incendio sta devastando ettari ed ettari di macchia mediterranea in località Porto Badisco. Sul posto al momento ci sono i vigili del fuoco, gli agenti della polizia locale, gli agenti del locale commissariato di polizia. Si sta valutando la possibilità di chiudere alcuni tratti al traffico. Il vento di tramontana sta alimentando ulteriormente le fiamme.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Alessio Ribaudo per il "Corriere della Sera" il 3 agosto 2021. Spettrale. È l'immagine oramai virale in Rete che mostra dall'alto una vasta area che da verde si tinge di nero. L'area è quella della Riserva Dannunziana devastata ieri dalle fiamme e della zona Sud di Pescara: dalla collina fino alla spiaggia dove le palme di alcuni stabilimenti balneari sono andate in fumo. Ieri, dopo aver domato i roghi più pericolosi, sono iniziate le operazioni di bonifica anche per interrompere dei focolai che si sono riattivati a causa del vento. «I danni sono incalcolabili», spiega il sindaco Carlo Masci. Per fortuna, nessuno fra i 30 intossicati trasportati in ospedale, fra cui otto poliziotti e sei carabinieri, è in condizioni gravi. La procura è a lavoro con i carabinieri forestali sulle cause dei roghi: sono stati trovati almeno tre punti di innesco e si indaga, contro ignoti, per incendio doloso. In Abruzzo le fiamme non hanno dato tregua. Sono stati 89 gli interventi: da Ortona a San Donato passando per la pinetina di Rocca San Giovanni dove è arrivato un elicottero per mettere in sicurezza un deposito di carburanti Eni. Roghi anche a Fossacesia Marina. Un bilancio drammatico tanto che il presidente della Regione, Marco Marsilio, ha avviato le pratiche per la richiesta al governo dello stato di calamità naturale. Ieri, però, gli incendi hanno imperversato in tutto il Centro-Sud e i numeri sono degni di un bollettino di guerra. Sono stati richiesti 30 interventi ai mezzi aerei: 7 dalla Calabria, 6 dalla Sicilia, 4 dal Lazio, 3 dall'Abruzzo, Molise e Campania, 2 dalla Basilicata e Puglia. Alla fine sono riusciti ad aver ragione di 12 roghi. Solo i Vigili del fuoco hanno lavorato su 1.202 roghi. «Una giornata drammatica», l'ha definita Fabrizio Curcio, capo della Protezione civile, Paura anche in Basilicata e Calabria. In Molise, focolai in provincia di Campobasso dove erano state già evacuate mille persone. La procura di Larino ha aperto un'inchiesta mentre il governatore, Donato De Toma, ha chiesto lo stato di emergenza. In Puglia sono stati oltre 200 gli interventi. Da cinque giorni brucia il bosco Difesa Grande a Gravina: oltre un migliaio di ettari andati in fumo. Gli incendi hanno rallentato anche il traffico ferroviario lungo la linea Adriatica. Molti treni diretti al Sud hanno accumulato ritardi e alcuni sono stati soppressi. In Sicilia, si è lavorato su 300 roghi, con i mezzi aerei impegnati nell'Ennese e nel Catanese. Infine, ad Alghero, è stato arrestato Giuseppe Fenu, 53 anni, accusato di otto tentativi di innescare incendi.

Riccardo Bruno per il "Corriere della Sera" il 3 agosto 2021. Quattro giorni fa i carabinieri di Agnone, sulle montagne a nord di Isernia, hanno arrestato un cinquantenne. Non era la prima volta che dava fuoco ai boschi, l'hanno trovato che si nascondeva tra le sterpaglie, le mani ancora annerite, le tasche piene di accendini. Nonostante l'impegno delle forze dell'ordine, non sempre va così bene. L'Italia brucia, soprattutto in questi giorni di caldo e vento. Ma non è colpa della natura. I dati raccolti dai Carabinieri sono chiari: solo il 2% dei roghi ha una causa naturale, in pratica un fulmine; il resto sono provocati dall'uomo, e più della meta (57,4%) sono dolosi. Qualcuno ha appiccato il fuoco perché malato (l'ossessione dei piromani), per vendetta, per calcolo personale o economico. L'Italia è consumata dal fuoco, estate dopo estate. Dal 15 giugno i Vigili del Fuoco hanno effettuato 37.407 interventi, 16 mila in più rispetto all'anno scorso. Secondo il rapporto Ecomafia 2021 di Legambiente, che il Corriere ha letto in esclusiva, nel 2020 sono andati in fumo 62.623 ettari (+ 18,3% rispetto all'anno precedente); di fronte a 4.233 reati segnalati, solo 552 sono state le persone denunciate, appena 18 quelle arrestate. «Il reato di incendio boschivo è molto grave, con pene fino a 10 anni, anche 15 in caso di danno permanente. Resta però sostanzialmente impunito - osserva Enrico Fontana, responsabile dell'Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente, che chiede di contestare nei casi più gravi anche il disastro ambientale e che in questi giorni ha lanciato una raccolta fondi per sostenere gli apicoltori sardi. Marco Di Fonzo, comandante del Nucleo informativo antincendio boschivo dei Carabinieri, lo definisce un «reato da vigliacchi». «Innescano le fiamme e quando divampa sono già altrove». Di Fonzo guida una task force che affianca gli investigatori sul territorio per individuare i responsabili. Un lavoro certosino che utilizza tradizionali strumenti d'indagine e adesso anche satelliti per localizzare il punto esatto da cui è partito il focolaio. «È un fenomeno socio-economico complesso, che varia da regione a regione, da provincia a provincia, anche all'interno di un comune - spiega il colonnello Di Fonzo -. Sicuramente c'è meno manutenzione dei boschi, in condizioni così estreme basta poco perché le fiamme saltino alle chiome, e l'incendio si propaghi in modo rapido e violento». I veri piromani, chi ha un reale disturbo psichico, sono una minoranza, ma provocano danni enormi perché agiscono in modo seriale. Gli altri incendiari lo fanno per ritorsione, per un presunto torto subito, per rinnovare aree destinate al pascolo, oppure per interessi illegali. «Sono reati spia. Ad esempio, gli appetiti della 'ndrangheta nella gestione del patrimonio boschivo sono dimostrati» avverte Fontana di Legambiente. Un dato fa riflettere: l'anno scorso, nelle quattro Regioni a tradizionale presenza mafiosa, si sono registrati il 54,7% dei reati e addirittura l'82% della superficie danneggiata. L'Antimafia siciliana ha anche raccolto l'allarme su un possibile collegamento tra i roghi e il business del fotovoltaico. Delinquenti, ma anche comportamenti maldestri. «A volte a provocare gli incendi sono persone anziane, abituate da sempre a dare fuoco ai residui vegetali ma che non sono più in grado di controllare, ed è anche cambiato il territorio attorno a loro» osserva Gianfilippo Micillo, quasi trent' anni di esperienza prima nella Forestale adesso dirigente del Coordinamento antincendio boschivo dei Vigili del Fuoco -. Per questo è importante l'educazione. Anche attraverso la pianificazione del fuoco prescritto, per bruciare la vegetazione in modo controllato e autorizzato». In tanti anni a domare fiamme e a cercarne i colpevoli, Micillo ne ha viste tante. «Ci è capitato di arrestare anche un volontario. Appiccava il fuoco e poi interveniva con noi. Ed era persino bravo a spegnerlo».

Nicola Pinna per "la Stampa"  il 27 luglio 2021. Il disastro si può misurare anche dall'abitacolo dell'auto, attraversando i tornanti del Montiferru con il navigatore satellitare in funzione: tutto il verde che si vede sullo schermo fuori dal finestrino non c'è più. Dove c'erano i cespugli ora ci sono tizzoni ardenti e dove c'erano grandi boschi sono rimaste montagne di cenere. Non si vedono più animali al pascolo, è calato il silenzio nel cuore ferito della Sardegna. Si sente solo il rotore degli elicotteri e l'eco della potenza degli aerei, perché la lotta agli incendi continua fino al buio. La battaglia non si può fermare neanche quando le fiammate più grandi sono state spente. Bisogna continuare a lanciare acqua, sopra questa enorme graticola che rischia di esplodere di nuovo. Ed è questo che temono gli abitanti di Cuglieri, che si affacciano alla finestra e vedono ovunque piccole colonne di fumo. La paura non è passata: il fuoco è spento, ma l'incubo andrà avanti a lungo. E non solo per i danni che il gigantesco rogo si è lasciato alle spalle. Ora si vive con terrore. Urlano e si disperano, quelli che per tre giorni si sono trovati l'inferno fuori dalla finestra. «Adesso ci sembra tutto spento ma mica andiamo a letto tranquilli - racconta l'allevatore Alessandro Menne - Qui non si chiude occhio e non solo per la preoccupazione di aver perso tutto. Siamo circondati, è terribile ciò che ci circonda». Il primo sospiro di sollievo, dopo 36 ore da infarto, si può tirare a metà pomeriggio: «E' spento, è spento - esulta uno degli operai forestali che rientra a casa dopo tante ore in mezzo al fuoco - Il lavoro però qui non è finito». E fino a notte fonda, infatti, si continua: la trincea è sterminata e il vento fa temere altri rischi. I canadair sono gli ultimi ad arrendersi: dodici equipaggi, compresi quelli francesi e quelli greci, si alternano dall'alba al tramonto. I volontari restano in campagna anche di notte, pronti a spostarsi a ogni nuova segnalazione. Dei piromani ancora non si è trovata traccia, ma le indagini del Corpo forestale hanno esattamente questo obiettivo: trovare gli inneschi e qualche indizio di chi li ha piazzati. Probabilmente in più punti, per riuscire ad assediare su fronti diversi un territorio vastissimo. Le colpe degli incendiari sono già chiare, ma agli occhi ora saltano anche quelle di chi non si è occupato di curare questa fetta verde di Sardegna. E qualcuno l'aveva pure segnalato: messo nero su bianco, nelle due pagine di un documento-allarme che era stato scritto all'inizio di giugno. Inviato al Comune di Cuglieri, all'Assessorato regionale all'Ambiente e alla Forestale. La denuncia era chiara: «In questo territorio, formato da molti ettari di bosco, esiste uno stato di abbandono e incuria che ha trasformato la montagna in una bomba a orologeria - scriveva il 7 giugno il "Comitato spontaneo del Montiferru" - Le piste sterrate che dovrebbero proteggere il monte versano in uno stato di impraticabilità, sia per il fondo stradale disastrato sia per la vegetazione che ha invaso completamente le carreggiate». I rischi, dunque, erano sotto gli occhi di tutti, ma un piano di protezione non c'è stato. «La vegetazione abbandonata a se stessa, per la mancanza di politiche di forestazione e di piani di prevenzione, è un pericoloso deposito di combustibile - allertavano i componenti del comitato - Se un qualsiasi piromane dovesse svegliarsi una mattina e decidesse di appiccare un incendio non ci sarebbe nessuna possibilità di spegnerlo». Più o meno è andata cosi. E oggi sulle colline della provincia di Oristano restano le tracce di quella che adesso pare essere una sciagura annunciata: «Non manderemo questa segnalazione ai giornali - si leggeva in quella denuncia - solo per evitare di mettere la pulce nell'orecchio a qualche piromane». In realtà non ce n'è stato bisogno. E ora l'isola fa i conti con danni pesantissimi. Dei millecinquecento sfollati nel corso del peggior fine settimana che la Sardegna ricordi, in cinquanta ancora non possono tornare a casa. Perché il rogo è arrivato fin sotto le finestre. Gli albergatori hanno offerto le camere gratis, molti turisti sono ripartiti in anticipo e tante famiglie hanno chiesto ospitalità ad amici e parenti. I contadini, che di ogni pascolo conoscono il nome antico, si ritrovano sotto le querce sventrate e provano a fare la mappa del disastro: «Siamo riusciti a salvare davvero pochissimo. Oliveti, vigne e fienili non ci sono più. Abbiamo perso tutto, ma tutto davvero. Le campagne di Cuglieri sono state rase al suolo». A Santu Lussurgiu, il paese delle corse dei cavalli e del bue rosso, il disastro l'hanno già misurato sabato sera e ora tentano di far ripartire qualche attività. Tresnuraghes, Scano Montiferru e gli altri paesi della Planargia, sono riusciti a salvare qualche fascia di territorio, ma le immagini registrate dagli elicotteri della Forestale mostrano una sterminata macchia nera. «Provo a tranquillizzare la gente, ma tutti temono che i roghi possano partire di nuovo, magari durante la notte - racconta il sindaco di Cuglieri, Gianni Panici - Il nostro territorio è stato cancellato in poche ore, l'economia è in ginocchio». A Magomadas piangono i viticoltori: il paradiso della Malvasia è compromesso. E nella corsa del fuoco ci sono finiti anche i vigneti dell'ex velina Elisabetta Canalis, che nel paese di origine della famiglia aveva portato anche l'ex fidanzato George Clooney.

“Un disastro senza precedenti”. Incendi nell’Oristanese, fiamme in 10 centri abitati: oltre 1500 sfollati e 20mila ettari bruciati. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Luglio 2021. Il fuoco continua a correre veloce nell’Oristanese. Il rogo gigantesco è scoppiato a Montiferru e ancora non è stato domato dopo aver percorso 50 chilometri dall’Oristanese fino all’Ogliastra minacciando case e aziende. Il bilancio fin ora è gravissimo: sono circa 1500 le persone sfollate, oltre 20mila etteri i terreni bruciati. E ancora la stima dei danni non è precisa. A lavoro ci sono circa 7.500 persone tra uomini del Corpo forestale, Vigili del Fuoco, Protezione Civile, volontari e Croce Rossa. In volo ci sono 7 Canadair ma Luigi Di Maio ne ha chiesti altri alla Francia. La situazione resta molto complicata. Le alte temperature e il vento hanno alimentato il fuoco che è iniziato sabato circondando prima Santu Lussurgiu spostandosi verso Cuglieri. L’ultima volta che un incendio aveva devastato quella zona risale al 1994. Le fiamme poi risultate di origine dolosa, cancellarono i boschi di Seneghe, Bonarcado, Cuglieri, Santu Lussurgiu e Scano Montiferro. Durante la notte il piccolo borgo di Cuglieri è stato preso d’assedio dalle fiamme e sono state sfollate 200 persone. Con loro anche tutti gli abitanti di Sennariolo, 155 persone, che si trova a pochi chilometri e dove gli tessi cittadini di Cuglieri avevano trovato rifugio. All’alba sono ripresi i lanci d’acqua dal cielo, ma dopo una lieve tregua, con il passare delle ore e con l’aumento delle temperature e della forza del vento, le fiamme hanno ripreso vita trasformando tutta l’area in un inferno. Poi il fuoco ha raggiunto Porto Alabe e altre 200 persone sono state allontanate da casa, tra queste anche molti turisti. Focolai anche a Santu Lussurgiu dove sono state allontanate 50 famiglie. A Sacano Montiferro sono state sfollate 400 persone tra cui anche gli ospiti di una struttura per anziani. Christian Solinas, presidente della Regione Sardegna, ha annunciato che scriverà al presidente Draghi per chiedere al Governo “un sostegno economico immediato per ristorare i danni e che una quota del PNRR sia subito destinata alla Regione per un grande progetto di riforestazione. Anche la Giunta regionale si è riunita, con tutti i sindaci delle zone colpite, ed è pronta a chiedere lo stato di calamità”. “Non è ancora possibile effettuare una stima dei danni causati dagli incendi – ha evidenziato ancora il presidente della Regione -, ma si tratta di un disastro senza precedenti”. Nel gigantesco rogo del 1994, nel Montiferru erano andati in fumo 12mila ettari di territorio e si era salvato anche l’olivastro millenario “Sa Tanca Manna” simbolo di Cuglieri. Oggi la furia del fuoco ha spazzato via già il doppio di territorio e anche quell’albero con 2000 anni di storia.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi. 

In Sardegna cane pastore non scappa di fronte alle fiamme per proteggere il gregge, salvato da un veterinario. Fulvio Cerutti per lastampa.it il 26 luglio 2021. Il suo corpo è ricoperto di ustioni. Le più gravi sul muso e sui polpastrelli. Avrebbe potuto mettersi in salvo da quelle fiamme che stanno devastando la Sardegna, evitarsi queste ferite che segneranno per sempre il suo corpo. Ma lui non è un cane qualunque. Lui è un cane pastore. Lui è quel cane che deve organizzare e proteggere il suo gregge. E così non si è allontanato, non ha abbandonato il suo ruolo ed è rimasto bloccato su un muretto. Oltre 20mila ettari di territorio, di boschi, oliveti e campi coltivati sono stati ridotti in cenere, aziende agricole devastate, case danneggiate. È pesantissimo il bilancio del gigantesco rogo scoppiato nel Montiferru, nell'Oristanese. E a questo, alle oltre 1500 persone sfollate, si aggiunge anche il dramma degli animali: non si conoscono i numeri, ma stanno arrivando moltissime immagini di animali bruciati vivi o morti soffocati per il fumo inalato. Questo cane, trovato a Tresnuraghes, ce la farà grazie al pronto intervento di Angelo Delogu, il veterinario che lo ha salvato: «Rimasto fermo sul muretto mentre le fiamme lo avvolgevano – scrive su Facebook –.  No, non l’ho soppresso perché guarirà. Non ha il chip, dubito che succeda ma se qualcuno dovesse riconoscerlo si faccia sentire». Ora il povero animale è stato stabilizzato e trasferito nella Clinica Veterinaria Duemari per l’ospedalizzazione. Ce la farà, uno dei simboli di speranza di questo dramma.

Maria Grazia Marilotti per lastampa.it il 4 agosto 2021. "Non soffre più". Poche parole sulla pagina Facebook della Clinica Due Mari di Oristano annunciano che Angelo non ce l'ha fatta. Se ne è andato ieri sera il pastore maremmano arrivato in condizioni pietose nella struttura diretta dalla veterinaria Monica Pais insieme al marito Paolo Briguglio. Prima ha protetto il suo gregge poi, nel tentativo di sfuggire all'incendio alla periferia di Suni, nelle vicinanze di Tresnuraghes, uno dei tanti paesi dell'Oristanese colpiti dall'immenso incendio che ha devastato il Montiferru, il cane pastore ha cercato di ripararsi su cumuli di massi roventi. Il veterinario Angelo giunto sul posto - da qui il nome dato al maremmano - ha pensato di tentare il tutto e per tutto e lo ha fatto ricoverare alla clinica Due Mari. "Aveva le zampe carbonizzate, muso, occhi e bocca bruciati, ustioni dappertutto - racconta Monica Pais - l'abbiamo curato come un bambino, abbiamo sperato, le ultime analisi erano buone ma la sindrome multiorgano è stata impietosa". La sua storia come quella della cerbiatta Lussurzesa e dei tanti animali scampati al rogo ha toccato il cuore di migliaia di persone. Già la sera prima il triste bollettino medico sulla pagina Fb. "So che vorreste saperlo: Angelo sta molto male, il suo organismo sta cedendo". Poi la notizia della morte. Se per Angelo non c'è stato niente da fare, migliorano un po' le condizioni di Luzzurzesa, la cerbiatta giunta alla clinica con le quattro zampe carbonizzate, trovata vicino alla mamma morta. "Fra una settimana si saprà quali sono le reali condizioni - spiega la veterinaria - e in che modo possiamo intervenire con le protesi. Di certo purtroppo non potremo rimetterla in libertà: non ha più i piedi". Buone notizie invece per Rino, il cagnolino rimasto ipovedente a causa delle fiamme. Ora lo ha preso una volontaria e presto sarà dato in adozione. Il lavoro alla Clinica Due Mari è incessante. L'ultima arrivata - si legge in un nuovo post - è "una femmina adulta di cinghiale da Cuglieri... cosa devono avere sofferto queste povere bestie. L'abbiamo sedata e medicata. L'abbiamo ricoverata per poterla seguire meglio. Potrebbe farcela". "Non le daremo un nome perché - dice scaramantica Monica Pais - speriamo di rimetterla in libertà e dobbiamo rispettare la sua identità di animale selvatico. La stiamo curando e abbiamo di che ben sperare. Però, mi si spezza il cuore a vedere tanta sofferenza, e - sorride - anche la schiena. Il lavoro è tanto ma è il nostro lavoro e si va avanti". 

N.P. per "la Stampa" il 26 luglio 2021. La solidarietà di Draghi. I Canadair non bastano, l'Italia ne chiede altri all'Europa Danni irreparabili al territorio e all'economia: nessuna previsione sulla fine degli incendi. Cuglieri (Oristano) Il Montiferru, come la Planargia e il Marghine, bruciano e nessuno sa per quanto ancora si dovrà assistere a queste scene apocalittiche. Il bilancio dell'incendio scoppiato in provincia di Oristano è grave e purtroppo ancora parziale: 1500 sfollati e oltre 20mila ettari di territorio, di boschi, campi coltivati e oliveti ridotti in cenere. E quando finalmente le fiamme saranno spente si dovranno contare i danni di aziende agricole devastate, case danneggiate per non parlare di un paesaggio che non sarà mai più lo stesso. Il fuoco ha percorso circa 50 chilometri nell'Oristanese e la Giunta regionale, in serata, ha approvato lo stato di emergenza, propedeutico alla richiesta di stato di calamità da parte del Governo. La situazione di questa «apocalisse ambientale», come l'ha definita Coldiretti, è talmente drammatica, che oltre al dispositivo di Corpo forestale, Vigili del fuoco, Protezione civile, Croce Rossa, Carabinieri e Polizia, sono arrivati dalla Francia due Canadair, in supporto dei sette già al lavoro. In serata è arrivata la solidarietà del presidente del Consiglio, Mario Draghi «a tutta la popolazione colpita e il sostegno a quanti senza sosta si stanno prodigando negli interventi di soccorso». Anche il suo predecessore Giuseppe Conte è intervenuto sull'emergenza sarda: «Le immagini sono impressionanti. Un vero inferno. Il mio pensiero e la mia vicinanza alla popolazione colpita e ai tanti volontari impegnati a domare i roghi». Dall'opposizione arriva l'appello di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia: «Chiediamo al governo di concentrare le attenzioni di tutta la Protezione Civile nazionale sui territori colpiti. C'è bisogno di aiuti immediati». Il governatore della Sardegna Christian Solinas ha ricevuto numerose offerte di aiuto, da altre Regioni, in primis dalla Liguria, e anche dalla Corsica, il cui presidente Gilles Simeoni con una telefonata ha espresso vicinanza e si è detto pronto a collaborare in ogni modo con l'isola dirimpettaia. Da un'isola all'altra, dure le parole del governatore siciliano Nello Musumeci, che si spinge a chiedere l'ergastolo per i piromani: «Le notizie e le immagini che arrivano dalla Sardegna sono drammatiche. Chi incendia la propria terra, cancella storia, identità, vita. Lo dico da governatore di un'isola aggredita, ogni estate e fino ad oggi, da questi criminali che meritano il carcere a vita». L'ex governatore sardo Ugo Cappellacci, preannuncia una interrogazione parlamentare al governo sui roghi. Mentre la presidente della commissione Lavoro della Camera Romina Mura chiede all'esecutivo di fornire «rapidi ristori» alle popolazioni colpite. Di «rabbia e sconforto» parla il presidente di Confindustria Centro Nord Sardegna Giuseppe Ruggiu, «da anni viviamo la tragedia degli incendi che colpiscono i nostri territori lasciando profonde ferite che richiedono anni per rimarginarsi e provocano danni incalcolabili all'ambiente e all'economia».

Terre avvelenate: le scorie del traffico di rifiuti in Lombardia. Sono i luoghi che nascondono gli scarti della società e fruttano fiumi di denaro, spesso senza adeguate tutele per l'ambiente. Con un ruolo chiave per le famiglie della criminalità organizzata. Luca De Vito su La Repubblica il 24 luglio 2021. Parchi, aree verdi, cantieri, capannoni abbandonati lungo le provinciali, ma soprattutto campagne. Terreni che quasi si nascondono nella vastità agricola della pianura padana, dove lo sguardo nei campi si perde e il pensiero fisso della produttività premia chi non distoglie lo sguardo dalle proprie tenute. Messi però in fila, o segnati su una mappa, assumono un altro aspetto, decisamente più inquietante.

Dagotraduzione dal Guardian il 22 luglio 2021. Le ceneri dell’Etna, che da febbraio non ha smesso di eruttare, rischiano di mandare in bancarotta decina di paesini siciliani. Lunedì il governo ha stanziato 5 milioni di euro per aiutare i piccoli comuni a fare fronte alle spese di pulizia, che possono arrivare a costare 1 milione a eruzione. «La situazione è molto grave», dice Alfio Previtera, consigliere comunale di Giarre, uno dei paesi più colpiti dalle ceneri dell'Etna. «'Strade, piazze, tetti, balconi, automobili: tutto è ricoperto di cenere. Da marzo sulla nostra cittadina sono cadute circa 25.000 tonnellate di cenere. La gente usa gli ombrelli come protezione». La cenere è considerata rifiuto speciale, e come tale il suo smaltimento ha un costo più alto, circa 20 euro a metro cubo. «Ad ogni eruzione, l'Etna emette da decine di migliaia a 200.000 metri cubi di cenere», afferma Boris Behncke, vulcanologo presso l'Istituto Nazionale di Geofisica di Catania. «È un problema serio per i Comuni». «Per far fronte a questa emergenza, diversi comuni hanno accumulato un ingente debito», ha detto Previtera. «Stiamo affrontando un collasso finanziario». Per questo la scorsa settimana il Senato ha approvato una legge che rende le ceneri rifiuti ordinari. «La legge ridurrà notevolmente i costi di smaltimento», dice Silvio Grasso, ingegnere e capo della protezione civile di Giarre. «La legge prevede, per esempio, che la cenere possa essere utilizzata in agricoltura, per rendere più fertile il terreno, oppure in edilizia, come materiale di cementazione o di riempimento. Certo, il problema persiste anche perché l'Etna non ha ancora finito di eruttare». Da febbraio, l'Etna, che si trova a 3.300 metri dal livello del mare, sta eruttando in modo spettacolare, con fontane di lava alte 2.000 metri. I vulcanologi dell'Istituto Nazionale di Geofisica di Catania che stanno studiando la cenere dicono che si tratta di "magma primitivo", cioè che proviene dalle viscere della montagna e per questo porta con sé una maggiore carica di gas, il che spiega le eruzioni insolitamente alte. Migliaia di abitanti e contadini vivono e lavorano sul vulcano, e devono fare i conti con una pioggia quasi costante di ceneri sui tetti e sui balconi. «Sta diventando davvero fastidioso», racconta Pinella Astorina, 74 anni, che vive a Trecastagni, un piccolo paese alle pendici del vulcano. «Passiamo la giornata a rimuovere le ceneri dalle nostre case. Il problema è che si accumula sui tetti, col rischio di intasare i tubi di scarico. Rimuovere le ceneri dal tetto può costare anche 300-400 euro». Il servizio nazionale di protezione civile ha programmato una riunione d'urgenza per discutere del disagio con i cittadini. E per proteggersi dall’inalazione, le autorità locali hanno consigliato alle persone di indossare nuovamente maschere protettive all'aperto. Niente a che vedere con il Covid però.

Sviluppo ed ecologia: così il Tap preserva i simboli della Puglia. Andrea Muratore su Inside Over il 30 marzo 2021. Nei giorni in cui il gasdotto Tap, entrato definitivamente in servizio nel dicembre 2020, celebra il traguardo del primo miliardo di metri cubi di gas trasportati dal Mar Caspio all’Europa (tagliato il 19 marzo scorso), il consorzio che gestisce il Trans Adriatic Pipeline, intenzionato a rispettare la tabella di marcia anche sul fronte della sostenibilità ambientale, prosegue il suo impegno per garantire il rispetto e la tutela dell’ecosistema che ospita l’opera. Sviluppo e sostenibilità possono coesistere, e l’operato di Tap in questi mesi lo sta dimostrando. Il consorzio che ha realizzato il gasdotto parte del Southern Corridor che porta l’oro blu azero in Europa lavora in Puglia al fianco delle comunità locali, degli agricoltori e dei proprietari dei fondi interessati dal passaggio dell’infrastruttura. Con l’obiettivo di restituire alla normalità nel più breve tempo possibile il territorio interessato dal completamento dei lavori e di integrare al meglio l’opera nel tessuto ambientale e socioeconomico di riferimento. Un impegno che si riflette anche nella scelta, non solo simbolica, di costruire l’hub terminale del Tap a Melendugno, nella campagna salentina, in pietra di Lecce per armonizzare al meglio l’impianto con la campagna circostante. Incorporando al suo interno una “pajara”, la tradizionale costruzione salentina in pietra a secco che costella il territorio. La primavera inizia con una novità sostanziale che va oltre la costruzione del terminale a Melendugno: la Puglia vede il gasdotto pienamente operativo, in funzione per portare il gas del Mar Caspio sul territorio nazionale e oltre, integrato nel territorio della regione grazie al completamento del processo di piantumazione delle nuove piante di ulivo resistenti alla Xylella (930 in tutto) e di quelle sane (828) espiantate temporaneamente per consentire i lavori di costruzione e custodite nei canopy di Masseria del Capitano. Una fase di ripristino ambientale attentamente documentata da Tap, che ha prestato particolare attenzione al ritorno degli antichi ulivi monumentali nel loro territorio e ha contribuito anche a ristabilire il rimanente patrimonio paesaggistico della macchia mediterranea. Creando un dividendo non solo economico, ma anche ambientale: di fatto la procedura di espianto e successiva piantumazione degli alberi sani già esistenti li ha posti al riparo dal propagarsi della Xylella, mentre la sostituzione degli alberi malati con piante nuove meglio resistenti al batterio ha rafforzato ulteriormente il patrimonio della flora pugliese. Un processo i cui frutti andranno a beneficio delle comunità locali e dei proprietari dei terreni attraversati da Tap, che stanno venendo gradualmente restituiti loro per l’utilizzo nel quadro delle norme di sicurezza vigenti. “Al netto dei ripristini, sono state messe a dimora circa 12mila nuove piante autoctone, in un’area in cui la copertura forestale attuale è molto bassa e si aggira intorno all’1% del patrimonio provinciale”, ci ricorda La Gazzetta del Mezzogiorno. Ma non finisce qui: Tap ha provveduto ad avviare il riposizionamento di decine di muretti a secco tradizionali, tra i più noti simboli del paesaggio e dell’identità pugliese che caratterizzano la campagna salentina. Questi manufatti, tipici della Puglia e di altre regioni del Mediterraneo come la Sardegna, protetti fin dal 2018 dall’Unesco come patrimonio dell’umanità e considerati simbolo di “una relazione armoniosa tra l’uomo e la natura”, sono costruiti con la sovrapposizione di pietre unite senza l’utilizzo di leganti di alcun tipo. Dai muri divisori tra i vari fondi a quelli che circondano, nella regione, i trulli e costruzioni ad essi simili questi particolari manufatti rappresentano la testimonianza del primo tentativo delle civiltà umane di perimetrare, controllare, modificare l’ambiente circostante senza deturparlo, in armonia con esso. Tap è venuto incontro al valore storico e culturale di questi manufatti, che con la loro capacità di trattenere tra le pietre l’acqua piovana e l’umidità aiutano, inoltre, a far sviluppare nei loro dintorni una vegetazione più rigogliosa di quella ordinaria. “I circa 110 muri a secco che incrociano il tracciato del gasdotto”, ha spiegato l’azienda in un comunicato, “sono stati catalogati, numerati e documentati e successivamente smontati, divisi per sezioni costruttive (cappello, corpo e piede) e stoccati in pallet delle dimensioni di 1 metro cubo, per essere poi rimontati nelle medesime condizioni e nel rispetto dell’assetto architettonico e paesaggistico originario”: un’opera certosina che si è avvalsa del sostegno di team di archeologi e operai specializzati in queste operazioni di conservazione e restauro. Far coesistere progresso e tutela ambientale, modernità e tradizione, progetti dal valore strategico e geopolitico e difesa delle comunità locali è un processo complesso su cui Tap ha scelto di imbarcarsi, puntando a portarlo avanti fino in fondo. Il gasdotto si andrà a sommare, dunque, e non sostituirà i tradizionali volani dello sviluppo economico della Puglia senza condizionarne il paesaggio, senza impattare sul territorio e l’ecosistema. Sostenibilità significa far progredire tutela ambientale e progresso economico in un dialogo a tutto campo, incorporando nella governance dei processi aziendali le logiche di riduzione dell’impatto complessivo delle opere e delle attività umane. Tap porta energia all’Italia e dà linfa nuova all’ambiente pugliese. Contribuendo, dunque, a una forma integrale di sviluppo.

Dario Sautto per "il Messaggero" il 24 marzo 2021. «In tutta l' area dell' isola di Capri non è stato possibile riscontrare alcun tratto di costa non interessato negli anni dal prelievo dei datteri di mare. Anche nelle aree apparentemente intatte si notano chiari segni dell' estrazione dei molluschi bivalvi, fino a 20 metri di profondità». Metà della parete rocciosa sommersa dei Faraglioni, inoltre, è stata «completamente desertificata». La relazione firmata dal professor Giovanni Fulvio Russo, ordinario di Scienze Biologiche ed Ecologia alla Parthenope, non lascia spazio a interpretazioni. Dai Faraglioni alla costa dell' isola azzurra, passando per la Penisola sorrentina e fino al Molosiglio di Napoli, i datterari hanno «alterato l' ecosistema» causando un vero e proprio disastro ambientale. LE MISURE CAUTELARI Sei persone sono finite in carcere, altre sei ai domiciliari e sette sono state sottoposte a misura cautelare più lieve emessa dal gip Egle Pilla, al termine di un' inchiesta condotta dai finanzieri del Reparto Operativo Aeronavale di Napoli, coordinati dal pm Giulio Vanacore e dalla Procura napoletana. L' inchiesta ha permesso di ricostruire una parte della «devastazione in corso dai primi anni 2000 sulla costa sorrentino-caprese e napoletana» messa in atto da due gruppi familiari ben distinti: il primo con base a Napoli, riferito alla famiglia Amato; il secondo, a Castellammare di Stabia, gestito dai cugini Avella-Viola, legati agli ambienti della camorra degli Imparato, gruppo alleato al clan D' Alessandro. Il gruppo napoletano ha potuto contare anche sulla complicità di due militari, che sono stati sottoposti a divieto di dimora in Campania per rivelazione di segreto d' ufficio. Associazione per delinquere, disastro ambientale, ricettazione e altre contestazioni di reati ambientali sono le accuse a vario titolo contestate agli indagati. In carcere sono finiti i napoletani Pasquale (1964), Vincenzo (1970) e Pasquale (1965) Amato, e gli stabiesi Catello Avella, e i fratelli Elpidio e Giuseppe Viola. Ai domiciliari, invece, gli altri napoletani Salvatore e Vincenzo (1990) Amato, Giuseppe Buonocore, Giuseppe Testa e gli stabiesi Catello Viola e Luciano Donnarumma. Quest' ultimo era il marinaio scelto dai Viola per le escursioni capresi, pagato a settimana per preparare gommone e attrezzature, condurre l' imbarcazione ai Faraglioni, fare da vedetta e, all' occorrenza, gettare a mare i «cuoppi» pieni di datteri. Per capire il fenomeno serve comprendere anche l' enorme domanda del «frutto proibito» - la cui pesca è vietata dal 1998 - che sale alle stelle nel periodo delle festività. Se all' ingrosso i datteri vengono pagati tra i 30 e i 50 euro al chilo, le pescherie arrivano a rivenderli intorno ai 150, con picchi di 200 durante le feste. A Natale soprattutto, ma anche a Pasqua, la richiesta sulle tavole napoletane è enorme, tant' è che gli Amato erano costretti spesso a rivolgersi al gruppo stabiese per accontentare tutti i clienti. Come avvenuto durante le indagini per la Pasqua 2019, quando finì sotto sequestro un carico da 6 chili. LA ROCCIA A ottobre di quell' anno, però, i finanzieri riuscirono a sottrarre circa 20 chili di datteri saccheggiati tra le 2 e le 5 della notte dai Faraglioni di Capri. Lì, infatti, le dimensioni del frutto di mare è maggiore perché il mollusco ha un' età maggiore e quelle rocce calcaree rendono perfetta la proliferazione. «In un metro quadrato di roccia caprese scrivono gli esperti riescono a crescere fino a 659 datteri». Di quelli grandi, come specificano gli indagati durante alcune conversazioni intercettate: «Se vado da sopra (a Capri), sono più grandi. Ma stanotte c' era troppa tramontana, siamo andati di sotto (punta Scutolo, a Vico Equense)». In circa un anno i datterari e i ricettatori hanno commercializzato circa 8 quintali di molluschi, con un guadagno che arrivava anche a 250 euro ad uscita e fino a 3mila euro ciascuno al mese. Bussolotti, limoni, babà, jolly, i datteri cambiavano spesso nome. Sotto sequestro sono finite due pescherie napoletane, un chiosco stabiese, imbarcazioni e attrezzature.

Dagospia il 24 marzo 2021. Riceviamo e pubblichiamo da Anonimo Caprese. L’inchiesta è del 2019. Dal 2019 ad oggi, l’intera area Faraglioni è super attenzionata, quindi il disastro ambientale è stato fatto negli anni precedenti. La problematica nasce anche da un numero imprecisato di imbarcazioni (gozzi in particolare) che arrivano sulle coste capresi con la scusa di escursioni che tali non sono, perché sono quasi tutti interessati alla pesca dei famosi datteri, e che non vengono controllate. Ci vorrebbero più motovedette di Capitaneria e GdF da impiegare intorno alle nostre coste durante i mesi estivi. Capri nel periodo estivo viene attaccata da gozzi, e motoscafi, tipo pirati, da ogni parte del golfo. Ischia, Procida, Napoli, Sorrento, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Vico Equense, Metà di Sorrento, Nerano, Positano, Amalfi, Salerno. Aggiungi a tutto questo, oltre 500 imbarcazioni di residenti isolani, cosa per cui a luglio ed agosto il mare non si vede più. Se non pattugliano le nostre coste c’è e ci sarà sempre più anarchia.

Il Triangolo della morte in Italia. Il Male nascosto sotto la terra. Articolo e fotografie di Alessio Paduano su Inside Over il 23 marzo 2021. Il 10 febbraio 2021 il rapporto conclusivo di un accordo stipulato nel 2016 tra la Procura di Napoli Nord e l’Istituto superiore di sanità ha confermato l’esistenza di una “relazione causale” o di “concausa” tra l’insorgenza di alcune patologie molto gravi come il cancro al seno, l’asma, varie forme di leucemia, malformazioni congenite e lo smaltimento abusivo dei rifiuti nella cosiddetta “terra dei fuochi”. Nulla di particolarmente nuovo per gli abitanti dei 38 paesi presi in esame nello studio avviato più di quattro anni fa, impegnati da tempo a denunciare i soprusi che la loro amata terra subisce. Nulla di nuovo nemmeno per Enzo Tosti, un attivista di 63 anni che vive ad Orta di Atella, un piccolo comune in provincia di Caserta che conta circa 27000 abitanti. “Quello che dice questo rapporto conferma ciò che da sempre sosteniamo con tutte le nostre forze, scendendo in strada a manifestare contro l’inquinamento causato dalla camorra”, racconta Enzo, che poi continua: “È solo un punto di partenza, non ci accontentiamo. Nelle 67 pagine del documento ci sono dei passaggi in cui si parla della rimozione delle probabili cause di queste malattie. Ci aspettiamo che nelle aree avvelenate dai rifiuti vengano effettuate delle bonifiche quanto prima!”. Enzo da sempre si batte per il suo territorio e ha fatto della causa ambientalista la sua ragione di vita. Nel 2015 si è visto diagnosticare il Linfoma non Hodgkin, un tumore maligno molto raro, abbastanza frequente tra i militari esposti all’uranio impoverito in zone di guerra. A Orta di Atella e in altri paesi della “terra dei fuochi” non c’è la guerra, eppure in quei comuni, dove il 37% circa della popolazione vive ad almeno cento metri di distanza dai siti contaminati, la diffusione del Linfoma non Hodgkin supera del 50 per cento la media nazionale. Nella mappa di rischio disegnata durante lo studio dell’Istituto superiore di sanità sono stati analizzati i 426 chilometri quadrati di territorio di competenza della Procura di Napoli Nord e successivamente, ad ognuno dei 38 paesi inclusi in questo perimetro è stata attribuita una classe di rischio: dalla uno, che include i centri meno esposti ai fattori inquinanti, alla quattro, che include quelli più esposti. In tutto sono stati individuati 2767 siti di smaltimento illegale. 16 novembre 2013 – Napoli, Italia: una manifestazione contro i rifiuti tossici in Campania. Migliaia di persone sono scese nelle strade di Napoli, per protestare contro lo scarico illegale di rifiuti tossici a Napoli e provincia. Dal 1980 ad oggi, tonnellate di rifiuti provenienti da ogni parte d’Italia sono state sversate nelle discariche della Campania. A Casal di Principe erano in tanti a sapere quello che Carmine Schiavone (pentito di camorra dal maggio 1993 fino alla morte avvenuta nel 2015) aveva fatto insieme al capoclan Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, e al resto del suo gruppo criminale: sotterrare in maniera illecita i rifiuti tossici in cambio del denaro delle industrie del Nord Italia. Negli ultimi anni l’ aumento del numero di persone malate di cancro nei territori di Caivano, Giugliano, Casal di Principe e Acerra ha generato una forte rabbia tra la popolazione che ha avuto il coraggio di scendere in piazza a protestare. Qualcuno ha addirittura paragonata questa situazione alla peste del 1600. Secondo Francesco Greco, procuratore di Napoli Nord, il picco dei tumori nella “terra dei fuochi” rappresenterebbe l’emergenza più significativa per Caserta e Napoli dopo il Covid. Oggi più che mai, nei paesi che rientrano nel cosiddetto triangolo della morte, le persone hanno voglia di riappropriarsi di quella terra che un tempo era chiamata “Felix” e che è stata offesa e maltrattata dalla malavita. Il recente rapporto dell’Istituto superiore di sanità ha riacceso la speranza della popolazione che adesso aspetta azioni concrete da parte dello Stato.

«La nostra Civitavecchia è una città martire: ha sacrificato i polmoni per portare corrente al Paese». di Patrizio Ruviglioni su L'Espresso il 23 febbraio 2021. Gli impianti termoelettrici sono ormai l’identità del territorio. E come per l'ex Ilva, anche qui si sconta la promessa di occupazione in cambio di danni alla salute. A Civitavecchia, uno dei porti più grandi del Mediterraneo, sessanta chilometri a nord di Roma, la sagoma slanciata delle ciminiere è ormai parte integrante di uno skyline che, per il resto, a stento supera il sesto piano di altezza. Per gli oltre cinquantamila abitanti della cittadina, la «centrale» – come viene colloquialmente chiamato l'insieme di impianti termoelettrici appena fuori dal centro, direzione Tuscia – non è più un corpo estraneo, un'anomalia del panorama: la sua presenza è stata interiorizzata dalla gente, e persino le band del posto la citano nel proprio nome. Come fosse una questione identitaria, ma rassegnata: allo stesso modo dell'ex Ilva di Taranto, anche qui si sconta la promessa di occupazione con inquinamento e danni alla salute. «E del resto le patologie che nascono sono ricorrenti: cancro, malattie cardiovascolari, disturbi dello sviluppo neurologico», commenta Giovanni Ghirga, pediatra dell'Associazione medici per l'ambiente. «I più colpiti restano i bambini, con ritardi nel linguaggio che a Civitavecchia hanno assunto la forma di un'emergenza. Ma purtroppo è normale, quando ci si espone a emissioni tossiche di questa entità». Su un territorio già segnato da un fitto traffico navale, infatti, da decenni insistono le centrali di Torrevaldaliga Nord (a carbone, gestita da Enel) e Torrevaldaliga Sud (a turbogas, di Tirreno Power), oltre a una terza a Montalto di Castro, a trenta chilometri in linea d'aria. «La chiamo "servitù energetica"», spiega Maurizio Rocchi del comitato S.o.l.e., in prima linea per una svolta ambientalista da anni ventilata dalle autorità locali e mai davvero intrapresa. «La nostra è una città martire: ha sacrificato i polmoni per portare corrente al Paese; in cambio, solo malattie e un ecosistema distrutto». E ora, dice, si rischia «l'ultimo affronto». Perché, quello che a molti sembrava un passaggio storico, si sta trasformando in una reiterata consuetudine. Da una parte, il Piano nazionale integrato per l'energia (Pniec) ha costretto il nostro Paese a rinunciare al carbone entro il 2025, seguendo gli accordi di Parigi. Dall'altra, anche a Torre Nord – come nel resto degli impianti in Italia – la scelta di Enel per l'alternativa è ricaduta sul gas metano. «Che è certo un'energia più sana, ma come tutte le fossili emette polveri sottili pericolose per la salute, specie in una zona devastata come questa», puntualizza Mauro Scacchi, presidente di Legambiente Lazio. La sua associazione ha classificato quest'impianto come «il più inquinante» del nostro Paese, a fronte delle otto milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse nel 2018. Uccide i polmoni, alimenta la crisi climatica globale. Proprio come la centrale a turbogas a cui starebbe per essere convertita. E che potrebbe persino essere affiancata da altre due "sorelle" dello stesso tipo – Enel e Tirreno Power hanno presentato i rispettivi progetti proprio recentemente. Si credeva nella liberazione, ci si rassegna a un futuro molto simile al passato. O forse no: stavolta, dopo anni di immobilismo, la sensibilità alla questione sta crescendo. Ci sono i comitati civici, i ragazzi di Fridays for future, la politica locale che – in una città al momento in mano al centrodestra – sembra aver trovato coesione nell'opposizione alle politiche energetiche. La richiesta: una svolta fossil free con idrogeno verde ed energie rinnovabili, che bonifichi il territorio e coniughi per la prima volta ecologia e lavoro. E chissà che una mano non arrivi anche dal neonato Ministero della transizione ecologica. Sospira Scacchi: «L'uscita dal carbone è un'opportunità, non un modo per commettere i soliti errori. Se ce la lasciamo sfuggire, prepariamoci almeno ad altri trent'anni di morte. Ad altri trent'anni di sudditanza».

Sudditanza. È da quando è stato aperto il primo impianto, nel 1951, che va avanti quello che Rocchi definisce «un ricatto: occupazione in cambio di inquinamento». Lui, che è cresciuto nella Civitavecchia del dopoguerra, ricorda ancora come fossero il bisogno di lavoro in una città rasa al suolo dai bombardamenti e la fiducia nel progresso, all'inizio, a guidare le scelte di politici e dirigenti. Mancava consapevolezza ambientale: si guardava alle opportunità, di certo evidenti in una zona tanto strategica – al centro d'Italia, vicina al mare, col porto. E la gente, ignara delle conseguenze sulla salute, era entusiasta. «Nacque addirittura un istituto tecnico per garantire la preparazione idonea per essere assunti in centrale. Era un posto molto ambito». Gli fa eco, sempre dal comitato, Franco Padella, chimico con anni di ricerca nel campo della sostenibilità, spiegando come questo processo abbia però anche «distrutto il tessuto sociale del posto, rendendolo asservito a Enel e impedendo nei fatti la crescita dell'economia locale». In pratica, una «colonizzazione, in cui il colosso dell'energia è l'unico interlocutore». «Ma è difficile puntare, per esempio, sul turismo, se chi sbarca è costretto allo slalom fra le ciminiere», precisa Marco Piendibene, capogruppo del PD a Civitavecchia. Riflette: «Siamo diventati il giardinetto di chiunque abbia progetti di tipo energetico e industriale: "portano lavoro", si dice. Ma a che prezzo? È dagli anni Sessanta che andiamo avanti così, distruggendo l'ecosistema e l'economia di questo posto». Torre Sud infatti viene costruita già nel 1964. Poi altri impianti, finché nel 2003 Torre Nord non passa dall'olio combustibile al carbone, grazie alla controversa approvazione di una giunta comunale di centrodestra. Rimarrà l'ultima centrale di questo tipo a essere inaugurata in Italia. Per Legambiente, la sua nascita è «il colpo di grazia», visto che «all'epoca, al contrario che in passato, la classe politica e i dirigenti erano a conoscenza dei danni che avrebbe causato quel tipo di fossile». Alla fine però ha vinto «il profitto», anche se qualcosa è successo lo stesso: per la prima volta sono emerse le contraddizioni del caso, con famiglie e persino partiti – tra cui Rifondazione comunista – spaccati fra chi sceglie il lavoro (e l'inquinamento) e chi l'ambiente. E quindi ecco le battaglie ecologiste, ma anche l'aumento dei decessi. Fra il 2006 al 2010, la mortalità per cause naturali e tumori maligni in città ha superato del 10% la media della regione. Oggi? «I dati restano preoccupanti. Il gas era la soluzione nel 2003: adesso è noto come emetta particelle finissime pericolose per la salute, mentre la tecnologia ha compiuto progressi», spiega Ghirga. Che insiste: «Il covid ci dovrebbe far riflettere sulla crisi climatica; invece, nel panico generale, l'unico risultato è che qualcuno ne approfitta per prendersi le autorizzazione necessarie a inquinare ancora». E se nel 2003 si era commesso l'errore di affidarsi a una fonte di energia già ritenuta superata, ora si rischia lo stesso: passare al metano quando l'Europa col Green new deal inizia a investire sull'idrogeno verde (cioè quello pulito, prodotto senza emissione di CO2). Rendendo obsoleto il Pniec, che invece legittima la scelta di Enel. Alla quale, tra l'altro, corrisponderà una drastica riduzione dei dipendenti nel sito di Civitavecchia. Sta venendo meno persino il «ricatto» del lavoro. E anche la Fiom ha cominciato con gli scioperi, contro il gas e a favore di una svolta green.

«L'ultima occasione». Ma allora perché il gas? Enel, in sintesi, ritiene si tratti di un'opzione obbligata dalle tempistiche: un altro tipo di transizione entro il 2025 non sarebbe sostenibile per il fabbisogno del Paese. Ma secondo Legambiente basterebbe tenere accese le centrali già esistenti dalle attuali 3.200 ore annue a 4mila per sventare ogni necessità di riconversione a gas. Perché semmai «il punto è il Capacity Market», lo schema di mercato impostato dal ministero dello Sviluppo economico che sfavorisce le rinnovabili e offre sovvenzioni alle centrali a gas. «Costruire impianti a metano, in Italia, è ancora vantaggioso a livello economico, nonostante l'Europa abbia decretato che il turbogas rappresenta il passato», ammette Scacchi. Tant'è che in questa transizione, puntualizza Padella, «solo noi e la Polonia l'abbiamo scelto». Non che le strutture esistenti debbano essere chiusi all'istante: per ambientalisti ed esperti, basta non aprirne altre e dare inizio a un dialogo riguardo l'utilizzo di fonti come il fotovoltaico per il futuro dei siti dismessi. E nel caso di Civitavecchia, per esempio, il S.o.l.e. propone un sistema "a isola" integrato col porto, che alimenti le navi con energia rinnovabile «come avviene in via sperimentale già all'estero». Quello, oppure «per esempio le pale eoliche offshore», spiega Scacchi. «Sistemi di questo tipo vanno migliorati, resi più efficienti; ma portano lavoro anche in quanto a ricerca e sviluppo. Sono il futuro, c'è solo da guadagnarci. Il fossile è morto: scegliendolo, trasformiamo un'opportunità nell'ennesimo disastro. Ci condanniamo a restare senza lavoro, a distruggere dell'ecosistema e persino a comprare materie prime dall'estero, con l'aumento di traffico e relativo inquinamento». Per questo, la partita è doppia. Da una parte ci si gioca la riqualifica del territorio. Dall'altra, Civitavecchia potrebbe diventare un modello sostenibile da emulare in tutta Italia. Chiaro: nel caso in cui venisse confermato il metano «si creerebbe un precedente negativo, che vincolerebbe le scelte nel resto del Paese», ammette Legambiente. Ma la battaglia contro il surriscaldamento ambientale passa anche dall'abbattimento delle emissioni di CO2. E per Scacchi, comunque, «dipenderà dal ministero dello Sviluppo economico, se accetterà o meno di voltare pagina e seguire l'Europa sul tema del green». Perché «Enel percorre proprio quelle vie, ergo bisogna insistere a livello governativo» conferma Piendibene, che nella soluzione è invece massimalista. «Vogliamo un futuro diverso: se qualcuno desidera costruire un impianto a metano al posto di questo a carbone, che lo faccia direttamente altrove». L'era della servitù energetica «deve finire, per quanto la politica locale – più che compattarsi e sensibilizzare le istituzioni – non può fare molto».

Ma sostenibilità o meno, Civitavecchia è in ogni caso a un bivio. «Questa è l'ultima occasione», ammette Padella. «Fra dieci anni le centrali a gas verranno comunque dismesse, superate dall'idrogeno verde e dalla necessità di ridurre l'impatto ambientale». Tradotto: il rischio è che, scegliendo il fossile, «la crisi e la disoccupazione che ne deriveranno si divoreranno questa città, disperdendo i giovani e soffocando gli imprenditori più di quanto sia successo in passato». Questione di prospettive: «Un polo ecologico significa salute, lavoro, sviluppo e integrazione con le realtà locali. Al contrario, diventeremo la periferia-dormitorio di Roma. Una volta finita l'era del fossile e dello sfruttamento, Enel se ne andrà lasciandoci solo i rottami degli impianti. E tutto intorno, il deserto».

A Gela in 15 anni sono nati 450 bambini malformati. Ma sulle loro vite è calato il silenzio. Nemmeno a Taranto, una delle aree più inquinate del Continente, si arriva a queste cifre. La città siciliana, sede di una grande raffineria dell’Eni, ha numeri che non hanno pari in Italia e in Europa. Antonio Fraschilla e Alan David Scifo su L'Espresso il 16 marzo 2021. Gela. Orazio osserva ma non vede. Non parla ma agita le mani per esprimere la sua felicità o la sua tristezza improvvisa, seduto in braccio alla mamma su una panchina di un distributore di benzina che qui, nella Gela urbanizzata senza regole, è diventato un po’ tutto: luogo di ritrovo per i ragazzini all’ora dell’aperitivo, svago per le famiglie grazie alle giostrine sul prato finto, fermata per i tir che percorrono il Sud più a Sud d’Italia, da Ragusa verso Agrigento. La mamma, Giovanna Gastrucci, lo tiene stretto appoggiato sul suo fianco nonostante il peso, da lontano svettano ancora le due torri ormai senza fumo della grande raffineria dell’Eni, da tempo chiusa e in fase di riconversione. Orazio ha sei anni, è nato con una cecità quasi totale e la spina bifida. Le sue emozioni profonde le capisci dagli occhi nerissimi che dicono più di mille parole. «Mio figlio, tra i bambini di Gela con malformazioni, è uno dei più gravi. Quando è nato, un ginecologo mi aveva proposto addirittura di abbandonarlo in un centro dopo aver saputo della malformazione, ma io non ci ho pensato un attimo. È mio figlio, non lo abbandonerò mai, anche se a Gela sono stata io ad essere abbandonata da tutti. Non ci sono centri di recupero, istituti dove fare terapie, nulla di nulla. Anche una sua cuginetta ha la stessa malformazione, anzi forse più grave». «E una parente di mio marito ha un problema molto serio», aggiunge la cognata di Giovanna, seduta accanto a lei su questa panchina che dà su cinque colorate pompe di benzina. Di famiglia in famiglia, di parente in parente, di voce in voce, a Gela tanti hanno un legame più o meno diretto con qualche caso di bambino nato malformato dagli anni Novanta ad oggi. Questo angolo di Sicilia adagiato verso il mare che guarda dritto all’Africa ha tra le percentuali più alte d’Italia e d’Europa per malformazioni congenite. Qui nell’arco di meno di quindici anni sono nati almeno 450 bambini malformati, uno ogni 166 abitanti. Un numero enorme, se si pensa che a Taranto, una delle aree più inquinate, in rapporto alla popolazione ne sono nati due volte di meno, uno ogni 331 abitanti. Cifre comunque approssimative perché da queste parti non c’è stato mai un monitoraggio costante delle malformazioni e un controllo capillare delle nascite nelle famiglie che vivono a Gela ma si appoggiano ad altri ospedali, come quelli di Catania, Caltanissetta, Taormina e anche Roma, per le gravidanze difficili. Il registro regionale raccoglie i dati per punti nascita e per provincia, ma non ricostruisce il percorso di arrivo e tutto si perde in statistiche con poco senso. «Il risultato è che da anni non si contano con esattezza i nati malformati in questa città. Ma quando li abbiamo contati, ed è accaduto soltanto una volta, i casi erano abnormi, troppo alti rispetto ad altre parti del Paese e dell’Europa», dice Sebastiano Bianca, genetista dell’ospedale Garibaldi di Catania incaricato nel 2012 dalla procura gelese di fare uno studio sulle malformazioni neonatali. Una ricerca che come le altre sull’inquinamento di questa città si è fermata all’ingresso dei cancelli dell’Eni: uno sbarramento che la procura di Gela non ha potuto mai oltrepassare, perché nei tanti processi, conclusi o in itinere, ancora non si è arrivati a dimostrare un nesso causale tra la grande raffineria che dagli anni Sessanta ha portato lavoro, fumi e mercurio, e i casi di tumori e malformazioni. Il professore Bianca nel 2015 consegnò una perizia, pubblicata allora in esclusiva dall’Espresso, che analizzava dodici casi di malformazioni e li legava l’inquinamento della raffineria. Si legge in quella perizia: «Il collegio della commissione tecnica… ritiene che la possibilità che la spina bifida di Kimberly Scudera (atleta paralimpica, ndr) sia stata favorita dalla presenza nell’ambiente di sostanze chimiche prodotte dal polo industriale sia del tutto concreta». Dopo questo scoop dell’Espresso su Gela è calato il silenzio. L’Eni si difende ribadendo che «nel giugno 2018 il Tribunale ha emesso una sentenza di merito con la quale ha escluso, anche solo ai fini civili, l’esistenza di un nesso di causa tra il presunto inquinamento di origine industriale e un caso di malformazione neonatale». A breve si concluderà invece un secondo processo civile che vede cento famiglie chiedere un risarcimento da 80 milioni all’Eni, tutte difese dall’avvocato Luigi Fontanella. Dal Palazzo di Giustizia fanno osservare che a differenza di Priolo, dove l’Eni con una sua controllata ha riconosciuto un ristoro da 11 milioni ad alcune famiglie con bambini malformati ma senza arrivare ad un processo, a Gela il cane a sei zampe ha risarcito soltanto un’azienda per inquinamento, la Lucauto, che ha incassato oltre un milione di euro: si tratta di una concessionaria di auto con sede accanto allo stabilimento, appena sequestrata perché appartenente ad imprenditori che per la Dda di Caltanissetta avrebbero riciclato i soldi del clan mafioso dei Rinzivillo. Alla mafia, insomma, qualcosa sarebbe arrivato per l’inquinamento della raffineria. Al di là delle cause, una cosa è certa: a Gela sono centinaia i casi di bambini nati con malformazioni. Secondo un primo studio condotto dal professore Bianca insieme a Fabrizio Bianchi, responsabile dell’unità di ricerca epidemiologica del Cnr di Pisa, tra il 2003 e il 2008 a Gela sono nati 222 bambini con malformazioni. Questo studio è stato aggiornato lo scorso anno esaminando i dati raccolti dal 2010 e il 2015, con altri 203 bambini nati con malformazioni congenite. A Gela «emergono eccessi statisticamente significativi per le anomalie dei genitali e per le anomalie urinarie e totali. Per le anomalie cardiovascolari e degli arti l’eccesso è significativo nel confronto con il dato italiano. La prevalenza di ipospadie (problemi agli organi genitali) è di 46,7 casi ogni 10.000 abitanti, in eccesso statisticamente significativo di 1,7 e 2,3 volte in confronto al dato medio europeo e italiano, rispettivamente». Questi gli unici numeri che hanno un timbro di scientificità, nonostante gli stessi studi sottolineino che «l’impossibilità di un recupero sistematico dei casi portatori di anomalia diagnosticata tra le interruzioni di gravidanza a seguito di diagnosi prenatale infausta ha obbligato a considerare solo le anomalie tra i nati. La conseguenza principale di questo limite è la sottorappresentazione delle malformazioni». Di Gela non parla più nessuno. Tranne qualche testimone, come il ginecologo Michele Curto, in servizio all’ospedale fino al 2015, che con le sue mani ha fatto nascere centinaia di bambini e tanti malformati: «Ricordo bene cosa accadde in particolare in alcuni anni, tra il 1993 e il 1998. Ci arrivavano decine di donne con gravidanze difficili, allora non c’erano molte strumentazioni per diagnosi complesse prenatali, e così tanti bambini nascevano con malformazioni molto gravi. Quello che mi ha sempre colpito è stata la vastità della tipologia di malformazioni, che non aveva riscontro in altre aree d’Italia. Quando sono andato in pensione ho cercato di ricostruire dei dati, ma non ho trovato più le cartelle cliniche e le nostre segnalazioni: alcune erano in un deposito e mi hanno detto che sono state rosicchiate dai topi». Le famiglie alle prese con bambini e ragazzi malformati non si contano. Alcune, vista l’assenza di qualsiasi forma di assistenza, sono scappate via. Come quella di Florinda Cammalleri, mamma di Sofia, nata nel 2003 con una malformazione agli occhi e diverse complicazioni: «Che futuro potevamo avere a Gela? Glielo dico io, nessuno», racconta mentre fa le valigie per tornare in Svizzera dopo essere stata nella sua città solo per rivedere qualche familiare. «Sofia è un’adolescente con problemi di integrazione sociale non per un suo rifiuto ma per un rifiuto della società. Io ho deciso di emigrare per darle un futuro. La patologia di mia figlia non ha un nome, oltre alla sua malformazione sono subentrati altri problemi come le crisi epilettiche. A me non interessa dei processi e dei soldi che potrebbero arrivare, io sono andata in Svizzera per continuare a lottare per lei». Per chi invece resta la vita è dura, durissima, come ripete ancora Giovanna Gastrucci: «Ogni mese dobbiamo andare a Roma per la terapia di mio figlio e tutto questo devo farlo con appena 520 euro di accompagnamento concessi dallo Stato. Mio marito durante i giorni dei controlli dorme in strada». Nel suo studio in via Benedetto Croce, nel groviglio di case a due passi dall’ospedale (a Gela un piano regolatore c’è, ma solo sulla carta) Antonio Rinciani, pediatra che sulle sue t-shirt si fa stampare i personaggi dei cartoni per far sorridere i bambini, ha uno sguardo malinconico: «In questa città non cambierà nulla, anche a causa di una classe politica che non ha voluto cambiare le cose. È la cosiddetta schiavitù del bisogno: il lavoro viene prima della salute». Il pediatra nei suoi quasi trent’anni di professione ha visitato centinaia di bambini con problemi e ha cercato di capirne di più, trovandosi però davanti fin da subito un muro di gomma: «Un feto a Gela può essere esposto a circa 200 sostanze chimiche e questo ha numerosi effetti sulle donne in gravidanza. A preoccupare non sono soltanto le malformazioni, ma anche la nascita di bambini con malattie neurodegenerative e i tassi riguardanti l’abortività, oltre ai dati elevati dell’infertilità maschile». Qui è calato il silenzio. La raffineria è chiusa e in riconversione, la speranza è che torni a dare lavoro, la certezza è che nessuno crede a un futuro migliore. L’ex sindaco Rosario Crocetta sul lungomare fece appendere una targa con una frase di Quasimodo: «Sulla sabbia di Gela colore della paglia mi stendevo fanciullo in riva al mare, antico di Grecia con molti sogni, nei pugni, stretti nel petto». La sabbia è tornata gialla, da quando il petrolchimico ha chiuso i battenti. I sogni, quelli, sono svaniti per sempre.

