Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’AMBIENTE

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lo Street Food.

Il Cibo cura e guarisce o fa male.

… senza glutine.

I Cibi Light.

La Semenza.

La filiera corta degli agricoltori contro la fame ed il sottosviluppo.

L’agricoltura biodinamica.

Le prese per il culo.

La Dieta del Sesso.

Il Cioccolato.

Il Cibo che ingrassa.

Il Cibo che inquina.

Il Panettone.

La Colomba Pasquale.

Ogm sì o no?

La battaglia alimentare.

L'Antispreco.

La Scadenza…

Il Microonde.

Come si mangia.

I Cachi.

La Mela.

La Ciliegia.

Il Pompelmo.

La Malva.

Le Patate.

Il Peperone.

I Fagiolini.

Il Riso.

La Pasta.

Il Tortellino.

Il Pane.

La Pizza.

Il Sale.

L’Olio.

Il Salame.

Il Lardo.

La Porchetta.

Il Formaggio.

L’Acqua.

Il Vino. 

L’Alcool.

Il Bitter.

Il Caffè.

La Coca Cola.

Le Uova.

La Carne.

Il Pesce.

Il frutto proibito: i Datteri di mare.

La Dieta Mediterranea.

Eataly.

Slow Food.

La dieta alternativa: Gli insetti commestibili.

Il Veganesimo.

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Pastorizia.

L’Estinzione.

A tutela degli animali.

Capodanno letale per gli animali.

Comandano loro.

I Cloni.

Le Scimmie.

I Cani.

I Gatti.

Topi o Scoiattoli?

Le Api.

Gli Uccelli.

Le Zanzare.

I Cavalli.

Gli Elefanti.

Il Tonno.

Le Balene.

Cazzi animali.

Sesto senso e telepatia.

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Evento naturale…

A proposito di Rigopiano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Santo protettore.

Un Ministero per la Transizione ecologica.

La Mobilità Green.

Gretinismo ed inquinamento.

La Decrescita felice e l’ambientalismo catastrofico.

I Disinquinatori.

Gli Inquinatori.

La Finanza sostenibile. 

La Risorsa economica della Natura.

La Risorsa dell’acqua. Fogne e scarichi fuori controllo.

Gli Oceani.

Le Alluvioni razziste: in Germania è colpa del clima impazzito; in Italia è colpa del dissesto idrogeologico.

La Green Economy. La Risorsa dei Rifiuti.

La Dannosità dei rifiuti.

Il martirio territoriale.

La Xylella.

Il Risparmio energetico.

Le fonti rinnovabili.

Il Corpo elettrico.

Il costo della transizione ecologica.

Paura Atomica.

Quelli…anti…

 

 

 

L’AMBIENTE

PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Lo Street Food.

Leonardo Perucca per “il Venerdì di Repubblica” il 19 ottobre 2021. A Venezia, nel sestiere San Polo, da circa mille anni si svolge il mercato di Rialto. Ai banchi di frutta, verdura, carni e pesce fresco si alternano i piccoli chioschi di cucina di strada, dove assaggiare le specialità del posto: i bigoli, risi e bisi, il baccalà mantecato, seppie col nero, le sardelle in saor, i caparossoli in cassopipa «Il cibo di strada è la storia di un Paese», diceva Gualtiero Marchesi. Girare tra i banchi porta dritti nel cuore di una città, tra i colori, la gente, le padelle che sfrigolano, i profumi inebrianti. Pratico, conviviale, economico, irresistibile, è una passione che coinvolge ogni regione e paese. Arrosticini abruzzesi, pizza e mortazza, il lampredotto, i coccoli fiorentini, il frico friulano, gli scagliozzi: difficile assaggiare tutto. A fare ordine tra le innumerevoli ricette locali è il libro di Paola Bacchia Italian Street Food (Smith Street Books). Le bombette e la focaccia barese ci portano in Puglia. «Il Panificio Fiore, nel centro storico di Bari, è famoso per il suo calzone, con la fila all'ora di pranzo che si snoda tra i vicoli». Il più buono è con cipolle dolci e uva sultanina, che crea un bel contrasto con le olive salate e le acciughe. Assicuratevi però di lasciare spazio per i panzerotti mozzarella e pomodoro del Focacciaro di Pino Ambruoso, sempre a Bari, un altro must locale. Seguendo il profumo delle friggitorie si arriva in Sicilia. «A Palermo ci sono quattro mercati all'aperto, che si aprono a ventaglio dai Quattro Canti barocchi», racconta l'autrice. E vale la pena assaggiare tutto, dagli arancini con piselli alle polpette di melanzane e ragù, fino alle frittole, il tradizionale cono di frattaglie, cartilagini e scarti di vitello rosolati e poi fritti. Dove trovarli? A Palermo gli indirizzi di culto sono due: Ballarò è il cuore tradizionale della città, con le primizie della campagna siciliana, le urla dei venditori, la confusione allegra tra i banchi. Ma è la Vucciria il centro della cucina di strada palermitana, dove gustare a qualsiasi ora panelle, cazzilli, crocchè e stigghiole. Bisogna farsi largo in mezzo a un caos incredibile, ma il premio è impagabile. Tutto il meglio del più autentico cibo di strada siciliano. A Dalle bombette pugliesi al baccalà mantecato. In un libro la guida allo street food dello stivale.

·        Il Cibo cura e guarisce o fa male.

Chiara Cajelli per dissapore.com il 12 novembre 2021. Il fatto che il raffreddore migliori ingerendo latte e cognac è cosa nota, ma io credo di più al fatto che alcune generazioni di nipoti siano cresciute più felici (e… allegre) di quelle di oggi, che vanno avanti a Fluimucil. I rimedi della nonna sono soluzioni da rispettare, e che fanno parte di un tenero spaccato casalingo e spesso “povero”, ma la medicina insegna che l’omeopatia ha poco potere contro naso chiuso e starnuti a profusione.

Mio papà Mario mi riporta sempre una freddura inglese: il raffreddore dura una settimana se non ti curi, e dura una settimana se ti curi. Che significa solo una cosa, ovvero che te lo becchi e non ci puoi fare molto. Ma, ecco, cercare una soluzione nello zenzero e nella castagna in tasca pur di non assumere farmaci non ha comunque molto senso. 

E la cucina è fucina ideale in cui trovare tutti i rimedi della nonna contro il raffreddore. Vediamoli uno per uno, per fare un passo nel passato, per scoprire comunque oggettive (seppur inutili, in questo caso) proprietà di alcuni ingredienti, per spiegare miti e usanze, o per ridere e sentirsi meglio.

Cognac, rum, ho letto anche di vino rosso: non è raro trovare tutt’oggi suggerimenti su come usare alcolici nella puericultura, e non è raro trovare persone che bevono davvero un bel bicchiere di rum o cognac per trovare sollievo. Acqua calda, alcol, chiodi di garofano, zucchero: questa bomba non fa altro che irritare e gonfiare le mucose – già messe a dura prova durante un raffreddore – e favorire la disidratazione.

Un altro classicone è il latte caldo col miele (o, spesso, con alcol). Il latte caldo è una coccola che ci fa tornare bimbi, la dolcezza del miele in abbinamento è deliziosa e sa di caramella, e le proprietà lenitive e antinfiammatorie del miele sono vere. Ma, credetemi, quella cucchiaiata melliflua in 400 ml di latte non aiuterà proprio nulla. Anzi, vi manderà in botta glicemica. In più, aggiungo che il miele ha proprietà naturali se di qualità e puro, altrimenti manco quelle.

Lo zenzero ha preso piede come incredibile panacea: nelle diete, come super food detox, come antinausea – gettonatissimo nelle gravidanze, dicono – come digestivo. E cura anche il raffreddore! Tutte cose vere, ma attenzione: le proprietà benefiche di un ingrediente sono oggettive se assunte con sistematicità e in grandi quantità. Ci si mette di mezzo poi la qualità dell’ingrediente, lo stile di vita, le abitudini alimentari di contorno, l’età, l’anamnesi. Come per il miele: due fette di zenzero infuse nell’acqua non “stappano” il naso.

Questo è il mio preferito, mi fa tenerezza e ci sono affezionata. Abito a ridosso di un bel bosco e comunque, ogni anno, scelgo qualche ghianda e castagna e le tengo fino all’estate. Tuttavia, lo faccio solo perché adoro l’autunno. Mia nonna era farmacista, quindi l’usanza omeopatica non ha mai attecchito in casa mia. 

Andrebbe tenuta in tasca una castagna matta, che secondo il mito sarebbe potente contro il virus del raffreddore. Ebbene, sapete perché? Anticamente i frutti dell’ippocastano erano macinati e dati ai cavalli per rafforzarli – la radice ippo in ippocastano significa infatti “cavallo” in greco… per gli umani questa cosa non solo è inutile ma è anche velenosa.

A Milano e un po’ in tutta l’Italia a Nord c’è usanza di conservare una fetta del panettone aperto il 25 dicembre, fino al 3 febbraio ovvero fino al giorno di San Biagio. Il detto recita che “San Biase el benediss la gola e el nas” (San Biagio benedice la gola e il naso): non c’è molto altro da dire, se non che è una delle tradizioni natalizie italiane che non migliorano la salute ma scaldano sicuramente il cuore.

Stai male? Ti faccio il brodo di pollo. Quante volte avete visto questa scena nei film, o ve lo siete sentiti dire? Il fatto è che il brodo di pollo, se il “pollo” è di qualità, se fatto in casa, se fatto con aggiunta di verdure di qualità, è per davvero un ottimo alimento: nutre, contiene grasso e minerali, consente di non sprecare ossa e scarti di verdure usate per altri scopi, è buono, scalda corpo e mente. Ma non cura il raffreddore, stop.

Sì avete letto bene: cipolle contro il raffreddore. Nello specifico, contro la tosse. Bisogna affettare un bel po’ di cipolle, coprirle con abbondante zucchero, aspettare una notte che avvenga la macerazione, scolarle e raccoglierne il siero o sciroppo.  

Leggenda vuole che bevendone un cucchiaio si avrebbe immediato sollievo dalla tosse grazie alle proprietà espettoranti e calmanti di questo ortaggio. Se volete provare, chi sono io per impedirvelo… ma ecco preferisco usare cipolle e zucchero per fare un bel contorno.

Adoro la salvia sia da assaggiare sia da annusare, e in qualche modo sono convinta che l’odore balsamico delle erbe aromatiche in qualche modo aiuti a combattere meglio un malanno. Che sia un malanno vero o figurato poco importa, l’autosuggestione è uno strumento potente, magico.  

La salvia è usata da tempo immemore come rimedio per il raffreddore, per respirare meglio, come infuso o come unguento se tritata e miscelata allo strutto. Eh sì, come quando si prepara un arrosto farcito: una bella massaggiata e via in forno, belli conditi.

Ho tre brutte notizie da dare. La prima è che, purtroppo, la vitamina C non è una medicina e al massimo può aiutare un po’ a prevenire un malanno. La seconda è che non bastano un’arancia ogni tanto o trentadue arance per una settimana all’anno per avere il pieno di vitamina C e salvarsi da raffreddore. La terza è che le arance non sono assolutamente l’alimento più ricco di vitamina C: prima di loro ci sono i peperoni, le fragole, i kiwi, i broccoli.

Daniela Natali per il “Corriere della Sera - Salute” il 10 novembre 2021. E se per perdere peso, e soprattutto proteggere la nostra salute, scongiurando il rischio di diabete e di danni al cuore, puntassimo, invece che sulla dieta, sull'attività fisica? Di più: se proprio smettessimo del tutto di preoccuparci di quello che mangiamo e ci trasformassimo da «couch potatoes», patate da divano, e cioè da pantofolai, in sportivi? La proposta viene dall'America, dove il 70 per cento della popolazione adulta è sovrappeso e il 36,2 francamente obesa e i moniti a mangiare meno, soprattutto a rinunciare al cibo spazzatura, che si ripetono ormai da decenni, non hanno avuto alcun risultato. Anzi hanno spesso innescato il cosiddetto fenomeno «yo-yo»: perdite di peso seguite da recuperi (spesso con gli interessi) dannosissimi per la salute perché associati a un maggiore rischio di patologie cardiovascolari e di diabete.  Spiega Gianfranco Beltrami, vicepresidente della Federazione medico sportiva italiana: «La ricerca che sta facendo discutere, anzi la "review", cioè la revisione di una serie di studi precedenti, (autori Glenn Gaesser e Siddharta Angadi, recentemente pubblicata su iScience- Cell Press ) è intitolata proprio "Trattamento dell'obesità: perdita di peso a confronto con l'aumento dell'attività fisica per la riduzione dei rischi per la salute". Lo studio punta sull'importanza del controllo della pressione arteriosa (sottovalutato, secondo gli autori) e dell'aumento delle capacità polmonari e della "muscolar fitness" rispetto alla diminuzione del peso corporeo». 

È d'accordo con le affermazioni dei colleghi americani che concludono la loro review suggerendo di dimenticare la dieta e puntare sul fitness? 

«Pur comprendendo lo scoraggiamento (giustificatissimo) dei colleghi americani per i programmi rivolti al solo controllo dei chili di troppo, vorrei sottolineare che la strategia corretta punta sui due fronti senza privilegiare l'uno rispetto all'altro. Riduzione del peso e attività fisica sono due armi complementari per proteggere la salute. Ma quando si parla di "dieta", non penso certo all'ossessione di pesare maniacalmente tutto, alla mania del calcolo delle calorie o alla demonizzazione di certi cibi e all'assunzione a "salva vita" di altri. Bisogna pensare meno alla "quantità" del cibo e più alla sua "qualità". «No al cibo spazzatura pieno di grassi e zuccheri semplici e povero di vitamine, fibre, minerali e spesso anche di proteine e dalla forte azione infiammatoria che come ben sappiamo è dannosa per l'intero organismo» 

Ma l'esercizio fisico di per sé fa dimagrire? 

«Giustamente nello studio citato si dice che sebbene l'esercizio fisico in genere non porti a riduzioni significative del peso o del grasso corporeo, può ridurre significativamente il grasso viscerale ed "ectopico": quello che sta dove non dovrebbe stare e invade sangue, fegato, pancreas, midollo osseo e persino i muscoli e il cuore. E ci sono anche altri benefici». 

Di che benefici si tratta? 

«Riduzione della pressione arteriosa, miglioramento del controllo della glicemia e del funzionamento generale dell'apparato cardiovascolare, calo dei lipidi e cioè del colesterolo cattivo. «Ma il moto è fondamentale anche perché comporta il rilascio di endorfine, gli ormoni del buon umore, che contribuiscono a ridurre la propensione verso i cibi "consolatori," in genere ricchi di grassi "cattivi" e di zuccheri di "pronto utilizzo" che fanno impennare l'insulina e causano un rapido ritorno dell'appetito». 

Nello studio citato si parla in particolare del ruolo benefico della cardiofitness, di che cosa si tratta esattamente? 

«A prescindere dal fatto che mezz' ora di camminata di buon passo, ogni giorno, è già utilissima e allena il cuore; con cardiofitness si intende un allenamento aerobico che aiuta a perdere peso e accresce efficienza cardiaca e respiratoria. Si svolge a "circuito", cioè tramite macchinari differenti o anche elastici o piccoli pesi da usare in serie, con tempi e obiettivi diversi». 

Ci può fare un esempio? 

«Si possono effettuare, a casa, flessioni sulle braccia, squat libero, addominali, affondi, estensioni con elastici, alzate laterali con piccoli pesi effettuando 15- 20 ripetizioni per ogni esercizio per almeno tre serie con brevi pause. In palestra, invece, si possono fare esercizi aerobici con bike, tapis roulant o ellittica alternati da esercizi con crunch machine , pectoral machine ,macchina abduttori e adduttori, leg extension . Facendo sempre tre serie a basso carico con pause di 20 secondi tra un esercizio e l'altro».

Dagotraduzione dalla BBC il 6 dicembre 2021. Secondo gli scienziati l'enigma del perché gli umani stiano diventando più alti e raggiungano prima la pubertà può essere spiegato da un sensore nel cervello. Durante il XX secolo, nel Regno Unito l’altezza media è aumentata di 10 cm durante il XX secolo e negli altri paesi fino a 19 centimetri, anche perché ci alimentiamo meglio. Ma non ne è mai stato capito il perché. Scoprirlo potrebbe portare a farmaci per migliorare la massa muscolare e curare la crescita ritardata. Gli scienziati sanno da tempo che con una buona dieta e un accesso affidabile al cibo gli esseri umani tendono a diventare più alti e a maturare più rapidamente. In Corea del Sud, per esempio, l'altezza degli adulti è aumentata vertiginosamente da quando la nazione si è trasformata da un paese povero a una società sviluppata. Eppure, in alcune parti dell'Asia meridionale e dell'Africa, le persone sono solo leggermente più alte di 100 anni fa. È noto che i segnali provenienti dal cibo raggiungono una parte del cervello chiamata ipotalamo, comunicandogli la salute nutrizionale del corpo e innescando la crescita. Questo nuovo studio, pubblicato su Nature e condotto da ricercatori dell'Università di Cambridge insieme al team della Queen Mary University di Londra, dell'Università di Bristol, dell'Università del Michigan e della Vanderbilt University, ha scoperto il recettore cerebrale alla base di tale processo. Si chiama MC3R ed è il legame cruciale tra cibo e sviluppo e crescita sessuale. «Racconta al corpo: siamo fantastici qui, abbiamo molto cibo, quindi cresci rapidamente, raggiungi presto la pubertà e fai molti bambini», ha detto il professor Sir Stephen O'Rahilly, autore dello studio, di Cambridge. «Non è solo magia: abbiamo lo schema elettrico completo di come avviene».  Quando il recettore del cervello non funziona normalmente negli esseri umani, i ricercatori hanno scoperto che le persone tendevano ad essere più basse di altezza e iniziavano la pubertà più tardi rispetto alle altre persone. Il team ha cercato nel patrimonio genetico di mezzo milione di volontari iscritti alla UK Biobank - un enorme database di informazioni genetiche e sanitarie - per confermare che ciò fosse vero. I bambini che hanno scoperto di avere mutazioni genetiche che interrompono il recettore cerebrale, erano tutti più bassi e pesavano meno degli altri bambini, il che mostra che l'effetto inizia presto nella vita. Il team di ricerca ha trovato una persona che aveva mutazioni in entrambe le copie del gene per MC3R, che è estremamente raro e dannoso. Questa persona era molto bassa e ha iniziato la pubertà dopo i 20 anni. Ma gli esseri umani non sono soli in questo: i ricercatori hanno studiato i topi per confermare che lo stesso percorso è attivo negli animali. La scoperta potrebbe aiutare i bambini con gravi ritardi nella crescita e nella pubertà, così come quelli che diventano fragili a causa di malattie croniche e hanno bisogno di costruire muscoli. «La ricerca futura dovrebbe indagare se i farmaci che attivano selettivamente l'MC3R potrebbero aiutare a reindirizzare le calorie nei muscoli e in altri tessuti magri, con la prospettiva di migliorare la funzionalità fisica di tali pazienti», ha affermato il professor O'Rahilly. Gli scienziati avevano già identificato un recettore cerebrale che controlla l'appetito, chiamato MC4R, e coloro che ne sono privi sono solitamente obesi. C'è un tetto per l'altezza e viene raggiunto quando le persone raggiungono il loro potenziale genetico. Fattori come la salute e la dieta hanno un enorme impatto sul fatto che ciò accada. Quando i bambini delle famiglie più povere ricevono cibo e calorie a sufficienza, possono crescere fino all'altezza che ereditano dai loro genitori e nonni. Le persone più alte generalmente vivono più a lungo e hanno meno probabilità di soffrire di problemi cardiaci e possono anche finire per guadagnare di più. Ma gli umani non possono continuare a crescere per sempre. Come molti altri paesi in Europa, l'altezza media nel Regno Unito è aumentata durante l'ultimo secolo, ma ci sono stati segnali negli ultimi 10 anni che si sta appiattendo. I maggiori aumenti di altezza nel secolo scorso sono stati nelle donne sudcoreane e negli uomini iraniani. Le persone più alte al mondo sono gli uomini nati nei Paesi Bassi (182 cm), mentre le più basse sono le donne nate in Guatemala (140 cm).

Dagotraduzione da Study Finds il 5 dicembre 2021. Negli ultimi anni c'è stata molto entusiasmo per la dieta mediterranea, che in genere consiste in frutta e verdura, cereali integrali, noci, olio d'oliva e pesce. Ora una nuova ricerca offre alcuni avvertimenti allarmanti. Il passaggio da una normale dieta "occidentale" a una tradizionale dieta mediterranea può triplicare l'assunzione di contaminanti ambientali, rivela lo straordinario nuovo rapporto. Molti studi l’hanno accolta come una sana alternativa alle tipiche diete (ricche di grassi saturi da carne rossa e latticini), rendendola molto popolare tra gli individui attenti alla salute. Con una svolta sorprendente, tuttavia, gli autori di questo nuovo rapporto affermano che frutta, verdura e cereali integrali sono la fonte della maggior parte delle tossine quando provengono da tecniche agricole tradizionali. Invece il pesce contiene molti meno contaminanti. Il team internazionale afferma che la dieta mediterranea potrebbe indebolire il sistema immunitario umano, la fertilità e persino arrestare la crescita e lo sviluppo dei bambini. Lo studio, condotto da scienziati dell'Università di Oslo, ha esaminato gli studenti britannici che seguono la dieta. Gli autori hanno concluso che una dieta mediterranea in cui gli ingredienti sono autocoltivati riduce organicamente l'assunzione di questi contaminanti del 90 percento. I ricercatori hanno testato l'urina dei partecipanti e hanno studiato quali contaminanti erano presenti negli alimenti che mangiavano. Il responsabile del progetto Carlo Leifert, professore in visita a Oslo, afferma che molti dei contaminanti ambientali scoperti possono influenzare gli ormoni nel corpo. «Molti dei pesticidi sintetici rilevati sia negli alimenti che nei campioni di urina in questo studio sono confermati o sospettati di interferenti endocrini (EDC). L'esposizione ai pesticidi 10 volte superiore degli alimenti convenzionali può quindi fornire una spiegazione meccanicistica per la minore incidenza di sovrappeso/obesità, sindrome metabolica e cancro associati ad alti livelli di consumo di alimenti biologici negli studi epidemiologici/di coorte», spiega Leifert in un comunicato universitario. I ricercatori dicono che è troppo presto per i funzionari sanitari per iniziare a non raccomandare la dieta mediterranea. Lo studio su 27 studenti britannici era troppo piccolo e sono necessarie ulteriori ricerche per confermare i risultati. «Questo studio fornisce prove evidenti che sia la nostra dieta che il modo in cui produciamo il cibo possono influenzare il livello di esposizione ai pesticidi chimici sintetici e, in definitiva, la nostra salute», aggiunge Chris Seal, professore della Newcastle University. L'assunzione di contaminanti ambientali da parte di una persona proviene anche da altre cose come le creme per la pelle e persino l'aria che respiriamo. Lo studio non ha tenuto conto di questi fattori, sebbene i ricercatori affermino che è improbabile che abbia influenzato i risultati. I partecipanti allo studio hanno mangiato cibi britannici "ordinari" per una settimana prima dell'inizio dello studio e hanno dovuto registrare ciò che mangiavano. Il team ha quindi prelevato campioni di urina da ogni persona prima di inviarli in una fattoria a Creta per due settimane. Quando sono arrivati, i ricercatori hanno diviso il gruppo in due gruppi, uno che mangiava cibo coltivato normalmente e l'altro che mangiava prodotti biologici. Hanno prelevato di nuovo campioni di urina prima di tornare nel Regno Unito e hanno seguito la loro dieta normale per un'altra settimana. «Vi sono prove crescenti da studi osservazionali che i benefici per la salute derivanti dall'aumento del consumo di frutta, verdura e cereali integrali sono parzialmente diminuiti dalla maggiore esposizione ai pesticidi associata a questi alimenti. Il nostro studio dimostra che il consumo di alimenti biologici consente ai consumatori di passare a una dieta più sana, senza un aumento dell'assunzione di pesticidi», conclude il professor Per Ole Iversen dell'Università di Oslo.

Pentole e aureole. Storie prodigiose di cibo e di santi. Daniela Guaiti su L'Inkiesta l'1 Novembre 2021. Da Ambrogio a Francesco, da Colombano a Domenico sono moltissime le figure venerate dalla Chiesa che hanno compiuto miracoli legati agli alimenti che sono stati poi tramandati attraverso i secoli grazie alla cultura popolare e alla devozione. Sud-ovest di Milano, nel pieno della Pianura Padana, a una decina di chilometri dal Ticino, 32.600 abitanti: è Abbiategrasso. Bella cittadina, nome curioso. Gli storici lo fanno risalire alla toponomastica celtica. Gli studiosi di etimologia propendono per una radice latina. La leggenda dà un’altra spiegazione. Più o meno intorno al 380, Ambrogio, vescovo eletto dal popolo (era un laico, funzionario imperiale) viene chiamato a Roma dal Papa. Pare che il problema fosse una questione di tasse che i milanesi tardavano a versare. Accolto nel palazzo del Pontefice, il vescovo viene invitato ad attendere e fatto accomodare, si fa per dire, in uno stanzino spoglio, privo anche di un semplice attaccapanni dove appendere il mantello, che il sant’uomo, accaldato, vorrebbe togliersi. Così, senza scomporsi, Ambrogio decide di appendere l’indumento a un raggio di sole che filtra dalla finestra e che si mostra perfettamente adatto alla bisogna. A notare la situazione, a dire poco insolita, è il collaboratore del Papa, che corre a chiamare il Pontefice. A quel punto il problema dei balzelli viene risolto rapidamente, anche perché Ambrogio ha premura. In sua assenza – spiega – i milanesi si stanno perdendo il Carnevale: in ansia per il responso sulle tasse, hanno sospeso ogni festeggiamento e rischiano di infilarsi direttamente in Quaresima senza aver goduto di quella breve vigilia di allegria. E il vescovo vuole raggiungerli al più presto. Il Papa si mostra comprensivo e concede ad Ambrogio e ai suoi fedeli una deroga: a Milano il Carnevale non terminerà al giovedì, come nel resto del mondo cristiano, ma proseguirà fino al sabato. Una bella notizia, che il vescovo porta di persona ai milanesi che gli sono venuti incontro sulla strada per Pavia: «Habeatis grassum», dice ai concittadini festanti, che potranno mangiare carne fino al sabato. Così, nella località dell’incontro sorgerà un borgo con quel nome. Leggenda, ovviamente. Ma sta di fatto che ancora oggi il Carnevale Ambrosiano arriva al suo culmine quando il resto della Cristianità è già in Quaresima e, forse per un mantello miracolosamente appeso a un raggio di sole, i milanesi possono festeggiare con carne e dolciumi quando gli altri sono già alle prese con il magro quaresimale. Quello tra i Santi e il cibo è un rapporto stretto, che continua nei secoli: e se il miracolo di Sant’Ambrogio è stata la chiave per garantire carne e festeggiamenti ai milanesi, altri santi hanno operato miracoli direttamente… nel piatto.

Il potere della fede tra colombe e polli

Bisogna spostarsi ancora di poco da Milano, e avere a che fare con un santo, una regina e qualche piccione ben arrostito per spiegare la nascita della colomba come dolce simbolo della Pasqua. E bisogna spostarsi nei giorni precedenti la Pasqua del 612. Proprio allora San Colombano, nel suo lungo peregrinare per strade e città d’Europa, approdò in terra longobarda. L’abate irlandese, accompagnato dai suoi monaci e già circonfuso da un’aura di santità, venne ricevuto con tutti gli onori alla corte della regina Teodolinda che gli offrì un succulento pranzo.

Il menu, come prevedevano le abitudini del tempo, proponeva grande abbondanza di selvaggina arrostita. Si era però in periodo di Quaresima e la faccenda rappresentava un problema non da poco per i religiosi. Così Colombano e i suoi spiegarono alla regina che, pur allettati dalle appetitose portate, non potevano proprio mangiare quelle carni. Il rifiuto non piacque a Teodolinda, che ci rimase decisamente male. Il sant’uomo lo capì e propose una mediazione diplomatica: i monaci – disse – avrebbero mangiato la selvaggina soltanto dopo la sua benedizione. E così fu: Colombano alzò la destra nel segno della Croce e le carni si trasformarono miracolosamente in bianche colombe di pane, candide come le vesti dell’abate e dei suoi confratelli. Un prodigio evidentemente miracoloso che sbalordì la sovrana e le confermò le doti di santità del suo ospite, tanto da spingerla, in segno di devozione, a donare a Colombano il territorio di Bobbio, dove sorse l’abbazia che ancora oggi porta il nome del santo irlandese. Ma non solo. Da quel giorno prese il via la tradizione di festeggiare la Pasqua offrendo colombe di pane, che presto diventarono il dolce simbolo della giornata più importante della fede cristiana. Un effetto simile ebbe la benedizione di San Nicola da Tolentino, che trasformò due quaglie ben cucinate in due svolazzanti e vivissimi uccellini: questo perché il frate non voleva contravvenire la sua strettissima astinenza, nemmeno dietro ordine del suo superiore che, preoccupato per la salute del sant’uomo, desiderava che mangiasse un po’ di carne. Per assistere a un’altra resurrezione di volatile occorre restare in età medievale, spostandosi però fuori dall’Italia, lungo il Camino de Santiago. Molti pellegrini diretti in Galizia facevano tappa nel borgo di Santo Domingo de la Calzada, nella Rioja. La figlia di un oste della piccola cittadina si innamorò di un giovane pellegrino tedesco, Hugonel; non ricambiata, la fanciulla pensò di vendicarsi, nascondendo nel bagaglio di lui un vaso d’argento, per denunciarne il furto alla partenza del ragazzo. Questo, secondo le leggi dell’epoca, venne condannato a morte e impiccato. Giunsero i genitori per vedere la salma di Hugonel, ma quando giunsero sul luogo dell’esecuzione udirono la voce del figlio annunciare loro un miracolo: Santo Domingo aveva salvato la sua vita innocente. I due si recarono allora a casa del governatore della città e gli riferirono l’accaduto, ma la risposta che ottennero fu a dir poco ironica; il “sindaco”, seduto a cenare, riteneva che il loro figlio fosse ancora vivo esattamente quanto il gallo e la gallina che lui aveva nel piatto. Ed ecco, in quello stesso istante, i due polli balzarono fuori del piatto e presero a cantare. Ancora oggi nella cattedrale di Santo Domingo, in ricordo del prodigio, un piccolo pollaio in legno ospita un gallo e una gallina bianchi, vivi, che rompono l’austero silenzio della chiesa con le loro squillanti voci. E la città si presenta al visitatore con il motto Santo Domingo de la Calzada donde cantó la gallina después de asada, dove cantò la gallina già arrostita.

L’impossibile in pentola

La devozione popolare è pervasa di racconti miracolosi riguardanti il cibo. Ne è un esempio su tutti il miracolo delle noci, che Fra Galdino racconta nei “Promessi sposi”: «Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. “Che fate voi a quella povera pianta?” domandò il padre Macario. “Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna”. “Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie”.  Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettassero di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada: “Padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento”. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce». Il racconto del Manzoni dice l’importanza del cibo, anche del più umile, in un mondo in cui non c’era certo abbondanza di prelibatezze da mangiare. E neanche da bere: celebre in questo senso è la storia di Giovanni, primo abate del convento di San Giovanni Evangelista di Parma. Siamo intorno all’anno Mille e il frate, avendo ricevuto in regalo un piccolo orcio di vino, vuole dividerlo con i suoi confratelli: in sedici ne bevvero, ma il fiasco rimase sempre pieno. Cibo e santità si incontrano spesso nella cornice della natura, quasi a sottolineare come solo il rispetto per il creato sia la chiave per un’alimentazione sostenibile: San Biagio restituì a una donna, sano e salvo, il maiale che un lupo le aveva rubato, e quella, riconoscente, gliene offrì delle porzioni ben cucinate; San Francesco ributtò subito in acqua una tinca appena pescata che un pescatore gli aveva regalato: questa per la gioia di non essere stata mangiata, iniziò a seguirlo mentre il frate cantava le lodi del Signore, e se ne andò solo quando Francesco l’ebbe congedata; San vito fu nutrito da un’aquila che gli portava da mangiare durante un viaggio in mare. Infine San Gerardo: il santo monzese, in una gelida sera di gennaio, volle andare in Duomo per raccogliersi in preghiera come sua abitudine. Il sagrestano aveva però già sprangato il portone, e non volle aprire nemmeno dietro le insistenze del sant’uomo: «Sarei disposto ad aprirti di notte», disse, «solo se mi portassi un cesto di ciliegie». Cosa ovviamente impossibile in pieno inverno. Ma non per Gerardo, che il giorno dopo si presentò con abbondanza di dolcissimi frutti rossi per i custodi della cattedrale. Perché i santi sanno portare il profumo della primavera anche quando intorno ci sono solo nebbia e neve.