·        La Xylella.

Non voglio sembrare un complottista, ma ho notato che l’apparizione della Xylella e della sua prolificazione è avvenuta in concomitanza di questi elementi in un dato periodo storico:

Si minava il sostegno europeo di integrazione alle imprese olivicole meridionali;

Si promuoveva da parte dell’Europa l’importazione di olive ed olio nordafricano;

Si alimentava la piantagione nelle campagne di impianti fotovoltaici, finanziata con prelievi sulla bolletta Enel di tutti gli utenti italiani. Sistemi fotovoltaici importati da terre lontane. Pannelli divenuti probabilmente vettori dell’insetto batterio killer, “Cicalina Sputacchina – Philaenus spumarius”.

Si agevolava l’invasione del vettore in zone non attinti dalla malattia attraverso il trasporto in altri luoghi degli scarti di potatura, vietato bruciarli in loco da una legge infame, così come tradizione millenaria.

Non si estirpa il problema, nonostante si trovi sempre una profilassi ad ogni malattia, anche umana. Ci si limita, solo, alle semplici buone pratiche, già adottate anzitempo dal buon contadino.

Xylella, la carica dei sei cani che salvano gli olivi. Bepi Castellaneta per corriere.it il 7 dicembre 2021. Dai cani antidroga a quelli anti Xylella. In una terra dove il batterio venuto da lontano continua a fare strage di ulivi, il passo tutto sommato può diventare breve. E magari potrebbe rivelarsi una zampata vincente contro un flagello che da poco meno di un decennio sta mettendo in ginocchio una fetta consistente dell’agricoltura, assestando tra l’altro duri colpi all’orgoglio identitario di un intero territorio. Fatto sta che da ieri è operativa in Puglia la prima task force cinofila specializzata nell’azione di prevenzione e contrasto alla cosiddetta peste degli ulivi, un disastro rivelato dalla distesa di tronchi tagliati che punteggiano il Salento e raccontato da numeri che fanno paura: 21 milioni di alberi cancellati, un danno economico da oltre due miliardi di euro, ottomila chilometri quadrati di terreno colpiti dall’infezione, vale a dire il 40% di tutta la regione.

Segugi

Adesso, a distanza di otto anni dal primo caso accertato a Gallipoli, scende in campo una squadra speciale composta da due jack russel, un pastore belga malinois, un segugio, un labrador retriever, uno springer spaniel inglese. Li hanno chiamati Xylella detection dogs, vale a dire cani da rilevamento di Xylella. Si chiamano Onda, Ocra, Paco, Ellis, Lulù e Snoopy. Il più giovane ha poco più di due anni, il più grande dieci. Saranno schierati alle dogane e nei vivai, ma anche in porti e aeroporti. Perché sono loro l’avamposto di quella che inevitabilmente può essere soltanto una guerra preventiva visto che lo spauracchio rimane quello di un’invasione aliena di agenti infettivi in grado di mettere a rischio piante e compromettere coltivazioni. Come in effetti è stato in Puglia, dove l’epidemia si è sviluppata da una pianta di caffè proveniente dal Costa Rica. E non a caso il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, sottolinea come sia fondamentale «aumentare il controllo alle dogane» e vigilare «sull’ingresso delle merci nell’Unione europea».

Nella masseria

La nuova squadra speciale è stata presentata ieri nella masseria San Martino, a Fasano, provincia di Brindisi, terra di ulivi monumentali divenuta ormai l’ennesima zona a rischio. In questo fazzoletto di Puglia che abbraccia anche Ostuni e Cisternino e incanta ogni anno migliaia di turisti, meno di un mese fa è stato decretato l’abbattimento di 1.150 piante infette. Ma adesso proprio da qui riparte la lotta alla Xylella. La task force è il risultato di un progetto nato dalla collaborazione tra Ente nazionale della cinofilia italiana (Enci), Unaprol, Coldiretti, Cnr-Isp (Istituto per la protezione sostenibile delle piante). L’addestramento è iniziato a giugno. La prima fase si è svolta nel Salento, ed è stata testata la capacità di riconoscere la Xylella sia in piastre artificiali di coltura sia su piante di olivo malate. Il tutto seguendo un rigoroso protocollo internazionale, lo stesso usato per i cani specializzati nella ricerca delle mine. Nulla può essere lasciato al caso. E per ciascun grado di avanzamento è previsto il raggiungimento di un livello di accuratezza del 100 per cento. Risultato: i cani possono fiutare in tempo reale l’odore sprigionato dall’agente patogeno e si fermano dinanzi all’albero colpito da Xylella anche se la pianta si presenta senza sintomi, ma con la chioma verde e rigogliosa. Una squadra altamente specializzata per una nuova frontiera della battaglia per salvare gli olivi. Nella convinzione che per vincere ci voglia fiuto.

Xylella: la crisi dimenticata che vale il 10% dell'olio made in Italy. Stefano Carli su La Repubblica il 29 ottobre 2021. Allarme Unaprol: aiuti per 300 milioni di euro, ma ne sono stati spesi solo la metà. "È una crisi dimenticata: di Xylella non si parla quasi più": lancia l'allarme Nicola di Noia, direttore generale di Unaprol, l'associazione di 160 mila imprese della filiera olivicola. "Ho percorso di recente le strade del Salento e il panorama è terribile: sono chilometri e chilometri di un panorama dominato solo dall'immagine spettrale di olivi uccisi dal batterio killer.  Bisognerebbe continuare a incentivare la ricerca di nuove cultivar resistenti, promuovere gli innesti sugli ulivi secolari per provare a salvare, oltre all’economia, anche il paesaggio e quindi il turismo. Le risorse ci sono. Ne servirebbero di più per spenderle con azioni utili a rallentare l’avanzamento della malattia che potrebbe mettere a repentaglio l’intera olivicoltura nazionale”. I numeri aggiornati del dramma Xylella non lasciano margini all'interpretazione: 5-6 milioni di piante di olivo perse, pari a circa il 25% dei 21 milioni di ulivi coltivati in Salento; cinquemila posti di lavoro bruciati; decine e decine di frantoi in crisi, molti hanno chiuso, svendendo all'estero, tra Grecia, Marocco e Tunisia, i loro macchinari. E non può essere un'attenuante del dimenticatoio in cui è caduto il dramma Xylella il fatto che la crisi sia in sostanza circoscritta al Salento. Il "tacco dello Stivale", diviso tra le provincie di Brindisi, Lecce e Taranto, ha visto la sua produzione calare in media di circa 30 mila tonnellate di olivo d'oliva l'anno: un dato che permette di dire che il fenomeno Xylella, ha prodotto una contrazione di circa il 10% dell'intera produzione italiana, con un danno economico stimato sui 130 milioni di euro l'anno. Numeri importanti per una filiera che a livello nazionale, calcola l'Ismea vale 2,2 miliardi di euro solo nella fase agricola (più altri 3,2 miliardi in quella industriale), con 646 mila aziende,1,16 milioni di ettari coltivati e quasi 4.500 frantoi. "Bisognerebbe trattare la Xylella come un'emergenza da calamità naturale, come i terremoti", sintetizza il presidente di Unaprol David Granieri. Un'emergenza nazionale quindi, anche se l'epicentro è indubbiamente il Salento, dove i riflessi economici della crisi sono più evidenti. D'altra parte, la coltura dell'olivo copre il 60% della superficie agricola a Lecce, il 58% a Brindisi e il 27% a Taranto. Proprio per questo i limiti e le carenze riscontrate nei piani di intervento sono preoccupanti. Perché è vero che la risalita verso nord del batterio killer sembra stia rallentando, grazie agli interventi messi in atto dagli agricoltori, ossia creazione di zone di contenimento e moltiplicazione delle ispezioni, ma l'avanzata del contagio è tutt'altro che finita. Troppo tardi si è partiti con ispezioni sistematiche, denuncia Coldiretti Puglia, e troppo tardi si sono iniziate a utilizzare metodiche di indagini più avanzate e scientifiche, al posto del semplice esame visivo delle piante, che dopo l'infezione (e a quel punto non c'è più nella da fare) possono tuttavia rimanere asintomatiche a lungo, fino anche a un paio di anni. Per fortuna si sta intanto muovendo anche la tecnologia e sono scesi in campo algoritmi e tecniche di rilevazione basate sui satelliti che promettono un salto di qualità negli interventi che, assieme alle altre innovazioni legate all'agricoltura 4.0, possono far muovere l'intera filiera verso l'obiettivo di una agricoltura più competitiva e sostenibile. Salto di qualità che servirebbe anche alla burocrazia amministrativa. Come denunciato da Unaprol, sul piano di rigenerazione olivicola da 300 milioni di euro varato dal governo nel marzo dello scorso anno, la quota di spesa effettivamente impegnata supera di poco il 50%, ma ci sono 134 milioni ancora da spendere. In particolare, vanno a rilento i reimpianti, ossia l'asportazione degli alberi infettati e ormai morti (cosa che ha intanto anche fatto crollar e il prezzo del legno di ulivo per la quantità di "offerta" sul mercato) con i nuovi alberi. Per ora si tratta di due soli cultivar, il leccino e Fs17, un brevetto messo a punto dal Cnr e oggi prodotto solo da 3 vivai in Italia. Secondo l'Osservatorio Fitosanitario della Regione Puglia i reimpianti sono stati a oggi di 160 mila alberi di leccino su 1.220 ettari e 226 mila piante di Fs17 su 2.270 ettari. In particolare, è stato finanziato il 6% delle istanze di espianto e reimpianto, solo 521 domande e 23 progetti collettivi, per l'esiguità delle risorse pari a 40 milioni di euro a fronte di una richiesta complessiva per 216 milioni di euro. Stessa lentezza nella spesa relativa alla misura "Salva Frantoi": le risorse impegnate qui ammontano a sei milioni di euro, su una disponibilità complessiva di 35 milioni. Qui in particolare il nodo sono i requisiti di accesso che non consentono alle strutture dismesse, vendute all'estero, di poter ripartire.

Biovexo, presentato il progetto europeo contro la Xylella in Puglia. Gelormini su Affari Italiani Venerdì, 29 ottobre 2021. Una sperimentazione parallela tra Puglia e Spagna per testare una possibile soluzione per il controllo del batterio Xylella fastidiosa. Una sperimentazione parallela tra Puglia e Spagna per testare una possibile soluzione per il controllo del batterio Xylella fastidiosa, che continua a danneggiare gli uliveti pugliesi. Una delle aree in Europa maggiormente colpite, con un impatto sulla produzione di olive tra il 65 e l’80%, che ha portato a dover distruggere veri e propri tesori naturalistici, come gli olivi secolari di 400 anni. Un danno che inevitabilmente si è riflesso anche nell’economia locale – si stima che diverse migliaia di posti di lavori siano stati persi – così come in altri Paesi europei come Spagna, Portogallo e Francia.

Il progetto Biovexo

Da qui nasce il progetto Biovexo, al centro dell’incontro ‘BIOVEXO Xylella Forum: Status quo, aspettative e ricerca’ tenutosi giovedì 28 ottobre al Centro di Ricerca e Sperimentazione e Formazione in Agricoltura "Basile Caramia" di Locorotondo (Bari), con la partecipazione di esperti delle istituzioni scientifiche coinvolte, rappresentanti della Commissione Europea, dell’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare), enti pubblici regionali e olivicoltori locali. Il progetto, che ha ricevuto un finanziamento europeo nell’ambito del Bio Based Industries Joint Undertaking, è stato lanciato nel 2020, finalizzato alla verifica in campo dell’efficacia di 6 bioformulati a basso impatto ambientale per il controllo del batterio e del Philaenus spumarius, principale insetto vettore della Xylella. Il progetto vede un partenariato internazionale che coinvolge accademie e imprese da Austria, Belgio, Spagna e Italia, che è rappresentata dalla Sede di Bari dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del CNR e dal Centro di Ricerca e Sperimentazione e Formazione in Agricoltura "Basile Caramia" di Locorotondo. In Puglia la sperimentazione è partita il 1° maggio del 2020 nell’area del Salento: le prove curative sono in corso su piante infette da Xylella nelle campagne di Brindisi e Latiano, mentre le prove preventive – finalizzate a determinare se sia possibile prevenire l’infezione su impianti giovani di olivo - sono state allestite in campi sperimentali localizzati ad Avetrana e Brindisi. In totale sono circa 200 le piante interessate per ogni campo, e per le prove preventive sono state piantate tra marzo e aprile 2020. Prove di campo analoghe sono condotte a Maiorca, in Spagna, e, in previsione, sui mandorli nella Spagna continentale. I bioformulati sono stati selezionati in base a precedenti evidenze scientifiche che ne indicavano la potenziale efficacia nel contrastare le infezioni di Xylella in pianta e nel controllo delle popolazioni del vettore Philaenus spumarius. Per questi ultimi, si valuta l’efficacia di bioformulati ad azione insetticida sia sulle forme giovanili che su quelle adulte di Philaenus spumarius 

Le prossime fasi del progetto

Il progetto Biovexo prevede una fase preliminare per lo screening dei bioformulati sia nei confronti del batterio che del vettore, su scala più ridotta, ed una fase successiva per un periodo di validazione di tre anni con i prodotti che si saranno mostrati più efficaci, da testare su larga scala. In linea con le aspettative della strategia EU Farm to Fork e di riduzione dei formulati di sintesi in agricoltura, Biovexo valuta l’efficacia di formulati di origine biologica, della loro sostenibilità, prevedendo anche lo studio del “ciclo di vita” e dell’eventuale tossicità. Al contempo vengono condotti studi per definirne il meccanismo di azione e la loro formulazione più efficace. I bioformulati sperimentati non saranno una soluzione univoca per la lotta alla Xylella, ma andranno a integrare le azioni di contenimento dell’epidemia in regime di agricoltura biologica a supporto di misure di contenimento integrate. Potranno comunque trovare altri utilizzi anche in campo urbano. “È ad esempio auspicabile il loro impiego in aree residenziali – spiega Pasquale Saldarelli dell’IPSP - Istituto per la protezione sostenibile delle piante - per la gestione del verde pubblico e privato, delle bordure stradali e, in generale, in ogni applicazione in cui non sono ammessi gli impieghi di prodotti di sintesi o non praticabili gli interventi agronomici e meccanici”. I bioformulati utilizzati nel progetto Biovexo potrebbero poi essere impiegati nelle azioni per il controllo sostenibile delle infezioni e del vettore in nuovi impianti realizzati con cultivar di olivo resistenti (Leccino ed FS17) nelle aree infette. “La ripresa della coltivazione dell'olivo in Salento non potrà infatti prescindere dalla protezione degli impianti con il controllo dei vettori ormai a tutti gli effetti da considerare come primi Key Pest” conclude Saldarelli.

LA LOTTA CONTRO L’EPIDEMIA. Nella terra degli ulivi distrutti dalla Xylella, dove l’unione di antiscienza e politica fa ancora disastri. Il batterio che dal 2013 ha colpito 150mila ettari di uliveti tra Lecce, Brindisi e Taranto ha devastato il territorio. Ma continua la guerra tra gli scienziati e chi non vuole sradicare gli alberi (foto di Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni).  Marco Grieco su L'Espresso il 28 ottobre 2021. Lungo la strada statale SS7 che porta a Brindisi sembra di attraversare le stagioni in una manciata di chilometri, le chiome verdi degli ulivi che diventano ruggine e poi svaniscono, mentre il cielo plumbeo grava sugli alberi monchi e privi di vita. La causa di tutto questo ha un nome latino, come tutti i cataclismi che battezza la scienza: Xyella fastidiosa, un batterio che, per poter vivere, ha condannato a morte l’olivicoltura salentina. Secondo Confagricoltura, dal 2013 la Xylella ha colpito 150mila ettari di uliveti tra Lecce, Brindisi e Taranto, creando una voragine nell’occupazione: almeno 33mila posti di lavoro sono andati in fumo e 93 oleifici hanno chiuso i battenti in tre anni, con un danno complessivo che supera il miliardo e mezzo di euro. Le cifre implacabili lasciano il posto al silenzio nella piana messapica, dove la raccolta delle olive è per tradizione una liturgia familiare. Oggi bisogna risalire la statale Jonica alla volta di Taranto per annusare l’aria pregna della sansa della macinatura: «Avevo settecento piante di ulivi, poi le ho vendute», spiega Antonio De Michele, pastore di San Pietro Vernotico, contadino fino al 2015: «Adesso il terreno non dà più niente», ammette con quel misto di saggezza e disillusione che possiede chi sceglie le stagioni come maestre di vita. Fra gli agricoltori, di Xylella non si parla. “Idda” la chiamano, “lei”, come se un fonema schioccato nel palato fosse sufficiente a portare in vita gli ulivi disseccati, simile al suono della pizzica che esorcizzava le tarantate nel Dopoguerra. Eppure, i dubbi sono stati fugati nel 2013 nei laboratori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) dall’equipe del ricercatore Donato Boscia: «Xylella fastidiosa, sottospecie pauca, genotipo ST53, è una variante che fino a quel momento non era stata mai segnalata negli ulivi, anche se già nota negli agrumeti di San José, in Costa Rica». Il microscopico batterio è un filo sottile che collega il Salento alla Costa Rica, da cui nel 2013 l’Europa ha importato 40 milioni di piante ornamentali all’anno, di cui 3mila piante di caffè a scopo ornamentale: «È in queste che il genotipo è stato segnalato per la prima volta», spiega Boscia. Il resto lo hanno fatto le condizioni climatiche del golfo di Gallipoli, simili a quelle nella baia di Los Angeles, dove sul finire dell’Ottocento la Xylella decimò le viti: «Per di più, l’insetto vettore, noto col nome di sputacchina, è abbondante nel basso Salento, e questo spiega perché la fitopatia si sia rivelata così aggressiva». Il ricercatore chiarisce perché, nelle aree infette, l’unica misura prevista sia l’eradicazione: «Il batterio intacca i vasi delle piante che conducono la linfa grezza dalle radici alle foglie. Per questo, si osserva la cima secca, ma tutto l’albero è irrimediabilmente infetto». Ma le prove scientifiche non bastano in quella che l’antropologo Ernesto De Martino chiamò “la terra del rimorso”: dal 2013 alcune associazioni hanno ostacolato la rimozione degli ulivi malati, salendo sugli alberi e bloccando le strade ferrate. Persino il mensile della San Paolo, Jesus, nel 2019 lasciava spazio ai dubbi, parlando “land grabbing” ed eclissando il parere degli scienziati con le intuizioni dei missionari comboniani, di preti ecologisti e oppositori: «I contestatori hanno attaccato la voce della scienza, senza offrire dimostrazione a riprova di ciò che dicevano, e con una parte ampia della classe politica pronta ad assecondarli per paura. Il risultato? Uno scempio da portare sulla coscienza», spiega Fabiano Amati, consigliere regionale del Partito democratico e presidente della Commissione Bilancio, da sempre aspro critico del fronte negazionista. Così la Xyella è diventata arena di scontri politici. Ancora oggi, sui muri di Lecce si leggono le ingiurie scritte con lo spray a Giuseppe Silletti, il comandante regionale del corpo forestale pugliese che nel 2015 fu nominato Commissario delegato dal governo Renzi per fronteggiare l’epidemia: «Non ho mai detto di poterla fermare, ma ho fatto del mio meglio, per giunta a titolo gratuito», confessa. Silletti ha eseguito quanto prescritto dalla decisione di esecuzione Ue 2015/789, cioè l’eradicazione degli alberi infetti per rallentare l’epidemia il più possibile con la creazione di due zone: l’area di contenimento, cioè il fronte avanzato dell’epidemia, e l’area cuscinetto, con misure più blande per proteggere i campi adiacenti. Ma davanti ad ulivi secolari, sradicati con la ruspa, agricoltori e istituzioni locali hanno rifiutato la scienza, lamentando una distruzione identitaria. Sono tanti i contadini che ancora oggi sentono di dover lottare contro presunti poteri forti, inconsapevoli che, con la Xylella, per salvare un albero se ne condannano mille. Gianni Caretto, agricoltore brindisino, mostra il suo uliveto secco ed esclama perplesso: «Non mi spiego come sia possibile, me li hanno avvelenati». Seguendo la dorsale dei muretti a secco che rattoppano i piccoli e grandi appezzamenti, il paesaggio stretto tra Squinzano e Cellino San Marco è spettrale. Persino nelle Tenute di Al Bano Carrisi, gli ulivi che decorano le piazze del suo hotel-borgo cominciano a seccare. Al Bano rientra fra i 47 “esperti” riuniti dal governatore della Puglia, Michele Emiliano: un carosello di nomi che affianca personalità come Renzo Arbore e Lino Banfi a personaggi discussi, come l’agroecologo Gianluigi Cesari, sostenitore della controversa agricoltura biodinamica, e Alessandra Miccoli, cultore della materia in Geografia umana all’università Unisalento, un tempo schierata con i contestatori del Popolo degli ulivi. Emiliano ha, così, messo in piedi un gruppo parallelo al comitato tecnico-scientifico creato dall’assessore all’Agricoltura in quota Pd, Donato Pentassuglia: «Il presidente può anche avvalersi di collaboratori, ma ha votato con tutta la giunta il mio piano di azione. Sa che non farò un millimetro indietro rispetto al lavoro che stiamo facendo con il Comitato tecnico-scientifico», rassicura l’assessore. Come Pentassuglia, anche Amati non nasconde le sue perplessità: «Come si può pensare di mettere assieme gli scienziati nominati da Pentassuglia, cioè quelli ingiustamente indagati in un’indagine penale, e i loro contestatori scelti da Emiliano? È come pretendere di far convivere quelli che sostengono che a girare è il sole e quelli che è la terra». Nel Pd pugliese, le giravolte della politica sono interpretate come opportunismo. Nel 2015, il grillino Cristian Casili definì “follia” l’abbattimento degli ulivi secolari: oggi è vice presidente del Consiglio regionale della Puglia nella maggioranza di Emiliano. C’è chi siede a Palazzo Madama, come il senatore Lello Ciampolillo – passato dai 5 Stelle al Gruppo Misto -, che nel 2018 elesse un ulivo infetto a residenza parlamentare. Amati parla di psicopolitica: «In Puglia il Pd vive una soggezione psicologica nei confronti di Emiliano al punto che pure le obiezioni più ovvie risultano lesa maestà. I contestatori della Xylella hanno trovato una parte della classe dirigente pronta a sostenerli, perché nel complottismo s’individua il sostituto delle narrazioni politiche sconfitte dalla storia che li ha lasciati orfani». Silletti, candidato nel 2020 al Consiglio regionale per Fratelli d’Italia, ricorda i buoni rapporti con i democratici, eccetto Emiliano: «Avrebbe dovuto sostenermi in quanto nominato dal governo, invece parlava con i negazionisti. Quando nel 2015 convocai i sindaci delle zone colpite nel mio ufficio, lui si giustificava dicendo di non potermi fermare. Ne parlai con l’allora ministro Maurizio Martina: mi disse che Emiliano sbagliava nelle sue esternazioni». Nel 2015 la scienza fu confutata anche nelle aule di giustizia. Con un decreto, la Procura di Lecce dispose il sequestro degli alberi da eradicare, iscrivendo al registro degli indagati i ricercatori del Cnr e lo stesso Silletti. Emiliano, magistrato in aspettativa, salutò il provvedimento come una «liberazione». Per Silletti, al contrario, fu un fulmine a ciel sereno: «Ero stato nominato dal governo per combattere un’epidemia e ho dovuto combattere chi la negava. Oggi è tutto archiviato, ma non mi capacito che la Procura abbia dato ascolto a chi ci accusava ingiustamente». A distanza di otto anni, nelle campagne si continua a parlare di elicotteri carichi di veleni e di piani per la distruzione dell’agricoltura locale. Tocca ancora alla scienza smentire dichiarazioni come quelle del governatore che, rispondendo stizzito al direttore di National Geographic Italia, Marco Cattaneo, che lamentava la desertificazione del Tavoliere, ha dichiarato che la Xylella è sotto controllo, isolata nella provincia di Brindisi: «Oggi la fascia cuscinetto è ad Alberobello e Monopoli, in provincia di Bari», chiarisce, invece, Boscia. È la battaglia della scienza contro le narrazioni mitiche o politiche, che sono state in grado di fare del simbolo della pace per eccellenza il seme della discordia. 

Sviluppo ed ecologia: così il Tap preserva i simboli della Puglia. Andrea Muratore su Inside Over il 30 marzo 2021. Nei giorni in cui il gasdotto Tap, entrato definitivamente in servizio nel dicembre 2020, celebra il traguardo del primo miliardo di metri cubi di gas trasportati dal Mar Caspio all’Europa (tagliato il 19 marzo scorso), il consorzio che gestisce il Trans Adriatic Pipeline, intenzionato a rispettare la tabella di marcia anche sul fronte della sostenibilità ambientale, prosegue il suo impegno per garantire il rispetto e la tutela dell’ecosistema che ospita l’opera. Sviluppo e sostenibilità possono coesistere, e l’operato di Tap in questi mesi lo sta dimostrando. Il consorzio che ha realizzato il gasdotto parte del Southern Corridor che porta l’oro blu azero in Europa lavora in Puglia al fianco delle comunità locali, degli agricoltori e dei proprietari dei fondi interessati dal passaggio dell’infrastruttura. Con l’obiettivo di restituire alla normalità nel più breve tempo possibile il territorio interessato dal completamento dei lavori e di integrare al meglio l’opera nel tessuto ambientale e socioeconomico di riferimento. Un impegno che si riflette anche nella scelta, non solo simbolica, di costruire l’hub terminale del Tap a Melendugno, nella campagna salentina, in pietra di Lecce per armonizzare al meglio l’impianto con la campagna circostante. Incorporando al suo interno una “pajara”, la tradizionale costruzione salentina in pietra a secco che costella il territorio. La primavera inizia con una novità sostanziale che va oltre la costruzione del terminale a Melendugno: la Puglia vede il gasdotto pienamente operativo, in funzione per portare il gas del Mar Caspio sul territorio nazionale e oltre, integrato nel territorio della regione grazie al completamento del processo di piantumazione delle nuove piante di ulivo resistenti alla Xylella (930 in tutto) e di quelle sane (828) espiantate temporaneamente per consentire i lavori di costruzione e custodite nei canopy di Masseria del Capitano. Una fase di ripristino ambientale attentamente documentata da Tap, che ha prestato particolare attenzione al ritorno degli antichi ulivi monumentali nel loro territorio e ha contribuito anche a ristabilire il rimanente patrimonio paesaggistico della macchia mediterranea. Creando un dividendo non solo economico, ma anche ambientale: di fatto la procedura di espianto e successiva piantumazione degli alberi sani già esistenti li ha posti al riparo dal propagarsi della Xylella, mentre la sostituzione degli alberi malati con piante nuove meglio resistenti al batterio ha rafforzato ulteriormente il patrimonio della flora pugliese. Un processo i cui frutti andranno a beneficio delle comunità locali e dei proprietari dei terreni attraversati da Tap, che stanno venendo gradualmente restituiti loro per l’utilizzo nel quadro delle norme di sicurezza vigenti. “Al netto dei ripristini, sono state messe a dimora circa 12mila nuove piante autoctone, in un’area in cui la copertura forestale attuale è molto bassa e si aggira intorno all’1% del patrimonio provinciale”, ci ricorda La Gazzetta del Mezzogiorno. Ma non finisce qui: Tap ha provveduto ad avviare il riposizionamento di decine di muretti a secco tradizionali, tra i più noti simboli del paesaggio e dell’identità pugliese che caratterizzano la campagna salentina. Questi manufatti, tipici della Puglia e di altre regioni del Mediterraneo come la Sardegna, protetti fin dal 2018 dall’Unesco come patrimonio dell’umanità e considerati simbolo di “una relazione armoniosa tra l’uomo e la natura”, sono costruiti con la sovrapposizione di pietre unite senza l’utilizzo di leganti di alcun tipo. Dai muri divisori tra i vari fondi a quelli che circondano, nella regione, i trulli e costruzioni ad essi simili questi particolari manufatti rappresentano la testimonianza del primo tentativo delle civiltà umane di perimetrare, controllare, modificare l’ambiente circostante senza deturparlo, in armonia con esso. Tap è venuto incontro al valore storico e culturale di questi manufatti, che con la loro capacità di trattenere tra le pietre l’acqua piovana e l’umidità aiutano, inoltre, a far sviluppare nei loro dintorni una vegetazione più rigogliosa di quella ordinaria. “I circa 110 muri a secco che incrociano il tracciato del gasdotto”, ha spiegato l’azienda in un comunicato, “sono stati catalogati, numerati e documentati e successivamente smontati, divisi per sezioni costruttive (cappello, corpo e piede) e stoccati in pallet delle dimensioni di 1 metro cubo, per essere poi rimontati nelle medesime condizioni e nel rispetto dell’assetto architettonico e paesaggistico originario”: un’opera certosina che si è avvalsa del sostegno di team di archeologi e operai specializzati in queste operazioni di conservazione e restauro. Far coesistere progresso e tutela ambientale, modernità e tradizione, progetti dal valore strategico e geopolitico e difesa delle comunità locali è un processo complesso su cui Tap ha scelto di imbarcarsi, puntando a portarlo avanti fino in fondo. Il gasdotto si andrà a sommare, dunque, e non sostituirà i tradizionali volani dello sviluppo economico della Puglia senza condizionarne il paesaggio, senza impattare sul territorio e l’ecosistema. Sostenibilità significa far progredire tutela ambientale e progresso economico in un dialogo a tutto campo, incorporando nella governance dei processi aziendali le logiche di riduzione dell’impatto complessivo delle opere e delle attività umane. Tap porta energia all’Italia e dà linfa nuova all’ambiente pugliese. Contribuendo, dunque, a una forma integrale di sviluppo.

Amoroso: «Gli ulivi? Come figli. Ho visto gente piangere abbracciandoli». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 14 agosto 2021. «Costano anni di sacrifici, vederli malati è terribile. Da bambina il termometro saliva a 45 gradi: papà dormiva in balcone, ma non ci lamentavamo». La cantante salentina: «Quel che resta nel cuore sono le nostre tradizioni, da cui nessuno si vuole staccare». Nata a Galatina nel 1986, Alessandra Amoroso ha visto la sua carriera decollare dopo il successo al talent show Amici nel 2009. Questa intervista, pubblicata sul numero di 7 in edicola venerdì 13 agosto, è uno dei servizi dello speciale che il magazine del Corriere ha voluto dedicare all’estate dell’Italia: un grande viaggio, regione per regione, tra passato e presente. Artisti, sportivi, scrittori compongono un racconto di voci e immagini partendo dai luoghi delle loro radici o di adozione. Giorno per giorno troverete anche su Corriere.it altri articoli, interventi, racconti nel nostro Speciale.

Alessandra Amoroso si mette al volante per andare da Roma, dove vive, alla sua Puglia, ha un piccolo rito: «Quando vedo il cartello che segnala l’ingresso nella Regione suono due volte il clacson, sempre, anche se sono in macchina da sola». Un saluto a una terra che la cantante 34enne non solo ha evocato nella sua musica, a partire da Mambo salentino con i Boomdabash, ma che considera soprattutto sinonimo di famiglia e di casa: è il Salento il luogo dove torna a ricaricarsi alla fine di ogni tour e dove sogna di tornare a brindare anche dopo il traguardo enorme che la attende il 13 luglio 2022, seconda italiana in concerto allo stadio San Siro di Milano.

Le prime immagini che le vengono in mente pensando alla Puglia?

«Sono nata a Galatina, ma cresciuta a Lecce. Le mie estati si alternavano tra la barca di papà a Otranto e la campagna dei miei nonni materni dove accompagnavo nonna a lavorare nei campi. Quello con le mie nonnine è stato proprio un legame che andava oltre i luoghi: avevo la fortuna di averle vicine, una al primo piano e una al secondo, e quindi facevo avanti e indietro».

Si sente più legata al mare o alla campagna?

«Li avevo entrambi a pochi chilometri: il mare era quello della parte adriatica. Costringevo nonna a venirci con me e ricordo che lei non sapeva nuotare. Io già esperta mi tuffavo e le passavo sotto tra le gambe e se restavo immersa un po’ di più le facevo prendere un colpo».

Che sapore hanno quelle estati?

«Ripensavo di recente con mia madre a quando vedevamo il termometro segnare 45 gradi. In casa non avevamo il condizionatore, né le zanzariere, mio padre dormiva mezzo fuori in balcone. E manco ci lamentavamo».

E gli inverni?

«Lecce è bellissima anche d’inverno, anche senza i baretti sulla sabbia. C’è molta movida ed è una città che nel tempo si è arricchita. Ogni volta che ci vado la sento diversa. Se prima ci vivevo, adesso è una tappa di passaggio o fa parte delle mie vacanze. Perché quando mi chiedono dove vado in vacanza, io rispondo “a casa”».

Ci torna spesso?

«Sempre, anche più volte l’anno, anche solo per 24 ore, ecco perché rimango a Roma e non mi sposto magari a vivere a Milano. Sarebbe troppo lontano. Da Roma sono 13 anni che parto in macchina, anche da sola: potrei fare l’Irpinia con gli occhi chiusi. E quando vedo la scritta Puglia, faccio due mandate col clacson».

In quali tratti del suo carattere si sente pugliese?

«Si dice “Salentu. Lu sule lu mare lu ientu”, ed è proprio così. In me sento la forza del mare, l’energia del sole e tante volte la confusione del vento. Anche nel mio timbro di voce sabbiato dico che c’è dentro un po’ di scirocco. Ma poi i leccesi sono amichevoli e socievoli e io sono così: estroversa e compagnona».

Un suo posto segreto?

«C’è un mare vicino a Lecce dove andavo spesso anche d’inverno e dove torno ancora oggi, anche solo per pensare. È a San Cataldo: ti parcheggi proprio davanti al lungomare e ce l’hai lì. Quando hai una difficoltà o un problema è come se te lo curasse».

E un posto del cuore?

«Casa di nonna in campagna. Sono molto legata a quel posto anche se ora lei non c’è più. Mio nonno si prendeva cura degli alberi, raccoglievamo i pomodori, praticamente mangiavamo a chilometro zero».

Come ha visto cambiare la sua regione?

«Un tempo c’erano parecchie difficoltà, quartieri brutti, poco lavoro. Ma rispetto agli anni 90 le cose si sono evolute, sicuramente in meglio. L’apertura al turismo, il grande impegno delle persone hanno invogliato e incuriosito tanta gente. E una volta che vieni a Lecce, ad esempio, tra le sue luminarie e le sue chiese, non puoi non innamorarti. Sono molto orgogliosa quando le persone mi dicono che sono state in Puglia e si sono trovate bene. Sono sicura che poi ci tornano».

Qual è il segreto dell’accoglienza pugliese?

«Credo che quel che resta nel cuore siano le tradizioni, da cui nessuno si vuole staccare. Io vivo lontana, ma quel che mi hanno lasciato mamma o nonna c’è sempre: le domeniche in famiglia, la pizza tutti insieme…»

Qual era la domenica tipo?

«La domenica è pasta al sugo e polpette al sugo, una cosa che si tramanda di generazione in generazione. Se ne sentiva il profumo in tutto il vicinato e stavamo tutti appiccicati a nonna anche se viveva in una casa molto piccola. Amo la riunione famigliare e lo faccio ancora: io sono la nonna 2.0».

Quando sarà davvero nonna si immagina di nuovo in Puglia, magari proprietaria di una masseria?

«Ah no, la masseria la devi curare tanto, io non mi faccio aiutare da nessuno quindi mi vedo più in un appartamentino, magari sul mare. Ma sicuramente mi immagino di tornare giù».

Un difetto della sua terra?

«Non ne ha: per me è perfetta».

Qualche cicatrice allora, come la Xylella o l’Ilva.

«Gli ulivi sono come dei figli per le persone e un genitore non farebbe mai del male al proprio figlio. Vedere tutti quegli alberi secchi è terribile, ho visto gente piangere attaccata all’ulivo. Dietro ci sono anni di sacrifici, lavoro e soldi. Ma anche per l’Ilva: abbiamo visto cosa causa, c’è di mezzo la vita e c’è anche il lavoro della gente. Speriamo si riesca a venirne fuori».

Da Emma ai Boomdabash, voi artisti salentini sembrate molto uniti.

«Lo siamo. Abbiamo costruito dei rapporti che vanno oltre la musica in cui ci siamo sempre l’uno per l’altro. Non so se c’entri la nostra terra, ma sicuramente si creano subito alchimia ed energia».

Che ispirazioni le dà il Salento?

«È il luogo dove attingere tutte le energie e dove tornare a ricaricarmi».

E come immagina il suo prossimo ritorno?

«Appena arrivo vado al cimitero da nonna e poi voglio avere in casa tutta la mia famiglia». 

Terra bruciata. Gli incendi in Salento, alimentati dalla Xylella e da anni di populismo. Erika Antonelli su L'Inkiesta il 16 agosto 2021. Nella punta estrema della Puglia i roghi sono solo l’ultimo effetto della desertificazione che affligge il territorio, caratterizzato dalla monocoltura olivicola. Nessuno rimuove gli ulivi malati, le normative regionali non bastano ad arginare le fiamme e spesso sono gli stessi proprietari ad appiccare il fuoco ai loro alberi. Brucia l’Italia e brucia il suo tacco, ancor più il Salento, quel lembo di Puglia che quasi tocca l’Albania. Vicino alle pajare in pietra, una sorta di trulli più rustici, la terra brulla abbonda di ulivi rinsecchiti ai lati della litoranea. Prima di cercare il mare, gli occhi si posano sugli alberi ammalati di Xylella, il batterio arrivato nel 2014, e sui cumuli di spazzatura ai lati della strada. I rami sbilenchi trasformano le campagne in terra di nessuno e diventano torce in grado di propagare le fiamme, alimentate dalle temperature elevate e le raffiche di vento. La Xylella ha infettato 21 milioni di piante, il 40% del territorio regionale, lasciando agli abitanti il sapore amaro di essere rimasti soli ad affrontare una tragedia. «A quai arde tuttu», li senti dire, mentre i proprietari degli ulivi intatti benedicono a voce bassa la loro buona sorte. Ma troppi campi vanno in fumo e per questo Chiara Idrusa Scrimieri ha deciso di fondare il gruppo Facebook “Salviamo gli ulivi del Salento” e dar vita a una petizione su Change.org che finora ha raccolto 36 mila firme. «Chiediamo politiche rurali e agricole capaci di incentivare chi vuole tornare a coltivare la terra tutelando la biodiversità», commenta. La penisola salentina brucia da maggio, con 400 richieste di intervento registrate in un solo mese. I due incendi più grandi sono avvenuti nel comune di Otranto, a Porto Badisco e nella zona che circonda i laghi Alimini, località definite «paradiso dei turisti». Simbologia spicciola. Questi posti non sono dei visitatori saltuari, ma degli abitanti che ogni estate guardano la loro terra bruciare, spenta a fatica da vigili del fuoco cronicamente sotto organico. A Porto Badisco sono bruciati 45 ettari di macchia mediterranea, agli Alimini 30 di area boschiva. Una perdita per la Puglia, la regione che dispone del numero più basso di foreste su tutta la superficie nazionale (9,7 per cento). Secondo i dati diffusi da Coldiretti, nell’estate 2021 gli incendi sono triplicati. Calabria, Sicilia e Sardegna hanno pagato il prezzo più alto, vite ed ettari divorati dalle fiamme. Una situazione drammatica che ha indotto il premier Mario Draghi a parlare di «un piano straordinario di rimboschimento e messa in sicurezza del territorio», come scrive l’agenzia di stampa Agi. Certo il Salento non registra i numeri di queste regioni, ma in Italia detiene un triste primato di cui la Xylella e gli incendi sono solo l’ultima manifestazione. Dopo secoli di sfruttamento del suolo causati dalla monocoltura degli ulivi, spesso coltivati con metodi intensivi, la penisola salentina è a rischio desertificazione. Lo spiega Nico Catalano, agronomo e consulente del Dipartimento Agricoltura Sviluppo Rurale e Ambientale della regione. Una storia vecchia tramandata negli anni, quando la Puglia era “granaio d’Italia” al nord e produttrice di olio al sud. Gli agricoltori, lasciati soli, non se ne fanno nulla della terra sterile, quindi capita appicchino le fiamme per disperazione. Come denuncia Coldiretti: «Non è stata data ancora attuazione agli interventi finanziati che prevedono la rimozione degli ulivi secchi». E allora danno fuoco per disfarsi dei monconi di alberi, trasformare i fondi svalutati in distese di pannelli solari, riscattare il premio assicurativo. Altre volte, i roghi sono la vendetta di screzi tra vicini. La politica si muove a rilento, impantanata nelle visioni divergenti di associazioni ambientaliste, sindacati e società civile. Anche Coldiretti segnala il ritardo e in un comunicato si augura che «la portata epocale del problema stimoli l’impegno comune dei Ministeri alle Politiche Agricole, all’Ambiente e ai Beni Culturali, di concerto con la regione, per riparare i danni ambientali, paesaggistici e socioeconomici a carico del Salento e dell’intera Puglia». Nel panorama confuso, neppure le leggi regionali agiscono da deterrente. Per limitare il propagarsi di roghi incontrollati, un provvedimento del 2016 impedisce di bruciare le stoppie tra il primo giugno e il 30 settembre. Nei mesi restanti è possibile farlo in piccole quantità, con i mezzi appropriati e in caso di vento e calore non eccessivi. A luglio poi la Commissione Agricoltura ha approvato la proposta di legge per la pianificazione del “fuoco prescritto”, una tecnica di applicazione consapevole delle fiamme effettuata da personale esperto. Eppure, le colonne di fumo continuano ad alzarsi dalle campagne e continuano a prendere fuoco i monconi di ulivo. A pochi chilometri i turisti si godono il mare, occupando temporaneamente quei “paradisi” che l’incuria rischia di distruggere. Finirà agosto e andranno via i bagnanti, così come ritorneranno in Svizzera le famiglie di emigranti. E il Salento che brucia sarà di nuovo una questione privata, tra una terra disgraziata e gli abitanti che hanno scelto di non lasciarla.

E poi c’è il paradosso.

Operazione eseguita senza ricorrere agli specifici metodi e procedimenti di taglio prescritti dalla normativa di settore. La Voce di Manduria giovedì il 26 agosto 2021. I Finanzieri della Compagnia Monopoli hanno denunciato il proprietario di un terreno di circa un ettaro e i due addetti che hanno proceduto alla potatura degli alberi secolari senza la necessaria autorizzazione comunale e senza ricorrere agli specifici metodi e procedimenti di taglio prescritti dalla normativa di settore. L’attività è stata eseguita con il supporto dell’elicottero PH139-D della Sezione Aerea barese del Corpo, che ha effettuato il sorvolo dell’area acquisendo rilievi video-fotografici utili per l’approfondimento degli accertamenti. L’uliveto, sito nell’agro monopolitano, ricade nella cosiddetta “piana degli ulivi secolari”, che deve il proprio nome alle caratteristiche monumentali delle piante presenti, con tronco di diametro addirittura superiore al metro e cinquanta. Uliveti della specie, unitamente ai muretti a secco ed ai trulli, rappresentano il tratto distintivo del paesaggio pugliese e per questo sono tutelati da uno specifico quadro normativo, nazionale e regionale. In particolare, per i tre soggetti la denuncia alla Procura della Repubblica di Bari è scattata poiché, secondo l’ipotesi accusatoria, la potatura degli ulivi secolari è stata eseguita alterandone la caratteristica morfologia della chioma ed asportando più del 10% della superficie fotosintetica attiva. L’operazione delle Fiamme Gialle pugliesi è stata eseguita nell’ambito dei servizi di vigilanza e di polizia ambientale disposti in virtù del Protocollo d’Intesa stipulato con la Regione Puglia in materia, che trova il suo obiettivo primario nella salvaguardia del prezioso patrimonio paesaggistico locale, attraverso l’individuazione e la repressione, tra l’altro, degli interventi pregiudizievoli della conservazione di simili piante, in quanto eseguiti con modalità difformi da quelle prescritte e da personale non specializzato, privo delle necessarie competenze tecniche. (Nota stampa della Guardia di Finanza)

·        Il Risparmio energetico.

Massimo Sanvito per “Libero Quotidiano” il 29 marzo 2021. Sono spenti, o meglio lo sembrano, e infatti succhiano energia. A nostra insaputa. Sembra quasi che dormano, invece sono svegli eccome, anche quando non vengono usati. Vampiri silenziosi, gli invisibili che consumano corrente elettrica. Senza che nessuno se ne accorga o ci faccia caso, semplicemente perché la stragrande maggioranza della gente non sa che - per dire - un computer, un forno microonde oppure una caffettiera fanno lievitare le bollette anche se non sono in funzione (ma magari presentano quella piccole spia rossa accesa). Assurdo? Strano? Incredibile? Macché, è la dura e cruda realtà. In tutta Europa, secondo uno studio del progetto Selina (Standby and Off-Mode Energy Losses In New Appliances) supportato dalla European Commission's Agency for Competitiveness and Innovation, il consumo medio degli elettrodomestici spenti - che in realtà vanno in condizione di "stand by", cioè "in pausa" - è di circa 305 chilowattora per abitazione ogni anno: praticamente l'11 per cento dei consumi casalinghi di una famiglia. Tradotto: oltre un decimo dell'energia che consumiamo non solo potrebbe benissimo essere risparmiata, ma produce anche 19 milioni di anidride carbonica in tutti paesi dell'Unione Europea. Mica poco. Anche perché, se consideriamo che ogni chilowattora costa circa 0,24 centesimi, significa che ogni anno una famiglia potrebbe risparmiare più di 70 euro. E son soldi, come si dice. In cima alla classifica degli apparecchi elettronici che sprecano più energia elettrica ci sono ovviamente i computer fissi, che soprattutto negli uffici restano accesi tutto il giorno e si limitano al massimo ad andare per l'appunto in "stand by": lo schermo si annerisce ma i consumi scorrono. Giusto per rendere l'idea, nel 2008 i tecnici della rivista di settore "AF Digitale" avevano condotto uno studio su quindici computer di ultima generazione, scoprendo che la fase dormiente della scheda madre ci costa circa 1,4 euro all'anno per ogni watt sprecato. E considerando tutti i computer d'Italia, da Trento a Palermo, ecco che si arriva a un consumo complessivo di 30/40 megawatt, per un costo complessivo di quasi 60 milioni di euro annui (!). Poi, forse insospettabile, ecco la caffettiera elettrica, che arriva a consumare anche oltre un watt all'ora. Tra i primi posti di questa classifica dei "consumi fantasma" ci sono anche le console per videogiochi, che necessitano della stessa energia sia che sono accese o che sono spente (23,3 watt all'ora). E ancora: il decoder della tv, sia via satellite che via cavo, e il carica batterie dei cellulari, che se non vengono staccati del tutto dalle prese, consumano senza pietà e danneggiano gli stessi smartphone. Per non parlare dei forni a microonde, che in modalità "stand by" erodono tre watt all'ora e 25 se si lascia lo sportellino aperto; e dei telefoni cordless (2,9 watt all'ora), degli stereo un po' datati e dei videoregistratori (100 chilowattora all'anno). E le lavatrici, le lavastoviglie e le asciugatrici? In alcuni casi, lasciandole accese e con lo sportello aperto, la modalità di funzionamento alla fine del ciclo assorbe circa cinque watt di potenza in più rispetto a quando sono spente. Facendo un mero calcolo economico, per il semplice fatto che la spina sia attaccata alla presa la macchina del caffè da "spenta" - o presunta tale, come abbiamo visto - costa sette euro all'anno, il tostapane quattro, il forno 3,50, lo stereo dieci, il climatizzatore quattro, lo spazzolino elettrico 3,50, il computer dieci euro se al monitor aggiungiamo la connessione a internet tramite modem o router. Ma com'è possibile che un apparecchio spento possa consumare energia? La risposta è contenuta in due semplici parole: alimentatori e sensori. Gli uni trasformano la corrente elettrica da alternata a continua, gli altri sono in attesa di un segnale da telecomandi e display. E se le leggi europee prevedono un consumo massimo di un watt in modalità "stand by" - che, tanto per ribadirlo, significa "in pausa" - un elettrodomestico su tre norma, secondo il progetto Selina, non è a norma. Sia chiaro, ci sono sistemi su cui non è possibile derogare, come gli allarmi o quelli che per forza di cose devono rimanere connessi alla rete. Ma in tanti - troppi - casi lo spreco dello "stand by" potrebbe essere evitabile. In che modo? Innanzitutto prendendo coscienza dei numeri snocciolati all'inizio dell'articolo, e poi agendo concretamente di conseguenza. Staccando dalla presa della corrente gli aggeggi che non si usano, servendosi di multi prese con interruttore per raggruppare più dispositivi in modo da spegnere davvero tutto, comprando prodotti con uno stand by molto ridotto. E per i più professionali esistono anche i wattmetri, ovvero quegli strumenti in grado di misurare la potenza elettrica, per capire quali sono i dispositivi che consumano di più e che conviene quindi spegnere. Un capitolo a parte meritano gli apparecchi connessi alla rete internet. Spegnendoli quando non si sta navigando sul web o sfogliando chat e social, potrebbe portare a un risparmio complessivo di circa un miliardo di euro in tutta Europa e a 3 tonnellate e mezzo di anidride carbonica in meno. Il portafoglio vuole la sua parte, ma anche con l'ambiente non si può scherzare troppo.

·        Le fonti rinnovabili.

Il mistero del Barbastello. Report Rai PUNTATA DEL 04/12/2021 di Giuliano Marrucci collaborazione di Eleonora Zocca. Per rispettare gli accordi internazionali che prevedono la riduzione del 55% delle emissioni di Co2 entro il 2030 e il totale azzeramento entro il 2050, l'Italia dovrebbe costruire ogni anno nuovi impianti della potenza di 8000 MW. Ma siamo fermi a meno di un decimo. Il problema è che per le amministrazioni locali e per i diversi enti dello Stato la transizione ecologica non è una priorità, e ogni scusa è buona per ostacolare l'autorizzazione a un nuovo impianto. Anche la presenza del Barbastello, che è stato ritenuto un pipistrello raro. Anche se secondo i naturalisti non è raro, è solo timido. 

IL MISTERO DEL BARBASTELLO Di Giuliano Marrucci Collaborazione di Eleonora Zocca

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Provincia di Benevento. Grazie alle condizioni morfologiche e di vento favorevoli, qui negli anni si è sviluppata una tra le maggiori concentrazioni di pale dell’intera penisola. Ma la maggior parte delle pale sono state installate quando l’eolico non era ancora economicamente sostenibile, e ognuna ci costava una montagna di quattrini di finanziamenti pubblici. Ora che invece lo sviluppo tecnologico le ha rese più sostenibili è diventato molto più difficile ottenere le autorizzazioni. Soprattutto da quando la provincia la guida Antonio di Maria, che dell’opposizione all’eolico ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia

ANTONIO DI MARIA - PRESIDENTE PROVINCIA DI BENEVENTO SOSPESO DAL 26/11/2021 Io ho sempre sostenuto che l’eolico può essere una risorsa ma se inserito bene nel contesto paesaggistico. Noi abbiamo un piano di coordinamento provinciale che la provincia ha da diversi anni dove, recita, che sui crinali di interesse oggi non è compatibile con l’energia eolica

GIULIANO MARRUCCI L’eolico se non lo faccio sui crinali dove lo faccio

ANTONIO DI MARIA - PRESIDENTE PROVINCIA DI BENEVENTO SOSPESO DAL 26/11/2021 No, ma ci sono dei crinali che sono idonei

GIULIANO MARRUCCI Quindi ci sono dei progetti presentati su cui la provincia non ha espresso questa perplessità

ANTONIO DI MARIA - PRESIDENTE PROVINCIA DI BENEVENTO SOSPESO DAL 26/11/2021 No, abbiamo fatto le osservazioni ma sempre in questo modo

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il modo è questo: ad ogni richiesta di nuovo impianto la provincia risponde dicendo che queste aree hanno già subito un “assalto indiscriminato da parte degli impianti eolici”, e quindi invece di farne di nuovi bisognerebbe fare il revamping, cioè aggiornare con nuove tecnologie più performanti quelli vecchi

GIULIANO MARRUCCI Ridurre il numero di pale che è esattamente quello che avete chiesto di fare voi, no?

ALBERTO GATTA – RESP.TECNICO COSTRUZIONE IMPIANTI IVPC Infatti, infatti. Nel nostro progetto si prevede di dismettere 33 aerogeneratori esistenti, con la sostituzione di 6 nuovi aerogeneratori di nuova generazione, che chiaramente riducono l’impatto, con addirittura un aumento anche della potenza installata. Addirittura un aumento di più del 50%

GIULIANO MARRUCCI E la Provincia cosa vi ha risposto?

ALBERTO GATTA – RESP. TECNICO COSTRUZIONE IMPIANTI IVPC La provincia ritiene che non bisogna sovraccaricare il territorio con impianti eolici, quando è chiaro che noi non stiamo sovraccaricando ma addirittura stiamo riducendo

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Con le istallazioni delle pale di nuova generazione, più performanti, si eliminerebbero con un sol colpo quattro quinti degli impianti e si riuscirebbe ad aumentare la fornitura di energia pulita

ANTONIO DI MARIA - PRESIDENTE PROVINCIA DI BENEVENTO SOSPESO DAL 26/11/2021 La provincia di Benevento si deve dotare di un piano energetico provinciale dove si vanno a individuare le aree idonee e le aree non idonee

GIULIANO MARRUCCI Ok. e perché non lo avete fatto?

ANTONIO DI MARIA - PRESIDENTE PROVINCIA DI BENEVENTO SOSPESO DAL 26/11/2021 Noi stiamo lavorando

GIULIANO MARRUCCI Ma è a fine mandato ora

ANTONIO DI MARIA - PRESIDENTE PROVINCIA DI BENEVENTO SOSPESO DAL 26/11/2021 Io sono qui da ottobre 2018. Ho trovato una provincia ferma sull'edilizia scolastica, ferma sul ciclo di rifiuti, zero interventi sulla viabilità. Allora vi è anche una scala di priorità.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Pochi giorni dopo questa intervista Di Maria è finito agli arresti domiciliari insieme ad altre 7 persone, tutte con incarichi nelle amministrazioni del Beneventano, per accuse che vanno dalla corruzione aggravata, alla turbata libertà degli incanti. Chissà se anche questo incide su come si individuano le priorità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il problema è proprio quello. Buonasera, insomma per i nostri amministratori quella non è una priorità, ora è vero che noi ci troviamo di fronte probabilmente alla sfida più complessa della storia dell’umanità: la transizione ecologica. Per mantenere gli impegni sottoscritti anche a livello internazionale, abbattere le emissioni di co2 entro il 2050, il nostro Paese dovrebbe costruire ogni anno impianti da 8000 MW. A che cosa servirebbero questi impianti per produrre, ogni anno, 15000 Gigawatt/h di energia da fonti rinnovabili. Al momento ne stiamo producendo ogni anno meno di un decimo di quello che dovremmo. Questo perché? Perché per l’iter di approvazione di questi progetti ci si impiega spesso 5 anni e mezzo, bisogna ottenere il benestare di 55 enti, bisognerà rispondere anche fino a 350 integrazioni. Poi alla fine magari spunta il barbastello e salta tutto quanto. Eppure non mancano gli esempi positivi. Il nostro Giuliano Marrucci.

GIULIANO MARRUCCI Qui siamo nel comune di Affio, a due passi da Verona, e questi aerogeneratori sono stati messi addirittura in un’area di interesse comunitario. Sono i prati aridi del monte Mesa, un ecosistema estremamente delicato dove proliferano fiori rarissimi come questi, che sono minacciati dall’avanzare del bosco da un lato e dei vigneti dall’altro

RAFFAELLO BONI – RESPONSABILE LEGAMBIENTE BALDO-GARDA (VR) La nostra cura è stata nel cercare di inserire questi aerogeneratori mantenendo la biodiversità presente, ma non solo mantenendola, addirittura arricchendola. Su quella scarpata là, ad esempio, dopo 7 anni sono nate le prime orchidee spontanee. Certo, si può discutere sulla bellezza, ma anche ammesso che queste fossero bruttissime, e noi siamo bravi a inventare una fonte di energia rinnovabile meno impattante, bene: queste qua vengono smontate e il Monte Mesa torna ad essere quello che era in origine

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO A progettare questo impianto è stato lui: Marco Giusti. che negli ultimi 20 anni ha lavorato giorno e notte per convincere i suoi capi all’Agsm, la multiutility di Verona, a diventare una delle pochissime multiservizi italiane che investono direttamente nella creazione di nuovi impianti rinnovabili

GIULIANO MARRUCCI Con questo impianto qua sostanzialmente cosa dimostriamo?

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM VERONA Che si può fare un impianto con il consenso totale della cittadinanza

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma anche quando si fa tutto a regola d’arte, i tempi non tornano

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM VERONA Qui abbiamo avuto 2 anni di misure del vento, un anno di progettazione, 5 anni e mezzo di iter autorizzativo….

GIULIANO MARRUCCI Come 5 anni e mezzo

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM VERONA 5 anni e mezzo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Un paio di anni fa l’ingegner Giusti ha presentato il progetto per un impianto nel Mugello

GIULIANO MARRUCCI E sono questi due faldoni?

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM VERONA Sì, e questo è lo studio di impatto ambientale

GIULIANO MARRUCCI cioè, ma sono pieni questi?

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM VERONA son pieni eccome. 50 documenti ciascuno. Quando l’abbiamo presentato ci hanno detto: ma noi non abbiamo mai visto un progetto così in dettaglio. E dopo han detto: per esprimere un parere di compatibilità ambientale abbiamo bisogno di integrazioni. In tutto erano 350 integrazioni. Questo è il foglio in cui ogni riga rappresenta una delle richieste di integrazione che ci è stata fatta durante l’iter autorizzativo dai 58 enti. Ogni riga è una richiesta e a ogni riga corrisponde un documento di quelli che hai visto nel mio armadio di risposta

GIULIANO MARRUCCI (risata)

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM VERONA No, non c’è da ridere, è un lavoro serio. Poi il tutto può fermarsi, dopo tutto questo lavoro, se la sovrintendenza continuerà a esprimere parere negativo e ricorrerà in presidenza al Consiglio dei ministri, perché ha questa facoltà

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Gli stessi identici problemi riguardano anche gli impianti fotovoltaici. Comune di Tuscania, provincia di Viterbo. In questo terreno privato una delle società del gruppo Gis da quasi 4 anni sta cercando di costruire un impianto fotovoltaico di oltre 100 ettari

GIULIANO MARRUCCI E questo al momento in cui avete iniziato l’iter autorizzativo doveva essere il parco fotovoltaico più grande d’Italia

RAFFAELLO GIACCHETTI – PRESIDENTE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) Esatto, 150 megawatt

GIULIANO MARRUCCI Cosa vuol dire 150 megawatt?

RAFFAELLO GIACCHETTI – PRESIDENTE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) 50 mila famiglie, diciamo così

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO L’iter viene avviato ad aprile 2018 e a febbraio 2019, in tempo record, tutti i quasi 60 enti coinvolti hanno già dato parere positivo

GIULIANO MARRUCCI Quindi, a cose normali, questo impianto quando sarebbe potuto entrare in produzione?

RAFFAELLO GIACCHETTI – PRESIDENTE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) Agosto dello scorso anno

GIULIANO MARRUCCI Quindi se eravamo in un paese normale, avevamo un impianto che aveva completamente decarbonizzato un capoluogo di provincia italiano da più di un anno

RAFFAELLO GIACCHETTI – PRESIDENTE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) Da più di un anno. Esatto

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO A mettere il bastone tra le ruote è stata la soprintendenza, che ha il potere di bloccare tutto

GIULIANO MARRUCCI Che motivazioni ha addotto

RAFFAELLO GIACCHETTI – PRESIDENTE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) Il parere negativo riportava: l’impianto è troppo grande e non va bene. Il parere è negativo per dimensioni, tecnologia e materiale utilizzati. Le dimensioni era la grandezza dell’impianto, la tecnologia il fotovoltaico e il materiale utilizzato quelli che sono i materiali per il fotovoltaico. Dico: ma il progetto va bene, non va bene? No, no ma noi il progetto non l'abbiamo visto. Ho fatto: “scusate ma date parere negativo senza aver visto il progetto?”. “sì perché tanto è troppo grosso”

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Dopo aver espresso la sua contrarietà il Mibact formula la sua opposizione in consiglio dei ministri, e tra i punti sollevati dichiara che nella zona ci sarebbero i resti di una necropoli etrusca

GIULIANO MARRUCCI Nel supporre l’esistenza di questa necropoli etrusca si faceva riferimento a dei….

GIOVANNI SICARI - RAPPRESENTANTE LEGALE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) A dei documenti. Noi abbiamo fatto l’accesso agli atti, e questi documenti non esistono

GIULIANO MARRUCCI in che senso non esistono?

GIOVANNI SICARI – RAPPRESENTANTE LEGALE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) Erano citati in una pubblicazione non scientifica di una ventina di anni fa. La citazione di questo libro è stata ripresa dal parere MIBACT, senza andarli a vedere, perché quei documenti non esistono

GIULIANO MARRUCCI Cioè, ma è un falso?

GIOVANNI SICARI – RAPPRESENTANTE LEGALE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) Si chiama falso storico

GIULIANO MARRUCCI Cioè scusa, ma in un procedimento così complesso, che dura due anni, 60 enti, mette tutti insieme, questi fanno un’opposizione in base a un documento che non c’è?

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Altro punto: a ridosso dell’area ci sarebbe un casale del ‘500. Questo.

GIOVANNI SICARI – RAPPRESENTANTE LEGALE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) È un agriturismo. È una costruzione moderna, e non è assolutamente vincolato. Tra l’altro ristrutturata più volte – risulta tutto – senza particolari permessi proprio perché non è un bene vincolato

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Per valutare questi punti il consiglio dei ministri si prende oltre un anno di tempo. Alla fine del quale i proponenti decidono di fare ricorso per silenzio e inadempimento. Ma a pochi giorni della prima udienza il Consiglio dei ministri rimescola di nuovo le carte, accoglie l’opposizione del Mibact, e la trafila si riallunga

GIULIANO MARRUCCI E non era l’unico procedimento in corso

GIOVANNI SICARI – RAPPRESENTANTE LEGALE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) No, in quel momento ce n’erano due

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Per entrambi, contro la decisione del Consiglio dei Ministri, i proponenti ricorrono di nuovo al TAR. E vincono. Ma il governo rilancia di nuovo e decide di tentare anche la carta del ricorso al Consiglio di Stato, proprio mentre il ministro Cingolani a luglio apriva a Napoli il G20 sulla transizione ecologica, che però a questo punto dovrà aspettare almeno un altro anno per partire in realtà però a pochi chilometri di distanza un mega impianto fotovoltaico è stato autorizzato

GIULIANO MARRUCCI Quindi non è vero che non autorizzano mai

RAFFAELLO GIACCHETTI – PRESIDENTE GIS (GRUPPO IMPIANTI SOLARI) No, in questo caso questo impianto autorizzato il 26 marzo del 2020, eravamo appena entrati in lockdown, e quindi è sfuggito dall’opposizione. Sappiamo che poi c’è stata una proposta di opposizione da parte della soprintendenza che però non è stata accolta visto ormai il decorso dei termini

GIULIANO MARRUCCI Sostanzialmente quello che sostieni te è che in Italia ad oggi, per come siamo messi, in ogni punto dove ci sono le condizioni di vento sufficienti perché’ un impianto produca, lì ci va messo un aerogeneratore

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM non c'è dubbio. noi dobbiamo arrivare a emissioni di co2 zero nel più bel breve di tempo possibile. Questo vuol dire destinare qualche migliaio di chilometri quadro al fotovoltaico e destinare a impianti eolici tutti i crinali e tutti i siti che abbiano condizioni di vento sufficienti

GIULIANO MARRUCCI E invece ad esempio a te ne hanno respinti per cosa?

MARCO GIUSTI - DIRETTORE PROGETTAZIONE E RICERCA AGSM Perché i monitoraggi naturalistici che noi stessi abbiamo commissionato hanno riscontrato sul sito la presenza di un pipistrello che era ritenuto raro: il barbastello. Ho parlato ai nostri naturalisti e ho detto: ma è così raro il barbastello? Era così grave che ci fosse? Mi han risposto: “Ma no, il barbastello c’è in tutta Italia. Non è raro, è solo timido. Ma noi siamo stati bravi a vederlo”

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Secono l’IUCN il barbastello sarebbe in pericolo, però è preente praticamente in tutto il territorio, un bel rompicapo. Eccco allora che per bypassare i problemi a terra parte la corsa verso il mare, sono già state presentati una sessantina di progetti, ma anche qua la strada sembra in salita. Rimini, davanti a questo lungomare, la società ENERGIA WIND 2020 lavora da ormai quasi 15 anni al progetto di un parco eolico da 59 pale, in grado di produrre energia sufficiente per sostenere i consumi di circa 700 mila persone

MASSIMILIANO UGOLINI - LEGAMBIENTE EMILIA-ROMAGNA C’è stato un no fermo del sindaco di Rimini, ma anche quello di Cattolica, Riccione, e Misano. Soprattutto era legato, il no era legato al paesaggio. Il nostro è stato sempre un turismo di servizi, abbiamo motonave che portano a vedere le piattaforme o gli allevamenti di mitili

GIULIANO MARRUCCI quindi le piattaforme sì, le pale eoliche….

MASSIMILIANO UGOLINI – LEGAMBIENTE EMILIA-ROMAGNA le piattaforme adesso si perché ci abbiamo fatto l’abitudine

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Se gli impianti eolici continuano a sbattere contro le opposizioni, il rischio è che alla fine possano piazzare quelli più impattanti nei tratti di mare più incantevoli dell’intera penisola. Qui siamo nel comune di Castro, nel Salento. Lungo la costa ci sono le spettacolari grotte della Zinzulusa. E un meraviglioso borgo a 100 metri di altezza sul mare da dove si apre una vista mozzafiato. E dove Enea approdò per la prima volta in Italia. Un luogo dallo straordinario valore archeologico, paesaggistico e turistico. Tuttavia…

GIULIANO MARRUCCI Quindi tutto questo ben di dio che abbiamo visto, poi un bel giorno vi svegliate

ALBERTO CAPRARO - VICESINDACO DI CASTRO (LE) E troviamo una telefonata di una giornalista che ci informa di questa conferenza stampa da parte di queste aziende intenzionate ad installare un parco eolico marino galleggiante proprio al largo della nostra costa

GIULIANO MARRUCCI Qui davanti

ALBERTO CAPRARO - VICESINDACO DI CASTRO (LE) Qui davanti, esattamente, nel luogo dell’approdo del mitico Enea, dove abbiamo questi scavi archeologici, un centro storico conosciuto in tutto il mondo

GIULIANO MARRUCCI e in cosa consiste questo progetto?

ALBERTO CAPRARO - VICESINDACO DI CASTRO (LE) Consiste di 100 pale eoliche dell'altezza di 230 metri poste ad una distanza dai 9 chilometri e mezzo ai 24 dalla costa. Una pala di 250 metri, 230 metri, vuol dire il doppio di quel promontorio lì che è posto a una distanza di circa 8 chilometri

GIULIANO MARRUCCI cioè, quel monte che vediamo noi lì

ALBERTO CAPRARO - VICESINDACO DI CASTRO (LE) è alto 110, 120 metri

GIULIANO MARRUCCI quindi la pala sarebbe il doppio di quella roba lì

ALBERTO CAPRARO - VICESINDACO DI CASTRO (LE) almeno il doppio. Quindi insomma una, 100 pale avrebbe un impatto devastante

GIULIANO MARRUCCI Quindi diciamo questo qua è sembrato un po’ troppo anche a voi

RUGGERO RONZULLI - PRESIDENTE LEGAMBIENTE PUGLIA Sì, questo inoltre danneggia tutto il settore delle rinnovabili e dell’eolico offshore perché agire in questo modo non fa altro che creare una cattiva immagine nei confronti di questi progetti

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il progetto delle pale eoliche a Castro consiste sostanzialmente nel piazzare 100 pale su dei galleggianti che sono ancorati sul fondo del mare a 10 km dalla costa. Complessivamente 30 volte più grande del più grande parco eolico marino al mondo, quello di Kincardine, in Scozia, dove però sono solo 5 pale. Ecco forse bisognerà pensarci bene prima di piazzarne 100 davanti a un sito archeologico di tutta importanza, lì, è in quella baia che enea sbarcò per la prima volta in Italia, e poi c’è una grotta meravigliosa. Insomma, quello paesaggistico e culturale è l’asset principale di un intero territorio. Il problema qual è, che non c’è un piano governativo per piazzare i campi eolici, decidono le aziende. Poi c’è un disegno di legge che è stato appena approvato, che ha abbassato i livelli di veto della sovraintendenza e anche del ministero dei Beni Culturali. Però il potere di interdizione rimane in quelle zone dove c’è un vincolo. Certo c’è un grande interesse, c’è un grande fermento se è vero che sul tavolo del ministero della Transizione Ecologica si è passato in poco tempo da 0 a 64 manifestazioni d’interesse. Il piatto è ricco, tanto è vero che la società che aveva progettato il parco eolico a Castro, la Falck Renewables, ha annunciato di essere stata acquistata da JP Morgan…

L'energia pulita? Arriva dal traffico: ecco come. Alessandro Ferro il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Un progetto turco promette una rivoluzione nelle nostre città: una turbina eolica posizionata sulle arterie stradali sarà in grado di produrre energia pulita con il vento provocato dalle auto, ecco come. Un progetto nato in Turchia promette di cambiare per sempre la "visione" del traffico urbano che per la prima volta si potrà sfruttare in modo energetico e sostenibile. Più auto circoleranno nelle nostre città, maggiore sarà l'apporto che queste daranno all'ambiente. Sembra un paradosso ma non è così.

Così il traffico produrrà energia

Enlil è un progetto di turbina eolica "intelligente" ad asse verticale che trasforma le strade in fonti di energia rinnovabile utilizzando le dinamiche della città. Fornisce anche comfort e sicurezza grazie ai sensori integrati e a una piattaforma intelligente. Posizionando la turbina eolica ibrida ad asse verticale (incluso un pannello solare sopra di essa) su strade, autostrade, "linee di metropolitana" e altre linee di trasporto (nonché su palazzi con molti piani), Enlil genererà energia pulita utilizzando i venti creati dai veicoli in transito così come accade per le pale eoliche con i venti naturali. Misurerà anche la temperatura, l'umidità, il vento e la CO2 della città utilizzando i sensori integrati e la piattaforma IOT.

Come funziona

Inoltre, i pannelli solari situati sulla parte superiore della turbina forniscono elettricità extra da catturare. Generando approssimativamente 1 kW/h, ogni singola turbina di Enlil potrà facilmente soddisfare il fabbisogno medio giornaliero di elettricità di due famiglie. Le misurazioni effettuate saranno utilizzate sulla mappa dell'impronta di carbonio per fornire il comfort della città e contribuiranno anche alla sicurezza delle città fornendo informazioni su possibili terremoti grazie alla presenza di una stazione di monitoraggio. Inoltre, un'app mobile fornirà informazioni e dati sull'energia prodotta e le misurazioni effettuate da Enlil a chiunque ne abbia bisogno.

Il plauso va dato ai ricercatori dell'Università Tecnica di Istanbul che hanno lavorato con un team dell'azienda tecnologica Devecitech per creare il meccanismo. Il vento prodotto dalle auto di passaggio potrebbe non sembrare così potente ma le lame lunghe e verticali di Enlil sono così sofisticate da essere in grado di produrre, come detto, un kilowatt di energia all'ora. Il "padre" della turbina è l'imprenditore Kerem Deveci, che ha iniziato a lavorare al progetto molti anni fa mentre si stava per laureare in Ingegneria.

Il riconoscimento internazionale

Su 1500 idee di 45 Paesi, Enlil è riuscita a vincere il premio per le transizioni urbane al Global Grand Final. "Per Devecitech è un grande onore ricevere un tale premio per Enlil, siamo più motivati ​​a rendere Enlil un prodotto ancora migliore e il mondo un posto più verde", affermano i suoi ricercatori. Le turbine eoliche standard moderne e ben progettate hanno un'aspettativa media di vita di 20 anni ma Enlil potrebbe anche superare questa durata grazie a nuovi materiali e semplicità: ogni turbina ha un design semplice che lo rende facile da montare e da riparare in caso di guasto. Insomma, la visione del quotidiano traffico cittadino potrebbe essere presto trasformata e vista con occhi diversi.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Eolico offshore, dalla Romagna alla Sicilia: dove saranno realizzati i 40 progetti italiani. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2021. Da qui al 2030 l’Italia dovrà installare 900 megawatt di eolico offshore in mare, secondo le previsioni del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec). Ad oggi però non c’è ancora nessun impianto in funzione, a fronte di circa 40 progetti per i quali sono state presentate altrettante richieste di connessione a Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale. I ritardi in parte sono dovuti complesso iter autorizzativo. Se venissero realizzati tutti questi progetti, la Penisola arriverebbe a 17mila megawatt (17 Gw) di eolico offshore installati, una potenza quasi 19 volte superiore a quella prevista dal Pniec. Gran parte dei progetti sono concentrati su Puglia, Sicilia e Sardegna che sono «le aree più preoccupanti in quanto tipicamente carenti di infrastrutture», ha sottolineato Corrado Gadaleta di Terna in occasione del convegno «Eolico off-shore per la transizione ecologica di Civitavecchia: sfide e opportunità». Dei 17 GW complessivi, 5,2 GW sono progettati in aree con fondale fino a 100 metri, 5,3 GW tra 100 e 300 metri e 6,5 GW oltre i 300 MW. Gadaleta ha spiegato che con un fondale oltre i 100-150 metri ci sono «tematiche tecnologiche da approfondire». Il nodo principale è la «combinazione tra profondità, potenze rilevanti e distanze dalla costa rilevanti» che creano «forti criticità» in particolare per le connessioni in corrente continua e i cavi dinamici. Anche il ministero della Transizione ha fatto sapere di aver ricevuto i 40 progetti di impianti eolici offshore flottanti, da realizzare prevalentemente al largo della Sicilia e della Sardegna, lungo la costa Adriatica e, per la restante parte, distribuiti tra Ionio e Tirreno. Le manifestazioni di interesse inviate al Mite sono 64, di cui 55 da parte di imprese e associazioni di imprese, 3 da parte di associazioni di tutela ambientale (WWF, Legambiente e Greenpeace) e 7 da altri soggetti (ANEV, Elettricità futura, CNA, CGIL, Università Politecnico di Torino, OWEMES - associazione di ricercatori, CIRSAM - Consorzio Internazionale per lo sviluppo e ricerca Adriatico e Mediterraneo). 

Il parco eolico di Taranto

L’unico progetto che è già in fase di realizzazione è quello del parco eolico di Taranto, che dovrebbe entrare in funzione nel 2022. La fornitura delle turbine eoliche è stata affidata alla ditta Ming Yang Smart energy che fornirà 10 pezzi con un contratto lungo 25 anni. Quattro pale saranno collocate dietro il Molo Polisettoriale e le restanti sei vicino le dighe foranee. I pali sono prodotti dall’azienda spagnola Haizea. L’impianto avrà una potenza complessiva di circa 30 MW e sarà in grado di produrre di 55.600 MWh/anno, pari al fabbisogno energetico di 18.500 famiglie. Si tratta di un investimento di circa 80 milioni di euro di fondi privati che fa capo all’azienda Renexia, la società del Gruppo Toto attiva nel settore delle energie rinnovabili. Il gestore è la società Beleolico srl, con la quale la Capitaneria di Porto di Taranto ha stipulato una concessione trentennale nel 2019.

I parchi eolici di Falk Renewables

Lungo la costa adriatica pugliese si contano altri 12 progetti. Due fanno capo alla multinazionale Falck Renewables. Il primo, che interessa le acque al largo di Brindisi, si chiama Kailia Energia. Sarà un parco eolico marino galleggiante con una capacità installata pari a circa 1,2 GW, per una produzione annuale attesa di 3,5 TWh, equivalente al consumo di circa 1 milione di utenze domestiche italiane, che consentirebbe di abbattere 2 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica in atmosfera all’anno. Il secondo progetto si chiama Odra Energia, la capacità massima installata prevista è pari a circa 1,3 GW. Mentre la produzione annuale stimata è pari a circa 4 TWh, equivalente al consumo di oltre un milione di utenze domestiche. Anche in questo caso si tratta di un parco galleggiante che dovrebbe essere realizzato al largo della costa meridionale della provincia di Lecce. «Questa tecnologia - sottolinea Falck Renewables in una nota - consente il posizionamento delle pale in acque più profonde, come quelle del Mar Mediterraneo, nonché la realizzazione degli impianti senza l’impiego di fondazioni fisse e più al largo rispetto ai parchi eolici marini tradizionali. Questa caratteristica, oltre a minimizzare gli impatti sull’ambiente marino e terrestre durante tutte le fasi del progetto, permette di intercettare la risorsa eolica laddove è più abbondante, aumentando l’efficienza degli impianti».

I progetti in Sicilia

Altri progetti dovrebbero riguardare lo Ionio e il Canale di Sicilia, dove sono state avanzate 8 richieste di connessione per altrettanti progetti. Uno è Med Wind che prevede la costruzione di un parco eolico composto da 190 turbine galleggianti a circa 60 km dalla costa. La potenza installata sarà di 2 GW e la produzione annua stimata di 9TWh. Nelle scorse settimane Renexia ha completato la prima fase di rilevamenti nel tratto di mare dove sorgerà l’impianto.

Un altro progetto dovrebbe sorgere nell’area settentrionale del Canale di Sicilia, a circa 37 chilometri a sud-ovest di Marsala. Anche in questo caso si tratta di un impianto galleggiante composto da 25 turbine eoliche da 10 megawatt l’una. Il progetto è sviluppato dalla società danese Copenhagen Offshore Partners.

L’hub a largo di Ravenna

In Sardegna, secondo la mappa di Terna, sono state presentate richieste per 8 parchi eolici fra la costa cagliaritana e quella iglesiente e per altri 4 a largo del tratto di costa a Nord-Est dell’isola. Altre richieste riguardano i tratti di mare a largo della Toscana e della Romagna, dove Agnes (acronimo di Adriatic Green Network of Energy Resources) di recente ha presentato domanda per le aree demaniali marittime e gli specchi d’acqua a largo di Ravenna dove sorgerà un hub - promosso con QINT’X e Saipem - di eolico e fotovoltaico galleggiante per produrre energia elettrica e idrogeno verde.

Il caso di Civitavecchia

Un’ipotesi su cui si sta ancora ragionando è quella di realizzare un parco eolico offshore nel Lazio, all’altezza di Civitavecchia. Lo studio di fattibilità è stato presentato durante il convegno in cui Terna ha fatto il punto sui progetti di eolico offshore in attesa di realizzazione in Italia. Lo studio su Civitavecchia prevede l’installazione iniziale di 270 MW, con 27 pale eoliche alte circa 250 metri posizionate a circa 20-30 km dalla costa laziale in uno spazio marittimo di circa 25 kmq.

Ecco il ruolo chiave dell'idroelettrico: cosa cambia. Andrea Muratore il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. La materia che copre oltre due terzi della superficie terrestre può giocare un ruolo per la transizione energetica: l'acqua e l'idroelettrico possono essere protagonisti. La materia che copre oltre due terzi della superficie terrestre può giocare un ruolo per la transizione energetica: l'acqua e l'idroelettrico possono essere protagonisti. Esiste una forte interdipendenza tra acqua ed energia e, al tempo stesso, entrambe sono fonti primarie per le persone. Vi è in questo contesto da tenere in considerazione il fatto che di fronte all'attuale strutturazione di strategie volte a contrastare i cambiamenti climatici il loro legame è ancor più fondamentale: un’alleanza necessaria per portare a termine la transizione energetica in modo sostenibile ed equo e per tutelare le risorse idriche del pianeta passa per una valorizzazione sistemica del settore idroelettrico. Nel giugno scorso, presentando il suo Hydropower Special Market Report l'Iea, l'Agenzia internazionale per l'Energia, ha definito l'idroelettrico il "gigante dimenticato" nella corsa alla transizione. L'Iea sottolinea, in particolar modo, tre vantaggi potenziali dell'idroelettrico. In primo luogo, esso unisce la possibilità di ottenere energia a basso impatto ambientale con una capacità di gestione flessibile delle fonti e dell'alimentazione delle reti capace di fungere da retroterra per la promozione di altre fonti rinnovabili. In particolar modo, in attesa che le nuove reti ad alta tecnologia, i nuovi impianti fotovoltaici e i parchi eolici giungano a piena maturazione in termini di accesso al mercato e si sviluppino le tecnologie di distribuzione e di stoccaggio adeguate l'idroelettrico può garantire un'alimentazione continua a basso impatto. In secondo luogo, di conseguenza, è chiaro il ruolo dell'idroelettrico come fonte flessibile e elastica. Risultando ad oggi l'unica fonte capace di garantire al contempo controllo, flessibilità e capacità di accumulo in forma continuativa, l'idroelettrico è a un grado notevole di sviluppo. È noto", sottolinea Mondo Fluido, che "gli impianti idroelettrici a pompaggio agiscono come una batteria verde che può ricaricarsi quando l’offerta di energia supera la domanda, e viceversa scaricarsi quando la richiesta aumenta. L’idroelettrico è quindi il complemento ideale non solo alle energie rinnovabili ad alta potenza e ad alta volatilità come l'eolico e il solare, ma anche ai metodi di stoccaggio a breve termine come le batterie. Risultano infatti molto veloci nella regolazione e quindi perfetti per bilanciare picchi improvvisi di consumo o di produzione". Vantaggio confermato dall'Iea nel suo report, in cui ricorda che molte centrali idroelettriche possono aumentare e diminuire la produzione di elettricità molto rapidamente rispetto ad altre centrali come nucleare, carbone e gas naturale. In terzo luogo, i grandi progetti idroelettrici possono portare con sé una svolta economico-produttiva legata al loro ruolo di abilitatori di ampie e complesse strategie industriali e tecnologiche capaci di agire in favore dello sviluppo economico, specie nei Paesi a basso o medio reddito. "Circa la metà del potenziale economicamente sostenibile dell’energia idroelettrica a livello mondiale non è sfruttato", nota Rinnovabili.it. "E questo potenziale è particolarmente alto nelle economie emergenti e in quelle in via di sviluppo, dove raggiunge quasi il 60%": dall'Etiopia al Perù, diverse nazioni hanno messo in campo progetti di ampio respiro, spesso non privi di controversie geopolitiche, per aumentare il loro accesso all'idroelettrico. Anche per l'Italia possono aprirsi opportunità in questo settore. Nel nostro Paese l'idroelettrico è strategico per il mix energetico: esso rappresenta la prima fonte rinnovabile in Italia, producendo il 41% dell'energia complessiva rinnovabile necessaria al Paese in quasi 4.300 impianti che ogni anno producono 46 TWh. Uno studio di Althesys realizzato nel 2018 sottolineava che diverse erano, in quest'ottica, le prospettive di rafforzamento, dato solo il 42% della capacità realizzata prima del 1960 è stata ammodernata, con potenzialmente ancora 6,7 GW sui cui poter intervenire per dare ulteriore sponda al sistema. La stragrande maggioranza degli impianti, e della potenza installata, si trova lungo le Alpi, dal Piemonte al Trentino. Poco meno di un quarto della potenza nazionale è data dalla produzione di due sole province, Brescia e Sondrio, con l'11,9% della quota ciascuna. La più grande centrale idroelettrica d'Italia si trova in Piemonte, in provincia di Cuneo, nel comune di Entracque, con due dighe, quella del Chiotas e quella delle Piastre, collegate da un complesso sistema sotterraneo di tubature, legate a una centrale scavata interamente nella roccia. Tali capacità vanno assolutamente valorizzate: la digitalizzazione può contribuire a rendere gli impianti pure più flessibili e longevi, aumentando inoltre il rapporto tra energia prodotta e misura dell'invaso per risparmiare acqua e ridurre la dispersione. Inoltre, gli stessi impianti possono essere auto-alimentanti, ad esempio sfruttando eventuali picchi di offerta rispetto alla domanda nel corso di una giornata per poter pompare l'acqua in superficie per la produzione in giorni successivi. Inoltre, si può creare un mercato ulteriore in termini di tecnologie innovative, sistemi di rete e monitoraggio, applicazioni dell'energia idroelettrica e valorizzare ecosistemi produttivi energetici molto spesso consolidati da decenni e che, portati nel XXI secolo, possono contribuire a giocare la partita chiave della transizione energetica. Da cui sarebbe ingenuo escludere la risorsa più diffusa sulla Terra.

Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

·        Il Corpo elettrico.

Da "agi.it" il 14 marzo 2021. Realizzare un dispositivo indossabile a basso costo in grado di utilizzare e immagazzinare l’energia del corpo umano. Questo l’obiettivo perseguito da una ricerca, pubblicata sulla rivista Science Advances, condotta dagli scienziati dell’Università del Colorado a Boulder, che hanno sviluppato uno strumento indossabile, abbastanza elastico da essere utilizzato come anello, bracciale o qualunque accessorio a contatto con la pelle. “Il nostro dispositivo attinge al calore naturale di una persona – afferma Jianliang Xiao, docente presso il Dipartimento di ingegneria meccanica presso l’Università del Colorado a Boulder – utilizza generatori termoelettrici per convertire la temperatura interna del corpo in elettricità. L’obiettivo è quello di riuscire ad alimentare l’elettronica indossabile senza dover includere una batteria”. Il team ha realizzato un dispositivo in grado di generare circa un Volt di energia per ogni centimetro quadrato di spazio sulla pelle, inferiore rispetto al voltaggio fornito dalla maggior parte delle batterie, ma sufficiente ad alimentare dispositivi elettronici semplici come orologi o fitness tracker. Lo stesso gruppo di ricerca sta lavorando sulla realizzazione di una particolare pelle elettronica economica, flessibile, ecologica e funzionale. “Il nostro strumento può autoripararsi ed è completamente riciclabile, per cui rappresenta una valida alternativa pulita all’elettronica tradizionale – aggiunge il ricercatore – la base è costituita da un materiale elastico noto come poliammina, nella quale vengono inseriti chip termoelettrici. Il risultato sembra un incrocio tra un braccialetto di plastica e una scheda madre per computer in miniatura o forse un anello di diamanti tecnologico”. Il docente spiega che questo design rende il sistema estensibile senza introdurre troppe sollecitazioni al materiale termoelettrico, che può essere estremamente fragile. “I generatori termoelettrici sono a stretto contatto con il corpo umano e possono utilizzare il calore che normalmente verrebbe dissipato nell'ambiente – continua lo scienziato – la potenza generata può essere raggiunta semplicemente aggiungendo blocchi di generatori. In pratica si combinano le unità più piccole per ottenerne una più grande, proprio come avviene con i Lego. Questo rende il dispositivo molto personalizzabile”. Il team ha calcolato, ad esempio, che una camminata veloce potrebbe generare circa cinque volt di elettricità, più di quanto possano offrire molte batterie per orologi. “Stiamo cercando di rendere i nostri dispositivi il più economici e affidabili possibile – conclude Xiao – ci sono ancora alcuni dettagli da risolvere per quanto riguarda il design, ma nel giro di cinque o dieci anni, speriamo di poter portare sul mercato queste innovazioni”.

·        Il costo della transizione ecologica.

La geopolitica delle terre rare nell’era della transizione energetica. Andrea Muratore su Inside Over il 15 dicembre 2021. La transizione energetica sarà un’importante partita di matrice tecnologica, industriale e anche geopolitica. Questo fatto va tenuto in grande considerazione quando si parla delle dinamiche a tutto campo che la caratterizzeranno e delle risorse in prima linea per abilitarla.

L’IEA (Agenzia internazionale dell’energia) e la Banca mondiale in particolare puntano fortemente sul ruolo che potranno giocare i Rare Earth Elements (REE), le cosiddette “terre rare” decisive per la costruzione di un’economia “verde” per il loro ruolo decisivo nella catena del valore dell’eolico, del fotovoltaico, dell’auto elettrica, delle reti digitali di ultima generazione.

Sotto il profilo scientifico, le cosiddette Terre rare sono per la precisione diciassette elementi della tavola periodica, quindici dei quali della famiglia dei lantanidi (Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio) a cui si aggiungono il littrio e lo scandio. Essi hanno particolari proprietà per cui esercitano un magnetismo resistente anche alle alte temperature, consentendo, a seconda delle varie applicazioni, di ottimizzare diversi processi industriali e produttivi e di accelerare la produzione di diversi materiali critici e strategici. Il controllo della produzione e della distribuzione delle terre rare sta diventando una sfida sempre più importante nell’era della transizione digitale ed energetica.

La distribuzione delle terre rare

Come ogni risorsa strategica, anche le terre rare hanno un valore intrinsecamente legato alla loro distribuzione sul territorio del pianeta, alle catene del valore che le incorporano, ai processi tecnologici per la loro estrazione e lavorazione. Esse non sono risorse “rare” in termini di distribuzione geologica: lo sono, piuttosto, le proprietà chimico-fisiche che le rendono, senza dubbio, essenziali per quasi ogni aspetto tecnologico nell’era digitale. Si stima che le riserve mondiali assommino a ben oltre 100 milioni di tonnellate, per quanto profondamente diseguali a seconda delle risorse: il cerio è presente sulla crosta terrestre con la stessa abbondanza del rame, mentre il tulio, che è il più raro, è comunque più abbondante del cadmio.

Per la precisione questi elementi sono diffusi in natura in un centinaio di minerali, sotto forma di ossidi, carbonati, silicati, fosfati, associati ad altri elementi quali ferro e alluminio, il che rende decisiva, prima ancora dell’individuazione di nuovi giacimenti, la disponibilità di tecnologie estrattive volte a procacciarsi le terre rare a bassi costi. Questo appare in grado di spiegare la profonda sproporzione tra la distribuzione delle risorse e le dinamiche del mercato. Sul fronte dei giacimenti, come scritto su Pandora, “secondo le ultime stime dell’US Geological Survey le riserve mondiali ammontano a 120 milioni di tonnellate, concentrate prevalentemente in Cina (33,3%), Vietnam (18,3%), Brasile (18,3%), Russia (10%), India (5,75%), Australia (2,75%), Stati Uniti (1,16%) e Groenlandia (1,2%)”. Tuttavia, sul secondo fronte la Cina da sola controlla oltre l’80% dell’estrazione in atto risorse provate di terre rare, con picchi di stime che portano questa quota addirittura oltre il 90%. E questo basta da sé a spiegare la valenza strategica di materie prime decisive per le nuove filiere industriali.

Terre rare e tecnologie per la transizione

Pechino si trova per questi motivi in cima alla classifica dei Paesi che si possono preparare a sviluppare politiche industriali volte a accelerare la transizione green: la Cina guida la classifica mondiale dei brevetti sulle rinnovabili, della produzione di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, è al vertice della classifica anche per la loro installazione sul territorio e per generazione elettrica da rinnovabili, è la prima costruttrice al mondo di veicoli elettrici e sta spingendo molto sia sulla costruzione di un ecosistema tecnologico attivo basato sul 5G sia su piani industriali di prospettiva come Made in China 2025. Ma la rivoluzione delle terre rare per la transizione green sarà ancora più pervasiva.

Complessivamente, almeno duecento sono i prodotti industriali decisivi per la transizione che contengono terre rare nella loro composizione, e molti di essi sono quelli a più alta intensità tecnologica. Si pensi solo al settore della distribuzione elettrica, sottoposto da tempo a cambiamenti disruptive sulla scia della diffusione sempre maggiore delle reti “intelligenti” (smart grid) e delle tecnologie legate al governo in tempo reale del flusso generazione-immagazzinamento-distribuzione in campo energetico legato alla generazione da fonti rinnovabili. Inoltre, come ha ricordato Aspenia, è importante sottolineare che “nuove risorse si connetteranno alla rete” con sempre maggior frequenza, tra cui “accumulatori e veicoli elettrici” in un contesto in cui “l’intera catena del valore” del settore “sarà modificata per decenni”.

Le nuove reti intelligenti, i nuovi centri di produzione e distribuzione, gli elementi collaterali alla rete elettrica (centrali di ricarica, sensori abilitanti le nuove interazioni IoT etc.), assieme agli elementi dell’infrastruttura digitale che accelereranno gli scambi di dati (reti 5G) e la loro analisi (data center) comporteranno un cambio radicale di paradigma sul fronte produttivo. Di conseguenza, la domanda globale di questi elementi, di conseguenza crescerà a dismisura nei prossimi decenni: lo studio “Minerals for Climate Action: The Mineral Intensity of the Clean Energy Transition”, pubblicato dalla Banca Mondiale, lo sembra confermare.

Questo imporrà una serie di investimenti notevoli, come ha ricordato l’ad di CESI Matteo Codazzi sempre su Aspenia. Per Codazzi il processo di “modernizzazione delle reti incorporerà un’accurata e strutturata serie di processi volti a identificare gli investimenti chiave e sviluppare la necessaria infrastruttura tecnologica in una maniera veloce e strutturata”. Gli investimenti dovranno essere quantitativamente ingenti, ha spiegato il manager della multinazionale italiana specializzata in consulenza per il settore energetico, dato che la “Commissione Europea stima una necessità di investimento media di 50 miliardi di euro l’anno”, il doppio della media dell’ultimo decennio, mentre negli Usa “su 14 miliardi di dollari di fabbisogno solo 2 sono stati stanziati nel 2018”.

La distribuzione elettrica appare un fattore abilitante per l’intera filiera della transizione. In ambito industriale, infatti, anche i settori ad alta intensità di emissione, i cosiddeti “hard to abate”, baseranno nel quadro di una crescente sostenibilità i loro consumi su idrogeno verde prodotto tramite elettrolizzatori alimentati da energia elettrica di stampo rinnovabile, in un contesto di crescente digitalizzazione.

Aziende come CESI sono in prima linea per governare appieno questa transizione energetica, industriale e geopolitica che avrà nelle terre rare un driver e un abilitatore di primaria importanza e porterà a sviluppare nuove tecnologie e nuovi settori nel campo decisivo della transizione. Le aziende e le utilities dovranno saper giocare al meglio, assieme ai governi, questa partita, curando sia il fronte dell’approvvigionamento delle terre rare sia l’apertura di nuovi investimenti in prodotti strategici, filiere produttive e tecnologie in grado di entrare nel mercato in piena maturità e senza shock sistemici. Una partita complessa che segnala la rilevanza dei processi che guideranno negli anni a venire la transizione.

Francesco Giubilei per “il Giornale” l'11 dicembre 2021. Il rischio che la transizione verde si trasformasse in un aumento di tasse per i cittadini era prevedibile ma la realtà ha superato le aspettative e ci troviamo di fronte a una vera e propria stangata che colpirà gli italiani nei prossimi mesi e anni. Il numero di tasse ambientali è talmente cospicuo - e spesso mascherato che diventa difficile realizzare una mappatura completa anche perché la tassazione si sviluppa a più livelli (locale, nazionale, europeo), proviamo però a definire le principali. 

Tasse sulle automobili 

Il settore delle automobili è uno dei più attenzionati dalla transizione ecologica. L'Ue incentiva il passaggio ad auto elettriche o ibride al punto che entro il 2035 i produttori dovranno abbattere del 100% le emissioni dei veicoli venduti. E proprio ieri al Comitato interministeriale per la Transizione ecologica, i ministri della Transizione ecologica Roberto Cingolani, delle Infrastrutture Enrico Giovannini e dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti hanno «definito le tempistiche di sostituzione dei veicoli con motore a combustione interna, decidendo, in linea con la maggior parte dei paesi avanzati, che il phase co. out delle automobili nuove con motore a combustione interna dovrà avvenire entro il 2035».  

Tasse sulla casa 

Se approvata, la direttiva della Commissione europea per subordinare la possibilità di vendere o affittare un immobile alla classe energetica di appartenenza, si rivelerà un salasso costringendo i proprietari di case a spendere migliaia e migliaia di euro per l'adeguamento energetico

Tasse sul vino e sul cibo 

Uno dei settori più a rischio a causa della svolta green europea è quello alimentare con gravi conseguenze per il made in Italy. È notizia recente la risoluzione comunitaria che equipara il vino alle sigarette azzerando i finanziamenti e imponendo avvertimenti sanitari nelle bottiglie. Sorte analoga tocca alla carne finita nel mirino dell'Ue che ha sovvenzionato le aziende impegnate nella produzione di «carne» in laboratorio da cellule in vitro. Al tempo stesso prende sempre più piede l'ipotesi di una «meat tax» (tassa sulla carne) per colpire non solo gli allevatori ma anche i consumatori. Posticipata invece al 2023 la «sugar tax» già introdotta con la legge di Bilancio del 2020. 

Tasse sull'energia 

Il caro bollette e l'aumento del costo dell'energia è una delle principali problematiche degli ultimi mesi ed è dovuto anche al contrasto a fonti di energia come le centrali a carbone poiché giudicate troppo inquinanti. Per cercare di limitare l'aumento delle bollette, il governo italiano ha stanziato vari miliardi di euro, si tratta però di ulteriori soldi pubblici che in qualche modo gli italiani dovranno pagare. C'è poi il tema dei permessi di produzione della CO2 e del mercato europeo Ets; le aziende che producono anidride carbonica devono comprare quote di emissioni influendo così i prezzi all'ingrosso e quelli finali.  

Plastic tax 

Per ora è stata rinviata al 2023 ma è solo questione di tempo prima che entri in vigore con un'imposta da 45 centesimi al kg sui prodotti di plastica monouso provocando un consistente aumento dei prezzi. Aumento Iva Il Consiglio Economia e Finanza dell'Ue (Ecofin) ha aggiornato l'elenco di beni e servizi che possono beneficiare delle aliquote Iva ridotte e, nonostante l'abbassamento in alcuni ambiti, entro il 2030 gli Stati non potranno più applicare aliquote ridotte ai servizi ritenuti dannosi per l'ambiente e per gli obiettivi Ue per il clima. Tra i settori colpiti c'è anche quello dei fertilizzanti e dei pesticidi chimici (con una deroga al primo gennaio 2032) che colpirà duramente l'agricoltura e i piccoli agricoltori. Siamo di fronte a un delirio fiscale che interessa ogni ambito della società senza lasciare scampo a cittadini e imprese, basandosi su un approccio ideologico che concepisce la tasse come unica ricetta e soluzione per risolvere i problemi ambientali. Così concepita la transizione ecologica sembra un ulteriore modo per mettere le mani nelle tasche dei cittadini, un pericolo che dobbiamo evitare ad ogni costo.

Pierluigi Bonora per “il Giornale” l'11 dicembre 2021. Fine corsa dei motori endotermici, quelli tradizionali a benzina e Diesel, entro il 2035 e stessa sorte per le alimentazioni analoghe per i furgoni, ma 5 anni più tardi. L'Italia si allinea alla proposta della Commissione Ue, di punto in bianco, senza averne discusso nell'immediato con i diretti interessati, la filiera automotive. Questi ultimi, spiazzati e sorpresi, dopo le tante rassicurazioni arrivate dal governo, restano in attesa di ulteriori precisazioni. Tra l'altro le associazioni di categoria Anfia (filiera italiana automotive), Unrae (costruttori esteri) e Federauto (concessionari) siedono al Tavolo Automotive da poco varato all'interno del Mise e creato proprio per affrontare nel modo migliore il tema della transizione energetica alla luce dell'accelerazione impressa dalla Commissione Ue (il piano «Fit for 55» che, si fatto, è una sentanza di condanna a morte dei motori tradizionali fissata al 2035). Un'azione come quella avviata dal Cite, a questo punto, potrebbe rendere inutili iniziative come quella del Tavolo, e dare il via, al contrario, a un scontro tra le parti. Nella nota diffusa, il Cite parla di «neutralità tecnologica» e di «valorizzazione, non solo dei veicoli elettrici, ma anche delle potenzialità dell'idrogeno, riconoscendo anche il ruolo imprescindibile dei biocarburanti, in cui l'Italia sta costruendo una filiera domestica all'avanguardia». Peccato che proprio sui biocarburanti ci sia la ferma opposizione delle potenti lobby green che puntano solo sull'elettrico, mentre per quanto concerne l'idrogeno, la tecnologia e i veicoli esistono già (inclusi i camion) e sono sulle strade, peccato che le infrastrutture sono quasi inesistenti. Quella del progettare green è ovviamente un fine nobile, ma l'errore sta tutto nell'avere tanta fretta e guardare a tecnologie (l'elettrico) già ben presenti sul mercato, ma oggetto di listini bonus-dipendenti, lacune nella diffusione delle infrastrutture e delle reali automomie delle batterie. Il settore automotive, dal canto suo, è tuttora alle prese con una miriade di problemi (pandemia, chip, disorientamento dei consumatori, colonnine lente e ancora poche, parco da rinnovare, zero incentivi) che alla fine dell'anno porteranno il conteggio delle vendite sotto quota 1,5 milioni di unità. Michele Crisci, presidente di Unrae (l'associazione della Case estere che operano in Italia), afferma che «come al solito si pongono degli obiettivi senza però spiegare come ci si arriverà». Proprio nei giorni scorsi le stesse associazioni avevano messo per l'ennesima volta in guardia le istituzioni dal fatto che un'accelerazione forzata verso il tutto elettrico, in assenza di una programmazione, a esempio, sulle riconversioni produttive e la formazione, metterebbe a rischio 70mila posti nelle concessionarie (allarme lanciato da Federauto), 60mila nel mondo industriale e indotto (dato Fim-Cisl) e, a livello europeo, oltre 500mila occupati nella componentistica (Anfia). «È il suicidio dell'industria europea dei motori Diesel», il recente commento di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria. Carlos Tavares, ad di Stellantis, ha quindi parlato di «costi insostenibili per il settore» e che «a rischiare di più è la forza lavoro, come paventato più volte dai sindacati europei». È lo stesso Tavares che alla sfida su elettrico e software ha deliberato per Stellantis investimenti, da qui al 2025, pari a 30 miliardi di euro. 

La bestia statale e i seguaci di Greta. Riguardo alla follia europea che vorrebbe limitare la proprietà privata e la libera disponibilità degli immobili in funzione del loro consumo energetico, ci si dimentica che i burocrati e i politici sono al servizio dei cittadini e non il contrario. Nicola Porro su Il Giornale 11/12/2021. Riguardo alla follia europea che vorrebbe limitare la proprietà privata e la libera disponibilità degli immobili in funzione del loro consumo energetico, ci si dimentica che i burocrati e i politici sono al servizio dei cittadini e non il contrario. Questo ribaltamento dei ruoli sta diventando urticante: le leggi, gli apparati, i funzionari pubblici, nascono in quanto voluti dai cittadini. Sempre di più nelle società moderne, sembra invece che i cittadini siano al servizio dello Stato che più o meno li tollera e troppo spesso dice loro come comportarsi. La sublimazione di questo inganno è la spesa pubblica. Una mitologica figura del welfare state, che sembra completamente sconnessa da chi la alimenta: le tasse e il lavoro dei cittadini-contribuenti. Purtroppo, e questa è cronaca di tutti i giorni, stiamo lentamente e inesorabilmente cedendo pezzi delle nostre libertà a chi ci governa. C'è sempre un'emergenza con la quale dobbiamo fare i conti, e in virtù di essa la struttura pubblica si attribuisce poteri e diritti che le sarebbero preclusi. Il cambiamento climatico è un'emergenza, ma anche una religione. Nessuno lo nega. Posto che esso c'è sempre stato. Ma i suoi sacerdoti e le loro liturgie del terrore armano le peggiori intenzioni.

Cosa volete che sia togliere la proprietà di un immobile, se abbiamo la certezza che essa verrà presto inondata, terremotata dal cambiamento degli elementi che viene dato per imminente e certo?

Tutti coloro che oggi, giustamente, si scandalizzano per l'assurda direttiva europea anti proprietà, non sono forse gli stessi che tacciono compiaciuti per la morte annunciata del motore a scoppio deciso dagli stessi burocrati? In fondo a Bruxelles non fanno che mettere in pratica il vangelo di Greta e appare piuttosto ridicolo oggi lamentarsi mentre ieri si è applaudito al fanatismo della ex adolescente. I commissari europei traducono in legge il verbo del profeta.

Solo quando il climatismo arriva a toccare ciò che di più sacro abbiamo, la casa, finalmente ci accorgiamo di quanto esso sia fanatico. A rendere ancora più ridicola la storia è ovviamente la miopia eurocratica, la stessa che aveva previsto di non celebrare il Natale con il suo nome e la stessa che dovrà stabilire come si debbano spendere i 220 miliardi del Pnrr.

Lottare contro la direttiva europea che vorrebbe espropriare i nostri diritti sulla casa, vuol dire lottare per rimettere a cuccia la Bestia statale. Smettiamola però di alimentarla.

Gabriele Rosana per "il Messaggero" il 15 dicembre 2021. Si allenta la stretta sui consumi energetici in Europa. Oggi la Commissione presenterà la direttiva sulla performance energetica degli edifici allo scopo di allineare anche l'edilizia agli obiettivi del Green Deal ma, secondo le indiscrezioni della vigilia, nella versione finale gli interventi più urgenti sono limitati al 15% degli immobili più problematici, che ogni Stato dovrà individuare, mentre - pur prevedendosi la progressiva salita di livello per gli standard più bassi - non ci sarà il divieto alla vendita e all'affitto degli immobili in caso di mancato miglioramento del rendimento. Era una delle proposte più divisive contenute nel testo anticipato la settimana scorsa dal Messaggero, tanto da aver suscitato una forte opposizione non solo da parte di alcuni governi - in particolare dell'Europa meridionale e orientale - e di vari europarlamentari preoccupati dagli effetti della misura su famiglie e imprese, ma pure all'interno della stessa Commissione, dove il comitato interno per il controllo normativo avrebbe messo il veto a un'ipotesi che finiva per creare eccessivi obblighi e violare le prerogative dei Paesi membri, andando al di là delle competenze attribuite all'Ue. Sventato il condizionamento fra lavori di efficientamento energetico e messa sul mercato della casa (opzione nucleare che rimarrebbe tuttavia nelle mani degli Stati), le diplomazie sono state comunque al lavoro fino a poche ore prima del via libera per limare i punti più controversi del testo. Sussidiarietà e proporzionalità sono state le parole d'ordine che hanno accompagnato le battute finali per la messa a punto della proposta di direttiva, che dopo la presentazione passerà adesso all'esame di Parlamento europeo e Consiglio. Più margine di manovra, quindi, per i governi: potranno ridisegnare in discreta autonomia le dieci classi di risparmio energetico esistenti (A4, A3, A2, A1, B, C, D, E, F, G), pur sulla base di una metodologia comune individuata dalla Commissione. Per cominciare, si apprende a Bruxelles, dovranno tutti identificare il 15% del loro parco edifici meno performante da un punto di vista dei consumi, da classificare in una nuova categoria G, la maglia nera fra le classi energetiche: questo lotto (ma vi sono esclusi i palazzi storici) andrà riqualificato subito, entro il 2027 per i beni pubblici ed entro il 2030 per gli immobili privati. Per farlo, gli Stati potranno anche approfittare delle ingenti misure di sostegno pubblico, dal Recovery Plan al Fondo sociale europeo, disponibili per l'imponente ondata di ristrutturazioni che si renderà necessaria, come ha ricordato ieri pure il commissario al Lavoro e agli Affari sociali Nicolas Schmit, presentando un altro pacchetto di misure sulla transizione ecologica nei trasporti. Per le costruzioni già esistenti si prevederanno a livello Ue dei requisiti minimi per fare il salto di scalino, in maniera graduale ma serrata, e ottenere così il passaggio, ad esempio, dalla classe F alla classe E entro il 2033. A fronte di un 75% di edifici inefficienti dal punto di vista energetico, l'obiettivo dell'esecutivo von der Leyen è di arrivare al 2050 a un parco immobiliare a emissioni zero attraverso interventi su almeno 35 milioni di edifici e per una riduzione del 60% della Co2, come pure dei consumi energetici legati al riscaldamento. Oggi l'esecutivo Ue svelerà anche la sua strategia per aumentare la produzione di biogas e per ridurre le emissioni di metano, così come interventi sul mercato del gas. In particolare, Bruxelles fornirà maggiori dettagli sulla duplice proposta in materia di sicurezza energetica, avanzata da Italia, Spagna e Francia nei mesi scorsi, di fronte al rally dei prezzi del gas, per dotare l'Ue della possibilità, su base strettamente volontaria, di ricorrere ad appalti congiunti in caso di grave emergenza e di costituire scorte regionali comuni di gas, all'interno dell'Ue o anche nell'immediato vicinato. Un approccio comune che vuole fare tesoro dell'esperienza con l'acquisto centralizzato dei vaccini, ma su cui è particolarmente critico il fronte dei Paesi frugali: sarà fra i temi in discussione domani, durante l'ultimo vertice dell'anno del Consiglio europeo.

L’ultima follia della Ue: esproprio ecologista delle case, vietato venderle o fittarle se “inquinano”. Lucio Meo venerdì 10 Dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Incredibile Ue, sempre pronta a saltare addosso ai risparmi dei cittadini in nome del rigore o del politicamente corretto. Stavolta l’attacco è alla casa, il bene primario degli italiani e dei cittadini europei. L’ultima novità annunciata dalla Commissione europea è la nuova direttiva sull’efficienza energetica degli edifici, attesa per il prossimo 14 dicembre, con la quale, di fatto, si procede a una sorta di esproprio ecologista degli immobili “non a norma”. In funzione dell’efficienza energetica degli immobili, si vuole impedire la vendita o l’affitto di quelli che non superino determinati requisiti. La portata del rinnovo della classe energetica dovrebbe essere proporzionata allo stato di partenza dell’immobile, dovrà cioè essere fattibile rispetto alla categoria energetica di partenza. Saranno esclusi gli edifici storici. Stando alle anticipazioni si dovrebbe arrivare a regime nel 2033, anno dal quale sarà obbligatorio per chi acquista ristrutturare entro tre anni l’immobile. 

La Ue e il divieto di vendere o fittare le case non ecologiche

Sarebbero 5 milioni gli edifici a rischio se la Ue portasse a termine il suo progetto sulla casa “ecologica”. Gli edifici sono suddivisi in 10 classi energetiche: la classe A di eccellenza a sua volta articolata in quattro sottoclassi e dalla B alla G, quella con prestazioni peggiori. Per conoscere la classificazione energetica di un edificio o di un immobile si ricorre all’APE, ovvero all’attestato di prestazione energetica, che è obbligatorio solo se si vuole vendere o locare un immobile o se lo si sottopone a ristrutturazioni agevolate dal fisco. Se la direttiva renderà obbligatorio che l’edificio sia classificato come A o B o C in Italia ci sarebbero non pochi problemi, perchè solo una parte degli edifici dispongono di un Ape, secondo l’Istat. Gli edifici residenziali in Italia sono circa 12,5 milioni: 7.160.000 sono precedenti al 1970 e l’attenzione alle tematiche energetiche prima della grande crisi petrolifera del 1973 era pressoché inesistente.

La protesta delle associazioni dei proprietari

“La Commissione europea vorrebbe condizionare la vendita e l’affitto degli immobili alla presenza di determinati standard energetici. La stessa Commissione Ue che ha chiesto all’Italia di aumentare le tasse sugli immobili, attraverso il catasto. Contro il primo pericolo, che porterebbe ad impedire l’esercizio dei più elementari diritti di un proprietario, Confedilizia si sta battendo in sede europea, attraverso l’Unione internazionale della proprietà immobiliare (Uipi), nella quale rappresentiamo l’Italia”, crive, in una nota, il presidente dell’associazione, Giorgio Spaziani Testa, nel parlare di “due attacchi dalla Ue al risparmio immobiliare”.

“Per scongiurare il secondo, ora deve pronunciarsi il Parlamento. Proprio oggi la Commissione Finanze della Camera inizia a parlare dell’articolo 6 della delega fiscale, quello contenente la revisione del catasto. L’unica strada è lo stralcio. Chi non lo chiederà, andrà annoverato tra i fautori di un ulteriore aumento delle tasse sugli immobili, prime case incluse”, conclude Spaziani Testa.

Sull’attacco della Ue alla casa, fa eco anche il Codacons: “L’obbligo di rinnovo energetico prima della vendita per edifici e abitazioni è una idea ridicola che non potrebbe essere applicata in Italia. Non esiste alcun nesso tra il diritto di vendita di una proprietà privata e l’obbligo di efficientamento energetico che l’Ue vorrebbe mettere in capo ai proprietari di case -spiega il presidente Carlo Rienzi-. Un simile provvedimento, infatti, creerebbe un evidente squilibrio a danno di chi possiede una abitazione, porterebbe ad un rialzo ingiustificato dei prezzi delle case e bloccherebbe quasi del tutto il mercato immobiliare”. “Senza contare che una misura così ridicola e palesemente ingiusta verrebbe immediatamente bloccata dalla Corte Costituzionale e non potrebbe quindi essere attuata nel nostro paese”, conclude Rienzi.

Andrea Bassi per "il Messaggero" il 10 dicembre 2021. Mettere fuorilegge la classe energetica G in Italia, significherebbe bloccare la vendita e l'affitto di 16 milioni di immobili. Le prime simulazioni sull'impatto della nuova direttiva europea sull'efficientamento degli immobili sono pesantissime. In base alle stime dell'Enea, per migliorare il livello di emissioni degli immobili italiani servirebbero 12 miliardi all'anno per i prossimi 10 anni. Centoventi miliardi in tutto. Ma questa mole di investimenti potrebbe non essere sufficiente a raggiungere in Italia gli standard che l'Europa vorrebbe richiedere agli Stati membri. La bozza di direttiva anticipata ieri da Il Messaggero, prevede che dal 2027 lo standard minimo energetico degli edifici sia «E». Dal 2030 poi, dovrebbe passare a «D», e dal 2033 a «C». La sanzione prevista per chi non rispetta questi requisiti, sarebbe il divieto di vendita e di affitto degli immobili. Un divieto contro il quale si sono subito schierate le associazioni dei consumatori. Per il presidente del Codacons Carlo Rienzi si tratta di «una idea ridicola, che non potrebbe essere applicata in Italia». L'Unione nazionale consumatori si è detta pronta «alle barricate» contro la proposta europea. Paolo Borchia, europarlamentare della Lega ha parlato di una «ennesima eurofollia». Il governo italiano per adesso tace. Ma le diplomazie sono già al lavoro per provare a modificare la direttiva europea prima che venga pubblicata (si veda altro articolo a pagina 3). Tutti sono comunque d'accordo che una norma che introducesse un divieto di vendita o di affitto sarebbe difficilmente attuabile in Italia. Secondo i dati dell'Agenzia delle entrate, nel Paese ci sono quasi 58 milioni di immobili residenziali. Quasi 20 milioni sono abitazioni principali, 6 milioni sono a disposizione, ossia ne locati e neppure abitati. Altri 6 milioni sono quelli dati in affitto. Se si escludono le pertinenze, il totale degli immobili è di circa 45 milioni. Ma quanti di questi sarebbero fuorilegge con la nuova direttiva europea? L'Enea raccoglie i dati delle Ape, le attestazioni di prestazione energetica, all'interno di una banca dati che si chiama Siape, Sistema Informativo sugli Attestati di Prestazione Energetica. Il quadro non è però completo, perché per adesso nella banca dati ci sono all'incirca 2 milioni di Ape. Ma si tratta certamente di un'indicazione a campione importante. Secondo i dati dell'Enea il 35 per cento delle abitazioni sono il classe G. Un dato, spiegano dall'ente, probabilmente sottostimato, visto che chi comunica l'Ape lo fa in occasione di una ristrutturazione, di una vendita o di una locazione. Ma se anche fosse questa la percentuale, significherebbe che 16 dei 45 milioni di immobili censiti dal Fisco, escluse le pertinenze, non rispetterebbero i requisiti minimi della Ue per la vendita o l'affitto. Nel suo rapporto annuale sull'efficienza energetica, l'Enea effettua una serie di stime dei costi di riqualificazione del patrimonio. Costi che da qui al 2030 oscillano dai 9 ai 12 miliardi l'anno a seconda del tipo di ristrutturazione. Comunque, spiega l'Enea, in Italia solo lo 0,03 per cento degli immobili è a emissione nette vicine allo zero come richiesto dalla Ue. In Italia il patrimonio immobiliare, soprattutto nei centri storici, è soggetto a molti vincoli. Inoltre anche ristrutturazioni profonde potrebbero non essere sufficienti ai salti di classe richiesti. E, infine, non va sottovalutata la difficoltà nei condomini di decidere lavori complessi e costosi. Problemi che rendono inattuabili le draconiane misure europee.

Casa, classe energetica: quanto costa migliorarla? I lavori da fare e i bonus da sfruttare. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021.

L’importanza della classe energetica

Migliorare la classe energetica di un edificio è uno degli obiettivi di chi possiede immobili o di chi ne acquista. Anche perché i nuovi standard per la riqualificazione energetica degli edifici che la Commissione Ue proporrà il 14 dicembre nella revisione della direttiva sul Rendimento energetico dell’edilizia (Energy performance building directive, Epbd) prevedono una certificazione più stringente, che sarà obbligatoria per gli edifici da costruire, da ristrutturare, ma anche in caso di vendita o di rinnovo dell’affitto. Come ha spiegato Francesca Basso sul Corriere, secondo l’ultima bozza (ma sono ancora possibili cambiamenti), l’articolo 9, che stabilisce gli standard di rendimento degli edifici, prevede al comma 1 l’obbligo per gli Stati membri di assicurare che dal 2027 gli edifici pubblici appartengano alla classe F (quindi niente più G che è la peggiore) e dal 2030 dovranno salire di una altro gradino alla classe E. Gli edifici residenziali, ovvero case e appartamenti, dovranno rientrare almeno nella classe F dal primo gennaio 2030 e salire almeno alla classe E dal 2033 (vedi qui le 10 classificazioni energetiche). Migliorare la classe energetica di un edificio è un procedimento complesso nel quale concorrono molti elementi (dalla posizione geografica e climatica dell’edificio alla struttura dello stesso, dalla tipologia dell’intervento fino ad arrivare agli standard da soddisfare nel caso si voglia beneficare dei bonus assicurati dallo Stato a chi ristruttura). Proviamo a vedere allora i costi di una ristrutturazione che migliori la classe energetica di un appartamento e quali bonus possono aiutare dal punto di vista economico. Ma attenzione: si tratta di esempi che non vogliono essere esaustivi. L’ultima parola spetta sempre a un tecnico abilitato.

Oggi come funziona

Attualmente la classificazione energetica di un immobile è data dall’Ape (Attestato di Prestazione Energetica), già obbligatorio per vendere o affittare. Esistono dieci classi energetiche, che vanno dalla A (con alcune sottoclassi) alla G. Gli edifici quando vengono costruiti o rogitati vengono immediatamente associati a una di queste classi a seconda di come sono stati costruiti, con un relativo punteggio: da 1 (per i meno efficienti) a 10 (per i più efficiente) in base a degli intervalli specifici di fascia di consumo (più la classe energetica di un immobile è vicina alla A4, meno consumerà energia per riscaldare, raffreddare e mantenere la temperatura degli ambienti). Oggi, il requisito minimo per costruire un nuovo edificio in Italia è la classe D, dove rientrano la maggioranza degli immobili costruiti negli ultimi 15-20 anni. Mentre la classe più diffusa tra le abitazioni è la E, quella degli edifici costruiti negli anni Novanta. Se ci allarghiamo infine a tutti gli edifici, compresi quelli storici e i capannoni industriali, allora la classe G diventa maggioritaria.

Come abbiamo spiegato in un altro articolo, gli immobili A4, definiti “a energia zero” hanno consumi inferiori a 30 KWh/mq all’anno, ciò vuol dire che le spese annuali per riscaldamento e raffreddamento della temperatura interna saranno piuttosto basse (per esempio, un appartamento di 100 metri quadri e di classe A4 ha una spesa annua stimata intorno ai 200-300 euro). Una casa classe G, invece, è ad alto consumo energetico, non rispetta cioè nessuno dei criteri di efficienza energetica. Riscaldarla, dunque, costa molto.