Jessica D'Ercole per “La Verità” il 24 ottobre 2021. Un ovetto di cioccolato negli Stati Uniti può costare 2.500 dollari di multa. Ad essere banditi non sono gli zuccheri bensì la sorpresina nascosta all'interno. Dal 1938, anno in cui è stato messo al bando, la Food&Drug Administration teme che i bambini possano soffocare ingerendola. Dieci anni fa, a farne le spese furono due uomini di Seattle che di questa legge non avevano memoria e, tornando da un viaggio a Vancouver, Canada, riportarono una mezza dozzina di ovetti per i loro figlioli. Fermati al confine con gli Usa, i due, dopo essere stati trattenuti per due ore, temevano di dover pagare l'ammenda di 15.000 dollari ma alla fine gli agenti di frontiera si sono limitati a sequestrare il bottino e lasciarli con un avvertimento. Secondo il Vancouver Sun, solo alla frontiera con il Canada sono 60.000 gli ovetti di cioccolata che vengono sequestrati ogni anno. In prigione ci si può finire anche per una gomma americana. Succede in Thailandia e a Singapore. Sputare un chewing gum per le strade di Bangkok costa 400 dollari di multa e chi si rifiuta di pagarla finisce direttamente in galera. A Singapore, stufo di dover scrostare il dolciume appiccicoso dalle proprie scarpe e dalle porte della metropolitana, il ministro anziano Lee Kwan Yew, l'uomo che trasformò il piccolo porto in uno degli hub commerciali più ricchi al mondo, lo ha letteralmente messo al bando nel 1992. A chi riteneva la norma ingiusta rispondeva: «Se non riesci a pensare perché non puoi masticare, prova a mangiare una banana». Ma guai a buttare la buccia per strada. Le banane sono il cibo più consumato negli Stati Uniti. Lo sono da quando l'industrializzazione ne ha permesso l'importazione. Già alla fine dell'Ottocento questo frutto ipernutritivo veniva consumato in abbondanza e, ben presto, in un'epoca in cui lo smaltimento dell'immondizia si riduceva al semplice abbandono sulla pubblica via, le bucce di banana divennero uno dei rifiuti più comuni nelle strade di New York e una delle maggiori cause di incidenti per quelli sfortunati che sbadatamente ci mettevano il piede sopra. Stefano Mancuso, nel suo La pianta del mondo, ci fa sapere che inizialmente la pulizia della città fu affidata a greggi di maiali ma, siccome questi si riproducevano in strada senza curarsi della presenza di giovani e ingenue fanciulle, vennero cacciati. Così il 9 febbraio del 1896 a Theodore Roosevelt, al tempo capo della polizia di New York, per rimediare ai continui e rovinosi scivoloni dei suoi concittadini sulle bucce di banana, non restò che emanare un'ordinanza per vietare ai consumatori di gettare per strada le bucce del frutto esotico. Pena 10 dollari di multa. Ma, nei casi più gravi, la norma prevedeva anche l'imprigionamento. Per quanto possa sembrare assurdo finire dietro le sbarre per una buccia di banana o una gomma da masticare, va detto che se ci fosse stato un po' di senso civico queste leggi, probabilmente, non avrebbero mai visto la luce. Al contrario di altre che restano un mistero. Ad esempio a Rio Claro, un comune del Brasile nello Stato di San Paolo, è vietato mangiare cocomeri dal 1894. Oggi, fortunatamente per chi ama affondare i denti in una succosa fetta di anguria la legge pur essendo in vigore non viene più applicata. Tuttavia le credenze locali sconsigliano questo frutto: porterebbe febbre gialla e tifo. Anche in Nigeria la superstizione è legge, tant' è che è vietato bere anche solo una tazza di latte di cocco. Pare che renda le persone meno intelligenti. Non è chiaro neanche perché a Columbus, Ohio, i negozi non possano vendere corn flakes la domenica, né perché, sempre nel giorno del Signore, a Saint Cloud in Minnesota sia vietato ingurgitare hamburger o, ancora, perché a Philadelphia esista una norma che impedisca ai cittadini di gironzolare con un bretzel in borsa. In confronto la legge dell'Alabama che vieta di infilarsi il gelato nelle tasche di pantaloni appare decisamente più intelligente, soprattutto se paragonata a quella di Carmel, in California, che il gelato lo vietava in strada. Ci volle l'elezione di Clint Eastwood a sindaco nel 1987 per abrogare la norma. Ma forse la legge più strana di tutte è quella dell'Alaska che proibisce di mangiare anguille in pubblico a meno che non si urli: «Attenzione, un idiota sta mangiando anguille». Il galateo è caro al New Jersey, dov' è vietato far rumore mentre si mangia una zuppa in pubblico, ma a Gainesville, in Florida, che nessuno si azzardi a mangiare il pollo fritto con le posate. Nel 1961, il Consiglio comunale di questa cittadina di 130.000 anime approvò un disegno di legge che imponeva la prigione a chiunque fosse sorpreso alle prese con il pollo fritto armato di coltello e forchetta. Secondo le autorità questa prelibatezza è sacra e va degustata rigorosamente con le mani. Lo sa bene Ginny Dietrick, una signora che nel 2019, per il suo novantunesimo compleanno, voleva regalarsi bel un piatto di pollo fritto, ma che è stata quasi arrestata per aver usato una forchetta. Pare che sia stato il sindaco ad averla graziata. In Kansas, se si vuole bere del vino meglio avere un calice adatto. Versarlo in una tazza è illegale. In Georgia, un picnic tra le vigne può trasformare allegri e spensierati commensali in veri e propri fuori legge. A Chicago è vietato mangiare in ristoranti che stanno andando a fuoco e un'altra ordinanza della stessa città vieta di pescare nel lago Michigan in pigiama. Il perché non si sa. A proposito di pesci, il Minnesota proibisce agli uomini di avere rapporti sessuali con pesci vivi. Divieto che però non riguarderebbe le donne. Ad Alessandria, in Mississippi, è invece vietato agli uomini di fare l'amore con la propria moglie se hanno l'alito che odora di aglio, cipolle o sardine. In caso contrario la moglie avrebbe tutte le carte in regola per ottenere la separazione. Fino a qualche tempo fa, in Turchia, la causa di divorzio poteva essere un semplice caffè. La legge permetteva a una moglie di lasciare il marito se questo non manteneva piena l'ibrik, la moka turca. Se mozzarelle, minestre, torte salate, pasticci di patate, pizza, dolci e caffè sono i cibi principali del cuonzolo napoletano, ovvero del cibo che amici e parenti portano alla famiglia del caro estinto, in Massachusetts chi è in lutto non può mangiare per legge più di tre tramezzini. Ma non è l'unica strana norma di questo Stato, dov' è illegale aggiungere pomodori in una zuppa di vongole o mangiare noccioline in chiesa.  Anche a New York le noccioline sono vietate ma solo ai concerti. Nel South Dakota ci si può addormentare praticamente ovunque senza vergogna ma guai a farlo in un caseificio, lì si rischia una multa. Anche il Wisconsin prende sul serio il suo formaggio. La legge statale richiede che quello etichettato con il «Premium Grade AA» sia «fine, molto gradevole e privo di sapori e odori indesiderati».  Inoltre per preservare il suo burro lo Stato ha varato una legge secondo cui in nessuna istituzione statale - che si tratti di scuole, prigioni o ospedali - può essere servita la margarina. I latticini sono fondamentali pure nello Utah, ma non tutti gli abitanti dovevano pensarla così perché lo Stato ha dovuto varare una legge che vieta di discriminare «gli acquirenti di latte, panna o grasso di burro». Il Connecticut invece non scherza sui cetriolini sottaceto. Se non rimbalza il cetriolino non può essere chiamato tale. Non esiste una vera e propria legge a sancirlo ma per essere multati bastano alcuni statuti e regolamenti. A farne le spese qualche tempo fa un pover' uomo arrestato e multato di 500 dollari per aver impacchettato sottaceti che non rimbalzavano.

Da ilmessaggero.it il 23 ottobre 2021. Avere lo stomaco vuoto è pericoloso, perché si rischia di ingerire qualsiasi cosa capiti a tiro. E non è una grande idea. Il nostro organismo, infatti, potrebbe reagire in modo spiacevole a determinati alimenti provocando acidità, infiammazione, reflusso e molto altro. Vediamo allora quali cibi è meglio non assumere in questo caso. Il caffè a stomaco vuoto è un'abitudine poco sana: la caffeina può danneggiare il rivestimento dello stomaco causando indigestione e bruciore. Meglio evitare anche i cibi e le bevande zuccherate. L'alcol e i chewing-gum possono infiammare lo stomaco. Dovremmo stare alla larga anche da banane, cibi speziati e latte.

Chiara Amati per corriere.it il 4 ottobre 2021. «Esistono cibi straordinari che, mangiati regolarmente, contribuiscono a potenziare il sistema immunitario. Questo non solo per i nutrienti che contengono, ma perché sono capaci di interagire con la vastità dei batteri che popolano il nostro microbiota e con quel secondo cervello che è l’intestino». In che modo questi cibi straordinari concorrano a rafforzare l’organismo lo spiega Enzo Spisni, docente all’Università di Bologna e direttore del laboratorio di Fisiologia traslazionale e nutrizione. Nel suo nuovo libro in uscita oggi – I magnifici 20 per le tue difese (quarto volume della collana Sonzogno “Scienza per la vita”, ideata e diretta da Eliana Liotta) –, Spisni con un linguaggio semplice e sempre efficace ci porta alla scoperta di una disciplina, l’immunonutrizione, che tratta il rapporto tra ciò che mangiamo e le nostre difese immunitarie. Noi l’abbiamo intervistato. Ecco che cosa ci ha spiegato.

Professore, lei parla di immunonutrizione. Ma che cos’è esattamente?

«Prendo a prestito un episodio della mia infanzia, quando mia mamma mi faceva bere tante spremute di arancia per evitare che incappassi in un raffreddore. Aveva ragione? Sì e a darne conferma è la scienza. Alcune ricerche recenti riportano che l’arancia è uno di quei cibi che fanno scudo al nostro organismo.  A dimostrazione del fatto che, oggi, il rapporto tra alimentazione e sistema immunitario è oggetto di indagini così ampie da determinare la nascita di una disciplina dedicata: l’immunonutrizione, appunto. In pratica, esistono alimenti che sembrano costruiti apposta dalla natura e dalla sapienza umana per dare man forte alle sentinelle preposte a difenderci dagli attacchi di agenti patogeni. Io ne ho individuati venti, ben sapendo che ve ne sono altri, ma questi venti sono in qualche modo esemplari. Sono cioè l’esempio di come pezzetti dei nostri menu possano interagire con l’organismo e renderlo meno attaccabile. In due parole: più forte. Poi, l’orientamento a tavola sarà vario, personale e più ampio della superventina, che va servita su un vassoio alimentare benefico perché possa davvero esercitare i suoi poteri. È un po’ come quando una persona cerca di spingere un’auto in panne su una strada in leggera salita. Se tre o quattro persone la aiutano, la macchina avanza con più facilità. Ecco, allo stesso modo a tavola l’unione fa la forza». 

Dato il potere di questi superfood, verrebbe da chiedersi se funzionino anche contro il Covid o altre patologie...

«La risposta è no. Assolutamente no. Categoricamente no — rispende perentorio Spisni —. L’alimentazione corretta è un aiuto, ma non basta a prevenire il contagio. Ciò che riesce a garantire in potenza è casomai una maggiore abilità nella battaglia contro batteri o virus. Sarò ancora più esplicito: se ci nutriamo bene, combattiamo meglio. Questione di prevenzione. D’altra parte, se scarseggiano alcune vitamine e certe sostanze, l’esercito interno si indebolisce e noi con lui. “Fa’ che il cibo sia la tua medicina”, diceva Ippocrate. Se una persona aspetta di ammalarsi per cambiare il proprio modo di mangiare, significa che non ha sfruttato appieno le potenzialità della nutrizione. Tante volte mi è capitato di sentir dire: “Io mangio come mi pare, tanto ammalarsi è solo una questione di sfortuna”. No! In ambito scientifico la fortuna e la sfortuna non esistono o, perlomeno, vengono dopo il calcolo delle probabilità. Mangiare in modo scorretto aumenta di molto le probabilità di ammalarsi, di tutte le patologie. Ai miei studenti spiego sempre che la corretta nutrizione, utilizzata in chiave preventiva, è portentosa. In presenza di una patologia, invece, ha certamente effetti positivi, che possono sommarsi a quelli della terapia farmacologica, ma che non sono altrettanto forti. Resta comunque un punto di partenza irrinunciabile e vantaggioso».

«Dai primi mille giorni di vita — avverte Enzo Spisni —. Potrei semplificare dicendo che tra i nutrienti che assimiliamo in quel periodo fondamentale della nostra esistenza, che dall’allattamento ci porta pian piano al divezzamento, ci sono squadre e squadre di muratori impegnate a costruire il sistema immunitario. A queste squadre, nel tempo, se ne aggiungono altre. Una, per esempio, è costituita dai batteri cosiddetti buoni, quelli preposti a colonizzare l’intestino. La compagine dei nutrienti resta comunque la più importante, perché al suo interno ha il geometra responsabile dell’intero cantiere. Finiti i lavori, il sistema immunitario è pronto e ben funzionante. Ma, come qualsiasi costruzione, necessita poi di una manutenzione costante. E i nutrienti, ancora una volta, fanno parte della principale squadra di manutentori che impedisce al sistema immunitario di degenerare, attraverso un processo che scientificamente ha il nome di inflammaging, dalla crasi dei termini inglesi inflammation e aging, infiammazione e invecchiamento. Da qui si capisce bene come a tutte le età la nutrizione abbia un ruolo fondamentale nel corretto funzionamento del nostro esercito difensivo. No, non esistono diete miracolose, ma alimenti che fanno (stare) bene, quelli sì». 

Siamo finalmente arrivati agli alimenti che fanno (stare) bene. Quali sono e che caratteristiche hanno lo spiega bene il professor Spisni.

«Per sostenere il sistema immunitario dovremmo privilegiare frutta e verdura, se possibile a chilometro zero o comunque biologiche. E di stagione. Un vegetale coltivato in un periodo dell’anno diverso rispetto alla sua naturale stagionalità può, infatti, subire in media dal doppio al triplo dei trattamenti chimici. Meglio evitare. Fondamentale inoltre è variare a ogni pasto. Questo in teoria. Poi, è vero, non possiamo fare la spesa tutti i giorni. Non è pratico. Ricordiamo però che i magnifici venti hanno tutti gli immunonutrienti necessari al nostro esercito difensivo. Motivo per cui dovrebbero essere molto presenti sulle nostre tavole. Tornando ai vegetali, con sei nomination la frutta fresca fa la parte del leone. Se ci pensa è una controtendenza perché, a causa della sua quota zuccherina, viene spesso tagliata dalle diete. Io ne stresso l’importanza perché è un alimento che ci portiamo dietro da quando eravamo cacciatori e raccoglitori. Non può che fare bene. Le dirò di più: ho sempre trovato strano che avesse un ruolo marginale nelle moderne e insensate paleodiete. Quelle che, soprattutto con la bella stagione, spopolano in rete e propongono carni d’ogni tipo in grande quantità. Ma perché? Torniamo un attimo alla notte dei tempi. Se un uomo preistorico incappava in un albero carico di prugne o ciliegie selvatiche, di certo ne faceva una scorpacciata. Ed è provato che anche le scimmie antropomorfe da cui discendiamo avevano una dieta estremamente ricca di frutta. Per cui via libera ad arance, banane (si coltivano anche in Italia), frutti di bosco, melagrana, uva nera e limone. Proprio così, limone, un altro agrume. Vorrei soffermarmi su questa primizia non soltanto perché ricco di vitamina C, vitamina A, folati, magnesio e potassio, sebbene in misura minore rispetto alle cugine dalla buccia arancione. Ma anche perché contiene acido citrico, nella polpa, e limonene, nella buccia. Noto antimicrobico con un effetto interessante, l’acido citrico è in grado di colpire i batteri che si proteggono all’interno di strutture chiamate biofilm, difficili da penetrare persino per gli antibiotici. Il limonene, invece, è una molecola che si assimila solo in parte: il resto rimane nell’intestino, dove arriva a contatto con il microbiota e svolge azioni che contrastano l’infiammazione cronica legata alla sindrome metabolica. Un motivo in più per avere sempre un limone a portata di pasto. Spaziando e attingendo ai prodotti dell’orto, poi, irrinunciabili sono carote, cicorie, cipolle e spinaci. Avena e soia in rappresentanza di cereali e legumi. Noci, olio extravergine di oliva e pesce azzurro per soddisfare il fabbisogno di grassi buoni. Infine, nell’ottica di recuperare spezie, erbe aromatiche e fermentazioni, funzionali al sistema immunitario sono il curry, il tè verde ma anche il kefir. Mentre per accontentare la gola, ci sta!, ottimi il cioccolato fondente e il miele. Tutti questi alimenti, assunti con regolarità e stando attenti a variare, assicurano al nostro organismo la razione K di vitamine e minerali. Per la precisione vitamina D, C, B12, B9, B6, A ed E. Sul fronte minerali: ferro, zinco, rame, selenio e magnesio. Come mangiarli, se crudi o cotti, con semi e buccia o senza, a foglie o in germogli e via discorrendo, lo spiego con dovizia di particolari nel libro. Qui mi preme spendere due parole sull’olio evo e sul miele. Di entrambi ne esistono tantissimi tipi. Il primo per essere buono deve pizzicare. In merito al secondo, è bene sapere che quanto più cristallizza, tanto più è vivo. E quindi di qualità».

Per contro, esistono alimenti che minano il nostro sistema immunitario?

«Sì. Partiamo dal presupposto che il nostro intestino diventa un luogo di pacifica convivenza quando tutti i suoi minuscoli abitanti vengono nutriti con molta fibra. E cioè con legumi, frutta, verdure crude e cotte. Gli alimenti di origine animale? Che siano carni o latticini, poco importa. Quel che conta è che se ne consumi in minima parte. Viviamo in Italia, la culla della dieta mediterranea con la sua meravigliosa biodiversità. Eppure, con una certa disinvoltura, ci ostiniamo a portare in tavola troppe proteine di origine animale. Cerchiamo di ridimensionarle per privilegiare, a rotazione, la super ventina. Anche perché il microbiota, nel suo complesso, è quasi vegano. Motivo per cui un eccesso di cibi di origine animale rispetto a quelli vegetali, come avviene nelle diete occidentali, lo obbliga a un lavoro estenuante. Lo costringe a incrementare cioè quello che viene definito metabolismo putrefattivo, necessario per smaltire carni e affini. La conseguenza del superlavoro è la formazione di composti tossici all’interno del tubo digerente, associata a un aumento delle popolazioni di batteri che, se in numero incontrollato, possiamo definire cattivi. Quando il sistema immunitario si accorge di un eccesso di sostanze tossiche e della crescita esagerata di alcune popolazioni batteriche, la sua reazione è di tipo infiammatorio. Non si tratta di un’infiammazione acuta, con febbre alta, come quando siamo in preda all’influenza, ma di un’infiammazione leggera di cui nemmeno ci rendiamo conto tanto che viene definita silente o di basso grado, con la produzione di citochine e di anticorpi diretti contro i batteri intestinali divenuti numerosi».

Quali conseguenze ha l’attivazione del sistema immunitario?

«La prima, la più intuitiva, è che il nostro esercito, distratto da un problema interno, non si accorga di eventuali attacchi esterni. Oppure se ne accorga in ritardo. Nel qual caso le infezioni hanno campo libero. La seconda è che si alterano, seppure lievemente, le relazioni con il sistema nervoso enterico e con quello endocrino. Nel qual caso finiamo col sentirci stanchi pur avendo avuto giornate tranquille. Da ultimo, se l’infiammazione cronica di basso grado dovesse continuare, andrebbe ad amplificare il fenomeno di inflammaging, come abbiamo visto quel processo degenerativo che porta a un invecchiamento precoce del nostro organismo, il che implica un possibile arrivo prematuro delle patologie solitamente collegate all’età avanzata. Un esempio concreto e vicino nel tempo. Durante la prima ondata epidemica di Covid 19 si è notato che le persone obese o con problematiche legate al metabolismo, come il diabete, l’ipertensione o la sindrome metabolica, cioè quelle con un’infiammazione cronica di basso grado, correvano un rischio molto più alto delle altre di finire in terapia intensiva e perfino morire. Ecco, proprio questo rappresenta un possibile legame tra la nutrizione e il Covid 19».

Tornando alla tavola, cosa dovremmo mangiare ogni giorno?

«Per restare quanto più possibile in salute, a colazione potremmo concederci una bevanda di soia o di avena, secondo i gusti. In questo modo cominciamo la giornata diminuendo la quota delle proteine animali. In abbinata ci mettiamo 4 o 5 noci: contengono fibra e hanno un indice glicemico basso; poi un tocchetto di cioccolato fondente all’80 per cento, un po’ di pane integrale e della marmellata di mirtilli biologica. Magari fatta in casa, sarebbe perfetto. In alternativa anche del miele. A pranzo quel che conta è mantenere la quota proteica e di fibre. Per cui sì a un buon mix di verdure di stagione: carote, cicoria, spinaci crudi o semicotti... E sì a della pasta integrale — così soddisfiamo il fabbisogno di carboidrati — con pesce o legumi, sempre variando. A cena l’obiettivo è quello di non caricare. Concediamoci un pezzetto di pane di farro, o di un qualsivoglia cereale. Poi di nuovo le verdure, cotte o crude, e una porzione di carne bianca. La frutta, in quantità, la useremo per contrastare i morsi della fame, a metà mattina o nel pomeriggio. Se si preferisse mangiarla vicino ai pasti, o anche dopo cena, nessun problema, purché se ne prenda: a differenza del dolce classico, tutta la frutta, con la sola eccezione dell’anguria, ha un indice glicemico medio o basso». 

Spisni non ha dubbi: «Certo, a patto che la si segua senza libere interpretazioni e come era in origine. Il problema non è la dieta in sé, ma siamo noi che pensiamo di seguirla correttamente quando non è così. Anzi, negli anni, ce ne siamo persino discostati. In modo inconsapevole.  Mangiamo pane, pasta e pizza incuranti del fatto che questi alimenti, oggi, nascono dalla raffinazione di farine che, proprio per questi processi, non possiedono più quei nutrimenti fondamentali per il sistema immunitario. In pratica, mangiamo anche tanto, ma senza nutrirci adeguatamente. No, questa non è più dieta mediterranea e non è immunonutrizione». 

Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2021. Dopo anni di notizie negative e bocciature inappellabili, per latte e zucchero è arrivato il momento della riabilitazione. Possiamo farli scendere dal banco degli imputati dov' erano finiti sotto la pressione di mode salutiste che ciclicamente pretendono di decretare la messa all'indice di questo o di quell'alimento. Se la «riabilitazione» del burro ha meritato perfino la copertina della prestigiosa rivista Time, per zucchero e latte - almeno per il momento - non si è scomodato quasi nessuno. Ma il risultato non cambia. Ma andiamo con ordine. Dello zucchero si è occupata l'Efsa, l'Autorità europea per la sicurezza alimentare che nella bozza di parere preliminare circolata in settimana dichiara l'impossibilità di fissare una soglia di rischio. In pratica non sarebbe possibile stabilire su base scientifica un livello massimo di assunzione tollerabile di zuccheri, sopra la quale ci sono effetti avversi per la salute. «Dopo aver passato al vaglio oltre 30mila pubblicazioni- è la conclusione degli scienziati che lavorano per l'Efsa - i nostri esperti scientifici sono giunti provvisoriamente alla conclusione che non è possibile fissare tale soglia. Nonostante ciò, il parere conferma, con relativi gradi di certezza, i molteplici nessi esistenti tra l'assunzione di diverse categorie di zuccheri e il rischio di sviluppare malattie metaboliche croniche e carie dentarie». Esulta il presidente di Federalimentare: «La bozza di parere preliminare dell'Efsa sulla questione degli zuccheri», dice Ivano Vacondio, «è l'ennesima conferma per il nostro modello alimentare, i nostri prodotti e la dieta mediterranea. E comunque l'industria alimentare ha riformulato oltre 4mila prodotti, riducendo anche la quantità di zucchero al loro interno». Sempre in settimana sono arrivati i risultati di uno studio che sfata un altro mito: la pericolosità del latte per l'aumento del colesterolo nell'organismo di chi lo beve. Consumare regolarmente l'alimento bianco, secondo uno studio su due milioni di persone, pubblicato dall'International Journal of Obesity dai ricercatori delle università di Reading, nel Regno Unito, Australia del Sud e Auckland, in Nuova Zelanda, non fa aumentare il colesterolo. Semmai lo fa abbassare, anche se mediamente la massa grassa di queste persone è leggermente superiore a quella di chi non consuma latte. Fra l'altro, i consumatori abituali di latte avrebbero un rischio cardiovascolare inferiore del 14% al resto della popolazione. Tuttavia, gli studi proseguono per scoprire eventuali altri legami con queste patologie che tuttavia, allo stato, non sono emersi. Sorte simile era toccata alla carne rossa, accusata di provocare i tumori, ma successivamente scagionata non senza aver provocato allarme fra i consumatori.

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" l'1 giugno 2021. Non siamo sani. A dirselo da soli, in un documento interno che è finito sul sito del Financial Times, è il colosso svizzero Nestlé: solo il 37 per cento degli alimenti venduti dal marchio svizzero ottengono il voto minimo per essere giudicato buono per la salute in base a un sistema di notazione australiano, ovvero 3,5 su 5. In una presentazione realizzata per i quadri del gruppo all'inizio dell'anno e citata dal quotidiano economico, Nestlé riconosce che «oltre il 60 per cento delle bevande e prodotti alimentari venduti con marchi di grande distribuzione (Nescafé, Nestea, Maggi, Buitoni) non possono essere definiti sani secondo criteri attestati». In particolare, non raggiungono la sufficienza il 70 per cento (in volume d' affari) dei prodotti alimentari e il 96 per cento delle bevande aromatizzate (con l'eccezione del caffè) e il 99 per cento dei gelati e dolciumi. Per fortuna, alzano la media in pagella l'acqua e il latte.  In compenso lo studio commissionato da Nestlè non riguarda i prodotti della gamma per l'infanzia, né i caffè, o gli alimenti per animali da compagnia. Il gruppo, numero uno mondiale nell' alimentare, con base in Svizzera, ha lanciato cinque anni fa una vasta riorganizzazione delle sue attività, mettendo in particolare l'accento sulle alternative vegetariane alla carne e al latte. In base al documento citato dal Financial Times, è il reparto gelati e dolciumi (che include, per esempio il KitKat) a ricevere i voti più bassi. «Abbiamo considerevolmente migliorato i nostri prodotti si legge nel documento ma il nostro portafoglio di prodotti continua a presentare prestazioni troppo base rispetto a parametri esterni, in un contesto in cui la pressione delle norme e le richieste dei consumatori aumentano». Il gruppo ha lanciato da circa quindici anni una strategia Nutrizione, salute e benessere e dal 2019 ha adottato il sistema di etichettatura Nutriscore per identificare i valori nutrizionali di un prodotto su una scala da A a E. Alcuni prodotti sono stati migliorati: i cereali Chocapic sono arrivati a ottenere una B grazie «a oltre 15 anni di lavoro per migliorare la ricetta, ma molte bevande gasate e aromatizzate restano inchiodate a una catastrofica E. Una portavoce della Nestlè ha confermato ieri alla France Presse che «il gruppo sta lavorando a un progetto che riguarda l' intero gruppo per migliorare la sua strategia, che è stata pioniera in termini di nutrizione e salute». Secondo il Financial Times, Nestlé avrebbe in programma di annunciare la sua nuova strategia entro la fine di quest' anno. Particolarmente doloroso per il gruppo è il voto molto basso (il minimo sulla scala Nustriscore, E) ottenuto da una San Pellegrino aromatizzata all' arancia, bocciata perché contiene oltre 7,1 grammi di zucchero ogni 100 millilitri. Con un lodevole senso di autocritica, il documento Nestlé si chiede: «Può un marchio che vuole mettere in avanti la salute, prendere una E?». 

Firma l'appello al "Nutriscore": lo schiaffo di Ricciardi all'Italia. Il consulente del ministro Speranza è tra i firmatari di un appello per l'introduzione in Europa del Nutriscore, il sistema di etichettatura che penalizza i prodotti italiani. Salvini e Meloni attaccano: "Si dimetta". Alessandra Benignetti - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Non è passato neppure un mese da quando il consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza, Walter Ricciardi, evocava un nuovo lockdown generale, scatenando una vera e propria bufera politica. Oggi l’igienista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ci ricasca. A far discutere stavolta, è la sua firma apposta in calce ad un appello siglato da numerosi scienziati europei per promuovere il Nutriscore, e cioè la famigerata "etichetta a semaforo", che finisce per bollare di fatto le eccellenze del nostro agroalimentare come nocive per la salute, mettendo in pericolo un settore che vale 46,1 miliardi di euro soltanto di esportazioni. Non a caso il governo italiano, assieme a quello di altri Paesi, sta conducendo una vera e propria battaglia in Europa contro l’introduzione di questo sistema, promosso in primis da Francia e Germania. Un fatto che, evidentemente, sarà sfuggito al consulente di Speranza, che ha pensato bene di sottoscrivere un documento che va esattamente nella direzione opposta. Il ministro delle Politiche Agricole, Stefano Patuanelli, che dal suo insediamento si è espresso più volte contro il Nutriscore, si è precipitato a chiarire come il "sistema a semaforo" sia "assolutamente inconcepibile, immotivato e ingiustificabile". "Non possiamo permetterci che un sistema di etichettatura che si limita a mettere un bollino su un alimento senza far capire l'importanza di scelte alimentari equilibrate distrugga il sistema alimentare italiano", ha tuonato, promettendo di intervenire "con forza" a Bruxelles nel prossimo consiglio di lunedì. Ma le sue parole non sono servite a fermare le polemiche. Il leader della Lega, Matteo Salvini, è tornato a chiedere un passo indietro del consulente. "Se fosse vero che ha firmato un appello francese in favore del Nutriscore, in opposizione al sistema Nutrinform a cui ha aderito il governo Italiano, - incalza - si dimetta dal suo incarico". A chiedere la "testa" del fedelissimo del ministro è anche Giorgia Meloni, di Fratelli d’Italia, che chiede a Speranza di "rimuovere" Ricciardi, dopo l’endorsement a quello che definisce come "l’ennesimo assalto alle nostre eccellenze agroalimentari”. "Ricordo a Ricciardi che il governo italiano ha aderito al Nutrinform sul quale lui oggi ha pubblicamente espresso perplessità, per questo chiediamo le sue dimissioni", ribadisce anche il capodelegazione dello stesso partito al Parlamento europeo, Carlo Fidanza. "L'Italia – insiste - su un tema così importante deve saper fare sistema". La partita che si sta giocando in queste settimane in Europa è cruciale per un settore che rappresenta il 15 per cento del nostro Pil. Nei Paesi in cui è in vigore, infatti, l’etichetta a semaforo già penalizza i prodotti simbolo della dieta mediterranea, come l’olio extravergine d’oliva, il parmigiano, o gli insaccati, privilegiando prodotti di sintesi contrassegnati con la lettera A "verde". Si tratta di "un sistema fuorviante, discriminatorio ed incompleto che finisce per escludere paradossalmente dalla dieta alimenti sani e naturali che da secoli sono presenti sulle tavole per favorire prodotti artificiali di cui in alcuni casi non è nota neanche la ricetta", sottolinea Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, una di quelle associazioni che da anni si batte con il coltello fra i denti contro l’imposizione di questa linea, che di fatto favorisce le grandi multinazionali a scapito dei piccoli produttori. "L'etichetta nutrizionale a colori – chiarisce ancora Prandini - boccia ingiustamente quasi l'85 per cento in valore del Made in Italy a denominazione di origine, che la stessa Ue dovrebbe invece tutelare e valorizzare soprattutto nel tempo del Covid". "È necessario – sottolinea quindi la Coldiretti - intervenire con urgenza per fermare l'attacco al prodotti alimentari nazionali con il rischio del via libera all'etichetta Nutriscore". "La posizione assunta dal professor Ricciardi rischia di creare una situazione di incertezza che va subito eliminata", attacca anche Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura. "Tutte le opinioni personali sono rispettabili ma la prudenza dovrebbe essere d’obbligo quando si riveste la carica di consigliere del ministro della Salute", è il commento del numero uno dell’associazione, che fa appello al governo affinché dia "continuità alle iniziative politiche e diplomatiche per contrastare la strada al Nutriscore e sostenere il sistema alternativo definito in Italia ai fini di una più corretta informazione dei consumatori". A rassicurare i rappresentanti del settore è lo stesso ministro Patuanelli, che ieri non ha usato messi termini: "La realtà è che le esportazioni italiane di produzioni ad alto valore aggiunto vanno su mercati che fanno gola ad altri". "Vuole essere utilizzato il sistema Nutriscore – ha messo in chiaro - per portare via la capacità del nostro paese di esportare prodotti ad alto valore aggiunto, quindi con mercati molto ricchi, a favore di chi in questo momento non ha accesso a quei mercati". Contro la mossa di Ricciardi si è schierata anche l’ex ministra Teresa Bellanova, che parla di attacchi "sconcertanti" e "accuse rozze" che "rischiano di fare molto male all'intera filiera agroalimentare italiana".

Daniela Natali per "Salute - Corriere della Sera" il 18 aprile 2021. Che lo stress possa modificare il nostro modo di nutrirci, (in peggio, nel segno del più o del meno) non è certo una novità, forse meno ovvio è che la dieta possa contribuire a ridurre (o se è sbagliata ad aumentare) lo stress. Un argomento ora più che mai di attualità dato che parecchi studi ci hanno detto che chi è stato colpito da Covid, (specie se è stato ricoverato in terapia intensiva) o a causa della pandemia ha perso familiari o amici, presenta quei particolari sintomi da stress che caratterizzano il Ptsd, il Post traumatic stress disorder. Una recente ricerca, condotta dalla università canadese di Toronto, pubblicata su Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology , ha approfondito l' argomento mettendo in relazione nutrizione e disturbo da stress post traumatico.

Come spiegare innanzitutto il legame tra cibi e stress?

«Secondo questo studio il cibo può influenzare il nostro stato emotivo in diversi modi - spiega Michela Barichella, responsabile medico dell' Unità Nutrizione Clinica Asst-Pini-CTO di Milano - il primo ha a che fare con lo stress ossidativo, il secondo col microbiota e il legame intestino-cervello».

Che cos' è lo stress ossidativo?

«È un eccesso di radicali liberi. Lo stress causato da cattiva alimentazione è dovuto all' eccesso di grassi, zucchero e sale nella dieta che aumentano il livello di un aminoacido, l' omocisteina, che sappiamo essere legata al rischio cardiovascolare ma anche a danni a livello mitrocondriale (i mitocondri sono le centrali energetiche delle cellule ndr ) che possono causare disfunzioni cerebrali. Se ci sono cibi a rischio ci sono anche quelli protettivi e cioè quelli che contengono acido folico, vitamina B6 e B12. In particolare l' acido folico è contenuto nella verdura, principalmente verdura a foglia verde, ma anche nei legumi e agrumi; la vitamina B6 la troviamo negli alimenti di origine animale ma anche vegetali (come cereali integrali, legumi, semi oleosi), la vitamina B12 soprattutto nei cibi di origine animale».