Le dieci classi energetiche attualmente sono le seguenti:

Classe A4, punteggio 10: consumo massimo inferiore o uguale a 0,40 Ep (indice di prestazione energetica); punteggio di riferimento 10.

Classe A3, punteggio 9: consumo massimo inferiore o uguale a 0,60 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 0,40 Ep.

Classe A2, punteggio 8: consumo massimo inferiore o uguale a 0,80 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 0,60 EP.

Classe A1, punteggio 7: consumo massimo inferiore o uguale a 1,00 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 0,80 Ep.

Classe B, punteggio 6: consumo massimo inferiore o uguale a 1,20 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 1,00 Ep.

Classe C, punteggio 5: consumo massimo inferiore o uguale a 1,50 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 1,20 Ep.

Classe D, punteggio 4: consumo massimo inferiore o uguale a 2,00 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 1,50 Ep.

Classe E, punteggio 3: consumo massimo inferiore o uguale a 2,60 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 2,00 Ep.

Classe F, punteggio 2: consumo massimo inferiore o uguale a 3,50 Ep; consumo minimo inferiore o uguale a 2,60 Ep.

Classe G, punteggio 1: consumo massimo non si specificato; consumo minimo inferiore o uguale a 3,50 Ep.

Come potrebbe essere in futuro

Secondo la nuova direttiva Ue, se approvata così come nell’ultima bozza, a partire dal 1° gennaio 2030, tutte le nuove costruzioni dovranno essere a zero emissioni, con eventuale ulteriore fabbisogno energetico soddisfatto tramite auto-produzione con rinnovabili (per gli edifici pubblici l’obbligo scatterà dal 2027). Inoltre, la bozza renderebbe obbligatorio ristrutturare l’immobile con classe energetica molto bassa prima di venderlo (oppure prevedere nel contratto che tale onere tocchi entro 3 anni all’acquirente).

Il cappotto termico, cos’è e quanto costa

Come detto, per far salire di classe energetica un edificio bisogna fare interventi di ristrutturazione e riqualificazione importanti. Ultimamente, uno dei più diffusi (soprattutto tra i condomìni) è quello dell’intervento sull’involucro dell’abitazione, quello che separa cioè la parte esterna da quella interna. Si tratta di uno degli interventi che giovano delle agevolazioni del Superbonus 110%. Non si tratta dunque del bonus facciate ordinario al 50%, ma di quello legato al «cappotto energetico», che migliora appunto le prestazioni dell’edificio che deve aumentare di almeno 2 classi energetiche. Il costo del cappotto termico che avvolge un edificio ha un costo che varia ovviamente dal materiale usato (i pannelli possono essere in sughero, in silicato, in fibra di legno, etc.) e dalla ditta che compie i lavori. In linea di massima si aggira tra i 40 e gli 80 euro al mq. Meglio comunque sempre chiedere un preventivo ben dettagliato.

L’installazione del solare termico e dell’impianto fotovoltaico

Anche l’installazione del solare termico per la produzione di acqua calda senza consumare energia o l’installazione dell’impianto fotovoltaico sono interventi che migliorano la classe energetica di un edificio. Il Bonus ristrutturazione rimborsa al 50% questi lavori (la posa in opera dei pannelli fotovoltaici è infatti un’operazione che ricade nella manutenzione straordinaria, condizione necessaria per accedere a questo tipo di detrazione fiscale). Molto più interessante economicamente è l’Ecobonus introdotto con il Decreto Rilancio che concede la detrazione del 110% delle spese sostenute, purché avvenga contemporaneamente a interventi di isolamento termico delle superfici opache verticali, orizzontali e inclinate (quindi non sugli infissi) che interessano l’involucro dell’edificio per oltre il 25% della superficie disperdente lorda. Si possono isolare le pareti esterne, le coperture e i pavimenti. La condizione per l’agevolazione è che l’edificio migliori di almeno due classi energetiche. Anche in questo caso, il costo può variare moltissimo. Per dare un’idea, l’installazione di un impianto fotovoltaico per una casa standard di circa 100 mq può aggirarsi intorno ai 3 mila euro per kW (un impianto standard da 3 kW costa dunque attorno ai 9 mila euro). Per quanto riguarda il solare termico a circolazione naturale, il costo - compreso di materiali e manodopera (al mq) - si aggira tra i 380 e gli 800 euro, mentre per un solare termico con pompa di calore siamo tra i 685 e 1.420 euro.

La sostituzione della caldaia

Un modo per migliorare la classe energetica della propria abitazione, e rientrare anche nel Superbonus 110%, è la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti per il riscaldamento, il raffrescamento o la fornitura di acqua calda sanitaria a pompa di calore, ibridi o geotermici. Questo vale anche per i condomìni con la sostituzione della caldaia esistente con qualcosa di più efficiente. I costi anche in questo caso variamo moltissimo. Difficile quantificarli. Per avere comunque un’idea, Il prezzo di una caldaia per una casa parte da circa 500-600 euro (potenza ca 24 kW) e arriva fino a 1.500-2 mila euro (potenza ca 32 kW). Ma il prezzo può arrivare anche a cifre più elevate e superare i 5 mila euro per modelli più sofisticati. A tutto questo vanno aggiunti i costi per le tubature e la manodopera.

La sostituzione degli infissi

A migliorare la prestazione energetica di un edificio concorre anche la sostituzione degli infissi. Ci sono anche in questo caso due agevolazioni: al 50 e al 110%. La detrazione del 50% è da applicare alle spese sostenute per l’acquisto e posa in opera di finestre comprensive di infissi e di schermature solari. Si tratta di sostituzione di elementi già esistenti e non nuove installazioni. Il serramento interessato dall’intervento deve delimitare un volume riscaldato verso l’esterno o verso vani non riscaldati (i valori di trasmittanza termica iniziali devono essere superiori ai valori limite previsti per la zona climatica di appartenenza). Altra possibilità (ma va detto: molto più complicata) è la sostituzione con il Superbonus 110%. In questo caso, i lavori di cui sopra, rimborsati totalmente (più un extra del 10%), devono essere legati a un intervento trainante di isolamento termicoa cappotto o di sostituzione dell’impianto di riscaldamento, ma anche in questo caso è richiesto il doppio salto di classe energetica dell’edificio. Un buon infisso con doppio o triplo vetro termico ha un prezzo che varia a seconda del materiale (legno, pvc, alluminio, etc.). Si può andare dai 350 euro a sopra gli 800 euro per infisso. Ai quali si deve aggiungere la manodopera. 

Incapacity Market. Report Rai. PUNTATA DEL 15/11/2021di Lucina Paternesi. La conferenza sul clima di Glasgow ha ribadito l’urgenza di limitare il riscaldamento globale, porre fine ai finanziamenti ai combustibili fossili e raggiungere le emissioni zero entro il 2050. La transizione ecologica non è più rimandabile, eppure, nei fatti, resta lettera morta. Nonostante gli impegni previsti dal PNRR per favorire lo sviluppo di energie rinnovabili, l’Italia si appresta a entrare nel vivo del Capacity market: per evitare il rischio di nuovi blackout e per cercare di mantenere costante il prezzo dell’energia, finanzieremo nuove centrali a gas che resteranno in funzione per i prossimi 30 anni. Per attuare questo piano spenderemo 1,3 miliardi di euro nel 2022 e 1,5 nel 2023. Il paradosso è che, per uscire dalle fonti fossili, ricorriamo comunque alle fonti fossili, come il gas. 

IN-CAPACITY MARKET Report Rai. Di Lucina Paternesi

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Tapparelle che si alzano appena suona la sveglia, luci che si accendono quando entriamo in una stanza, temperatura graduata in ogni ambiente, elettrodomestici intelligenti e tutte le informazioni a portata di mano.

EMANUELE VERGINE - ARCHITETTO Tapparelle giù. Attiva scenario esco.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO E se all’improvviso tutto questo non dovesse funzionare più? Per scongiurare il rischio black out come nel 2003, l’ultima invenzione si chiama Capacity market. Mettiamo all’asta una quantità di energia pagando i produttori oggi in caso dovessimo avere bisogno di energia domani. Le prime due aste per il 2022 e il 2023 si sono chiuse e hanno assegnato premi milionari a chi produce energia da fonti fossili come il gas.

KATIUSCIA EROE - RESPONSABILE NAZIONALE ENERGIA LEGAMBIENTE Il gas metano non è un gas pulito, è un gas che è almeno 25 volte più climalterante dell’anidride carbonica. Quelle risorse andrebbero investite su 5-6 Giga all’anno di fonti rinnovabili, associate a sistemi di accumulo, in grado di svolgere, la stessa funzione di una centrale a gas.

LUCINA PATERNESI Ministro con gli obiettivi di decarbonizzazione dietro l’angolo, che senso ha un Capacity market tutto incentrato sul gas?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Nell’immediato noi dobbiamo crescere moltissimo con le rinnovabili, che sono l’unica speranza un giorno di liberarci completamente dal, diciamo, dalla dipendenza dal gas.

LUCINA PATERNESI Se lei avesse dovuto firmare, oggi, i decreti del 2019 li avrebbe firmati?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA La coscienza a livello globale dell’urgenza è diventata enorme. Quindi è evidente che oggi, se la domanda è li avresti firmati oggi? No, no, oggi non avrebbero avuto gran senso.

STUDIO UNO ANTEPRIMA Non è che avesse un gran senso anche prima firmarli. Solo che ora il fatto emerge in maniera più prepotente, perchè abbiamo stanziato 60 miliardi nel PNRR per la transizione ecologica. Nelle more ne spenderemo 3 di miliardi per produrre energia da fossile. Come siamo arrivati a questo paradosso? Per mancanza di visione. Quando nel 2003 a causa di un black out si fermò praticamente l’Europa, l’Europa chiese ai paesi membri dotatevi di uno strumento, di pacchetti di energia per evitare di trovarvi nuovamente a secco. Noi come l’abbiamo recepita questa indicazione? La nostra Ternal, il gestore delle reti nazionale ha indetto due aste, abbiamo così recepito, così nasce il Capacity market. Due aste che abbiamo acquistato al prezzo più alto in Europa, due pacchetti di energia, ma non ha detto come doveva essere prodotta questa energia. E così i produttori, le aziende ce le produrranno consumando energia da fossile. Con vecchie centrali a gas e guadagneranno un po’ di più, e questo è un po’ un paradosso, chi costruirà nuove centrali a gas e qui metteranno anche in campo vecchi progetti impolverati tenuti in un cassetto. E che ce le terremo per i prossimi 30 anni queste centrali. Ora il ministro Cingolani deve sbrogliare questo paradosso: cioè quello che per uscire dall’energia consumata, prodotta da fossile, ricorreremo ad energia prodotta da fossile. Proprio in questi giorni a Glasgow abbiamo firmato un memorandum, dove ad altri paesi si chiede di sospendere all’estero il sostegno finanziario per tutti I combustibili fossili. Ecco, come spenderanno i nostril soldi Edison e Enel? La nostra Lucina Paternesi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Montebianco. Evoca la maestosità della cima più alta delle Alpi la turbina che sta per essere installata a Marghera, nella cornice della Laguna di Venezia. Grazie al Capacity Market Edison installerà un nuovo impianto da 700MW, incassando163 milioni di euro dall’asta del 2022 e 130 da quella del 2023. Il gruppo francese è quello che si è accaparrato più della metà della capacità nuova messa all’asta per il 2022. Questo significa che riceverà incentivi per costruire nuove centrali per 15 anni. E dopo Marghera si sposterà più a Sud.

GIUSEPPE BOCCHINO - ASSOCIAZIONE ANTICA RUFRAE Siamo ormai in una fase avanzata di costruzione di questa centrale termoelettrica dell’Edison.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO A Presenzano, in provincia di Caserta, grazie al Capacity market la Edison ha finalmente sbloccato un progetto che aveva in un cassetto da 10 anni. Grazie alle aste, incasserà 750 milioni nei prossimi 15 anni, cioè più del doppio di quanto costerà costruirla. A pochi chilometri c’è la più grande centrale idroelettrica d’Italia, la seconda d’Europa. E più in là persino delle pale eoliche.

GIUSEPPE BOCCHINO - ASSOCIAZIONE ANTICA RUFRAE Non credo sia necessario produrre tanta energia con tanti impianti in un territorio così ristretto.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Il paradosso è che pagheremo per costruire una centrale che in rapporto inquinerà di più di quanto avrebbe inquinato se avesse funzionato a pieno regime.

GIUSEPPINA NEGRO - PRESIDENTE WWF VENAFRO (IS) E’ stata autorizzata nel lontano 2009, l’autorizzazione che ha ricevuto adesso, il rinnovo delle autorizzazioni, si è basata sulle stesse valutazioni.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per questo i comitati si sono rivolti al Tar preoccupati perché con il Capacity market la centrale entrerà in funzione solo in caso di necessità, costringendo chi la gestisce a continue accensioni o spegnimenti che producono emissioni di gran lunga superiori.

LUCINA PATERNESI C’era proprio bisogno di costruire nuove centrali?

KATIUSCIA EROE - RESPONSABILE NAZIONALE ENERGIA LEGAMBIENTE Qui in Italia abbiamo il cosiddetto over Capacity: il picco arriva, nel peggiore dei casi, nel 2015 a 60,5 GW. Noi abbiamo almeno 117 GW di potenza, questo vuol dire che ne usiamo la metà di quella già installata.

LUCINA PATERNESI Già prima di queste nuove che stiamo andando a finanziare.

KATIUSCIA EROE - RESPONSABILE NAZIONALE ENERGIA LEGAMBIENTE Esattamente così.

FRANCESCO DEL PIZZO - RESPONSABILE STRATEGIA DI SVILUPPO TERNA C’è una grande differenza tra la potenza installata e la potenza disponibile nel momento in cui questa è necessaria.

LUCINA PATERNESI Però quella disponibile mi ha detto siamo su 58-60.

FRANCESCO DEL PIZZO - RESPONSABILE STRATEGIA DI SVILUPPO TERNA Sì. LUCINA PATERNESI Pari al picco di 5-6 anni fa...

 FRANCESCO DEL PIZZO - RESPONSABILE STRATEGIA DI SVILUPPO TERNA Sì. Pari al picco del 2015. Piccolo dettaglio, nel 2025 dobbiamo spegnere il carbone in Italia.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Quindi nel frattempo, anziché investire sulle rinnovabili, per compensare accendiamo il gas.

LUCINA PATERNESI Ma è giusto finanziare oggi delle nuove centrali che resteranno in funzione per 30 anni?

MICHELE GOVERNATORI - RESPONSABILE PROGRAMMA ENERGIA ECCO THINK TANK E’ inefficiente e incompatibile con gli obiettivi di decarbonizzazione.

LUCINA PATERNESI Cioè per uscire dalle fonti fossili, come il gas, ricorriamo alle fonti fossili?

MICHELE GOVERNATORI - RESPONSABILE PROGRAMMA ENERGIA ECCO THINK TANK E’ un azzardo che rischia anche di bloccare di spiazzare tecnologie alternative coerenti con la decarbonizzazione.

LUCINA PATERNESI La decarbonizzazione si può fare solo passando attraverso il gas?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA In questo momento è inutile che facciamo voli pindarici, cioè adesso c’è poco da inventarsi. Abbiamo nove anni per arrivare al target degli accordi di Parigi del 55% di decarbonizzazione rispetto al 1990, beh lì credo che la tecnologia ci darà risposte enormi.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO In attesa che la tecnologia ci faccia uscire dal carbone e dai combustibili fossili, c’è chi incassa. Enel: oltre 750 milioni di euro dalle aste. Verranno ripotenziati gli impianti La Casella, Porto Corsini, Priolo e Termini Imerese. Mentre nuovi camini e nuove turbine verranno installate in Sicilia, a La Spezia e nella laguna di Venezia, a Marghera. Nuovi impianti da più di 1000MW dove un tempo bruciava il carbone.

CARLO TAMBURI - PRESIDENTE E AD ENEL ITALIA Noi riteniamo che il Capacity market sia il principale strumento per favorire la transizione ecologica. E’ sicuramente meglio fare del nuovo gas molto più efficiente e più performante, piuttosto che lasciare il carbone.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per arrivare alla transizione ecologica bisogna passare attraverso la cruna dell’ago del gas. Quello che è certo è che pagheremo noi utenti.

CARLO TAMBURI - AD E PRESIDENTE ENEL ITALIA Che vuol dire pagheremo noi, intanto la paghiamo noi.

LUCINA PATERNESI Con il Capacity market la paghiamo noi.

CARLO TAMBURI - AD E PRESIDENTE ENEL ITALIA Però posso dirle, onestamente, questa parte qui è mal posta. I consumatori devono pagare l’energia che consumano, se e quando la consumeranno. Tenga presente che noi vorremmo anche chiudere Brindisi e Civitavecchia.

LUCINA PATERNESI Visto che c’è la possibilità di usufruire dei nuovi incentivi, Enel ha chiesto al ministero l’autorizzazione a riaccendere la centrale di Brindisi, trasformata a gas, che grazie al Capacity frutterebbe altri 50 milioni.

LUCINA PATERNESI Aspettate le aste successive?

CARLO TAMBURI - AD E PRESIDENTE ENEL ITALIA Eh sì, e certo.

LUCINA PATERNESI E certo...

CARLO TAMBURI - AD E PRESIDENTE ENEL ITALIA Eh no, scusi...ma che cosa dobbiamo fare. Io faccio tutto quello che è conveniente fare. Non è un meccanismo che abbiamo, come dire, proposto noi il Capacity sul gas, è una cosa che è nata con il consenso degli operatori e dei produttori ma anche di Terna e di chi deve gestire, chi ha la responsabilità dell’adeguatezza.

LUCINA PATERNESI Non era meglio incentivare in un momento come questo di transizione, tecnologie che guardano al futuro, tecnologie più sostenibili, meno inquinanti.

FRANCESCO DEL PIZZO - RESPONSABILE STRATEGIE DI SVILUPPO TERNA Il Capacity makers dà la possibilità a tutte le tecnologie di partecipare. Le rinnovabili è perché non ci sono i progetti autorizzati, però ci sono i Policy maker che devono fare una valutazione.

 LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Cioè la politica che è ormai messa alle strette dai vincoli europei e dalla pressione dell’opinione pubblica. Ma chi ci guadagna dalla costruzione di tutte queste nuove centrali?

GIAN CARLO DELPIANO - EX DIRETTORE COMMERCIALE ANSALDO Chi ci guadagna di più è chi costruisce, poi c’è un sacco di apparecchiature, ci sono i montaggi, ci sono le opere civili.

LUCINA PATERNESI Abbiamo conosciuto un Capacity market con le prime due aste con i prezzi altissimi, il Capacity market post Cingolani come sarà?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Allora noi abbiamo mandato una lettera agli operatori, molto chiara, molto ampia, in cui abbiamo chiesto per l’asta del ’24 di essere assolutamente - una lettera d’indirizzo, di essere più inclusivi di rinnovabili, tecnologie di storage. E quella del ’25 l’abbiamo sospesa, decideremo se lanciarla e come, solo dopo aver visto l’esito di questa che è stata rinnovata ed è stata resa più inclusiva, questa del ’24.

STUDIO DUE ANTEPRIMA Lettera di indirizzo, vedremo cosa faranno. Sta di fatto chem entre all’estero hanno stoppato finanziamenti al fossile, grazie al Capacity market faranno anche nuove centrali costruite da vecchi progetti sempre e comunque con energia prodotta da fossili. Visto che cotruiranno centrali che si accenderanno e spegneranno all’occorrenza, inquineranno anche di più. Edison ci scrive che gli impianti in costruzione saranno tra i più efficienti d’Europa, con le emissioni abbattute rispetto alla media, ma sempre emissioni ci saranno. Invece di abbassare il riscaldamento globale contribuiranno invece ad alzarlo. Chi ci guadagnerà sarà Enel ed Edison, che hanno detto però attenzione la scelta di produrre energia da gas è stata condivisa con Terna, il gestore delle reti, la quale, però, si smarca e passa il cerino bollente alla politica. E’ solo una mancanza di visione o scava, scava ci sono aiuti di stato ai soliti noti? Perché qui chi ci guadagna di più sarà chi costruirà le centrali anche utilizzando vecchi progetti. Ora passiamo all’energia buona, quella di che ci dà la crema più buona del mondo, che mondo sarebbe senza?...

Milena Gabanelli e Rita Querzè per il "Corriere della sera" il 22 novembre 2021. Siamo entrati nella grande era della transizione ecologica e in molte fabbriche si stanno facendo gli scongiuri. In assenza di un piano di riconversione rischiano di essere spazzate via dal mercato. Prendiamo un’eccellenza italiana: la filiera dell’automotive. Non ci sono solo Stellantis, Ferrari e Lamborghini, ma ben 2.200 imprese della componentistica, che forniscono tutti i più noti marchi dell’auto, dove lavorano 161 mila persone. Per fare un esempio: circa il 30% delle auto tedesche è fatto con parti prodotte in Italia. Se il Parlamento ratificherà la proposta della Commissione, in Europa i produttori di auto devono dire addio al motore endotermico (benzina, diesel) entro il 2035. E il 67% delle nostre esportazioni è diretto proprio ai Paesi dell’Unione. Al di là dei tira e molla sui tempi, il motore elettrico si sta imponendo e per produrlo serve il 30% di manodopera in meno. Vuol dire che se in Italia restiamo fermi a guardare, entro i prossimi quattordici anni 60 mila persone in 500 aziende perderanno il posto di lavoro.

In 5000 stanno già rischiando il posto

Negli stabilimenti dove producono diesel il problema c’è già adesso. Questo motore non è quasi mai utilizzato per le auto ibride e la sua quota di mercato in Europa è passata dal 54% al 26% negli ultimi tredici anni. Inoltre ci sono case automobilistiche che hanno deciso di bruciare i concorrenti sul tempo passando all’elettrico prima degli altri. Tra queste c’è la tedesca Vitesco che sta investendo in Romania, Ungheria e Repubblica ceca. Dal 2023 interromperà la produzione di iniettori nello stabilimento di Pisa: in 750 rischiano il posto. Alla VM di Cento, in provincia di Ferrara, oggi Stellantis, in 900 producono il diesel V6: dal 2023 questo motore non ci sarà più, ma non si sa se e come sarà sostituito. A Pratola Serra (Avellino), sempre Stellantis, si producono il diesel 1.600 e quello per i veicoli commerciali Ducato: i 1700 dipendenti hanno aggiunto alla produzione dei motori quella delle mascherine, ma sono comunque in cassa due settimane al mese. Alla Bosch di Bari, dove è stato inventato il diesel common rail, ci sono 1.400 posti a rischio. Altri 600 posti in bilico alla Marelli, oggi del fondo Kkr, dove si produce componentistica per il motore endotermico. Infine la multinazionale giapponese Denso ha grandi progetti sull’elettrico con Mazda e Toyota. Ma non sullo stabilimento di San Salvo, in provincia di Chieti, dove si continuano a produrre alternatori e motorini di avviamento. I dipendenti sono 1.000: in 200 andranno a casa entro l’anno, per gli altri 800 posti non ci sono certezze. 

Chi sta voltando pagina

Paesi e case automobilistiche si dividono sulla velocità con cui affrontare il cambiamento. Le confindustrie di Italia, Germania e Francia fanno pressioni per avere tempi più lunghi. Intanto però il resto del mondo si muove. Negli Usa il 5 agosto scorso Biden ha firmato un ordine esecutivo: il 50% delle nuove auto vendute dovranno essere emissioni ridotte (vetture elettriche e ibride plug-in) entro il 2030. La Cina non ha per ora fissato scadenze, ma negli ultimi dieci anni ha sovvenzionato l’industria delle auto elettriche con circa 100 miliardi di dollari e sono nate 300 imprese specializzate. Al Cop26 sei case automobilistiche hanno firmato il documento che le impegna al 100% di immatricolazioni verdi dal 2040. Ci sono le statunitensi Ford e General Motors, la tedesca Daimler Mercedes-Benz, la cinese Byd, e la britannica Jaguar Land Rover. Mentre la svedese Volvo passerà totalmente all’elettrico già dal 2030. Per quanto riguarda i Paesi, hanno firmato Canada, Cile, Danimarca, India, Polonia, Svezia, Turchia e Regno Unito. Il processo di transizione sarà accelerato quando il gap di prezzo tra le auto elettriche e quelle a motore endotermico si ridurrà, per effetto delle economie di scala. Si stima che entro in prossimi tre anni avere e gestire un’auto elettrica sarà quindi meno costoso. Gli Usa di Biden si preparano a sostenere la loro filiera: il Congresso sta varando incentivi fiscali per i cittadini che comprano auto elettriche prodotte sul suolo statunitense. L’Unione Europea invece non è in grado di gestire in modo coordinato queste politiche, perché ogni Paese va per conto suo. 

Mise: un solo incontro

La Germania, dove l’industria dell’auto è la più forte d’Europa, negli ultimi dieci anni ha innovato a macchia di leopardo e ora i sindacati frenano: secondo l’agenzia di ricerca Npm, finanziata dal governo tedesco, entro il 2030 rischia di perdere 400 mila posti di lavoro. Però i grandi marchi dell’industria hanno un punto di riferimento fisso e strutturato con i governi. Si chiama «Konzertierte Aktion Mobilität» (Azione concertata in materia di mobilità). Mentre a livello regionale il ministero dell’Economia organizza i «dialoghi sulla trasformazione nell’industria automobilistica». È una piattaforma che riunisce a scadenze fisse aziende, decisori politici e rappresentanti dei territori, per decidere le strategie per il futuro. In Italia un tavolo sull’automotive è stato messo in piedi al ministero dello Sviluppo Economico. L’incontro per parlare di politica industriale è stato soltanto uno, nel mese di luglio. Hanno partecipato 40 rappresentanti di associazioni, aziende e sindacati del settore, sono stati elencati i temi delle sfide, il tutto si è esaurito in una lunga serie di audizioni e poi arrivederci e grazie. 

Quel che manca all’Italia

L’Italia potrà salvare il settore se saprà fare tre cose. La prima: attirare gli investimenti dei nuovi produttori di auto elettriche. La seconda: costruire delle giga-factory per produrre, rigenerare, riparare e riciclare batterie, senza dipendere totalmente dai cinesi. Vuol dire mettere in conto una collaborazione pubblico-privato, perché costruire una giga-factory richiede qualche miliardo di euro di investimento. Al momento ci sono in campo Stellantis a Termoli, la svedese Italvolt a Torino, Fincantieri in provincia di Forsinone e Faam a Taverola, vicino a Caserta. Però siamo ancora alle intenzioni, i tempi della transizione sono stretti e un vero piano industriale non c’è. La terza: predisporre strumenti, condivisi con il sindacato, per gestire il passaggio da un lavoro a un altro. Significa creare un fondo per la conversione del settore, con risorse che consentano la riduzione dell’orario di lavoro per dedicare tempo all’aggiornamento delle competenze. Per fare tutto questo servono fondi. Ma, come ha detto Mario Draghi al Cop26, i soldi per la transizione green ci sono. Il Pnrr stanzia 740 milioni per la rete delle colonnine e circa 1 miliardo nella filiera delle batterie. Quello che manca è la capacità di coordinare gli sforzi a livello nazionale, per non rimanere indietro e disperdere risorse che domani diventeranno debito.

Il modello che funziona

Va avanti chi si arrangia da solo: la motor valley emiliana sta facendo sistema per attirare investimenti stranieri. Tutto il tessuto produttivo sta cambiando pelle grazie alla spinta di grandi marchi, come Ferrari e Lamborghini, da una parte e una politica regionale che cerca di finalizzare i fondi europei sulla riconversione dall’altra. La joint venture sino-americana Silk Faw, inizierà dal prossimo anno a costruire qui la sua fabbrica di supercar elettriche. L’obiettivo è di terminare a gennaio 2024 e sono già partite le prime assunzioni. Le università emiliane e i grandi marchi dell’auto hanno creato il Muner, la Motorvehicle University dell’Emilia Romagna. Anche gli imprenditori del territorio si muovono. A Soliera, in provincia di Modena, un gruppo di investitori di Reggio Emilia ha fondato Reinova, un’azienda innovativa che collauda e omologa le batterie. Facendo squadra il nostro Paese può recuperare terreno, restare sul mercato e salvare l’occupazione.

Cosa fa Stallantis?

Anche l’ex Fiat Stellantis dovrebbe essere in campo. Negli ultimi quindici anni ha ricevuto almeno 1,5 miliardi di contributi pubblici, ma i posti di lavoro li ha costantemente ridotti. Lo scorso anno gli abbiamo dato un prestito di 6 miliardi garantiti dallo Stato in cambio di investimenti per mantenere l’occupazione sul territorio. Qualche mese fa li ha restituiti. Qualora intendesse liberarsi dai vincoli, ci si aspetta che lo Stato eserciti il suo potere negoziale affinché gli impegni vengano rispettati. E senza il cappello in mano.

La casa ecologica? Come ristrutturarla con i bonus. Alessandro Ferro l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. Con il Superbonus, la transizione energetica sulla casa sarà più facile e sostenibile: dalla costruzione di un edificio ai lavori di efficientamento energetico, ecco cosa cambia. Rispetto ad una costruzione da zero che parta dalle fondamenta, una casa da ristrutturare ha consumi molto ridotti e rispetta maggiormente l'ambiente grazie al riciclo. Non solo: l'attuale Superbonus consente anche ad un vecchio fienile di diventare un'abitazione con tutte le agevolazioni previste dalla legge. Insomma, da brutto anatroccolo e cigno rispettando la transizione ecologica.

Cosa è cambiato nel 2021

Dal 1° gennaio 2021 le regole sono chiare: qualsiasi tipologia di abitazione deve essere a marchio nZEB, cioè edifici ad alta efficienza energetica e consumi quasi zero. Questo vale sia in caso della costruzione di una casa nuova che se si tratta di ristrutturazione: diventa necessaria la certificazione ambientale che attesti una percentuale ben definita di materia riciclata (o recuperata) e sono vietati i prodotti dannosi per l'ozono. E poi, sono previste misure rigide di costruzione: l'uso di fonti di energia rinnovabile che sia protetta dal riscaldamento solare con schermature e dotata di impianti che annullino i consumi idrici e della stessa energia.

Come sfruttare il Superbonus

Secondo le nuove regole, i fabbricati faranno parte della fascia energetica A4 rientrando nell’agevolazioni previste dal Superbonus al 110%. Per ristrutturare la casa ed avere l'agevolazione, però, bisognerà avere almeno un impianto di riscaldamento che vada demolito. Per coibentare l'appartamento, invece, si può installare un impianto che funzioni a biomasse o con pannelli solari termici. In questo modo si avrà la certezza di sfruttare l'agevolazione fiscale. Ma non è tutto: si potrà usufruire del bonus anche se l'edificio da demolire e ricostruire non sarà destinato per uso abitativo e che, quindi, non abbia già un impianto di riscaldamento di default. Come riporta Repubblica, lo ha stabilito l'Agenzia delle Entrate a settembre con il via libera "alla detrazione del 110% per la ristrutturazione di un fabbricato pericolante sprovvisto di impianti di riscaldamento in quanto non destinato ad uso abitativo".

Come rendere (davvero) la casa ecosostenibile

Le raccomandazioni del Fisco

L'Agenzia ha ricordato che fanno parte del Superbonus anche tutte le spese per "interventi realizzati su immobili che saranno destinati ad abitazione solo al termine dei lavori". L'unica accortezza da avere sarà quella di presentare al proprio Comune di residenza la Scia edilizia (Segnalazione Certificato Inizio Attività) dove risulti chiaramente che l'intervento è finalizzato al cambio di destinazione d'uso. Le case sprovviste di riscaldamento, secondo la legge attuale, rientrano tra le categorie di chi può sfruttare il bonus "purché al termine degli interventi, anche in caso di demolizione e ricostruzione che devono ricomprendere sempre la coibentazione, raggiungano una classe energetica in fascia A".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Rinnovabili, l'Italia si piazza bene: le prospettive per il futuro. Andrea Muratore il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. Le rinnovabili in Italia, guidate dagli investimenti dei colossi a partecipazione pubblica, sono ormai strutturalmente parte del mix energetico nazionale. Nelle ultime giornate ha fatto molto discutere la notizia, riportata per prima da Repubblica, secondo cui l'Italia si sarebbe fermata nella corsa alle rinnovabili, e negli ultimi cinque anni il nostro Paese avrebbe sostanzialmente smesso di installare fotovoltaico, bloccando anche l'eolico, frenando dunque la sua corsa nella transizione energetica. Anche Rinnovabili.it ha segnalato delle problematiche legate al fatto che l'Italia è scesa di tre posizioni, dal ventisettesimo al trentesimo posto, nella graduatoria del Climate Change Performance Index 2022. Fatto commentato da Legambiente con l'invito al sistema-Paese a portare al 65%, dall’obiettivo del 51% previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, e mettere in soffitta il carbone entro il 2025 senza ricorrere a nuove centrali a gas.

Le rinnovabili trainano la produzione elettrica

Queste letture sono concordi nel segnalare che, indubbiamente, c'è ancora molto da fare per ottenere un bilanciamento ideale del Paese in chiave di abbattimento delle emissioni, ma rischiano di portare a guardare il dito e non la Luna. A sottolineare cioè la presenza di margini di miglioramento e di limitazioni nel processo di sviluppo della transizione verso le rinnovabili come un problema nazionale piuttosto che come una questione comune a tutte le economie avanzate, dimenticando i risultati acquisiti che sono da tempo consolidati.

Ad esempio a fine luglio in campo elettrico le fonti più "verdi" ( hanno generato 71 TWh, il massimo dal 2015, in un contesto in cui la quota delle energie green è stata pari al 38,4% della generazione di elettricità, inferiore al 40,4% del 2020, segnata però da una domanda complessiva decisamente più bassa (di quasi il 5% rispetto a luglio 2021) e superiore al 36,2% dello stesso periodo del 2019. Le rinnovabili nel loro complesso toccavano il 44,3% di risposta al fabbisogno nazionale. Come sottolineato da QualEnergia, nei primi sette mesi del 2021 "il fotovoltaico ha coperto l’8,7% della domanda, mentre l’eolico il 6,6%. Insieme le due fonti, che hanno soddisfatto il 15,3% della domanda elettrica del paese, hanno generato a fine luglio 28,3 TWh, un dato che supera il precedente record di 27,9 TWh per lo stesso periodo 2020".

Questo fatto segnala un progresso certo non travolgente o sistemico, ma che sta acquisendo portata inesorabile e strutturale. Permettendo al mondo della generazione da fonti rinnovabili di emanciparsi dalla dipendenza dal ciclo di incentivi, sussidi e sostegni estemporanei e di acquisire una rilevanza sistemica. Oggi ognuno dei quasi 8mila comuni aveva in Italia un impianto a disposizione alimentato a rinnovabili, mentre nel 2010 erano solo 356 ad averne uno, mentre Legambiente ha del resto sottolineato che fotovoltaico (7.776 comuni) e impianti solari termici (7.223) sono ormai comunissimi a livello nazionale nel suo rapporto "Comunità rinnovabili". E sono già oltre 3mila i comuni in cui la produzione di energia rinnovabile supera il fabbisogno elettrico delle famiglie, permettendo la reimmissione di energia in rete, mentre in 41 essa soddisfa interamente anche quello termico.

Questo non è un risultato da poco se si pensa al fatto che le rinnovabili in Italia hanno una geografia complessa: l'eolico è diffuso soprattutto nelle isole maggiori (Sicilia e Sardegna) a cui si aggiungono Puglia, Campania e Basilicata. La Toscana, e specificatamente la zona di Siena, è la "capitale" del geotermico, mentre l'arco alpino è l'epicentro dell'idrolettrico. Più trasversale, invece, il fotovoltaico, che chiaramente nel Mezzogiorno è favorito dalla maggior durata delle giornate soleggiate.

Gse, Terna, Enel: i campioni delle rinnovabili

Una delle più importanti e meno esposte partecipate pubbliche italiane, Gestore dei servizi energetici (Gse), la società che si occupa della promozione delle fonti rinnovabili, ha segnalato nel suo resoconto delle attività del 2020 l'esistenza in Italia in Italia circa 950.000 impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, per una potenza complessiva di oltre 56 GW. Di questi impianti, quasi 936.000 sono fotovoltaici.

Gse ha favorito nel 2020 l'attivazione di nuovi investimenti, pubblici e privati, nel settore della green economy per circa 2,2 miliardi, inserendosi in una corsa allo sviluppo della crescita sostenibile del sistema-Paese che ha coinvolto i due giganti a partecipazione pubblica, Enel e Terna. Il settore dell'elettrico italiano nell'era delle rinnovabili sta vivendo il suo "momento Mattei". La fase, cioé, in cui un colosso dell'energia diventa strategico e determinante per il sistema Paese. Rafforzando la potenzialità del Paese nella generazione da rinnovabili e le reti di ultima generazione attori come Gse, Terna, Enel aprono all'Italia il ruolo di potenza della transizione energetica nell'Europa meridionale, permettono di ipotizzare connessioni con il Mediterraneo, il Nord Africa, il Medio Oriente. Mentre, sul suolo nazionale, lo spazio delle rinnovabili è oramai strutturale. E questo, senza negare che i margini di crescita esistono e vanno sfruttati, è un risultato troppo spesso sottovalutato nel dibattito.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

L’Italia e la sfida per conciliare nuove pale eoliche e antica bellezza. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2021. I piani per produrre energia pulita che mettono a rischio territori ricchi di storia e tesori. Possiamo fidarci, nel Paese delle deroghe dove un italiano su sei vive, fa le vacanze o lavora in un edificio parzialmente o totalmente abusivo, delle 33 deroghe su 67 articoli della legge che sveltisce le pratiche per avviare l’offensiva sulle energie rinnovabili? Dobbiamo. Ce lo dice l’Europa, ce lo impongono i fatti. C’è modo e modo, però: guai a coprire di pannelli fotovoltaici i colli di Leopardi, guai a tirar su nella Tuscia etrusca pale eoliche 19 metri più alte della Torre Unicredit, il più svettante grattacielo italiano. La bellezza, per l’Italia, è un bene non trattabile. Certo, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ci ha messo più volte la mano sul fuoco. Spiegando che sì, «l’obiettivo di fondo va tenuto presente ed è installare circa 70 Gigawatt di capacità rinnovabile al 2030 per tenere fede agli accordi di Parigi sul clima» ma «c’è un primo ampio margine di superfici utilizzabili che riguarda i tetti delle aree urbane e le aree industriali» e «nelle zone degradate gli impianti di energia rinnovabile possono risultare un volano per avviare progetti sostenibili di recupero». Di più: «Criteri stringenti e prioritari devono riguardare la tutela delle aree sede di beni culturali e delle aree naturali protette» e «il paesaggio naturale» con una speciale «attenzione al consumo di suolo». Parole giuste. Doverose.

Il dossier dell’Ispra

Dice un dossier dell’Ispra di un paio di mesi fa, che «nel 2020 abbiamo perso 56,7 chilometri quadrati di suoli naturali a causa di nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e infrastrutture e altre coperture artificiali, arrivando a un totale di oltre 21.000 chilometri quadrati, il 7,11% del territorio nazionale rispetto alla media Ue del 4,2%». Uno squilibrio enorme. Tanto più in un Paese come il nostro per il 35,2% montagnoso, per 41,6 collinare e solo per il 23,2 pianeggiante. Dove varie regioni si sono già divorate buona parte (il record negativo è della Liguria: il 22,8%) della superficie utile e ciò che resta, come scrive Salvatore Settis, «dovrebbe essere dedicato all’agricoltura». Di più: dice quel report Ispra che oltre alla data del 2030 c’è anche quella del 2050 fissata dalla stessa Europa (cioè da tutti noi) per «azzerare il consumo di suolo netto». Obiettivo che «si scontra con la necessità di installare nuovi impianti fotovoltaici che permettano la transizione energetica verso fonti rinnovabili. Si stima che al 2030 saranno tra 200 e 400 i chilometri quadrati di aree agricole persi per installare pannelli fotovoltaici a cui se ne aggiungerebbero 365 destinati a nuovi impianti eolici». Tema: si possono conciliare due obiettivi opposti? Sì, dice l’Ispra: «Sfruttando i tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati si stima che potrebbero essere installati pannelli per una potenza totale più che doppia» rispetto ai gigawatt fissati dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima.

Gli esempi virtuosi

Esistono, del resto, esempi virtuosi. Come quello della bresciana Val Sabbia dove i comuni un tempo uniti dalla vecchia comunità montana si unirono ad altri ancora per costruire nel 2010 (voto unanime, di destra e sinistra) un impianto fotovoltaico in una valletta isolata da risanare per la presenza di 13 capannoni coi tetti d’amianto d’un vecchio allevamento. Un decennio dopo, pagate le rate del mutuo fissate e pronti a cambiare i pannelli per raddoppiare o quasi la loro resa, i 25 comuni sono in utile per oltre un milione l’anno e ricavano dall’impianto l’energia per circa trecento uffici pubblici. Ma per puntare ad affari sempre maggiori e in assenza di piani paesaggistici regionali aggiornati che individuino le aree sensibili, piani invocati sia dal ministero per la Transizione ecologica sia dagli ambientalisti, in un caos di pareri diversi di tutte le (tante) parti in causa, sono già stati costruiti impianti da fare accapponare la pelle a quanti amano il paesaggio e il patrimonio culturale. Esempi? Le distese di pannelli fotovoltaici posati nel Salento, tra le proteste e le invettive degli ambientalisti indignati per l’abbattimento di troppi ulivi che erano la memoria del lavoro dei nonni e dei bisnonni o la spalmata di pannelli realizzata a Troia, nel Foggiano, estesi su una superficie, accusa Altreconomia, «pari a 200 campi di calcio». O ancora il progetto del parco eolico di Ploaghe, nel nordovest della Sardegna, bocciato dal Tar dopo la relazione del soprintendente di Sassari e Nuoro Bruno Billeci. Uno di quelli, par di capire, accusati da Cingolani di scrivere rapporti «incomprensibili». Che lui vuole sbloccare portando le carte (con le deroghe, ovvio) in Consiglio dei ministri. Carte dov’è scritto però che quelle 27 pale eoliche progettate a due passi dalla stupenda basilica romanico-pisana di Saccargia sarebbero alte 180 metri: tre in meno del grattacielo delle Generali a Milano, quarto edificio più alto d’Italia. E avrebbero una base di 21 metri per lato: proprio quanto è lunga la basilica stessa o se volete il triplo della torre del Big Ben di Londra.

C’è modo e modo. E luogo e luogo

Ha senso? Dicono: ma i soprintendenti sono lenti... C’è da crederci: quello di Sassari e di Nuoro, all’entrata in servizio, due anni e sei mesi fa, aveva 114 dipendenti per 165 comuni e un migliaio di chilometri di coste: ora ne ha 53. E dal 1° gennaio al 30 settembre è stato travolto da 9.043 pratiche. Isolato più di quei «pochi eroi sopraffatti dal lavoro e senza mezzi (...) assediati da orde di impresari, ingegneri, architetti, geometri e altri guastatori» di cui scriveva Indro Montanelli nel 1966. Gli stessi che, c’è da scommetterci, assediano (magari vantando il nobile intento di aiutare l’Italia con l’energia pulita) quanti si stanno occupando del progetto per tirar su accanto a Tuscania, area straricca di bellezza e archeologia, quelle sedici turbine di 250 metri di cui dicevamo, da anni denunciate da Italia Nostra. Una palizzata ciclopica. E vabbè, dirà qualcuno, da qualche parte bisognerà ben costruirli questi impianti indispensabili per il nostro futuro. Vero: da qualche parte. E lì torniamo: c’è modo e modo, c’è luogo e luogo. E se vogliamo dirla tutta c’è anche committente e committente. Perché non va bene che i progetti che incideranno sul nostro futuro paesaggistico, agricolo, culturale e anche turistico, siano presentati dalle aziende così, dove conviene: o così o così. Certe cose vanno decise insieme. E magari senza giochicchiare sull’articolo 9 della nostra Costituzione che qualcuno vorrebbe, guarda caso, «ritoccare»...

Cop26, il giorno in cui si è parlato di soldi. «La finanza privata è in prima fila». Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 3 novembre 2021. Impegno di 450 gruppi internazionali a sostenere i Paesi vulnerabili. Il ruolo dei filantropi. Ieri a Glasgow si è cominciato a vedere il colore dei soldi: e vuol essere verde. Alla Cop26 è stato il giorno della finanza: il ministro del Tesoro britannico Rishi Sunak ha promesso di fare della Gran Bretagna «il primo centro finanziario mondiale allineato alle emissioni zero». Ma soprattutto ha messo sul tavolo l’impegno di 450 gruppi basati in 45 Paesi con un obiettivo: destinare il 40% delle risorse monetarie mondiali alla lotta al riscaldamento. Lo strumento è la Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz), guidata da Mark Carney, il canadese ex governatore della Banca d’Inghilterra: nel suo arsenale ci sono oltre 100 trilioni di dollari per finanziare la transizione ecologica in tre decenni. A contribuire saranno fondi d’investimento, fondi pensione e banche, con gruppi quali Hsbc, Bank of America e Santander. «Abbiamo adesso l’attrezzatura necessaria — ha detto Carney — per spostare il cambiamento climatico dai margini all’avanguardia della finanza, così che ogni decisione finanziaria ne terrà conto». L’ex governatore sarà affiancato da Michael Bloomberg, il magnate ex sindaco di New York, alla guida dell’Alleanza. Ma la questione dei soldi rischia di inserire un ulteriore elemento di discordia alla Cop. I Paesi ricchi avevano già promesso di destinare 100 miliardi l’anno alla transizione verde nei Paesi in via di sviluppo: ora emerge che questo obiettivo verrà raggiunto solo nel 2023. E la cosa non è stata presa bene dai potenziali destinatari. È vero che il Giappone ha annunciato un ulteriore esborso di 10 miliardi in cinque anni: il che ha consentito all’inviato americano per il clima John Kerry di affermare che l’obiettivo dei cento miliardi verrà centrato già l’anno prossimo. Ma lo scetticismo non si è dissipato del tutto. In soccorso arriva la filantropia: con un’iniziativa patrocinata dall’ex premier britannico Gordon Brown, le fondazioni di beneficenza dei Rockefeller, di Jeff Bezos e di Ikea hanno promesso di riempire il buco lasciato dai governi negli aiuti ai Paesi meno sviluppati. Ma c’è di più: perché le nazioni vulnerabili vorrebbero ottenere compensazioni per la «perdita e il danno» provocati dai cambiamenti climatici. E finora soltanto la Scozia ha promesso un intervento in questo senso. È evidente che i governi non possono fare da soli: come ha sottolineato il presidente della Cop26, Alok Sharma, «i Paesi sviluppati devono scatenare i trilioni richiesti in investimenti privati per proteggere dai devastanti effetti del cambiamento climatico».

Vincenzo Borgomeo per repubblica.it il 3 novembre 2021. "Rendendo la tecnologia pulita la scelta più conveniente, accessibile e attraente, possiamo ridurre le emissioni in tutto il mondo", ha affermato Boris Johnson, primo ministro del Regno Unito, alla conferenza sul clima di Glasgow Cop26. Un appuntamento cruciale, dal quale è uscita una strategia precisa: sostenere in tutti i modi le auto elettriche. Macchine che oggi sono già più economiche da gestire rispetto a quelle che bruciano combustibili fossili e sono vicine al punto di svolta quando a breve diventano anche più economiche da acquistare. Già adesso (fonte Car Cost Index 2021 di LeasePlan) le auto elettriche nel segmento premium di medie dimensioni sono competitive in termini di costo rispetto ai veicoli con motore a combustione interna in 17 Paesi d'Europa, ma grazie alla "spinta" che potrebbero ricevere sotto forma di aiuti governativi dalla "competizione" si potrebbe passare - a breve - alla "convenienza". A essere precisi alla Cop26 non si è parlato di come realizzare tecnicamente gli incentivi per l'auto, ma dopo gli annunci sulle strategie più generali sono stati dichiarati investimenti record per spingere il "green". La sola coalizione di società finanziarie internazionali nata lo scorso aprile per affrontare il cambiamento climatico e guidata in qualità di presidente dall'ex governatore della banca centrale inglese Mark Carney, ad esempio, ha annunciato l'impegno di capitali privati impegnati fino a 130 trilioni di dollari per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero entro il 2050. Lo ha spiegato bene lo stesso Carney durante la conferenza sul clima di Glasgow e l'evento è stato l'occasione per annunciare che alla coalizione presterà il proprio supporto anche Michael Bloomberg che affiancherà Carney come co-presidente. La Glasgow Financial Alliance for net zero (Gfanz) - che è composta da oltre 450 banche, assicuratori e gestori patrimoniali in rappresentanza di 45 paesi - potrebbe fornire fino a 100 trilioni di dollari di finanziamenti per aiutare le economie a passare alla neutralità carbonica nell'arco dei prossimi tre decenni. "Ora abbiamo tutte le condizioni necessarie - ha detto Carney - per far passare il cambiamento climatico dai margini al primo piano della finanza in modo che ogni decisione finanziaria tenga conto del cambiamento climatico". Al totale degli asset della coalizione i gestori concorrono con asset per 57 trilioni di dollari, mentre altri 63 trilioni di dollari vengono dalle banche e 10 dai fondi pensione. Insomma mentre i leader mondiali annunciano un piano per rendere la tecnologia verde più economica ora ci sono davvero le risorse economiche. E se Regno Unito, Stati Uniti e Cina, tra i paesi che rappresentano i due terzi dell'economia globale, si accordano per promuovere l'energia verde e le automobili elettriche, significa che - a breve - qualcosa succederà davvero. Non solo: più di 40 nazioni hanno affermato che allineeranno gli standard e coordineranno gli investimenti per accelerare la produzione e portare avanti il "punto di svolta" in cui le tecnologie verdi diventeranno più convenienti e accessibili rispetto alle alternative a combustibili fossili. erto, non si parla solo di auto, ma i cardini di questa svolta sono cinque: elettricità pulita, veicoli elettrici, acciaio verde, idrogeno e agricoltura sostenibile. L'obiettivo è renderli accessibili e disponibili a tutte le nazioni entro il 2030 e creare 20 milioni di nuovi posti di lavoro.

Dove finiscono i soldi. Finanziare progetti per il clima è più difficile di quanto si possa immaginare. L'inkiesta il 4 Novembre 2021. I Paesi sviluppati hanno promesso 100 miliardi di dollari per aiutare gli Stati più poveri a ridurre le emissioni. Ma non è stato chiarito in modo chiaro e netto come saranno spesi questi fondi. Le parole di Narendra Modi alla Cop26 di Glasgow hanno occupato le prime pagine dei giornali in tutto il mondo. Il primo ministro indiano ha detto che il suo Paese raggiungerà il traguardo del net-zero (quindi diventerà a impatto zero) nel 2070, vent’anni più tardi rispetto agli obiettivi di Europa e Stati Uniti. La motivazione l’ha espressa in modo chiaro e diretto: i responsabili dell’attuale crisi climatica sono i Paesi più sviluppati, sono loro a doversi impegnare di più. L’onere del mondo occidentale è anche economico: la richiesta dei Paesi in via di sviluppo è un finanziamento da un trilione di dollari l’anno, cioè mille miliardi di dollari che dovrebbero finanziare progetti per la tutela ambientale e l’adattamento climatico nei loro territori. Quella cifra dovrebbe essere il prezzo di un risarcimento, ha detto il ministro dell’ambiente di Antigua e Barbuda Molwyn Joseph, che è sulla stessa linea di Modi: «Non chiediamo elemosine, chiediamo un compenso per i danni che sono conseguenza delle emissioni dei Paesi sviluppati». Proprio ad Antigua a breve inizieranno lavori per rinforzare i tetti degli ospedali e le finestre delle stazioni di polizia contro gli uragani: il cambiamento climatico rende le tempeste tropicali più intense e più devastanti, e gli abitanti dell’isola caraibica devono prepararsi in qualche modo. I fondi per questo intervento – circa 46 milioni di dollari – sono una piccola parte dei tanti investimenti globali destinati a obiettivi simili. Alla Cop26 di Glasgow i finanziamenti per il clima sono uno dei temi centrali. Ieri il Financial Times ha pubblicato un lungo articolo, scritto a quattro mani dall’inviata Leslie Hook e da Joanna S. Kao, in cui racconta le difficoltà nel dare forma e valore a questi investimenti. «Manca un vero accordo su come spendere il denaro, su chi dovrebbe riceverlo o su come assicurarsi che venga utilizzato in modo efficiente. C’è persino una disputa su come dovrebbe essere misurata l’efficacia dei progetti e cosa dovrebbe essere considerato come investimento per il clima», si legge nell’articolo. Nel 2009 le nazioni più ricche del mondo avevano promesso lo stanziamento di almeno 100 miliardi di dollari l’anno – molto meno del trilione di cui si parlava – per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi, posizionando l’asticella idealmente a 1,5 gradi. Ma l’obiettivo economico non è stato raggiunto, le promesse non sono state mantenute. Oggi la maggior parte dei leader politici sembra andare d’accordo sulla necessità di garantire maggiori investimenti per proteggere il pianeta. Ma poi manca tutto il resto.

Da Glasgow, molti Paesi sviluppati – come Italia, Giappone, Regno Unito e Danimarca – hanno già fatto sapere di voler perfezionare i loro impegni climatici. Stanno arrivando anche più finanziamenti privati. E, ancora, decine di miliardi di dollari arriveranno dalle banche multilaterali di sviluppo per permettere ad alcuni Stati di ridurre l’uso del carbone come fonte energetica. Poi emergono i problemi. «Una delle maggiori criticità riguardo l’obiettivo di 100 miliardi di dollari – spiega il Financial Times – è nel definire i progetti, chi può decidere cosa conta e cosa no». I Paesi donatori hanno usato quest’incertezza a loro vantaggio: i dati dell’Ocse rivelano che i finanziamenti per il clima hanno raggiunto solo 79,6 miliardi di dollari nel 2019; i calcoli di Oxfam suggeriscono che le cifre siano ancora più basse. I 100 miliardi di dollari fanno parte di un’eredità quasi trentennale, che risale alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992: in quell’occasione si decise che i Paesi più sviluppati – cioè quelli che producono maggiori emissioni – devono pagare per aiutare i Paesi in via di sviluppo a combattere il cambiamento climatico (condizione che poi sarebbe stata ripresa praticamente in qualunque accordo successivo). Ma non è sempre andata bene. Nel protocollo di Kyoto del 1997 è stato introdotto il Clean Development Mechanism, che ha contribuito a incanalare centinaia di milioni di dollari in progetti legati al clima nei Paesi in via di sviluppo. Solo che gli studi successivi hanno rivelato un uso distorto di questo meccanismo: «Un’analisi del 2017 dell’Unione europea ha rilevato che l’85% dei progetti del Clean Development Mechanism non ha avuto l’impatto previsto sulle emissioni», scrive il Financial Times. E quando i progetti sul clima vanno male è uno spreco di denaro, ma anche un problema per il pianeta. Allora per l’obiettivo di 100 miliardi di dollari si è adottato un approccio leggermente diverso: i finanziamenti vengono incanalati attraverso i programmi di aiuto già esistenti e attraverso gli istituti finanziari dedicati all’aiuto dei Paesi più poveri. L’Onu ha anche istituito un fondo per migliorare la distribuzione dei 100 miliardi di dollari. Il Green Climate Fund è diventato il più grande fondo mondiale pensato ad hoc per il clima, e ha raccolto circa 18 miliardi dal 2010. Ma neanche questo è riuscito a risolvere tutti gli intoppi. In generale, fa notare il Financial Times, gli investimenti destinati alla tutela ambientale sono soggetti a sprechi, corruzione e inefficienza – problemi che, tra l’altro, riguardano tutti i fondi destinati allo sviluppo dei Paesi in difficoltà. Un’altra criticità è dover dimostrare la validità dei progetti che dovrebbero ottenere i fondi: «Le persone che lavorano nel settore – si legge sul quotidiano britannico – sostengono che i progetti devono essere “trasformativi” e innescare cambiamenti sistemici, e che non ci si può limitare a costruire edifici e ponti». Ma sono risultati difficili da misurare, è evidente che tutte quelle stime siano soggette alla volatilità delle previsioni: se si investono 10 milioni di dollari in una rete di autobus più efficiente in una qualsiasi capitale mondiale, come fanno gli scienziati a misurare il risparmio/taglio in termini di emissioni? Non è un caso che nessuno abbia mai misurato l’impatto reale di tutti gli investimenti per il clima fatti negli ultimi anni. Alla Cop26 si sta discutendo anche di come valorizzare i futuri investimenti – provenienti da tutte le fonti possibili – destinati a progetti di riduzione delle emissioni. «Una nuova ondata di denaro sta iniziando a muoversi verso nuove proposte per il clima, e crescono gli investimenti privati: ad esempio c’è un fondo di BlackRock da 600 milioni di dollari per il clima», scrive il Financial Times. Ci sono molti progetti che saranno argomento di discussione a Glasgow. Ma i Paesi in via di sviluppo hanno già lanciato l’avvertimento: potrebbe essere troppo poco, potrebbe essere troppo tardi. In Scozia, nei prossimi giorni, inizieranno i negoziati su come fissare un nuovo obiettivo di finanziamento del clima più ampio per il 2025, anche prima di aver raggiunto i 100 miliardi di dollari. «Dal momento che si tratta di una questione politica» – conclude il Financial Times – «questo grande investimento sarà oggetto di accesi dibattiti. Anche se ci sono dubbi sul fatto che il denaro possa essere speso in modo efficace, e su come dovrebbe essere distribuito, i politici e gli attivisti per il clima ammettono che nessuno ha ancora trovato una soluzione migliore. Per quanto imperfetto, questi fondi sono una parte centrale della lotta al cambiamento climatico, e anche la più difficile da risolvere».

Energie rinnovabili, perché l’Italia è così indietro. Tutti gli ostacoli agli impianti. Milena Gabanelli e Fabio Savelli su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2021. Brindisi 2021: un’area inquinata da polveri di amianto,  da bonificare da 5 anni, e da riconvertire. Arrivano finanziamenti privati per installare sul terreno pannelli solari, ma la Provincia si oppone: «Non si può fare perché il terreno è di pregio» e fa ricorso al Tar, che le dà ragione. Della bonifica di cui sopra si sono tutti dimenticati. Prodigi di un Paese sommerso da una lunga fila di autorizzazioni e dove vengono interrogati tanti enti, anche per produrre energia da fonti rinnovabili su cui siamo tutti d’accordo. A parole.

Gli impianti fermi da anni

Entro il 2030 dobbiamo realizzare 70 gigawatt da fonti rinnovabili. Oggi ne facciamo meno di un gigawatt all’anno (0,8 Gw), nonostante le richieste di connessione a Terna siano per 146 gigawatt, più del doppio di quelle che dobbiamo fare. Al netto di quelle che già in partenza non hanno i requisiti, perché si produce così poco? Partiamo dalle autorizzazioni. Per approvare un parco eolico o fotovoltaico servono cinque passaggi autorizzativi: 1) Via Ministero ambiente; 2) Via regionale; 3) Conferenza dei servizi; 4) Autorizzazione per l’impianto specifico; 5) Licenza di officina elettrica. E poi altri sei per connetterlo alla rete di Terna. Tempo: sei, sette anni. Quando va tutto bene. Perché Regioni, Comuni, Province spesso bloccano i progetti non graditi ai loro cittadini. Solo in Puglia 396 impianti piccoli e grandi sono fermi da 8 anni. Nel Lazio 126, per 2,2 miliardi di investimenti tra Viterbo e Latina, sono stati fermati dal Ministero della Cultura.  Ma la Regione ha appena deciso di metterci del suo con il completo blocco ai nuovi impianti in attesa di una riorganizzazione delle aree su cui installarli. Una moratoria che è stata già bocciata dal Consiglio dei ministri, che l’ha rimandata alla Consulta perché lederebbe il principio di leale collaborazione Stato-Regione. 

Lo Stato contro se stesso

Quando non c’è accordo, chi deve decidere è Palazzo Chigi. Sul suo tavolo ci sono oggi 40 progetti per 6 gigawatt, autorizzati dal Ministero dell’Ambiente e bloccati dal Ministero della Cultura. Quali siano e perché non è dato sapere: «Si tratta di informazione sensibile» dice la portavoce. Chiedere quali sono i criteri di valutazione delle Sovrintendenze è esercizio vano. C’è una griglia tecnica, osservano dal dicastero guidato da Dario Franceschini, ma alla richiesta di indicazioni sulle variabili prese in considerazione la risposta è sempre la stessa: «Dipende».

Alzare una pala eolica può complicare il volo degli uccelli, o deturpare la vista dei nuraghi, come è successo in provincia di Sassari, dove è sfumato l’investimento da 130 milioni della Erg

La stella polare dovrebbe essere la direttiva europea sul paesaggio. Ma il paesaggio è un concetto filosofico: con buona approssimazione potremmo definirlo come la sintesi dell’interazione tra uomo e ambiente. Se ci sono progetti che vanno a impattare sulla vista da diverse alture, si segnala dunque la sua trasformazione, e il voto è negativo. 

Le aree vincolate e la discrezionalità

Si aggiungono le aree vincolate, dove non si può far nulla, e nessuno pensa di metterci il becco, anche quando la ricognizione è datata. Per questo è stata prevista una Sovrintendenza speciale con una segreteria tecnica di 35 esperti: archeologici, avvocati, ingegneri. Prenderanno servizio da novembre, con il compito di valutare dove mantenere il vincolo e dove rimuoverlo, anche in considerazione del fatto che questi impianti non sono permanenti, come può esserlo una cava. Bisogna poi fare i conti con i territori e la pressione del consenso, che determina un innesco di relazioni, voti, dunque poteri ostativi. Difficile per un sindaco o un presidente di Regione rivincere le elezioni se approvi progetti che i cittadini non vogliono. Eppure, dovrebbero contare solo i requisiti che la natura impone: le mappe dei venti, l’irraggiamento solare, oppure la densità dei pannelli installati in una determinata zona. 

Lo spreco a norma di legge

Un altro ostacolo che scoraggia gli investimenti è il divieto di accumulo: la legge impedisce al distributore di energia di stoccare quella prodotta da fonti rinnovabili. Vuol dire che quando c’è molto vento e produci più energia di quella che ti serve, quella in eccesso la butti via, causando da una parte un mancato ritorno sull’investimento, e dall’altra una riduzione della quantità di energia disponibile. Le conseguenze sono due: 1) una scarsa partecipazione alle aste bandite da Terna per i grandi impianti, tant’è che nel 2019 i primi tre bandi sono andati deserti, e si è dovuti arrivare al quarto per raggiungere una presenza del 24%. In più con le norme attuali vengono ammessi a gara solo gli impianti da realizzare su terreni fortemente degradati. 2) Aumenti dei prezzi medi di assegnazione: l’eolico è passato da 57 euro a megawattora a 68. Alla fine la ricaduta di una programmazione non definita si scarica sulla bolletta. Già da ora il costo delle rinnovabili è più vantaggioso delle altre fonti di produzione di energia elettrica: 45-50 euro a megawattora con il solare, 50-60 con l’eolico, contro il picco dei 140-145 del gas. Mentre non si riesce ad aggiudicare le aste e si butta via l’energia che non è possibile stoccare, il costo del metano che importiamo soprattutto da Russia e Stati Uniti ci ha costretti a mettere due miliardi in manovra per ridurre le spese a famiglie e imprese. 

Eolico in mare

Le esperienze del nord Europa stanno spingendo le piattaforme off shore. Al largo delle coste di Puglia, Sicilia e Sardegna, sono state fatte richieste per 17 gigawatt. Ma tutto è sospeso in una lunga catena di punti interrogativi. Gli impianti si faranno solo se Terna costruisce gli elettrodotti che collegano le pale alla terraferma, e Terna i soldi li investe solo se è sicura che gli impianti poi si faranno. Una garanzia che nessuno è in grado di dare poiché gli enti locali spesso si mettono di traverso dicendo: «Per il nostro fabbisogno non servono grandi impianti». Tutte queste incertezze spiegano perché in tanti fanno richiesta, ma quando anni dopo arriva l’ok, in pochi investono. Infatti nel 2020 è stato installato l’1,3% delle domande di autorizzazione partite nel 2014. Nonostante il piano da 18 miliardi in 10 anni appena annunciato da Terna, non è così facile mettere a fattore comune gli investimenti dei privati con le grandi dorsali elettriche del Paese. Di tempo però ce n’è poco, e se passa in discussioni, i 5,9 miliardi del Pnrr previsti per le energie rinnovabili (soldi per la gran parte prestati), o tornano indietro, o rischiamo di dilapidarli producendo futuro debito. 

Cosa cambia d’ora in poi?

Il ministro per la Transizione Ecologica Cingolani ha dato alle Regioni sei mesi di tempo per individuare le aree idonee dove mettere gli impianti. Dovranno correre perché la gran parte ha normative ferme ai primi anni Duemila senza aver censito alcunché. Ma quali caratteristiche devono avere? Vanno individuate fra le aree già sfruttate ma deteriorate, nei siti industriali abbandonati, fra i terreni classificati come agricoli ma abbandonati. Uno studio del Politecnico stima che l’installazione di 30 gigawatt da fonti rinnovabili tramite impianti di grande taglia richiederebbe l’uso di 460 chilometri quadrati di territorio, che corrispondono a meno del 4% delle aree agricole inutilizzate. 

Bisognerà vigilare con attenzione, perché gli speculatori sono già in pista: se sai in anticipo quali sono i terreni che finiranno in elenco, li compri a poco e poi li rivendi a tanto all’operatore che ci costruirà un impianto. Sul fronte delle autorizzazioni, con il Decreto Semplificazioni sono più veloci; con il Pnrr invece, è stata introdotta una «corsia preferenziale» per le opere che contiene, semplificando tutte le procedure. I tempi quindi «dovrebbero» passare dai 6 anni di oggi a 260 giorni. Nulla però impedirà al Ministero della Cultura di dire «qui no». O ad un ente locale di dire «no». Perché tutti vogliono un mondo più ecologico, ma non sotto casa.

Monica Perosino per "La Stampa" il 22 ottobre 2021. L'imminente Cop26, la conferenza sul clima «più importante di sempre», descritta come «l'ultima grande possibilità per il pianeta», pare condannata al fallimento prima ancora di cominciare. Come se non bastassero le defezioni di Cina e Russia, che non saranno a Glasgow, viene fuori che alcuni dei Paesi produttori di carbone, petrolio e carne bovina stanno tentando di "annacquare" il prossimo rapporto sul clima dell'International Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite, in modo da eliminare le informazioni e le conclusioni più scomode, quelle che potrebbero minacciare gli interessi di alcune grandi aziende. Una lobby, insomma, che preme per bloccare gli accordi destinati a essere messi nero su bianco a conclusione del vertice in Scozia. Arabia Saudita, Giappone e Australia, ad esempio, sono tra i Paesi che "chiedono" alle Nazioni Unite di minimizzare la necessità di abbandonare rapidamente i combustibili fossili. Un consigliere del ministero del petrolio saudita suggerisce che «frasi come "il bisogno di azioni urgenti e rapide per mitigare a tutti i livelli..." dovrebbero essere eliminate dal rapporto.

L'inchiesta di Greenpeace

L'esistenza della lobby è stata svelata da un'inchiesta realizzata da Unearthed, il team di giornalisti investigativi creato da Greenpeace Uk, a pochi giorni dall'inizio del cruciale vertice sul clima Cop26, che chiede al mondo di assumere impegni significativi per rallentare il cambiamento climatico e mantenere il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Molti di quegli stessi Paesi che presenzieranno alla conferenza di Glasgow armati - a parole - dalle migliori intenzioni, stanno invece lavorando dietro le quinte per continuare a non agire, in nome del profitto. L'inchiesta si è basata su oltre 32.000 documenti e osservazioni presentati da governi, aziende e altre parti interessate, al team di scienziati delle Nazioni Unite a proposito delle bozze del prossimo rapporto Ipcc. Questi rapporti sono prodotti circa ogni sei anni dall'organismo delle Nazioni Unite incaricato di valutare il cambiamento climatico e vengono utilizzati dai governi per decidere quale azione è necessaria per affrontare il cambiamento climatico. E tutti sanno che il prossimo rapporto sarà cruciale per i negoziati alla conferenza di Glasgow. Da qui le pressioni di diversi Paesi che, ad esempio, vogliono far passare l'idea che «il mondo non ha bisogno di ridurre l'uso di combustibili fossili così rapidamente come raccomanda l'attuale bozza».

Carbone, petrolio e gas

Secondo l'inchiesta, alcuni Paesi (tra cui Brasile, Argentina, Australia, Giappone, Arabia Saudita e gli Stati membri dell'Opec) stanno facendo pressioni per eliminare o indebolire la parte conclusiva del rapporto, che afferma che dovremmo rapidamente cessare l'estrazione di fonti fossili come carbone, petrolio e gas fossile. Un alto funzionario del governo australiano nega in una nota che sia necessaria la chiusura delle centrali a carbone, anche se porre fine all'uso del carbone è uno degli obiettivi dichiarati dalla conferenza Cop26. Ma l'Australia è uno dei maggiori esportatori di carbone, quindi nessuna sorpresa. Uno scienziato dell'India's Central Institute of Mining and Fuel Research, molto vicino al governo indiano, avverte che il carbone rimarrà probabilmente il «pilastro della produzione di energia per decenni». L'India è il secondo consumatore mondiale di carbone. E poi, perché dire alla gente cosa mangiare? Brasile e Argentina - tra i maggiori produttori di carne e mangimi - vogliono cancellare i passaggi della bozza dove si evidenziano i benefici della riduzione del consumo di carne, che abbatterebbe del 50% le emissioni di gas serra. 

Paesi poveri e nucleare

Un numero significativo di commenti dagli esperti e dai funzionari della Svizzera - rifugio d'incalcolabili patrimoni bancari globali - è diretto a modificare parti del rapporto secondo cui i Paesi in via di sviluppo avranno bisogno del sostegno finanziario dei Paesi ricchi per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni, mentre la Repubblica ceca, la Polonia e la Slovacchia sostengono che la bozza del rapporto dovrebbe essere più positiva sul ruolo che l'energia nucleare può svolgere nel raggiungimento degli obiettivi climatici. L'India va anche oltre, sostenendo che «quasi tutti i capitoli contengono un pregiudizio contro l'energia nucleare», una «tecnologia consolidata con un buon sostegno politico tranne che in alcuni Paesi». In questo quadro pieno di ombre, le defezioni dei grandi inquinatori globali non sembrano essere i soli ostacoli a una Conferenza che parte decisamente in salita. 

Quanto petrolio, gas naturale e carbone bisogna lasciare sotto terra. Matteo Grittani su La Repubblica il 15 ottobre 2021. Gli scienziati della Ucl di Londra hanno stabilito che per limitare a 1,5 °C  l'aumento delle temperature dovremmo rinunciare al 90% delle riserve di carbone e a circa il 60% di quelle di petrolio e gas naturale entro il 2050. Mantenere il riscaldamento climatico sotto 1,5 °C, soglia fissata dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) per evitare guai peggiori e irreversibili al sistema climatico, alla biosfera e ai suoi abitanti. Per riuscirci, la produzione di petrolio e gas naturale dovrebbe rallentare del 3% ogni anno fino a metà secolo: un ritmo mai raggiunto nella storia, se non nel fatidico 2020, quando il mondo si è spento per alcuni mesi a causa della pandemia. Sono i risultati del primo studio che stima con precisione la quantità di combustibili fossili da lasciare intatta nelle loro riserve per realizzare gli obiettivi dell'Accordo di Parigi. Lo ha pubblicato su Nature un gruppo di ricerca del prestigioso Institute for Sustainable Resources della University College London (UCL). I numeri che emergono ci restituiscono forse l'immagine più concreta di come sarà la transizione ecologica; o meglio di come dovrebbe essere, fisicamente parlando. "Circa il 60% delle riserve di petrolio e gas naturale e quasi il 90% di quelle di carbone dovrebbero rimanere sottoterra, nelle miniere e nei pozzi", si legge nelle conclusioni della pubblicazione.

Bruciando fossili sforiamo il "carbon budget"

Partiamo da un dato: il dominio delle fossili sul sistema energetico globale, che continuano ad alimentare il nostro Pianeta senza grandi cambiamenti da decenni. Basti pensare che l'84,3% del consumo di energia primaria globale è soddisfatto oggi da gas, carbone e petrolio; nel 2000 era l'86,1%. In altre parole, negli ultimi 21 anni solo una minima quota di fossili ha lasciato posto alle rinnovabili nel mix energetico. Ma nel 2015, con Cop21, 196 paesi hanno firmato l'Accordo di Parigi che si pone come obiettivo di mantenere l'aumento di temperatura globale ben al di sotto dei 2 °C, possibilmente 1,5 °C. "Da allora - spiega Daniel Welsby, economista ambientale alla Ucl e lead-author del lavoro - la scienza ha dimostrato senza alcun dubbio che occorre tagliare immediatamente la produzione e il consumo di combustibili fossili per portarci verso emissioni nette zero entro metà secolo". Tutto ruota attorno al "carbon budget", ovvero la quantità di CO2 che le attività antropiche potranno ancora emettere prima che la temperatura globale aumenti di 1,5 °C a causa dell'effetto serra; il concetto è semplice: meno combustibili fossili bruciamo, meno CO2 generiamo e più probabile sarà rimanere sotto quella soglia "di sicurezza". 

Che significa in concreto?

"Il 58% del petrolio - scrivono Welsby e colleghi - il 59% del metano fossile e l'89% del carbone presenti oggi nelle riserve" sarebbero da considerare "inestraibili" e da lasciare quindi nei loro giacimenti. Insomma, dopo vari decenni di crescita, il ritmo di estrazione dovrà calare per poi diminuire rapidamente. È il cosiddetto "picco di estrazione", e secondo Welsby e gran parte della comunità scientifica internazionale dovrebbe avvenire il prima possibile. "Ma ciò che osserviamo oggi non sembra andare in questa direzione", nota l'esperto. Ai ritmi attuali, infatti, entro il 2030 produrremo combustibili fossili a ritmi del 120% più elevati rispetto al preventivato a Parigi sei anni fa.

La strada verso +1,5 °C

"È vero: i tagli necessari non hanno precedenti, ma, ammesso che ci sia la volontà politica di farlo, sono assolutamente realizzabili", prosegue. Quali sono? Secondo i modelli, per le economie più dipendenti dai combustibili fossili, come quelle del Medio Oriente, i livelli di produzione dovrebbero dimezzarsi nel giro di 30 anni; il che significherebbe lasciare nei giacimenti circa il 60% di petrolio e gas della zona. Il taglio della produzione non risparmierebbe il continente americano, con il Canada che dovrebbe rinunciare a estrarre l'83% delle sabbie bituminose, mentre il 73% di oli e scisti ultrapesanti in Centro e Sud America rimarrebbero nei pozzi. "Queste differenze regionali nella proporzione dei combustibili fossili da non estrarre - chiarisce Welsby - sono dovute a una combinazione di fattori come i costi di estrazione, l'intensità carbonica di estrazione (quanta CO2 viene emessa per estrarre ogni singolo barile di petrolio ndr) e la convenienza economica locale delle alternative alle fossili". Un altro aspetto sottolineato dai ricercatori è la grande incertezza - già messa nero su bianco da Ipcc - riguardo allo sviluppo e all'affidabilità della Carbon Capture and Sequestration (Ccs) e delle cosiddette Negative Emissions Technologies (Nets), visto che ad oggi non se n'è dimostrata l'efficacia, la convenienza economica e soprattutto la fattibilità su larga scala. In sostanza, continuare a estrarre e bruciare combustibili fossili per poi catturare anidride carbonica quando la si emette, oppure dopo che è stata liberata in atmosfera, non sarebbe la soluzione. La tesi è al contrario che i veri protagonisti della mitigazione del climate change dovrebbero essere i governi e i policymakers, con politiche non solo mirate a ridurre la domanda dell'energia fossile, ma soprattutto a disincentivarne le attività di produzione. "Gli investitori, i grandi fondi e gli operatori internazionali - conclude Welsby - dovranno metabolizzare che il finanziamento di ulteriori progetti di estrazione non è più climaticamente compatibile". In altre parole, la grande transizione energetica che ci aspetta porta senza dubbio con sé dei rischi, ma dovrà essere concreta per funzionare davvero.

Greta Thunberg e compagni svuotano le nostre tasche: ecco perché è sbagliato inginocchiarsi ai "verdi". Renato Farina su Libero Quotidiano l'1 ottobre 2021. Sarà "un bagno di sangue". Non si sa se il salto riuscirà, e se davvero atterreremo in un mondo meraviglioso smaltato di fiorellini, come dice la propaganda. L'unica faccenda sicura è che il Green Deal, il Patto Verde europeo, in cui noi italiani siamo dentro fino al collo, lascerà sul selciato della disoccupazione milioni di disperati. La frase "bagno di sangue" l'ha pronunciata il ministro Stefano Cingolani. Il quale si batte per una "transizione ecologica" (così si chiama il suo ministero) che limiti i danni, consenta di far attraversare il limaccioso fiume della storia senza troppi annegati nella disperazione. Ha proposto il nucleare, che è - con le nuove piccole centrali americane e con quelle sotterranee - il metodo più economico, sicuro e pulito per produrre energia. Niente da fare. Vince la mitologia. E neanche lo scienziato al governo ci può far nulla. Lui e lo stesso Draghi si sono dovuti inchinare al teatro delle marionette allestito a Milano e denominato Youth4Climate, con 400 giovani certo bene intenzionati, ma che non sanno quello che fanno, almeno si spera. Oggi bloccheranno la metropoli lombarda con l'ormai tradizionale sciopero climatico del venerdì (Fridays for future) inventato tre anni fa a Stoccolma. Qualcuno ricorda? Era stata Greta Thunberg, allora quindicenne, a inaugurare queste faccende. Sarà lei a guidare la manifestazione. La poveretta però è già diventata un cavallo vecchio. Non si sa se gliel'hanno detto, o ha capito da sola che la sua epoca è finita. Adesso infatti agita la criniera vincente, bella e commossa, scolpita nel fuoco africano, Vanessa Nakate, 24 anni, ugandese. Greta è apparsa in confronto alla star ascendente come la marionetta di ghiaccio che ha perso le trecce. E i 400 giovani delegati, ma soprattutto il sistema mediatico-finanziario che li nutre, ha deciso che la piccola vikinga va sistemata con un certo decoro nel ripostiglio del burattinaio. È matura per un Nobel, dopo di che darà interviste in qualche fattoria artica. Ciao Greta. Certo ci vorrà qualche tempo ad aggiornare ufficialmente le precedenze della nomenclatura green. Per questo prima Cingolani, ministro e poi, giusto ieri, Mario Draghi non hanno fatto in tempo a registrare il cambio, adeguando il protocollo al ranking, e così si sono rivolti anzitutto a lei come alla Regina, ma è stata una specie di cerimonia dell'addio, non per loro ma per la ragazza svedese scivolata nell'autunno della matriarca.

SOSTITUZIONE

I padroni della scuderia ipertecnologica, così gentili e così miliardari, hanno scoperto difetti inescusabili. Greta è inattuale. Bianca. Troppo apocalittica. Esageratamente pessimista. Questo linguaggio è stato perfetto per spaventare e vincere. Oggi occorre passare dalla fase del terrore climatico all'applauso per affrettare l'applicazione dei decreti attuativi del sacrificio umano di milioni di europei che perderanno il lavoro in nome della salvezza dell'ecosistema globale. Si tratta oggi di occultare, con dolcezza determinata, la visione di quanto costerà (oltre alla bolletta di luce e gas insostenibile per la gente comune, in nome della sostenibilità futura) la rivoluzione madornale che accadrà fregandosene delle conseguenze sociali, perché - come già predicavano Lenin e Stalin - conta solo l'avvenire. Greta non va più bene. Appartiene ai popoli del primo mondo, colonizzatore e capitalista, è stata seduta sul burro dei ricchi. Era il 2019 quando giunse all'apogeo della sua orbita galattica, con il viaggio su una barca a vela di ricconi per parlare all'Onu. Un millennio fa. A metterla fuori corso sono stati 1) Il movimento "Black Lives Matter", tutti in ginocchio. Lei ci si è buttata. Non è bastato. Occorreva una nuova icona nera; 2) Il clamoroso spostamento dell'Europa, favorito paradossalmente dal Covid, che ha accettato in pieno i dogmi dei poteri finanziari che si sono avvolti nel mito della purezza per lucrare profitti e potere. 

BASTA CARBONE

Basta carbone, fine del C02, buttiamo via tutto, cambiamo la struttura intima dei macchinari, dei cibi, gli oggetti domestici, tutto. Questa ragazzetta svedese è stata piazzata sul palcoscenico della coscienza collettiva condizionando le scelte politiche dell'Occidente, e in particolare di Bruxelles. Le multinazionali ipertecnologiche, adesso che hanno ottenuto lo spostamento clamoroso delle risorse finanziarie e delle facilitazioni fiscali dell'Unione Europea sulloro progetto di economia green, riuscendo già a piazzarci sopra le loro zampe, dopo aver inquinato il pianeta puntano a gettare il loro magico mantello sull'Africa. Per questo hanno eletto la nuova regina Vanessa. Ora si tratta di spostare la guerra ecologica verso i Paesi che non hanno alcuna intenzione di adeguarsi agli standard imposti dalle élite bianche e ricche. Si tratta di far digerire in Europa i costi sociali di un cambiamento troppo precipitoso, elargendo fiducia (come ha fatto ieri sul Corriere la Nakate), e creare il nuovo mito di Vanessa come profeta di un nuovo sviluppo. Vedrete, si passerà alla fase del contenimento demografico, l'ecologia umana della contraccezione e dell'aborto selettivo come motore di civiltà da sempre promossa da quegli stessi apparati finanziari e culturali che hanno creato il mito di Greta. E ora la fanno scendere dal pulpito. Povera Thunberg. È in corso di mummificazione come il giovane Tutankamon d'Egitto. Defenestrata non per quel che appare evidente a chiunque ne abbia sentito i discorsi, fatti di pura astrazione emotiva, ma perché è una bambola che non va più bene per il nuovo gioco. Ovvio: il Green Deal europeo è a questo punto ineluttabile. Trilioni di dollari e di euro ne gonfiano ineluttabilmente le vele verso dove non si sa bene. Che la politica, dopo essersi inchinata a Greta e a Vanessa, cerchi almeno di difendere la povera gente perché non ne sia travolta.

Il Piano italiano approvato dall’Europa. Transizione verde, impossibile senza dialogo. Massimiliano Iervolino su Il Riformista il 30 Settembre 2021. Si fa un gran parlare di transizione ecologica, soprattutto in Italia. Dal nucleare al gas, passando per le fonti rinnovabili ai sistemi di cattura dell’anidride carbonica, fino alle accuse trasversali di chi si sente più ambientalista degli altri. Che piaccia o meno, l’Italia ha un Piano approvato dall’Europa e finanziato fino al 2026. La sua attuazione è tutt’altro che scontata soprattutto per due ordini di motivi: la burocrazia e il rapporto tra cittadino e istituzioni. Il Piano italiano prevede la costruzione di numerosi impianti fotovoltaici, eolici, per la gestione dei rifiuti e la depurazione delle acque. La questione burocratica è centrale: bisogna coniugare le giuste richieste degli imprenditori di avere norme chiare per tempi certi e brevi, ai rischi denunciati dalla Dia di infiltrazioni della criminalità organizzata interessata ai miliardi che arrivano dall’Europa. Così come è centrale la questione democratica: senza un nuovo patto tra cittadini ed istituzioni il Pnrr è a rischio. Questo ultimo importante punto viene costantemente dimenticato da chi chiede la transizione ecologica. Entro il 2030 dobbiamo costruire impianti rinnovabili per un ammontare totale di 70 GW, diminuire il deficit impiantistico delle regioni del centro Sud per la gestione dei rifiuti e ammodernare ovvero realizzare i depuratori necessari a circa il 30% dei comuni italiani sotto procedura di infrazione. Ecco, se non facciamo tutto questo diventa difficile per il nostro Paese rispettare gli accordi di Parigi. Si pensi solo che dietro alla voce rinnovabili passa la mobilità elettrica, la riconversione delle industrie hard to abate come l’ex-Ilva di Taranto e la produzione di idrogeno verde. Si pensi poi all’importanza che riveste la costruzione di impianti per la gestione dei rifiuti e delle acque reflue. A oggi, nel silenzio generale, paghiamo la loro inadeguatezza con sanzioni europee che ammontano a centinaia di milioni di euro. Qui il nodo tra danno ambientale e danno economico è palese. Senza gli impianti non esiste transizione ecologica. È questo il punto. Nell’intervista all’Espresso il ministro Cingolani dice: «La sindrome Nimby a mio parere ha una sola ragione per esistere: la ripetuta disonestà che i cittadini hanno visto negli ultimi decenni, tanto da sviluppare una sfiducia a priori nei confronti delle istituzioni». Questa sfiducia dei cittadini verso la politica viene da lontano. In campo ambientale lo shock c’è stato tra gli anni novanta e duemila con la crisi dei rifiuti in Campania. Da quel momento in poi nulla è stato come prima. Oggi, proprio nel settore dei rifiuti, siamo arrivati al paradosso che si contestano addirittura le costruzioni di impianti di compostaggio. Una follia. Ebbene, per questo bisogna ripartire dalla questione democrazia e dal rapporto territorio/istituzioni. Senza un reale coinvolgimento dei cittadini e senza una totale trasparenza delle istituzioni, qualsiasi installazione impiantistica verrà contestata e bloccata. Così addio alla transizione ecologica e conseguentemente ai fondi europei del Pnrr. Il rischio è elevatissimo, per evitarlo c’è bisogno di essere credibili. Bisogna iniziare a parlarne e a trovare le giuste soluzioni. Radicali italiani la vive come un’urgenza, gli altri? Massimiliano Iervolino

Bollette più care, colpa dell’energia verde. Una bella idea che arricchisce le multinazionali. Vittoria Belmonte lunedì 20 Settembre il 20 settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Si avvicina la data, 1 ottobre, dei rincari delle bollette di gas e luce che preoccupano il governo e le famiglie. Ieri il ministro Giancarlo Giorgetti ha sottolineato che la «transizione ambientale ha ed avrà un prezzo». E ha fatto riferimento al pacchetto per le politiche ambientali che l’Europa si appresta a approvare. L’aumento è dovuto in larga parte alla fluttuazione del prezzo del gas ma per un 20% il responsabile dei rincari è il sistema Ets istituito dall’Ue. Il sistema assegna ogni anno delle quote di emissioni di CO2 alle aziende. Superato questo tetto le imprese devono acquistare da altre aziende più pulite quote di CO2 per evitare di incorrere in sanzioni. Più la richiesta di “quote pulite” aumenta – per effetto di direttive europee più stringenti sulle emissioni – più il loro prezzo sale. Oggi Libero, con un articolo di Sandro Iacometti, si domanda se la transizione verde non sia una fregatura per i risparmiatori. Ma soprattutto accusa: “Chi sta veramente facendo affari d’oro con la moda del green sono i colossi mondiali della finanza e le grandi multinazionali, che negli ultimi anni hanno inondato il pianeta di prodotti di investimento verdi e moltiplicato alla velocità della luce il valore delle loro azioni, facendo pensare a più di un esperto che ci siano tutte le caratteristiche per parlare di una nuova bolla, come quella che tra il ’97 e il 2000 delle cosiddette dot-com, le società legate alla prima fase dello sviluppo di internet”. Non solo. La scorsa primavera – ricorda Libero – “l’indice S&P Global Clean Energy, che replica il prezzo delle azioni di 30 multinazionali attive nell’energia rinnovabile era schizzato in dodici mesi del 150%. Ora l’incremento si è affievolito, ma è sempre vicino al 40%. E gli analisti continuano a ritenere che i prezzi di Borsa siano totalmente disallineati rispetto al valore degli utili. Un sospetto confermato anche da un’analisi del Financial Times che ha calcolato tra l’ottobre 2020 e il marzo 2021 un livello di investimenti sul settore dell’energia pulita pari a 14 miliardi di dollari rispetto agli 1,3 miliardi registrati nello stesso periodo degli anni precedenti. Montagne di denaro che difficilmente riusciranno a fare la differenza nella lotta al clima”. L’Europa applicherà il principio che “chi inquina, paga” e per metterlo in pratica la Commissione espanderà il meccanismo Ets, introdotto nel 2005 e che da alcuni anni sta dando risultati: il costo delle emissioni di CO2 è aumentato e le imprese hanno iniziato investire per rinverdire i loro impianti. A pagare saranno appunto i consumatori. Le proposte della Commissione sulla transizione verde avranno anche costi sociali per ché le aziende che non riusciranno ad adeguarsi chiuderanno. Il Foglio ha pubblicato giorni fa il parere della società di consulenza strategica Bain&Co: “La transizione verso un’economia a emissioni zero nel 2050 può richiedere investimenti in Italia per 3 mila miliardi di euro”. Una cifra ben lontana cioè dai 200 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che servirà per raggiungere gli obiettivi fissati da Bruxelles. 

“La guerra dell’energia”: tutto quello che Greta Thunberg non racconterà. Redazione martedì 21 Aprile il 20 settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. È uscito il nuovo libro di Gian Piero Joime dal titolo La guerra dell’energia – Tutto ciò che Greta Thumberg non ti racconterà edito da Altaforte edizioni (321 pagine, 20€). Come intuibile dal titolo, volutamente forte e diretto, il lavoro si occupa di analizzare la questione energetica. E non solo a livello nazionale ma anche a livello globale. Analizzandone luci ed ombre ed evidenziando i nuovi rapporti di forza legati alla questione energetica e il ruolo del bel Paese. A livello globale, sostiene Joime, si prospettano nuove dinamiche nel panorama energetico e nella sua principale dicotomia, le fonti fossili e le fonti rinnovabili, entrambe alle prese a loro volta con le diverse fonti di approvvigionamento, vuoi il rapporto petrolio-gas, vuoi il rapporto solare-idroelettrico-eolico. La questione energetica è protagonista a livello geopolitico, in quanto la detenzione dell’energia e il suo export sono direttamente proporzionali al peso politico di una nazione e al controllo sullo sviluppo mondiale. L’autore si caratterizza sin dalle prime pagine per il suo approccio pragmatico e realista piuttosto che per ideologia verde, mettendo in evidenza come sarebbe di interesse nazionale favorire lo sviluppo del mix energetico che causerebbe inevitabilmente un mutamento di potere, economico e politico, nei confronti dei Paesi dai quali compriamo energia, quali petrolio e gas. Per il caso italiano, maggiore percentuale di energia autoprodotta da fonti rinnovabili equivarrebbe a minor importazione di energia e quindi ad un minore costo politico da pagare. Tuttavia l’autore auspica che il rinnovabile sia, almeno nella fase della così detta transizione energetica, integrativo dell’offerta, comprendendo bene il ruolo che hanno ancora le fonti fossili nel panorama energetico globale e portando come esempio le grandi potenze mondiali, le quali hanno un mix di approvvigionamento energetico che va dal carbone al rinnovabile passando per il nucleare, diversificando quindi la produzione. La transizione energetica tuttavia non riguarda solo l’energia intesa come illuminazione o riscaldamento di abitazioni, uffici o industrie. Una parte centrale lo riveste il settore della mobilità che si deve necessariamente adeguare ad un modello sostenibile sia del veicolo sia della filiera produttiva, della ricerca e dello sviluppo per quanto riguarda le nuove tecnologie ed i componenti ad alto valore aggiunto, la ricerca scientifica ed accademica, l’investimento nelle risorse umane. E quindi la risoluzione del problema – o dramma – della questione nota come “fuga dei cervelli”. Uno studente che dopo una laurea in ingegneria e un dottorato, sostiene l’autore, in Italia non ha grandi offerte lavorative o quantomeno adeguate alle sue competenze, e preferisce trasferirsi e mettere al servizio la sua conoscenza, formatasi nel contesto italiano, in favore di industrie estere, come ad esempio l’americana Tesla. La soluzione è ricreare un’industria italiana che si occupi direttamente della transizione energetica nazionale dalla A alla Z. E che esporti tecnologie, beni e servizi anziché importarli. Una nazione che torni ad avere visioni sul lungo periodo, non più volte quindi alle prossime elezioni. Una nazione che ricrei una filiera tecnologica sul territorio grazie alla creazione di nuove piccole e medie imprese incoraggiate dallo Stato. Una guerra nella quale l’Italia deve inserirsi necessariamente. Una guerra, scrive l’autore, “combattuta con le moderne armi della tecnologia, dei brevetti, della finanza e del marketing. Dove Stati e imprese competono con le armi dell’esplorazione, della ricerca e sviluppo e del prezzo per la definizione delle direzioni strategiche, per il reperimento delle risorse fossili e delle materie prime per le rinnovabili, per la determinazione delle regole, per la ricerca e per il possesso delle innovazioni, per la nascita di nuove filiere industriali. La guerra dell’energia è ancora guerra vera e propria. Combattuta con missili, navi ed eserciti, per la conquista di giacimenti di gas, petrolio, carbone. Ma in quest’epoca, nell’era della transizione energetica, il fronte si sta spostando sempre di più nella ricerca e sviluppo, nell’innovazione e nei brevetti.” Nella seconda parte del libro si analizza la situazione energetica italiana. E viene esposta la strada da intraprendere per ottenere la necessaria autonomia energetica grazie all’uso delle rinnovabili. Mettendo in evidenza anche come per anni sia mancata la volontà politica di seguire il percorso incominciato da Enrico Mattei. Il saggio risulta così essere completo sia nell’affrontare la questione energetica, quindi ambientale, sia nell’affrontare la questione della sovranità nazionale, quindi identitaria. Il tutto, incredibile a dirsi in questi tempi di facili isterismi verdi o edonie ecologiste tipiche della sinistra devota a Greta Thumberg, dimostrabile coi dati. Dati che l’autore analizza ed espone dandone anche una lettura critica scevra da ogni ideologizzazione. Gian Piero Joime è da tempo impegnato in progetti di economia e politica ambientale, di ricerca strategica sull’evoluzione di sistemi e mercati delle energie rinnovabili e della mobilità elettrica. È consigliere scientifico del Pomos, il polo della mobilità sostenibile dell’Università La Sapienza di Roma. È docente di Economia dell’ambiente e del territorio presso la facoltà di scienze economiche dell’Università Guglielmo Marconi. Infine, è consigliere d’amministrazione del Polo universitario grossetano. Ha svolto attività di studio per diversi centri di ricerca italiani e internazionali. Ed è autore, e coautore, di diversi saggi quali “Agricoltura sostenibile: imprese locali, sfide globali” (Aracne Editrice, Roma 2019); “Bonifiche e riconversioni industriali in Europa” (Aracne Editrice, Roma 2017; “elementi di economia e politica ambientale per lo sviluppo sostenibile” (Aracne Editrice, Roma 2017; “Green Economy e sviluppo sostenibile” (Aracne Editrice, Roma 201

Giorgia Meloni alla videoconferenza di FdI-Ecr: «Non c’è nulla più di destra dell’ecologia». Mia Fenice venerdì 4 Giugno il 20 settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Mondo Rurale: Biodiversità fragile e nascosta”. È il tema della videoconferenza organizzata da Fratelli d’Italia, dal gruppo Ecr al Parlamento europeo e promossa dall’eurodeputato FdI Pietro Fiocchi. Ha aperto i lavori il presidente di FdI e di Ecr Party Giorgia Meloni, con interventi tra gli altri del Commissario europeo all’Ambiente Virginijus Sinkevicius, del direttore generale all’Agricoltura della Commissione Ue Mihail Dumitru, del sottosegretario del ministero per la Transizione Ecologica Ilaria Fontana, dell’eurodeputato e responsabile dipartimento Ambiente di FdI Nicola Procaccini, del vice presidente Coldiretti David Granieri, del presidente di Wilderness Italia Giorgio Salvatori, del vice presidente F.A.C.E David Scallan. Ha moderato la videoconferenza l’editore della rivista Nazione Futura, Francesco Giubilei. «La conservazione del patrimonio naturale – ha detto Giorgia Meloni durante il suo intervento – è un elemento fondamentale dell’identità politica di noi conservatori. Consentitemelo: non c’è nulla di più “di destra” dell’ecologia. La destra ama l’ambiente perché ama il territorio, l’identità, la Patria. Conservare l’ambiente vuol dire conservare e tramandare ai nostri figli i luoghi dove sono nati, farli conoscere e difenderli. La sfida che abbiamo davanti è coniugare ambiente e crescita economica. Crediamo che le imprese debbano essere accompagnate verso la transizione ecologica. Su questo è giusto porsi degli obiettivi, anche ambiziosi, a patto però che quelli obiettivi siano realistici». E poi ancora. «La transizione – ha aggiunto – deve essere graduale e imporla a colpi di nuovi oneri alle aziende è un errore che produce altra povertà e perdita di posti di lavoro. Bisogna rimettere ordine negli incentivi sulle rinnovabili e investire nei carburanti alternativi ma sempre nella logica della neutralità tecnologica e del mix energetico. Esiste poi un’agricoltura di precisione che dobbiamo incentivare e sostenere perché migliora quantità e qualità dei prodotti ortofrutticoli, garantendo contemporaneamente una riduzione nei consumi idrici e nell’uso dei fitofarmaci. Infine il paesaggio, come fattore identitario e di attrattività turistica, che va preservato senza alcun tipo di ideologismo». «Per l’Italia – ha dichiarato Sinkevicius – vediamo il sostegno ad azioni come la rinaturalizzazione della Valle del Po e un aumento significativo delle foreste urbane, completati dalla Politica agricola comune e dai Fondi strutturali; questi piani aumenteranno la resilienza delle aree rurali e montane come quelle del Nord Italia». Dal canto suo, Mihail Dumitru spiega: «Non c’è dubbio che la Pac rimanga una politica chiave dell’Ue chiamata a contribuire a fermare il declino della biodiversità e a contribuire al suo ripristino. La strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030, in combinazione con la nostra Strategia Farm to Fork, stabilisce obiettivi chiave relativi alla biodiversità dei terreni agricoli. Queste strategie – e altre legate al Green Deal europeo – sono centrali nella visione della Commissione per i prossimi anni». Per Pietro Fiocchi: «Quello delle specie invasive come il cinghiale, la nutria e i corvidi è un problema che sta creando enormi danni all’agricoltura. Ma anche perdita di vite umane e di biodiversità. L’approccio sinora adottato si dimostra insufficiente e permeato da un approccio ideologico distante dalla realtà». «La difesa dell’ambiente – ha detto Procaccini – è una prerogativa della cultura conservatrice. A luglio l’Ecr Party organizzerà un appuntamento pubblico per esporre il Manifesto dell’ecologia conservatrice. Nessuno più di noi è in grado di preservare l’ambiente e al contempo il sistema produttivo e la qualità della vita». «Le politiche di sviluppo rurale rappresentano lo strumento principale per la conservazione e la valorizzazione delle risorse naturali e paesaggistiche, affrontando il problema della biodiversità in tutti i suoi aspetti», ha poi concluso il sottosegretario Fontana.

Gli errori dell'Europa e i ricatti di Mosca: ecco perché l'energia è sempre più cara. I limiti alle emissioni inquinanti imposti da Bruxelles hanno innescato gli aumenti del prezzo del gas. E la Russia ne ha approfittato per dirottare in Oriente parte delle forniture destinate ai Paesi Ue. Una spirale che è sempre più difficile interrompere. Con gravi danni per i cittadini e per l'ambiente. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 17 settembre 2021. C’è chi spera nei russi. «Tempo qualche mese e il gas targato Mosca tornerà a scorrere abbondante verso l’Europa», si sente ripetere come un mantra rassicurante nelle sale trading delle borse energetiche. Insomma, Vladimir Putin come Babbo Natale, ultima speranza per risolvere una crisi che ha pochi precedenti sul mercato. Una crisi che rischia di soffocare sul nascere la ripresa industriale dopo il crollo provocato dal Covid-19. Succede che da marzo di quest’anno è più che triplicato il prezzo del gas naturale, la materia prima con cui si producono quasi i due terzi dell’energia elettrica consumata in Italia. Dai 18 euro circa per megawattora di inizio primavera siamo arrivati a oltre 60 euro nella terza settimana di settembre. Non vale il confronto con i mesi della pandemia, quando per mancanza di domanda la quotazione precipitò fino a cinque-sei euro, ma anche rispetto ai valori correnti nel 2018 e nel 2019 il rialzo registrato in questi giorni supera il 100 per cento. Com’era prevedibile, gli effetti di questa impennata si faranno sentire sulle bollette dell’elettricità. Il ministro della Transizione energetica, Roberto Cingolani, ha annunciato che nell’ultimo trimestre dell’anno il rincaro per le famiglie toccherà il 40 per cento. Tra le aziende, invece, i settori più colpiti saranno quelli con processi produttivi ad alto consumo di energia. Non per niente, già qualche settimana fa sono partiti i primi allarmi, con implicita richiesta di soccorso al governo, da parte, per esempio, di cartiere e produttori di ceramica. Problemi in vista anche per l’industria siderurgica e perfino l’associazione dei panificatori ha messo le mani avanti sugli aumenti prossimi venturi nei listini della categoria. Non è solo questione di gas. In questi mesi hanno messo il turbo anche le quotazioni dei cosiddetti «permessi di inquinare», che i produttori di energia devono comprare per compensare le proprie emissioni di CO2. La speculazione finanziaria si è accanita su questi particolari titoli, scommettendo su nuovi prossimi rialzi per via delle restrizioni varate da Bruxelles, che punta a ridurre del 55 per cento entro il 2030 le emissioni di CO2 nell’Unione europea. In prospettiva, quindi, inquinare costerà di più, ma le imprese produttrici di energia devono far fronte da subito a nuovi oneri per acquistare certificati verdi a prezzi in continuo aumento. Questi costi vengono infine scaricati nelle bollette dei consumatori, famiglie e imprese. Il doppio rincaro, gas e CO2, ha riacceso il fronte polemico nei confronti della Ue, colpevole secondo molti commentatori di aver fissato ambiziosi obiettivi in campo ambientale senza valutare le ricadute a breve termine di questa politica. Le decisioni di Bruxelles hanno infatti contribuito a rendere meno conveniente convertire le centrali elettriche all’alimentazione a gas, diventato troppo costoso, abbandonando il vecchio e più inquinante carbone, che pure ha fatto segnare forti incrementi di prezzo. Di questo passo, quindi, diventerà sempre più difficile raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dalla Ue. Se questo è lo scenario che si profila per i prossimi anni, è facile immaginare che anche i permessi di inquinare faranno segnare nuovi rialzi, perché saranno più numerosi i produttori di energia che dovranno comprarli per compensare l’incremento delle loro emissioni. L’aumento delle quotazioni attirerà gli investitori finanziari che a loro volta alimenteranno una nuova crescita dei prezzi. È un circolo vizioso di cui al momento non si vede la fine e, paradossalmente, è stata proprio la politica europea a innescarlo. A fare le spese di questa situazione rischia di essere l’ambiente, perché l’addio ai combustibili fossili si perde nelle nebbie di un futuro lontano e pieno di incognite. Tutto il contrario di quanto previsto e pianificato dalla Ue. «L’Unione ha fatto gravi errori di valutazione politica e commerciale», attacca Massimo Nicolazzi, manager con decenni di esperienza nel settore petrolifero, autore di saggi sulle dinamiche geopolitiche dell’energia. Spiega Nicolazzi: «L’Europa vuol fare a meno del gas, come di tutte le altre fonti inquinanti, ma non può ancora contare su alternative valide, a cominciare dalle rinnovabili. I russi questo lo sanno bene e quindi, approfittando della loro posizione di forza sul mercato, tirano il freno sulle forniture innescando l’aumento dei prezzi». Bruxelles, da parte sua, ha finora respinto al mittente questo tipo di critiche. Martedì 14 settembre, per difendere il fortino europeo è sceso in campo Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Ue. «Solo un quinto dell’attuale aumento dei prezzi dell’energia può essere attribuito alla crescita del prezzo della CO2, il resto è una conseguenza delle carenze del mercato», ha detto in un intervento all’Europarlamento. L’onda lunga dei rialzi è partita all’inizio dell’anno dall’estremo Oriente che ha assorbito parte delle forniture di gas liquefatto (Gnl) tradizionalmente dirette verso il Vecchio Continente. Nel frattempo, con la Norvegia impegnata in lavori di manutenzione degli impianti, anche i flussi dal nord si sono ridotti. Siamo così arrivati ai mesi estivi, quando di solito in Europa si compra gas per lo stoccaggio in vista dell’inverno. La domanda in crescita è però andata a incrociare un’offerta in fase calante con il risultato che molti Paesi faticano a incrementare le riserve per la stagione fredda. Sul prezzo finale pesa anche un onere supplementare a carico esclusivo dell’Italia, su cui alcuni partner Ue, Germania in testa, riescono a scaricare i loro costi di trasporto. «Il governo ha un’occasione unica di risolvere questa distorsione con il nuovo pacchetto gas da negoziare a Bruxelles, spiega Massimo Beccarello, professore di Economia dell’Ambiente dell’Università di Milano Bicocca. In caso contrario, dice Beccarello, «il prezzo italiano del gas resterà indicizzato al costo tedesco più oneri di trasporto con gravi effetti sulla competitività dell’economia italiana». Va detto che vista da Roma la situazione appare per il momento meno preoccupante, dato che i depositi dislocati nella Penisola, forti di una capacità complessiva di 13 miliardi di metri cubi, al momento sono pieni all’80 per cento, contro il 55 per cento circa degli stoccaggi tedeschi. Tra l’altro, a partire dal novembre scorso, il nostro Paese può contare anche sui flussi supplementari (finora circa 4 miliardi di metri cubi) in arrivo attraverso il Tap, il gasdotto a lungo contestato dagli ambientalisti che unisce Puglia e Turchia. In generale, comunque, l’Europa ha una gran fame di gas. Il fatto è che la Russia, il più importante fornitore anche dell’Italia (circa 40 per cento del fabbisogno), al momento non sembra disposta a far fronte alle richieste dei suoi tradizionali clienti. Sulle relazioni con Mosca pesa la questione del Nord Stream 2, il nuovo gasdotto che attraverso il Baltico può portare in Germania e da qui nel resto del continente fino a 55 miliardi di gas all’anno, tagliando fuori la rotta attraverso l’Ucraina. Il progetto è stato a lungo osteggiato dagli Stati Uniti, ma lo stop americano è in parte venuto meno nel luglio scorso quando la nuova amministrazione Usa ha trovato un’intesa con Berlino. Così, il 10 settembre scorso, Gazprom, il principale operatore russo del settore, ha annunciato il completamento di un’infrastruttura che secondo i critici aumenta la dipendenza europea dalla Russia. I giochi però non sono ancora fatti. Il Nord Stream 2 entrerà in funzione non prima di qualche settimana e Gazprom si è già affrettata a precisare che per ora non intende aumentare le forniture. Al massimo verranno dirottati sul Baltico flussi che transitano altrove. Nessuna tregua, quindi, e prezzi ancora in aumento. Di questo passo l’inverno potrebbe essere molto caldo sul fronte del gas. E per una volta non c’entra il clima che cambia.

Energia e clima: massimi sacrifici, minimi risultati. Pier Luigi del Viscovo il 20 Settembre 2021 su Il Giornale. Il vento dell'ambientalismo sta cambiando. Prima le fabbriche, in crisi perché le industrie costruttrici vendono meno auto con motori termici, nel tentativo di evitare le multe della Commissione Ue. Il vento dell'ambientalismo sta cambiando. Prima le fabbriche, in crisi perché le industrie costruttrici vendono meno auto con motori termici, nel tentativo di evitare le multe della Commissione Ue. E la grande scommessa mancata dell'auto elettrica, che sembra la Sora Camilla: tutti la vogliono e nessuno la piglia, vuoi per mancanza di colonnine, per i tempi di ricarica o per il prezzo. Poi il ministro che ha rimesso in pista il nucleare, facendo infuriare gli ambientalisti à-la-mode, che hanno subito mobilitato le truppe. Infine, la botta finale: il caro-bollette. Il governo corre ai ripari con i soldi dei contribuenti, tanto che vuoi che siano 3 miliardi in più di debito, però intanto se ne parla: settimane di dibattiti in tv e sui social. Ma più se ne parla e più la domanda nella testa dei cittadini prende corpo: ma siamo sicuri che sull'ambiente stiamo facendo le scelte giuste? Il clima è un sistema di vasi comunicanti. Il Vecchio Mondo pesa circa l'8% delle emissioni totali di CO2 e le sta diminuendo dal 1979 (2° choc petrolifero). La Cina da sola ne emette quattro volte tanto e sono in crescita senza alcuna intenzione di fermarle, visto che ancora circa un miliardo di cinesi deve passare da un'economia agricola di sussistenza al benessere. Il discorso non è diverso per India, Russia, Brasile e altre economie in sviluppo. Insomma, ridurre le emissioni di gas serra in Europa va bene, ma diventa inutile se altri le aumentano. Sul fronte economico è anche peggio, poiché gli Stati sono in competizione tra loro. Gli sforzi fatti in Europa riducono la competitività della sua economia, mentre avvantaggiano chi quegli sforzi non li fa, come Cina e India, oppure li fa in misura moderata, come gli Usa. Mettere sul piatto questi fatti non significa negare il riscaldamento globale, che è «il» problema dell'umanità e va affrontato seriamente». A cominciare proprio dalla squadra: o siamo tutti oppure non siamo nessuno. Qui occorre ammettere che non tutte le popolazioni del mondo hanno il benessere e la cultura per porre l'ambiente in cima ai loro pensieri. Gli europei sì, ma illudersi di fare qualcosa, qualunque cosa, solo per lavarsi la coscienza è umiliante oltre che inutile. A meno di assumere un ruolo più trainante, soffriremo senza cavare un ragno dal buco. Ma contare di più imporrebbe ciò che assolutamente non vogliamo: economia più libera e dinamica, carico fiscale più leggero, giustizia rapida, sistema pubblico efficace, mercato del lavoro meno vincolato e una politica estera meno remissiva, col corollario di una difesa comune. Allora, se non vogliamo guidare, almeno non restiamo indietro, perché l'ultimo paga sempre il conto. Per fortuna, l'economia dei consumi consuma anche le ideologie, che passano di moda e poi la gente chiede altro. A patto che i media, sempre loro, smettano di confondere il meteo (alluvione di Firenze, 1966) con il clima (ghiacciai sciolti).

Sandro Iacometti per "Libero quotidiano" il 18 settembre 2021. Per avere un'idea di quello che sta accadendo sull'energia è necessario dare un'occhiata agli andamenti della borsa elettrica, il mercato dove i produttori vendono e i consumatori comprano. Un megawattora veniva venduto a gennaio in media a 60 euro. A settembre il prezzo è schizzato, sempre in media, a 144 euro. Praticamente il doppio. Ma ieri stava a 183 euro e mercoledì a 174. Ora, facciamo finta per un attimo che questa impennata non abbia nulla a che fare con l'ossessione ambientalista della Ue e la corsa verso l'energia pulita. Accettiamo, così per gioco, la tesi sostenuta da Bruxelles che solo un quinto dei rincari dell'energia sia dovuto al meccanismo dei permessi di Co2 e che il resto sia colpa della carestia di gas che ne ha fatto schizzare il prezzo. Il ragionamento successivo è che se fossimo stati più ecologisti prima, e avessimo già compiuto la transizione ecologica, ora saremmo molto meno dipendenti dai combustibili fossibili e pagheremmo l'energia pochi euro. Eh sì, perché chi opera con il sole, con l'acqua o con il vento se ne frega del prezzo del gas e può produrre energia a costi molto più bassi, non dovendo subire gli effetti delle oscillazioni del metano. Ma l'elettricità si vende e si compra in base al prezzo che viene definito in Borsa, non in base a quanto ti è costato produrla. Se la quotazione è fissata a 100, a quel prezzo la vende sia la centrale a carbone, che ha pagato un occhio della testa per produrla, comprando valanghe di permessi di emissione di Co2, sia quella a gas, che deve fare i conti con i rincari della materia prima, sia l'impianto di pale eoliche, il cui unico problema sono le condizioni atmosferiche. Il risultato è: primo, che avere più o meno rinnovabili non cambia niente (come dimostra l'allineamento dei prezzi dell'elettricità in tutta Europa) perché anche i produttori non fossibili, come ha spiegato bene Jacopo Giliberto sul Sole 24 Ore, «cercano di estrarre il margine più alto possibile collocando le offerte appena sotto i termoelettrici»; secondo, che gli operatori delle rinnovabili in questi giorni stanno facendo affari d'oro alle nostre spalle. Certo, loro sono dalla parte giusta della storia, come dice la Commissione europea. Ma adesso speculano sul prezzo dell'elettricità dopo essersi messi in tasca fior di quattrini dei contribuenti. Quegli oneri di sistema in bolletta di cui tanto si parla in questi giorni, infatti, finiscono in gran parte in tasca loro. Per la precisione, circa 11 miliardi sui 15 totali che ogni anno lo Stato spilla ai consumatori per voci di spesa che non riguardano la componente energia. Insomma, oltre al danno la beffa. Più l'elettricità sale per colpa della rivoluzione verde, più i produttori di rinnovabili, vissuti per anni di incentivi pubblici, incassano. 

Cosa c'è davvero dietro la bolletta horror in arrivo. Alessandro Ferro il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Le motivazioni che stanno dietro all'aumento vertiginoso delle bollette della luce sono molteplici: dal costo del gas naturale agli oneri di sistema italiani, ecco il salasso sulle famiglie. Ormai è stato confermato anche dallo stesso ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani: "Lo scorso trimestre la bolletta elettrica è aumentata del 20%, il prossimo trimestre aumenterà del 40%". Si salvi chi può, verrebbe da dire, ma è molto complicato sfuggire ad un rincaro del genere con una spesa di 247 euro in media a famiglia nell'arco dell'anno.

Perché la bolletta è sempre più cara

Come ci siamo occupati sul Giornale in edicola, le motivazioni sono essenzialmente due: l'aumento del prezzo del gas a livello internazionale e l'aumento del prezzo della CO2 che si produce. Il rincaro senza precedenti in che arriverà a partire dal prossimo 1°ottobre con la revisione trimestrale delle tariffe ha una serie di ragioni, sia finanziarie che geopolitiche. La prima è legata alla corsa al rialzo delle materie prime che con la ripresa economica e la fine dl lockdown ha creato una richiesta tale che la domanda è di gran lunga superiore all'offerta (ed ecco la speculazione). La domanda di gas è esplosa soprattutto in Asia con il boom di Gnl, il gas naturale liquido che viene trasportato via mare che ha fatto lievitare i prezzi in tutto il mondo mettendo in crisi anche l'Europa, dove il gas viene ormai usato stabilmente per sostituire il carbone per la produzione di energia.

Ecco perché l'Italia è penalizzata

E qui ci andiamo di mezzo noi: per il suo mix energetico, l’Italia si affida principalmente al gas naturale. Nel 2018, infatti, il gas ha rappresentato il 45% della produzione elettrica del nostro paese. E poi siamo anche il secondo più grande importatore in Europa (oltre il 90% della domanda), il cui prezzo dipende in gran parte dal prezzo all’ingrosso. La Russia è il nostro principale fornitore con 32 miliardi di metri cubi importati nel 2018 ma adesso il problema è derivato anche dal combustibile che comincia a scarseggiare. In questa maniera, i prezzi europei del gas lievitano in maniera esorbitante toccando cifre record. A prescindere, l'anomalia italiana consiste anche sugli oneri di sistema, costi che non hanno nulla a che fare con il prezzo dell'energia, il trasporto o la gestione. Infatti, indipendentemente da quanto abbiamo scritto e detto fin qui, il prezzo medio italiano è pari a 152,58 euro per megawattora contro 130 euro degli altri Stati.

Portogallo e Spagna adesso ci superano

Quest'estate abbiamo ceduto il primato a Spagna e Portogallo che hanno stabilito un record pochi giorni fa con 154,16 euro per megawattora, il prezzo più alto nella storia e il 6,9% in più solo dal giorno prima. Mentre vi scriviamo il prezzo è leggermente sceso a 153,43 euro avvicinandosi a quello dell’Italia. Al quarto posto si trovano i nostri vicini della Svizzera con 150,06 euro per megawattora.

M5S: "No al nucleare"

Come abbiamo sottolineato sul Giornale, al di là degli interventi sulla bolletta, due settimane fa, sempre il ministro Cingolani aveva rilanciato la necessità di guardare anche al nuovo nucleare e proseguire nella ricerca legata alla fusione come strada alternativa per la decarbonizzazione. Ma dai grillini era arrivato il "no", secco. Diversa la posizione dell’imprenditore Alberto Bombassei che sostiene l’apertura di Cingolani. "La possibilità di sfruttare l’energia nucleare con impianti di quarta generazione è un tema bellissimo e stimolante — dice —Se si dovesse puntare su questo progetto sarebbe una risposta interessantissima. Un plauso al ministro".

I piani dell'Europa

Sulla carta, l’Europa ha i piani di de-carbonizzazione più ambiziosi del mondo: la Commissione Ue ha presentato un piano per tagliare le emissioni del 55% entro il 2030. Adesso, però, alcuni Paesi nicchiano: la Francia vuole ritardare gli interventi sul mercato del carbone mentre Paesi Bassi e Ungheria sono preoccupati per l’impatto sociale. Fuori dalla Ue, gli elettori svizzeri hanno respinto un’ambiziosa legge sul clima che avrebbe aumentato le tasse su benzina e voli aerei. "Nessuno mette in discussione che la transizione ecologica vada fatta il prima possibile, senza indugi e con sacrifici enormi", ha detto nel meeting di Genova il ministro Cingolani. "Ci credo eccome alla transizione ecologica, ma non può essere fatta a spese delle categorie vulnerabili. Queste cose vanno dette, abbiamo il dovere di affrontarle". Alessandro Ferro

Gabriele De Stefani per "La Stampa" il 14 settembre 2021. Quanto siete disposti a pagare per un mondo meno inquinato? Il conto inizia a farsi salato: «Lo scorso trimestre la bolletta elettrica è aumentata del 20%, dal prossimo salirà del 40%: tutto questo succede perché aumentano il prezzo del gas a livello internazionale e il prezzo dell'anidride carbonica prodotta e la transizione ecologica non può essere fatta a spese delle imprese e delle categorie vulnerabili» avverte Roberto Cingolani intervenendo a un convegno della Cgil a Genova. Non è un passo indietro sulla svolta verde, non potrebbe esserlo dall'uomo che guida il ministero della Transizione energetica, «ma abbiamo il dovere di affrontare le cose». Gli aumenti in arrivo per famiglie e imprese sono il combinato disposto di due fattori: da una parte la ripresa economica spinge la domanda e le quotazioni delle materie prime, dall'altra i diritti per le emissioni di anidride carbonica sono raddoppiati per le politiche ambientaliste dell'Ue. Già nel terzo trimestre il costo dell'elettricità per l'utenza era aumentato del 9,9%, e quello del gas (salito da 6 a 58 euro per MWh in un anno) del 15,3%. Ma la bolletta elettrica sarebbe schizzata del 20%, se il governo non fosse intervenuto per calmierarla mettendo sul piatto 1,2 miliardi ricavati dalla vendita di quote di emissioni. Per le imprese è il vero, grande spauracchio del mondo post-pandemia: il costo dell'energia alle stelle rischia di mandare fuori mercato interi settori, specie quelli alle prese con concorrenti extra-europei. Carlo Bonomi, nei giorni scorsi, aveva parlato di «ripresa messa a rischio dal caro-energia». I numeri di Confindustria dicono che la corsa dell'inflazione negli ultimi mesi si spiega con i rincari delle bollette: solo lo 0,6%, sul +2,1% annuo di agosto, dipende da altre voci e «ciò aiuta i consumi, ma comprime i margini delle imprese». «Da tempo denunciamo l'insostenibile peso della bolletta energetica - incalza la Cna -. Ci aspettiamo l'avvio di azioni concrete per scongiurare l'impennata dei prezzi, gli allarmi non bastano più. È tempo di passare all'azione. Servono misure in grado di intervenire strutturalmente sulla bolletta, a partire dalla riforma degli oneri generali di sistema che gravano soprattutto sulle micro e piccole imprese». Un primo intervento è atteso già nel dl Concorrenza, dove il governo pensa di inserire una sforbiciata alla mole di balzelli caricati sulle bollette per coprire una miriade di voci di spesa: bonus elettrico, incentivi alle rinnovabili, costi per lo smantellamento delle centrali nucleari. Sono interventi d'emergenza utili a limitare i danni, ma la partita, spiega ancora Cingolani, si gioca nel lungo periodo. Bisogna trovare un equilibrio tra sostenibilità ambientale ed economica e il tema, già affrontato pubblicamente sia da Mario Draghi che da Giancarlo Giorgetti, è al centro delle attenzioni del governo: «Nessuno mette in discussione che la transizione ecologica vada fatta il prima possibile, senza indugi e con sacrifici enormi - aggiunge Cingolani -. Ci credo eccome. Ma se l'energia aumenta troppo di costo, le nostre imprese perdono di competitività e i cittadini, soprattutto quelli di reddito più basso, faticano ulteriormente per pagare beni primari come energia e gas. Sono aspetti importanti come la transizione ecologica. Finché avrò l'onore e l'onere di occupare questa posizione farò di tutto affinché le due cose non vengano mai scisse. C'è una transizione sociale che deve andare di pari passo con quella ecologica».