Che ruolo ha il microbioma intestinale e come agisce il legame intestino-cervello?

«Una flora batterica intestinale in "buona salute" agisce a livello sistemico su tutto l' organismo, cervello compreso, ma anche sulle fibre nervose che arrivano all' intestino, potremmo dire che i batteri "buoni" e "cattivi" dialogano col cervello. E viceversa. Per mantenere in buono stato la nostra flora intestinale serve una dieta varia povera di grassi e ricca di vegetali e prodotti fermentati come lo yogurt».

Nella ricerca canadese si formula qualche dubbio sul ruolo di frutta secca e legumi.

«Quanto alla prima, come per altro correttamente spiegano gli autori dello studio, in Canada quando si parla di consumo di frutta secca non si fa riferimento, come da noi, a una manciatina di circa 3o grammi di noci o mandorle, ma al burro di arachidi, a noccioline salate o candite. Quanto ai legumi, nella ricerca si precisa che entro le tre porzioni settimanali sono protettivi, oltre possono avere un effetto contrario. Anche la fibra in generale, frutta e verdura, quando davvero eccessiva può ostacolare l' assorbimento di micronutrienti come il ferro, lo zinco, il magnesio. Tutto sta però anche ad intendersi a che cosa ci si riferisce quando si parla di porzioni, probabile che in Canada, come negli Usa, siano più abbondati che da noi».

Ci sono altri fattori da tenere in conto per salvaguardarci dallo stress?

«No al sovrappeso che causa un' infiammazione generale e sì all' attività fisica: aiuta a mantenere il peso sotto controllo e aumenta le endorfine, gli ormoni del buon umore. Per quanto riguarda specificatamente il Ptds, e si è visto in diversi studi, oltre a quello canadese, che è meglio evitare cioccolatini, pasticcini, cibi zuccherini in generale, purtroppo i classici alimenti cui si ricorre se si è depressi».

DAGOTRADUZIONE DA studyfinds.org il 21 aprile 2021. Non è un segreto che un'iniezione di caffeina mattutina possa dare a molte persone una rapida spinta. Ora, un nuovo studio ha scoperto che la seconda e la terza tazza potrebbero essere utili per il cervello. Un team di ricercatori in Portogallo affermano che le persone che bevono regolarmente caffè non solo sono più attente, ma registrano anche più attività nei loro cervelli. Secondo l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), un consumo moderato di caffè in genere varia dalle tre alle cinque tazze al giorno. Nel nuovo studio, i ricercatori dell'Università di Minho rivelano che consumare tanta caffeina ogni giorno può rendere più concentrati e anche aiutare la memoria e le capacità di apprendimento. Gli scienziati che hanno esaminato alcune risonanze magnetiche hanno scoperto differenze nella composizione del cervello tra i bevitori regolari di caffè e quelli che non consumano affatto la bevanda. I bevitori di caffè avevano un cervello più "efficiente", con una connettività più rapida nel cervelletto, nel precuneo destro e nell'insulare destro. Questi modelli mostrano che bere regolarmente caffè può dare alle persone un migliore controllo motorio. I partecipanti che consumavano caffeina avevano anche meno probabilità di distrarsi. Gli autori dello studio aggiungono che gli effetti di questo potenziamento cerebrale possono essere immediati. I risultati mostrano che i non bevitori di caffè potrebbero iniziare a vedere benefici per un breve periodo dopo una singola tazza. I ricercatori hanno studiato la connettività e la struttura del cervello in 31 bevitori regolari di caffè e 24 non bevitori di caffè a riposo. Il team ha anche esaminato questi individui mentre eseguivano un compito mentale subito dopo aver consumato una tazza. Studi precedenti hanno rilevato che il mondo beve circa tre miliardi di tazze di caffè ogni giorno. Insieme alla salute del cervello, la bevanda mattutina preferita da molti ha anche collegamenti con un aumento della combustione dei grassi e una migliore salute cardiaca.

DAGONEWS da studyfinds.org il 24 marzo 2021. Una fetta di bacon al giorno potrebbe causare la demenza senile? I ricercatori dell’Università di Leeds affermano che il consumo giornaliero di carni lavorate incrementa considerevolmente il rischio di declino mentale. Lo studio su 50.000 persone nel Regno Unito conclude che il consumo di 25 grammi al giorno di carni lavorate (circa 2 fette di bacon) aumenta il rischio di demenza senile del 44%. Oltre al bacon, questi prodotti includono salsicce, carni in scatola e insaccati. D’altro canto, gli autori rivelano che l’assunzione giornaliera di circa 50 grammi di carni come manzo, suino o vitello possa contribuire ad una riduzione di circa il 19% del rischio di demenza. Studi precedenti avevano scoperto un legame tra il consumo di carni e declino mentale, ma questo studio è il primo ad esaminare il tipo specifico di carne e il legame con la malattia. Utilizzando dati della UK Biobank, un database con informazioni genetiche dettagliate su 493.888 adulti tra i 40 e i 69 anni, i ricercatori hanno osservato che 2.896 individui hanno sviluppato una forma di demenza durante un periodo di 8 anni, anche se hanno notato che i pazienti erano solitamente più anziani, con meno stabilità finanziaria, e meno educati. Inoltre, i soggetti analizzati erano per lo più fumatori, meno attivi fisicamente, consumavano meno frutta e verdura, e possedevano un gene spesso attribuito con la malattia. In generale, le persone con una predisposizione genetica alla demenza presentavano un rischio da 3 a 6 volte di contrarre la malattia. Tuttavia, i ricercatori hanno rivelato che il rischio legato al consumo di carni lavorate rimaneva lo stesso nonostante la predisposizione genetica. “Tutto ciò che possiamo fare per esplorare i potenziali fattori di rischio per la demenza può aiutarci a diminuire il numero di persone affette da questa condizione. Questa analisi è un primo passo per capire se ciò che mangiamo possa influenzare questo rischio” afferma la professoressa Janet Cade.

Covid, la dieta chetogenica può ridurre i rischi di complicanze. Lo studio è stato condotto dai ricercatori dell'IRCCS San Raffaele di Roma guidati da Massimiliano Caprio, responsabile dell'Unità di Endocrinologia cardiovascolare. Maria Girardi - Mar, 09/03/2021 - su Il Giornale.  Il Covid si combatte anche a tavola. È noto ormai da tempo che l'obesità e le sue relative comorbilità sono strettamente legate a una prognosi più grave dell'infezione. Il ruolo di una corretta consulenza nutrizionale, aspetto questo purtroppo poco considerato nell'affrontare l'emergenza, è stato scandagliato da una ricerca condotta da un team di studiosi guidati dal professore Massimiliano Caprio, responsabile dell'Unità di Endocrinologia cardiovascolare dell'IRRCS San Raffaele di Roma e pubblicata sulla rivista "Journal of Translational Medicine". In particolare, gli scienziati hanno preso in considerazione la dieta chetogenica e sono giunti alla conclusione che questa sia in grado di influenzare l'immunità innata e adattiva, determinando effetti benefici sull'infiammazione cronica di basso grado e prevenendo il rischio di una tempesta citochinica, uno degli eventi avversi dell'infezione da Covid. Con il termine "dieta chetogenica" si indica un regime alimentare che genera corpi chetonici, ovvero un residuo metabolico della produzione energetica. La dieta chetogenica, basata sulla riduzione dei carboidrati e sull'aumento di proteine e grassi, costringe l'organismo a produrre in maniera autonoma il glucosio e a utilizzare i grassi come fonte di energia. In presenza di carboidrati, infatti, tutte le cellule usano l'energia da questi fornita per svolgere le loro attività. Se questi vengono ridotti, invece, le cellule si avvalgono dei grassi, a differenza però di quelle nervose che non hanno la capacità di farlo. Di conseguenza si avvia un processo noto come "chetosi" che porta alla formazione di molecole chiamate corpi chetonici utilizzabili dal cervello. Generalmente la chetosi si raggiunge dopo un paio di giorni, con una quantità giornaliera di carboidrati di circa 20-50 grammi, anche se essa può variare da individuo a individuo. Lo scopo della dieta chetogenica è quello di ridurre in breve tempo la massa grassa, preservando quella magra e fornendo uno stato nutrizionale adeguato. Massimiliano Caprio e i suoi colleghi hanno, altresì, constatato che questo regime alimentare potrebbe rivelarsi protettivo durante l'infezione da Covid grazie agli effetti antinfiammatori e immunomodulanti dei corpi chetonici. Bisogna tenere a mente, però, che non è una dieta semplice da seguire. Infatti, basta assumere un minimo quantitativo di carboidrati in più per indurre l'organismo a bloccare la chetosi e a riutilizzare gli zuccheri come fonte energetica principale.

Ecco quali sono gli alimenti concessi: carne, pesce, uova; formaggi; ortaggi; grassi e oli da condimento.

Sono, invece, sconsigliati: cereali; patate; legumi; frutta; dolci; birra; bibite gassate.

Torna il moralismo sui peccati di gola, oggi come nell’inferno di Dante. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 28 Febbraio 2021. Siamo sotto «la piova / etterna, maladetta, fredda e greve». C’è una sensazione di già visto. Anche Cerbero non è nuovo. È un mostro dell’Averno. Virgilio ce lo consegna nel libro VI dell’Eneide e Dante lo mette a guardia del girone nel sesto canto dell’Inferno. “I miseri profani” sono stesi per terra in mezzo a fango putrido come animali. Urlano come cani e strisciano come vermi. La descrizione della colpa è affidata a un certo Ciacco, l’unico che si solleva dalla melma che “pute”, un fiorentino il cui soprannome in dialetto significa “porco”. Gli spiriti dannati stanno scontando «la dannosa colpa de la gola». Come in vita erano andati dietro alle grandi raffinatezze gastronomiche, i golosi per contrappasso sono sdraiati nel fango maleodorante come maiali. I peccatori, abituati alla varietà luculliana delle vivande, sono flagellati da una pioggia immutabile. «Mai non c’è nova». Il peccato di gola è una cosa seria per l’epoca. Nella teologia cristiana è uno dei sette peccati capitali. Tommaso D’Aquino ne definisce la portata: l’essere umano quando «eccede la giusta misura nel dedicarsi ai piaceri del cibo e delle bevande» fa peccato. Una trasgressione chiarissima: non la qualità del cibo, ma la quantità. Più che golosi i peccatori sono “ingordi”. L’ingordigia di cibi e bevande è cosa grave; sul piano personale è segno di perdita del controllo di sé, ma sul piano pubblico è un vero reato sociale. La sopravvivenza quotidiana per la maggioranza della popolazione è una scommessa, la vita dei più è una dura lotta per portare in tavola almeno un pasto caldo. La sfrenatezza alimentare è una insopportabile offesa all’esercito dei veri miserabili che patiscono la fame e la povertà. Gli ingordi, intenti solo a soddisfare il proprio appetito, sembrano ignorare la miseria e il dolore degli altri. Mangiare tanto significa togliere il nutrimento a chi non ne ha. L’ingordigia, dunque, tradisce una colpa ancor più grave: l’avarizia e la superbia. Non è un caso che il primo peccato in assoluto sia stato un peccato di gola. Adamo ed Eva che assaggiano il frutto proibito dell’albero del bene e del male. Dietro quella prima trasgressione alimentare sono passati tutti i mali del mondo. «Più non ti dico e più non ti rispondo» conclude Ciacco. Nell’inferno dantesco il rapporto tra «la dannosa colpa de la gola» e la depravazione alimentare è solo evocato, la golosità è un tema del tutto marginale nell’equilibrio del canto. Diciamo la verità: la colpa è solo abbozzata e ogni riferimento alla gastronomia è rapidamente liquidato. C’è il peccato, ma non c’è il reato. Un atteggiamento omertoso del Sommo Poeta, proprio in quegli anni di Rinascimento culinario. Nel periodo in cui vengono scritte le terzine dei golosi – spesso lo si dimentica – la cucina fa enormi progressi. Agli inizi del Trecento che vengono pubblicati i precursori dei ricettari moderni. Il famoso Liber de coquina è del 1304. Dante, però, è il meno adatto a parlare di gastronomia e di ghiottonerie. A tavola rifiuta gli eccessi e gli artifici dei sontuosi banchetti, e predilige un mangiare semplice e sobrio. Come ricorda Boccaccio «nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità». Dante disapprova chi dimostra di «non mangiare per vivere, ma più tosto di vivere per mangiare». Siamo sempre nel perimetro dell’Etica Nicomachea di Aristotele e della sua teoria del “giusto mezzo”. Siamo ancora molto lontani dal famoso adagio di un filosofo ateo e materialista: “l’uomo è ciò che mangia”. La marginalizzazione dei piaceri della tavola è senza appello, tanto che i vizi di gola non meriteranno troppe attenzioni del Poeta neanche nel canto XXIV del Purgatorio. E da allora le ragioni del cibo non albergheranno più nella cultura italiana. La cultura letteraria e la cultura gastronomica viaggeranno in carrozze separate. Le arti maggiori non si mescolano con le arti minori. Non “l’amor del gusto”, ma l’amor del giusto. Una distinzione che alberga nell’uomo, misura di tutte le cose. Il nostro corpo ospita sensi nobili e superiori: la vista e l’udito; e sensi ignobili e bassi come il tatto, l’olfatto e il gusto. La cultura si collega alle parti più dignitose della psiche, e non può compromettersi con le parti infime del corpo. La cultura non potrà trattare di gastronomia, che insiste con i suoi odori e sapori sulle parti più basse dell’individuo. I temi del “basso corporeo”, per usare un termine di Piero Camporesi, non meriteranno le attenzioni degli intellettuali. La «dannosa colpa de la gola» fu il primo di infiniti tentativi di fermare il progresso a suon di reiterate scomuniche gastronomiche. Sembra che la corruzione morale si accompagni sempre a nuove infatuazioni culinarie; che il degrado dei costumi viaggi sempre in compagnia di nuove ricette. Dante non si sbaglia, in cucina c’è un satanico odore di zolfo. Dietro l’arida matematica delle dosi, si nasconde il cardine di una cosmogonia rovesciata e diabolica. «Dio ha inventato il cibo, il diavolo il cuoco», scrive Joyce nell’Ulisse. Cucinare è l’attività che distingue l’uomo dagli altri animali. Solo le bestie si limitano a “mangiare per vivere” scegliendo il cibo per le sue proprietà energetiche e nutritive. Colui che cucina, invece, sovverte l’ordine delle cose. Inverte l’intero sistema nutritivo, lo allontana dal disegno divino. Gli alimenti allo stato grezzo vengono sottratti al loro destino e perdono nei fornelli la loro verginità; si mescolano, variano il proprio contenuto e danno luogo ad una piccola rivoluzione ontologica. Ogni religione si accosta con una preghiera al cibo per la paura che incutono le pietanze che escono da quel laboratorio alchemico che è la cucina. La censura dantesca del «basso corporeo» ci ha privato di alfabeti simbolici. Il cibo, ribadisce Roland Barthes, è «un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni, di comportamenti». Ignoriamo una lingua molto articolata, fatta di elementi naturali che sostituiscono le vocali, le sillabe, le parole; e di una sintassi che li trasforma in elaborati costrutti narrativi. I golosi, non a caso, vengono appena dopo i lussuriosi. Il legame stretto tra cibo e sesso è ormai acquisito. Al bisogno – garantire la sopravvivenza del singolo e della specie tramite nutrizione e procreazione – si accompagna il desiderio: l’appetito e il piacere sessuale e gastronomico. La gastronomia è inscindibile dal godimento e dalla dissipazione. La preparazione delle cailles en sarcophage risarcisce, nel Pranzo di Babette, la sventurata cameriera di tutto il dolore della sua condizione. Il sontuoso pranzo è una petite mort, come Bataille definisce l’estasi dell’orgasmo: il più effimero e voluttuoso di tutti i piaceri. Solo recentemente siamo usciti dalla tirannia moralistica e abbiamo riabilitato la cucina tra le scienze umane. I cibi non sono solo buoni da mangiare, come ha detto Lévi-Strauss, ma anche “buoni da pensare”. Finalmente la rivincita del “basso corporeo”. Dall’intransigenza dantesca, però, siamo piombati in un’ipocrita connivenza. Nella scena alimentare contemporanea si intrecciano tutte le contraddizioni di una società schizofrenica. Ora che l’Occidente è libero dallo spettro della carestia e il cibo ha prezzi accessibili, l’homo edens è combattuto: consuma ma lo condanna; mangia con la bocca, ma biasima con la parola. La tavola diviene ufficio religioso: un fideismo alimentare, figlio dell’ateismo spirituale, diviso tra gastronomia edonistica e pauperismo penitenziale. All’epoca di Dante l’alimentazione indicava la stabile appartenenza a un gruppo socio-culturale preciso. Oggi rappresenta i conflitti identitari e relazionali di una società sempre più instabile e incerta. Non è un caso che il disagio contemporaneo e l’insicurezza affettiva confluiscano spesso nei disturbi dell’alimentazione, tra rifiuto totale e consumo compulsivo di cibo, nel pendolo patologico tra anoressia e bulimia. D’altronde la doppia prescrizione fornita dalla società è contradditoria e patologica: cedi ai peccati di gola e mettiti a dieta; consuma più che puoi e mantieniti “in forma”. L’astinenza e il digiuno non sono più manifestazione dell’ascetismo pagano o della mortificazione cristiana, ma una perversione della “diet culture”, la cultura della dieta che ci chiede di avere un “corpo conforme”. Stiamo sempre per entrare a dieta o per uscirne. L’onda lunga del moralismo contro i golosi non sembra estinguersi. Addirittura la grassezza non si presta più ad essere il maggiore riconoscimento del potere. Sono lontani i tempi di sovrani obesi come Anna Stuart e di Giorgio IV: i potenti attuali sono in preda alla sindrome di Napoleone e prediligono alimenti leggeri. La frugalità a tavola è manifestazione di dominio delle passioni. La sobrietà comunica agli altri un’immagine di efficienza e di padronanza di sé. Anche se Michel Onfray – il filosofo francese edonista, autore di una inebriante “gaia scienza alimentare” – ci invita a diffidare dei teorici della frugalità: chi reprime i piaceri del corpo, inonda di disprezzo tutta l’umanità. E nella storia ci sono esempi temibilissimi: da Saint-Just a Hitler. Eppure il terrorismo repressivo incalza: la tavola come crapula, la convivialità come orgia, l’affetto come debolezza, la gioia di vivere come tentazione. Il mondo di oggi è popolato da clerici mangianti: esseri bifronti che predicano il culto del piacere e quello della sua castrazione. La pandemia ha reso evidente questa tendenza patologica: ci siamo aggrappati alla tavola come a una scialuppa di salvataggio contro la precarietà del mondo esterno, ma siamo stati subito travolti dal senso di colpa. Dopo aver sfornato dolci e spadellato leccornie, dobbiamo scontare la pena tra beveroni ipocalorici e insipide portate light. Lo star bene a tavola torna ad essere una colpa e il bipolarismo alimentare contemporaneo ci ricaccia all’inferno. Tra le pentole si annidano ancora oscuri presagi. Ogni volta che alla fine di un pasto ci alziamo pentiti inizia a tirare una brutta aria. «La piova / etterna, maladetta, fredda e greve».

Porro, l'ortaggio gustoso alleato della salute del cuore. Il porro è un ortaggio dall’effetto disintossicante per l’organismo, grazie al suo alto contenuto di acqua e sali minerali. È contemplato in molte diete dimagranti ed è un valido antibiotico naturale e alleato del cuore. Mariangela Cutrone - Mer, 31/03/2021 - su Il Giornale. Il porro è un ortaggio dalle origini antiche, appartenente alla famiglia delle piante Liliaceae. Ottimo sostituto della cipolla e dell’aglio. Spesso è preferito proprio per il suo gusto più delicato e soprattutto per la sua alta digeribilità. È costituito in prevalenza da acqua ma è anche ricco di fibre, proteine e zuccheri. Edibile sia crudo che cotto, è una fonte preziosa di sali minerali come potassio, magnesio, selenio, fosforo, rame, ferro, sodio, calcio, manganese, aminoacidi, acido folico e vitamine.

Quali sono gli effetti benefici del porro. Di questo ortaggio si consuma la parte inferiore del suo fusto che risulta quella più tenera. I nutrizionisti consigliano di mangiarlo soprattutto crudo per poter sfruttare al massimo di tutti i suoi effetti per la salute. Numerose, infatti, sono le proprietà benefiche riconosciute a questo ortaggio salutare:

rafforza il sistema immunitario: fonte di vitamine C, B6 e B9 il porro risulta un valido aiuto per contrastare l’attacco di virus e batteri, soprattutto durante la stagione invernale;

alleato della dieta dimagrante: composto in prevalenza da acqua, aiuta ad assumere poche calorie. È infatti protagonista di molte diete ipocaloriche e dimagranti;

utile in gravidanza: fonte di acido folico, facilita lo sviluppo del sistema nervoso nel feto prevenendo malattie genetiche come l’encefalopatia e la spina bifida;

effetto diuretico: depura l’organismo dalle scorie e dalle tossine in eccesso. Questo è un effetto prezioso per chi soffre di coliche renali e ritenzione idrica;

riduce il colesterolo cattivo: è un ortaggio alleato della salute del cuore nella prevenzione delle principali malattie cardiovascolari, come l’infarto. Indicato a chi soffre di ipertensione;

effetto antiossidante: contiene flavonoidi che svolgono un’azione idratante e mineralizzante dell’epidermide contribuendo a mantenere la pelle giovane, liscia e idratata;

stimola la digestione: le sue fibre solubili contribuiscono a regolarizzare il transito intestinale, facilitando il processo digestivo;

antibiotico naturale: grazie ad una sostanza chimica chiamata allicina, il porro è utile per curare l’organismo da funghi e batteri.

Usi e controindicazioni del porro. Il porro è molto utilizzato in cucina. Se consumato cotto è il protagonista di gustose minestre, risotti, zuppe e vellutate. A questi piatti conferisce un sapore delicato rispetto alla cipolla e all’aglio. Quando si preferisce consumarlo crudo diventa un ingrediente salutare per insalate o come contorno a portate di pesce. Anticamente, il suo succo veniva utilizzato come rilassante naturale e rimedio contro l’insonnia, oltre che per la cura della pelle. Infatti il porro è utile per mantenere fresca l'epidermide del viso. Il suo decotto può anche essere utilizzato come riflessante per i capelli scuri. Il consumo del porro è sconsigliato, invece, a chi soffre di pressione bassa, calcoli urinari e incontinenza urinaria. Siccome in esso vi sono tracce di nichel e allicina, è poco raccomandato anche a chi soffre di allergie a queste sostanze. Chi soffre di coliti o intestino irritabile dovrebbe mangiarlo, invece, con moderazione.

Peperoncino, dalla cucina alla salute: ecco come utilizzarlo. Un pizzico di peperoncino dà brio alla vita e alle pietanze. Protagonista hot in cucina, questa bacca dal sapore intenso nasconde proprietà molto utili per la salute, come toccasana per il cuore e la digestione. Sofia Lombardi - Lun, 29/03/2021 - su Il Giornale. Condimento, afrodisiaco, digestivo: questo è il peperoncino ma anche molto altro, una bacca di rilievo nel mondo dell’alimentazione sin dai tempi antichi. Intensità e gusto piccante possono variare in base alla tipologia di pianta, ma è la capsaicina la vera responsabile di quel suo sapore così intenso, un alcaloide che lo rende piccante e dal carattere deciso. Il peperoncino vanta innumerevoli benefici per il corpo e per la salute stessa, anche grazie al basso apporto calorico e alla presenza di fibre alimentari. Parente stretto del peperone, rientra nel vasto gruppo delle piante perenni ma trova la sua massima espressione a fine estate, in particolare per quanto riguarda la coltivazione. Le varietà di questa pianta sono tante e tutte con gradi differenti di intensità e di gusto, tanto che se ne determina il livello di piccantezza seguendo le indicazioni della scala di Scoville. La scala, che prende il nome dall’omonimo inventore, misura i livelli di capsaicina presenti nel frutto, così da determinare l’intensità di gusto di questa bacca dal valore storico unico.

Peperoncino, un viaggio tra storie e leggende. La storia del peperoncino affonda le sue radici nel passato più lontano, tanto che veniva impiegato già 9mila anni fa ai tempi delle civiltà precolombiane Olmeca, Tolteca, Azteca, Inca e Maya, con evidenti presenze anche in Messico e Perù. Un percorso che ha attraversato molte ere storiche assumendo ruoli sempre differenti, da condimento a elemento ornamentale in qualità di collana, passando al ruolo di moneta di scambio nella società Inca e finendo per trovare spazio nelle raffigurazione dei Maya. Una presenza speciale quella del peperoncino che ha sempre occupato un suo ruolo in ogni ambito della vita sociale dell’epoca, sia come rimedio medico che afrodisiaco, sia come spezia che come strumento magico o come frutto sacro fino a trasformarsi in un elemento di tortura.

In Europa è arrivato grazie ai viaggi di Cristoforo Colombo che per primo lo portò in Spagna nella speranza di un ricco commercio, ma la bacca non ottenne tanto successo proprio per il sapore forte non molto gradito dall’alta società e considerato demoniaco dal Clero stesso. Venne ribattezzato con termini differenti quali pepe d’India, pepe cornuto, siliquastro fino a trovare la sua identità solo nel 1900. La facile diffusione e coltivazione trasformò il peperoncino in una spezia amatissima, in particolare dai ceti più bassi e nel sud dell’Europa. In particolare in Italia dove prese velocemente il posto del pomodoro. Elogiato e amato per quel suo gusto così pungente, è riuscito a farsi largo anche come rimedio naturale.

Peperoncino: varietà e caratteristiche. Il peperoncino è parte integrante della grande famiglia del genere Capsicum e del grande gruppo delle Solanacee, che contempla anche peperone, patata, melanzana e pomodori. Ed è proprio con il peperone che il legame si fa più forte tanto da avere un’origine comune, ma ciò che li differenzia è la presenza della capsaicina che determina il livello di piccantezza e di sapore dello stesso peperoncino. Il termine Capsicum deriva da Capsa che in latino significa scatola. Ed è la forma della bacca dello stesso peperoncino che si trasforma in scatola, in scrigno per contenere i preziosi semi. La pianta assume una forma simile a un cespuglio che può raggiungere al massimo il metro di altezza, è molto resistente e produce fiori bianchi e verdi. Il peperoncino è la bacca, il frutto con forme differenti dalla colorazione che vira dal verde, al giallo fino al più classico rosso intenso. Il peperoncino vanta gruppi differenti e con livelli di intensità varia. La più nota è la Capsicum annuum che contempla le varietà Ancho, Cayenna, Jalapeñ, Pasilla, Banana, la variante rossa italiana, Pimento, Glabrisculum e Grossum. È seguita dalla Capsicum baccatum tipica dell’America latina con piccantezza moderata, dalla Capsicum Frutescens con piccantezza variabile e che comprende le varietà Fasciculatum, Malagueta e il saporitissimo Tabasco. Fino al gruppo Capsicum Chinense con i peperoncini più piccanti al mondo quali Habañero, Red Savina, Scotch Bonnet, Microcarpa, Congo e Naga Dorset. Conclude il gruppo Capsicum Pubescens che contempla semi neri e fiori viola, rappresentato dalle varietà Rocoto e Canario.

Peperoncino: piccantezza, proprietà e valore nutrizionale. Il livello di piccantezza è misurato in modo singolare, ovvero seguendo la già citata scala di Scoville, il chimico che la creò per primo in base alla quantità di capsaicina presente. La misurazione va da zero a 16 milioni; le varietà nostrane possiedono un valore pari a 30mila, il peperone zero mentre il Carolina Reaper oltre 2 milioni. Per quanto riguarda le proprietà nutritive, il peperoncino può vantare una presenza quasi nulla di grassi, per questo è considerato come il condimento perfetto. La parte piccante, ovvero la capsaicina, è presente sull’area fibrosa interna che, per comodità, si può eliminare durante la fase di pulitura insieme ai semi utilizzando unicamente la bacca stessa senza picciolo. Il peperoncino è composto in prevalenza da acqua, con una buona presenza di proteine, carboidrati e amido ma sempre in percentuali molto basse. La bacca è ricca di sali minerali, vitamine B1, B2, B3, B6, K, E e folati, ma quello che in pochi sanno è l’incredibile quantità di vitamina C presente pari agli agrumi e molto più del kiwi. Così piccolo ma anche così benefico, il peperoncino assunto in modo equilibrato è un toccasana per la salute del corpo non solo come brucia grassi, antinfiammatorio o per agevolare la digestione ma anche come alimento antiossidante e antitumorale. È un cibo dal sapore intrigante e benefico per la salute, tanto che un’assunzione regolare diminuisce il rischio di mortalità.

Peperoncino dalla cucina alla salute, ecco gli impieghi più efficaci. Una bacca davvero unica, il peperoncino riesce a svolgere un ruolo salutare sia in cucina che per il benessere personale. Niente male per questo elemento piccante, amatissimo dall’uomo ma anche dai volatili che riescono a cibarsene senza patire la presenza della capsaicina. Il motivo è semplice: gli uccelli ingurgitano le bacche intere senza masticarle e senza incappare nell’effetto piccante; inoltre, non possiedono un particolare recettore nervoso in grado di reagire alla stessa capsaicina. Ma è proprio grazie a loro se il peperoncino e i suoi semi si diffondono: gli stessi attraversano l’apparato digerente dei volatili e vengono espulsi sul terreno attraverso le feci. Incredibile è il valore di questa pianta così piccola ma così importante: in cucina la conosciamo tutti per quel sapore così forte, intenso, adatto ai palati più resistenti, ma in grado di rivitalizzare una semplice pasta donandole un tocco vincente. Ma il peperoncino non è solo amico delle ricette più eclettiche ma un valido compagno per la salute personale, secondo alcuni studi potrebbe inibire il dolore cronico. Se applicato sulla parte sofferente della cute potrebbe dimezzare il disagio nei pazienti che soffrono di problematiche pressanti quali artrite, cefalea e, se ingerito, quelle di tipo digestivo. Antinfiammatorio naturale riesce a inibire i processi che portano l’infiammazione nel corpo, è anche un antibatterico, analgesico e migliora la digestione, contrasta i problemi infiammatori agli occhi, il mal di testa e gli stati depressivi. La presenza della vitamina C migliora il sistema immunitario, agevolando il benessere della cute e contrastando i radicali liberi; non a caso è un antitumorale molto importante contrastando quello alla prostata e ai polmoni. Compagno benefico per la salute del cuore e della circolazione, contrasta il colesterolo e inoltre aiuta a bruciare i grassi in eccesso, agendo sul metabolismo oltre a risultare un ottimo afrodisiaco. Non è però adatto a chi soffre di problematiche gastriche e digestive, oltre a infiammazioni localizzate come cistiti ed emorroidi.

Asparagi, proprietà ed effetti benefici dei germogli depurativi. Noti sin dai tempi più remoti, questi gustosi germogli sono ricchi di proprietà benefiche per l'intero organismo. Maria Girardi - Gio, 18/03/2021 - su Il Giornale. Gli asparagi (il nome deriva dal persiano "asparag", ovvero "germoglio") sono dei germogli (turioni) di colore verde o bianco, a seconda che la coltivazione avvenga in presenza o in assenza di luce. Esistono due tipologie, quelli coltivati che derivano dall'asparago comune ("Asparago officinalis") e quelli selvatici ("Asparago acutifolius"). Essi si distinguono in base all'aspetto, al sapore e alla modalità con cui vengono coltivati. A restare invariata, invece, è la composizione chimica. La coltivazione degli asparagi può avvenire nei campi, oppure in serre apposite chiamate asparagiaie. In Italia, il primato della produzione spetta al Piemonte, in particolare alle zone delle Langhe e del Roero. Tuttavia, è assai famoso anche l'asparago napoletano, così come l'asparago di Cesena. Noti sin dai tempi più remoti, questi germogli possiedono numerose virtù.

Storia degli asparagi. Secondo le fonti storiche, gli asparagi hanno avuto origine nella valle dell'Eden (Mesopotamia). Oltre 2mila anni fa si sono diffusi nell'Antico Egitto e in Asia Minore, solo successivamente in tutto il Mediterraneo. Nel 200 avanti Cristo, i Romani li citavano nei loro manuali; in particolare, Plinio il Vecchio e Apicio descrissero con dovizia di particolari il metodo di coltivazione e quello di preparazione. Gli stessi imperatori fecero costruire delle navi apposite, chiamate "asparagus" per andare a raccoglierli. A partire dal XV secolo iniziò la coltivazione in Francia. Nel XVI secolo fu la volta dell'Inghilterra e, qualche tempo dopo, del Nord America, dove i germogli venivano usati per usi officinali. Nel 1985 a Schrobenhausen, nelle vicinanze di Monaco di Baviera, fu inaugurato il museo europeo degli asparagi. Questi ultimi, nella stessa località, sono i protagonisti in primavera di una sagra che celebra il sapore dolce e delicato della varietà bianca.

Le proprietà degli asparagi. Costituiti per la maggior parte di acqua, gli asparagi apportano poche calorie (24 kcal per 100 grammi) e, dunque, il loro consumo è indicato nei regimi dietetici ipocalorici. Il basso indice glicemico li rende sicuri anche per coloro che soffrono di diabete.

Cereali e fibre aiutano contro cancro, diabete e infarto. Notevole, poi, il quantitativo di antiossidanti e di fibre, queste ultime indispensabili non solo per regolarizzare il transito intestinale, ma anche per ridurre i livelli ematici di glucosio e di colesterolo dopo i pasti. Il forte odore dell'urina che, tipicamente, si manifesta quando si mangiano questi germogli è dato dall'asparagina, un amminoacido dall'effetto diuretico. Poveri di sodio, gli asparagi sono una fonte importante di:

folati: sostanze che, a livello dell'intestino, vengono convertite in vitamina B9, indispensabile per la crescita, per il corretto funzionamento del sistema nervoso e per la sintesi dell'emoglobina;

vitamina C: dalla potente azione antiossidante, stimola il sistema immunitario, protegge l'organismo dai danni dei radicali liberi e favorisce l'assorbimento del ferro;

rutina: questo glicoside flavonoico protegge i capillari, rinforzandone le pareti;

potassio: macroelemento che partecipa alla contrazione muscolare. Inoltre, contribuisce alla regolazione dell'equilibrio dei fluidi, mantenendo la pressione nella norma;

glutatione: si tratta di un antiossidante importante nella lotta contro tumori e invecchiamento, in quanto elimina le sostanze dannose.