Stefano Folli per "la Repubblica" il 15 settembre 2021. Chi ha buona memoria ricorda che meno di tre anni fa, nel novembre 2018, i viali di Parigi furono messi a ferro e fuoco dai cosiddetti "gilet gialli". La protesta, spesso simile a una vera e propria rivolta, andò avanti per circa un anno e alla fine si esaurì per stanchezza dei protagonisti, ma anche e forse soprattutto a causa dell'esplosione del "virus". La miccia che incendiò gli animi la rammentano ormai in pochi: si trattò di una modesta sovrattassa sui carburanti, decisa dal governo di Macron per finanziare le misure anti-inquinamento. Ovviamente non fu la sola ragione, tuttavia il malessere diffuso trovò un appiglio proprio in quel provvedimento inaspettato. Qualcuno si domanda se non potrebbe accadere lo stesso in Italia dopo la previsione che il prezzo del gas e dell'elettricità subirà nelle prossime settimane aumenti fino al 40 per cento, come ha fatto capire il ministro della Transizione Energetica, Cingolani. Per fortuna la storia non si ripete quasi mai con le stesse modalità e i medesimi ritmi. Non avremo un movimento dei "gilet gialli" in Italia. Tanto più che gli imitatori dell'esperienza francese - ce ne sono stati in epoca pre-Covid: alcuni hanno fatto strada e cambiato idea - hanno già provato ad agitare la piazza con risultati risibili. Basti pensare all'ex colonnello dei carabinieri, Pappalardo. La questione non riguarda quindi improbabili manifestazioni eversive. Riguarda tuttavia la salute complessiva dell'esecutivo. Non si può escludere che il tema dei rincari si trasformi in un primo fattore di logoramento per il governo. Un fattore che Draghi ha tutte le possibilità di disinnescare, ma che si è affacciato in forme imprevedibili andando a disturbare l'equilibrio delle impotenze, ossia la debolezza di forze politiche che battibeccano spesso su temi secondari senza mai prevalere una sull'altra (vedi il lungo duello tra Enrico Letta e Salvini). S' intende che il ministro della Transizione ha fornito una spiegazione. Ha parlato di circostanze avverse dovute a una pessima congiuntura. Il rincaro del gas, le difficoltà di approvvigionarsi, il ritardo o la carenza delle fonti rinnovabili. Ognuna di questi esempi contiene una porzione di verità. Tuttavia il quadro generale resta abbastanza indecifrabile. Fino alla verità più ovvia ma per molti più difficile da accettare: la "transizione" verso il mondo nuovo, dove le fonti energetiche saranno pulite e si suppone inesauribili, non è una scampagnata. Comporterà passaggi dolorosi e soprattutto avrà un costo. Chi lo nega non rende un buon servizio alla causa dell'ecologia. Il punto è che il ministero retto da Cingolani è stato a suo tempo voluto fortemente da Beppe Grillo. Rappresenta anzi una sorta di pegno pagato dal presidente incaricato (Draghi, appunto) ai 5S per convincerli a far parte del governo. Oggi il "movimento" si trova tirato per un verso e per l'altro. Si ripete un copione già letto più volte. Restare al governo con Draghi implica che i 5S abbandonino i toni barricadieri e smettano di creare illusioni. E tuttavia, se fanno questo, perdono quasi ogni elemento di fascino agli occhi dei loro elettori. Per cui le contraddizioni della Transizione sembrano dire a Conte e ai suoi che il loro sentiero non solo è in salita, ma potrebbe non essere percorribile. "Nessun pasto è gratis" diceva Milton Friedman. Vale anche per l'energia pulita.

Ga.Des per "La Stampa" il 14 settembre 2021. «Ho quasi paura a dirlo, perché ormai domina un approccio da ecologismo sognatore: ma la verità è che la transizione ecologica ad oggi non sta in piedi economicamente». Davide Tabarelli dice che forse Roberto Cingolani «ha esagerato un po' parlando di un aumento del 40%». Ma la sostanza dell'allarme del ministro trova d'accordo il presidente di Nomisma Energia che, anzi, si spinge oltre: «La Commissione europea ha gravi responsabilità». 

La svolta verde è un'urgenza per il pianeta malato. Ma, al di là di questo, davvero i rincari si spiegano solo così?

«Io individuo quattro motivi fondamentali. Il primo è la carenza di gas in Europa, dovuta al lungo inverno scorso e alla frenata delle consegne di Russia e Norvegia: una serie di sfortunate coincidenze, diciamo così, tra manutenzioni, incidenti, crisi politiche in Ucraina e Bielorussia e tempi di avvio di Nord Stream. Speriamo solo che dietro a tutto questo non si nascondano problemi strutturali, sarebbe gravissimo. Anche l'Asia sta producendo meno ed è alle prese con il boom dei prezzi del carbone. La seconda ragione è l'aumento della domanda dovuto alla ripresa, ma siamo solo poco al di sopra del 2019, quindi il cuore del problema non è qua. Poi vedo anche un po' di speculazione finanziaria: c'è in giro tantissima liquidità e gli investitori più aggressivi ne approfittano. Infine il quarto motivo è il principale: le politiche della Commissione Ue».

Cioè?

«I prezzi per i diritti di emissione di anidride carbonica sono esplosi: la media nel 2020 era di 25 euro a tonnellata, oggi siamo a 62. La politica sul green sta ponendo obiettivi molto ambiziosi e per il sistema industriale è un grosso problema. È molto difficile reggere il passo». 

Sintetizzo: aziende e famiglie stanno iniziando a pagare il costo della transizione energetica?

«Sì, perché le rinnovabili non bastano e non risolveranno il problema. Ma non è tutto qui. C'è anche da fare i conti con una politica distratta dal verde: qui si pensa al green deal e a Greta e non si vedono le questioni centrali, cioè quelle economiche, con l'energia che arriva a costare il triplo rispetto a Usa e Cina, e di sicurezza».

Quanto dureranno le tensioni sui prezzi?

«Per il gas credo che sia una fase passeggera, in ogni caso non più breve di un anno. Su energia elettrica e Co2, visti gli obiettivi fissati dall'Unione europea, gli aumenti continueranno». 

Come se ne esce? Cingolani è tornato a parlare di nucleare pulito.

«Il nucleare può risolvere il problema, questo è sicuro. Se la questione climatica diventasse veramente seria e non quel tema da salotto o da ecologismo sognatore che è stato fin qui, allora sì, il nucleare non potrebbe che essere un'opzione molto seria».

Bollette, rincari del 40%? Ecco il conto delle politiche ambientaliste: chi sono i responsabili. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 14 settembre 2021. C’è un numero che spiega bene la scelleratezza italiana in materia di politica energetica: zero. È il numero dei Paesi industrializzati che per produrre elettricità hanno rinunciato alle centrali atomiche, come ha fatto l’Italia, e nello stesso tempo intendono tagliare l'apporto dei combustibili fossili, come l'Italia si è imposta di fare in ossequio agli obiettivi europei, che impongono di raggiungere la «neutralità climatica» entro il 2050. La ragione è che non si può, contemporaneamente, fare a meno del nucleare, ridurre drasticamente l'uso di gas, petrolio e altri fossili e rimanere una potenza industriale. È impossibile dal punto di vista economico, perché comporta costi insostenibili. Non in un futuro lontano, ma adesso, qui. Del ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, non si può dire che sia un nostalgico del motore a scoppio e dei fumi neri che escono dalle ciminiere degli opifici. Del resto, a volerlo lì, appena sette mesi fa, era stato Beppe Grillo, e se i Cinque Stelle oggi lo detestano è perché hanno scoperto che l'uomo, a differenza loro, ha studiato, conosce i problemi e dice le cose che vanno dette con responsabilità e realismo. È stato lui, ieri, a rendere ufficiale la brutta notizia che girava da tempo: tra pochi giorni, a partire da ottobre, la bolletta elettrica subirà un aumento che dovrebbe andare «dal 31 al 42%». A farne le spese saranno soprattutto «la competitività industriale» dell'Italia e «le fasce più vulnerabili», dunque le imprese esportatrici e le famiglie a basso reddito. Un rincaro mostruoso che si verifica, ha spiegato Cingolani, «perché il prezzo del gas a livello internazionale aumenta», e la produzione di elettricità italiana si basa al 51% sul gas, e «perché aumenta anche il prezzo della CO2 prodotta». Ossia il costo del diritto ad immettere anidride carbonica nell'atmosfera, che le imprese comprano tramite appositi titoli e sale proprio perché l'Unione europea, allo scopo di ridurre le emissioni, vuole rendere quest' operazione sempre più onerosa. Il prezzo della politica ambientale promossa dalla Commissione von der Leyen e dal parlamento Ue esce così dall'empireo delle discussioni astratte. A quanto ammonta? Secondo Federconsumatori, che mette nel conto anche il rincaro della bolletta del gas, l'impatto sulle famiglie sarà dia 669,80 euro l'anno. Ed è una cifra che rischia di essere sbagliata per difetto, visto che l'associazione ha previsto un aumento dell'elettricità pari "solo" al 20%, dunque assai inferiore a quello paventato dal ministro. Chi chiede a Mario Draghi di "sterilizzare" almeno una parte dei rincari pure stavolta, come ha già fatto con le bollette del terzo trimestre dell'anno, finge di non sapere che quei soldi da qualche parte della contabilità pubblica debbono comunque uscire. Allora furono 1,2 miliardi di euro, per appena tre mesi e per evitare un balzo dei prezzi assai inferiore a quello che si prospetta adesso; stavolta sarebbero molti di più. Soldi che inevitabilmente verrebbero tolti da altri capitoli di spesa, o arriverebbero da nuove tasse o da ulteriore debito pubblico: da questi vincoli non si sfugge. Soluzioni di breve periodo, comunque. Cerotti sulle piaghe di un sistema destinato a collassare, anche perché nei prossimi anni le condizioni esterne peggioreranno. Non ci sono dubbi, ad esempio, sul fatto che il prezzo dei permessi di emissione salirà di molto, proprio a causa della politica europea di "decarbonizzazione". Il primo a sapere che la situazione è insostenibile è Cingolani, il quale, infatti, spinge per non chiudere le porte al nucleare di nuova generazione. Pochi politici affrontano l'argomento, anche perché pochissimi lo masticano, ma le scelte di politica energetica condizionano il tenore di vita degli italiani assai più di altre questioni, su cui i partiti litigano ogni giorno. Aiutano pure a capire certi fenomeni, come quello che vede il Pd, paladino delle politiche ambientaliste europee, ridotto sempre più al rango di "partito della Ztl". Solo quelli che non hanno patito la crisi degli ultimi anni e possono permettersi di ignorare certi aumenti delle bollette, e magari si sono già comprati l'automobile elettrica, riescono ad accettare simili decisioni. Gli altri cercano rifugio altrove, dove nessuno chiede loro di stringere la cinghia o perdere il posto di lavoro in nome della lotta alla CO2. 

·        Paura Atomica.

La proposta della Commissione Europea. Transizione energetica, perché il nucleare sarà decisivo. Umberto Minopoli su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Non siamo noi a riparlare di nucleare. È la realtà a farlo. La Commissione europea ha proposto l’inclusione del nucleare nella tassonomia verde. La Cop 26 ha considerato scontato il ricorso al nucleare per la mitigazione climatica. L’Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia dell’Ocse, ha mostrato, nei suoi outlook, che la transizione energetica e il Net zero hanno bisogno di un ricorso massiccio all’energia nucleare. L’Ipcc, la massima autorità scientifica che presiede l’azione dell’Onu sul clima, prevede nei suoi scenari positivi la presenza del nucleare per abbassare le temperature sotto l’1,5 grado di aumento. L’Italia è fuori dal nucleare? È una Ipocrisia e una bugia: importiamo, ogni anno dai 37.000 in su di Gwh netti. È l’equivalente di tre o quattro centrali attive ai nostri confini”.

Dieci paesi europei hanno deciso di potenziare i loro programmi nucleari nazionali. Siamo dentro il nucleare europeo (122 centrali e 6 nuove in costruzione). L’Europa è un territorio unico elettricamente interconnesso. E parte decisiva della nostra elettricità ci viene da questo bacino di nucleare europeo (il 28% della elettricità europea, il 48% delle energie verdi). Come possiamo dirci estranei a questa realtà? Siamo vitalmente interessati alla scelta della tassonomia europea: senza il nucleare il green deal europeo sarebbe una chimera. Tutti i maggiori paesi industrializzati, nei loro programmi nazionali per il net zero, prevedono il ricorso all’energia nucleare. Quale nucleare? Quello esistente delle 122 centrali operative esibisce, già, un livello avanzato di sicurezza e innovazione. Ma esiste, ormai, la realtà di una nuova generazione di tecnologia nucleare. Che insieme all’estensione del ciclo vita delle centrali esistenti, sta per immettere sul mercato nuovi modelli e nuove soluzioni. Nessuna tecnologia energetica può esibire i cambiamenti, le innovazioni e il track record di ricerca e innovazione delle tecnologie nucleari. Né le tecnologie rinnovabili né quelle fossili possono presentare i cambi tecnologici degli impianti nucleari. Essi riguardano le 442 centrali esistenti e le 80 in costruzione. E riguardano il “nuovo nucleare. Con riguardo agli small reactors e alla fusione nucleare. Su ambedue (lo illustreranno le relazioni al nostro convegno) si sta accelerando la ricerca, lo sviluppo e la prototipizzazione: 70 nuovi modelli di reattori Smr (Small Modular Reactor) stanno concludendo la fase della progettazione ed entrando nella competizione di mercato.

Anche la fusione nucleare è un po’ più vicina: Iter (il reattore sperimentale a fusione realizzato nell’ambito di una collaborazione internazionale da Europa, Giappone, Stati Uniti, Russia, Cina, India e Corea) avvierà il suo straordinario esperimento nel 2025. Intanto si moltiplicano i progetti per materializzare “dimostratori” della fusione (allacciati alla rete) entro il 2040. Intanto in Italia sta per partire la costruzione del Divertor Tokamac Test (Dtt) a Frascati, che sperimenterà componenti strategici dei futuri impianti di fusione. Sugli Smr e sulla fusione si registra un inedito e massiccio afflusso di capitali e investimenti privati. La tassonomia stimolerà, ancora di più, questo investimento nelle tecnologie nucleari. Altro che declino. Probabilmente, avremo bisogno di tutte le tecnologie no carbon per raggiungere i target emissivi al 2030 e al 2050. Ma poi abbiamo, non dimentichiamolo, il problema di sostituire il carbone e gran parte dei combustibili fossili, con fonti energetiche, di base load come si dice: che consentano la generazione di energia abbondante, sicura e dispacciabile, in ogni condizione di tempo. Il nucleare dà questa garanzia.

Non si tratta di decidere un programma nucleare per l’Italia domattina. Siamo qui persone esperte e informate. Un nuovo programma nucleare nazionale non si improvvisa. La tecnologia nucleare è cosa seria. Si tratta però di decidere se vogliamo restar fuori dalla ricerca nucleare, dagli sviluppi dei nuovi reattori avanzati, dalla competizione commerciale che si aprirà su di essi. Oggi il nucleare è fuori da tutte le leggi di ricerca e i provvedimenti per l’innovazione (dal Pnrr, all’industria 4.0, ai provvedimenti per il sostegno all’innovazione). Questo è il frutto di una chiusura ideologica. Per fortuna contrastata da una filiera industriale nucleare italiana che è rimasta attiva e in piedi (e presente nel mondo). Come è attivo e operativo uno straordinario tessuto di facoltà universitarie, centri ed enti di ricerca (Enea, Infn, Cnr) che hanno un mantenuto un solido ancoraggio nella fisica, nell’ingegneria e nella ricerca nucleare.

Il nucleare è uno straordinario campo di innovazione. Le tecnologie nucleari non sono solo quelle energetiche. Rappresentano, ad esempio, il modo più efficace e rapido per produrre l’idrogeno, il combustibile del futuro. Servono per desalinizzare l’acqua e rispondere ad un grande tema di sostenibilità. Il nucleare diventa sempre più pervasivo come tecnologia medicale, di diagnostica e cura di gravi malattie. I nuovi reattori del prossimo futuro saranno, anche macchine che minimizzeranno e abbasseranno la vita attiva delle scorie radioattive. Ne avremmo in Italia 96 mila metri cubi da sistemare in sicurezza. Parleremo oggi del Deposito dei rifiuti radioattivi. Quanti sanno che quasi la metà delle scorie che produciamo, non provengono dalle centrali nucleari ma dai tanti usi del nucleare nella medicina nell’industria, in agricoltura e (persino) nei beni culturali e negli usi ambientali.

Dal nucleare è davvero difficile che un paese avanzato possa uscire. È una illusione retrograda. In questa giornata l’Ain fa una proposta: pensiamo ad uno strumento di supporto, per tutte le tecnologie della transizione, nessuna esclusa, che supporti le aziende, le strutture di ricerca, gli enti che intendano investire in nuovi sistemi, prodotti e tecnologie, che intendano partecipare in alleanze competitive per la transizione energetica. Pensiamo a qualcosa di analogo a leggi (la 44 sulla ricerca, la 808 nell’aerospazio) che, negli anni 70 e 80, produssero uno straordinario processo di modernizzazione dell’industria italiana. Si può discutere, in riferimento al nucleare, di tutto: costi, tempi di realizzazione, temi della sicurezza. Noi invitiamo a farlo, laicamente, senza chiusure pregiudiziali e antistorici ideologismi. Su ognuna di queste domande, siamo pronti a mostrare i passi avanti, le novità e i cambiamenti. Di una sola cosa si può esser certi: il nucleare, specie quello nuovo di fissione e quello della fusione, non è una tecnologia del passato, ma la scelta della metà del secolo e del futuro. L’Italia non ne sarà fuori. Umberto Minopoli

Finlandia: via al reattore nucleare ad acqua pressurizzata. Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2021. Con un ritardo di 12 anni, è partito in Europa il primo reattore nucleare ad acqua pressurizzata. Nonostante il progetto sia francese (della società Areva), il primo prototipo europeo si trova invece in Finlandia aOlkiluoto, a 250 chilometri da Helsinki. Produrrà il 14 percento del fabbisogno di elettricità dei finlandesi e sarà la più potente tra le centrali nucleari esistenti nell'Unione.

La prima reazione a catena è partita alle 3:22 (ora locale) del 21 dicembre e a gennaio produrrà energia al 30 percento della potenza, secondo quanto fa sapere il gestore elettrico finlandese TVO, che saluta l'impresa come "il più grande contributo della Finlandia all'ambiente". A giugno entrerà a pieno regime.

La lotta fra nucleare e rinnovabili in Romania in vista della neutralità climatica

COP26: l'energia nucleare al tavolo delle discussioni per la prima volta

"Il nucleare è un'energia pulita", dice il direttore dell'Aiea

L'energia nucleare può ottenere la definizione di "rinnovabile" dall'Unione Europea?

Questo reattore porta dietro di sé una scia di polemiche, dovuta ai ritardi nella costruzione e ai costi che sono triplicati rispetto alle previsioni. Era stato presentato negli anni 90 come un progetto sicuro e affidabile, dopo che il disastro di Chernobyl del 1986 aveva allontanato molti paesi dal nucleare.

La Finlandia non è nuova al nucleare, nel paese ci sono altri due reattori che risalgono a 40 anni fa. Mentre l'Europa non vedeva una costruzione del genere dal 2007, quando la Romania si è dotata della sua centrale.

Di questo modello di terza generazione ce ne sono due già attivi in Cina, due in cantiere nel Regno Unito e uno in Francia.

Anche in Italia si era parlato di questo modello per un eventuale ritorno al nucleare, ma il referendum del 2011 - che ha bocciato nuovamente questo tipo di energia - ha fatto abbandonare il progetto. Gli italiani si erano già espressi sul tema nel 1987. 

Nucleare e Rifiuti. Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2021. Nemmeno con la Salerno-Reggio Calabria si era arrivati a tanto. Ci sono voluti dieci anni per costruirla e quaranta per ammodernarla. Il caso in questione ha un’aggravante pericolosa: si tratta di scorie e rifiuti nucleari. È il 1987 e con un referendum popolare l’Italia chiude le centrali nucleari. Nel 1999 nasce la Società di Stato «Sogin», incaricata di chiudere il ciclo delle centrali di Caorso, Trino Vercellese, Garigliano, Latina.

Nemmeno con la Salerno-Reggio Calabria si era arrivati a tanto. (...) Il caso in questione ha un’aggravante pericolosa: si tratta di scorie e rifiuti nucleari.

I decreti Bersani (2001) e Marzano (2004) definiscono la tabella di marcia: entro il 2014 Sogin deve mettere in sicurezza i rifiuti nucleari di tutti gli impianti, inclusi quelli dell’ex-Enea, ed entro il 2019 smantellare le centrali. I materiali ottenuti vanno custoditi sui siti in depositi dedicati e, a fine lavori, conferiti in un unico deposito nazionale che, nel frattempo, sarà individuato e che Sogin costruirà e gestirà (lasciando le aree completamente decontaminate). I costi previsti per l’intera operazione ammontano a 3,7 miliardi di euro, caricati sulla bolletta elettrica secondo un sistema regolatorio fissato dall’autorità per l’Energia (Arera) nella voce «oneri di sistema». 

Le attività previste e quelle realizzate

I primi dieci anni passano a definire gli interventi per la disattivazione delle centrali, la sistemazione del combustibile irraggiato, la valutazione della possibilità di esportarlo temporaneamente per il riprocessamento, richieste delle autorizzazioni ecc. In breve: inerzia. Nel 2010 vengono richiesti i «piani a vita intera», cioè il programma di attività previsto anno per anno, fino al completamento dei lavori (il cosiddetto decommissioning). L’amministratore delegato è Giuseppe Nucci, che dichiara: «ll nuovo piano industriale intende migliorare l’efficienza e l’efficacia delle nostre attività con l’obiettivo di ottimizzare tempi e costi, consapevoli che Sogin è allineata alle migliori esperienze internazionali». Il costo totale sale a 5,71 miliardi e la fine lavori spostata al 2025. Il piano a vita intera prevede attività per 790 milioni entro il 2016. Ne sono state effettuate per 239 milioni (circa 30%). Luglio 2013 Nucci aggiorna il piano: il costo totale cresce a 6,48 miliardi. Previsti per i sei anni successivi lavori per 890 milioni. Lo stesso anno cambia il governo e il nuovo amministratore delegato è Riccardo Casale, ex ad di Geam, società di raccolta e smaltimento rifiuti urbani del porto di Genova. Nel 2018 attività effettivamente eseguite per 380 milioni, invece degli 890 (circa il 43%). A novembre 2017 il nuovo amministratore delegato è Luca Desiata: il costo totale sale a 7,25 miliardi di euro e la fine lavori spostata al 2036. Nei primi 6 anni previsto decommissioning per 966 milioni. Il documento consegnato alla Commissione Industria del Senato a dicembre 2018 riporta che l’azienda ha avviato l’efficientamento degli iter di gara, internalizzato attività, rafforzato la direzione dei lavori e dell’ingegneria. Tuttavia, dopo i primi 3 anni, invece dei 385 milioni di lavori previsti sono state eseguite attività per 176 milioni (il 46%). Nel 2019 viene nominato amministratore delegato Emanuele Fontani, dirigente Sogin da 12 anni, che presenta il suo piano: il costo totale cresce a 7,9 miliardi. E di nuovo viene annunciata l’imminente accelerazione tramite la «standardizzazione dei progetti e delle procedure di licensing; realizzazione di facility polifunzionali; centralizzazione della gestione dei rifiuti radioattivi». La previsione al 2025 sono attività per 910 milioni, di cui 94 entro il 2020. Di quelle programmate ne sono state eseguite per 50 milioni. L’andamento trimestrale del reale Stato di Avanzamento Lavori (Sal) mostra che anche nel primo trimestre 2021 le attività eseguite sono state 6 volte inferiori a quelle del trimestre precedente, come accade da almeno un decennio. 

I rifiuti liquidi a Saluggia e il progetto Cemex

La priorità assoluta è la messa in sicurezza dei rifiuti liquidi a Saluggia e la messa a secco del combustibile di Rotondella. Nel 2012 Sogin affida a Saipem, una della più grandi imprese di progettazione al mondo, la cementificazione dei rifiuti radioattivi. Il progetto «Cemex» è complesso perché deve utilizzare impianti che consentano di condurre le operazioni da remoto, visto l’alto livello di radioattività dei liquidi da trattare. Saipem consegna il progetto nel 2013. Sogin lo approva nel 2015, ma poi non sa gestirlo. Nel 2017 l’amministratore delegato Desiata e il direttore dello smantellamento degli impianti del combustibile, ingegner Emanuele Fontani, aprono un contenzioso. Dopo un ultimatum di Saipem, Sogin risolve il contratto per «manifesta incapacità».

Nell’impianto di Saluggia ci sono 270 mila litri di rifiuti radioattivi liquidi e acidi, stoccati in serbatoi di acciaio costruiti negli anni ‘60

Passano 3 anni, nel frattempo Fontani è nominato amministratore delegato di Sogin e, a luglio 2020, viene bandita una gara. A settembre, pochi minuti prima della scadenza dei termini, presenta un’offerta un solo raggruppamento di imprese composto da: consorzio Stabile Teorema, consorzio Stabile Conpact, consorzio Stabile Infratech, Penta System srl. Tutte aziende medio piccole, senza alcuna esperienza nucleare né di grandi impianti. A maggio 2021 incassano un anticipo di 30 milioni. A oggi sono state istallate la gru e le baracche di cantiere. Come risulta da ispezione Isin, su 6,9 milioni di euro di attività programmate per il 2021 al 30 novembre ne erano state eseguite per 400 mila euro. Nell’impianto di Saluggia ci sono 270 mila litri di rifiuti radioattivi liquidi e acidi, stoccati in serbatoi di acciaio costruiti negli anni ‘60. Sullo stato di conservazione non è dato sapere, perché inaccessibili a causa dell’alta radioattività. Nel ‘77 la licenza di esercizio rilasciata ai gestori dell’impianto aveva questa prescrizione: i rifiuti liquidi vanno solidificati entro 5 anni. Ne sono passati 40 e sono ancora lì. Caso unico al mondo. 

Il deposito che non c’è

La ricerca del sito nazionale dove conferire tutti i rifiuti è partita nel 2000. Nel 2002 la Conferenza Stato Regioni ha prodotto una prima mappa. Altre sono state fatte nel corso degli anni, ma tenute nei cassetti. Il 9 gennaio scorso vengono resi pubblici i luoghi più adatti: 12 aree collocate fra la provincia di Alessandra (dove oggi sono stoccati i rifiuti più pericolosi nelle condizioni che abbiamo detto), di Torino e Viterbo. L’iter prevede la consultazione pubblica, la stesura di una carta definitiva e, infine, il confronto con le popolazioni per raggiungere un accordo sull’indennizzo. Solo a quel punto può iniziare la costruzione vera e propria, che durerà quattro anni e costerà 900 milioni. Ad oggi, 20 dicembre, questi dialoghi Sogin non li ha neppure iniziati. Nel frattempo, i rifiuti mandati in Inghilterra e in Francia al condizionamento stanno tornando indietro. Non avendo ancora il sito nazionale dove metterli, dobbiamo pagare 50 milioni l’anno per tenerli stoccati fuori. 

I costi

Il costo totale previsto per il completamento del decommissioning entro il 2019 era di 3,7 miliardi. Come risulta dalle delibere Arera, alla fine del 2020 Sogin è già costata 4 miliardi di euro, di cui 2,2 miliardi sono serviti a pagare gli stipendi del personale (lievitato da 650 a 1.100 unità), le auto di alta gamma e altri benefit e bonus agli oltre trenta dirigenti. Lavori eseguiti in 20 anni: circa il 30%. Il condizionamento dei più pericolosi rifiuti radioattivi pregressi non è neppure iniziato, e lo smantellamento delle «isole nucleari» (Trino, Caorso, Latina, Garigliano) nemmeno del tutto progettato. Eppure i dirigenti, nonostante siano responsabili dei risultati sopra descritti, sono sempre stati tutti confermati. Non solo, hanno pure incassato i bonus. Il meccanismo è questo: alla fine di ogni anno si riduce drasticamente il volume dei lavori da eseguire l’anno successivo, così stai sempre dentro al budget. L’anno successivo cambi il tipo di lavori da concludere nell’anno, con altri più semplici. L’Autorità approva, e i dirigenti incassano il premio. Mediamente 3 milioni di euro l’anno. 

Chi deve vigilare

L’Autorità per l’Energia ha sempre pagato a piè di lista, senza applicare le penalità previste quando non si raggiungono gli obiettivi. Solo quest’anno ha introdotto un nuovo quadro regolatorio. Non ha mai vigilato l’azionista cioè il Mef, né il ministero dello Sviluppo Economico, né il ministero dell’Ambiente. 

Oggi la governance Sogin ha trovato un ostacolo nel ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani: «l’unica soluzione possibile è un commissariamento su modello Ponte Morandi, perché è un problema di ordine nazionale». Il Mef prende tempo. Un altro rinvio ci può esporre a rischi di dimensioni spaventose. Solo a Saluggia, ricordiamo, è stoccata il 75% di tutta la radioattività presente sul territorio nazionale. E la messa in sicurezza è stata assegnata a un gruppo di imprese di manutenzione e pulizie! Il sito è a 60 metri dal fiume Dora Baltea e sopra la falda dell’acquedotto del Monferrato. Dopo l’alluvione del 2000, Carlo Rubbia, allora presidente dell’Enea, proprietaria del sito, recapitò al governo uno studio (qui la lettera originale di Rubbia): «lo sversamento di una parte di quei liquidi renderebbe necessaria l’evacuazione delle sponde del Po fino al delta, e terreni e falde adiacenti inutilizzabili per decenni». Con quale giustificazione si prende ancora tempo?

L'Ue accelera sul nucleare: "Riduce le emissioni". Luca Sablone il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Attesa entro fine anno la proposta della Commissione Ue sulla classificazione degli investimenti sostenibili. Esulta Forza Italia: "Gas e nucleare sono importanti nella transizione verde". L'Unione europea intende accelerare sullo spinoso fronte politico della tassonomia europea. Nei prossimi giorni Bruxelles dovrà decidere se etichettare come ecologici anche gli investimenti in gas ed energia nucleare: poco prima di Natale, probabilmente il 22 dicembre, dovrebbe arrivare la proposta della Commissione Ue sulla classificazione degli investimenti sostenibili. Il tutto con l'inclusione proprio di gas e nucleare. Tuttavia bisognerà sciogliere alcuni nodi principali, come ad esempio quello relativo ai paletti per strutture e limiti.

La svolta sul nucleare

A fornire un'importante anticipazione è stato Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione, secondo cui è arrivato il momento di riconoscere come entrambe le fonti energetiche svolgano un ruolo non indifferente nella transizione energetica: da una parte bisogna prendere atto che il nucleare "è molto importante per ridurre le emissioni"; dall'altro che il gas naturale "sarà molto importante per passare dal carbone all'energia rinnovabile". Ma senza classificarle come "verdi".

La presentazione della proposta di atto delegato su gas e nucleare, attesa dall'estate scorsa, doveva arrivare nelle ultime settimane ma è sempre stata posticipata. L'ulteriore rinvio - fa notare l'Ansa - consentirebbe alla presidente Ursula von der Leyen di discutere la proposta anche con i leader Ue in occasione del vertice fissato per giovedì 16 dicembre.

Esulta Forza Italia

In attesa di conoscere nello specifico quella che sarà la proposta sulla tassonomia green, Forza Italia apprende "con soddisfazione" i segnali lanciati dalla Commissione e le parole pronunciate dal vicepresidente Frans Timmermans "che di fatto dà ragione al Partito popolare europeo": il Ppe ha sempre sostenuto con convinzione il "ruolo importante del gas e del nucleare nella transizione verde".

"Da folli non considerarlo": si riapre la partita sul nucleare 

L'europarlamentare Massimiliano Salini sottolinea che le proposte devono essere assolutamente improntate "ad un sano realismo": è necessario essere coscienti del fatto che una transizione sostenibile (sia sul piano economico-sociale sia su quello ambientale) "deve essere graduale e prevedere un adeguato mix energetico". Pertanto non si possono "demonizzare in modo ideologico" alcune fonti che invece risultano essere strategiche "per accompagnare famiglie ed imprese in questa fase di cambiamento epocale".

Le parole di Dombrovskis

Nelle scorse ore Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione Ue, ha confermato che l'inserimento di gas e nucleare nella tassonomia è una questione che è stata sollevata da vari ministri. E poi ha aggiunto: "Per il mix energetico del futuro abbiamo bisogno di più rinnovabili ma anche di fonti stabili e la Commissione adotterà una tassonomia che copre anche il nucleare e il gas". In sostanza è stato confermato quanto era nell'aria già da tempo: la Commissione proporrà una tassonomia che coprirà anche gas e nucleare.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a

Nucleare, il primo reattore della società di Bill Gates sarà in Wyoming (e costerà 4 miliardi). Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2021. TerraPower, la società di tecnologie innovative per l’energia nucleare fondata nel 2006 e presieduta da Bill Gates ha deciso dove installare il primo reattore dimostrativo: sarà a Kemerer, nel Wyoming, una cittadina statunitense di circa 2.500 abitanti. L’impianto, che costerà circa 4 miliardi di dollari, vedrà la luce nel 2028 e utilizzerà la nuova tecnologia nucleare Natrium (sviluppata insieme con Hitachi).

La location

La location è stata individuata tenendo conto di una serie di fattori, da una parte la scarsa sismicità dell’area , dall’altra la presenza della centrale a carbone di Naughton, che sarà chiusa definitivamente nel 2025 e il suo stabilimento ospiterà il nuovo impianto di TerraPower. Un passaggio a cui si può anche attribuire anche un valore simbolico, dai vecchi metodi alle nuove soluzioni per la produzione di energia. A contribuire alla costruzione del reattore c’è il programma Advanced reactor demonstration del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti, che provvederà stanziando la metà dei fondi necessari. Il piano prevede una centrale elettrica da 345 megawatt, con una prospettiva di aumento della capacità fino a 500 mw, e circa 60 anni di vita.

Il funzionamento

Natrium è la tecnica innovativa alla base del reattore sviluppata da TerraPower e GE-Hitachi: impiega un reattore al sodio per produrre calore che può essere utilizzato per generare elettricità immediata o da conservare in riserve di stoccaggio termico per ore. Come refrigerante, al posto dell’acqua, sarà adoperato il sodio metallico liquido, che non solo permette di usare l’80% di calcestruzzo in meno per mwe (a differenza dei reattori di oggi), ma soprattutto ha un punto di ebollizione più alto e può assorbire più calore. Questo significa che all’interno del reattore non si accumulerà l’alta pressione e di conseguenza il rischio di un’esplosione è considerevolmente ridotto. Un altro aspetto non trascurabile riguarda il fatto che i sistemi di raffreddamento possono funzionare senza una fonte di energia esterna, circostanza che limita i pericoli in caso di arresto di emergenza. Il calore accumulato dal sale fuso che opera come refrigerante può poi essere immagazzinato e utilizzato per creare altra energia elettrica tramite la generazione di vapore.

Il combustibile e la convenienza

Come combustibile il reattore di TerraPower impiegherà l’Haleu (non ancora disponibile su scala commerciale), metallico ad alto dosaggio di uranio a basso arricchimento che appartiene a una nuova classe di combustibili nucleari in cui il contenuto di isotopo di uranio-235 è superiore al 5% ma inferiore al 20%. Un elemento che contribuisce a rendere l’impianto più compatto in termini di dimensioni rispetto a quelli convenzionali e ciò comporta che la costruzione e la manutenzione risultino più veloci ed economiche. In futuro si prevede che un singolo impianto nucleare con il design Natrium possa costare «solo» un miliardo di dollari.

La storia infinita del deposito delle scorie radioattive che nessuno vuole. Mentre Cingolani spinge per il nucleare del futuro, non è ancora risolto il problema delle vecchie centrali chiuse. E dalle 67 aree selezionate dalla Sogin per mettere in sicurezza i rifiuti entro l’anno arriva un no compatto e bipartisan.  Gianfrancesco Turano su L’Espresso il 9 novembre 2021. C’è tempo tutto novembre per chi volesse seguire un corso accelerato in rapporti fra politica ufficiale e paese reale. Basta andare sul sito della Sogin, la società che lo Stato ha incaricato di smaltire le centrali nucleari, e seguire il seminario nazionale sulla Cnapi, la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale delle scorie radioattive. Il processo di selezione dalla short list è stato avviato il 5 gennaio e le consultazioni in streaming sono aperte a tutti i portatori di interesse ossia enti locali, associazioni sindacali e industriali, comitati, semplici cittadini. Il format online non è breve, oltre cinque ore a puntata, ma nulla è breve nei vent’anni di attività della Sogin, giunta dopo numerosi rinvii a identificare 67 zone papabili in cinque macroaree di otto regioni (Piemonte, Toscana-Lazio, Puglia-Basilicata, Sardegna, Sicilia). Fra queste bisognerà selezionare la vincente. Come si fa a dire che è la volta buona? Semplice: perché il consenso è unanime. Tutti vogliono il deposito nazionale, tutti concordano che è cosa buona e doverosa. Ma nessuno lo vuole nel suo cortile. Insomma il deposito è un po’ come la morte. Necessaria e inevitabile, purché tocchi a qualcun altro. E poiché per morire c’è sempre tempo, l’Italia ha preferito rinviare di anno in anno, di cda in cda, di nomina in nomina, facendo di Sogin un esempio di stratificazione geologica delle varie età politiche. Basta dare un’occhiata alla lista di decine di consulenti legali della società controllata dal Tesoro e finanziata dalle bollette elettriche. Ci sono Andrea Guarino, ex deputato dell’Ulivo nel 1996 con Rinnovamento italiano, Stefano Previti, collega di studio e figlio dell’ex ministro forzista Cesare, Luisa Torchia, consigliere giuridico di Romano Prodi e di Franco Bassanini, Andrea Gemma, fedelissimo dell’allora vicepresidente del consiglio Angelino Alfano. Per restare ai giorni nostri, c’è Luca Di Donna, socio di Giuseppe Conte finito sotto inchiesta per avere sfruttato troppo bene l’amicizia con l’ex premier. Infine, c’è Piersante Morandini, vicino all’attuale ad Emanuele Fontani, dirigente interno nominato il 17 dicembre 2019 dai due ministri al tempo più influenti su Sogin, i grillini Stefano Patuanelli (Sviluppo economico) e Sergio Costa (Ambiente). Fontani dovrà tirare le somme del seminario nazionale. Una volta firmato il bilancio 2021, lascerà il passo a un nuovo ad, che sarà suggerito al Mef da Giancarlo Giorgetti (Mise) e Roberto Cingolani (Mite). Nel frattempo la mappa europea si è riempita di depositi centralizzati di rifiuti radioattivi. Ce ne sono trentadue, di cui sei in costruzione, sette chiusi, nove realizzati in profondità e il resto in superficie. Sono dovunque tranne che in Italia. Ciò dimostra quello che tutti danno per scontato. Il deposito nazionale è sicuro e conviene ospitarlo. In tempi di magra per gli enti locali l’investimento promesso sui 150 ettari (10 per i rifiuti ad attività bassa, altri 10 per quelli più nocivi, 90 per le protezioni, 40 di parco tecnologico) è pari a 900 milioni di euro. Per i quattro anni di costruzione sono previsti 4 mila posti di lavoro che scenderanno a 700 stabili quando l’impianto sarà a regime. Ossia, quando? Nel cronoprogramma Sogin dopo il seminario nazionale c’è un mese per le osservazioni finali. A fine dicembre dalla Cnapi si passa alla Cnai (carta nazionale delle aree idonee) con l’eliminazione dell’avverbio potenzialmente e si raccolgono le manifestazioni di interesse. Che a tutt’oggi sono pari a zero. Nessuno ha fretta di portarsi in casa i fusti radioattivi delle quattro centrali nucleari chiuse dopo il referendum del 1987 (Caorso, Garigliano, Trino Vercellese, Latina) e dei siti collegati di Saluggia e Bosco Marengo in Piemonte, di Casaccia in provincia di Roma e Rotondella (Matera). Nell’attesa miracolistica che qualcuno si faccia avanti, si parla di cinque o sei anni minimo per l’entrata in attività del deposito proprio mentre Cingolani riapre alla fissione nucleare in una fase in cui l’abbandono accelerato delle fonti fossili rischia di creare un gap energetico allarmante. Ma questa è un’altra storia. La Sogin è nata per smantellare e smantella attraverso il confronto democratico. Intanto il tempo passa e il tassametro dei costi gira. 

CI SONO VOLONTARI?

Il seminario nazionale è stato impostato secondo un calendario che ha messo in prima battuta le due isole maggiori, Sicilia e Sardegna, entrambe a statuto autonomo. Ospiti fissi sono la moderatrice Iolanda Romano, ex commissario straordinario al Terzo Valico Milano-Genova su nomina dell’allora ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, e Fabio Chiaravalli, direttore del deposito nazionale e parco tecnologico nonché manager Sogin dalla fondazione (2001) realizzata con un massiccio trasferimento di personale dall’Enel. Guardando lo streaming è difficile evitare la sensazione di assistere a un talent show al rovescio, dove i candidati maltrattano i giudici. Romano (frase di culto «si possono fare domande, anche retoriche») e Chiaravalli (citazione dotta da Paracelso «dosis sola venenum facit») si scontrano con l’allevatore che chiede «quanto date all’ettaro», con l’autonomista sardo con bandierone dei Quattro Mori. Scienziati di ogni estrazione convocati a difendere il deposito non fanno breccia nell’ostacolo insormontabile della politica locale nemmeno quando citano i buoni esempi dell’Europa e filmano il vignaiolo della Champagne, regione dove i francesi hanno installato il loro deposito, mentre rilascia dichiarazioni tranquillizzanti, quasi lamentandosi dei troppi controlli sulle emissioni. In cambio, l’assessore siciliano all’ambiente Salvatore Cordaro sottolinea un elenco infinito di ostacoli, dall’insularità ai trasporti, dai terremoti alle piene. L’esponente della giunta Musumeci è sostenuto dagli interventi successivi: nessuna delle quattro aree individuati dal Cnapi va bene. A Trapani città siamo in città e vicino ai vini di Alcamo. A Calatafimi-Segesta c’è il tempio dorico più nove laghi artificiali. A Petralia Sottana e Castellana Sicula la strada verso il deposito passerebbe dal centro di Resuttano. A Butera c’è l’uva di Canicattì e inoltre «depositi alluvionali di età olocenica». La Sardegna, dove le aree selezionate sono quattordici, condivide l’insularità e rimanda al mittente Sogin l’offerta attraverso un rappresentante del presidente regionale Christian Solinas. Anche qui, come dovunque in Italia, è un elenco di eccellenze agroalimentari da ristorante stellato: pecorini, grano, carciofi, zafferano. In più, si citano i nuraghi e un referendum del 2011 quando gli elettori hanno votato no al nucleare in Sardegna con uno schiacciante 97 per cento e un’affluenza del 58,6 per cento, superiore di cinque punti alle ultime regionali. In Basilicata Gianni Rosa, l’assessore all’ambiente della giunta guidata dal generale Vito Bardi, cita la minaccia all’oro blu dell’Acquedotto pugliese e un altro dei quindici criteri di esclusione: le licenze per ricerche petrolifere in una regione che ha già il maggiore giacimento offshore d’Europa. Stessa musica in Puglia con l’aggravante, rivelata dalla geologa dell’università di Bari Luisa Sabato, che le carte usate per individuare le aree sono vecchie e non più corrispondenti alla mappatura attuale. Quanto al Lazio, la frontwoman della protesta è Camilla Nesbitt, cofondatrice della casa di produzione Taodue insieme al marito Pietro Valsecchi. In prima linea qui è la difesa della Tuscia, a nord di Roma dove, dichiara Nesbitt, «c’è un terzo delle 67 aree selezionate dalla Cnapi». Anche per la sessione territoriale del Lazio, prevista il 9 novembre, si annuncia battaglia e il Piemonte, che ha l’ultimo incontro del seminario nazionale in programma il 15 novembre, ha già mandato a giugno un documento di 130 pagine per dire che nessuno dei suoi otto siti è idoneo. La Toscana ha fatto lo stesso un mese dopo completando un esempio più unico che raro di schieramento bipartisan e lasciando i rappresentanti locali di Legambiente all’opposizione di se stessi. Non solo perché sostengono che il deposito va fatto, purché altrove e non è chiaro dove, ma anche perché la Cnapi manca di un altro acronimo importante, la Vas o valutazione ambientale strategica, prevista a valle della scelta del sito. Intanto che si progettano parchi e depositi, Sogin non ha ancora risolto i suoi problemi di indebitamento (371 milioni del 2020). Anche i costi rimangono ai livelli abituali, in particolare quelli del personale che l’anno scorso è arrivato a 89 milioni di spese con 1148 dipendenti. Per adesso, il bilancio chiude in attivo per 7 milioni di euro. Ma il grosso dei ricavi continua a venire dalle bollette. Fontani, intanto, continua a cambiare l’organigramma come se avesse davanti due mandati triennali anziché due mesi. Sono operazioni che non accelerano i lavori ma la fretta in Sogin è un rischio a bassissima intensità.

I fantasmi giapponesi del disastro nucleare di Fukushima. Federico Giuliani il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Il giornalista Richard Lloyd Parry ricostruisce il disastro di Fukushima nel volume "Fantasmi dello tsunami. Nell'antica regione del Tohoku". Prima il terremoto, poi lo tsunami. L'acqua grigia, dello stesso colore del cielo, rompe gli argini e travolge tutto ciò che incontra lungo il proprio percorso. Case, auto, persone, e perfino i reattori della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi. L'11 marzo 2011 il Giappone viene colpito da una doppia catastrofe che cambierà per sempre le sorti del Paese. Nel primo pomeriggio, un terremoto di magnitudo 8.9, con epicentro a circa 130 chilometri dalla costa nord orientale, davanti alla città di Sendai, genera un violento tsunami. Le onde, alte fino a dieci metri, uccidono circa 18mila persone. Ma il peggio deve ancora arrivare.

La Chernobyl giapponese

È ormai sera quando i reattori della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi si fondono. Lo tsunami danneggia gli impianti di raffreddamento della struttura, provocando un’immediata fusione del combustibile atomico e un’esplosione nel reattore numero 1. Seguono, nei giorni successivi, altri meltdown nel reattore 3 e 2, oltre al danneggiamento di una piscina di combustibile esaurito sulla sommità del reattore 4. L'incidente viene classificato di grado 7 nella scala Ines, ovvero il livello più alto possibile e della stessa gravità del famigerato disastro di Chernobyl.

Questi, in estrema sintesi, i fatti accaduti nel giorno più nero del Giappone dopo le tragedie di Hiroshima e Nagasaki. Gli stessi fatti raccontati nel dettaglio da Richard Lloyd Parry in Fantasmi dello tsunami. Nell'antica regione del Tohoku, libro vincitore del Rathbones Folio Prize, appena uscito in Italia e pubblicato da Exòrma edizioni.

Le esplosioni avvenute nei reattori hanno sparso la ricaduta radioattiva nell’entroterra. Più di 200mila persone sono state costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Fortunatamente, grazie a una rapida evacuazione, nessuno è morto a causa delle radiazioni. Tuttavia, almeno nell'immaginario collettivo, quei territori saranno marchiati per sempre, senza considerare le possibili conseguenze a lungo termine della stessa Fukushima.

I fantasmi di Tohoku

Parry, corrispondente per The Times e residente a Tokyo, ha viaggiato per anni nel Tohoku, la regione colpita dallo tsunami. L'autore ha visitato le comunità devastate, focalizzando il suo racconto per lo più sulla tragedia avvenuta nella scuola elementare di una piccola comunità chiamata Okawa, vicina alla foce del fiume Kitakami. L'incidente ha causato la morte di 74 dei 78 bambini presenti nell’edificio.

I racconti di quei giorni è toccante. In un silenzio surreale, pochi giorni dopo la tragedia, molte famiglie non riescono a riconoscere i bambini estratti dal fango. C'è chi si affida addirittura ai medium nella speranza di localizzare i resti non ancora recuperati dei loro cari, continuando a scavare per mesi e anni. È così che, nell'immaginario collettivo, Tohoku si affolla di fantasmi e si moltiplicano gli avvistamenti.

Accanto alla ricostruzione del dramma, il libro di Parry si sofferma anche sulle conseguenze della tragedia, sulle richieste di risarcimento, sul disfacimento delle famiglie superstiti e sulla crisi sociale nei villaggi situati nella "zona rossa". E ancora: grande attenzione viene riservata ai fallimenti delle autorità locali e del governo centrale di fronte alle necessità imposte dall’emergenza. Un'emergenza che ha cambiato per sempre la quotidianità di migliaia di persone e di un popolo intero.

Federico Giuliani è nato a Pescia (Pistoia) nel 1992. Si è laureato in Comunicazione, Media e Giornalismo presso la Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" di Firenze. Si è poi specializzato in Strategie della Comunicazione Pubblica e Politica con una tesi sul sistema politico della

Cop26. Avanti con la ricerca sul nucleare verde, dice il ministro Cingolani. Linkiesta il 3 Novembre 2021. Da Glasgow, il responsabile della Transizione ecologica spiega che è impossibile abbandonare il gas subito. Si attende la nuova tassonomia della Commissione europea sulle fonti energetiche «poi gli Stati prenderanno le loro decisioni», tenendo conto delle nuove tecnologie come i mini-reattori. E l’Ilva deve passare all’idrogeno verde, ma «non si fa in un anno»

«È oggettivamente impossibile uscire subito dal gas». E «la ricerca e lo sviluppo per il nucleare» non vanno fermate.

Dalla Cop26 di Glasgow, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani rilascia tre interviste, a Corriere, Repubblica e La Stampa, per presentare un progetto nato da un’idea della Fondazione Rockfeller, sulla quale ha convinto Mario Draghi a mettere il cappello. Si chiama «Global Energy Alliance for People and Planet», e promette di essere uno dei più grossi esperimenti di partnership fra pubblico e privato sul clima.

Il governo ci metterà una cifra simbolica, 10 milioni di euro, ma i soldi veri arriveranno dalle istituzioni private e multilaterali. Parteciperanno, tra gli altri, la Banca mondiale, la Fondazione Ikea, il Besoz Earth Fund. In queste ore, dice il ministro, «si stanno aggiungendo una decina di Paesi europei».

Dopo anni di tentativi andati a vuoto per ottenere impegni da parte degli Stati, la finanza privata ora ha abbracciato la transizione energetica. È un’occasione per migliorare la reputazione, ma anche di business. Secondo le stime di Cingolani, l’Alleanza garantirà 10 miliardi di euro per investimenti «a leva», ovvero saranno il volano finanziario per una cifra molto più alta, «fino a cento miliardi».

Cingolani racconta dei giovani coinvolti nella «Youth For Climate», dei «messaggi che mi scambio con molti di loro su WhatsApp» e dei 3-4 milioni di euro che il governo intende stanziare per rendere quel forum permanente. «Anche io da giovane ho protestato. Ma il mio obiettivo è far sì che quella protesta si trasformi in proposta».

Il sogno di un mondo decarbonizzato gli piace, ma per arrivarci ora non si può fare a meno né del gas, né del nucleare – dice. Il dibattito a livello europeo è aperto. Il governo che sta per nascere in Germania è deciso a chiudere tutte le vecchie centrali nucleari, ma in Europa sono in pochi a voler mettere quella tecnologia nel cassetto. Il governo Draghi ha una posizione cauta. Dice Cingolani: «Sul nucleare dico di aspettare» le valutazioni della Commissione europea, «poi gli Stati prenderanno le loro decisioni», tenendo conto delle nuove tecnologie come i mini-reattori «perché dalla ricerca possono uscire soluzioni inaspettate».

Entro novembre la Commissione Von der Leyen deve decidere se il nucleare vada considerata o meno un’energia rinnovabile. In un documento non ufficiale spedito a Bruxelles e diffuso ieri dall’Ansa, Parigi propone di introdurre tetti alle emissioni e la possibilità di pianificare impianti nucleari fino al 2030, puntando nel frattempo sulla tecnologia verde.

Cingolani specifica: «Si tratta di tecnologie non mature, da non confondersi con quelle su cui abbiamo fatto il referendum. Dopo la tassonomia, serviranno anni di studio per valutare tre cose: la sicurezza, il costo e la quantità di scarto radioattivo per energia prodotta. Giappone, Stati Uniti, Regno Unito e Francia stanno già facendo questi studi. Vedremo che cosa esce da questi numeri e, semmai ci vorremo pensare, ci penseremo con i dati in mano». Ma solo «se è considerato verde puoi pensare di investirci, altrimenti no. E magari nel frattempo scopriremo qualcosa di completamente nuovo che renderà questa discussione inutile».

Il ministro resta con i piedi per terra, ben sapendo che le fonti rinnovabili, al momento, da sole non bastano: «Per dismettere il metano dobbiamo avere continuità, puntando su un energy mix che contempli maggiore eolico e solare. Essendo però fonti intermittenti dobbiamo stabilizzare almeno il 25% del nostro fabbisogno. Significano centinaia di terawattora, servono grossi investimenti sugli accumulatori». E poiché al momento però non sappiamo quanto davvero un’energia sia verde o meno, rischiando di produrre con una persistente impronta di carbonio, Cingolani dice che bisogna aspettare la tassonomia Ue. «L’Europa deve stabilire i criteri. Quali sono le sorgenti di energia cosiddette verdi. È un lavoro fondamentale. Poi ogni Paese calibrerà autonomamente il proprio energy mix, ma bisogna fare chiarezza su dove e come».

Ma il bilancio di Cingolani sulla Cop26 è positivo: «Qui a Glasgow c’è un senso di urgenza manifesto e condiviso. Non era scontato. Al G20 abbiamo ottenuto un grande risultato: l’accordo sul tetto di 1,5 gradi. È normale che sul quando ci siano differenze tra economie diverse, ma è comunque un passo avanti. Così come lo è la consapevolezza che non si può più pensare nell’ottica dei 100 miliardi promessi ai Paesi in via di sviluppo, ma di almeno 1.000 miliardi l’anno. Qui entrano in gioco la filantropia, le banche, l’interazione tra pubblico e privato che non serve solo alla transizione energetica, ma a colmare diseguaglianze colossali», spiega il ministro. Certo, non basta, «ma è la condizione senza cui non possiamo fare il resto. Poi servono i rapporti internazionali, un investimento epocale in tecnologia. L’impegno di net zero al 2050 è molto gravoso. Net significa netto, il bilancio tra quello che emettiamo e quello che intrappoliamo di C02 deve essere zero. Per farlo bisogna accelerare sul fronte delle tecnologie. Come per il Covid il senso di urgenza nato dalla pandemia ha portato a un vaccino in 18 mesi, sul clima deve accadere qualcosa di simile. Operazioni come la Global Energy Alliance possono essere acceleratori formidabili. I soldi sono la benzina, bisogna costruire la macchina».

Ma a che punto siamo in Italia con la dipendenza dalle fonti fossili? «Proprio sull’Ilva ci vedremo in questi giorni al ministero», risponde Cingolani. «Lì bisogna passare dal carbone all’elettrico: inizialmente si farà col gas, ma bisogna subito predisporre il passaggio all’idrogeno. Che deve essere verde». Ma «non si fa in un anno». «Forse in tre puoi passare al gas. Per l’idrogeno, bisogna capire quanto verde si riesce a mettere in piedi».

Cingolani riapre al nucleare: "Inquina meno del carbone". Antonella Aldrighetti il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dopo le polemiche del mese scorso, il ministro preferito dai 5s cambia ancora idea: "L'atomo? Non lo condanno". Chissà se sia stata l'asserzione esplicita del ministro Giancarlo Giorgetti, in missione a Washington, su autosufficienza energetica e nucleare pulito a scatenare di nuovo il dibattito sulle soluzioni da adottare per fare fronte alle nuove necessità del fabbisogno nazionale. Fatto sta che, di rimando, anche il suo collega Roberto Cingolani ha decretato di non essere un fan del nucleare ma certo, di non condannarlo. Il ministro della Transizione ecologica, designato dai Cinquestelle e poi discostandosi dai suoi sostenitori, ha avvalorato la posizione declinando tempi e modalità per l'autosufficienza energetica alternativa: «Dieci anni per avere una buona percentuale di rinnovabili nell'energy mix sono necessari: in questi 10 anni la transizione deve essere supportata, serve un mix con gas e altre forme di energia». Ha detto Roberto Cingolani, a Digithon 2021, ricordando che: «Oggi produciamo circa un terzo dell'energia necessaria da fonti rinnovabili: ma la quantità di potenze elettriche in rinnovabili richiede anni. Il piano italiano per i prossimi 9 anni è di più che raddoppiare la potenza elettrica prodotta da solare ed eolico: vuol dire 70 mld di watt di impianti e questo sforzo enorme vuol dire installare decine di km quadrati di impianti solari, pale eoliche alte 200 metri, impianti offshore, con problemi di permessi ambientali e paesaggistici, infrastrutture enormi. Tutto questo si fa ma non in due mesi». Quanto invece all'energy mix il fisico ha rimarcato quanto «l'alto prezzo del gas pesa per l'80% sulla bolletta, mentre il restante 20% di aumento dipende dall'aumento dell'anidride carbonica». Ed ecco perché la scialuppa di salvataggio del nucleare pulito potrebbe veder riaprire un varco possibile. «La chiusura delle centrali nucleari è avvenuta per via dell'incidente di Fukushima, sull'onda anche un po' emotiva, però la cosa più urgente in questo momento è chiudere le centrali a carbone, entro il 2025. In questo momento il nucleare inquina di meno, la priorità è togliere il carbone» ha spiegato Cingolani commentando il dibattito in corso in Germania sulla chiusura delle centrali nucleari. «Io non sono un fan del nucleare però non sono nemmeno uno che condanna il nucleare e non sono fan di nessuna tecnologia. Però essendo uno scienziato - ha precisato - la soluzione ancora non l'abbiamo ma se smettiamo di studiare, di fare ricerca e innovazione certamente la soluzione non viene da sola». Insomma ci risiamo. Esattamente come un mese fa, quando lo stesso Cingolani citando il nucleare si scontrò subito con gli antinuclearisti tant'è che fu costretto a fare retromarcia rammentando i due referendum prima del 1987 e poi del 2011 con cui furono abrogate alcune disposizioni sull'energia nucleare. A oggi a rispondere a Cingolani arriva Angelo Bonelli, portavoce di Europa verde, che evidenzia la necessità dell'Unione Europea di dire basta al nucleare francese mentre in Italia «tutto diventa strumentale per disorientare l'opinione pubblica, anche il nucleare». Più morbido il commento del sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, a margine della plenaria della conferenza sul futuro dell'Europa: «Credo abbia perfettamente ragione il ministro Cingolani. Non dobbiamo precluderci la possibilità di considerare, studiare, fare ricerca su altre opzioni diverse da quelle che abbiamo conosciuto fino a oggi di utilizzo del nucleare per produzioni energetiche che possono aiutare e supportare la conversione ecologica». Antonella Aldrighetti

Niccolò Serri per civiltadellemacchine.it il 23 settembre 2021. “Negli anni Ottanta ero ancora ragazzo, ricordo i dibattiti sulla gestione delle scorie e, dopo Cernobyl, la paura di respirare l’aria contaminata, a cui si univano i perduranti timori legati all’evolvere della Guerra Fredda.” A parlare è Luciano Floridi, Professore di filosofia dell’informazione all’Università di Oxford, studioso di fama mondiale sui temi dell’etica e della sociologia del digitale; Eccellenza di ritorno, da quest’anno è anche titolare della cattedra di sociologia della cultura e della comunicazione presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Lo abbiamo raggiunto per fargli alcune domande sul dibattito che agita il Paese nelle ultime settimane: nucleare si, nucleare no? E se si, a quale prezzo?

Professore, nelle ultime settimane, l’energia nucleare è tornata al centro del dibattito Italiano. Utilizzare la fissione dell’atomo per generare energia aumenta il rischio di incidenti potenzialmente catastrofici e pone il problema della gestione di rifiuti radioattivi, ma consente anche di ridurre drasticamente le emissioni di CO2. Si tratta di una tecnologia irrinunciabile per la transizione verde?

La storia dell’energia nucleare in Italia è molto originale: il nostro paese è stato tra i primi a creare un’industria per l’energia nucleare, a partire dai primi anni Sessanta, con ben quattro reattori, assolutamente all’avanguardia, pur senza mai avvicinarsi alle sue applicazioni militari. L’anno successivo al disastro di Cernobyl del 1986, si sono svolti in Italia i referendum abrogativi che hanno, de facto, chiuso quell’esperienza. Oggi si torna a parlare di nucleare non soltanto per le ragioni ambientali, ma anche perché la tecnologia delle centrali è evoluta. Temo però che adesso sia tardi. La mia risposta non vuole essere negativa di principio. In passato sono stato favorevole ad una riconsiderazione senza pregiudizi delle politiche energetiche del paese, anche per quanto riguarda il nucleare, ma oggi siamo fuori tempo massimo: l’alternativa al nucleare non sono più i combustibili fossili, ma le energie rinnovabili, come l’eolico e il solare, che sono più competitive. Mi sembra che il nucleare – almeno per quanto riguarda la fissione – abbia raggiunto la sua maturità tecnologica e non sia più possibile immaginare una riduzione sostanziale dei costi iniziali di investimento, e soprattutto di quelli di smaltimento delle scorie e dismissione. Il decomissioning della centrale di Latina è cominciato nel 1999 e sarà completato solo nel 2027. Le energie rinnovabili, invece, sono in una fase di forte crescita, in cui è possibile aspettarsi che i costi di produzione diminuiscano velocemente. Ciò è vero soprattutto per il nostro paese, che ha straordinarie ricchezze dal punto di vista naturalistico e grandi potenzialità per l’eolico e il solare. L’Inghilterra non può fare lo stesso discorso, ne può farlo la Germania, che sull’onda dell’incidente di Fukushima, in Giappone, ha dismesso frettolosamente le proprie centrali nucleari, con il risultato di aumentare la propria dipendenza dal gas naturale. Esistono, poi, altri ordini di problemi che riguardano l’accettabilità sociale e la sicurezza della produzione energetica: chiedere oggi ad una comunità territoriale se preferisce ospitare una centrale nucleare o una ad energia solare dovrebbe avere una risposta scontata. Allo stesso modo, disporre di una centrale nucleare pone diversi rischi per la sicurezza nazionale, che deve fare i conti con minacce di tipo tradizionale e nuovi pericoli legati alla cybersecurity. Sommando il tutto, considerati i costi in termini di investimenti, impatti ambientali e sociali, il nucleare non è più conveniente. 

Lei ha ricordato il peculiare rapporto dell’Italia con l’energia nucleare: dai contributi scientifici di Enrico Fermi e dei Ragazzi di Via Panisperna alla costruzione delle prime centrali nucleari che facevano del nostro paese, a metà degli anni Sessanta, il terzo produttore al mondo di energia elettrica da fonte nucleare dopo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. I referendum abrogativi del 1987 hanno posto fine a quell’esperienza: si è trattato di un’opportunità mancata? 

Se mi avesse fatto questa domanda allora, negli anni Ottanta, avremmo potuto discutere, con i dati empirici alla mano, se e quali investimenti mettere in campo per rendere sufficientemente sicura e conveniente l’energia nucleare. Forse abbiamo perso un’opportunità, ma è bene capire che oggi quell’opportunità è passata. Certo, l’abbandono del nucleare può aver creato una maggiore dipendenza dai combustili fossili sul breve periodo – probabilmente l’Italia avrebbe subito meno gli effetti dei periodici rincari del greggio – ma la storia fatta con i se resta un esercizio teorico. Oltretutto, ci ritroveremmo con il peso dello stoccaggio e smaltimento delle scorie. Tornare al nucleare oggi, con i finanziamenti messi a disposizione dall’Europa per la transizione verde, rappresenterebbe una nuova opportunità mancata. Dobbiamo guardare al futuro e giocare d’anticipo, per arrivare ad un sistema di produzione energetica che sia realmente sostenibile sul lungo periodo. 

Robert Jungk, nella sua ricostruzione della storia dei primi scienziati nucleari, li definitiva “apprendisti stregoni”: con l’energia nucleare e le sue diverse applicazioni l’umanità si è trovata di fronte ad un “progresso” di cui non poteva comprendere tutte le implicazioni e che non poteva controllare appieno. In che modo l’avvento del nucleare ha cambiato il nostro rapporto con la tecnologia?

Il nucleare ha fatto emergere una tendenza presente nella storia della tecnologia dalla rivoluzione industriale in poi, che il digitale sta oggi continuando e forse esacerbando. Per buona parte dell’Antichità e del Medioevo, il tasso di innovazione è rimasto ad un livello piuttosto basso; e non necessariamente perché non ci fossero le competenze, ma perché non c’era una logica di tipo industriale e scientifico applicata alla produzione economica. Con la rivoluzione industriale comincia il processo dell’apprendista stregone, in cui i prodotti dell’invenzione umana sono sempre più potenti e sorpassano il limite di quello che l’uomo è in grado di comprendere e controllare: l’innovazione tecnico scientifica, dal primo Ottocento in poi, comincia a slegarsi dalla spiegazione scientifica. Per capirlo basta guardare alle descrizioni delle reazioni alla scoperta dell’elettricità e i suoi primi utilizzi per l’illuminazione delle strade: veniva descritta come un qualcosa di magico, che non a caso gioca un ruolo centrale in romanzi di ispirazione gotica come il Frankenstein di Mary Shelley. L’energia nucleare rappresenta il momento della consapevolezza, in cui prendiamo coscienza di questa scissione, dove l’innovazione tecnologica, da un lato, e la comprensione scientifica insieme al controllo normativo, dall’altro, non fanno più parte della stessa struttura, ma le seconde si trovano costantemente a inseguire la prima. Nel momento in cui la spiegazione e il controllo non sono più l’altro lato dello sviluppo tecnologico, alla società si pone il problema complessivo di come capire e, soprattutto, di come fidarsi della scienza. Il nucleare fa avanzare talmente tanto il campo della fisica empirica che la moderna teoria quantistica deve ancora scogliere tutti i nodi, ma intanto la tecnologia ha già un’applicazione pratica. Oggi noi abbiamo a disposizione tantissima tecnologia il cui funzionamento, per la gran parte della popolazione, resta privo di una spiegazione approfondita. Anche il piano digitale è avanzato al di là della nostra comprensione: quando diciamo che l’intelligenza artificiale basata sulle reti neurali ha un problema di explainability, affrontiamo esattamente lo stesso fenomeno e, non a caso, stiamo discutendo collettivamente sulla sostenibilità etica di questa tecnologia. È come se ci trovassimo ad assistere ad una gara con diversi corridori, dove l’innovazione tecnologica ha staccato la comprensione scientifica e la capacità dell’uomo di regolarla. Oggi, il corridore che sta facendo il maggior sforzo per rientrare in gara è proprio l’elemento normativo, attraverso l’etica, la legislazione e la soft law, per offrire un maggior grado di controllo sullo sviluppo tecnologico; e qui ci troviamo di fronte a problemi che non hanno a che fare con la scienza di per sé, ma con la società nel suo complesso, con i valori e le preferenze sociali sulle quali vogliamo impostare la nostra convivenza. È anche in vista di questa istanza etico-normativa che possiamo dire che l’opportunità nucleare è probabilmente passata.

Se anche Musk sbugiarda i grillini sul nucleare. Pierluigi Bonora il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. La visione green, farcita di ideologia, di Beppe Grillo, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio & C, va a sbattere contro quella sicuramente più realistica di Elon Musk. La visione green, farcita di ideologia, di Beppe Grillo, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio & C, va a sbattere contro quella sicuramente più realistica di Elon Musk, il tycoon sudafricano papà di Tesla e Space X. Alla «Tech Week» di Torino, Musk tocca un tasto molto delicato, quello del nucleare, trovando anche un'importante sponda in John Elkann, presidente di Exor, Stellantis e Ferrari, che ha dialogato pubblicamente online con lui. «A lungo termine - la risposta di Musk a una domanda - credo che riusciremo ad arrivare ad avere l'energia dal sole e dal vento. E bisogna pensare in modo positivo rispetto all'energia nucleare, non quella tradizionale, ma quella che è stata rinnovata. Sono rimasto sorpreso da Paesi (sottinteso anche il nostro, ma già dal 1987, ndr) che ultimamente hanno abbandonato il nucleare». Il visionario che ora vive in California, di fatto, ha confermato quello che a inizio mese il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, aveva rilevato, salvo poi venire convocato a rapporto da Conte, presidente dei 5 Stelle, «per chiarimenti». Cosa aveva detto di tanto grave Cingolani per mandare su tutte le furie i pentastellati e non solo? Che «si stanno usando tecnologie di nuova generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante» e che «ci sono Paesi che stanno investendo su tale tecnologia, non ancora matura, ma prossima a divenirlo». Cingolani aveva anche aggiunto che «se si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso, è da folli non considerare questa tecnologia». Ovviamente di mezzo c'è l'esito del referendum contro il nucleare, ma il tema sta tornando prepotentemente alla ribalta viste le politiche che vedono privilegiare l'elettrico per l'immediato futuro. Il commento di Elkann, padrone di casa alla «Tech Week»: «Il nucleare è una soluzione che esiste ed è sicura, e che dovremo sviluppare ulteriormente. Cina e India stanno sviluppando questi progetti, e dobbiamo farlo anche noi. Il sole sarà la soluzione a lungo termine». Pierluigi Bonora

Da "agi.it" il 25 settembre 2021. “È stato straordinario vedere quante risorse sono emerse per affrontare i rischi, trovare le soluzioni e andare avanti. Questo mi dà tanto ottimismo così come me lo danno i giovani. Vedere quanto sono bravi, quanta ambizione hanno mi dà tanta fiducia”. Lo dice il presidente di Exor, che è anche principale azionista di Stellantis, quarto produttore automobilistico al mondo, del quale la Repubblica riporta ampiamente un colloquio con Elon Musk, il fondatore di Tesla, che ha trasformato l’auto elettrica in una realtà e nel primo semestre dell’anno ha venduto quasi 400 mila vetture. Lo scambio di opinioni è avvenuto in uno degli incontri più attesi dell’Italian Tech Week. “Ho affrontato più di tre crisi e, come imprenditore, avere un ruolo attivo in azienda comporta dei rischi; ci sono momenti difficili e può essere complicato. Bisogna essere consapevoli che si può essere sulle montagne russe. Non bisogna mai deprimersi quando si è in un momento basso, mai supereccitarsi quando si è in alto”, dice Elkann, ricordando i giorni in cui ha affrontato i rischi di un fallimento, che “alla fine avviene sempre per motivi finanziari”. Mentre Musk racconta che “Tesla è stata vicina al fallimento sei o sette volte”, di cui “il più doloroso”, rammenta, risale al 2018, quando stava lavorando al progetto della Model 3, la vettura pensata per trasformare Tesla da casa di nicchia a produttore di massa: “Stavamo lottando per metterla in produzione e in quel momento ci siamo sentiti molte volte con John”, dice Elon Musk. E sulla necessità di produrre energia pulita dice il fondatore di Tesla: “Mi hanno sorpreso i Paesi che hanno abbandonato il nucleare, è una tecnologia sicura. Non bisogna chiudere le centrali perché non sono un pericolo. Ci sono più pericoli dall’uso del carbone che dal nucleare” mentre Elkann chiosa: “Il nucleare è una soluzione che conosciamo, esiste già, è sicura, dovremmo svilupparla ulteriormente. Cina e India stanno utilizzando sempre più l’energia nucleare, è un’indicazione di ciò che dovremmo fare. In contemporanea dobbiamo puntare su energie alternative. Anche l’energia solare diventerà sempre più centrale”. E Musk analizza: “Trovo che l’energia solare sia sottovalutata. Se non ci fosse il Sole, la Terra sarebbe una roccia senza vita” e “ci sono molti luoghi in Europa dove l’energia solare sarebbe molto efficiente”, conclude Musk.

Giampiero Rossi per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2021. «Metterei una centrale nucleare in Lombardia? Che problema c'è». È ancora mattina e questa frase di Matteo Salvini ai microfoni Rai di Radio anch'io, scatena la polemica politica. Il leader parla dei rincari delle bollette dell'energia e infrange a modo suo il tabù del nucleare: «La Svezia di Greta ha otto centrali». Un'ora dopo arriva la prima dichiarazione di sostegno: «Il nucleare ha fatto grandissimi passi avanti, adesso c'è un nucleare verde, un nucleare sicuro - dice Letizia Moratti, vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, a Buongiorno, su Sky Tg24 -, credo sia anche il modo per non pagare bollette che continuano a crescere, siamo troppo dipendenti dall'estero per importare energia. Un nucleare verde, sicuro, credo sarebbe una buona cosa, non solo per la Lombardia ma per l'Italia». Nel frattempo Matteo Salvini ritrova i microfoni a una passeggiata elettorale in un mercato milanese e aggiunge: «In Lombardia ci sono 13 termovalorizzatori, anche a Milano. L'energia nucleare è quella più pulita e sicura, quindi perché no?». Ma niente referendum, perché «il tema del nucleare non è un tema di domani mattina. Io farei entrambe le cose, tagliare le tasse e riavviare una ricerca visto che in Europa sono operative 128 centrali nucleari». A quel punto la polemica politica è aperta e la linea che separa le opinioni è pressoché identica a quella che demarca le aree di centrodestra e di centrosinistra. In soccorso di Salvini arriva anche il presidente della Lombardia, Attilio Fontana: «Dobbiamo avere il coraggio di spogliarci delle ideologie e di guardare la realtà. Il mondo cambia. Anche in campo nucleare la tecnologia è andata avanti». Ma sul fronte opposto si schierano il centrosinistra e il Movimento cinque stelle: «Noi restiamo contrari in generale a riaprire una discussione su cui gli italiani si sono già espressi in modo chiaro con un referendum. Ma per curiosità e trasparenza sarebbe utile che i lombardi potessero sapere dove esattamente Salvini propone di collocare la sua centrale», dice Franco Mirabelli, presidente dei senatori del Pd. Stessa domanda arriva dai grillini lombardi, che richiamano la rassicurante interpretazione autentica della posizione del ministro alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani offerta dall'ex premier Giuseppe Conte, che solo 24 ore prima aveva ricevuto «garanzie sul fatto che «l'Italia non abbraccerà l'energia atomica». Ma Matteo Renzi ha una lettura diversa: «Le parole di Roberto Cingolani, per chi le ha ascoltate e anche capite, sono sacrosante. Noi pensiamo ci sia un grande tema di sostenibilità ambientale e, su questo tema, la vera sfida è non far pagare il conto alle famiglie». Ed è secco il no del sindaco di Milano, Beppe Sala: «Per me è no, soprattutto perché c'è stato un referendum recente. A Milano direi proprio di no».

Estratto dell'articolo di Tobia De Stefano per "Libero Quotidiano" il 16 settembre 2021. Meglio uscire dalle ideologie e provare a ragionare. Primo punto. Il no più forte al nucleare arriva dal timore che si possano ripetere in Italia altri casi Chernobyl o Fukushima. Questione sicurezza. Proprio per questo il ministro Cingolani aveva parlato di una quarta generazione più sicura, senza uranio arricchito e acqua. La verità è che nonostante il referendum abrogativo sia datato 1987, il nucleare inteso come scorie radiottive non ci ha mai abbandonato. Tanto che alla fine 1999 è nata Sogin, la società pubblica interamente partecipata dal ministero delle Finanze, responsabile del decommissioning (smantellamento) degli impianti, attualmente in corso, e della gestione dei rifiuti radioattivi. Lo smantellamento riguarda innanzitutto le ex centrali di Trino (VC), Caorso (PC), Latina e Garigliano (CE), ma poi anche gli impianti del ciclo del combustibile Eurex di Saluggia (VC), Ipu e Opec di Casaccia (Roma), Itrec di Rotondella (MT) ecc. Giusto percapire. Nella vecchia centrale di Caorso nel Piacentino sono ancora conservati 2mila metri cubici di scorie da tratta re. Lo stato dell'arte è della stessa Sogin che a gennaio del 2021 ha pubblicato il documento ufficiale delle aree idonee ad accogliere il deposito nazionale di rifiuti nucleari. Degli oltre 91mila metri cubi di rifiuti, una parte è destinata a essere trattata e smaltita in altri paesi, tra cui Francia e Regno Unito, come già avvenuto in precedenza. Tuttavia, la maggior parte delle scorie sarà smaltita in Italia, dove Sogin ha individuato 67 aree potenzialmente idonee tra le regioni Lazio, Sardegna, Basilicata, Piemonte, Puglia, Sicilia e Toscana. E qui sono nate le prime complicazioni. Molte Regioni coinvolte nel processo di smaltimento hanno espresso critiche di fronte a queste scelte, da un lato perché la costruzione di tali impianti danneggerebbe il panorama paesaggistico e dall'altro per una mancanza di comunicazione tra Stato e Regioni nel momento della scelta. In mezzo, come spesso capita in queste situazioni, c'è la questione relativa alla direttiva europea e agli impegni internazionali a cui il nostro paese deve adempiere per evitare ulteriori infrazioni. Insomma, è auspicabile che governo, regioni e Sogin arrivino il prima possibile a un punto di incontro. Il deposito nazionale alla fine sarà una infrastruttura che consentirà non solo di ottimizzare in modo sostenibile e sicuro la gestione dei rifiuti radioattivi prodotti dall'esercizio e dallo smantellamento delle centrali e degli impianti nucleari italiani, ma anche di gestire le scorie delle attività che si svolgono ogni giorno nella medicina nucleare, nell'industria e nella ricerca scientifica. L'opera sarà costituita dalle strutture per la sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività e da quelle per lo stoccaggio temporaneo, di lungo periodo, dei rifiuti a media e alta attività, che dovranno essere successivamente trasferiti in un deposito geologico, idoneo alla loro sistemazione definitiva. La realizzazione del deposito nazionale dovrebbe consentire di terminare lo smantellamento degli impianti nucleari e di chiudere, così, il ciclo nucleare italiano. Si stima che per realizzarlo ci vorranno quattro anni con un investimento di 900 milioni di euro. La sua costruzione genererà oltre 4.000 posti di lavoro l'anno per 4 anni di cantiere. Alla fine gli dovrebbero essere conferiti circa 95 mila metri cubi di rifiuti radioattivi. Il 60% di questi proverrà dagli impianti nucleari oggi in fase di smantellamento, mentre il restante 40% dalle attività nei settori della medicina nucleare, dell'industria e della ricerca. «Ci sono Paesi - aveva evidenziato - che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura. Se a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso è da folli non considerare questa tecnologia». Anche perché se proprio vogliamo parlare di sicurezza non si può non ricordare che a meno di 200 chilometri dal confine italiano ci sono 12 centrali (dati Enea con riferimento al 2017) che proprio di recentissima costruzione non sono. Cinque le troviamo in Francia, quattro in Svizzera, due in Germania e una in Slovenia. Giusto per fare qualche esempio: il sito di Krsko a metà strada tra Lubiana e Zagabria dista appena 150 chilometri da Trieste, quello di Bugey (vicino Lione) è in linea d'aria a 100 chilometri dal confine e dalla centrale svizzera di Gosgen ci vogliono non più di un paio d'ore d'auto per arrivare al centro di Varese. Insomma, di cosa stiamo parlando? Seconda questione. Cingolani nel suo intervento aveva parlato anche di smaltimento. «Se dovessimo verificare che con il nucleare di quarta generazione i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi...». Ecco appunto, se fosse così perché non discuterne? Del resto possiamo dire - a 34 anni dal referendum che sancì la chiusura delle centrali italiane - che in realtà il nucleare in Italia non è mai sparito. Soprattutto in Lombardia. Lo evidenzia il rapporto annuale dell'ispettorato che si occupa di monitorare i trasporti radioattivi, le scorie e i centri di trattamento. Nel Piacentino c'è la vecchia centrale di Caorso, dove sono ancora conservati 2mila metri cubici di scorie da trattare. Così come un quarto di tutti i centri autorizzati a trattare rifiuti nucleari radioattivi, sono in Lombardia. «Ammiro il coraggio di Salvini - sottolinea a Libero Davide Tabarelli, il presidente di Nomisma Energia - anzi vorrei rubargli l'idea e riportare il nucleare in Emilia Romagna. A Caorso c'era la più grande centrale italiana e ci vorrebbero pochi anni per ripristinarla. Chiaro che il mio è un auspicio solo teorico, in Italia il dibattito è ideologizzato e non ci sono le condizioni politiche per un ritorno al nucleare».

Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2021. Un'area anti-sismica. Vicina a corsi d'acqua. Perché ne serve tanta di disponibilità per raffreddare il ciclo del vapore. Sicuramente a bassa densità abitativa. Possibilmente - anche se i piani di realizzazione finirebbero per allungarsi a 15-20 anni - di quarta generazione. L'ultima frontiera tecnologica su cui sta investendo la ricerca sulle centrali a fissione, con il vantaggio di un uso migliore del combustibile nucleare e dunque, a parità di energia elettrica generata, con meno rifiuti radioattivi, da smaltire in un deposito geologico, ovvero in gallerie scavate per esempio nel granito a 4-500 metri di profondità. Poi più avanti ancora speriamo arrivino le centrali a fusione, il vero «game changer» che tutti aspettano. L'identikit in Lombardia, anche se al momento non risultano progetti dettagliati, sembrerebbe rispondere all'area mantovana anche per la sua vicinanza al letto del Po. Un vecchio progetto a metà degli anni '70 caldeggiato dall'allora ministro democristiano dell'industria, Carlo Donat Cattin, l'aveva individuata come una delle aree prescelte. La dichiarazione di ieri di Matteo Salvini («Che problema c'è se mettiamo una centrale nucleare in Lombardia a patto di vedere scendere i costi della bolletta») segnala che la Lega non ha alcuna pregiudiziale ideologica verso il nucleare. Nonostante due referendum, a distanza di anni l'uno dall'altro, abbiano sancito la diffidenza degli italiani dopo il disastro di Chernobyl e la grande paura del 2011 a Fukushima dopo il sisma che travolse il Giappone. La Lombardia ha sempre avuto una certa familiarità col tema. Due delle quattro centrali della nostra dimenticata epoca nucleare sono ad un tiro di schioppo. Quelle di Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso nel piacentino. Senza dimenticare gli impianti del ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), l'impianto Fn di produzione del combustibile nucleare di Bosco Marengo (Alessandria) e il reattore di ricerca Ispra-1 a Varese. Quel che è certo, ragiona Giuseppe Zollino, professore di Tecnica ed Economia dell'energia e di Impianti nucleari all'Università di Padova, è che «per metterne in esercizio una occorrono almeno dieci anni, il tempo necessario per individuare l'area, acquisire tutte le autorizzazioni e realizzarla ex-novo». Zollino è un autorevole punto di osservazione. È stato presidente di Sogin, la società di Stato incaricata del decommissioning degli impianti nucleari e della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, che finora però non è riuscita ad espletare il compito. Uno degli scandali italiani per i costi di gestione (nel 2020 il conto arrivò a quattro miliardi, con i lavori a circa il 25%, quando invece sarebbero dovuti bastarne 3,7 per completarli). Come dimenticare le rivolte a Scanzano Jonico in Basilicata, nel 2003, quando gli abitanti si mobilitarono contro la realizzazione di un deposito nazionale di scorie nucleari, mai portato a termine, per il quale l'Italia è da anni sotto procedura d'infrazione Ue. Nonostante i lunghi tempi di autorizzazione, che in Italia rischiano di avere contorni talmente nebulosi, Zollino ritiene non utile scartare l'opzione a priori. D'altronde una centrale nucleare è in grado di produrre energia elettrica per 8 mila ore all'anno azzerando le emissioni. Un'energia verde che permetterebbe di avvicinare gli obiettivi di riduzione. «Considerando i costi medi di impianto dei Paesi dove attualmente vengono costruite centrali nucleari, il costo di generazione, per un esercizio di 8 mila ore, è compreso tra i 5 e 6 centesimi di euro per kilowattora, leggermente più alto del fotovoltaico, ma col vantaggio della continuità di produzione rispetto alle rinnovabili che hanno invece bisogno di sistemi di accumulo», spiega.

Quelle teorie assurde degli ambientalisti radical chic. Francesco Giubilei il 3 Settembre 2021 su Il Giornale. Da Grillo che propose un parco giochi al posto dell'Ilva a Pratesi (Wwf) nemico della doccia. Le parole del ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani contro gli «ambientalisti radical chic», segnano un punto di svolta nell'ambientalismo nostrano permeato da una visione ideologica a senso unico e incapace di approcciarsi a un tema tanto importante quanto delicato senza paraocchi. Intervenendo a un'iniziativa di Italia Viva, Cingolani ha affermato: «Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic ed è pieno di ambientalisti oltranzisti, ideologici: loro sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato». Nonostante Cingolani non abbia fatto nomi, in questi anni sono numerose le personalità che hanno avanzato proposte tanto assurde quanto pericolose anche se, in alcune occasioni, il confine tra l'ideologia e il ridicolo è molto labile. Capofila dell'ambientalismo radical chic non può che essere Greta Thunberg, l'enfant prodige svedese qualche anno fa ha deciso di attraversare l'Atlantico in barca a vela per un viaggio dal Regno Unito a New York durato quasi quattordici giorni. Il motivo? La Thunberg si rifiuta di prendere aerei perché dannosi per l'ambiente. Se viaggiare in aereo è vietato per non inquinare, c'è chi, come Beppe Grillo, propose una soluzione semplice per risolvere i problemi dell'Ilva: «Non va chiusa ma trasformata in un parco», come non averci pensato prima! Eppure le proposte grilline sull'ambiente dovevano essere piaciute a Taranto giudicando da quasi il 48% di consensi alle politiche del 2018. In casa Cinque Stelle non mancano le proposte sull'ambiente come i «navigator» per i cinghiali, ovvero gli «ausiliari per il controllo faunistico», figura prevista in una proposta di legge in commissione Agricoltura alla Camera e firmata dal grillino Filippo Gallinella. D'altro canto, la massiccia presenza di cinghiali nella Roma amministrata da Virginia Raggi è emblematica, anche se la prima cittadina romana ha presentato un esposto in procura contro la Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti poiché «la presenza massiccia e incontrollata di cinghiali in città è conseguenza della mancata previsione e/o attuazione da parte della Regione Lazio di efficaci piani di gestione. Impossibile non citare l'ex ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, colui che si scrive i libri da solo, che durante una puntata di Tg2 Motori, in auto con Maria Leitner, affermò: «Avanti con l'elettrico». Quando la giornalista gli chiese quale automobile possedesse, dovette ammettere di avere appena acquistato una Jeep Compass diesel, uno dei modelli per i quali il governo aveva appena introdotto l'ecotassa. Infine merita una menzione Fulco Pratesi, fondatore del Wwf Italia che ha ammesso di non farsi «la doccia da anni» poiché «mi lavo con la spugna sotto le ascelle e faccio il bidè. Non serve consumare tanta acqua» per poi prendersela contro i cimiteri: «bisognerebbe smettere di farli e lasciarsi divorare dagli avvoltoi». Ma Pratesi lo perdoniamo perché è lui stesso ad ammettere «sono il perfetto esempio di radical chic, perché dovrei averne vergogna?». Il problema sono tutti quei radical chic che non ammettono di esserlo e si sentono detentori della verità sui temi ambientali.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più influenti d’Italia.

Ambiente, il ministro Cingolani apre al nucleare: "Da folli non considerarlo". Ma Bonelli: "Lo sconsiderato è lui". su La Repubblica l'1 settembre 2021. All'evento di Iv, il titolare della Transizione ecologica ha detto: "I radical chic peggio della catastrofe verso la quale andiamo sparati". "Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic ed è pieno di ambientalisti oltranzisti, ideologici: loro sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato. Sono parte del problema, spero che rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza". Lo ha detto il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, aprendo l'evento di Italia viva, la Scuola di formazione politica "Meritare l'Europa", a Ponte di Legno. Secondo il ministro, gli ambientalisti radical chic "sono parte del problema". Per questo motivo, ha detto, il suo auspicio è che "rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza", ha concluso. In tema di nucleare, ha proseguito Cingolani, "si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. Ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura. Se a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso è da folli non considerare questa tecnologia. Nell'interesse dei nostri figli è vietato ideologizzare qualsiasi tipo di tecnologia. Stiamo ai numeri, quando saranno disponibili prenderemo le decisioni".

La replica di Bonelli. "Per Cingolani gli ambientalisti sono radical chic e peggio della catastrofe climatica. Mai un ministro della Repubblica si è espresso con tanta sconsideratezza e assenza di rispetto per una comunità di persone nel nostro Paese". Lo dichiara il co-portavoce nazionale di Europa Verde, Angelo Bonelli. "Cingolani insulta il mondo ecologista - ha proseguito Bonelli - e ha aperto una campagna di paura contro la transizione ecologista, per fermare la modernizzazione e difendere gli interessi delle lobby del petrolio". "A proposito di ecologisti e radical chic - ha concluso Bonelli -, al ministro Cingolani dico che il sottoscritto è nato e cresciuto a Casal Bernocchi, quartiere popolare di Roma. Lui ci dica invece chi lo ha voluto a fare il ministro, per fermare la transizione ecologica e riproporre il nucleare bocciato dal referendum degli italiani".

Lo schiaffo di Cingolani agli ambientalisti radical chic. Francesco Giubilei il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. Secondo il Ministro della transizione ecologica Cingolani gli "ambientalisti radical chic" sono "peggiori della catastrofe climatica" e parte del problema", occorre però andare avanti in un confronto che "non sia ideologico". Eppure un'alternativa esiste e si chiama conservatorismo verde. Il ministro della transizione ecologica Cingolani, nei pochi mesi trascorsi al dicastero ambientale, deve essersi imbattuto in situazioni e persone talmente paradossali che il suo livello di saturazione verso un certo ambientalismo ideologizzato ha già raggiunto il limite. Intervenendo a un evento di Italia Viva, il ministro ha affermato: "Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic ed è pieno di ambientalisti oltranzisti, ideologici: loro sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati, se non facciamo qualcosa di sensato. Sono parte del problema, spero che rimaniate aperti a un confronto non ideologico, che guardiate i numeri. Se non guardate i numeri rischiate di farvi male come mai successo in precedenza”. Parole tanto forti quanto veritiere a cui è seguito un monito contro l’ideologizzazione della tematica ambientale: “nell'interesse dei nostri figli è vietato ideologizzare qualsiasi tipo di tecnologia. Stiamo ai numeri, quando saranno disponibili prenderemo le decisioni". Non si è fatta attendere la levata di scudi dei Verdi nella persona di Bonelli che ha accusato Cingolani di insultare gli ambientalisti e di mancare di rispetto a “una comunità di persone nel nostro paese”. In realtà il ministro non si è riferito agli ambientalisti tout court quanto a un gruppo preciso di ambientalisti da lui definiti “radical-chic”. D’altro canto come dargli torto? Nonostante la tutela ambientale rappresenti un tema comune a tutti i cittadini a prescindere dal loro credo politico, è sotto gli occhi di tutti l’ideologizzazione che è avvenuta negli ultimi anni in Occidente e l’Italia non è da meno. È sufficiente affermare che ambiente e nazione non sono due concetti antitetici, che la transizione ecologica non può non tener conto delle esigenze delle imprese e degli imprenditori, che non si possono cancellare tradizioni e usanze secolari in nome di un non meglio precisato ambientalismo, per essere tacciati di non aver a cuore l’ambiente o di sminuire le conseguenze del cambiamento climatico. La realtà è ben diversa e, se anche un ministro non certo politico ma tecnico come Cingolani, arriva a pronunciare le parole che abbiamo ascoltato, significa che le pressioni e i tentativi di orientare in una certa direzione la transizione ecologica da parte di certi ambientalisti sono molto forti. D’altro canto, il tentativo di imporre temi che nulla hanno a che fare con l’ambiente con la scusa della riconversione energetica, è una tendenza in atto da molto tempo ma che ha subito un’accelerazione negli ultimi anni a causa della commistione con interessi di carattere economico. Le energie rinnovabili, così come la transizione ecologica, sono un business da miliardi di euro e, dietro le buone intenzioni, spesso si nascondono secondi fini o interessi di altro genere. Cingolani, oltre ad aprire all’energia nucleare di nuova generazione, ha posto enfasi sulla necessità di una transizione graduale: “la transizione ecologica deve essere sostenibile sennò non si muore di inquinamento, ma di fame. Serve una transizione con la decarbonizzazione e il freno alla produzione di Co2, ma che dia tempo alla società di adeguarsi a queste trasformazioni. Non si può ridurre la Co2 chiudendo da domani le fabbriche di auto, mettendo sul lastrico milioni di famiglie". Si tratta di un approccio molto simile a una visione di conservatorismo verde che si è affermata in Italia negli ultimi anni per offrire un’alternativa a quell’ambientalismo radical chic che fino a poco tempo fa veniva considerato dominante e privo di altre possibilità ma che, ci si sta accorgendo, rischia di essere non solo su molti temi utopico e irrealistico ma anche controproducente. Una soluzione esiste ed è un ecologismo che coniughi le esigenze della natura con quelle dell’uomo e che abbia davvero a cuore le sorti della nostra terra. 

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura.  

Nucleare, Cingolani: “Vogliono fermarmi per poi dire che ho fallito. Ma i tabù non salvano il clima”.  Annalisa Cuzzocrea su La Repubblica il 5 settembre 2021. Il ministro della Transizione ecologica a Cernobbio: "Non ho problemi con gli ambientalisti e nemmeno con i 5 Stelle. Conte mi ha capito ma io rispondo solo a Draghi”. Il portatile di Roberto Cingolani si apre su un tramonto siberiano. Il ministro della Transizione ecologica è a Villa d'Este, a Cernobbio, per il Forum Ambrosetti, a pochi giorni delle uscite sul nucleare che gli hanno procurato critiche e attacchi. Il Powerpoint che ha davanti, elaborato con dati pubblici che arrivano dai maggiori think tank mondiali, mostra lo stato delle cose.

Scaroni: “Il nucleare ci serve. Per azzerare le emissioni le rinnovabili non bastano”. Francesco Manacorda su La Repubblica il 3 settembre 2021. Paolo Scaroni, vicepresidente della banca d’affari Rothschild. Intervista al vicepresidente della banca d’affari Rothschild, ex amministratore delegato di Enel ed Eni: "Cingolani ha ragione. Il mondo costruisce nuove centrali, ma in Italia è difficile fare scelte impopolari". «Sul nucleare condivido quanto ha detto il ministro Cingolani. Non si può escludere a priori una tecnologia che annulla le emissioni di anidride carbonica». Paolo Scaroni, già amministratore delegato di Enel ed Eni, è oggi vicepresidente della banca d’affari Rothschild - con un focus proprio sull’energia - e sullo stesso tema tiene un master alla Bocconi.

IL PAESE DI FERMI CHE NON VUOLE IL NUCLEARE CIVILE. ENERGIA - POLITICA E REALTÀ SEMPRE PIÙ DISTANTI Non è sufficiente cambiare nome per risolvere il problema della dipendenza da petrolio e da gas . Davide Tabarelli su Il Quotidiano del Sud il 5 settembre 2021. Lo sfilacciamento fra politica e realtà è sempre stato molto evidente nell’ambientalismo, perché gli obiettivi perseguiti sono sempre rivoluzionari, mentre i risultati sono, al contrario, molto deludenti. Ultimamente, tuttavia, il distacco s’è allargato, in particolare con le ambizioni europee accentuatesi lo scorso giugno 2021, quando la Commissione ha reso noto il suo pacchetto di misure per arrivare all’obiettivo del meno 55% delle emissioni nel 2030 rispetto al 1990. Così, mentre una delle più gravi crisi energetiche degli ultimi decenni ha investito il sistema elettrico e del gas dell’Europa, i nostri politici discutono di effimere questioni come l’idrogeno verde, blu o grigio, a volte viola, e, più di recente in Italia, di nucleare. Il capo, formale, del primo partito del nostro parlamento convoca il ministro della transizione energetica per sgridarlo dopo le sue dichiarazioni sul nucleare. Quest’inverno non avremo gas a sufficienza, questo ci dicono i prezzi spot, passati da una media di 10 euro per megawatt ora nel 2020 ai record degli ultimi giorni di 52 euro. I prezzi elettrici sulla borsa sono a massimi mai visti oltre i 130 euro per megawatt ora, contro una media del 2020 di 42 euro. È crisi, i nostri politici sono chiamati a risponderne e loro si accapigliano sul nucleare del futuro? Pirandello ne avrebbe tratto ispirazione. Quello che ha detto Cingolani sono cose giuste, scontate per un professore di fisica come lui. Se, e solo se, ha detto, il nucleare diventerà più sicuro, allora sarebbe stupido non utilizzarlo per raggiungere la decarbonizzazione. Però sbaglia anche il ministro, perché già oggi il nucleare, senza aspettare il futuro, contribuisce parecchio alla produzione di elettricità senza emissione di CO2 perché dà circa il 10% dell’elettricità mondiale, in Francia il 70%, in Svizzera il 30%, in Slovenia il 20%. Tutti paesi questi attaccati all’Italia. È un fallimento della politica sull’energia del nostro paese, perché siamo sempre più dipendenti dal gas della Russia, assieme, magra consolazione, con il resto d’Europa, dove, però, la Germania, ha fatto i due mega gasdotti, il Nord Stream uno e, il più discusso, Norde Stream due. Siamo il paese di Enrico Fermi, premio nobel per la fisica proprio per l’uso civile del nucleare, grazie agli studi condotti prima della guerra in via Panispersa, a poche centinaia di metri da quel ministero di via Veneto, allora delle Corporazioni, più di recente dello Sviluppo Economico che è stato chiuso, nel febbraio 2021, per la parte energia, per essere assorbito in via Colombo, al ministero della Transizione Ecologica. Basterà poco per rendersi conto che non è sufficiente cambiare nome per risolvere il problema della dipendenza da petrolio e da gas.  Le importazioni di elettricità dalla Francia quest’anno raggiungeranno un nuovo massimo a oltre 30 miliardi di chilowattora, il 10% dei nostri consumi. É come se avessimo 3 centrali nucleari in Francia che lavorano a pieno ritmo per noi. Un altro paradosso sul nucleare che obbliga a stendere un velo pietoso sulle recenti polemiche all’interno del movimento 5 Stelle.

(ANSA il 6 settembre 2021) Nella transizione energetica bisogna fare in fretta, ma la strada non è il nucleare. "Nel mix energetico italiano meno combustibili fossili ci sono e meglio stiamo tutti. Quanto più velocemente ci disfiamo della percentuale di energia che stiamo producendo da fonti fossili, tanto meglio siamo messi dal punto di vista energetico. Per fare questo è necessario accelerare gli investimenti nelle rinnovabili". Lo ha detto l'a.d di Enel Francesco Starace al workshop Ambrosetti. Sul nucleare Starace chiude, "no, non è realistico pensare a una riconsiderazione. Quello che viene definito "nuovo nucleare" "non è tanto nuovo come sembra". Citando questo pomeriggio don Tonino Bello, il cardinale presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, ha detto che "non sempre lo sviluppo è sinonimo di progresso": infatti, "le 'armi moderne' non sono un indice di sviluppo, sebbene siano tristemente un segno di progresso; 'le articolazioni scientifiche' dell'economia moderna, che impediscono ad alcuni popoli di progredire, sono addirittura una 'involuzione'; lo stesso ragionamento si può fare per le moderne tecniche fotografiche che caratterizzano le 'patinatissime pagine della pornografia' o infine il nucleare a cui bisogna 'stare molto attenti a dargli la patente di sviluppo'". (ANSA).

ENI, ENEL, SNAM E NON SOLO. TUTTO SUL GRAN BALLO NUCLEARE LANCIATO DA CINGOLANI. Michelangelo Colombo per startmag.it il 6 settembre 2021. Ancora dibattito politico e tensioni latenti fra aziende energetiche sul nucleare. Ecco le novità sul tema avviato dopo le parole del ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che oggi è tornato sul tema. Ecco tutti i dettagli. “Ho detto quello che dovevo dire, non ho veramente nulla da aggiungere. Bisogna solo studiare. Basta”, ha detto oggi il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, a margine di un talk sulla sostenibilità nell’ambito del Salone del Mobile di Milano, rispondendo a chi gli chiedeva come superare il retaggio culturale per cui in Italia non si può parlare di nucleare. “Non bisogna aver paura” di eventuali ostacoli alla transizione ecologica. “È un momento dove abbiamo delle grandi prospettive e vanno messe a terra, bisogna solo lavorare sodo. La sintesi – ha continuato – secondo me oggi per un osservatore esterno è ‘work in progress’. Genio creatività tecnologia serie’: questa è un’Italia leader internazionale. Partiamo da qua e proseguiamo sempre”. “Non possiamo tornare all’energia atomica come soluzione e come pilastro della nostra politica ambientale”. Così il leader M5s Giuseppe Conte, rispondendo ad una domanda di un cronista a margine di una iniziativa a Napoli a sostegno del candidato sindaco Gaetano Manfredi. “Noi dobbiamo lavorare con le tecnologie che abbiamo, ma soprattutto se vogliamo una transizione ecologica che migliori la qualità di vita dei cittadini, coinvolgiamo i cittadini, ne discutiamo, rispettiamo le loro sensibilità e utilizziamo tutte le ecologie già disponibili. Oggi – prosegue- le fonti rinnovabili costano sempre meno. L’energia nucleare costa molto di più. Per cui è di quarta generazione, di quinta e di sesta, perché c’è una sensibilità degli italiani e c’è una prospettiva di politica ambientale che deve andare in direzione diversa, come avviene in altri Paesi”. “Il nucleare è un’energia molto più pulita e molto meno pericolosa rispetto ad altre”, si legge sul quotidiano romano. “Negli stessi minuti nella sessione di workshop Ambrosetti a lui dedicata il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti fa un discorso molto simile: "Il tema della transizione non può diventare un discorso etico-filosofico". E quindi bisogna esigere ‘un terreno di confronti e competitività uguale per tutti. Evitando che le risposte dei vari paesi siano asimmetriche’. Francia e Cina sul nucleare stanno già puntando. ‘Noi ci dobbiamo chiedere come ci comportiamo, difendiamo o non difendiamo questo tipo di fonte di energia’, chiede Giorgetti. La posizione del segretario della Lega – espressa in un dialogo con i giornalisti prima di lasciare Cernobbio – è identica. “Se uno già dice no a valutare dimostra chiusura mentale – ha detto Salvini -. La valutazione non comporta già un giudizio. Secondo me è stato un errore fermarsi i passato. È chiaro che è un tipo di scelta che ti porta i risultati dopo 15 anni, non dopo 15 giorni, però l’idrogeno verde, blu ed energia pulita perché no? Sostengo assolutamente l’idea del ministro Cingolani”. “La ragione per cui questa discussione di inizio settembre continuerà a lungo sta nel fatto che si tratta di un vero e proprio conflitto tra interessi – ha sottolineato Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente in un intervento sul quotidiano Domani -. Tra chi pensa che i cambiamenti climatici impongano una svolta politica e industriali (…) e chi prova a smontare obiettivi su rinnovabili e gas serra, credibilità delle tecnologie e fattibilità reale di questo scenario. La vera posta in gioco non sta nel ribaltare l’architettura di decisioni messa in piedi con l’accordo di Parigi sul clima, ma nel rallentarla e ricavare uno spazio per ottenere fondi per la ricerca europea e nazionale sul nucleare, per la cattura e lo stoccaggio di carbonio collegata a impianti a gas, per l’idrogeno da fonti fossili”. “Le regole fissate da Next Generation Eu hanno impedito che questi progetti fossero finanziati con il Recovery Plan italiano e ora Eni, Snam e Leonardo provano a cercare altre strade per ottenere finanziamenti”. Per Cingolani, conclude Zanchini “il banco di prova arriverà presto, visto che nei prossimi mesi il governo dovrà approvare un nuovo Piano energia e clima con le scelte per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione europea”. Nella transizione energetica bisogna fare in fretta, ma la strada non è il nucleare secondo il numero uno di Enel che ha parlato nel fine settimana. “Nel mix energetico italiano meno combustibili fossili ci sono e meglio stiamo tutti. Quanto più velocemente ci disfiamo della percentuale di energia che stiamo producendo da fonti fossili, tanto meglio siamo messi dal punto di vista energetico. Per fare questo è necessario accelerare gli investimenti nelle rinnovabili”, ha detto l’a.d di Enel Francesco Starace al workshop Ambrosetti. Sul nucleare Starace chiude, “no, non è realistico pensare a una riconsiderazione. Quello che viene definito ‘nuovo nucleare’ “non è tanto nuovo come sembra”. Basti pensare alle parole di Alberto Bombassei, presidente del gruppo Brembo: “Gli impianti di quarta generazione costituiscono un’alternativa molto interessante”, come ha ricordato Energia Oltre riprendendo un articolo del Gazzettino. Due giorni fa, Forum Ambrosetti, il ministro ha tenuto a precisare di non avere una proposta da fare sul nucleare “ma ci sono esperimenti in corso che meritano attenzione”. E oggi dalle pagine di Repubblica tuona: Vogliono fermarmi per poi dire che ho fallito, ma i tabù non salvano il Clima”. “Cingolani – scrive il quotidiano – non ce l’ha con gli ambientalisti “lavoro con Legambiente come con gli altri tutti i giorni, è con loro che mi confronto”. Quello che non sopporta sono i ragionamenti che guardano al cortile di casa e non si basano sui numeri”. L’esempio del ministro e la carbon capture “che per noi è tabù” ma che “Stati Uniti” e “Germania utilizzano”. Sull’Huffington Post il ministro poi precisa più chiaramente la questione: “Non ho fatto nessuna apertura sul nucleare: cosa apro che non c’è la tecnologia? Capisco che su alcuni temi il mio pensare sempre molto avanti possa generare confusione. Qualcuno ha detto perché non penso a fare le rinnovabili, ma non è che se parlo del futuro non sto pensando al presente”. “Non bisogna temere quello che non si conosce, bisogna studiare. C’è qualcuno che lo sta studiando per noi, stop – ha proseguito il ministro -. Sono un po’ meravigliato del fatto che dire a dei giovani studiate e valuteremo abbia generato reazioni scomposte. Capisco che su alcuni temi il mio pensare sempre molto avanti possa generare confusione. Qualcuno ha detto perché non penso a fare le rinnovabili, ma forse non sa che stiamo facendo i bandi: non è che se parlo del futuro non sto pensando al presente”. Mentre sugli ambientalisti ha aggiunto: “Nel mondo ci sono molti ambientalisti radical chic: sono quelli che dicono di volere una cosa ma non nel loro giardino. Ho detto che ci sono altri ambientalisti per il no sempre e comunque, ideologici, e questi fanno più danno della crisi stessa perché non ti consentono di guardare al futuro. Se avessero detto che nel mondo ci sono un sacco di scienziati brocchi o che non dicono il vero non mi sarei sentito toccato da questa cosa. Collaboro con Legambiente, con il Wwf, ho usato i loro rapporti: se avessi voluto dire qualcosa di qualcuno avrei fatto nomi e cognomi”. Le parole di Cingolani sul nucleare sono state accolte con favore anche da Paolo Scaroni, ex amministratore delegato di Eni e attuale vicepresidente della banca d’affari Rothschild: Sul nucleare condivido quanto ha detto il ministro Cingolani. Non si può escludere a priori una tecnologia che annulla le emissioni di anidride carbonica». E’ quanto ha sostenuto in una intervista a la Repubblica Paolo Scaroni, già amministratore delegato di Enel ed Eni, è oggi vicepresidente della banca d’affari Rothschild. «Se – come è giusto che sia – l’Europa si pone l’obiettivo di arrivare a zero emissioni di CO 2 nel 2050, nella linea tracciata anche dagli Accordi di Parigi, allora non si può dire di no e basta al nucleare, che ha l’indubbio vantaggio di non generare emissioni». «Ma il problema non è certo solo italiano, bensì globale. L’effetto serra non si combatte su scala nazionale. E mentre noi stiamo parlando, nel mondo sono in funzione 436 centrali nucleari e altre 53 sono in costruzione: tra queste due in Giappone, dove pure c’è stato l’incidente di Fukushima, una in Finlandia e una in Gran Bretagna; insomma ci sono Paesi sviluppati come noi che usano e investono sul nucleare. La stessa Agenzia internazionale per l’energia prevede che la produzione da fonti nucleari raddoppierà da qui al 2050». «La transizione energetica, di cui tutti abbiamo capito la necessità, è ai suoi primi vagiti: gli impianti eolici e solari sono apparsi nel 2004 e da allora abbiamo speso ben 3.800 miliardi di dollari per arrivare a coprire con fonti rinnovabili solo il 2% della produzione globale di energia. Se bisognasse arrivare all’80% con gli stessi costi la spesa sarebbe insostenibile. E poi quelle fonti rinnovabili non evitano di utilizzarne altre che producono CO 2 , come il gas, per sopperire ai momenti in cui non c’è vento o luce» ha continuato Scaroni. “Con le tecnologie che abbiamo oggi, e anche ipotizzando uno sforzo enorme sulle rinnovabili, non saremmo in grado di rispettare gli impegni per il 2050».

(ANSA l'8 settembre 2021) L'Eni ha annunciato che la società CFS, partecipata dal gruppo italiano come maggiore azionista e dal Mit di Boston, ha condotto con successo il primo test di un supermagnete che dovrebbe contenere e gestire la fusione nucleare di deuterio e trizio. CFS prevede di costruire entro il 2025 il primo reattore sperimentale e di produrre energia per la rete già nel prossimo decennio.

(ANSA l'8 settembre 2021) "La fusione a confinamento magnetico, tecnologia mai sperimentata e applicata a livello industriale finora, è una fonte energetica sicura, sostenibile e inesauribile, che riproduce i princìpi tramite i quali il Sole genera la propria energia, garantendone una enorme quantità a zero emissioni e rappresentando una svolta nel percorso di decarbonizzazione". Così l'Eni in un comunicato stampa annuncia il successo del primo test di un supermagnete per contenere e gestire la fusione nucleare. CFS, aggiunge la nota, prevede di "immettere energia da fusione nella rete elettrica nel prossimo decennio". l test ha riguardato l'utilizzo di elettromagneti di nuova generazione per gestire e confinare il plasma, ovvero la miscela di deuterio e trizio portata a temperature altissime da fasci di onde elettromagnetiche, e ha dimostrato la possibilità di assicurare l'innesco e il controllo del processo di fusione, dimostrando l'elevata stabilità di tutti i parametri fondamentali. Sulla base dei risultati del test, CFS conferma la propria "roadmap", che prevede la costruzione entro il 2025 del primo impianto sperimentale a produzione netta di energia, denominato SPARC, e successivamente quella del primo impianto dimostrativo, ARC: il primo impianto capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica che, secondo la tabella di marcia, sarà disponibile nel prossimo decennio. SPARC sarà realizzato assemblando in configurazione toroidale (una ciambella detta "tokamak") un totale di 18 magneti dello stesso tipo di quello oggetto del test. In tal modo sarà possibile generare un campo magnetico di intensità e stabilità necessarie a contenere un plasma di isotopi di idrogeno a temperature dell'ordine di 100 milioni di gradi, condizioni necessarie per ottenere la fusione dei nuclei atomici, con il conseguente rilascio di un'elevatissima quantità di energia. In pratica, lo stesso fenomeno che avviene nelle stelle come il Sole. Eni è impegnata da tempo in questo ambito di ricerca e nel 2018 ha acquisito una quota del capitale di CFS per sviluppare il primo impianto che produrrà energia grazie alla fusione. Contestualmente, l'azienda ha sottoscritto un accordo con il Plasma Science and Fusion Center del Massachusetts Institute of Technology (MIT), per svolgere congiuntamente programmi di ricerca sulla fisica del plasma, sulle tecnologie dei reattori a fusione, e sulle tecnologie degli elettromagneti di nuova generazione.

(ANSA l'8 settembre 2021) "Per Eni, la fusione a confinamento magnetico occupa un ruolo centrale nella ricerca tecnologica finalizzata al percorso di decarbonizzazione, in quanto potrà consentire all'umanità di disporre di grandi quantità di energia prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile e senza alcuna emissione di gas serra, cambiando per sempre il paradigma della generazione di energia e contribuendo a una svolta epocale nella direzione del progresso umano e della qualità della vita". Lo scrive in un comunicato l'Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, "Lo sviluppo di tecnologie innovative - ha aggiunto descalzi - è uno dei pilastri su cui poggia la strategia di Eni volta al completo abbattimento delle emissioni di processi industriali e prodotti, nonché la chiave per una transizione energetica equa e di successo. Il risultato straordinario ottenuto durante il test dimostra ancora una volta l'importanza strategica delle nostre partnership di ricerca nel settore energetico e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer".

Fusione nucleare magnetica: cos’è e come si produce l’energia (a impatto zero) che imita le stelle. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera l'8 settembre 2021. La notizia è delle ultime ore: Cfs (Commonwealth Fusion Systems), società spin-out del Massachusetts Institute of Technology di cui Eni è il maggiore azionista, ha condotto con successo il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva HTS (HighTemperature Superconductors) che assicurerà il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica.

Energia virtualmente inesauribile. Si tratta di una tecnologia finora mai sperimentata e applicata a livello industriale. In pratica, la «fusione a confinamento magnetico» riproduce quei princìpi tramite i quali il Sole genera la propria energia, garantendo la produzione di un’enorme quantità energetica a zero emissioni. Per questa ragione si parla di una fonte di energia che può essere ritenuta sicura, sostenibile e, anche, inesauribile. Insomma, secondo molti questa potrebbe rappresentare la svolta decisiva nel percorso di decarbonizzazione volto a ridurre le emissioni di CO2 al fine di contenere il cambiamento climatico entro livelli accettabili. 

Come funziona la fusione nucleare magnetica?

Ma come funziona questo magnete? La fusione di due nuclei d’idrogeno libera un’enorme quantità di energia: è questa reazione fisica che alimenta il Sole e le altre stelle. Il processo non emette gas a effetto serra né sostanze fortemente inquinanti o altamente radioattive.

Gli svantaggi: temperature e confinamento del plasma

Ma a questo aspetto altamente positivo fa controcampo uno svantaggio: è infatti molto difficile replicare artificialmente sulla Terra ciò che avviene sul Sole, questo perché è richiesto l’utilizzo di plasma a temperature elevatissime. Per arrivare a riprodurre e rendere utilizzabile la fusione le più grandi eccellenze mondiali nella ricerca stanno studiando da tempo la tecnologia del confinamento magnetico che, come dice il nome, impiega campi magnetici potentissimi per gestire il plasma in cui avviene la fusione.

Idrogeno, deuterio, trizio e l’energia a impatto zero

L’idrogeno nel plasma viene utilizzato sotto forma di due suoi isotopi e cioè deuterio e trizio, i cui nuclei, oltre a un protone, possiedono rispettivamente uno e due neutroni. Il Sole invece per realizzare il processo usa il prozio, l’isotopo di idrogeno di gran lunga più abbondante nell’Universo (si tratta del 99,98%) e che è totalmente privo di neutroni. Qualunque sia però la forma di partenza, fondendo tra loro due nuclei di idrogeno si ottiene energia, neutroni ed elio, un gas nobile totalmente innocuo. In altre parole, si produce energia a impatto zero.

Matteo Meneghello per “il Sole 24 Ore” il 9 settembre 2021. Energia pulita e virtualmente inesauribile. Eni compie un primo passo in avanti concreto verso l'avvio dell'industrializzazione del processo di fusione a confinamento magnetico, «lo stesso processo - sintetizzano dal gruppo di San Donato - che sta alla base della generazione di energia nel Sole e nelle stelle». L'annuncio dei primi risultati su questo fronte arriva da Cfs (Commonwealth fusion system), spin off del Mit di cui Eni è principale azionista dal 2018, iniziativa che ha raccolto più di 200 milioni di dollari, di cui 84 in un series A2 dell'anno scorso, da un panel di investitori che comprenderebbe, seppure con una quota minima, anche Bill Gates e Jeff Bezos. La società ha condotto il primo test al mondo del magnete con tecnologia superconduttiva Hts, creando le condizioni per confinare il plasma nei futuri reattori. Il cammino è ancora lungo: il primo impianto sperimentale vedrà la luce nel 2025 e solo nel 2031 la tecnologia sarà disponibile. Ma in Eni c'è grande aspettativa per lo sviluppo della tecnologia proprietaria e della piattaforma creata dal Mit, nel quale il gruppo di San Donato è intenzionato a mantenere un ruolo rilevante anche nei successivi step di crescita del progetto. «Lo sviluppo di tecnologie innovative è uno dei pilastri su cui poggia la strategia di Eni volta al completo abbattimento delle emissioni di processi industriali e prodotti, nonché la chiave per una transizione energetica equa e di successo - spiega l'amministratore delegato, Claudio Descalzi -. Per Eni la fusione a confinamento magnetico occupa un ruolo centrale nella ricerca tecnologica finalizzata al percorso di decarbonizzazione, in quanto potrà consentire di disporre di grandi quantità di energia prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile e senza emissione di gas serra, cambiando il paradigma della generazione di energia. Il risultato ottenuto durante il test dimostra l'importanza strategica delle nostre partnership di ricerca e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer». «Il test - spiega Francesca Zarri, Director Technology, R&D & Digital del gruppo di San Donato - è il primo dei tre pilastri previsti dalla road map del progetto verso l'industrializzazione. Abbiamo dimostrato che è possibile generare il campo magnetico più elevato possibile e in grado di contenere il plasma che un domani genererà l'energia dal processo di fusione. Il prossimo step, nel 2025, prevede la realizzazione di Sparc, un primo impianto sperimentale a produzione netta di energia e successivamente quella del primo impianto di taglio industriale, Arc». Una volta in produzione, gli impianti «avranno dimensioni paragonabili a quelle di una centrale a gas - spiega -, con turbine standard, allacciate a un'infrastruttura elettrica, senza particolari complessità infrastrutturali». La differenza è rappresentata dal combustibile: «una quantità pari a una bottiglietta da mezzo litro basterà ad alimentare per un anno una centrale da 150-200 Mw» spiega Zarri. Il gruppo Eni, attraverso Eni Next, è il maggiore azionista del progetto, nel quale ha versato 50 milioni di dollari in un primo round del 2018, somma alla quale è seguita la quota relativa al successivo round di finanziamento (gli altri principali sostenitori sono Temasek , Equinor, Devonshire partners, Breakthrough Energy, The Engine, Future Ventures, Hostplus, Khosla, Moore Strategic, Safar Partners, Schooner Capital, Starlight): «ci abbiamo creduto, abbiamo lavorato per introdurre un approccio industriale in un test puramente scientifico - aggiunge la manager del gruppo di San Donato-. Il nostro interesse è rimanere protagonisti all'interno della compagine, portando il progetto fino in fondo». In parallelo, Eni sta lavorando anche con Enea al progetto Dtt per l'ingegnerizzazione e la costruzione di una macchina Tokamak (una «ciambella» ottenuta assemblando magneti superconduttori) dedicata alla sperimentazione di componenti che dovranno gestire le grandi quantità di calore che si sviluppano all'interno della camera di fusione: «è già attiva una supply chain italiana per questo progetto - conclude Zarri -, che in futuro si potrà ulteriormente sviluppare. Da questo punto di vista Eni può far leva su un buon posizionamento».

Pratici, sicuri, efficaci. Con i nuovi reattori il futuro è nell'atomo. Gian Maria De Francesco il 3 Settembre 2021 su Il Giornale. Sicuri, efficienti e installabili ovunque. Sono i reattori nucleari di «quarta generazione» verso i quali il ministro Cingolani ha mostrato particolare attenzione criticando le chiusure dell'ambientalismo «radical chic». Ma come funzionano queste nuove tecnologie? Lo spiega con chiarezza Stefano Buono, fisico (è stato allievo di Carlo Rubbia) e amministratore delegato di Newcleo, startup nella quale ha investito anche la Exor della famiglia Agnelli. «Abbiamo una visione a lungo termine della tecnologia perché accoppiamo un combustibile nucleare con un acceleratore di particelle che consente una gestione più sicura dell'impianto che non si comporta come un reattore tradizionale», argomenta. Tra le novità, prosegue, «l'uso del piombo come liquido di raffreddamento che permette di ridurre moltissimo le scorie radioattivo e aumentare la sicurezza del reattore in quanto si utilizza in modo estremamente più efficace il combustibile: non più l'1% dell'uranio che si pone nel reattore ma il 100 per cento». Un'altra novità è la taglia. «Solo qualche decina di Megawatt che permette non solo la semplificazione delle procedure ma soprattutto un aumento della sicurezza», aggiunge Buono. I mini-reattori, infatti, non devono essere necessariamente connessi alla rete, ma possono essere installati «in luoghi isolati o sulle navi». Il secondo passo sarà aumentare la potenza. «Puntiamo a un reattore a 200 Megawatt», afferma sottolineando che le dimensioni ridotte rispetto a una centrale tradizionale (che può raggiungere i 1.600 Megawatt) «consentono di soddisfare le esigenze del mercato e soprattutto fare a meno dei finanziamenti pubblici», come già accaduto nella ricerca spaziale con le esperienze di Elon Musk e Jeff Bezos. La ricerca sui mini-reattori modulari a fissione (Small Modular Reactors, Smr) non consente solo di trovare soluzioni sempre più sicure (non ci sono pompe o altri dispositivi ad attivazione manuale) ma anche più sostenibili. L'utilizzo di combustibili non convenzionali (come il torio) che durano di più riduce la produzione di scorie. Le centrali si riforniscono in periodi che vanno dai 3 ai 7 anni rispetto agli 1-2 anni delle centrali di seconda generazione. Inoltre, la maggioranza dei progetti in fase di sviluppo consentono di chiudere il ciclo del combustibile in quanto i materiali utilizzati vengono riutilizzati continuamente fino a esaurimento. Insomma, se si pensa a un futuro fatto di mobilità elettrica e con una riduzione dell'uso delle fonti fossili, l'opzione nucleare non si può escludere a priori. «Nel mondo ci sono una ventina di questi impianti in fase di completamento, e che diventeranno operativi entro il 2026, in Paesi come Cina, Russia e Argentina», ha ricordato Umberto Minopoli, presidente di Ain (Associazione italiana nucleare, organizzazione non profit che raccoglie i centri di competenza sul nucleare in Italia). Newcleo è l'esempio più felice dello sviluppo della ricerca visto che ha chiuso un round di finanziamento interamente privato da circa 100 milioni di euro. Infine, la ricerca procede speditamente verso i reattori a fusione che fino a un decennio fa sembravano un miraggio. «In Francia - ha concluso Minopoli - si sta completando l'impianto sperimentale Iter e in questi giorni è stata annunciata un'iniziativa simile anche in Inghilterra». Il futuro, quindi, è nell'atomo. 

Gian Maria De Francesco. Barese, classe 1973, laurea in Filosofia e specializzazione in Giornalismo all’Università Luiss di Roma. Mi occupo dei maggiori avvenimenti economico-finanziari da oltre vent’anni. Ho scritto un libro nel 2019 intitolato «Tassopoly: dall’Irpef alla pornotax, il folle gioco delle tasse». Ho tre grandi passioni: la famiglia, il Bari e il Brit-pop.