Gli effetti benefici degli asparagi. I benefici che gli asparagi donano all'organismo sono davvero numerosi. I più noti sono indubbiamente gli effetti depurativi e drenanti legati alla presenza di acqua, asparagina e potassio. Oltre a stimolare la diuresi, la funzione epatica e renale, essi riducono l'ipertensione. A confermarlo è uno studio pubblicato sul "Journal of Agricultural and Food Chemistry" secondo cui nei vegetali è presente una sostanza che inibisce l'enzima di conversione dell'angiotensina, un ormone che stimola la pressione arteriosa.

Un'altra ricerca pubblicata sul "British Journal of Nutrition", invece, sostiene che gli asparagi, migliorando la secrezione di insulina e il funzionamento delle beta cellule del pancreas che la producono, hanno la capacità di controllare i livelli ematici di glucosio. Ma i vantaggi per la salute derivanti dal loro consumo non finiscono qui. Infatti, questi germogli:

sono lassativi: grazie alla presenza delle fibre;

migliorano l'umore: il merito è del triptofano, precursore della serotonina;

proteggono la pelle: il principale responsabile è il glutatione che difende la cute dall'inquinamento;

possiedono proprietà antinfiammatorie: merito di sostanze quali rutina e quercetina.

A causa dell'elevato apporto di acidi urici, gli asparagi non sono indicati nei soggetti che soffrono di gotta, cistite, prostatite, calcoli renali e di alcune patologie osteoarticolari.

DAGONEWS il 26 marzo 2021. Un team di scienziati australiani ha rivelato come una dieta ad alto consumo di verdure contenenti nitrati possa portare grandi benefici alla salute, in particolare allo sviluppo e mantenimento di massa muscolare. I nitrati, che si trovano in verdure come spinaci, broccoli, verza e lattuga, potrebbero aiutare la massa muscolare, specialmente delle gambe, indipendentemente dall’attività fisica. I ricercatori dalla Edith Cowan University di Joondalup, hanno diretto uno studio su 3.759 australiani durante un periodo di 12 anni, rivelando come la massa muscolare nelle gambe è più forte di circa l’11% percento nei soggetti che consumavano circa 85 grammi di verdure al giorno, l’equivalente di tre cucchiai di spinaci. Inoltre, gli autori dello studio hanno scoperto un incremento del 4% della velocità della camminata rispetto a coloro che seguivano una dieta a basso contenuto di nitrati. Dr. Marc Sim, professore dell’università che ha condotto la ricerca, spiega come tra le verdure contenenti nitrati gli spinaci portavano più benefici alla salute, seguiti da ortaggi come la lattuga, verza e anche la barbabietola. Lo studio segue una ricerca dello stesso team che ha precedentemente scoperto il ruolo dei nitrati nel potenziare la funzione muscolare delle donne anziane, oltre che migliorare la salute cardiovascolare. Inoltre, lo studio rivela come le verdure crucifere, come broccoli, cavolfiori e cavoli, proteggano dall’indurimento delle arterie. Il prossimo passo per il team sarà quello di esplorare le strategie per aumentare il consumo di verdure a foglia verde nella popolazione generale.

Spinaci, proprietà, benefici e falsi miti. Le origini di questa verdura sono assai antiche. Ricchi di vitamine e di fibre insolubili, hanno un'alta quantità di ferro ma assimilabile solo in una piccola percentuale. Ecco le caratteristiche e i falsi miti che circondano gli spinaci. Maria Girardi - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Gli spinaci (Spinacia oleracea) sono vegetali erbacei appartenenti alla famiglia delle Chenopodiaceae, di cui fanno parte anche la quinoa, la barbabietola e l'amaranto. Il nome deriva dal persiano "aspanahk" che significa "incrociato con la spina". Dalle foglie alterne (ovate o triangolari) di dimensioni assai variabili, la pianta è coltivata in tutto il mondo, anche se il record spetta alla Cina dove si coltiva il 90% della produzione. Il periodo di raccolta va da novembre a marzo; tuttavia, questa può avvenire anche in primavera inoltrata e per buona parte dell'estate. Gli spinaci sono noti soprattutto per il personaggio dei fumetti e dei cartoni animati Braccio di Ferro, nato nel 1919 dalla matita del fumettista americano Elzie Crisler Segar. Il marinaio, a cui bastava aprire e consumare una scatola di questi vegetali per acquisire una forza sovrumana, ha contribuito ad alimentare la leggenda secondo la quale gli spinaci sono ricchi di ferro facilmente assimilabile. In realtà, gran parte di questo minerale è inutilizzabile a causa della sua forma chimica e della presenza di acido ossalico.

La storia degli spinaci. Le origini degli spinaci sono incerte, anche se si ritiene che siano nati nell'Asia sudoccidentale. Avvolto nel mistero è anche il loro arrivo in Europa, molto probabilmente ad opera degli arabi o dei crociati attorno all'anno Mille. Le virtù di questi vegetali sono note da tempo. Secondo un autore arabo del XIV secolo, Al-Arbuli, essi erano in grado di combattere la tosse e di lenire i dolori addominali. Alle donne veniva consigliato di lavare l'utero con l'acqua di cottura della verdura per beneficiare delle sue proprietà astringenti. Altri effetti benefici erano decantati dagli studiosi dell'epoca. Si riteneva che gli spinaci avessero qualità corroboranti per le gengive ed effetti emollienti e lassativi. Ibn al-Awwan, autore islamico del XII secolo, in un trattato sull'agricoltura, parlò della pianta come della regina degli ortaggi per via delle sue innumerevoli virtù nutritive. Nonostante tutto essa non era particolarmente apprezzata fra le classi sociali abbienti, ma veniva utilizzata nelle minestre e nei minestroni dai ceti subalterni. Solo nel XIX il consumo degli spinaci si intensificò, prima in Europa e poi in America.

Gli spinaci e il falso mito del ferro. Che gli spinaci sono ricchi di ferro è un dato di fatto. Infatti, per ogni 100 grammi di prodotto fresco, si contano 2,9 mg di minerale. Tuttavia il 95% dello stesso non viene assorbito. Ciò è dovuto innanzitutto alla sua forma chimica. Questi vegetali contengono un particolare tipo di ferro, quello non eminico (non-Eme) che, a differenza del ferro Eme tipico della carne e dei crostacei, non viene assimilato facilmente dall'organismo. Un aiuto, però, giunge dalla vitamina C che, aumentando l'acidità dell'intestino, permette al ferro non-Eme di essere assorbito meglio.

La vitamina C alleata contro l’osteoporosi. Un altro problema è dato dalla chelazione del ferro provocata dagli ossalati e dai loro derivati. L'acido ossalico è un fattore antinutrizionale presente in molti alimenti. Una volta ingerito, si combina con i minerali formandone dei nuovi che impediscono l'assimilazione di questi ultimi. Gli ossalati sono nocivi in caso di osteoporosi, calcoli renali e forme reumatiche.

Le proprietà degli spinaci. Gli spinaci contengono poche calorie e l'energia viene fornita principalmente dai carboidrati, dalle proteine e in minima parte dai lipidi. Per questo motivo non sono controindicati per chi soffre di obesità e di patologie metaboliche, ma anche per i pazienti affetti da intolleranza al glutine e al lattosio. Dall'elevato quantitativo di fibre insolubili che, accelerando il transito intestinale, prevengono la stitichezza, questa verdura è altresì ricca di:

vitamina A: indispensabile per mantenere in salute cute e occhi;

vitamina K1: essenziale per la coagulazione del sangue;

vitamina C: antiossidante naturale che stimola il sistema immunitario;

vitamina B9: importante per garantire la normale funzione cellulare e la crescita dei tessuti;

potassio: utile per il benessere muscolare, cardiaco, nervoso e per lo scambio idro-salino a livello delle cellule;

calcio: minerale cardine per la salute delle ossa, ma anche del cuore, dei muscoli e del sistema nervoso;

quercetina: flavonoide che, grazie alla sua azione antiossidante, contrasta infezioni e infiammazioni;

zeaxantina e luteina: carotenoidi che migliorano il benessere oculare;

canferolo: flavonoide associato alla diminuzione del rischio di malattie croniche e di alcune forme cancerose.

Legumi, dalle lenticchie ai ceci tutte le loro proprietà. Conosciuti e consumati sin dai tempi più remoti, i legumi sono dei veri e propri alleati della salute. Ecco quali sono le proprietà di questi semi ricchi di benessere. Maria Girardi - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Con il termine legumi si indicano i semi commestibili delle piante appartenenti alla famiglia delle leguminose (papilionacee). Essi vengono distinti in freschi e secchi. I primi sono semi immaturi con un elevato contenuto di acqua; per le loro caratteristiche nutrizionali rientrano nel gruppo delle verdure e degli ortaggi. I secondi, invece, sono la fonte migliore di proteine: ne contengono infatti più del doppio dei cereali e della stessa carne. La storia dei legumi affonda le radici nell'antichità. Ceci, lenticchie e piselli furono coltivati per la prima volta tra il 7.000 a.C. e il 3.000 a.C. in Medio Oriente. Da qui si diffusero nell'Europa centrale e meridionale nel XVI secolo, in seguito alle spedizioni spagnole. Le lenticchie, attorno a cui ruota la storia biblica di Esaù, vennero rinvenute nelle tombe dei faraoni della XII dinastia. I fagioli, scoperti nel 6.000 a.C., sono originari dell'America. Le fave, in quanto associate al mondo dei morti e alle pratiche esoteriche, erano considerate tabù dalla casta sacerdotale egizia e dalla scuola pitagorica greca. Ricchi di fibre e dall'elevato potere saziante, i legumi sono poveri di grassi e particolarmente indicati nelle diete ipolipidiche. Le loro proprietà, inoltre, li rendono efficaci nella prevenzione di alcune condizioni, quali la diverticolosi del colon, la stitichezza, la calcolosi della colecisti, il diabete, il sovrappeso e l'obesità, le malattie dismetaboliche e l'aterosclerosi. Dai fagioli ai ceci, andiamo insieme alla scoperta di tutte le loro virtù.

Lenticchie, i legumi ricchi di ferro. Da sempre considerate la carne dei poveri, le lenticchie venivano consumate sin dall'età preistorica. Nella Bibbia si narra che Esaù rinunciò alla figlia primogenita in cambio di un piatto delle stesse. La particolare forma a lente, da cui deriva il loro nome, ricorda quella di una moneta; ecco perché si usa mangiarla a Capodanno, come augurio di ricchezza e prosperità. Questi legumi sono noti per l'elevato potere nutritivo. Ottima fonte di proteine e di carboidrati, essi sono altresì ricchi di ferro, fosforo, magnesio, potassio e vitamine del gruppo B. Le proprietà antiossidanti sono garantite dalla presenza di flavonoidi e niacina. In un piatto di lenticchie, l'importante contenuto di tiamina favorisce la memoria e la concentrazione. Ne esistono numerose qualità, ma le più pregiate sono coltivate in Italia. Basti pensare alle lenticchie di Norcia, a quelle verdi di Altamura, a quelle di dimensioni maggiori di Villalba o alle lenticchie di Ustica. Questi legumi non devono essere mai consumati crudi a causa della presenza di sostanze antidigestive. Inoltre, poiché fonti di purine, non sono indicati in chi soffre di gotta e di uricemia.

Ceci, i legumi alleati della salute del cuore. I ceci sono i semi della pianta Cicer arietinum appartenente alla famiglia delle Fabacee. L'arbusto, originario dell'Oriente, si diffuse prima in Egitto e poi nel bacino del Mediterraneo. Gli antichi attribuivano ad essi proprietà afrodisiache e, non a caso, venivano consumati durante le celebrazioni di riti orgiastici riservati alle donne. Questi legumi, oltre a essere ricchi di fibre che aiutano la regolarizzazione intestinale, contengono grassi Omega-3 e, dunque, sono dei veri e propri amici del benessere del sistema cardiovascolare. Infatti, contribuiscono ad aumentare i valori del colesterolo buono HDL e a controllare la pressione arteriosa. Ma non è tutto. Nei ceci è presente il folato, una sostanza che aiuta a mantenere bassa l'omocisteina, un amminoacido presente nel sangue. Quando quest'ultimo raggiunge valori elevati, cresce il rischio di soffrire di ictus e di infarto. Da non dimenticare, infine, che i ceci sono ricchi di sali minerali (magnesio, calcio, fosforo, potassio) e di vitamine del gruppo B.

Fagioli, i legumi che combattono il colesterolo cattivo. I fagioli sono i frutti della Phaseolus vulgaris L., una pianta appartenente alla famiglia delle leguminose originaria dell'America centrale e del Messico, dove veniva coltivata già 7.000 anni fa. Scoperti da Cristoforo Colombo, essi furono importati in Europa nel XVI secolo dagli spagnoli e dai portoghesi e qui diventarono il cibo dei lavoratori e dei contadini. Ne esistono numerose varietà e tutte contengono la fasina, una proteina velenosa che viene distrutta in fase di cottura. Una delle caratteristiche principali di questi legumi è il loro elevato contenuto di lecitina, un fosfolipide che, favorendo l'emulsione dei grassi, ne evita l'accumulo nel sangue e, di conseguenza, riduce i livelli di colesterolo cattivo. Ricchi di vitamine A, B, C, E e di fibre che stimolano il metabolismo, i fagioli sono anche una miniera di sali minerali e oligominerali, come calcio, ferro, zinco, potassio e fosforo. Nella medicina popolare si utilizzano i baccelli e i pericarpi per la preparazione di tisane depurative. Si ritiene, infatti, che queste parti della pianta posseggano proprietà diuretiche e antidiabetiche.

Piselli, i legumi amici dell'intestino. I piselli (Pisum sativum) appartengono alla famiglia delle Fabacee e sono i legumi coltivati e consumati da più tempo. Si ritiene che in Asia Minore si conoscessero fin dal 6.000 a.C. e che fossero tra gli alimenti di Greci, Etruschi e Romani. Da sempre considerati simbolo di fortuna e di prosperità, i fiori bianchi e gialli di questa leguminosa venivano intrecciati in ghirlande per le spose. La loro fama raggiunse l'apice con Gregor Mendel che, a partire dagli stessi, avviò lunghi studi sulla trasmissione dei caratteri che sfociarono nella formulazione delle cosiddette "leggi della genetica". I piselli, meno ricchi di amido rispetto agli altri legumi, sono più digeribili e risultano quindi indicati anche per chi soffre di meteorismo o di colite. Le fibre di cui sono composti, inoltre, stimolano la motilità intestinale e si rivelano particolarmente efficaci nel combattere la stitichezza. Questi legumi si distinguono in freschi e secchi. I primi hanno pochi grassi e sono ricchi di ferro, calcio, fosforo, potassio, vitamina A, vitamina B1, vitamina C e vitamina PP. I secondi, invece, sono più calorici e contengono principalmente ferro, magnesio e zinco. I fitoestrogeni presenti in questa leguminosa la rendono un'ottima alleata contro i sintomi della menopausa. Essa, infine, è impiegata in ambito cosmetico per la preparazione di maschere per la pelle rassodanti e tonificanti.

Alloro, tutte le proprietà benefiche per la salute. Sempreverde che trova spazio in cucina, ma anche tra i rimedi naturali più efficaci per la salute. Ecco quali sono le proprietà e i benefici di questa pianta con foglie dalla profumazione intensa e un passato antico. Sofia Lombardi - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale. Corone e ghirlande di alloro per celebrare poeti e condottieri quale massima espressione di conoscenza, sapienza e gloria: questa pianta vanta una storia antica. Già ai tempi dei greci e dei romani veniva impiegato sia per tributare onori che come segno di pace, ma anche all'interno di pietanze e cotture. Un ruolo rimasto invariato nei secoli, ma che si è sviluppato anche all'interno del campo medico e dei rimedi naturali. Ancora oggi con l'alloro si realizzano ghirlande e corone da consegnare ai neo laureati, ma il ruolo di questa pianta è davvero poliedrico. È utilizzata sia come supporto per il benessere e la salute, grazie alle sue impareggiabili proprietà per una migliore digestione e respirazione, ma anche come elemento centrale di singolari rituali. Tradizione vuole che nascondere alcune foglie sotto al cuscino porti in dono sogni dal significato importante.

L'alloro, tra mitologia e cucina. In pochi sanno che l'alloro è una vera e propria pianta che può raggiungere anche altezze ragguardevoli, ma che la potatura costante ha trasformato in arbusto sempreverde. Legno e foglie emanano una profumazione interessante e intensa, un segno distintivo per questa pianta così diffusa lungo il Mediterraneo dove cresce spesso spontaneamente. Stabile, resistente, particolarmente rustica riesce ad adeguarsi a qualsiasi terreno e coltivazione.

Tosse e catarro: i rimedi naturali più utili. Noto come Laurus nobilis l'alloro ha sempre trovato posto sia in cucina che nel settore dei rimedi naturali, ma a lui sono legate molte leggende e rituali. Non solo la corona classica come simbolo di gloria, trionfo e sapienza, ma anche storie mitologiche perché l'alloro è la forma vegetale che assunse la ninfa Dafne per tenere a distanza il dio Apollo. Per interrompere l'interesse e l'invaghimento nei suoi confronti, ma Apollo preferì non dimenticarla e decise di tramutare l'alloro in sempreverde e di piantarlo nel giardino della sua dimora per poterne ammirare la bellezza. E conferendo alle sue foglie il compito di trasformarsi in corone celebrative. Ancora oggi conserva questo suo ruolo di ritualità. Infatti, disporre un rametto in casa garantisce la protezione del dio Sole, ma anche prosperità e benessere. Secondo le leggende popolari, l'alloro non subirebbe l'azione dei fulmini, per questo piantarlo accanto alla casa potrebbe proteggerla dall'azione degli stessi. Ma l'alloro è ancora più noto nel campo della cucina, dove la sua presenza non passa inosservata, garantendo un sapore e un profumo inconfondibili e dal tocco deciso.

Alloro, proprietà e benefici. Con foglie dal colore verde scuro e dal formato ovale con bordo ondulato, l'alloro vanta una struttura resistente ma anche una profumazione intensa. Trova spazio in cucina ma anche come valido rimedio naturale per il benessere del sistema nervoso, come supporto contro reumatismi e distorsioni, agevolando anche la digestione e il sistema respiratorio. Un infuso di alloro, con limone sbucciato e l'aggiunta di una punta di miele, è perfetto per il benessere dello stomaco. Una tisana calda di alloro e acqua aiuta la sudorazione notturna e la depurazione dalle tossine, in particolare se assunto prima di sdraiarsi. Una soluzione ideale per prevenire infezioni e raffreddori, lo stesso tipo di beneficio si può ricavare dalle sue bacche essiccate, polverizzate e acquistate in erboristeria. Esse garantiscono benessere contro l'influenza e i problemi di stomaco.

Polmoni, più sani in inverno con il ricambio d'aria in casa. Sia le foglie che le bacche contengono olio essenziale, in percentuale differente, in cui sono presenti una serie di elementi dalle proprietà antisettiche e antiossidanti quali geraniolo, cineolo, eugenolo, terpineolo, fellandrene, eucaliptolo e pinene. È una presenza benefica per lo stomaco perché in grado di stimolare l'appetito, favorire la digestione, calmare i bruciori e ridurre i gas intestinali. Le foglie sono anche ricche di sali minerali, vitamina C e B, un toccasana per la salute dei polmoni in particolare in presenza di infezioni e tosse. Dalle bacche fresche si può ricavare l'olio laurinato rimedio perfetto per lenire il fastidio dato da reumatismi, artrite e forti dolori muscolari. Non esistono controindicazioni ma può favorire una dermatite da contatto nei soggetti che mostrano una certa sensibilità.

Da "ilmessaggero.it" il 7 marzo 2021. Che troppo sale facesse male alla salute si sapeva da tempo, ma adesso uno studio internazionale ha dimostrato che anche delle piccole quantità assunte ogni giorno possono influire sulla pressione sanguigna delle persone. Lo dimostra una ricerca coordinata dal Dipartimento di Scienze biomediche, metaboliche e neuroscienze dell'Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore). Lo studio è il frutto di tre anni di lavoro, e ha visto l'applicazione di una nuova metodologia statistica - chiamata «one-stage meta-analysis» - che ha permesso di individuare le conseguenze dell'assunzione di sale, e specificatamente di sodio, sui livelli di pressione arteriosa sia nei normotesi che negli ipertesi. I dati sono stati pubblicati sulla rivista internazionale di medicina cardiovascolare "Circulation".

La ricerca. «Le analisi precedenti - spiega il coordinatore dello studio Marco Vinceti, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze Biomediche - pensavano che la relazione tra un fattore e un esito sanitario fosse direttamente interpretabile in un grafico con una linea retta. In natura le cose spesso non stanno così. Uno dei meriti dell'analisi che abbiamo utilizzato è la sua capacità di descrivere relazioni appunto "non-lineari" e ben più complesse», così Vinceti. Gli esperti hanno quindi evidenziato come un effetto «nocivo», cioè di incremento dei livelli di pressione sanguigna, si evidenzi già a livelli estremamente bassi di assunzione alimentare di sodio. A partire cioè da 1-1,5 grammi al giorno. Ciò avviene indistintamente sia nei maschi che nelle femmine, nell'età giovanile e in quella più avanzata, nei soggetti ipertesi (dove il fenomeno è più evidente) e nei normotesi, nel breve e nel lungo termine, ed indipendentemente dal trattamento con farmaci anti-ipertensivi. Poi Vinceti ha concluso: «Le nostre osservazioni confermano la bontà delle indicazioni fornite dalla American heart association e molto recentemente dall'Efsa e dalla corrispondente autorità statunitense, con le quali si invitava a contenere il consumo di sodio della popolazione generale entro i limiti di 1,5/2,3 grammi al giorno», queste le parole del ricercatore.

Sale, anche piccole quantità possono essere dannose. Il sale non fa bene alla salute del cuore. Un recente studio dimostra che anche delle piccole quantità incidono negativamente sulla pressione sanguigna, ad ogni età e per lungo tempo. Mariangela Cutrone - Venerdì 19/02/2021 - su Il Giornale.  Assumere troppo sale non è una buona abitudine. Il sale infatti non è un alleato della nostra salute, visto che una quantità in eccesso comporta tanti rischi a carico del sistema cardiovascolare. Secondo il Ministero della Salute assumere troppo sale comporta un aumento del rischio di insorgenza di gravi patologie cardio-cerebrovascolari, correlate all’ipertensione arteriosa. Le patologie più diffuse sono l’infarto del miocardio e l’ictus cerebrale. Il sale è anche la causa di malattie cronico-degenerative, quali tumori dell’apparato digerente, osteoporosi e malattie renali. In Italia la gran parte del sale che assumiamo proviene dai prodotti prodotti da forno, dal pane, i formaggi e gli insaccati. Uno studio internazionale, recentemente pubblicato sulla rivista di medicina cardiovascolare Circulation e condotto dal Dipartimento di Scienze biomediche, metaboliche e neuroscienze dell'Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore) sostiene che anche una piccola quantità di sale incide negativamente sulla pressione sanguigna. A questa conclusione il team di ricerca è arrivato a conclusione di un lavoro durato tre anni. Lo studio in questione si è basato sull’applicazione di un’inedita metodologia statistica chiamata “one-stage meta-analysis”. Questo metodo di ricerca, rispetto alle metodologie utilizzate per gli studi precedenti sull’argomento, permette di descrivere relazioni “non-lineari”. Si parla così di relazioni più complesse tra diversi fattori oggetto di analisi dettagliate. Negli studi precedenti, per descrivere la relazione tra un fattore e un determinato esito sanitario si utilizzava erroneamente un semplice grafico con una linea retta, senza considerare che determinate correlazioni potessero richiedere rappresentazioni più complesse. Grazie a questa nuova metodologia infatti è stato possibile evidenziare come un effetto nocivo, cioè di incremento dei livelli di pressione sanguigna, sia legato a livelli estremamente bassi di assunzione alimentare di sodio. Questo effetto negativo si riscontra in maniera equivalente sia negli uomini che nelle donne senza differenze di età, fattore determinato dall'osservazione sia durante la giovinezza che nell’età senile del campione in analisi. Il fenomeno inoltre risulta più evidente nei soggetti ipertesi e nei normotesi. In questi casi, è osservabile nel breve e nel lungo termine e indipendentemente dall'assunzione regolare di un trattamento con farmaci anti-ipertensivi. Questo ennesimo studio sugli effetti negativi del sale supporta le indicazioni fornite dalla American Heart Association e dall'Efsa, con le quali si invita contenere il consumo di sodio della popolazione generale entro i limiti di 1,5-2 grammi al giorno.

La salute con il rito cinese: cura con i farmaci, guarisci con il cibo. Nello “Huang Di Nei Jing”, il classico che fonda la medicina in Cina, la centralità del mangiare viene così sintetizzata. È importante quello che si mangia ma anche come e con chi lo si condivide. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 17 gennaio 2021. Da sempre la storia dell’alimentazione e quella dell’umanità sono state strettamente connesse. Tutti infatti abbiamo bisogno di nutrimento (e quindi di assumere glucidi, lipidi, proteine, sali minerali, vitamine, acqua, tutte sostanze presenti nei prodotti naturali che fanno parte dell’ambiente), sostanze che è possibile ingerire solo sotto forma di alimenti, cioè di prodotti naturali culturalmente costituiti e valorizzati, trasformati e consumati nel rispetto di un protocollo d’uso fortemente socializzato. Ma c’è di più. La stessa storia della medicina – e della cura – è intrisa di riferimenti all’alimentazione; anzi, pare addirittura essere nata con il cibo. La nascita della medicina, a Oriente e a Occidente, ha infatti proprio nell’uso dei cibi il suo elemento fondante. L’antico ideogramma cinese Yi, che indica medicina, è composto, in alto, dall’immagine di un uomo malato e, in basso, dal carattere Jiu, che vuol dire vino, appunto inteso come medicina. Nel Huang Di Nei Jing, il classico che fonda la medicina cinese, la cui redazione è coeva a buona parte dei testi del Corpus hippocraticum (V sec a.C.), la centralità del cibo viene così sintetizzata: “Cura con i farmaci, guarisci con i cibi”. Ancor oggi la dietetica, che nei secoli è stata organizzata in un sistema complesso, occupa un posto centrale nel sistema medico conosciuto con il nome di Medicina Tradizionale Cinese, che riscuote oggi larga diffusione anche tra i medici e le culture occidentali. Ippocrate, nel trattato Antica medicina, testo cruciale per la fondazione di una medicina che aspira a dotarsi di basi razionali, fa coincidere proprio la nascita della medicina con la capacità di distinguere l’alimentazione dell’uomo sano da quella dell’uomo malato. “Non sarebbe stata scoperta l’arte medica – si legge in Antica medicina – né sarebbe stata ricercata, se avesse giovato ai pazienti lo stesso regime e l’ingerimento delle stesse sostanze che mangiano e bevono i sani.” Spinti da questa necessità, gli uomini si ingegnarono a trasformare e a produrre cibo: “Bollirono, cossero, mescolarono e temperarono le sostanze forti e intemperate con quelle più deboli, conformandole tutte alla natura e al potere dell’uomo.” Eppure mangiare non ha, ovviamente, solo una funzione fisiologica. Da tempo questo atto che apparentemente è così naturale è al centro dell’attenzione di molti studiosi, interessati agli aspetti che prescindono la soddisfazione dei bisogni nutritivi delle persone. I riti legati all’alimentazione hanno infatti una funzione strutturante nell’organizzazione sociale di un gruppo umano sia che si tratti di attività di produzione, di distribuzione, di preparazione che anche in quella di solo consumo. Il cibo diventa così oggetto centrale del sapere socio-antropologico, analizzato in quanto tale da un gran numero di ricercatori di scienze sociali e umane, etnologi, sociologi, antropologi, geografi, storici e psicologi. Il cibo e, più in generale, i riti connessi all’alimentazione fanno insomma parte della nostra quotidianità in maniera importante. Abbiamo interiorizzato il concetto di commensalità, che in fondo è uno dei pochi tratti distintivi della specie umana nel mondo animale. È anche il mangiare assieme che fa di noi “animali sociali”, anche se il ruolo dei presenti alla stessa tavola non è sempre stato il medesimo. Sembra che fino all’inizio del Seicento non si pensava che le persone sedute alla stessa tavola dovessero mangiare gli stessi cibi o bere le stesse bevande. L’agronomo Olivier de Serre, per esempio, consigliava al suo gentiluomo di campagna di fornirsi di vino di qualità inferiore per gli ospiti di bassa condizione, che avrebbe potuto accogliere alla sua tavola, per risparmiare il vino buono e conservarlo per sé e i suoi ospiti di riguardo. Allo stesso modo, i trattati di buona educazione erano pieni di raccomandazioni sui cibi o sui bocconi da presentare al padrone di casa e ai grandi personaggi che onoravano la tavola della loro presenza. L’evoluzione dell’attenzione per il cibo e l’alimentazione è letteralmente esplosa da qualche tempo, anche grazie all’utilizzo dei social network. È così che la condivisione dei riti della preparazione e del consumo alimentare sono diventati talmente frequenti da far ricorrere gli specialisti della comunicazione al neologismo anglofono “Foodporn” per giustificare l’enorme attenzione dedicata al tema. Una attenzione, se possibile, che è addirittura cresciuta con l’avvento della pandemia da Covid19, che di fatto ha statuito l’impossibilità di condividere pasti tanto in luoghi pubblici quanto, in misura leggermente ridotta, in quelli privati. All’improvviso siamo rimasti senza una delle cose che ci sembrava fossero normali e scontate: organizzarsi per mangiare assieme, uscire per una pizza, un gelato, una spaghettata. O restare a casa ma per scelta, circondati da amici e conoscenti con l’unico limite imposto dai posti a sedere a tavola. La pandemia impone distanza, e mangiare assieme è una delle cose che invece ci avvicinano di più. Non è questa ovviamente la sede adatta per parlare delle ripercussioni economiche imposte da questo stop alla socialità e alla commensalità. Ma certamente questa impossibilità a condividere spazi, modi e tempi di consumi alimentari influisce negativamente sulle nostre capacità di costruire relazioni sociali importantissime per le nostre vite. Senza relazioni siamo un po’ menomati, siamo più fragili, siamo più a rischio. In questa difficile fase della nostra vita abbiamo forse imparato tutti a dedicare un po’ più tempo alla cucina, complice anche il confinamento forzoso: ecco, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, questa pandemia ci lascerà forse la consapevolezza che dedicare più tempo e più cura alla preparazione dei nostri cibi può essere salutare da molti punti di vista. Un approccio più lento alle cose della vita anche in cucina, in netto contrasto con una cultura che ha fatto per anni l’elogio del microonde e dei piatti pronti. Per farci tornare insomma un po’ alle origini, quando la preparazione dei cibi era un rito che accomunava figure differenti e il momento del pasto era anche un modo di comunicare, e non un semplice apostrofo nella frase “faccio la pausa pranzo”.

Se l’alimentazione è cura, insomma – come dimostra appunto la stessa storia della medicina in tutte le culture del mondo – la medicina è proprio quella di costruire sane relazioni sociali legate ai riti dei consumi alimentari. Perché è certamente importante quello che si mangia, ma è altrettanto importante come e con chi si consuma il nostro rito quotidiano dell’alimentazione.

·        … senza glutine.

Hilary Brueck per "it.businessinsider.com" il 31 gennaio 2021. Se hai sostituito il classico hamburger con formaggio con una varietà senza glutine a base di riso, se scegli un gelato senza glutine invece di uno normale, o prendi dallo scaffale fiocchi d’avena senza glutine perché li ritieni un’alternativa più sana per la colazione, potresti cambiare idea, soprattutto se hai dei bambini da nutrire. Un nuovo studio pubblicato sul giornale Pediatrics mette a confronto la quantità di zucchero, grasso, sale e altri ingredienti fondamentali negli alimenti confezionati messi in commercio come “senza glutine” con quelli delle loro controparti con glutine, come anche con prodotti che non dichiarano niente e rivela che gli alimenti senza glutine confezionati non sono migliori da un punto di vista nutrizionale. In realtà, sotto alcuni aspetti, sono addirittura peggiori. Per lo studio gli autori si sono recati in due grandi catene di supermercati canadesi per analizzare 374 alimenti trasformati per bambini. Hanno controllato le alternative senza glutine come anche i prodotti “regolari”, confrontando tra loro alimenti come quelli per le prime colazioni e le cene confezionate  (lo studio ha escluso cibo spazzatura come caramelle, cioccolato e patatine). Incredibilmente hanno scoperto che gli alimenti confezionati senza glutine contengono tutte le insidie classiche degli alimenti inscatolati e imbustati, senza avere dei benefici aggiuntivi. I prodotti senza glutine hanno meno proteine e grassi ma praticamente la stessa, se non maggiore, quantità di zucchero. Lo scienziato alimentare Joaquim Calvo Lerma, che ha condotto un altro studio recente sul cibo senza glutine ottenendo risultati simili, ha detto che è evidente che il settore “senza glutine” deve comportarsi in modo corretto: “Dato che sempre più persone seguono una dieta senza glutine per affrontare efficacemente la celiachia, è essenziale che gli alimenti commercializzati come sostituti vengano riformulati per assicurare che abbiano realmente valori nutrizionali simili” ha detto Lerma in un comunicato. “In particolare quando si tratta di bambini, in quanto una dieta bilanciata è essenziale per una crescita e uno sviluppo sani”. Circa un bambino su cento nasce affetto da celiachia, una malattia genetica che può provocare danni all’intestino se i bambini ingeriscono glutine. Ma la questione degli alimenti senza glutine poveri di sostanze nutritive riguarda un segmento molto più ampio di popolazione, dato che molte persone che non sono celiache credono di fare un favore alla propria salute scegliendo dei prodotti senza glutine. Un recente sondaggio compiuto sui consumatori dello stato di Washington ha scoperto che circa uno su tre sceglie prodotti senza glutine perché li ritiene un’alternativa più sana. Un altro 23% lo fa per perdere peso, mentre solo il 17% di chi acquista prodotti senza glutine è davvero sensibile al glutine, allergico al frumento o soffre di celiachia. Gli autori dello studio pubblicato su Pediatrics dicono che molte di queste persone vengono ingannate dall’etichetta “senza glutine”, che è diventata un astuto strumento di marketing per le società alimentari ma non un indicatore di contenuti nutrizionali. “Seguire una dieta senza glutine, se sei affetto da celiachia, ti salva la vita”, aveva detto in precedenza a Business Insider Peter Green, direttore del Celiac Disease Center della Columbia University, confermando però che la stessa cosa non vale per tutti gli altri: “Non esiste praticamente nessuna prova scientifica a sostegno dei benefici di una dieta senza glutine in casi di non celiachia”. Green dice che è frequente che le persone che consumano alimenti senza glutine soffrano carenze di ferro e di acido folico, problema assente nel resto della popolazione, dato che molti cereali sono arricchiti con questi ingredienti. “La maggior part dei prodotti senza glutine sono realizzati con riso, mais o fecola di patate e sono quindi meno nutritivi rispetto agli alimenti trasformati che contengono frumento” ha scritto Marion Groetch, esperta di nutrizione e allergie alimentari della Icahn School of Medicine at Mount Sinai, in una mail inviata a Reuters in occasione della pubblicazione del nuovo studio. Ha detto che quei prodotti sono spesso carenti di nutrienti importanti come le fibre ma anche ricchi di zucchero. Passare a una dieta senza glutine non vuol dire necessariamente che la tua salute debba soffrirne. “Esistono davvero molti cereali ricchi di nutrienti, completi e senza glutine, come l’amaranto, il miglio, la quinoa e il grano saraceno”, ha detto Groetch.

·        I Cibi Light.

Anna Villarini per "corriere.it" il 21 febbraio 2021.

Eliminare i falsi cibi «light». Mangiare naturalmente leggeri si può. Siamo ormai abituati al fatto che i cibi «light» sono quelli che propone l’industria alimentare con la scritta in etichetta «light», «zero» o «a basso contenuto di». Spesso, però, la lavorazione subita li fa rientrare nella categoria dei cibi ultra processati, cioè quegli alimenti molto impoveriti dei nutrienti importanti come vitamine, minerali e fibre. La Società americana di cancerologia sconsiglia, infatti, il consumo degli alimenti «light»: danno l’illusione di far bene alla salute e quindi le persone ne mangiano in quantità elevate, non sapendo che un consumo eccessivo può far male all’organismo, anche a causa delle tante sostanze chimiche aggiunte che vanno a sostituire zuccheri e grassi. Se vogliamo, dunque, cominciare l’anno con il piede giusto e provare a seguire una settimana ipocalorica per ripulirci dopo le mangiate delle feste, la prima regola è quella di non cadere nella tentazione dei cibi «light» e invece portare in tavola solo piatti che naturalmente contengono poche calorie.

Gli ingredienti poco calorici per natura. Le verdure, tutte tranne le patate, contengono poche calorie e il loro consumo regolare, tre volte al giorno, si associa a un buon controllo del peso. Dato che contengono fibre, che assorbendo acqua si rigonfiano nello stomaco e favoriscono un precoce senso di sazietà, è bene mangiarle non durante il pasto ma prima, come un antipasto. Mangiatele senza pane, in modo da limitare le calorie ingerite, e masticatele lentamente. Piuttosto, mangiate del buon pane integrale, semintegrale o di segale a colazione. Le verdure, cotte o crude che siano, conditele con olio extravergine di oliva, aceto o limone, e spezie o erbe aromatiche al posto del sale: risulteranno molto gustose e arricchirete il piatto di antiossidanti e sostanze antinfiammatorie. Seconda regola: mangiate tutto integrale, dal pane al riso alla pasta. Le fibre contenute naturalmente nel cibo, infatti, riducono le calorie del cereale, inoltre nutrono il microbiota intestinale. Anche in questo, attenzione ai condimenti: meglio pasta con il pesce o le verdure di stagione e per una settimana lasciamo perdere la carbonare. Un altro ingrediente che richiede pochi condimenti per essere buono è il pesce, che ha un modesto contenuto di calorie se non viene pasticciato con condimenti o creme varie che impediscono solo di sentirne il sapore naturale. Anche i legumi sono un ottimo alimento light: come il pesce contengono proteine che attivano un po’ il metabolismo addormentato dalla sedentarietà vacanziera e dalle mangiate, favorendo così la perdita di peso.

Come costruire i pasti di una giornata calcolando le calorie. E ora facciamo insieme qualche calcolo. Immaginiamo di pasteggiare per un giorno con le sei ricette che seguono. Iniziamo con la colazione: aboliamo dolci già pronti e zuccheri aggiunti e optiamo per una fetta di pane di tipo 2 con crema di semi di girasole e un bicchiere di tè verde non zuccherato (180 calorie). Lo spuntino di metà mattina può essere fatto con il pancake di bietola e una tisana di zenzero non zuccherata (87 calorie) mentre quello di metà pomeriggio con della frutta fresca di stagione, per esempio un cachi (120 calorie). Il pranzo può iniziare con un piatto di finocchi conditi con pezzetti arance, una spolverata di curry e un filo di olio extravergine di oliva (40 calorie) seguito da un piatto unico come gli spaghetti al baccalà (410 calorie). La sera a cena si può scegliere tra pescatrice ai carciofi (320 calorie) o hamburger di lenticchie e cavolfiore (170 calorie) a cui aggiungere broccoli al forno (95 calorie) con cui iniziare il pasto. Se, invece, la fame durante la giornata è maggiore, a pranzo potete aggiungere l’hamburger alla pasta. In questo caso, se farete lo sforzo di non aggiungere altro (pane, alcolici, dolci...), le calorie totali giornaliere saranno 1.422 calorie, meno di quello che un adulto brucia per i processi vitali, cioè senza fare movimento. Non male vero?

Pane nero con crema di semi. Per cominciare bene la giornata concedetevi del buon pane integrale, semintegrale o di segale e accompagnatelo con della frutta fresca, marmellata o una gustosissima crema di semi e datteri. Come prepararla? Ecco la ricetta.

Pancake. Se a metà mattina vi viene appetito, non lasciatevi tentate da una merendina al cioccolato o da dei biscotti, ripiegate piuttosto su ottimi pancake casalinghi salati. Velocissimi da preparare.

Spaghetti al baccalà. Per pranzo, invece, portate in tavola dei gustosi spaghetti al baccalà, un piatto saporito e completo. Il segreto? Fare un soffritto leggero di cipolle e abbondare con il sugo così da rendere la pasta cremosissima.

Pescatrice ai carciofi. Se siete amanti del pesce, optate per un piatto di mare anche a cena: tranci di pescatrice sfumati al vino bianco e carciofi saltati in padella. Una ricetta davvero molto semplice e pronta in mezz’ora. 

Burger di lenticchie e cavolfiore. Se invece volete variare e portare in tavola una ricetta creativa, vi consigliamo i burger di lenticchie e cavolfiore. Delle polpettine sane ma gustose anche grazie all’aggiunta di un pizzico di senape, un piatto completo se accompagnato a broccoli al forno.

Broccoli al forno. Pronta in appena 30 minuti e semplicissima, la ricetta che vi proponiamo in abbinamento ai burger di lenticchie è quella dei broccoli al forno, leggermente gratinati e con una spruzzata di limone.

·        La Semenza.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 14 novembre 2021. L'agricoltura italiana non smette mai di sorprendere. Il coriandolo spezia tra le più usate al mondo è coltivato principalmente in India, Russia, Iran, Cina, paesi del Nord Africa. Ma è dall'Italia che partono i semi delle varietà migliori che danno poi vita alle coltivazioni. È uno dei business più vivaci del settore sementiero italiano che nel 2020 ha visto quasi raddoppiare gli ettari riservati al prezzemolo cinese ora sono 19.846 rispetto all'anno precedente, con un incremento quindi ben maggiore del già ottimo + 8% delle superfici dedicate agli altri semi da orto.  Il dato è emerso nel corso delle celebrazioni per i 100 anni della fondazione di Assosementi: un miliardo di euro di fatturato annuo (all'ingrosso e al netto dei trattamenti); 208 mila ettari di superfici destinate alla produzione di sementi certificate nel 2020; 33 mila ettari destinati alle sementi orticole di quattromila varietà diverse; 19 mila agricoltori coinvolti a livello nazionale nella moltiplicazione. Seconda in Europa, l'Italia è tra i primi dieci competitor mondiali nel mercato dei semi, grazie alla capacità di innovazione delle aziende. Un esempio è rappresentato dall'evoluzione delle rese di mais, passate dai 13 quintali per ettaro di 100 anni fa ai 130 quintali del 2020. Oggi il tema non è però solo produrre di più, ma come. «Tra trent' anni saremo dieci miliardi di persone sul pianeta - afferma Giuseppe Carli, presidente di Assosementi - e l'agricoltura sarà chiamata a produrre senza aumentare le superfici e al tempo stesso riducendo gli input naturali e chimici. Il settore è pronto a garantire risposte concrete per affrontare e vincere queste sfide». Della capacità di valorizzare le varietà del passato e dell'esigenza di svilupparne di nuove è consapevole anche il ministro all'Agricoltura Stefano Patuanelli. «Per questo ha detto nel corso delle celebrazioni dei 100 anni di Assosementi è importante che sia garantito un quadro normativo nazionale ed europeo aggiornato e più specifico, che tenga conto del progresso tecnologico degli ultimi anni». Tracciabilità, sicurezza alimentare, sostenibilità sono temi sensibili anche in relazione all'introduzione delle nuove tecniche di miglioramento genetico (NGTs) che sono cosa ben diversa dei contestati Ogm. Ne sta discutendo la Commissione Europea. «L'augurio è che faccia presto afferma Paolo De Castro, europarlamentare del Pd, ex ministro all'Agricoltura e che la nuova regolamentazione distingua nettamente tra transgenesi e mutagenesi. L'innovazione in campo sementiero deve essere resa fluida, per dare vita a nuove varietà che siano davvero capaci di combattere le malattie delle piante per via genetica e non chimica. I nostri agricoltori devono essere competitivi e noi abbiamo il compito di aiutarli. Le NGTs rappresentano una grande e straordinaria opportunità che l'Europa non deve lasciarsi scappare». Le preoccupazioni sul futuro delle norme, spesso diventano un freno per i nuovi investimenti. Secondo una indagine di Euroseeds - Frontiers in Plant Science, «il 30% delle aziende intervistate potrebbe mettere sul mercato nuove varietà frutto delle Tea Tecniche di evoluzione assistita - nell'arco dei prossimi 5-10 anni. Tuttavia, il 40% delle aziende afferma di aver ridimensionato o stoppato i propri programmi di ricerca a causa dell'incertezza normativa». Intanto, le aziende italiane (149 quelle associate ad Assosementi) festeggiano un 2020 estremamente positivo. Emilia-Romagna, Marche, Puglia e Sicilia sono le regioni più interessante, ma è estremamente significativo il dato del Lazio che nel comparto delle sementi da orto in appena due anni ha quasi decuplicato la superfice dedicata: appena 90 ettari nel 2018, quasi 850 lo scorso anno. Al miliardo di euro di giro d'affari complessivo (prima della lavorazione dei semi) hanno contribuito le coltivazioni di semi orticoli per 290 milioni di euro, cereali per 203, mais con 188 milioni, foraggere con 130. Seguono i semi per patate (72), riso (43), oleaginose (29), bietola da zucchero (14) e altre.

·        La filiera corta degli agricoltori contro la fame ed il sottosviluppo.

L’agricoltore va al mercato: vende meglio e di più, e l’ambiente ringrazia. Basta grande distribuzione. Sono sempre più numerosi i coltivatori che passano alla vendita diretta. I consumatori accorrono, il guadagno aumenta e l’inquinamento diminuisce. Stefano Liberti su L'Espresso il 28 luglio 2021. Racconta Alessandro Melis che all’inizio non ci credeva granché. «Quando mi hanno chiamato la prima volta per partecipare a un mercato contadino, ho aderito un po’ per inerzia». Oggi fa dieci mercati a settimana, ha assunto 18 persone per gestire la logistica e rivoluzionato completamente il modo in cui produce. La sua azienda, 40 ettari sparsi tra le colline dell’Ogliastra, dove coltiva ortaggi, uva da tavola, pesche, lavorava tradizionalmente con la Grande distribuzione organizzata (Gdo). «Chiedevano un prodotto standard e tiravano sempre sul prezzo», dice questo imprenditore 45enne mentre soppesa i grappoli maturi tra i filari ordinati della vigna. «Ormai ho invertito la tendenza: il mio principale canale sono i mercati. Ai supermercati do quello che ho in eccesso e lo faccio da una posizione di forza». Quella di Melis è una delle 130mila aziende che partecipano ai cosiddetti “mercati contadini”. Una realtà che si sta affermando sempre di più nel comparto agro-alimentare italiano, promuovendo non solo una modalità alternativa di commercializzazione del cibo ma anche stimolando nuove produzioni. «In questo modo accorcio la filiera ed evito le principali storture: pensa che una volta ho visto l’uva che avevo consegnato alla piattaforma della Gdo andare prima sul continente e poi tornare in Sardegna», ricorda ancora scandalizzato. Il fenomeno sta conoscendo una crescita vorticosa: tra il 2020 e il 2021, malgrado la pandemia, sono stati aperti 69 nuovi mercati con il marchio “Campagna amica” della Coldiretti, la confederazione agricola che guida questa rivoluzione gentile. «Parliamo di un giro d’affari di 3 miliardi di euro l’anno e di una platea di 16 milioni di consumatori», sottolinea Carmelo Troccoli, direttore della Fondazione Campagna amica. Vero e proprio fenomeno di costume, testimonianza della sempre maggiore richiesta di cibo salubre da parte dei cittadini, il mercato contadino permette di colmare la distanza fisica tra chi produce il cibo e chi lo consuma. Ai produttori consente di aumentare i propri margini, restituendo dignità a un lavoro agricolo che negli ultimi anni ha sofferto un pesante calo di redditività. «Da quando faccio i mercati, il mio fatturato è aumentato del 400 per cento», racconta Filippo Vargiu, che conduce una piccola azienda biologica a Soleminis, in provincia di Cagliari. «Noi vendiamo al consumatore allo stesso prezzo finale, ma eliminando tutte le intermediazioni guadagniamo parecchio di più». Non si tratta tuttavia solo di aumento del reddito, che pure è un aspetto fondamentale. La vendita diretta consente agli agricoltori di modificare il proprio modo di rapportarsi agli strumenti di produzione, di stabilire un’altra relazione con la terra: «Negli ultimi anni ho diversificato parecchio, distribuendo meglio il lavoro nei campi e mettendo a dimora ortaggi che altrimenti non avrei saputo a chi vendere», aggiunge Vargiu. «Siamo artigiani del gusto e custodi della biodiversità», gli fa eco l’imprenditore umbro Francesco Capalbo. A Montesperello di Magione, poche centinaia di metri dal lago Trasimeno, la società agricola “L’orto del mi’ nonno” richiama fin dal nome il desiderio di tornare a un’agricoltura meno impattante, alle filiere corte, ai ritmi colturali dettati dalle stagioni. Già da studente di agraria, questo ragazzo oggi ventiseienne aveva intuito che il futuro consisteva in una rivisitazione del passato in chiave moderna. Ha quindi convertito l’azienda di famiglia al biologico. Ha sperimentato sementi proprie non ibride ed è oggi impegnato in un recupero di varietà antiche. Soprattutto, ha puntato in modo netto sul rapporto con i consumatori: la sua azienda fa esclusivamente vendita diretta. I suoi sempre più affezionati clienti vengono a comprare i prodotti in un fabbricato di legno a due passi dai campi e, quattro giorni a settimana, nel bancone che gestisce insieme alla sorella al mercato dei produttori di Perugia. «I nostri acquirenti sanno che il prodotto è freschissimo. Così si è creato un rapporto di fiducia», dice mentre mostra i pomodori e le melanzane che spuntano rigogliosi dalle piante, l’oliveto e il frutteto sulla collina. Proprio questo rapporto di fiducia gli ha permesso di fare cose fuori dal comune. Qualche tempo fa ha iniziato a coltivare la zucchina lunga calabrese, del tutto sconosciuta in Umbria. «All’inizio la regalavamo ai clienti per farla conoscere. Ora è quasi la cosa che vendiamo di più», racconta soddisfatto. Stessa predisposizione a unire il moderno con la tradizione la mostra Valentina Stinga, giovane direttrice del mercato coperto di Napoli, che ha aperto nel giugno 2020 a due passi dallo stadio San Paolo. Dopo aver studiato market management alla Bocconi, questa trentunenne ha deciso di tornare a casa a Sorrento e dedicarsi all’agricoltura. Sui suoi tre ettari in costiera coltiva ortaggi e frutti, che rivende on-line e, insieme a quelli di altri produttori della zona, in un banco al mercato. «Portiamo qui a Napoli i prodotti della nostra terra. Questo luogo è un hub per chi cerca l’eccellenza della Campania, sia i semplici consumatori che gli operatori della ristorazione». Qui, nel più grande mercato contadino coperto del Sud Italia, i banconi sono perennemente affollati, tra venditori di mozzarelle di bufala, frutta, ortaggi, olio, carne, pesce e persino un’azienda di Caserta che offre lumache e prodotti derivati per il consumo alimentare e la cosmesi. In virtù della relazione diretta con i consumatori, i mercati contadini sono diventati occasione per contrastare una certa standardizzazione delle produzioni e dei gusti promossa negli ultimi anni dalle insegne della distribuzione. Luca Mattozzi è l’anima del mercato più famoso tra quelli di Campagna Amica, quello del Circo Massimo, che ogni sabato e domenica accoglie migliaia di persone nel centro della capitale. Mattozzi, che ha un’azienda agricola tra le colline della Sabina, è un antesignano della vendita diretta. All’inizio la faceva all’antica, con un gazebo a Rieti. Poi, fin dalla sua apertura, ha aderito a quello del Circo Massimo. Anche per lui il rapporto con il cliente è cruciale, non solo per vendere i propri prodotti ma anche per creare un rapporto emozionale tra chi coltiva e chi consuma. «Una signora anziana una volta mi ha detto una cosa che mi ha commosso: che le vendevo ricordi, sapori della sua infanzia che aveva dimenticato». Il consumatore tipo del mercato contadino cerca proprio quello: la specificità, il prodotto non omologato, il sapore genuino. Ma anche la certezza della provenienza. Lo mette in evidenza un’indagine dell’istituto Ixè, che ha rilevato come per la maggior parte degli intervistati è importante avere un contatto diretto con i produttori ma anche sapere che le aziende siano controllate. Il rapporto diretto ha anche un impatto positivo sull’ambiente. Dice ancora Mattozzi: «Io non ho scarto, vendo tutto quello che produco. Non so nemmeno cosa sia il calibro della frutta», dice riferendosi ai rigidi protocolli dei supermercati, che non accettano frutti con difetti estetici o di calibro (diametro) troppo piccolo. «Raccontando le mie produzioni, faccio capire al consumatore di città che la natura è varia e imperfetta ed è innaturale aspettarsi che i frutti siano tutti uguali». Considerazioni simili le fa Elisa Scotti, titolare con il marito di una delle più grandi aziende agricole della provincia di Milano: 120 ettari a sud-est della città, in cui produce frutta e ortaggi, insieme a un grande allevamento di galline ovaiole. Oltre ad avere rapporti con alcune insegne della Gdo, l’azienda partecipa a sette mercati contadini, fra cui quello aperto da poco a Porta Romana. «Facciamo 65 referenze di orto-frutta durante tutto l’anno. I nostri clienti hanno sempre la certezza che il prodotto è stato raccolto la mattina stessa o il giorno prima». Proprio grazie ai mercati di Campagna amica, dove intercetta una clientela più attenta a cui può raccontare le sue modalità di produzione, Scotti ha deciso di lanciare una linea biologica «cosa rara in Lombardia») e coltivare prodotti più di nicchia - come le fragole che sviluppa in serra e vende con il fortunato slogan “brutte ma buone”. «Quando le porto al mercato, finiscono in un batter d’occhio». La vendita diretta ha poi stimolato un’altra evoluzione di non poco conto: quella da produttori a trasformatori. Sono molti gli operatori che hanno aperto laboratori di trasformazione, in cui producono succhi, pesti, pasta, formaggi. Sono riusciti così a chiudere le filiere, ovviando a quello che è uno dei principali difetti del comparto agricolo italiano: la scarsa remunerazione delle materie prime. Un esempio emblematico è quello di Maria Atzeni. Con il suo gregge di 400 pecore a Sant’Andrea Frius, 40 chilometri a nord di Cagliari, questa pastora ha capito da tempo che conferire il latte alle industrie casearie l’avrebbe messa in una condizione difficile, in cui sarebbe stata soggetta alle oscillazioni incontrollabili del mercato. Così ha aperto un piccolo caseificio artigianale e cominciato a produrre formaggi in proprio, che vende nei mercati. Quando ha visto le immagini scioccanti del febbraio 2019, con i suoi colleghi che versavano il latte in strada per protestare contro il prezzo troppo basso, ha capito che la sua era stata la scelta giusta. Vendere direttamente le ha permesso non solo di avere un’adeguata remunerazione, ma anche di sperimentare e rivitalizzare tecniche antiche, come la stagionatura in argilla o la “casada”, il dolce che si fa con il latte colostro. I consumatori apprezzano e la premiano. «Perché io conosco le mie pecore una a una, so cosa mangiano e cosa c’è nel mio formaggio. E i miei clienti sanno che lavoro in questo modo, perché glielo racconto di persona». In un’epoca in cui le filiere alimentari sono sempre più globalizzate e anonime, il successo dei mercati contadini sembra legato proprio a questo aspetto: mettendoci la faccia e raccontando le proprie produzioni, i contadini-venditori contribuiscono a restituire al cibo quell’identità che aveva perduto - e che una buona fetta di cittadini consumatori reclama sempre di più.

«La terra ai contadini per un’agricoltura sostenibile». Francesca Sironi su L'Espresso il 27 luglio 2021. Una distribuzione più equa è l’unica strada. Agnes Kalibata, inviata del segretario generale dell’Onu spiega le nuove proposte contro la fame nel mondo. Più potere ai piccoli: ai piccoli produttori agricoli, ai piccoli gruppi decisionali, alle strutture locali. Con decisioni motivate da risultati scientifici, ma anche e soprattutto da un maggior ascolto delle comunità e dei loro bisogni, al di là del mercato e delle sue leve. È con questa promessa che le Nazioni Unite hanno aperto, dal 26 al 28 luglio, a Roma, un vertice che anticipa il summit globale sui sistemi alimentari, che si terrà a New York il prossimo settembre. Un pre-vertice di ricerca, immaginato come momento per mettere a sistema duemila proposte arrivate da 400 gruppi di agricoltori, produttori e associazioni coinvolti in questi mesi dall’organizzazione. Parole belle, intenzioni vaghe da lasciare sui tavoli chiusi dell’immateriale potere politico globale? Per Agnes Kalibata no. Si tratta di passi nella direzione giusta, dice, concreti come i risultati che lei stessa è riuscita a dimostrare fin qui. Nata in Rwanda, cresciuta in un campo profughi in Uganda, diventata ricercatrice in Agraria prima di entrare in politica, Kalibata è stata ministro dell’Agricoltura del suo Paese dal 2008 al 2014. In Rwanda (Stato che dopo la guerra civile ha la più alta percentuale di donne in Parlamento al mondo) ha realizzato programmi capaci di far uscire due milioni di persone dalla povertà. Dal 2014 è presidente dell’Alleanza per la Rivoluzione verde in Africa (Agra), da dove si batte per rafforzare la possibilità di un futuro sostenibile, ed efficiente, dell’agricoltura africana. Oggi è inviata speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per il vertice sui sistemi alimentari. È con questo ruolo che ha insistito sulla necessità di coinvolgere i piccoli agricoltori e le comunità indigene che producono il 60/80 per cento del cibo del mondo, ricordando come sia «impossibile parlare di costruzione e sostegno di un sistema agricolo sostenibile senza parlare del territorio dove il cibo viene coltivato, e soprattutto, senza parlare di chi controlla quelle terre. Contadini e comunità locali sembrano aver perso la loro possibilità di determinare cosa cresce sulla loro terra per via delle preferenze del mercato e dei consumatori. Un solo passo nella giusta direzione può cambiare lo sviluppo di interi Paesi». Nelle contraddizioni d’epoca, mentre gli uomini più ricchi del mondo fanno a gara a spendere miliardi per sbucare da turisti in un frammento di universo, Kalibata ricorda come l’accesso alla proprietà delle terre stia diventando sempre più disuguale: l’un per cento delle aziende agricole controlla il 70 per cento della terra coltivabile. In questo colloquio con L’Espresso insiste: lo sviluppo sostenibile passa solo dall’equità. 

A cosa servirà questo pre-vertice? E quali sono le sue priorità rispetto agli incontri che si terranno a Roma?

«Il pre-summit rappresenta il traguardo di 18 mesi di lavoro, durante i quali migliaia di giovani, agricoltori, politici, scienziati, sono stati coinvolti attraverso consultazioni pubbliche e incontri per rispondere alla domanda: “come possiamo trasformare i nostri sistemi alimentari per servire meglio le persone e il pianeta?”. La mia priorità sarà assicurare innanzitutto che tutti gli Stati abbiano l’opportunità di cogliere il massimo dagli esempi e dalle idee che abbiamo raccolto in questi due anni, così che possano arrivare al summit di settembre con impegni concreti. È stato un processo unico nella storia dei vertici delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto come al centro dei sistemi agricoli ci siano le persone, e che tutti dobbiamo non solo capire cosa si rischia, ma anche riconoscere che la maggior parte delle soluzioni alle nostre domande già esiste. Dobbiamo far lavorare queste soluzioni allora! È compito di ogni Stato mettere in campo traguardi nazionali che indichino la strada per trasformare la loro struttura produttiva, sulla base del sistema complessivo. La mia seconda priorità e trovare modi per collaborare attraverso Paesi e settori, costruendo coalizioni. E la terza è che si arrivi a definire azioni chiare e ambiziose, che possano guidare i prossimi dieci anni, rispetto a come intendiamo raggiungere gli obiettivi del piano di sviluppo sostenibile secondo l’agenda 2030. Perché se teniamo il ritmo attuale, non avremo niente su cui scrivere casa». 

Diceva giustamente quanto il mercato, per le richieste massificate dei consumatori, possa stravolgere le prospettive di sviluppo di interi Paesi. Le borse rischiano di avere conseguenze simili?

«Non possiamo avviare alcun cambiamento senza investimenti, ed è per questo che la finanza è una delle quattro “leve del cambiamento” del summit. Assicurare un corretto finanziamento, canalizzato nel modo giusto, può accelerare la trasformazione. Abbiamo bisogno dell’impegno sia degli attori privati che di quelli pubblici. Strumenti come i future bonds, dal mio punto di vista, hanno rivoluzionato l’agricoltura nei paesi industrializzati, dando prevedibilità sia ai contadini che agli acquirenti, oltre che sicurezza ai mercati attraverso i contratti. Questo ha permesso a molti contadini di difendersi in anticipo dai rischi sui prezzi. Ha funzionato bene nella maggior parte dei paesi occidentali, aumentando la capacità dei produttori, le forniture alimentari e la riduzione della fame. Ovviamente sono mercati influenzati dai sussidi all’agricoltura, che hanno un impatto sull’organizzazione stessa dei sistemi produttivi. Gli aiuti al settore agricolo sono un argomento fondamentale del summit, molto dibattuti durante i dialoghi preparatori, incentrati a ripensare un modo per incentivare i coltivatori a produrre cibo più sano minimizzando l’impatto ambientale». 

Quali progressi e quali passi indietro stiamo vivendo secondo lei?

«Penso che già questo summit in qualche modo possa essere considerato un progresso significativo, grazie al percorso di questi due anni per la costruzione di costituenti autonome e dialoghi fra settori diversi. Ma dobbiamo far coincidere la scala del problema con le nostre aspirazioni per il vertice. Denutrizione e indigenza nel mondo sono aumentate, non diminuite, in questi anni, e l’impatto della pandemia ha dimostrato che i nostri sistemi attuali non riescono a resistere agli shock e non possono essere considerati affidabili per provvedere ai bisogni delle categorie più fragili in tempi di crisi. Il summit è l’occasione giusta per muoverci verso produzioni che siano sane, sostenibili ed eque. Il mio lavoro sarà assicurarsi che tutti gli ingredienti cruciali per agire siano esposti. Il resto dipenderà dalla volontà e dall’insistenza con cui come individui, comunità e Stati riusciremo ad innescare il cambiamento. Non ci sono soluzioni facili. Sarà difficile. Ma è anche una grande opportunità». 

Ha accennato all’impatto della pandemia sulla povertà alimentare. Qual è stato su scala globale?

«Nell’ultimo Rapporto sulla sicurezza alimentare e la nutrizione del mondo si stima che 811 milioni di uomini, donne e bambine, siano vissuti senza abbastanza cibo da mangiare nel 2021. Il numero di persone che non possono permettersi pasti nutrienti continua a salire, in parallelo alla perdita di occupazione e all’aumento dei prezzi dei generi alimentari - aumentati del 30 per cento rispetto ai tempi pre-pandemici. Stiamo ancora misurando l’impatto sul resto, di sicuro sarà immenso. Ma bisogna essere chiari su un punto: anche se la pandemia ha causato uno shock enorme al sistema, causando l’impoverimento e la fame, la denutrizione a questo livello non è un sintomo del Covid-19, ma di un sistema alimentare che sta fallendo dal garantire cibo per tutti, equamente. La pandemia ha causato due importanti smottamenti. Primo: ha mostrato le disfunzionalità della nostra filiera alimentare attuale - che ha lasciato gli ultimi, sia negli stati ricchi che poveri, esposti alla denutrizione. Secondo: ha spinto altre 100 milioni di persone nell’indigenza, per non parlare dei 300 milioni di bambini che hanno perso il pranzo scolastico». 

Tutto questo si aggiunge alle conseguenze del cambiamento climatico, già evidenti in molti Paesi...

«I nostri sistemi agricoli attuali sono sia causa che vittima del climate change, contribuendo come fanno per un terzo delle emissioni di gas serra, ma anche soffrendone le conseguenze in termini di temperature estreme, siccità prolungate e alluvioni. In particolare, comunque, l’impatto del cambiamento climatico sta esacerbando le vulnerabilità esistenti, specialmente in quelle zone d’Africa e del Sud-Est Asiatico dove la bassa produttività è ulteriormente schiacciata da eventi climatici estremi, sempre più frequenti. Questo sta ulteriormente riducendo i raccolti. In Africa per esempio le rese calano dal 2014. Questo impatta direttamente la disponibilità di cibo, aumenta i prezzi dei generi alimentari e contribuisce ad estendere il numero di persone denutrite, che sta crescendo dal 2015 e a volte porta a instabilità economica, sociale e politica. Secondo alcune previsioni, un aumento della temperatura globale di 2 gradi causerebbe fino a 590 milioni di persone denutrite al mondo prima del 2050. E dobbiamo riconoscere che la realtà si sta avvicinando troppo velocemente alle previsioni». 

Speranze non ce ne sono proprio? Dove bisognerebbe cercarle?

«Dall’ascolto degli esempi che funzionano, intanto. E in questo il pre-vertice di Roma è un’occasione cruciale per resettare e far ripartire il sistema. Il nostro obiettivo è esattamente quello di mostrare idee nuove, forti, per riparare le infrastrutture produttivi e costruire ambienti più resilienti. Ma non possiamo farlo conversando tutti nello stesso modo e negli stessi silo (Kalibata usa la metafora agraria al posto dei recinti, ndr.). Per questo abbiamo voluto assicurarci che l’ascolto e la partecipazione in questo summit fossero i più larghi possibili, attraverso diversi settori della società, e dando priorità alle voci che troppo spesso non vengono ascoltate: le popolazioni indigene, le donne, i giovani, i piccoli produttori. Il vertice in questo senso sarà unico perché non si tratta di una negoziazione scritta con impegni raggiunti per consenso. Si tratta piuttosto di un’occasione per connettere gruppi e organizzazioni che normalmente non interagirebbero, e di imparare a rispondere ai bisogni partendo dai nostri valori comuni, dai risultati di ricerca e dalle esperienze».