Uski Audino per "La Stampa" il 14 giugno 2021. Mentre in Cornovaglia i Paesi del G7 si confrontavano sul clima, al ministero dell'Ambiente a Berlino la ministra tedesca Svenja Schulze (Spd) illustra la strategia della Germania sulla riduzione delle emissioni, sul prezzo della Co2, sulle rinnovabili e soprattutto lancia un monito a Parigi: il nucleare non passerà come energia pulita. L’energia atomica, con le scorie che produce e i rischi che porta con sé, non si può definire «sostenibile», è la posizione tedesca. Ministra Schulze, gli Usa sono contrari a dare un prezzo alla Co2 secondo quanto rivela un documento Ue. Ma una politica sul clima senza gli americani sembra difficile, non crede?

«Sono molto contenta che gli Usa siano tornati a occuparsi di cambiamenti climatici. E questo dà una spinta alla discussione. Lo si è visto negli ultimi incontri sul clima al G7 dove gli Usa anziché bloccare le discussioni, sono stati molto attivi. Certo è necessario riuscire a dare un prezzo alla Co2. Sono ancora troppo pochi i Paesi fuori dall'Ue con un sistema di scambio di emissioni, che noi europei abbiamo introdotto nel 2005. Per questo in Europa stiamo discutendo di una Carbon border tax che potrebbe scattare quando certi prodotti sono importati nell'Ue. Sarebbe un modo per proteggere le nostre aziende dalla concorrenza sleale. La Commissione europea farà una proposta in merito. Naturalmente, questo solleva questioni con Usa, Cina o India, che vogliono continuare ad esportare in Europa. Il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz ha fatto un'altra proposta: fare un club del clima insieme a Ue, Usa e altri Paesi industrializzati, che abbia un prezzo comune per la Co2. Ma questa discussione è all'inizio».

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale il governo ha presentato in 13 giorni una nuova legge sul clima. Al Bundestag lei ha sostenuto di volere un «percorso affidabile» per l'aumento dei prezzi della Co2. Cosa intende?

«Significa che deve esserci un percorso che preveda un aumento graduale anno per anno dei prezzi della Co2 in modo che la gente possa decidere sui propri investimenti. Può dire: "Ok, so che la benzina sarà più cara nei prossimi anni, devo cambiarla con un auto elettrica". Se alziamo semplicemente i costi, le persone si arrabbiano. I gilet gialli in Francia sono l'esempio lampante di questa reazione. Deve essere comunque chiaro che lo Stato non vuole incassare più soldi ma vuole piuttosto ridurre i livelli di Co2. Se si alza il prezzo di benzina o gasolio, allora di pari passo bisogna erogare aiuti sociali. Soprattutto per le fasce più deboli».

Come si sta evolvendo il dibattito sulle energie rinnovabili?

«In Germania non si discute abbastanza sul potenziamento delle rinnovabili. E questo mi preoccupa. Stiamo uscendo dal carbone, nel 2022 lasceremo il nucleare; quindi dobbiamo sviluppare più solare ed eolico. È questa la grande sfida poiché la domanda di elettricità aumenterà. Oggi produciamo già il 50% del fabbisogno dalle rinnovabili, ma entro il 2030, la cifra dovrà essere maggiore di quanto previsto».

A proposito di nucleare. Ci sono nuovi tipi di reattori di formato ridotto: in Germania non se ne parla granché, perché?

«La Germania appartiene alla cerchia dei Paesi Ue contrari al nucleare. Abbiamo deciso di uscire dall'energia atomica e la maggioranza dei tedeschi ci sostiene. È una forma di energia estremamente costosa oltre che enormemente rischiosa. Lo smantellamento di una centrale nucleare costa circa 1 miliardo di euro. Per lo stoccaggio intermedio delle scorie ne servono 24. E ora dobbiamo trovare un deposito definitivo sicuro. È un processo lungo e costoso. Confrontatelo con l'energia solare ed eolica e capirete che il nucleare non è più competitivo».

La Francia vuole classificare l'energia nucleare come "pulita", "verde": vi opporrete?

«Stiamo definendo con la Ue quali attività economiche possono essere considerate sostenibili e rispettose dell'ambiente e del clima. E questo sarà definito nella cosiddetta Tassonomia. La Francia, appunto, vorrebbe che il nucleare fosse dichiarato sostenibile. Noi abbiamo una posizione diversa: un'energia che carica sulle spalle delle nuove generazioni rischi e costi altissimi non può essere considerata sostenibile. La "Tassonomia" deve escludere il nucleare. Ma il dibattito è ancora in pieno svolgimento. Fra le istituzioni finanziarie invece c'è maggior chiarezza: per Commerzbank e Union Invest gli investimenti nel nucleare non sono sostenibili a causa dei loro rischi e degli enormi costi di gestione».

L'idrogeno sembra il futuro. A che punto è l'attuazione della Germania nella sua strategia nazionale?

«La strategia è in fase di sviluppo permanente. Ora si tratta di costruire un'infrastruttura per la produzione di idrogeno. Il nostro obiettivo è che in Germania si arrivi ad usare solo idrogeno verde, cioè prodotto con energia solare ed eolica. Questo è l'unico tipo di idrogeno che stiamo sostenendo con fondi statali. Nel piano congiunturale ci sono 7 miliardi per il sostegno all'idrogeno verde nazionale e 2 per il partenariato internazionale. Abbiamo 65 progetti sull'idrogeno suddivisi tra i ministeri, di questi 62 rientrano nella strategia comune europea per l'idrogeno Ipcei».

Il mistero della centrale cinese di Taishan è l'ultima beffa dei super reattori francesi. Anais Ginori su La Repubblica il 15 giugno 2021. L’allarme su una "minaccia radioattiva imminente" è un ulteriore colpo alla credibilità delle tecnologie nucleari di nuova generazione progettate da Parigi senza riuscire a inaugurarne sul proprio territorio per continui problemi tecnici. Cosa sta succedendo alla centrale nucleare di Taishan nella Cina meridionale? Secondo Cnn, che cita un documento francese, sarebbe in corso una fuga radioattiva. L'emittente americana ha avuto accesso a un rapporto di Framatome, la società francese controllata da Edf, il principale costruttore di centrali Oltralpe, che ha venduto la tecnologia alla Cina.

Da tgcom24.mediaset.it il 16 giugno 2021. L'aumento di radioattività a Taishan, nel Guangdong, è "nell'intervallo consentito" per le centrali nucleari e "non vi è problema di dispersione radioattiva nell'ambiente". Lo ammettono in  una nota congiunta il ministero dell'Ambiente e dell'Amministrazione nazionale per la sicurezza nucleare cinesi. La radioattività registrata nei giorni scorsi è dovuta a 5 barre di combustibile danneggiate, secondo un "fenomeno comune privo di timori". "A causa dell'influenza di fattori incontrollabili su produzione, trasporto, carico e altri collegamenti, è inevitabile una piccola quantità di danni alle barre di combustibile", si legge ancora nella nota, in cui si ammette l'esistenza di criticità ma si esclude qualsiasi pericolo. La Cnn aveva parlato lunedì di una possibile "perdita" in questo impianto situato nel sud della Cina, che ha gli unici reattori Epr entrati in servizio nel mondo. Questa tecnologia, progettata per offrire maggiore potenza e sicurezza, si presenta come il fiore all'occhiello dell'industria nucleare francese e come una vetrina per il colosso francese Edf. Fino ad ora Pechino aveva continuato ad affermare che i livelli di radioattività intorno all'impianto erano normali. Oggi le prime ammissioni di un fenomeno dovuto a "fattori incontrollabili" durante il processo di fabbricazione, trasporto o installazione nello stabilimento. Le barre di combustibile danneggiate contengono pellet di uranio e forniscono energia nel nucleo di un reattore nucleare. L'aumento della radioattività nell'impianto resta comunque "entro il range regolamentare". Edf, azionista al 30%  nello stabilimento di Taishan insieme al gruppo cinese Cgn, ha segnalato lunedì la presenza di "gas rari" nel circuito primario del primo reattore. La procedura prevede che questi gas vengano raccolti e trattati al fine di rimuovere la radioattività prima che siano rilasciati nell'aria.

Da "lastampa.it" il 10 maggio 2021. Nelle masse di uranio sepolte nel reattore numero quattro della centrale nucleare di Chernobyl esploso nel 1986 sono riprese reazioni di fissione nucleare. Gli scienziati del governo ucraino stanno cercando di capire se queste reazioni si esauriranno da sole o se sarà necessario un intervento per scongiurare un incidente, anche se ovviamente non si parla di conseguenze paragonabili a quello che accadde 35 anni fa ma di un evento molto più contenuto. «E' come se ci fossero tizzoni in un barbecue», spiega Neil Hyatt, chimico dei materiali nucleari all'Università di Sheffield, in una intervista alla rivista Science. I sensori hanno registrato un numero crescente di neutroni, il segnale di una reazione di fissione nucleare, in arrivo da una delle stanze inaccessibili del reattore, ha spiegato Anatolii Doroshenko, dell'Istituto per i problemi di sicurezza degli impianti nucleari di Kiev. «Ci sono molte incertezze, ma non possiamo escludere la possibilità di un incidente», ha aggiunto il suo collega in Istituto, Maxim Saveliev, precisando che «il conteggio dei neutroni aumenta lentamente». Quando si è sciolto il nucleo del reattore, le barre di uranio usate come combustibile, il loro rivestimento di zirconio, le barre di grafite, e sabbia si sono riversate, come lava. Sono precipitate nella cantina dell'ingresso del reattore dove si sono pietrificate in quello che viene definito Fcm (Fuel containing material) in cui si trovano 170 tonnellate di uranio irradiato. Il "sarcofago" costruito intorno al reattore un anno dopo l'incidente aveva lasciato passare l'acqua piovana, acqua che rallenta i neutroni e quindi aumenta la probabilità di uno scontro con l'uranio, quindi di generarne altri a catena attraverso la fissione del nucleo dell'uranio. In coincidenza con forti piogge, il contatore dei neuroni segnava picchi, ma poi tornava ai livelli normali. Il nuovo manto avrebbe dovuto proteggere il reattore anche dall'acqua, e così ha fatto. Fino a che in alcuni punti, i neutroni hanno ricominciato a crescere, arrivando quasi a raddoppiare in quattro anni, in corrispondenza della stanza 305/2. L'ipotesi è quella che con l'asciugarsi dell'Fcm, siano più facili gli scontri fra neutroni e atomi di uranio. Se così fosse, la reazione di fissione potrebbe accelerare anche esponenzialmente, arrivando a rilasciare energia nucleare in modo non controllato. Non come quello che è avvenuto nel 1986, sottolineano gli scienziati ucraini. Sarebbe contenuta, ma potrebbe comunque far crollare alcune sezioni non stabili dell'edificio, rilasciando polvere radioattiva nella nuova struttura di protezione. 

Giuseppe D'Amato per "il Messaggero" l'11 maggio 2021. Il mostro, sepolto sotto ai resti del reattore numero 4 della centrale atomica di Chernobyl, torna a far paura: all'improvviso sono ricominciate le reazioni di fissione nucleare. Tra gli scienziati c'è qualcuno che teme addirittura nuovi rilasci di radioattività nell'ambiente circostante. La situazione è monitorata con estrema attenzione. I sensori, che controllano le masse di combustibile di uranio rimaste all'interno delle stanze del seminterrato del reattore esploso il 26 aprile 1986, segnalano infatti da tempo livelli crescenti di neutroni, per fortuna al momento in aumento lento. Il che significa che il processo di fissione, utilizzato per produrre energia nucleare, è in corso. Gli esperti locali sono preoccupati: il loro primo obiettivo è evitare fughe radioattive verso l'esterno. Il secondo è capire se serva intervenire subito oppure tale attività finirà da sola. Il rischio, però, di una tragedia come quella di 35 anni fa - la maggiore nucleare civile dell'umanità -, viene al momento escluso dal mondo scientifico. Tuttavia, «vi sono grandi dubbi sul da farsi - ha precisato Maksim Saveliev dell'Istituto per i problemi di sicurezza delle centrali nucleari di Kiev non possiamo escludere un futuro incidente». Nell'immediatezza il pericolo è circoscritto.

IL SARCOFAGO Il processo di fissione, è stato chiarito, sta avvenendo in una zona inaccessibile, identificata come stanza 305/2. In quella notte terribile dell'aprile dell'86, quando saltò tutto in aria durante un esperimento di routine, le barre di uranio usate come combustibile, il loro rivestimento e le barre di grafite si trasformarono in una specie di lava che precipitò nella cantina dell'ingresso del reattore. Questa massa radioattiva, con l'aggiunta della sabbia utilizzata dai cosiddetti liquidatori per spegnere l'incendio nucleare, si è pietrificata. Il Sarcofago, eretto l'anno dopo su di essa, è servito a ricoprire anche i resti del reattore esploso e a tentare di isolarli dall'acqua piovana. Lo scopo era quello di evitare la fissione del nucleo dell'uranio. Le crepe, apertesi col passare degli anni nella struttura di cemento ed acciaio, hanno reso indispensabile la costruzione di un secondo edificio, terminato nel novembre 2016. Una delle ipotesi al vaglio degli scienziati è che, al contrario, con l'asciugarsi della massa pietrificata siano diventati più facili gli scontri tra neutroni e atomi di uranio. Se così fosse, la reazione di fissione potrebbe - teoricamente - accelerare anche esponenzialmente, arrivando a rilasciare energia nucleare in modo non controllato. Ma ci vorranno anni e al massimo, stando ad alcuni esperti, una nuova esplosione sarebbe limitata al nuovo sarcofago con la propagazione di microparticelle. Secondo lo scienziato britannico Neil Hyatt, che ha provato a semplificare per il grande pubblico, adesso laggiù è come «se ci fossero dei tizzoni in un barbecue».

CONVIVERE CON IL MOSTRO Convivere con il mostro atomico è un fatto normale per gli ucraini, ma, secondo un recente sondaggio, solo il 52% di loro conosce l'esatta data della tragedia atomica. Quest'anno si è ricordato il 35esimo anniversario dell'apocalisse nucleare, ed è tornato ad essere popolare un video in cui si osserva quello che resta della settima turbina del reattore 4. In quell'ambiente vi si può stare pochi secondi per le radiazioni. Uno studio scientifico, appena pubblicato, ha stabilito che i figli dei liquidatori, coloro che spensero l'incendio, non hanno subito mutazioni del DNA. Prima del Covid l'area chiusa intorno alla centrale attraeva ogni anno migliaia di turisti.

L'Italia in prima linea. Come funziona la fusione nucleare, l’energia delle stelle che sarà la rinnovabile per eccellenza. Umberto Minopoli su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Nel suo ultimo libro, Come evitare un disastro (climatico), Bill Gates invita a essere radicali nei mezzi (“iniziare subito a decarbonizzare”) ma intelligenti e realisti sui tempi: “pretendere di realizzare la transizione energetica, prima che i tempi e i costi delle tecnologie no-carbon siano accessibili, porterebbe a fallimenti e delusioni”. Il 2050, scrive Gates, è l’orizzonte giusto. Purché si inizi subito. Il ministro Cingolani, in questi giorni, ha fatto cenno a tre tecnologie – batterie di stoccaggio dell’energia elettrica, idrogeno e fusione nucleare – come pilastri della transizione ecologica, almeno dal punto di vista italiano. Nessuna di queste tecnologie è già “pronta” all’uso e utilizzabile in tempi brevi. Ma, certo, occorre cominciare: potenziando la ricerca, indirizzando investimenti (a cominciare da quelli del Pnrr) e operando scelte di politica industriale verso le filiere che investono in queste tre tecnologie. Tra le tecnologie della transizione ecologica, la fusione nucleare rappresenterà il cosiddetto breakthrough, il salto “epocale”, la rivoluzione di paradigma nella generazione di energia. Sarà la “rinnovabile” per eccellenza: accessibilità illimitata e a basso costo del combustibile (acqua pesante e litio); assenza di emissioni carboniche; sicurezza intrinseca, altissima intensità energetica e senza problemi di scorie. Insomma, una sorta di sacro graal. La fusione nucleare ha una fisica affascinante. Praticamente, si propone di riprodurre, artificialmente, il meccanismo che genera l’energia delle stelle. E’ dagli anni 50 che, in decine di laboratori di tutto il mondo, si studia il meccanismo della fusione. E si costruiscono macchine per sperimentarla. Nella sostanza, l’obiettivo degli esperimenti è quello di ottenere la tenuta nel tempo e l’autosostentamento del plasma, il motore della fusione: un gas speciale di atomi ionizzati, caldissimo, in cui isotopi del leggero idrogeno (deuterio e trizio) si fondono generando un’enorme energia. Che l’uomo proverà a convertire in elettricità. La scienza e la ricerca italiane (Enea, Infn, Cnr, Consorzio RFX, Università) hanno avuto un peso significativo negli esperimenti internazionali della fusione. Ora si sta per passare, finalmente, al test decisivo: la prova in un impianto a scala reale ( 500 MW di potenza termica), quella delle future centrali elettriche a fusione. Seppur sperimentale, è il più grande impianto in completamento (2024) oggi al mondo. Lo sta realizzando a Cadarache, nel sud francese, il consorzio internazionale ITER ( Usa, Unione Europea, Russia, Cina, Corea del sud, Giappone e India). L’investimento previsto è di 25 miliardi di euro in 20 anni. La costruzione (15 miliardi), intanto, ha già appaltato circa la metà ( 7 miliardi) delle risorse a budget. Le ditte italiane, vincendo una concorrenza distribuita in 35 paesi del mondo, si sono già aggiudicate un quarto (1 miliardo e 600 milioni) delle risorse. Eccellendo in quasi tutte le tecnologie, spesso avanzatissime, della macchina Iter (meccanica, ottica, magnetica, superconduttività, robotica ecc.). Nella filiera italiana figurano campioni dell’industria pubblica e privata, piccole e grandi imprese: Mangiarotti, Ansaldo Nucleare, Fincantieri, Danieli, ASG, Walter Tosto, Simic, Leonardo, Monsud, Cestaro Rossi, Vernazza e altre. Così, con la ricerca e l’industria, l’Italia si posiziona tra i leader nella tecnologia energetica del futuro. Non è un caso che a Frascati sarà localizzato l’impianto sperimentale Divertor Tokamak Test (DDT): 500 milioni di investimento ( 150 occupati diretti e 1500 nell’indotto). Testerà una delle sfide più delicate e complesse della macchina della fusione: quella delle soluzioni tecnologiche e dei materiali inediti che debbono sostenere i forti carichi termici sui componenti e sulle pareti entro cui fluirà il caldissimo plasma. Le prove sperimentali Iter e Ddt dureranno un decennio. Nel frattempo l’Europa, con fondi propri, avvierà la costruzione di Demo, l’impianto gemello di Iter. È un investimento, di portata analoga, per costruire il prototipo di centrale a fusione, quello che realizzerà la “prova elettrica”, l’allaccio alla rete. La prima “corrente elettrica” da fonte illimitata è prevista nel 2050. L’Italia avrebbe le carte in regola per rivendicare la localizzazione di Demo. L’energia stellare l’avremo nel 2050, ma le macchine di essa arriveranno prima: la fusione nucleare, dunque, sarà la più grande infrastruttura tecnologica in costruzione nei prossimi 10 anni. Per gli obiettivi antiemissivi al 2030, però. occorrerà far leva su tutta la batteria delle tecnologie no-carbon disponibili subito. Ci serve un “ponte” al 2050. Diventeranno commerciabili , nel prossimo quinquennio, reattori nucleari (a fissione) di nuova concezione: piccoli (fino a 300 MW), a sicurezza passiva, che minimizzano il problema delle scorie e, soprattutto, sono complementari agli impianti rinnovabili.

Le conseguenze del disastro nucleare. Fukushima, in mare l’acqua contaminata: Tokyo dà il via libera tra le polemiche. Redazione su Il Riformista il 13 Aprile 2021. La decisione è ufficiale e non sono mancate le immediate polemiche. Il Giappone ha decido che tra due anni inizierà lo sversamento in mare, nell’oceano Pacifico, dell’acqua contaminata fino ad oggi impiegata per raffreddare i reattori danneggiati dall’incidente nucleare di Fukushima. A comunicarlo è stato il premier Yoshihide Suga, nonostante la contrarietà non solo di Corea del Sud, Cina e Taiwan, ma anche di buona parte dell’opinione pubblica nipponica, dell’industria della pesca locale e dei rappresentanti dell’agricoltura. Una decisione controversa che arriva a 10 anni dalla catastrofe del marzo 2011, quando un terremoto di magnitudo 9 e il successivo tsunami provocarono il surriscaldamento del combustibile nucleare, seguito dalla fusione del nocciolo all’interno dei reattori della centrale nucleare di Fukushima, con esplosioni di idrogeno e le emissioni di radiazioni. Il premier Suga e il ministro dell’Industria Hiroshi Kajiyama hanno assicurato la popolazione e i Paesi vicini che il processo verrà condotto in modo da evitare “qualsiasi impatto negativo sulla salute umana e sull’ambiente”. Rassicurazioni che però non sono bastate: nonostante un metodo innovativo per il rilascio dell’acqua contaminata, noto come ALPS, che consentirà di rimuovere la maggior parte degli elementi radioattivi come lo stronzio e il cesio, non sarà possibile filtrare il trizio, isotopo radioattivo dell’idrogeno che presenta un rischio minore per la salute umana se presente in bassa concentrazione. La manutenzione giornaliera della centrale di Fukushima Daiichi genera l’equivalente di 140 tonnellate di acqua contaminata. Lo sversamento in mare dell’acqua radioattiva ha provocato la ferma reazione dei ‘vicini di casa’ del Giappone. La Cina ha definito “irresponsabile” la decisione annunciata dal premier Yoshihide Suga. Secondo Pechino, la decisione “è irresponsabile al massimo e nuocerà gravemente alla salute e alla sicurezza pubblica nel mondo oltre che agli interessi vitali dei Paesi vicini”, si legge in un comunicato del ministero degli Esteri cinese. La Corea del Sud ha espresso invece “forte rammarico” per la decisione giapponese, annunciando “la protesta del nostro popolo al governo giapponese”, ha dichiarato il capo dell’ufficio sud-coreano per il Coordinamento delle Politiche Governative, Koo Yoon-cheol. In realtà appare difficile che la scelta del governo giapponese possa essere bloccata da un ricorso internazionale. Nel febbraio dello scorso anno Rafael Grossi, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), durante una visita alla centrale di Fukushima aveva ammesso che il rilascio dell’acqua nell’Oceano Pacifico sarebbe in linea con gli standard internazionali dell’industria nucleare.

PAURA ATOMICA. Incubo Fukushima dieci anni dopo, la brace cova ancora sotto la cenere. Chi è tornato nella zona aspetta la fiaccola dei Giochi per vincere lo spettro del disastro nucleare. Ma i danni delle radiazioni continuano e il muro gigantesco non basta a scacciare l’incubo di un nuovo tsunami.  Marco Cattaneo su L'Espresso il 10 marzo 2021. La sera del 13 febbraio, qui, la terra ha tremato ancora. E forte. Erano da poco passate le 23 quando un sisma di magnitudo 7.1 ha colpito al largo della costa, poco più a sud dell’area in cui dieci anni fa si scatenò l’inferno che ha devastato la regione di Tohoku. Il sisma si è generato a una profondità di 50 chilometri e non è stato necessario diramare un’allerta tsunami, anche se il tremore è stato avvertito fino a Tokyo, 250 chilometri più a sud. Il bilancio è stato di una vittima e 180 feriti, oltre a significativi danni agli edifici. Perfettamente integro è rimasto l’Azuma Baseball Stadium, l’impianto che quest’estate è candidato a ospitare – pandemia permettendo – alcuni incontri dei tornei olimpici di baseball e softball. A Fukushima, già. Perché fin dallo scorso anno, quando l’appuntamento con le Olimpiadi è stato rinviato per l’esplosione di Covid-19, il Giappone era intenzionato a mettersi alle spalle l’incubo che dall’11 marzo 2011, con il terremoto, lo tsunami e il conseguente incidente alla centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, ha tenuto con il fiato sospeso l’intero paese. Tanto che il 4 marzo 2020 il primo ministro Shinzo Abe – cui nel settembre scorso è succeduto il compagno di partito e capo di gabinetto Yoshihide Suga – aveva autorizzato il rientro nelle loro case di quasi tutti gli abitanti evacuati all’inizio dell’emergenza. Sono rimasti esclusi dal provvedimento soltanto i cittadini di Futaba, il centro più vicino alla centrale, distante appena un paio di chilometri dall’impianto, e di alcune aree rurali a nord-ovest della centrale, dove i livelli delle radiazioni sono ancora superiori ai limiti fissati per l’abitabilità. D’altra parte, in questi dieci anni l’impegno per riportare alla normalità la prefettura di Fukushima è stato impressionante. A cominciare dal muro costruito lungo la costa da cui è arrivata la gigantesca onda che ha travolto abitazioni, mezzi, campi coltivati. Lungo 400 chilometri e alto 12 metri e mezzo, è costato 12 miliardi di dollari, e sarà la prima linea difensiva per salvaguardare la regione da eventuali altri tsunami provocati dai terremoti che si susseguono senza tregua lungo l’irrequieta linea di faglia del Pacifico. Una Grande Muraglia per proteggersi dal nemico più insidioso, dunque, mentre a ridosso del muro, quasi a voler cancellare le cicatrici del disastro, il governo ha avviato un piano di riforestazione per ripristinare le storiche foreste di pino nero (kuromatsu in giapponese) spazzate via dallo tsunami. Ma facciamo un passo indietro. Sono le 14,46, ora locale, dell’11 marzo 2011, quando al largo della costa della prefettura di Miyagi, a una profondità di 30 chilometri, si scatena un sisma di magnitudo 9.0, il quarto più violento mai misurato al mondo, che fa tremare le viscere della terra per sei interminabili minuti. Nelle ore immediatamente successive si registrano almeno altre quaranta scosse di magnitudo superiore a 5.0. Il terremoto, che provoca una gigantesca frana sottomarina che ne amplifica le conseguenze, genera uno tsunami con onde alte oltre 10 metri, che si dirigono verso la terraferma a una velocità stimata di 750 chilometri all’ora. L’onda più alta, che supera i 40 metri, si abbatte nelle vicinanze della città di Miyako, nella prefettura di Iwate, ma i danni più gravi colpiscono la prefettura di Miyagi, dove automobili, edifici, navi, treni vengono travolti dalla potenza dell’onda. Quando la furia dell’oceano si placherà, saranno quasi 16.000 le vittime, oltre 6.000 i feriti e 2.500 dispersi. Quanto ai danni materiali, un milione di edifici sono parzialmente o totalmente collassati, con danni per centinaia di miliardi di dollari. Il dramma che metterà in ginocchio il Giappone negli anni a seguire si consuma però quasi un’ora dopo il terremoto un centinaio di chilometri più a sud, dove pure l’onda di tsunami arriva con una violenza sufficiente a mettere fuori uso l’alimentazione elettrica necessaria per i sistemi di raffreddamento della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi. L’impianto comprende sei diversi reattori ad acqua bollente progettati negli anni Sessanta, di cui soltanto tre sono in funzione al momento dell’incidente. Immediatamente dopo il terremoto, i reattori 1, 2 e 3 interrompono automaticamente le reazioni di fissione, con l’inserimento delle barre di controllo, secondo una procedura di sicurezza standard. Ma l’onda di maremoto mette fuori uso tutti i gruppi elettrogeni di emergenza. Per otto ore i sistemi di raffreddamento vengono alimentati da batterie, ma quando anche queste si esauriscono cessa ogni alimentazione elettrica. E, nello stato catastrofico in cui versa la regione, non viene ripristinata alcuna altra fonte. Solo l’arrivo di generatori diesel permette di iniettare acqua di mare nei reattori, ma ormai è troppo tardi. La drammatica sequenza di eventi seguita allo tsunami ha causato un temporaneo abbassamento del livello dell’acqua nei reattori, con conseguente surriscaldamento del combustibile e danneggiamento parziale del nocciolo dei reattori. Nei giorni successivi all’incidente, intorno alla centrale si registrano valori elevati di radioattività – dovuti al rilascio di isotopi di iodio e cesio – stimata in circa un decimo di quella liberata dall’incidente nucleare di Chernobyl. E c’è poi l’acqua contaminata, complessivamente circa 500 metri cubi – che defluisce in mare per circa cinque giorni, secondo le valutazioni della Tokyo Electric Power Company (Tepco), la società che gestisce l’impianto. Altra acqua debolmente radioattiva verrà deliberatamente sversata in mare nelle settimane successive, per permettere il trasferimento di acqua fortemente radioattiva nelle strutture di trattamento dei rifiuti ed evitare il rischio di perdite incontrollate. Nel giro di poche ore il primo ministro Naoto Kan dichiara lo stato di emergenza nucleare, e il governatore della prefettura di Fukushima ordina l’evacuazione dei centri abitati di Futaba e Okuma, i più vicini alla centrale. Nei giorni successivi vengono evacuati tutti gli abitanti nel raggio di 20 chilometri, e ai residenti fino a 30 chilometri viene raccomandato di rimanere nelle abitazioni. Per limitare l’esposizione alle radiazioni vengono emanate restrizioni sul consumo di alimenti contaminati, in particolare latte, pesce e verdure. È così che a un terremoto tra i più violenti mai registrati e a uno tsunami con il solo precedente di Banda Aceh nel 2004, ha fatto seguito il secondo più grave rilascio accidentale di materiale radioattivo della storia. Ma se lo tsunami ha sfogato la sua furia devastante nel giro di poche ore, lasciando solo macerie sulla sua strada, l’incidente alla centrale di Fukushima Dai-ichi è ancora una ferita aperta dieci anni più tardi. E lo resterà a lungo, nonostante l’impegno del governo giapponese, delle amministrazioni locali, della stessa Tepco e di una popolazione che ostinatamente sta cercando di ritornare nelle sue case e alle sue attività, come testimoniano i servizi che la Nippon Hoso Kyokai, la tv pubblica giapponese, sta dedicando a chi è tornato a prendersi cura di campi e frutteti. Anche se in gran parte della regione la radioattività è tornata sotto i livelli di guardia, le conseguenze a lungo termine sulla popolazione dovranno essere monitorate per decenni, anche perché non abbiamo dati certi sugli effetti sulla salute di dosi anche basse delle radiazioni ionizzanti. Non si sa, per esempio, se esista una soglia al di sotto della quale siano da escludersi danni, anche perché quasi tutto quello che sappiamo sugli effetti sanitari di queste radiazioni viene da un unico studio, ancora in corso, sui sopravvissuti della bomba atomica chiamato Life Span Study (Lss). Quel che è certo, invece, è che nel settembre 2018 il governo giapponese ha riconosciuto per la prima volta che un lavoratore della centrale, morto di tumore al polmone nel 2016, aveva contratto il cancro per via dell’esposizione a forti dosi di radiazioni. Ma per una stima generale affidabile delle conseguenze sulla salute umana occorrerà aspettare ancora. Già ci sono invece riscontri sui danni ambientali a lungo termine, in particolare sulla fauna selvatica, grazie soprattutto al lavoro condotto sulle rondini da Timothy Mousseau, biologo dell’Università del South Carolina, con i suoi collaboratori Anders Møller e Andrea Bonisoli Alquati. E non sono buone notizie. Perché, se pure la radioattività liberata a Fukushima era molto inferiore a quella di Chernobyl, le conseguenze biologiche potrebbero essere altrettanto serie. Il loro censimento degli uccelli presenti nell’area di Fukushima dopo l’incidente ha permesso di verificare che nelle aree più contaminate sono presenti meno specie, e con popolazioni ridotte, anche se non è ancora chiaro il meccanismo che lega il declino delle popolazioni all’esposizione alle radiazioni. Così pure, uno studio condotto nel 2012 sulle farfalle della specie Zizeeria maha ha evidenziato malformazioni in un numero crescente di esemplari adulti. Secondo uno studio del 2020 pubblicato sul Journal of Frontiers in Ecology and the Environment, altre specie– tra cui cinghiali, lepri giapponesi, macachi, volpi – hanno invece proliferato nella zona di evacuazione. Come a Chernobyl. Intanto, via via che procedono i lavori di bonifica, diventa sempre più urgente il problema di dove disporre i materiali. Nei mesi scorsi ha destato scalpore la decisione del governo di Tokyo di riversare nell’oceano acqua contaminata per un totale di oltre un milione di tonnellate. I serbatoi che la contengono, un migliaio in tutto, dovrebbero bastare fino all’estate 2022, poi si procederà allo sversamento. Che tuttavia non dovrebbe preoccupare: una simile quantità di acqua, riversata nell’Oceano Pacifico al largo e gradualmente, non farà registrare alcun aumento della radioattività naturale. Più preoccupanti sono i milioni di metri cubi di suolo contaminato rimosso per ridurre la radioattività ambientale e consentire la ripresa delle attività agricole. Negli anni successivi al disastro, circa 70.000 lavoratori hanno asportato la parte più superficiale del terriccio, i rami degli alberi, l’erba e altro materiale contaminato dalle aree vicine agli edifici in un’operazione senza precedenti per consentire a decine di migliaia di sfollati di tornare a casa.

Ora quei materiali sono imballati in giganteschi sacchi che tappezzano ampie aree della prefettura di Fukushima. Il governo ha promesso che saranno spostati in un impianto di stoccaggio provvisorio in vista di trovare una destinazione permanente al di fuori della prefettura. Il problema è che nessuno li vuole. E lo stesso accadrà presumibilmente con le parti dei reattori che la Tepco sta smantellando. Proprio il 1° marzo la società ha annunciato di aver completato la rimozione delle barre di combustibile nucleare dalle vasche di contenimento del reattore numero 3, che ora saranno trasferite in un luogo sicuro del sito. Secondo una stima del governo giapponese, i costi per il solo decommissioning dell’impianto di Fukushima Dai-ichi ammonteranno a circa 75 miliardi di dollari. Ma il Japan Center for Economic Research ha dichiarato che i costi di bonifica dell’area della centrale potrebbero lievitare fino a oltre 500 miliardi. E lo stesso vale per i tempi. Per il piano d’azione governativo, Tepco dovrebbe finire i lavori entro 30 o 40 anni, ma alcuni esperti reputano che anche questa potrebbe essere una valutazione molto ottimistica. Intanto gli abitanti della zona – molti anziani e fragili, che per dieci anni sono stati spostati qua e là senza un piano preciso – tornano a casa, qualcuno di malavoglia. Forse quest’estate, se sarà possibile, qualcuno si affaccerà pure all’Azuma Baseball Stadium per assistere al torneo olimpico. E magari Fukushima si vestirà a festa, a pochi chilometri da quell’inferno in cui la brace continua a covare sotto la cenere.

La tragedia ancora in corso. Disastro di Fukushima, perché dopo 10 anni il fuoco non si estingue. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 10 Marzo 2021. È difficile avere l’esatta consapevolezza di cosa sia un disastro nucleare. Un disastro nucleare non somiglia a un incidente automobilistico. E non mi riferisco tanto alla natura, alle dimensioni o alla dinamica dell’incidente, quanto alla durata delle sue conseguenze. Una volta che si è consumato un incidente automobilistico – per quanto possa essere esteso e drammatico -, si inviano le squadre di pronto intervento, si soccorrono i feriti, si rimuovono i veicoli coinvolti, si procede alla conta delle vittime e dei danni ed eventualmente si ripara il tratto di strada in cui è avvenuto. A questo punto, almeno sotto l’aspetto tecnico, l’incidente si dichiara concluso. Si dovranno accertare dinamiche, le responsabilità e l’entità dei risarcimenti ma, passando sul luogo dell’incidente, nessuno si accorgerà di quanto accaduto. Un disastro nucleare, al contrario, non finisce. L’incidente è solo l’inizio di una catena ininterrotta di eventi in cui legioni, letteralmente legioni, di tecnici, operai, vigili del fuoco, ingegneri, esperti di controllo e sicurezza, si avvicendano sul luogo della catastrofe. Per anni. I grandi disastri nucleari sono tre. Nel 1979, a Three Mile Island, Pennsylvania (Usa); nel 1986, a Chernobyl in Bielorussia; nel 2011 a Fukushima, in Giappone. L’11 marzo del 2011, esattamente dieci anni fa. Il primo dei tre ebbe conseguenze più limitate, ma degli altri due ci ricordiamo tuttora, anche a 35 anni di distanza. Cosa accomuna questi tre disastri? La fusione, parziale a Three Mile Island e Chernobyl, del nocciolo di un reattore. Un reattore nucleare (a fissione, cioè del tipo usato nella totalità delle centrali nucleari in funzione adesso e in passato) è un blocco di metallo radioattivo, solitamente Uranio, suddiviso in barre, all’interno del quale i nuclei degli atomi esplodono, surriscaldando il metallo. Spiegare come e perché i nuclei esplodono richiederebbe uno spazio ben maggiore di questo articolo, ma per la comprensione del processo basta dire che alcuni atomi sono instabili per loro natura. La loro parte centrale, il nucleo appunto, è come una piccola bomba a orologeria, col timer regolato a una certa ora, ma con un meccanismo di innesco che può far esplodere l’ordigno in anticipo o in ritardo rispetto all’ora impostata. Quindi le esplosioni sono come uno spettacolo pirotecnico fissato a una determinata ora, ma che può cominciare in anticipo o in ritardo, e prosegue per una certa durata, nella quale si succedono scoppi a un ritmo irregolare. Le esplosioni dei nuclei degli atomi generano quindi calore, simile a quello prodotto dalla normale combustione, ma con una caratteristica diversa: mentre la combustione convenzionale è il frutto di una reazione chimica tra il combustibile e l’ossigeno dell’aria, il fuoco nucleare è interno alla materia e non richiede l’intervento di alcun agente esterno. Quindi non si può estinguere soffocandolo, cioè privandolo dell’ossigeno, o raffreddandolo al di sotto della temperatura di innesco della reazione, come quando si agita un fiammifero per spegnerlo. Il modo per tenere sotto controllo il nocciolo del reattore nucleare consiste nel separare le barre con un materiale che non consenta loro di comunicare, perché altrimenti la reazione di una barra amplifica la reazione dell’altra, e di raffreddare il sistema, non per spegnerlo, ma per evitare che il metallo si scaldi fino al punto di fusione. Questo liquido di raffreddamento, una volta raggiunta un’alta temperatura a contatto del nocciolo, si utilizza per azionare delle turbine e produrre energia elettrica. Se per qualche caso fortuito il sistema di controllo si guasta, il metallo può surriscaldarsi fino a fondere, trasformandosi in un magma radioattivo e corrosivo, teoricamente capace di divorare le strutture di contenimento. Il film Sindrome Cinese, sempre del 1979, allude proprio a questa possibilità: la massa di metallo fuso sarebbe potuta colare nel terreno, aprirsi un varco nelle profondità della terra, raggiungere il centro del pianeta e quindi riemergere dalla parte opposta. Anche prescindendo dal fatto che la Cina non è agli antipodi degli Stati Uniti, questa ipotesi sulla dinamica del nocciolo fuso è piuttosto fantasiosa: il nucleo fluido, penetrando nel sottosuolo non resterebbe una massa compatta, ma tenderebbe a spandersi e disperdersi. Tuttavia, un nocciolo fuso, per quanto confinato in un guscio di cemento armato, è pur sempre una bruttissima gatta da pelare. L’11 marzo 2011, un maremoto al largo delle coste atlantiche giapponesi produsse uno Tsunami che superò il baluardo protettivo della centrale nucleare di Fukushima, sulla costa nord-orientale dell’isola di Honshu. Evidentemente, l’ingegnere che lo aveva progettato non conosceva l’italiano, e tanto meno quello trecentesco. Aveva perciò ignorato il monito di Dante «…i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia / temendo il fiotto che in ver’ lor s’avventa / fanno lo schermo perché il mar si fùggia» (Inf. XV, 4-6). Lo schermo, cioè la barriera, deve essere abbastanza alto da mettere in fuga il mare, ovvero da respingerlo. Invece il fiotto dello Tsunami oltrepassò lo sbarramento e si avventò sui sistemi di refrigerazione dei reattori, mettendoli fuori uso. Le barre di Uranio di alcuni reattori si surriscaldarono, producendo esplosioni che sparsero pulviscolo radioattivo in un raggio di 30 chilometri. Superata la fase parossistica, la disseminazione di polveri cessò. Ma i noccioli di alcuni reattori, ormai irrimediabilmente fusi, continuarono a bollire. Ed eccoci alla situazione di oggi. Come premesso, il fuoco nucleare non si può estinguere, bisogna quindi aspettare che si esaurisca da solo, ovvero che i nuclei degli atomi siano scoppiati tutti. Un po’ come i popcorn: capiamo che sono pronti quando non sentiamo più crepitare la pentola in cui avevamo messo i chicchi di mais. Fino a quel momento la massa incandescente va tenuta sotto controllo versandoci sopra acqua fresca. La quale acqua, a contatto del materiale, si carica di sostanze radioattive, diventa a sua volta radioattiva e va quindi immagazzinata in appositi recipienti. Siccome ogni settimana bisogna rovesciare sopra i reattori incandescenti approssimativamente il contenuto di una piscina olimpionica, in questi dieci anni si è accumulata la bellezza di oltre 500 piscine, cioè un milione di tonnellate di acqua radioattiva che, a causa di allagamenti e infiltrazioni, stanno contaminando le falde sotterranee. A questo ritmo, si raggiungerà il limite della capacità di accumulo dell’acqua di raffreddamento tra circa un anno. I tecnici della Tepco, la società che gestisce la centrale, dopo essersi lungamente consultati, macerati nel dubbio e aver vagliato tutte le possibili opzioni, hanno infine sentenziato sōne kekkyoku wa anata, no shūjin datta! Non credo ci sia da aggiungere altro. Più eloquente di così si muore… L’intenzione è di procedere, dopo una sommaria purificazione delle acque per rimuovere quello che è possibile filtrare, a sversarle un po’ alla volta nel braccio di oceano di fronte alla centrale. In pratica, come mettere la polvere sotto il tappeto. Solo che questa è polvere radioattiva. Le ripercussioni sono facilmente immaginabili. La pesca sotto costa è una delle principali fonti di approvvigionamento alimentare, in un Paese che vanta il primato di longevità grazie alla dieta prevalente a base di pesce. In un recente sondaggio, i consumatori del mercato interno hanno dichiarato a larga maggioranza che in futuro faranno bene attenzione a leggere in etichetta la zona di provenienza del pescato, scartando accuratamente quello proveniente dalla Prefettura di Fukushima. D’altra parte, le autorità sanitarie, prima di dichiarare salubre un pesce che nuota in acque contenenti stronzio-90, iodio-129, rutenio-106, carbonio-14 (e molti altri membri della famiglia degli elementi chimici radioattivi), ci vorranno riflettere bene. Certo, l’oceano è grande e l’acqua, se versata un po’ alla volta, tenderà a diluirsi, ma che effetto vi fa vedere qualcuno che pesca in prossimità dello sbocco a mare di una fogna? Chi pensava che, una volta decontaminata la zona di rispetto intorno alla centrale, ripuliti meticolosamente gli impianti, rimossi i residui delle barre radioattive, bonificate le strutture di contenimento ed eventualmente chiusa la centrale, il problema sarebbe stato risolto, si sbagliava. Un disastro nucleare non è come un incidente stradale. Un disastro nucleare non si sa quando finisce. E, a distanza di dieci anni, costringe solerti e zelanti tecnici nucleari – che mai avrebbero voluto ridursi a tanto – ad affermare per disperazione “sōne kekkyoku wa anata, no shūjin datta”: a mali estremi, estremi rimedi…

·        Quelli…anti…

Luigi Grassia per “La Stampa” il 22 dicembre 2021. Il metano costa sempre più caro: sotto l'azione combinata del Generale Inverno, della crisi ucraina e del ritardo nella certificazione del gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2, ieri il prezzo di riferimento del gas in Europa (contratto Ttf olandese) ha fatto un balzo del 22%, fissando in chiusura il nuovo record di 180,34 euro per MegaWatt/ora, e durante le contrattazioni ha toccato quota 187,20. Intanto la transizione verso le energie verdi fa due passi avanti e uno indietro: non è un processo lineare, procede a strappi. Così in questi giorni in Italia sono state riaccese temporaneamente, per necessità di sistema, due centrali elettriche alimentate a carbone e finora messe "in sonno" in quanto forti produttrici di CO2: si tratta dell'impianto dell'Enel a La Spezia e di quello del gruppo A2A a Monfalcone (Gorizia); da notare che per entrambe è già prevista la riconversione a gas, e nel caso di La Spezia l'addio definitivo al carbone è fissato a scadenza brevissima, addirittura il prossimo 31 dicembre, mentre A2A ha avviato l'iter autorizzativo per passare al metano e completerà l'operazione in data non determinabile, da qui al 2025, quando tutte le centrali italiane a coke dovranno essere spente. 

Facciamo il punto: la conferenza globale Cop26 ha appena fissato nuovi impegni di decarbonizzazione, peraltro già svalutati come "bla bla bla" da Greta Thunberg, eppure l'Italia in questi giorni innesta la retromarcia rispetto a quegli obiettivi, riavviando due impianti produttori di CO2: come mai questa contraddizione?

La società Terna, che gestisce le linee elettriche italiane ad alta e altissima tensione ed è responsabile dell'equilibrio complessivo del sistema, lo spiega con necessità contingenti: in vista di una possibile ondata di freddo (che aumenta i consumi di energia) e in previsione dello spegnimento per manutenzione di 4 centrali elettriche in Francia (nostra fornitrice abituale di elettricità) Terna ha sondato la disponibilità delle compagnie elettriche, chiedendo loro di rendere disponibile, per precauzione, un po' di potenza supplementare; e Enel e A2A hanno risposto a questa specie di chiamata alle armi rendendo disponibili gli impianti di La Spezia e Monfalcone.

Questione chiusa allora? Sì e no. Per quanto il caso di queste due centrali sia circoscritto e giustificato da esigenze temporanee, è tutto il sistema-Italia che si sta allontanando dagli obiettivi della decarbonizzazione, secondo quanto emerge da un rapporto dell'Enea (l'agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile).

Lo studio denuncia un netto peggioramento (-35%) dell'indice Ispred, elaborato dall'ente per misurare il ritmo della transizione verde. In parte questo era scontato, visto che è in corso un rimbalzo economico post-pandemia, che comporta (inevitabilmente) anche una certa risalita dei consumi energetici; ma non è fisiologico che le nostre emissioni si discostino dalla media europea, eppure sta succedendo proprio questo: Francesco Gracceva, il ricercatore dell'Enea che ha curato l'analisi, dice che «in Italia nel 2021 i consumi di energia e le emissioni crescono più del doppio della media dell'Eurozona», allontanando il nostro Paese dagli obiettivi Ue di decarbonizzazione (emissioni -55% entro il 2030).

Del resto non siamo l'unica pecora nera in Europa: il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli (peraltro scettico sugli obiettivi europei, che giudica un po' troppo impegnativi e ambiziosi), segnala che «in Germania quest' anno l'utilizzo del carbone è in crescita del 30%», anche in relazione all'addio all'atomo. 

E fuori dall'Europa va decisamente peggio, basti pensare alla Cina che costruisce sempre nuove centrali a carbone.

Le aziende industriali italiane, e in particolare quelle che consumano più energia, pur se impegnate nell'obiettivo di tagliare le emissioni a medio/lungo termine si pongono, in questi giorni, un problema di sopravvivenza immediato, legato ai prezzi dell'elettricità e del gas che rischiano di strangolarle. Ieri Federacciai (le imprese siderurgiche) denunciava che «la situazione del nostro settore è molto critica, tanto che diverse aziende sono a rischio chiusura».

Gas, la riserva nazionale donata alla Croazia causa dello “stop” imposto dal M5S. Il Corriere del Giorno il 17 Dicembre 2021. L’Italia volendo potrebbe produrre in casa il gas al costo di 5 centesimi per metro cubo, ed anche rivenderne una parte e guadagnarci tanto. Invece a causa della politica ottusa del M5S del precedente governo Conte (M5S) è costretta ad acquistare al prezzo imposto dal mercato che ieri è arrivato a sfiorare 140 centesimi per un metro cubo di gas . Ed l’aumento del costo metano ha comportato con sé anche gli aumenti dei prezzi dell’elettricità, arrivato ben oltre quota 300 per megawatt/ora con i conseguenti danni in bolletta ai cittadini. Oltre 90 miliardi che possono arrivare a quota 120-130 miliardi di metri cubi di metano giacciono in fondo ai mari italiani, se si considerano quelle potenziali risorse di gas non ancora accertate che stanno lì in attesa da anni. Sono passati due anni e mezzo da quando è scattata la moratoria su permessi e concessioni in attesa del Pitesai voluta ed imposta da M5s. Impianti bloccati nell’Alto Adriatico, in Emilia Romagna, al largo di Ravenna e Comacchio. Ma non solo: sono presenti anche al largo di San Benedetto del Tronto e Alba Adriatica nelle Marche, sospensioni davanti alla Puglia e delle forti potenzialità lungo le coste della Sicilia come il caso Argo-Cassiopea, a Gela dove l’ Eni-Med in joint venture con Edison era intenzionata a investire fino a 1,8 miliardi per sfruttare il gas nel canale di Sicilia, attraverso 4 pozzi sottomarini collegati a una centrale di trattamento da realizzare nel perimetro della raffineria impiantata proprio a Gela. Adesso per la mappa delle attività possibili incluse nel Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee, dovrebbe arrivare il semaforo verde dagli enti locali, anche se nel frattempo gli investimenti delle imprese si sono di fatto quasi azzerati, e ci vorrebbero anni per rimettere in moto la macchina. Almeno un anno per riaprire i rubinetti già disponibili ma temporaneamente chiusi. Ben di più per andare a pescare in una vera miniera d’oro. In pratica è come detenere un tesoro che vale almeno 150 miliardi di euro, considerato il prezzo di un metro cubo di gas, solo che a causa del M5S a trarne i vantaggi sono altri. Per esempio la Croazia ed il Montenegro, o persino l’Albania e la Grecia, che pompano senza sosta dagli stessi giacimenti in fondo al mare, ma lo fanno dall’altro lato dell’Adriatico. Oggi di quei 120-130 miliardi di metri cubi, l’Italia ne estrae solo 3-4 l’anno, mentre ne consuma oltre 70 comprando quello che manca all’estero, dall’Algeria, Norvegia, Qatar, Russia, e persino dagli Usa. Solo che trasportare tutto questo gas comporta un impatto rilevante sull’ambiente. 

L’Italia volendo potrebbe produrre in casa il gas al costo di 5 centesimi per metro cubo, ed anche rivenderne una parte e guadagnarci tanto. Invece a causa della politica ottusa del M5S del precedente governo Conte (M5S) è costretta ad acquistare al prezzo imposto dal mercato che ieri è arrivato a sfiorare 140 centesimi per un metro cubo di gas . Ed l’aumento del costo metano ha comportato con sé anche gli aumenti dei prezzi dell’elettricità, arrivato ben oltre quota 300 per megawatt/ora con i conseguenti danni in bolletta ai cittadini.

Occorre sperare che per i prossimi mesi si ammorbidiscano le attuali tensioni politico-militari in corso tra Russia e Ucraina, che oggi fanno temere interruzioni dei flussi nei gasdotti, in un periodo in cui l’Europa sta consumando a ritmi da primato le scorte. Potrebbe arrivare anche l’ok della Germania al NorthStrean 2, il nuovo gasdotto che collega la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico, aggirando quindi l’Ucraina., ma da Berlino sostengono che per ora mancano i requisiti e permangono dubbi sulla sicurezza. 

Il premier italiano Mario Draghi ha però capito che non c’è tempo da perdere, e che va attuato un piano strutturale salva-bollette che metta al riparo l’Italia da una crisi energetica che potrebbe rivelarsi più lunga del previsto. Una parte della missione prevede acquisti e stoccaggi comuni in Europa, una trasformazione del meccanismo dei prezzi, insieme a una tassa verde per le società energetiche, e l’Italia deve poter mettere mano ai propri giacimenti di gas.

La moratoria delle trivelle imposta dal governo M5S-.PD scattata nel febbraio 2019 ha congelato circa 150 autorizzazioni: 73 permessi di ricerca già in vigore e altri 79 per i quali vi era richiesta , oltre a 5 richieste di prospezione, che significa sempre esplorazione del sottosuolo, ma senza l’utilizzo di macchine per la perforazione. Già lo scorso mese di aprile si era capito che l’aria stava cambiando quando è arrivato il via libera ambientale a 10 progetti per sfruttare i giacimenti nazionali di metano e petrolio nascosti nel sottosuolo emiliano (società Po Valley e Siam) e sotto i fondali dell’Adriatico (Po Valley ed Eni) e del Canale di Sicilia (Eni). I diversi progetti prevedono la perforazione di più di 20 nuovi pozzi. Il prossimo 2022 è quindi destinato a diventare l’anno della svolta energetica. E questa volta spingere sull’estrazione del gas di casa sono determinati il premier Draghi ed il ministro Cingolani.

Roberta Amoruso per “Il Messaggero” il 17 Dicembre 2021. Ci sono oltre 90 miliardi di metri cubi di metano in fondo al mare italiano. Si può arrivare a quota 120-130 miliardi, se si considerano le risorse potenziali di gas non ancora accertate. Ma stanno lì in attesa da anni. Di sicuro sono passati due anni e mezzo da quando è scattata la moratoria su permessi e concessioni in attesa del Pitesai voluta da M5s. Ci sono impianti bloccati nell'Alto Adriatico, in Emilia Romagna, al largo di Ravenna e Comacchio. E ancora: nelle Marche al largo di San Benedetto del Tronto e Alba Adriatica, sospensioni davanti alla Puglia e forti potenzialità lungo le coste della Sicilia. C'è il caso Argo-Cassiopea, località Gela. Qui Eni-Med in jv con Edison puntava a investire fino a 1,8 miliardi per sfruttare il gas nel canale di Sicilia, attraverso 4 pozzi sottomarini collegati a una centrale di trattamento da realizzare nel perimetro della raffineria impiantata proprio a Gela. Ora il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee, la mappa delle attività possibili, dovrebbe essere arrivato al traguardo dell'ok degli enti locali. Ma nel frattempo gli investimenti delle imprese si sono quasi azzerati. Ci vorrebbero comunque anni per rimettere in moto la macchina. Almeno un anno per riaprire i rubinetti già disponibili ma temporaneamente chiusi. Ben di più per andare a pescare in una vera miniera d'oro. È come essere seduti su un tesoro che vale almeno 150 miliardi di euro, considerato il prezzo di un metro cubo di gas, ma lasciare che a trarne beneficio siano altri. La Croazia e il Montenegro, per esempio, o l'Albania e la Grecia, che succhiano senza sosta dagli stessi giacimenti in fondo al mare, ma lo fanno dalla loro cannuccia, dall'altro lato dell'Adriatico. Oggi di quei 120-130 miliardi di metri cubi, l'Italia ne estrae solo 3-4 l'anno. Ma ne consuma oltre 70. Quello che manca lo compra all'estero, dalla Russia, dal Qatar, dall'Algeria, dalla Norvegia e anche dagli Usa. Pensare che trasportare tutto questo gas ha comunque un impatto rilevante sull'ambiente. L'Italia potrebbe dunque produrre in casa al costo di 5 centesimi e anche rivenderne una parte e guadagnarci tanto. Invece è costretta ad acquistare al prezzo che decide il mercato. Ieri un metro cubo di gas è arrivato a sfiorare 140 centesimi. Quel che è peggio è che il metano ha trascinato con sé anche i prezzi dell'elettricità, ben oltre quota 300 per megawattora. La speranza per i prossimi mesi è che si allentino le tensioni tra Russia e Ucraina. Tensioni che oggi fanno temere interruzioni dei flussi nei gasdotti, in un periodo in cui l'Europa sta consumando a ritmi da primato le scorte. E magari potrebbe arrivare anche l'ok della Germania al NorthStrean 2, il nuovo gasdotto che collega la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico, aggirando quindi l'Ucraina. Mancano i requisiti e permangono dubbi sulla sicurezza, dicono per ora da Berlino. Il premier Draghi ha però capito che non c'è tempo da perdere: va attuato un piano strutturale salva-bollette che metta al riparo l'Italia da una crisi energetica che può rivelarsi più lunga del previsto. Acquisti e stoccaggi comuni in Europa, una trasformazione del meccanismo dei prezzi, insieme a una tassa verde per le società energetiche è una parte della missione. L'Italia deve poter mettere mano ai sui giacimenti di gas. La moratoria delle trivelle scattata a febbraio 2019 ha di fatto congelato circa 150 autorizzazioni: 73 permessi di ricerca già in vigore e altri 79 per i quali era pendente la richiesta. Più altre 5 richieste di prospezione, che significa sempre esplorazione del sottosuolo, ma senza l'utilizzo di macchine per la perforazione. Eppure già mesi fa, ad aprile. si era capito che l'aria stava cambiando quando è arrivato il via libera ambientale a 10 progetti per sfruttare i giacimenti nazionali di metano e petrolio nascosti nel sottosuolo emiliano (società Po Valley e Siam) e sotto i fondali dell'Adriatico (Po Valley ed Eni) e del Canale di Sicilia (Eni). In tutto, i diversi progetti prevedono la perforazione di più di 20 nuovi pozzi. Il 2022 è destinato ad essere l'anno della svolta. Perché spingere sull'estrazione del gas di casa è la strada che sono determinati a seguire Draghi e Cingolani. 

I professionisti dell’anti-idrogeno: l’editoriale del nuovo numero di Greenkiesta Paper. L’Inkiesta il 25 settembre 2021. Tutti i “non si può fare” che vi hanno detto sulla rivoluzione nel settore energetico sono falsi. Certo, non è un percorso facile, ma lo si può fare eccome. Anzi, guai a restare indietro. Lo spiega un numero speciale del nostro giornale, in vendita da oggi nelle edicole di Milano e Roma e sullo store online de Linkiesta. Le tre parole più facili da pronunciare in sequenza sono: “non”, “si” e “può”. Non si può diventare una società totalmente a idrogeno – anche se il Giappone (la terza economia del mondo) progetta di farlo dal 2014. Non si può creare su larga scala un’industria di auto, navi, bus, camion a idrogeno – anche se in questo numero di Greenkiesta vedrete almeno 8 casi di prototipi già in atto o programmati da parte delle più importanti aziende del mondo. Non si può trasportare facilmente l’idrogeno – anche se due esperimenti condotti da Snam provano che si possono usare gran parte dei gasdotti esistenti senza dover creare da zero una rete di idrogenodotti. Non si può, ma si fa. E si farà sempre di più. Certo, i problemi non mancano: il 96 per cento dell’idrogeno prodotto attualmente è del tipo “grigio”, cioè ottenuto con combustibili fossili, rilasciando anidride carbonica nell’atmosfera. E, certo, è difficile che nel breve periodo si imponga su larga scala l’idrogeno “blu”, perché la CO2 prodotta coi combustibili fossili deve essere catturata e immagazzinata in maniera continua ed efficace se vogliamo raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. E, certo, l’idrogeno “verde”, anche se completamente decarbonizzato grazie al processo dell’elettrolisi è una produzione ancora in una fase artigianale e gli elettrolizzatori, e cioè le speciali celle elettrochimiche alimentate da elettricità che separano l’idrogeno dall’ossigeno per creare energia, sono ancora costosi. Tutto vero, per ora. Ma i professionisti dell’anti-idrogeno dimenticano di dire che i governi e le aziende del settore non investono più sull’idrogeno “grigio”, ma cercano di rendere ecologicamente più sostenibile quello “blu”. Dimenticano di dire che stanno aumentando gli investimenti per migliorare la tecnologia di cattura e stoccaggio della CO2 e che, secondo Global Ccs Institute, nel mondo esistono già almeno 26 strutture in grado di catturare 40 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, e altre 37 sono in costruzione o sviluppo. E se ne potranno creare di nuove e di migliori. Dimenticano di dire che creando in Europa diverse mega-fabbriche di elettrolizzatori si potrebbero attuare economie di scala in grado di abbassare il costo di queste vasche speciali, rendendo l’industria meno artigianale e creando nuovi posti di lavoro. Ma, soprattutto, la situazione non è immutabile. Vent’anni fa il mercato delle fonti rinnovabili sembrava costoso e inaccessibile. Poi, gli investimenti pubblici e privati hanno via via diminuito i costi dei prototipi. Perché non può accadere lo stesso con l’idrogeno “blu” e “verde”? In più, c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare: la grande capacità dell’idrogeno di essere un vettore energetico per lo stoccaggio. Infatti, le energie rinnovabili, come il fotovoltaico e l’eolico, sono per loro natura discontinue e non programmabili. Per capirci, se durante l’inverno è sempre nuvoloso o se non tira vento per un mese non basta fare la danza della pioggia. O, in questo caso, del sole. Ecco perché ci serve un vettore energetico, come l’idrogeno, che immagazzini l’energia prodotta e la conservi per quando ce ne sarà bisogno. Possiamo scegliere di non scommettere sulla rivoluzione dell’idrogeno. Possiamo convincerci che sarà impossibile creare da zero un’industria solida che garantisca prestazioni efficienti e prezzi competitivi. Possiamo continuare a dire “non si può fare”. Oppure, possiamo leggere il numero di Greenkiesta con gli studi e i dati e capire che, se non asseconderemo questa ascesa, lo farà qualcun altro. Come è già successo con il fotovoltaico, vent’anni fa. Il resto del mondo lo ha già capito, e se non ci muoviamo sarà da loro che dovremo comprare l’energia del futuro.