Filiera corta e rete globale: per battere la fame deve unirsi tutto il mondo. “La pandemia ha spinto nell’area della sofferenza alimentare cento milioni di persone in poco più di un anno. Dietro a questi numeri impressionanti ci sono vite e famiglie. È essenziale condividere ora l’urgenza di un’azione coordinata più forte da parte della comunità internazionale” L’intervento del vicedirettore generale della Fao. Maurizio Martina su L'Espresso il 27 luglio 2021. I sistemi alimentari stanno affrontando a ogni latitudine le conseguenze di fenomeni epocali come la pandemia e i cambiamenti climatici in atto. Da ormai più di un anno i prezzi dei principali beni agricoli primari, come soia e grano, sono in costante aumento e gli effetti di questa persistente dinamica preoccupano per la forte vulnerabilità che creano a danno prima di tutto dei piccoli e medi produttori agricoli. I costi globali delle importazioni alimentari sono aumentati in un anno di oltre il dieci per cento e per trasportare oggi via mare questi beni occorrono in media trentatré giorni anziché i quattordici di due anni fa. Siamo dentro un passaggio delicato che espone a nuovi rischi protezionistici e nel frattempo viviamo contesti climatici sempre più radicali, a partire dalle siccità, le cui conseguenze si riversano immediatamente sulle produzioni agricole. In questo scenario, l’Italia sta provando a farsi carico di un nuovo protagonismo diplomatico, anche alimentare, nell’anno della sua presidenza G20 e in vista di appuntamenti rilevanti come il Food Summit voluto dal nostro Paese insieme alle Nazioni Unite che si tiene in questi giorni a Roma. Proprio l’Italia con il G20 dei ministri degli Esteri ha proposto con la “Dichiarazione di Matera” di sviluppare un nuovo percorso multilaterale per la sicurezza alimentare riconoscendo, prima di tutto, la necessità di intensificare le azioni e le risorse a sostegno delle aree più vulnerabili che rischiano ora un’emergenza nell’emergenza. Perché la fame oggi colpisce ancora più forte rispetto al recente passato. La pandemia ha spinto nell’area della sofferenza alimentare altre cento milioni di persone in poco più di un anno, che si aggiungono alle circa settecento milioni già purtroppo in difficoltà prima del Covid-19. Dietro a questi numeri impressionanti ci sono vite, famiglie, intere comunità. È essenziale condividere ora l’urgenza di un’azione coordinata più forte da parte degli Stati e della comunità internazionale. Ed è decisivo non lasciare solo sulla carta questi intendimenti. Bisogna passare dalle parole alle azioni. Servono risorse economiche ben indirizzate e iniziative mirate. Per questa ragione il nostro paese, insieme alla Fao guidata dal Direttore Generale Qu Dongyu, ha voluto presentare il progetto della Food Coalition per il sostegno dei sistemi alimentari dopo il Covid-19. Si tratta di una piattaforma per il partenariato fra paesi e fra realtà pubbliche e private, unite per supportare i sistemi agricoli e alimentari in particolare lungo quattro direttrici: lotta a sprechi e perdite, trasformazione dei sistemi alimentari locali, azioni di protezione sociale e contrasto alle povertà, interventi umanitari. È rilevante che già all’apertura del progetto diversi paesi e realtà associative si siano messi al lavoro insieme per concretizzare questa idea. Ci sono paesi come Marocco e Israele che, nell’ambito dei loro accordi di pace, hanno deciso di lavorare insieme per il potenziamento dei sistemi irrigui in alcune realtà africane. L’Olanda promuoverà un partenariato in Zimbabwe contro le perdite alimentari, paesi come Spagna, Tunisia, Grecia con la realtà italiana del Future Food Institute di Bologna lavoreranno per il potenziamento innovativo dei sistemi agricoli nell’area del Mediterraneo. E poi sta prendendo piede la coalizione internazionale dei mercati contadini grazie al lavoro di Campagna Amica e Coldiretti in collaborazione con un primo nucleo di associazioni di Farmers Market in particolare americani, ghanesi e norvegesi. Mondi diversi che si uniscono per un solo obiettivo. Vale la pena di soffermarsi su queste esperienze. La pandemia che abbiamo vissuto ha fatto emergere ovunque il peculiare contributo di queste realtà, che da anni hanno cambiato il rapporto stesso tra cittadini e produttori. Ovunque i mercati contadini hanno offerto un’idea forte di prossimità, di autenticità e di fiducia che è al tempo stesso qualcosa di antico e di nuovo. Ovunque queste realtà stanno cambiando pelle perché c’è un tempo post pandemia anche per loro. La parola chiave è la ri-territorializzazione dei rapporti e delle produzioni. Così, dall’America al Ghana, dal Nord Europa al Giappone passando per i bellissimi mercati contadini di Santiago del Cile, ovunque cresce il bisogno di rafforzare queste esperienze di rete capaci di investire sulla qualità, non solo dei prodotti, ma innanzitutto dei rapporti umani e sociali. E insieme si studiano progetti di formazione per i produttori, si aprono spazi per nuove leggi a tutela anche giuridica di queste attività, si analizzano idee di coordinamento e di marketing. E non si rinuncia anche alla giusta ambizione di sperimentare vie per unire questo radicamento profondo nei luoghi con il salto tecnologico della rivoluzione digitale in atto da tempo. Perché si può fare filiera corta anche grazie alla tecnologia e proprio su questo fronte si sperimentano idee e strumenti per integrare ciò che in apparenza sembrava impossibile unire. In fondo, queste reti diffuse sono anche piazze fondamentali per dare sostanza alla prospettiva dell’economia circolare e per lavorare sempre di più su processi anche organizzativi integralmente sostenibili. L’idea della rete internazionale dei mercati contadini coglie nel segno perché affronta il bisogno di un salto di scala di queste esperienze multiformi. Per questo ritengo sia uno dei progetti più iconici e importanti della piattaforma Food Coalition. È un po’ come unire tutti i diversi punti di una rete per darsi forza e dimostrare che si può essere globali senza farsi omologare. È la filiera “corta” che si fa “lunga” in modo autentico e originale. Proprio nella globalizzazione che sembrava scardinare qualsiasi logica spazio-temporale, la forza di queste esperienze radicate nelle comunità sta offrendo una risposta tutt’altro che secondaria se si considera anche l’apporto che la vendita diretta oggi fornisce al reddito di coltivatori, allevatori e pescatori. Solo nel nostro paese, secondo Ismea, la filiera corta ha generato 6 miliardi di valore che hanno aiutato direttamente contadini, allevatori e pescatori. Proprio l’Italia è tra i paesi guida di queste esperienze da quando, con la legge di orientamento, si colse l’importanza di percorrere con originalità la scelta strategica della multifunzionalità agricola. È davvero bello vedere come l’esperienza italiana sia una buona pratica riconosciuta da cui imparare molto. C’è una nuova geografia del cibo che ovunque nel mondo passa anche da queste piazze.

·        L’agricoltura biodinamica.

Alessandra Arachi per corriere.it il 22 novembre 2021. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non usa perifrasi: «Sull’agricoltura biodinamica posso rassicurare il professor Parisi: non posso pronunciarmi sull’attività del Parlamento, ma posso dire che prima che questa diventi legge vi sarebbero alcuni passaggi parlamentari che rendono lontana questa ipotesi». Il capo dello Stato lunedì mattina era all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Roma «la Sapienza» quando ha parlato in maniera esplicita della legge sull’agricoltura biodinamica che aspetta di essere approvata dalla Camera. Mattarella rispondeva alle obiezioni particolarmente denigratorie sulla biodinamica che il premio Nobel Giorgio Parisi aveva appena pronunciato. Il professor Parisi aveva dedicato una parte importante della sua lectio magistralis alle pratiche antiscientifiche che si diffonde nella società attuale. Ma è proprio alla legge sull’agricoltura biodinamica che ha voluto fare un riferimento specifico. Ha detto infatti il premio Nobel: «Insieme ad un vorace consumismo tecnologico sta per essere riconosciuta da una legge dello Stato italiano una pratica francamente stregonesca come l’agricoltura biodinamica». Per Parisi «sono i cattivi divulgatori che presentano i risultati della scienza quasi come una superiore stregoneria le cui motivazioni sono comprensibili solo agli iniziati». 

Dagotraduzione dal Guardian il 16 agosto 2021. Nell'angolo di un campo dell'Ohio, un robot armato di laser avanza lentamente attraverso un mare di cipolle, eliminando le erbacce mentre procede. Questo campo non appartiene a un futuro distopico ma a Shay Myers, un agricoltore di terza generazione i cui post su TikTok sulla vita agricola spesso diventano virali. Per diserbare il suo raccolto di 12 ettari, l’anno scorso ha iniziato a utilizzare due robot. I robot – che sono lunghi quasi tre metri, pesano 4.300 kg  e assomigliano a una piccola automobile – si arrampicano lentamente attraverso il campo, scansionando le erbacce che incontrano per poi distruggerle con esplosioni laser. «Per pochi microsecondi si vedono queste esplosioni di colore rossastro. L'erba si accende quando il laser la colpisce e poi, semplicemente, sparisce», ha raccontato Myers. «Dieci anni fa questa era fantascienza». A parte il rumore del motore, i robot sono quasi silenziosi e ognuno di loro può distruggere 100.000 erbacce all'ora, almeno secondo quanto scrive Carbon Robotics, l'azienda che li produce. Carbon Robotics, insieme ad altre startup agro-robotiche, mette in risalto i benefici ambientali che queste macchine possono apportare all'agricoltura contribuendo a ridurre il disturbo del suolo, che favorisce l'erosione, e l’uso di pesticidi. Gli agricoltori sono sempre più spinti a ridurre l'uso di sostanze chimiche, che possono contaminare le acque sotterranee e superficiali, influenzare la fauna selvatica e le piante e sono state collegate a un aumento del rischio di cancro. Allo i contadini combattono con l’aumento delle erbacce resistenti agli erbicidi, dando nuova spinta alla ricerca di innovazioni. «Il ridotto utilizzo di erbicidi è uno dei risultati spettacolari del diserbo di precisione», ha affermato Gautham Das, docente di agrorobotica presso l'Università di Lincoln. Distruggere le erbacce con i laser o la luce ultravioletta non prevede l’utilizzo di nessuna sostanza chimica. Ma anche scegliendo robot che usano erbicidi e che colpiscono le erbacce con precisione l’utilizzo di sostanze chimiche può essere ridotto del 90% rispetto alla tradizionale irrorazione a tappeto. Cinque anni fa non c'erano quasi aziende specializzate in robot agricoli, ha affermato Sébastien Boyer, il capo di origine francese della società di diserbo robotizzata FarmWise con sede a San Francisco, ma ora è «un settore in forte espansione». Si prevede che il mercato globale di questi robot agricoli, che possono anche essere progettati per eseguire attività come la semina, la raccolta e il monitoraggio ambientale, aumenterà da 5,4 miliardi di dollari nel 2020 a oltre 20 miliardi di dollari entro il 2026. «Le cose crescono molto rapidamente in agricoltura», ha detto Myers. Non sono solo appannaggio delle aziende agricole più grandi, ha affermato Elizabeth Sklar, professore di ingegneria al King's College di Londra, «alcune delle aziende agricole più piccole sono in grado di essere più flessibili nel provare nuovi approcci». FarmWise ha trovato i suoi primi clienti nella Salinas Valley in California, che coltiva lattuga, broccoli, cavolfiori e fragole ed è conosciuta come «l'insalatiera americana». Secondo Boyer, dieci dei 20 più grandi coltivatori di ortaggi degli Stati Uniti, in California e Arizona, ora utilizzano i robot sarchiatori dell'azienda. «All'inizio hanno iniziato a lavorare con noi come esperimento, ma ora si affidano molto a noi». La rimozione di parassiti, come afidi, tripidi e lygus, è un passo successivo per FarmWise. I robot possono ridurre notevolmente l'uso di fungicidi e pesticidi, ha affermato Boyer, applicandoli in modo più preciso, utilizzando la visione artificiale. Oltre alle preoccupazioni per i prodotti chimici agricoli, anche la carenza di manodopera ha un ruolo nell'avanzata dei robot nei terreni agricoli. Il lavoro agricolo può essere «costoso, difficile da trovare e pericoloso» per le persone coinvolte, ha affermato Myers. In un video virale di TikTok ad aprile ha affermato che non poteva assumere lavoratori per il suo raccolto di asparagi perché il governo non gli aveva concesso i visti in tempo. Ci sono ancora grandi sfide per l'adozione su più ampia scala. Un problema è lavorare in luoghi in cui una ricarica della batteria non è sempre prontamente disponibile, motivo per cui alcuni robot, compresi quelli realizzati da Carbon Robotics e FarmWise, utilizzano il diesel per l'energia, che a sua volta produce emissioni nocive e inquinamento. I robot agricoltori del futuro «devono essere diversi dalle macchine che abbiamo creato in passato. Non grandi macchine ad alto consumo di combustibili fossili; ma macchine più piccole e che utilizzino energia rinnovabile», ha affermato David Rose, professore di innovazione agricola presso l'Università di Reading nel Regno Unito. Alcuni robot sono già alimentati da energia rinnovabile. Il robot diserbo a forma di ragno della Small Robot Company, con sede nel Regno Unito, è alimentato da batterie Tesla. Le macchine dell'azienda danese FarmDroid e un robot spruzzatore di erbicidi realizzati dalla svizzera Ecorobotix sono entrambi alimentati a energia solare. Con le batterie che diventano rapidamente più leggere e guadagnano capacità, i robot agricoli potrebbero presto essere elettrificati, ha affermato Paul Mikesell, capo di Carbon Robotics. Ma questo processo deve essere accompagnato da infrastrutture di ricarica nelle aziende agricole, ha affermato Rose. «Non credo che siamo lontani», ha aggiunto. Nel frattempo, per ridurre gli erbicidi potrebbe valere la pena utilizzare il diesel, ha affermato Richard Smith, consulente per la scienza delle erbe infestanti dell'Università della California a Davis. «Rispetto a tutti gli altri lavori sui trattori che vengono eseguiti nei campi di produzione intensiva di ortaggi, la quantità utilizzata per le sarchiatrici automatiche è una piccola percentuale», ha affermato. Un'altra sfida è il costo. Questi robot sono ancora costosi, anche se è probabile che un'adozione più ampia riduca i costi. Il robot di Carbon Robotics costa all'incirca lo stesso di un trattore di medie dimensioni – nell'ordine di centinaia di migliaia di dollari (i costi esatti non sono stati confermati) – anche se la società afferma che sta esplorando possibilità di leasing. FarmWise vende il servizio invece del robot, al prezzo di circa 200 dollari per acro. In questo modo gli investimenti iniziali sono ridotti, ha spiegato Boyer, il che ha contribuito a far decollare il business della robotica. «Questi modelli di servizio dovrebbero ridurre la barriera dei costi per la maggior parte degli agricoltori e così non devono preoccuparsi troppo delle difficoltà tecniche con questi robot», ha affermato Das. Anche il Covid è stato un problema, perché ha bloccato l'accesso di clienti e investitori sui  semiconduttori dall'Asia. La pandemia ha «schiacciato le startup fuori dalla passerella», afferma Andra Keay, capo della Silicon Valley Robotics, società senza scopo di lucro. Ma, oltre ai robot diserbo, il Covid ha anche stimolato l'interesse su come i robot possono accorciare le catene di approvvigionamento. Le serre robotizzate possono utilizzare l'idroponica – coltivare piante senza suolo – per produrre cibo più vicino a grandi centri abitati come New York, invece che in luoghi come la California dove il suolo è più ricco. Iron Ox, una società di serre alimentata da robot con sede in California, ha ideato un braccio robotico che scansiona ogni pianta della serra e ne crea un modello 3D per monitorarla alla ricerca di malattie e parassiti. Gestisce due serre robotizzate che ora vendono prodotti ai negozi nella Bay Area e ne ha appena aperto un terzo in Texas. «Non è cambiato molto nell'agricoltura, specialmente nei prodotti freschi, negli ultimi 70 anni», ha affermato Brandon Alexander, il capo di Iron Ox, cresciuto in una grande famiglia di agricoltori del Texas. «L'agricoltura robotica offre all'umanità la possibilità di affrontare il cambiamento climatico prima del 2050», ha affermato.

Dagospia il 21 giugno 2021. “Vietare la ricerca sugli organismi geneticamente modificati è come censurare la libertà di espressione, si lede un diritto fondamentale”, Elena Cattaneo.

Luca Fazio per il manifesto - Articolo del 30 ottobre 2014. La doppia qualifica della signora Elena Cattaneo è indice di autorevolezza. Per questo risulta irrituale l’attivismo un po’ scomposto di una persona che si sta facendo conoscere all’opinione pubblica nella doppia veste di scienziata e politica solo per sponsorizzare le meraviglie degli Ogm, come se la lobby biotech non contasse già su una nutrita schiera di scienziati e pubblicisti prezzolati per spargere la lieta novella sui media nel disperato tentativo di recuperare un consenso che non ha mai avuto – l’Expo è alle porte e il dibattito si fa sempre più effervescente. Si dà il caso che la scienziata Cattaneo (che si occupa con riconosciuta competenza di malattie neurodegenerative) sia anche la più giovane senatrice a vita della Repubblica. Partito democratico. Un ruolo importante. Da scienziata, anche se gli Ogm in agricoltura sono altro rispetto alla genetica applicata in campo medico, Elena Cattaneo è solita argomentare con quella protervia scientista che serve a convincere l’opinione pubblica con informazioni discutibili che non è il caso di confutare, come quando dice che il sistema agricolo italiano soffre perché non apre agli Ogm, o quando sostiene che ci sarebbero migliaia di agricoltori pronti a seminarli. Libera di farlo, come da anni fa il suo più illustre collega Umberto Veronesi. La senatrice scrive lettere al Corriere, tiene lezioni su la Repubblica, attacca Vandana Shiva, sembra una blogger militante. Da politica, invece, Elena Cattaneo è ancora più scatenata. Forse troppo, se arriva a fare un’interrogazione al governo solo per rispondere a un’altra interrogazione, che risale addirittura all’anno scorso (a firma Loredana De Petris, senatrice di Sel). Un’iniziativa inedita per difendere i seminatori di Ogm in Friuli che hanno agito contro la legge e soprattutto per arrogarsi il diritto di chiedere ai ministri competenti se «non ritengano opportuno dare seguito con la massima sollecitudine ai provvedimenti normativi finalizzati ad abrogare le disposizioni incompatibili con la normativa Ue… in materia di emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati». Non va tanto per il sottile, la senatrice, la sua missione è chiara: chiedere al governo di aprire agli Ogm, nonostante agricoltori e opinione pubblica siano contrari. La senatrice Loredana De Petris è scandalizzata, e preoccupata. «Da quando è stata nominata – spiega – Elena Cattaneo non fa altro che fare la lobbysta delle multinazionali come Monsanto, ma non pensavo che arrivasse al punto da presentare un’interrogazione per replicare a un’interrogazione, una cosa mai vista. Questa grande pressione generalizzata di cui lei si fa portavoce nelle istituzioni è legata all’Expo ed è pericolosa, per questo spero che ci sia una presa di posizione chiara da parte del governo in materia di Ogm». Tanto per non perdere slancio, anche ieri la senatrice Cattaneo non ha perso l’occasione di ribadire la sua opinione, diffondendo a mezzo stampa un suo pregevole intervento su una rivista di settore (Assalzoo, mangimistica) che spinge per gli Ogm «Solo da noi la ricerca è vietata. Vorrei capire perché». Un’altra piccola bugia, che merita una precisazione: sono vietati gli esperimenti in campo aperto perché i semi di Monsanto inquinerebbero i campi vicini. Non c’è bisogno di studiare a Boston, o di farsi nominare senatore a vita, per valutare le conseguenze di questo disguido per i contadini che vogliono continuare a scegliere liberamente semi e produzioni agricole.

Dagospia il 21 giugno 2021. Mail: Avrei una domanda per lo “storico” Paolo Mieli, che scopro difensore degli OGM e delle pratiche “scientifiche” (ndr, Steiner è un “esoterista” solo per chi copia da Wikipedia…). Mieli e la comunità scientifica si oppongono a “metodi che non hanno alcuna base scientifica” e sono preoccupati del fatto che in Italia possa arrivare un apprezzamento “ufficiale” a “queste pratiche”. Per gli stessi accademici anche il giornalismo (e così la progettazione architettonica, la critica d’arte, etc) non è un mestiere, bensì una disciplina scientifica. Infatti si insegna nei corsi di laurea in “Scienza delle comunicazioni” e sono ammessi ad insegnarlo coloro che superano l’Abilitazione scientifica nazionale nel raggruppamento SPS/08, ovvero che hanno pubblicato (magari sciocchezze) su riviste di Classe A con peer review fatta dagli stessi docenti-scienziati del raggruppamento disciplinare, i quali, ovviamente, non hanno fatto i giornalisti nemmeno un giorno. Tanto che Mieli non potrebbe mai accedere a una cattedra da ordinario in Giornalismo, poiché questa è la scienza! Io penso, invece, che Mieli sarebbe un ottimo docente di Giornalismo e che i cosiddetti scienziati (abbiamo visto i virologi!) difendano delle corporazioni. Quindi consiglierei a Mieli di convogliare i propri sforzi per abbattere il sistema universitario che vieta a gente come lui di insegnare ciò che sarebbe bravissimo ad insegnare. La scienza è scienza, i mestieri (fare il giornalista, fare l’agricoltore, fare l’architetto) sono mestieri, non scienze!

P.S. Anche la “storia” è una scienza per gli accademici italiani, quindi uno “storico” dovrebbe aver pubblicato ricerche inedite di archivio su riviste di Classe A ecc. ecc. ecc…

Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2021. Prendete un corno capiente e stipate al suo interno lo sterco di una vacca che abbia appena partorito dei vitellini. Mettete poi sottoterra quel corno pieno di escrementi; ma, attenzione, prima che inizi la stagione invernale. Dissotterratelo a Pasqua e lo troverete «arricchito e impregnato di energia cosmica». A quel punto avrete ottenuto il cornoletame, un preparato miracoloso che, nella misura di duecento grammi, sarà sufficiente a fertilizzare un ettaro di terreno. Come è possibile? La vacca, secondo Rudolf Steiner (esoterista austriaco vissuto tra il 1861 e il 1925, da non confondersi con l'omonimo calciatore rumeno che giocò nel Chinezul Timisoara), è dotata di corna proprio per «inviare dentro di sé forze formative eterico-astrali». Ed è, appunto, dalle corna che le «proprietà vitali» si irradiano dentro l'ovino. Se non avete a portata di mano una vacca, potrete usare anche interiora di animali farcite con corteccia o fiori. Oppure dell'erba che sia stata custodita nella vescica di un cervo maschio. Chi non abbia a disposizione neppure un cervo maschio, può sempre ricorrere secondo Steiner al teschio di un animale domestico. Ne parliamo qui perché questo genere di pratiche, che ha preso il nome di «biodinamica», sta per ricevere un riconoscimento ufficiale dal Parlamento italiano e da quel momento nel nostro Paese sarà considerato alla stregua di una disciplina scientifica. Il tutto in virtù di una legge sull' agricoltura che al Senato è già stata approvata all' unanimità (con un'eccezione di cui diremo). E che questa settimana comincerà ad essere esaminata alla Camera: ne sarà relatore in Commissione agricoltura il deputato Pasquale Maglione del Movimento Cinque Stelle. L' Accademia dei Lincei ha vivacemente protestato contro la promozione della «biodinamica» tramite legge dello Stato. Riceveranno un solenne riconoscimento, sostengono gli accademici, metodi che «non hanno alcuna base scientifica» e meritano solo di essere considerati «grotteschi». Giorgio Parisi - presidente dell'Accademia dei Lincei - si è detto preoccupato del fatto che in Italia possa arrivare un apprezzamento «ufficiale» a «pratiche che, di fatto, sono vicine alla magia». La comunità scientifica italiana - pressoché al completo - gli ha dato ragione. Cosa che ha spinto ad esprimere perplessità - e gliene va dato atto - persino il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti legittimamente assai interessato all' approvazione della suddetta legge. Ma se tutto andrà come è andata a Palazzo Madama, il desiderio di veder approvato il Ddl sull' agricoltura farà sì che il testo non venga modificato e che la «biodinamica» resti lì dov' è adesso, equiparata all' agricoltura biologica. Si può ancora fare qualcosa perché ciò non avvenga? Sì. Sarebbe sufficiente eliminare dal testo di legge quella parolina - «biodinamica», appunto - e, qualora si procedesse con il consenso dei gruppi parlamentari, il tutto potrebbe essere approvato nel giro di poche settimane. L' accordo dell'intero arco dei partiti consentirebbe infatti alla Commissione di trasformarsi da «referente» in «deliberante» e varare la legge, opportunamente emendata, senza passare dall' aula. A che il Ddl venga rivisto si oppone, però, il fondatore di Slow Food Carlin Petrini nella preoccupazione che si voglia cacciar fuori da esso l'insieme che attiene all' agricoltura biologica. Ma non è così. Da parte di quell' unica senatrice che a fine maggio si è opposta in aula, Elena Cattaneo, si vuole soltanto impedire la «promozione» in Gazzetta Ufficiale della «biodinamica». Anche perché tale promozione porterebbe «rappresentanti di quei riti» ai «tavoli ministeriali»; e, per esperienza storica, sa bene, la Cattaneo, che l'inserimento in legge della «biodinamica» porterebbe ben presto al sostegno economico di essa con denaro pubblico. Nell'indifferenza al fatto che - denuncia Elena Cattaneo - siamo in presenza di «pratiche stregonesche» («peraltro facenti capo ad un marchio registrato all' estero»). Il tutto - prosegue la senatrice - avrebbe infine un impatto fortemente negativo «sulla credibilità scientifica del nostro Paese». Come essere in disaccordo? Non è in discussione, sia chiaro, la scelta del tipo di concime con cui coltivare un campo. E se, una volta eliminato dalla legge il termine «biodinamica», qualche proprietario o contadino volesse fertilizzare ancora la propria terra con il «cornoletame»? Sarà ovviamente liberissimo di farlo. Se poi qualcuno proverà ad impedirglielo, stia tranquillo Petrini: l'intero Parlamento, Elena Cattaneo in testa, insorgerà - ne siamo sicuri - a difesa dei diritti di quel discepolo di Rudolf Steiner. Un' ultima osservazione. Nel caso in cui alla Camera venisse miracolosamente eliminato il riferimento alla «biodinamica», per coloro che (come chi scrive) qualche anno fa ritennero fosse giunta l'ora di mandare in soffitta il bicameralismo paritario, questa sarebbe un'ottima occasione per ricredersi, almeno in parte. Una legge, sciattamente approvata da un Senato frettoloso, può essere rivista alla Camera in un dettaglio di grandissima importanza solo perché è ancora in funzione il bicameralismo. E, in virtù della denuncia solitaria di Elena Cattaneo, potrebbero cambiare idea anche tutti quelli che hanno sempre considerato i senatori a vita come parlamentari non eletti, dotati esclusivamente di una funzione accessoria, ornamentale e sostanzialmente irrilevante. Stavolta potrebbe accadere che una senatrice a vita, da sola contro l'intero Parlamento, produca, lei sì, un evento magico. Senza ricorrere a corni, né a vacche, né a cervi.

01/02/2016 di The Vegetarian Chance. Per un giorno Paolo Mieli ha dismesso i panni dello storico per vestire quelli del biologo ambientalista. In un suo commento sul Corriere Della Sera attacca gli oppositori degli Ogm accusandoli di avere “lo sguardo rivolto al passato”. A sostegno degli OGM Mieli afferma come non sia stato provato che siano dannosi per la salute (ma neanche che non lo siano). Peccato, poi, che le motivazioni anti OGM siano più argomentate di quanto lui non voglia fa apparire. Gli Ogm sono una minaccia alla biodiversità. Possono diffondersi in natura, entrare in competizione con le specie selvatiche e farle scomparire. Possono trasferire i loro caratteri genetici a piante della specie coltivate da un agricoltore e contaminare interi raccolti. Possono selezionare in natura erbe infestanti e insetti poi difficili da combattere. Due terzi delle piante OGM oggi coltivate sono state modificate per resistere a un diserbante specifico, che così può essere utilizzato in grandi quantità e inquinare le acque. La natura poi reagisce al diserbante facendo crescere erbe infestanti più resistenti, che richiedono quantità ancora maggiori di diserbanti in una catena senza fine. La diffusione degli OGM significa anche la dipendenza assoluta dell’agricoltura da sementi, che non possono riprodurre in proprio. Si tratta del famigerato brevetto sui semi così avversato da Vandana Shiva. Mieli poi mette in dubbio la salubrità dei prodotti bio trascurando diversi elementi a favore di questa tecnica moderna e non certamente “rivolta al passato”. Coltivare biologico significa rispettare le terre agricole dando loro la possibilità rigenerarsi dopo ogni raccolto senza far ricorso a pesticidi ed erbicidi, che impoveriscono l’ambiente. Significa ingerire meno sostanze dal valore nutrizionale nullo o malsane. Significa rinunciare alle colture intensive per dare spazio a colture locali e specie autoctone, che garantiscono il rinnovamento genetico. Chissà se a Paolo Mieli piace un mondo dove le qualità di mele in commercio siano ridotte a non più di 10/15 a fronte di centinaia di tipologie con sapori, colori, valori nutrizionali e consistenze diverse, che oggi nel mondo sono in pericolo di estinzione. E in questo caso non si tratta di essere “passatisti” quanto piuttosto di rivendicare il diritto di non perdere il patrimonio agricolo del passato solo per la pervicacia dei dottor Stranamore degli OGM. Parliamo per il consumatore del diritto di scegliere. E sembra che il consumatore italiano stia già scegliendo se consideriamo che il mercato del biologico in Italia è in crescita. Il giro d’affari del bio in Italia secondo Coldiretti è superiore ai 2,5 miliardi all’anno. Il biologico rappresenta ormai il 2,5% dei consumi alimentari degli italiani. Quanto all’affermazione di Mieli che tre kg del pasto quotidiano di una vacca italiana sono OGM non c’è che ringraziarlo dato che ribadisce uno dei buoni motivi per mangiare vegetariano. E a proposito dell’articolo su Altroconsumo citato da Paolo Mieli ecco un’interessante e documentata replica della dott.ssa Patrizia Gentilini (medico specialista in Oncologia ed Ematologia generale, membro del Comitato scientifico Associazione dei “Medici per l’Ambiente” Isde Italia).

Intervento di Remo Carlo Egardi. Con l’agricoltura transgenica, gli agricoltori devono acquistare ogni anno le sementi brevettate, come stabilito dai contratti con i produttori di OGM. Negli Stati Uniti, la Monsanto ha fatto causa a numerosi agricoltori per la violazione di tali contratti. Il problema non consiste solo nell’impossibilità per gli agricoltori di conservare e ripiantare i semi, ma anche nei costi sempre crescenti connessi ai semi OGM e, come già accade in alcune zone degli Stati Uniti, nella mancanza di disponibilità di sementi convenzionali (Greenpeace, 2012). Tutti questi prodotti sono stati sviluppati per un modello agricolo di stampo industriale legato a pratiche agricole insostenibili, che danneggiano le risorse naturali alla base della produzione di cibo. Il 15 aprile 2008, per la prima volta nella storia, l’Onu ha condannato l’uso in agricoltura di tecnologie g.m. perché, come si dichiara nel verbale, non risolvono il problema della fame per milioni di persone, ma creano definitivamente una minaccia per la salute umana e per il futuro di tutto il pianeta. La coltivazione di OGM dovrebbe quindi essere vietata a livello globale. Paolo Mieli farebbe meglio rimettere i panni del giornalista. In un bellissimo detto milanese: “Ofelè fa el to mesté”. Vale come consiglio per tenere lontani gli inesperti da materie e lavori che non sono in grado di affrontare.

DAGONOTA il 22 giugno 2021. Cambiare idea è sinonimo di intelligenza, forse anche di scientificità. Ma, a volte, no. Ai tempi della direzione Mieli (ma quando c’era la Giulia Maria Crespi che telefonava), sul “Corriere” del 7-11-1994 si parlava della "stupefacente immagine di laboratorio che mostra la differenza tra una goccia di latte fresco e una goccia di latte a lunga conservazione e la differenza tra un pomodoro, uno spinacio o un grano di frumento prodotti con metodi biologici e i loro fratelli dell'agricoltura a base di concimi e antiparassitari chimici… Non sono idee da visionari, sono norme rigorose. Dal 1991 i metodi biologici sono riconosciuti dalla Cee, e in Italia il decreto legge n.338 del 25 maggio 1992, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 17 luglio successivo, ha dettato le rigorose normative che dovrebbero scoraggiare il nuovo affarismo ecc ecc ecc”. Ai tempi della direzione Mieli (ma quando c’era la Crespi che telefonava), persino l’“esoterista” Rudolph Steiner era tenuto in considerazione e si facevano pagine sul suo metodo; sul “Corriere” si esalta “L'agricoltura secondo Rudolf Steiner: consulto a Sabaudia di tecnici e produttori. Si riuniranno a Sabaudia (Latina), dal 25 al 28 novembre, i sostenitori del metodo di coltivazione biodinamico (concimi naturali e tecniche per non danneggiare la fertilità dei terreni) messo a punto 80 anni fa da Rudolf Steiner ecc ecc”. Ai tempi della direzione Mieli (ma quando c’era la Crespi che telefonava) la Crespi tracciava il solco del biodinamico, ma era il quotidiano di via Solferino che lo difendeva: sul “Corriere” del 25-11-2005 si scrive: “Prodotti bio troppo costosi puntare su Internet e sinergie. Più informazione, ma anche nuove forme di vendita, come i gruppi di acquisto o le vendite via Internet e unire le forze di chi opera nel settore dell'agricoltura biodinamica ecc ecc ecc”. Ai tempi della direzione Mieli (ma quando c’era la Crespi che telefonava) si celebravano le sfide low cost della agricoltura biodinamica e il 6-12-2007 si scriveva: “La sfida della cascina-bio per la spesa low cost: 650 ettari di terreno, 350 dei quali coltivati, lungo il Ticino, nel 1976 furono convertite all' agricoltura biodinamica, il metodo più avanzato per la coltivazione della terra nel pieno rispetto di essa e della fauna, per il ripristino dell'equilibrio naturale ecc ecc ecc”. Ai tempi della direzione Mieli (ma quando c’era la Crespi che telefonava), De Bortoli presentava i libri biodinamici della società Antroposofica (ma non erano degli esoteristi?) esaltando i premi in biodinamica paragonati a un Nobel (ma il Nobel non è un premio scientifico?); il 3-3-2008 il “Corriere” dedica un articolo al “Deserto biodinamico” di Ibrahim Abuleish: “L' impossibile si vede a non molti chilometri dal Cairo e si chiama Sekem. Il miracolo ha un padre: Ibrahim Abuleish, che per la Comunità ha ricevuto nel 2003 il Right Livelihood Award, premio Nobel alternativo. Sekem è un'iniziativa biodinamica cambia il volto del deserto egiziano ed è un libro dell'Editrice Antroposofica che sarà presentato alle 18 alla Feltrinelli Duomo dai giornalisti Ferruccio de Bortoli e Giovanni Valentini ecc ecc”. Ai tempi della direzione Mieli (ma quando c’era la Crespi che telefonava) erano protagonisti i coniugi Schmeiser, “lui 78 anni, lei 77 la coppia anti-Ogm che combatte le multinazionali”, si racconta il 27-2-2009: “Percy e Louise Schmeiser, contadini canadesi dal lontano 1947 sono diventati il simbolo internazionale della lotta alle multinazionali degli Organismi geneticamente modificati. I Davide contro Golia, di questa guerra sommersa combattuta a carte bollate, conferenze mondiali e campagne di sensibilizzazione. Due anni fa gli Schmeiser sono stati insigniti dell'anti-Nobel, il Right livelihood award, proprio per il loro impegno contro gli Ogm ecc ecc ecc”. Ai tempi della direzione Mieli (ma quando c’era la Crespi che telefonava), le nuove vie (scientifiche?) alla prevenzione stavano nell’affidarsi all’agricoltura biodinamica, come si scrive il 28-9-2010: “La scienza con sempre maggiore attenzione si occupa del rapporto esistente fra lo stile di vita, l'alimentazione, la prevenzione e la cura delle malattie degenerative. Questi argomenti verranno affrontati durante l'incontro dal titolo Alimentazione e stile di vita che si terrà nell' azienda agricola Le Cascine Orsine di Bereguardo, una realtà che da oltre 30 anni pratica la biodinamica, insieme a medici, esperti di alimentazione, terapeuti e oncologi di fama ecc ecc ecc”. Non che con la successiva direzione De Bortoli la direzione fosse cambiata, anzi! Gli articoli si moltiplicano e la titolazione si fa incisiva: “I segreti dell’agricoltura biodinamica”, “Eremita e profeta Rudolph Steiner anticipò l’agricoltura biodinamica” (ma non è uno “stregone”?) “I pionieri del bio passano all’impresa” in un crescendo sino a “Uomo, natura, impresa i nuovi modelli oltre la crisi dei valori” o “Appello di 14 associazioni: l’Europa punti sulla biodinamica”. Cos’è cambiato, allora? Non vogliamo pensare che sia solo la scomparsa di Giulia Maria Crespi ad aver mutato l’intendimento ponderato e scientifico dei vari Mieli e De Bortoli! Che sia l’animalista animalier Fontana ad aver dato la svolta “scientista” allo storico non scientifico Paolo Mieli?

Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare (Andy Warhol). 

DAGONOTA il 24 giugno 2021. Molti non lo sanno, ma sin da giovane Paolino Mieli ha coltivato la passione per il piccolo chimico. Nel suo laboratorio privato (e politico) è riuscito ad amalgamare la sua dedizione al professore di “destra” Renzo De Felice con la militanza extraparlamentare in Potere operaio. Un cocktail ideologico potente quanto l'ideazione della bomba Molotov. Giocando con gli alambicchi del potere, prima nelle stanze dell’Espresso, poi in quelle della “Stampa” e infine in quelle del “Corriere della Sera”, il nostro Sabin alle vongole ha architettato in laboratorio il “terzismo, il “doppiopesismo” e il “revisionismo” à la carte. A volte insieme al suo sodale Galli Della Loggia che voleva abolire la festa del 25 aprile e oggi sembra tornato a cantare in coro “Bella ciao”. Anche lui, vittima del mielismo inoculato a una generazione di giornalisti (e commentatori) ignari che esso era peggiore del contagio Covid. Una pandemia politica che ha avuto il suo picco infettivo (gogna mediatica) ai tempi di Tangentopoli con la sua rivoluzione italiana e l’arrivo della seconda Repubblica che ancora stiamo aspettando. Dunque, non suscita sorpresa che l’altro giorno sul “Corriere del Cairo” Paolino si sia trasfigurato addirittura in un diabolico Frankenstein junior per occuparsi da apprendista stregone di agricoltura ed esoterismo. Una questione controversa, se sarà sancita con una legge dello Stato, da prendere con cautela. E senza alzare la voce che rischia, secondo l’astrofisico Paolo Tozzi, di avere un risultato opposto: “quello di essere uno spot pubblicitario per la pseudoscienza”. Impresa in cui è riuscito, come vedremo, il maldestro influencer Paolino Mieli, in arte Mielik, con un suo editoriale di lunedì scorso sul Corrierone. Partiamo dall’inizio. Quella domenica del 20 giugno in via Solferino, il sub direttore Luciano Fontana si sarà domandato: qual la notizia del giorno da commentare in prima pagina? Le tensioni nel governo per le riaperture? Il modesto risultato di Marina Le Pen in Francia? Le primarie nel Pd? La riforma della Giustizia? Il presidente Biden che non ha incontrato il Papa? Grillo che sfancula Conte? Macché. Lunedì mattina l’editoriale di prima era firmato da Paolino Mieli, l’erede televisivo del tuttologo napoletano, Alessandro Cutolo, sul tema di grande attualità (soprattutto per l’industria chimica): quanto sono buoni i cibi messi a coltura con i pesticidi (OGM) rispetto a quelli coltivati biologicamente. Nell’attacco pedagogico della sua articolessa stavolta l’allievo (Paolino) superava in comicità il suo maestro (Cutolo). E forse anche Totò. Ecco la ricetta steineriana spadellata ai poveri lettori dal cuoco Mieli sulla vessata questione ora al centro di una legge in Parlamento: “Prendete un corno capiente e stipate al suo interno lo sterco di una vacca che abbia appena partorito dei vitellini. Mettere poi sottoterra quel corno (…) A quel punto ottenete il corno letame”. Beh, se non siamo a Totò, si sarà chiesto il lettore, l’incipit di Mielik ricorda certi sketch televisivi stralunati e sempliciotti di Ugo Tognazzi che in coppia con Vianello spiegava balbettando come da un grosso tronco si fabbrica un solo stuzzicadenti. Di fronte all’immagine del “corno di letame” evocata da Paolino tutti le altre frattaglie del suo editoriale morivano pateticamente nello stabbio del ridicolo. E sviliva e mortificava pure le ragioni di chi vorrebbe correggere una legge che suscita perplessità nella comunità scientifica. Del resto il filosofo Karl Popper ricordava che la scienza “più che un sistema di credenze, può essere considerata un sistema di problemi”. Dove a dominare non siano però le fedi, ma il dubbio. Poco importa, allora, se Mieli confonda l’agricoltura biologica con quella biodinamica, sostenuta anche dal fondatore di Slow Food Carlo Petrini che non è un seguace dell’esoterista austriaco Rudolf Steiner, con i limiti da imporre alla ricerca. E questo suo concimare il “Corriere” con argomenti che non appartengono alla sua sfera di competenza da chi sono ispirati? A Milano, negli anni della sua direzione al “Corriere” per compiacere la zarina Giulia Maria Crespi, proprietaria terriera e paladina dell’agricoltura biodinamica, il nostro abbracciava ogni causa ecologica e naturalistica pur di assecondare l’Avvocato, amico di quella “rompicoglioni” della Giulia, e avere un posto a tavola nella sua casa elegante di Corso Venezia. Oggi, in gloria ai pesticidi e ai suoi produttori, Paolino cavalca spavaldo l’inquinamento delle terre facendosi loro predicatore, testimonial e portavoce in nome del “corno del letame” (usanza, tra l’altro, praticata solo da alcuni agricoltori biodinamici). 

Stefano Della Casa per “La Stampa” il 22 giugno 2021. Anche quando parla di cinema, Carlo Petrini non può certo dimenticare la polemica che in questi giorni lo coinvolge sulla contrapposizione tra lettura «scientifica» e lettura «contadina». È una polemica che ritiene basata su presupposti sbagliati. «Penso in primo luogo che sia insensato contrapporre la scienza ai saperi secolari. I contadini hanno fatto tanta sperimentazione negli anni, hanno tenuto vive tradizioni, hanno lavorato sulla biodiversità; e lo hanno fatto quando qualcuno credeva di poter risolvere tutto con la chimica, con i calcoli di laboratorio che non tengono conto dell'armonia della natura. Io non ho niente contro la scienza, sono solo contrario a definire non scientifici dei saperi che si sono tramandati non per convenzione, ma per saggezza. E da questo punto di vista invito tutti a riguardare (o a guardare per la prima volta) il documentario che Ermanno Olmi ha dedicato al nostro lavoro. Come ho detto, è un documentario che non evoca nostalgia, ma saggezza. C'è bisogno di saggezza, oggi». Una saggezza che il cinema può garantire, se affrontato con spirito giusto. «Ho avuto due grandi incontri con personalità del cinema, due uomini che sono stati per me una fonte di sapienza e di ricchezza intellettuale. Con Ermanno Olmi abbiamo progettato insieme Terra madre, un documentario che voleva raccogliere le grandi ricchezze del sapere contadino, una sorta di visualizzazione a futura memoria di quel progetto che è stato così importante nella mia esperienza. E con Tonino Guerra ho capito che si poteva guardare al passato senza malinconia e senza rinunciare al futuro. Due persone veramente grandi, capaci di raccontare con semplicità e senza nostalgia ciò che è stato e anche ciò che verrà, senza che questi due mondi entrino in rotta di collisione. Due pensatori che hanno saputo rendere visivo il loro pensiero». È decisamente commosso Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, l'infaticabile divulgatore del sapere contadino, quando parla di Tonino Guerra. Lo fa in occasione del lancio di «I luoghi dell'anima», il festival presieduto da Andrea Guerra (il musicista figlio di Tonino, compositore per registi quali Ferzan Ozpetek, Gabriele Muccino, Giuseppe Bertolucci, Riccardo Milani) e previsto a Sant' Arcangelo di Romagna dal 30 giugno al 4 luglio. Tonino Guerra è stato sceneggiatore principe per Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Andrej Tarkowskij, Theo Anghelopoulos, ma è stato soprattutto un poeta, e l'idea di un festival legato a quanto possa un paesaggio essere ispiratore per un talento creativo è nata proprio da una lettura della sua attitudine alla vita. Anche Carlo Petrini ha un suo luogo dell'anima, ed è il castello di Verduno in Piemonte. «Lo è per due validissimi motivi. Il primo è che in quel castello a metà Ottocento viveva il generale sabaudo Paolo Francesco Staglieno, di nobili origini genovesi. Staglieno non era noto per avventure belliche nonostante l'alto grado raggiunto nell'esercito, ma perché era l'enologo della Real Casa e in particolare di Carlo Alberto di Savoia e fu lui di fatto a scoprire che il barolo invecchiato diventava un vino strepitoso. Lo fece perché nel 1841 inviò in Sudamerica delle botti di vino e una parte di quelle ritornò indietro due anni dopo. Si ruppe la ceralacca che le sigillava, lui assaggiò il vino e si accorse che l'invecchiamento lo aveva modificato facendolo diventare un vero nettare». Il secondo motivo della scelta di Verduno come luogo dell'anima è ancora più privata: «Verduno, quando ero giovane, era diventata il buen ritiro di Nuto Revelli, una persona straordinaria, uno scrittore che ha saputo come nessun altro dipingere la vita quotidiana del Cuneese prima che si trasformasse, nell'arco di due generazioni, da zona poverissima a una delle più ricche d'Italia. Lì si trovava e chiamava i suoi amici che si chiamavano Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Partecipare ai loro incontri, alle loro chiacchierate è stato per me enormemente formativo. Mi ha spiegato quanto quegli uomini, con una importante cultura politica formatasi nelle file del Partito d'azione, siano stati importanti per la nascita e la difesa della democrazia in Italia. E la loro passione per la genuinità, la loro attenzione per la traduzione ha fatto germogliare in me il seme di quello che sarà poi l'impegno di tutta la mia vita. Quando sono a Verduno, rifletto su tutto questo. E il mio animo è felice».

L’Italia ripudia la scienza. Legge sull’agricoltura biodinamica, i senatori votano senza sapere di cosa si tratta Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 16 Giugno 2021. Vi va di fare un gioco enigmistico? Bene, trovate gli intrusi. Cenere di pelle di topo bruciata, lingua di rospo, zampa di serpe, letame bovino in corno di vacca, occhio di talpa, quarzo macinato… Riusciti? Gli intrusi sono: la lingua di rospo, la zampa di serpe e l’occhio di talpa, ovvero gli ingredienti della pozione magica con cui la strega di Biancaneve avvelena la mela (cit. Fiabe Sonore dei Fratelli Fabbri). Tutti gli altri sono invece i legittimi ingredienti dell’agricoltura “biodinamica”, un protocollo escogitato da un altro stregone che si chiamava Rudolf Steiner, per garantire derrate alimentari sovrabbondanti e salubri. Ora un altro quesito. Secondo voi, il mese scorso il Senato della Repubblica ha approvato una legge che garantisce e certifica le corrette modalità di preparazione delle mele avvelenate, o il protocollo per la produzione biodinamica? Risposta? La seconda. Infatti il Parlamento non approverebbe mai una legge che comportasse uno stato letargico irreversibile nella popolazione (a meno di interventi di Principi Azzurri). I prodotti agricoli biodinamici, invece, per quanto fondati su principi esoterici e pratiche taumaturgiche, sono salutari. Sarei ingenuo a meravigliarmi che nel 21° secolo ci siano ancora rigurgiti di pensiero magico e scorie di Medioevo. La Storia non segue un percorso evolutivo lineare e Giambattista Vico ci ammonisce che spesso ripassa in punti da cui sembrava essersi allontanata definitivamente. Tuttavia, pur concedendo tutte le attenuanti, uno sproposito del genere è davvero inconcepibile. La senatrice Cattaneo, unica voce che si sia alzata a censurare una tale condotta, ha poi riferito che molti colleghi le hanno confidato di non essere a conoscenza di cosa fosse l’agricoltura biodinamica e di aver votato il pacchetto nella sua interezza, per il contenuto -sotto altri aspetti- condivisibile. Come faccio qualche volta, vorrei prendere spunto da questa vicenda non per muovere una critica illuminista e razionale ai principi ispiratori della biodinamica, ma per fare una riflessione sull’insegnamento che se ne può trarre. Infierire sui biodinamici, sarebbe peggio che prendersela con i terrapiattisti. I terrapiattisti almeno cercano di fornire prove per le loro tesi stravaganti. I biodinamici invece si affidano alla credenza arbitraria di poter intercettare e convogliare nel terreno le “forze cosmiche”, di catturare le “energie vitali” asservendole ai propri scopi. Cantava Renato Rascel, riguardo alla Fontana di Trevi che “se ce butti n’ sordino, costringi er destino a fatte tornà”. Se non fosse che Renatino premetteva che era una leggenda romana, il livello sarebbe più o meno lo stesso. E allora quali sono le riflessioni?

Primo, l’utilità della presenza di senatori/senatrici a vita. Istituto spesso contestato, giudicato a volte un anacronistico mandato vitalizio, come quello del Papa e della Regina d’Inghilterra, che in questa vicenda mostra invece l’importanza e la dignità del ruolo. Come recita l’articolo 59 della Costituzione Repubblicana, l’incarico è riservato a cittadini italiani che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Uno scienziato in Senato non è fuori posto. Può ricondurre alla ragionevolezza quanti per distrazione o superficialità non si siano resi conto del significato del testo che stanno votando. La scienza è il setaccio per discriminare il grano della conoscenza dalla gramigna della superstizione, ma è anche lo spartiacque che separa la sacrosanta dialettica tra le opinioni, dalla insindacabilità del dato di fatto.

Secondo. D’accordo, un senatore e una senatrice che svolgano diligentemente il loro lavoro sono oppressi da innumerevoli compiti e impegni. Di conseguenza, qualche cavillo introdotto con destrezza in un pacchetto di provvedimenti sottoposti a votazione può comprensibilmente sfuggirgli. Ma le commissioni parlamentari non dovrebbero vigilare perché una cosa del genere non si verifichi? E, più controversa (o improponibile) è la questione, maggiore non dovrebbe essere la cautela? Scrive l’Accademia dei Lincei: «Biologico e biodinamico possono sembrare termini simili -e in generale tutto ciò che ha il prefisso “bio” è oggi percepito come “naturale” e quindi sano e salutare- ma l’agricoltura biodinamica è qualcosa di assai diverso, talmente diverso che il nostro Senato dovrebbe riconoscere come grave errore l’avere attribuito alla biodinamica uno status tale da poter essere addirittura sostenuta e incentivata a spese dei contribuenti». Sarebbe bastato consultare uno dei suoi membri (o un docente universitario, o un ricercatore di un ente pubblico) esperto di agricoltura o di biologia, per non incorrere in un errore madornale. Non sarebbe il caso che il governo intervenisse? Prego qualche esperto di Diritto costituzionale di voler soccorrere un povero fisico…

Terzo. La solidità del sistema bicamerale. I tempi di approvazione delle leggi, spesso molto lunghi, periodicamente inducono qualcuno a chiedere la modifica dell’attuale assetto parlamentare. Un sistema, si dice, ridondante, con due assemblee adibite al medesimo compito. È vero, al medesimo compito. Qui però non si tratta di un compito qualunque, qui si legifera per conto e mandato del Popolo. E quando c’è il rischio di errori con gravi ripercussioni, i sistemi di controllo devono necessariamente essere ridondanti. Un pilota di macchine da corsa deve avere sia il casco, che la cintura, che l’airbag, e tutti in perfetta efficienza.

Confido che la Camera dei Deputati, alla luce di quanto emerso, rimedierà a questo sproposito. Ma in assenza della seconda Camera, come si sarebbe potuto rimediare? Recitando il mea culpa collettivo nell’aula? O forse invocando l’intervento della Consulta? D’altronde in qualche anfratto della Costituzione, deve pur esserci una norma che ripudia l’Abracadabra, così come fa con la guerra, no? O, magari, introducendo il diritto di recesso entro 30 giorni: se non si è soddisfatti della legge che si è appena votata si cambia, così come si fa col golfino di cachemire che ci si pente di aver comprato. Mi affido di nuovo allo stesso esperto di Diritto. Perdonatemi, so di non essere all’altezza. Ma, in questa faccenda… non sono il solo che dovrebbe confessarlo! Valerio Rossi Albertini

Dagospia il 18 giugno 2021. In un Paese come l’Italia che è leader in Europa nel numero di imprese impegnate nel biologico occorre approvare subito la legge nazionale, senza cambiamenti strumentali finalizzati a bloccare il definitivo via libera. E’ quanto afferma la Coldiretti nel sottolineare che l’Italia attende la normativa di settore dell’agricoltura biologica da anni. Si tratta di un sistema che impegna oltre 80mila operatori a livello nazionale con consumi in crescita a due cifre per un totale stimato in oltre 3,3 miliardi di euro sotto la spinta della svolta green negli acquisti indotta dalla pandemia. D’altra parte l’agricoltura biodinamica è stata sempre equiparata al biologico ai sensi della legge fin dalla prima presentazione del Ddl di settore nel 2008 e tale disposizione è stata confermata in ogni passaggio alle Camere. In un momento difficile per l’economia e l’occupazione, l’impegno del Governo per l’approvazione del Ddl nel settore della bioagricoltura, che comprende anche l’agricoltura biodinamica, è un riconoscimento al lavoro di tanti imprenditori di fronte ad un mercato in forte crescita” afferma la Coldiretti nel corso dell’incontro con l’associazione dei produttori biodinamici. Libertà di impresa significa anche garantire la convivenza dei diversi approcci agricoli che tutti insieme nel rispetto della salute e dell’ambiente, senza esclusioni e discriminazioni, contribuiscono allo sviluppo dell’Italia.

Roberto Defez, Membro dell’Accademia nazionale dell’agricoltura, per “La Stampa” il 18 giugno 2021. Il fondatore di Slow Food Carlin Petrini su La Stampa del 14 giugno se la prende con gli scienziati che «sono poco inclini al dialogo e con la certezza di essere in possesso della verità assoluta». Il tutto per blindare la legge che equipara le procedure esoteriche del biodinamico al biologico. Ma la scienza non ha mai certezze su nulla, dice cosa è più probabile che accada, sono le sette politico-religiose ad avere certezze assolute. Soprattutto non si capisce l'accusa di avversare il Ddl 988 sull' agricoltura biologica, quando noi protestiamo e continueremo a strillare ai quattro venti la nostra indignazione, solo contro il biodinamico. Quando dico «noi», intendo cittadini e scienziati come Cinzia Caporale, Alberto Mantovani, Giuseppe Remuzzi, Giorgio Parisi, Vittorino Andreoli, Antonella Viola, Giorgio Cantelli Forti e 34mila persone, tra cui gli scienziati all' estero di Airi (Associazione internazionale ricercatori italiani), che hanno firmato la «Petizione sullo stato giuridico dell'Agricoltura Biodinamica in Italia». Basterebbe rimuovere la parola biodinamico dal Decreto legge 988 in discussione e nel giro di 15 giorni il decreto può passare in sede legislativa nelle Commissioni di Camera e Senato senza passare per l'Aula. Invece no, si preferisce una difesa ottusa e mistificatoria di una pratica che usa parti di animali riempiti di vegetali e irradiati da fumose energie cosmiche per propiziare riti esoterici che nulla hanno a che vedere con l'agricoltura biologica. Il biologico ha un disciplinare europeo dal 1991, il biodinamico non ha nessun disciplinare, né in Europa né in Italia. Chi dice che esiste un disciplinare biodinamico europeo mente. Anzi, solo Demeter International può certificare la definizione di Agricoltura Biodinamica, visto che ne detiene il marchio registrato: autorizzare il biodinamico per legge sarebbe una privatizzazione dei sostegni all'agricoltura pagati dalle tasse dei cittadini elargiti ad una entità tedesca che non deve depositare bilanci. Ma Carlin Petrini ci dipinge come i difensori dei veleni nel piatto, solo perché non guarda nel suo piatto. La sua organizzazione per decenni ha organizzato Terra Madre, una fiera internazionale dell'agricoltura dei Paesi meno fortunati (o forse più fortunati, secondo chi guarda?) che faceva arrivare a Torino contadini da quattro angoli del pianeta. Non a piedi, non in barca a vela, ma pagando loro biglietti aerei. A migliaia di contadini. Se volessimo fare il bilancio in termini di emissioni di gas serra per Terra Madre ci sarebbe da far impallidire le centrali a carbone, ma erano altri tempi e far arrivare migliaia di persone consumando tonnellate di kerosene era considerato meritevole. Greta non era ancora arrivata a ricordare a tutti, soprattutto a chi difende i riti magici, che lei non ha soluzioni, ma dice «ascoltate gli scienziati». E sono decenni che gli scienziati dicono che i viaggi aerei emettono fiumi di gas serra. Analogamente, all' uscita dal secondo conflitto mondiale il mondo aveva fame, l'Europa aveva morti per fame. Serviva produrre e dare cibo a miliardi di persone. Eravamo poco più di 2 miliardi ora siamo oltre 7 miliardi e, soprattutto grazie alla Rivoluzione Verde, tanto criticata oggi da Petrini, abbiamo sfamato l'Europa e salvato dalla morte per fame miliardi di vite umane dal Messico all' India. Le persone a grave rischio denutrizione sono scese dal 37 per cento della popolazione mondiale a poco più del 10 per cento secondo i dati Fao e di certo non con l'agricoltura biodinamica. Facile ora, con la pancia piena e sorseggiando un raffinato vino di un terroir, criticare quel modello agricolo che di certo ha usato troppi agrofarmaci e che già oggi ne usa forse un decimo di allora. Non sorprende che Petrini non faccia autocritica sulle emissioni inquinanti della sua Terra Matrigna. Si tende spesso a guardare il pelo nell' occhio del vicino, illudendosi che le energie cosmiche del biodinamico facciano evaporare le travi che ci rendono orbi.

Paolo Bàrberi, Professore di Agronomia, Scuola Superiore Sant' Anna di Pisa, per "la Stampa" il 18 giugno 2021. Nella sua lettera pubblicata il 14 giugno, Carlo Petrini ha inquadrato perfettamente il tema della sostenibilità dei sistemi agro-alimentari, evidenziando con pacatezza e lucidità perché è necessario un cambiamento radicale: la cosiddetta «transizione agroecologica» tanto cara alla Commissione Europea. Questa passa anche attraverso l'approvazione del disegno di legge nazionale sul biologico, oggetto di una velenosa campagna di disinformazione. I denigratori dell'agricoltura biologica usano toni aggressivi ed argomenti basati su parte delle evidenze scientifiche, selezionate ad arte in modo che emergano i risultati che fanno comodo alle loro teorie. Per l'agricoltura biodinamica, poi, termini come «esoterismo», «stregoneria», «magia», «frode», «pseudoscienza» si sprecano, con linguaggio ed atteggiamenti più consoni ad un troll da social network che ad uno scienziato. Il risultato è quello di generare confusione piuttosto che fare chiarezza. Credo che nessuno dei denigratori abbia mai visitato un'azienda biodinamica (forse neppure una biologica) o abbia parlato con questi agricoltori. Qualsiasi persona dotata di una minima curiosità e non obnubilata dai propri dogmi - caratteristiche che dovrebbero far parte del Dna di ogni scienziato - sarebbe tornata a casa almeno con un sano dubbio. Non sulla liceità degli aspetti spirituali dell'antroposofia, che fanno parte - così come la religione - della sfera personale e sui quali la scienza non può e non deve intervenire, quanto sull' aderenza tra l'approccio sistemico dell'agricoltura biodinamica e i fondamenti della scienza ecologica e del paradigma dell'economia circolare. In un'ottica di sostenibilità, l'approccio sistemico tipico dell'agricoltura biologica e biodinamica è assai più importante dell'esistenza o meno dell'effetto del cornoletame e degli altri preparati e meriterebbe - questo sì - una vera discussione scientifica in relazione all' approccio ipertecnologico e riduzionista che ad esso si contrappone. Nessuno, neppure Petrini, nega l'importanza che la rivoluzione verde ha avuto nel dopoguerra. Ma negare gli enormi danni che l'agricoltura industrializzata ha fatto al pianeta significa voler deliberatamente saltare a piè pari il dibattito sulla sostenibilità che ha caratterizzato la scienza degli ultimi 30 anni e oltre. E' bene anche tener presente i limiti dell'approccio riduzionista nello studio di sistemi per definizione complessi quali quelli agricoli. Petrini ha ragione quando dice che non bisogna produrre di più ma meglio. Questo significa produrre con maggiore efficienza e minore impatto ambientale, ridurre la distanza tra luoghi di produzione e consumo, adottare diete più salutari, e favorire la ridistribuzione del cibo, per far sì che tutti abbiano alimenti a sufficienza e di buona qualità. Le stime sulla diminuzione della produzione per ettaro con l'agricoltura biologica variano tra l' 8 e il 25%. È più importante colmare questo gap o ridurre lo spreco alimentare, considerando che nel mondo occidentale stiamo gettando via un terzo del cibo che produciamo con sistemi di tipo industriale? Studi Fao ci dicono che, se esprimessimo lo spreco alimentare in termini di emissioni di gas a effetto serra, questo sarebbe il terzo «Paese» al mondo in termini di emissioni globali dopo la Cina e gli Usa. Teniamo presente che negli ultimi 20 anni le produzioni di cibo su scala globale sono aumentate di circa il 50% per le coltivazioni, la carne e il latte e il 40% per il pesce, ma lo hanno fatto a discapito della quantità e qualità delle risorse naturali e con crescente impiego di concimi e pesticidi. Uno studio su Lancet ha evidenziato che, se reindirizzassimo le diete e i sistemi produttivi in senso sostenibile, ci sarebbe cibo sufficiente per oltre 10 miliardi di persone. Inoltre, potremmo ridurre di oltre il 20% i decessi per malattie legate a disordini alimentari, pari a circa 11 milioni di vite umane all' anno. L' agroecologia, paradigma emergente a cui si rifanno anche le agricolture di tipo biologico, è riconosciuto come l'approccio più promettente per reindirizzare i sistemi agro-alimentari in senso sostenibile. Agroecologia significa utilizzare tecniche che valorizzano e proteggono le risorse naturali e la biodiversità e le sinergie tra microrganismi, piante e animali, riducendo gli input per ottenere produzioni stabili e di elevata qualità, da sistemi diversificati resilienti ai cambiamenti climatici. Tutto questo è supportato da un crescente numero di evidenze scientifiche. Riguardo alla qualità dei prodotti biologici e al loro effetto sulla salute, esistono numerosi studi che ne mettono in luce gli effetti positivi. Se non esistono differenze sostanziali tra prodotti biologici e convenzionali nel rischio di contaminazione da colibatteri e altri patogeni, il contenuto in residui di pesticidi è largamente inferiore nei prodotti biologici. Batteri resistenti agli antibiotici sono stati isolati in misura maggiore nei prodotti convenzionali, ulteriore prova del fatto che l'enorme uso di antibiotici negli allevamenti è un serio fattore di rischio per la salute umana oltre a quello legato alle zoonosi. In genere i prodotti biologici hanno un maggior contenuto in vitamine, carotenoidi, antiossidanti e acidi grassi benefici e un minor contenuto in cadmio e micotossine, mentre i prodotti convenzionali hanno un contenuto superiore di proteine, amminoacidi, iodio e selenio. Il consumo di alimenti biologici ha numerosi effetti benefici sulla salute, ad esempio la minore incidenza di preeclampsia nelle donne in gravidanza, la migliore qualità dello sperma e la minor incidenza di malattie cardiovascolari, mentre non sono state osservate differenze di rilievo rispetto al consumo regolare di alimenti convenzionali per l'incidenza di diversi tipi di tumore. Un articolo ha dimostrato come bastino sei giorni dal passaggio da dieta convenzionale a biologica per ridurre la concentrazione di pesticidi nelle urine tra il 37 e il 95%. Non dimentichiamo, infine, l'enorme ruolo che l'agroecologia e l'agricoltura biologica hanno nella rivalutazione socio-economica dei territori rurali. Certamente l'agricoltura biologica presenta margini di miglioramento ed è in questa direzione che si dovranno indirizzare gli sforzi della ricerca. È lecito che gli scienziati si indirizzino verso lo studio di modelli produttivi anche molto diversi e che parte di essi non abbia in simpatia le agricolture di tipo biologico. Ma la discussione non deve mai travalicare i confini dell'etica scientifica. Le campagne di disinformazione a cui stiamo assistendo stanno arrecando un danno enorme non al tanto al biologico o al biodinamico quanto alla scienza stessa. Spero che questi sedicenti scienziati se ne rendano contro prima che sia troppo tardi.

Carlo Petrini per “La Stampa” il 14 giugno 2021. Conosco personalmente molti produttori italiani, europei e di altre parti del mondo che hanno fatto dell'agricoltura biodinamica il faro delle loro scelte produttive. Definirla una pratica esoterica o un'aberrazione normativa da ciarlatani mi sembra un giudizio pressapochista e sintomo di non conoscenza. Eppure sono proprio queste le parole con cui alcuni scienziati, poco inclini al dialogo e con la certezza di essere in possesso della verità assoluta, hanno definito il riferimento all'agricoltura biodinamica, nel più ampio disegno di legge sul biologico approvato in Senato lo scorso 20 maggio. Ora, a causa del polverone mediatico sollevato da queste accuse, si teme che la Camera stravolga il testo di legge, allungando ulteriormente un riconoscimento normativo atteso da più di 15 anni. La situazione che si è generata è sintomo di un vecchio paradigma riduzionista duro a morire, che vede la realtà a compartimenti stagni. E, badate bene, io sono tutto fuorché un oppositore del metodo scientifico. Penso però che questo debba essere applicato con un'attenta dose di buon senso e non con una fiducia - quasi mistica - che possa funzionare sempre e in ogni ambito. Lo scenario agricolo mondiale attuale, con la chimica di sintesi che dalla Rivoluzione Verde in poi è diventata la prassi del ciclo produttivo del cibo, è un esempio lampante delle drammatiche conseguenze di quando ciò avviene. Pensare di poter abusare di input artificiali esterni per perseguire l'aumento delle rese agricole senza incidere negativamente sull'ecosistema, la sua biodiversità e il clima non è stato altro che uno specchietto per le allodole. Nel breve periodo è infatti stato un rimedio valido al problema della fame, abbattendo i costi, aumentando le quantità e rendendo l'attività agricola meno incerta. Sennonché, dopo decenni di applicazione indiscriminata di un modello intensivo e industriale, ci troviamo a fare i conti con un impoverimento della flora e della fauna, suoli degradati, falde acquifere e aria inquinate. D'altronde anche le esigenze odierne sono cambiate e mi chiedo in quale mondo vivano gli scienziati anti-biologico e biodinamico, quando affermano che l'interesse nazionale sia ancora l'aumento della produttività. In una società dove il sistema alimentare inquina, spreca e ammala, mi sembra molto chiaro che la prerogativa non è più produrre di più con meno, ma meglio.  Nel rispetto della Terra attraverso pratiche rigenerative non energivore o depauperanti. Di coloro che la coltivano, nella libertà di compiere le proprie scelte, riconosciuti e tutelati anche dal punto di vista normativo. Di tutti noi cittadini che abbiamo il diritto a un cibo sano e che soddisfi il fabbisogno nutrizionale e non solo quello energetico. Un cibo corredato di un'etichetta trasparente che spieghi come è coltivato e quali sostanze sono state impiegate. Sembra strano che chi coltiva in modo naturale è sottoposto a controlli e lo deve dichiarare, mentre chi usa chimica a manetta non è soggetto a nessuna verifica. Quindi, miei cari scienziati scettici, non si tratta di favorire gli agricoltori biologici e biodinamici perché ci stanno più simpatici. Bensì di disporre di un modello, anche normativo, alternativo a quello convenzionale. Questa è anche la direzione indicata dall'Unione Europea che individua il 25% della superficie agricola coltivata a biologico entro il 2030 (rispetto al 7% del 2020), come un obiettivo cardine per rendere il sistema agroalimentare più sostenibile e favorire la transizione ecologica. La modernità agricola è nelle mani di coloro che, lavorando la terra, coniugano i vantaggi offerti dalle innovazioni tecnologiche con i saperi e le pratiche ancestrali. Garantendo il rispetto delle esigenze ecosistemiche. Gestendo le risorse naturali e limitando le esternalità. Assicurando una produzione adeguata in qualità e quantità. Un ambito d'azione che deve essere tutelato e rispettato perché in definitiva è il lavoro contadino che sfama il mondo, e non la scienza, che deve quindi essere supporto e non egemonia.

Giuliano Aluffi per “Il Venerdì – La Repubblica” l'11 giugno 2021. Il mondo bio è sotto tiro. Dopo l'intervento in Parlamento della senatrice e scienziata Elena Cattaneo contro i fondi pubblici all' agricoltura biodinamica, ma anche contro il biologico, che in un'intervista sul Venerdì del 28 maggio aveva definito «una narrazione bella e impossibile», sui media ferve la discussione tra pro o contro. Prima di entrare nel merito della questione, conviene però distinguere tra i due metodi. Mentre il biodinamico, che si ispira alle teorie di Rudolf Steiner, ha anche degli aspetti esoterici (come l'uso di interrare nei campi del letame infilato nel corno di una vacca che abbia partorito una volta, o il ritenere che l'achillea maturata in vescica di cervo crei un rapporto tra terra e cosmo), il biologico è stato oggetto di serie indagini scientifiche. Partiamo dai numeri, che in Italia sono notevoli: il biologico copre circa due milioni di ettari di superficie, tra terreni agricoli e pascoli, con i primi che contano per il 15,8 per cento della superficie coltivata totale, dato superiore alla media europea (8 per cento). Il metodo, che consiste nella rinuncia a pesticidi, erbicidi e fertilizzanti chimici, non è esente da critiche.

LA PRINCIPALE RIGUARDA LA MINORE RESA

«Mediamente la resa del biologico è circa del 15-20 per cento inferiore rispetto al convenzionale. Non è una differenza drammatica» dice Paolo Barberi, docente di agronomia alla Scuola superiore Sant' Anna di Pisa. «Inoltre, se si ragiona solo sulla resa "per ettaro e per anno", si trascura la dimensione del tempo: il biologico consente di sostenere le produzioni nel tempo diminuendo progressivamente la necessità di risorse, mentre l'agricoltura classica alla lunga impoverisce il terreno». Il segreto è variare Del resto, ricerche recenti rivalutano l'importanza per la produttività della diversificazione delle colture: ovvero di tutte quelle tecniche, compresa l'agricoltura bio, che aumentano la diversità nei sistemi agricoli, come le rotazioni. «Un sistema poco diversificato è per esempio la coltivazione del mais nell' agricoltura convenzionale, dove, anno dopo anno, si semina solo quello» spiega Barberi. «Invece uno dei cardini del bio è far seguire una coltura cerealicola a una leguminosa: le leguminose infatti fissano l'azoto atmosferico nel terreno rendendolo più fertile, e i cereali gradiscono molto l'azoto lasciato loro in eredità». 

FERTILIZZANTI AGRICOLTURA BIOLOGICA

Uno studio pubblicato lo scorso novembre su Science Advances da un gruppo di ricercatori internazionali, prima firma l'italiano Giovanni Tamburini, confronta la produttività tra sistemi diversificati e sistemi convenzionali. «Nel 63 per cento dei casi esaminati, diversificando si riesce a produrre di più e anche ad aumentare la fertilità del terreno, conservare la biodiversità e promuovere la presenza di insetti impollinatori» dice Barberi. Quanto all' uso di sostanze chimiche tossiche, il bio non è del tutto esente. «È ammesso il solfato di rame come fungicida: finora è stato un elemento importante per la difesa delle colture bio. Ma ormai tra i produttori c' è una forte consapevolezza del problema, e si sta cercando di sostituirlo» spiega ancora Barberi. «Si punta per esempio sulla prevenzione. Nei vigneti si usa una potatura che diradi la densità, in modo che ci sia meno possibilità per l'umidità di ristagnare tra i grappoli creando condizioni favorevoli per le malattie fungine». Detto questo, l'agricoltura bio, per definizione, ha senz' altro un impatto ambientale più leggero di quella convenzionale: «Si usano quantità largamente inferiori di sostanze che peraltro, essendo di origine naturale, sono caratterizzate spesso da una ridotta persistenza ambientale». Mentre i fertilizzanti chimici finiscono nei fiumi e in mare e hanno effetti anche sull' atmosfera. 

L' AMMONIACA CHE INQUINA

«L' agricoltura convenzionale ha avuto la sua rivoluzione grazie a un brevetto Bosch che permette di trasformare prima in ammoniaca e poi in fertilizzanti di sintesi (nitrati) l'azoto atmosferico, che è azoto in forma molecolare, ovvero N2» spiega Lorenzo Ciccarese, responsabile per la conservazione degli habitat terrestri dell'Ispra. «Il problema è che l'agricoltura restituisce in atmosfera delle molecole di azoto diverse da N2, come l'ammoniaca (NH3), che è uno dei principali inquinanti. Dall' agricoltura derivano il 50 per cento delle emissioni di ammoniaca in atmosfera e almeno il 20 per cento delle emissioni totali di gas serra». Non solo. «Nell' agricoltura convenzionale si fa grandissimo uso di fertilizzanti azotati, che inibiscono tutti i batteri utili alle piante per fissare l'azoto, soprattutto i batteri che entrano in simbiosi con le leguminose» spiega Manuela Giovannetti, docente di microbiologia agraria all' Università di Pisa. «E poi tutti i biocidi utilizzati, ovvero pesticidi, erbicidi, insetticidi, fungicidi e battericidi, incidono fortemente sulle comunità microbiche del suolo». Che sono preziose: lo mostrano i dati del cosiddetto "esperimento Doc" (pubblicato su Science) dove si sono confrontate l'agricoltura bio e non bio su un arco di 21 anni. «È emerso che i raccolti "bio" hanno una resa inferiore di circa il 20 per cento, ma aumentano la fertilità del suolo e la biodiversità, rendendo i sistemi biologici più resilienti. Inoltre hanno un consumo di energia del 53 per cento inferiore e un uso di pesticidi inferiore del 97 per cento» dice ancora Giovannetti. «E in questo studio si sono analizzate anche le proprietà fisiche e biologiche dei suoli, trovando che in quelli bio c' è una biomassa microbica più grande e più attiva, che produce enzimi importanti per il riciclo dei nutrienti». Inoltre nei terreni bio aumentano il fosforo, nutriente fondamentale per le piante, e anche, del 40 per cento, la colonizzazione delle piante da parte dei funghi micorrizici. «Questi vivono nelle radici utilizzando in piccola parte il carbonio della pianta, ma in cambio le forniscono nutrienti minerali: prima di tutto il fosforo e l'azoto». Di qui la maggiore fertilità naturale dei terreni bio.

PROTEINE E ANTIOSSIDANTI Per quanto riguarda le capacità nutritive e salutari, «per alcuni parametri - ad esempio la concentrazione di proteine - spesso non ci sono grandi differenze. Nei prodotti bio è però più alta la concentrazione di sostanze benefiche come gli antiossidanti» dice Barberi. E un altro aspetto rilevante è quello socioeconomico: «In Toscana circa il 30 per cento dei terreni agricoli è abbandonato, per mancanza di ricambio generazionale, ma anche perché il sistema agroalimentare classico tende alla riduzione dei prezzi e mette fuori mercato tante produzioni. Uno studio della Commissione Europea evidenzia che i sistemi migliori per contrastare questo fenomeno dell'abbandono sono quelli caratteristici dell'agricoltura bio». 

GIOVANI E AGRICOLTURA Con agricoltori più giovani, più istruiti, più sensibili alla diversificazione delle produzioni e alla cosiddetta "agricoltura multifunzionale", dove si coltiva per produrre ma ci sono anche altre attività, come l'agriturismo o la didattica. «Questo approccio sta determinando importanti situazioni di recupero di terreni abbandonati: ci sono tanti territori marginalizzati dove puntare sul biologico può fare da volano per il recupero sociale ed economico. Per esempio, con i "biodistretti", territori e comuni che si organizzano, rivitalizzando intere zone altrimenti destinate al degrado».

Kernza, il grano perenne per battere la siccità e la crisi climatica. Giacomo Talignani su La Repubblica il 20 ottobre 2021. In America il "cugino del grano", che è perenne, sta per prendere piede sul mercato. Altrove si recuperano vecchi semi e colture. Per gli scienziati l'imperativo è trovare alternative resistenti alla crisi climatica e altamente sostenibili. Per anni, le speranze riposte nel Kernza sono rimaste una scommessa difficile da decifrare. Per fortuna, ora che l'impatto dell'emergenza climatica e la carenza di risorse idriche sono all'ordine del giorno, quei piccoli semi studiati in laboratorio sembrano ormai pronti a fare la differenza. Negli Stati Uniti, dal Minnesota al Wyoming dove viene coltivato, sino ad altri Stati dove è usato persino per fare la birra, sta prendendo sempre più piede questa pianta, conosciuta come cugino del grano, che ha una caratteristica estremamente vantaggiosa: è perenne.

IL KAMUT NON ESISTE. Report Rai PUNTATA DEL 07/06/2021 di Bernardo Iovene. Kamut non è un tipo di grano, ma un marchio statunitense che designa una varietà selezionata di una particolare sottospecie di grano coltivato in Canada. L’Italia rappresenta il 75% del mercato di questo marchio. Per anni si è confuso il marchio con il grano, che è una varietà antica coltivata anche nel nostro paese, essenzialmente biologica. Anche il grano a marchio Kamut è rigorosamente biologico, ma ultimamente uno dei principali produttori di pasta lo ha declassato a convenzionale. Come mai? Documentazione riservata di cui Report è venuto in possesso dimostra la contaminazione da glifosato di vari container di grano a marchio Kamut. La notizia è rimasta segreta, ma Alce Nero ha deciso di dismettere il marchio Kamut, che era il prodotto più venduto e NaturaSi ha espresso davanti alle nostre telecamere analoga intenzione.

IL KAMUT NON ESISTE di Bernardo Iovene Collaborazione Greta Orsi Immagini di Cristiano Forti, Giovanni De Faveri , Alfredo Farina e Dario D’India

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Kamut è un marchio che utilizza il grano Khorasan o Turanico. Un grano antico, ma noi in Italia continuiamo a dire “il Kamut”. Questo fa capire quanto sia diventato potente questo marchio nell’immaginario del consumatore

BERNARDO IOVENE Alce Nero azienda biologica cento per cento, prima facevate il Kamut?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Per tanti anni.

BERNARDO IOVENE Si può dire “il Kamut”? Esiste il Kamut?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Allora il Kamut è un marchio. È un marchio registrato, quindi si può dire ma è un marchio e non è un grano. Il grano è appunto il Khorasan.

FAUSTO JORI – AMMINISTRATORE DELEGATO ECORNATURASÌ Kamut non è un nome di un grano, è il nome di un’azienda. In qualche maniera o un nome privato nel senso registrato.

RICCARDO FELICETTI – AMMINISTRATORE DELEGATO PASTIFICIO FELICETTI Spesso si è confuso Kamut con una specie varietale.

BERNARDO IOVENE C’è stata intenzione in questo?

RICCARDO FELICETTI – AMMINISTRATORE DELEGATO PASTIFICIO FELICETTI Ma io credo che ci sia stata superficialità. È come quando prendiamo il nastro adesivo, si dice “passami lo scotch”.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO C’è cascata anche l’Europa: nel 2011, tra i cerali che possono provocare intolleranze - parliamo di glutine- ha inserito, tra grano, segale, orzo, avena, farro, anche Kamut, il nome del marchio commerciale.

TOMMASO CARONE – TITOLARE AZIENDA SANTACANDIDA Successivamente un regolamento delegato numero 78 del 2014 ha fatto degli errata corrige.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nel 2014 l’Europa si accorge del grave errore.

BERNARDO IOVENE Kamut è un marchio registrato di un tipo di grano, noto come grano Khorasan.

TOMMASO CARONE -TITOLARE AZIENDA SANTACANDIDA 2 Ma intanto nel corso della storia alla massa comune di gente gli è rimasto inculcato. BERNARDO IOVENE Il Kamut non è…

TOMMASO CARONE – TITOLARE AZIENDA SANTACANDIDA Lei continua a metterci l’articolo perché lei pensa che la gente lo conosca così.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un equivoco che ha contribuito alla fortuna in Italia di Kamut, un prodotto tra i più costosi sugli scaffali tra farina e pasta, derivati da un grano biologico voluto dal fondatore americano Bob Quinn. Oggi l’amministratore delegato è suo nipote Trevor Blyth.

BERNARDO IOVENE Il regolamento europeo ha messo il kamut addirittura nel 2011 nei cereali. Siete stati furbetti, è vero?

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL C'erano informazioni errate nel regolamento e questo ha richiesto diversi anni di lavoro per correggerlo, ma vogliamo che i consumatori sappiano che il grano Kamut Khorasan è un marchio che certifica la produzione biologica, e dà garanzia di non essere mai ibridato, mai modificato e mai OGM.

BERNARDO IOVENE Dove viene coltivato?

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL Il Khorasan Kamut è coltivato nel Montana centro-settentrionale e in Canada. L’idea originale di Bob Quinn, mio zio, era di sostenere gli agricoltori locali aumentando il valore di questa speciale varietà di grano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un grano antichissimo, che è nato nell’area del Mediterraneo, poi ce lo ritroviamo coltivato in nord America, dove ci hanno messo un marchio, e lo hanno fatto diventare un simbolo, Kamut. Solo che sono stati bravi a generare un equivoco, a confondere il consumatore, tra marchio e grano. Un equivoco che è anche finito all’interno del Regolamento europeo, questo grazie alla comunicazione. Sono stati anche molto furbi nel cavalcare una leggenda poco credibile. Quella sull’origine del seme, che sarebbe stato ritrovato secondo la leggenda all’interno di una tomba egiziana. Poi però l’hanno seminato in Montana e in Canada. Oggi l’Italia è il primo paese al mondo per importazione di Kamut. È un grano certificato biologico al 100%, e viene controllata tutta la filiera, dal seme alla coltivazione, alla spedizione, all’esportazione. E in Europa c’è una società, in Belgio, che lo distribuisce in esclusiva in tutta la Comunità Europea. Però, quando entra in Italia, per essere certificato biologico, deve avere determinati requisiti, non devono esserci tracce di diserbanti, il glifosato per esempio non può superare lo 0,01mg/kg. Solo che c’è un particolare, che in Canada ne usano tantissimo di glifosato nell’agricoltura convenzionale, ne spruzzano tanto anche con gli aerei, e forse qualche volta qualcosa scappa. Ed è successo che qualcuno all’improvviso è andato a vedere dentro il Kamut importato qui in Italia. Il nostro Bernardo Iovene 

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’Italia è il maggiore cliente di Kamut in Europa e nel mondo, ma della storia dei contadini del Montana e del Canada sulle nostre etichette non c’è traccia. Ad esempio, fino a qualche mese fa, prima che intervenisse l’Antitrust, la De Cecco metteva Kamut in bella vista poi specificava Metodo De Cecco secondo la ricetta di oltre 130 anni, la bandiera tricolore e Made in Italy. Ma dell’origine del grano nessuna traccia. La Coop invece si limita a scrivere -ma ci vuole il microscopio- “agricoltura non Ue”. Siamo stati al pastificio che fa la pasta Kamut per Conad. BERNARDO IOVENE La provenienza di questo grano qua ve la indica Conad?

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI Non Conad, è Kamut.

BERNARDO IOVENE Secondo me vi sbagliate…perché Kamut a noi ha detto “siamo orgogliosi che viene dal Canada”, ma qua non c’è scritto. MAURO TONELLO – PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI C’è scritto, ci dovrebbe essere scritto.

BERNARDO IOVENE E troviamolo, troviamolo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Solo dopo attento studio di tutto il laboratorio del pastificio ne veniamo a capo.

BERNARDO IOVENE È qua: agricoltura non Ue, non Canada, non Ue.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI Non Ue, sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non si capisce, anche se le norme lo permettono, perché noi consumatori dobbiamo essere trattati in questo modo. Dei maggiori pastifici che producono Kamut khorasan in Italia solo Felicetti scrive in modo accessibile alla vista la provenienza.

BERNARDO IOVENE Origine del grano Canada.

RICCARDO FELICETTI – AMMINISTRATORE DELEGATO PASTIFICIO FELICETTI Certo.

BERNARDO IOVENE Voi lo scrivete proprio in bella vista. Tutto quello che arriva in Italia viene da questa zona qua?

RICCARDO FELICETTI - AMMINISTRATORE DELEGATO PASTIFICIO FELICETTI Non lo so.

BERNARDO IOVENE 4 Perché c’è solo un importatore europeo?

RICCARDO FELICETTI - AMMINISTRATORE DELEGATO PASTIFICIO FELICETTI Certo, sì sì.

BERNARDO IOVENE In Italia troviamo scritto Kamut, però, facciamo fatica a capire la provenienza. Se io vedo sull’etichetta devo far fatica a trovarlo “Non Ue”, non c’è scritto Canada.

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL Non controlliamo ciò che menzionano sulla confezione, ma siamo felici quando possiamo parlare di dove è coltivato ormai da 30 anni. I nostri clienti hanno imparato ad apprezzare la costante qualità alta che proviene da questa regione

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questa regione, il Canada, però da noi non gode di buona fama, grazie al massiccio uso di Glifosate, parliamo chiaramente di agricoltura convenzionale. Il nome commerciale è Round up, noi stessi di Report siamo stati proprio in quella zona qualche anno fa.

DA REPORT 30/10/2017 JAMES HAY – REDFERN FARM SERVICES Spruzziamo Round up, principalmente Round up, uccide tutto ciò con cui entra in contatto.

PARRY CHAPMAN – AGRICOLTORE In primavera spruzziamo il glifosato sul terreno prima della semina per uccidere le erbacce. Dopo la semina, quando il grano germoglia, diamo un’altra spruzzata di erbicida, poi il fungicida. Infine, prima del raccolto spruzziamo il glifosato per far maturare in maniera uniforme il grano.

GERAL H. WIEBE - AGRONOMO Il glifosato viene assorbito dalla pianta e finisce dentro i semi, e finisce nei prodotti come la farina, la pasta. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il grano prodotto a marchio Kamut viene presentato come assolutamente biologico. E per essere certificato come tale in Italia i residui di glifosate non devono superare lo 0,01 parti per milione. In maniera esclusiva siamo venuti a conoscenza di un’allerta Glifosate lanciata dalla federazione biologica italiana nel 2017 all’interno del settore e mai uscita all’esterno. FederBio accetta di parlarne.

BERNARDO IOVENE Allora, voi fate l’allarme, no: allerta glifosate su Kamut. Qua io leggo: “Su una spedizione, ben quattro container su cinque sono risultati contaminati”. Quattro container su cinque, contaminazione da glifosate.

PAOLO CARNEMOLLA – SEGRETARIO GENERALE FEDERBIO S. La lamentela sostanzialmente era: ci viene dichiarato conforme e quando arriva in Italia non sempre è conforme.

BERNARDO IOVENE Vuol dire che erano superiori ai limiti consentiti?

PAOLO CARNEMOLLA - SEGRETARIO GENERALE FEDERBIO Allora, il limite in Italia è un limite che è molto basso. 0,01 parti per milione significa… che c’è, punto.

BERNARDO IOVENE Qua si parla anche di frequenti contaminazioni. Questa cosa qua non è solamente quei 4 container?

PAOLO CARNEMOLLA - SEGRETARIO GENERALE FEDERBIO Ma no.

BERNARDO IOVENE No?

PAOLO CARNEMOLLA - SEGRETARIO GENERALE FEDERBIO Allora, parte questa nostra allerta, che dice semplicemente: attenzione, fate più analisi, in sintesi. Questa nostra comunicazione evidentemente è stata mandata da qualcuno di questo indirizzo a Kamut. I quali ci mandano una bella letterina in cui sostanzialmente ci accusano di millantato allarme. Ma nel fare questo dicono: di cosa vi stupite, il glifosate è ampiamente utilizzato non solo in Nord America, ma anche in Europa (inclusa l’Italia). Ricerche lo hanno trovato nel latte materno e nelle urine, ecc ecc, e quindi c’è una presenza diffusa: hanno ammesso che il problema c’era sostanzialmente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La lettera di Kamut è firmata proprio da Trevor Blyth.

BERNARDO IOVENE In Italia siamo venuti a conoscenza che c’è stata una allerta glifosate su Kamut.

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL Questa è un'affermazione abbastanza forte, ne sono sorpreso, perché tutto il grano khorasan Kamut è coltivato biologicamente. Abbiamo un ampio sistema per garantire la correttezza del prodotto e da anni facciamo studi, perché questo non è un problema solo per una regione. Il mondo intero è effettivamente inquinato dal glifosate.

BERNARDO IOVENE Quindi c’è stata questa contaminazione?

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL C'è glifosate ovunque ci sia l'agricoltura convenzionale. Abbiamo controlli nel nostro sistema e in passato abbiamo trovato pochissimi casi di tracce limitate, le abbiamo trovate e bloccate.

BERNARDO IOVENE Noi abbiamo notizie, periodo 2017, quattro container su cinque sarebbero stati contaminati, che c’erano frequenti contaminazioni.

TREVOR BLYTH – PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL 6 Non ne sono a conoscenza, e sono molto sorpreso dei numeri di cui parla. Sono sorpreso e penso che non sia corretto. Il grano Kamut Khorasan viene sempre fornito come biologico certificato, e lo prendiamo molto sul serio.

BERNARDO IOVENE Queste certificazioni avvengono in Canada? Ci può dire quali sono i limiti in Canada?

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL I limiti per la certificazione in Canada non sono importanti per noi. Ciò che conta per noi sono i requisiti in Italia.

BERNARDO IOVENE Ho capito, però Possiamo sapere che tipo di limite c’è in Canada sul glifosate?

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL È più alto ma in realtà non posso dirti quel numero perché non ci faccio caso, perché ci stiamo concentrando sui limiti per l'Italia.

BERNARDO IOVENE È impossibile! Conosce quelli italiani e non conosce quelli in Canada?

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL In Canada l’agricoltura convenzionale utilizza il glifosate. Affinché un prodotto possa essere venduto in Canada come biologico, il limite è più alto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In Europa invece non è ammessa la presenza di glifosate nel biologico e il regolamento dice che nel caso ci fosse un sospetto va fatta un’indagine per eliminare ogni dubbio e capire se è una presenza accidentale oppure una frode. Ed è quello che ha chiesto FederBio, agli importatori, ai molini, all’ente italiano di certificazione, ma dopo l’intervento di Kamut si è fermato tutto.

BERNARDO IOVENE Non si è fatto più nulla?

PAOLO CARNEMOLLA – SEGRETARIO GENERALE FEDERBIO Non si è fatto assolutamente più nulla ed è improvvisamente comparso il Kamut convenzionale sul mercato italiano. La domanda è: perché?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Già. Perché? È l’altra faccia sorprendente di questa storia: in sordina De Cecco, il pastificio più importante d’Italia sulle confezioni di pasta Kamut passa da “grano khorasan da agricoltura biologica” a marchio di grano khorasan non biologico.

BERNARDO IOVENE Come mai non è più biologico il Kamut di De Cecco? Non è biologico, non se ne è accorto nessuno in Italia, però non è biologico. T

REVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL Quando ci sono state sempre più discussioni sul glifosato che forse erano infondate, abbiamo semplicemente preso la decisione di consentire ai nostri clienti di decidere cosa mettere sulle loro confezioni. Quindi preferiremmo che dicesse "biologico" sulla confezione, ma questa è una loro scelta. 7 BERNARDO IOVENE Forse c’è stato qualche problema, no? Non penso che De Cecco avrebbe omesso di scrivere biologico se questo è grano biologico.

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL Penso che questa sia una discussione da avere con De Cecco. Poiché forniamo grano Kamut khorasan sempre come biologico, questo è il nostro lavoro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il grano khorasan a marchio Kamut certificato in Canada, arriva in Europa ad un unico importatore, Ostara in Belgio. In Italia negli stessi container arriva già certificato ai vari Molini che trasformano il grano in semola: qui siamo da Grassi a Parma, è uno dei più importanti, ed è il fornitore di De Cecco. Un ex dirigente del pastificio ci mostra una email che comunica la decisione presa dal Cavalier De Cecco in persona.

EX DIRIGENTE DE CECCO Di seguito riporto quanto discusso questa mattina con il presidente, che è il Cavaliere Filippo Antonio De Cecco, per la questione Kamut: è stato deciso che proseguiremo la produzione delle linee pasta di kamut e dei prodotti Bakery a base Kamut in modo convenzionale - tra virgolette- ossia non dichiarandoli bio.

BERNARDO IOVENE Perché non era biologico?

EX DIRIGENTE DE CECCO E certo. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella stessa email chiede di autorizzare il Molino Grassi, di trasformare le 327 tonnellate di grano che gli avevano bloccato. Inoltre ordina a Ostara, unico importatore europeo di Kamut, i quantitativi di grano Kamut necessari al fabbisogno e che erano stati sospesi. EX DIRIGENTE DE CECCO Evidentemente dalle analisi questo risultava: non riuscivano a mantenere la qualifica di “bio”. C’è un’altra mail dell’ex amministratore delegato del 10 ottobre…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da dove si evince che non solo la decisione del presidente di andare sul “no bio” è dovuta al fatto che le semole non garantiscono la qualità bio, ma la scelta non biologica porterà nelle casse di De Cecco un risparmio complessivo di 500mila euro l’anno.

EX DIRIGENTE DE CECCO Quindi il passaggio da Kamut a Khorasan per la De Cecco, porta un vantaggio di mezzo milione di euro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, De Cecco con noi non ha voluto parlare, ma è un dato di fatto che dalle sue confezioni di pasta ha tolto la parola “bio”, ha lasciato solo il marchio Kamut. Gli va dato atto che nella sua strategia di non correre rischi è stata però trasparente nei confronti dei consumatori. Gli viene facile però, lo dobbiamo dire, perché quando punti su un marchio così forte come quello di Kamut anche se togli la parola “bio”, insomma, la 8 gente, i consumatori che lo acquistano hanno la sensazione di comprare qualcosa di biologico a prescindere. Però, insomma, che cosa è successo? È successo che all’improvviso, su cinque container, quattro che importavano grano Kamut avevano delle tracce di glifosate. Ora non è ovviamente un problema di salute, lo diciamo chiaramente, ma di certificazione biologica sì. Perché in Italia non sono consentite, tollerate presenze di glifosato superiori allo 0,01 milligrammi per chilogrammo. Ora, in base al sistema delle certificazioni europee, se uno importa grano non europeo, quindi non Ue, deve in qualche modo accettare la certificazione del Paese che importa questo grano, in particolare è la ditta del Belgio. Poi le ditte italiane, che a loro volta lo importano e lo lavorano, se vogliono, possono fare della analisi indipendenti. De Cecco l’ha fatta e ha tolto la parola “bio”. La Coop, che abbiamo consultato, invece, pare non sia interessata. La Conad con noi non parla per principio, però il nostro Bernardo Iovene ha rintracciato i pastai che per Conad preparano la pasta col Kamut. Come si sono comportati?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo al pastificio Ghigi dove fanno pasta con proprio marchio e per conto terzi e anche pasta kamut per Conad, ci sono pervenute in forma anonima le analisi su un lotto di semola Kamut che il pastificio acquista dal Molino Grassi, con la presenza di glifosate oltre i limiti consentiti nel biologico 0,023.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI Rientravano alla fine nei limiti biologici della contaminazione. BERNARDO IOVENE Quello che ho io è 0,023. Dovrebbe essere 0,01, siamo molto oltre diciamo.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI Sì.

BERNARDO IOVENE E quindi se si trova lì deve essere declassificata. Però, avete chiamato Kamut, avete chiamato qualcuno quando l’avete trovata?

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI Certo, l’abbiamo trovata e abbiamo segnalato il problema a Kamut, che però ci diceva che a lui non risultava e quindi ci invitava a fare contro analisi.

BERNARDO IOVENE Contro analisi nello stesso laboratorio?

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI No, un altro laboratorio.

BERNARDO IOVENE Scelto da voi o indicato da loro?

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI È un laboratorio riconosciuto…

BERNARDO IOVENE Ma indicato da loro o scelto da voi?

MAURO TONELLO - PRESIDENTE PASTIFICIO GHIGI No, abbiamo scelto noi. È un nostro laboratorio con cui lavoriamo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La nostra fonte ci dice invece che il laboratorio sarebbe stato indicato da Kamut, e non ha riscontrato tracce di glifosate eccedenti per il biologico. A questo punto uno dei due laboratori si è sbagliato. Il Molino Grassi che trasforma il grano Kamut in semola ci scrive che non risultano segnalazioni da parte dei clienti in merito alla presenza di glifosate. NaturaSì è la catena di distribuzione simbolo del biologico, fanno contro analisi di tutti prodotti che vendono, in periodo di allerta hanno trovato tracce sulla pasta.

FAUSTO JORI - AMMINISTRATORE DELEGATO ECORNATURASÌ Abbiamo trovato sul grano direttamente un risultato di 0,013. Quindi che essere 0.01, è 13. E abbiamo rifiutato. Questo qui sostanzialmente abbiamo respinto la partita. BERNARDO IOVENE Sempre di Kamut?

FAUSTO JORI - AMMINISTRATORE DELEGATO ECORNATURASÌ Sempre di Kamut

BERNARDO IOVENE Però mi parli chiaro: voi lo state dismettendo proprio perché avete trovato delle tracce anche se al di sotto della legge?

FAUSTO JORI - AMMINISTRATORE DELEGATO ECORNATURASÌ Allora, direi: noi cerchiamo di spostare tutti i nostri prodotti nel nostro ecosistema.

BERNARDO IOVENE Quindi voi tra poco non lo vendete più il Kamut

FAUSTO JORI - AMMINISTRATORE DELEGATO ECORNATURASÌ Noi stiamo spingendo molto sul triticulturanico. Visto che il triticulturanico è esattamente della stessa sottospecie.

BERNARDO IOVENE Quindi state spingendo il grano italiano e un po’ alla volta il Kamut non lo venderete più?

FAUSTO JORI - AMMINISTRATORE DELEGATO ECORNATURASÌ Tendenzialmente è una strada che stiamo percorrendo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una strada percorsa già da Alce nero. Alcuni dei prodotti Kamut erano in assoluto quelli più venduti, ma da qualche anno, sarà un caso, proprio in coincidenza dell’allerta glifosate ci hanno rinunciato.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO A noi è capitato di trovare delle tracce, assolutamente nei limiti di legge, poi credo che ci sia stato chi ha avuto dei problemi più grossi dei nostri, non soltanto tracce. Chiaro che un prodotto biologico il glifosate non ce lo deve avere. La nostra decisione è stata quella di lasciare il Kamut e di passare al Khorasan, fatto in Italia. Il nostro obiettivo era fare una filiera in Italia.

BERNARDO IOVENE E quindi adesso abbiamo questo qua: questo qui è Khorasan, quindi vuol dire che ce l’abbiamo italiano?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì, anche se per noi oggi è un prodotto decisamente marginale rispetto a quello che era il Kamut

BERNARDO IOVENE Ci avete perso?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Dal punto di vista del fatturato molto.

BERNARDO IOVENE Masochisti proprio siete?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Abbiamo un po’ sottovalutato la forza della notorietà del marchio.

BERNARDO IOVENE Del marchio canadese…

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Certo. Però l’avevamo messo in conto.

BERNARDO IOVENE Secondo lei perché Alce Nero ha lasciato Kamut?

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL Ci è dispiaciuto che Alce Nero abbia lasciato il nostro progetto. Non conosco le ragioni della loro decisione. Siamo anche rimasti delusi dal fatto che NaturaSì stia lasciando Kamut. Anche loro si stanno concentrando sul sostegno agli agricoltori locali, allo stesso modo è iniziato il nostro progetto.

BERNARDO IOVENE È chiaro che ha influito aver trovato, attraverso analisi che noi abbiamo anche visto, questi residui di glifosate, che ci sono stati.

TREVOR BLYTH - PRESIDENTE KAMUT INTERNATIONAL Il grano Kamut khorasan viene sempre fornito come biologico certificato ed è una cosa che prendiamo molto seriamente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sicuramente. Ma se poi vuoi essere certificato “bio” anche qui in Italia, le tracce di glifosate sul grano non possono superare lo 0,01 mg per kg. Qui invece siamo arrivati allo a 0,013. Non è un problema di salute, lo ribadiamo, è solo un problema di certificazione bio e NaturaSì, che punta tutto sul bio, si è fatta le analisi in maniera indipendente e ha deciso di sostituire i fornitori canadesi e puntare tutto sui coltivatori locali di grano Khorasan, insomma pensa anche di poter controllare meglio tutta la filiera; stessa strategia la ha adottata anche Alce Nero che, però, abbiamo sentito, ha pagato caro il fatto di aver abbandonato un marchio consolidato come quello del Kamut. 11 Ma perché questo grano è tanto ricercato, chi mangia un piatto di pasta fatta con grano Khorasan o Kamut, a marchio Kamut, cosa mangia?

BERNARDO IOVENE Questo è khorasan.

MARIO FERRARA Questo è khorasan.

PUBBLICITÀ SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, stiamo parlando di un marchio di grano noto in tutto il mondo, il Kamut, e noi in Italia siamo i primi importatori al mono di questo tipo di marchio. Solo che ci siamo accorti che è in realtà una varietà di grano, il khorasan, che produciamo pure noi, ce lo abbiamo anche noi, ce ne siamo accorti dopo tanto tempo, e abbiamo cominciato a coltivare una filiera, ed è un bene, perché da quello che sembra, in base ad alcune ricerche, si tratta di un grano che ha delle grandi qualità e proprietà. Anche gli americani, che hanno creato il marchio Kamut, hanno coinvolto le università italiane per studiarne le proprietà, vediamo come. BERNARDO IOVENE Questo è khorasan.

MARIO FERRARA Questo è khorasan.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Provare per credere, siamo stati prima da Mario Ferrara, cuoco di origine lucana. Ci ha cucinato un khorasan Kamut, aglio, olio, pomodoro e basilico.

MARIO FERRARA - CHEF Un grano molto profumato, personalmente mi porta un po’ indietro nel passato. Bambino, figlio di contadino, scorrazzavo nei campi di senatore Cappelli, per esempio, no ecco, mi porta un po’ a quei tipi di grani lì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi siamo stati da Fabio Fiore, qui si mangiano rigatoni all’amatriciana e tonnarelli cacio e pepe, sottoponiamo un Khorasan Kamut, alla dura prova del fusillo. Prima l’assaggio in bianco.

FABIO FIORE - CHEF Unita, compatta e pure la cottura è uniforme, mi rimane una dolcezza, mi ricorda qualche frutto secco.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il fusillo tiene e allora lo ammazziamo definitivamente con cacio e pepe. Simone Salvini, invece, cucina un khorasan italiano.

SIMONE SALVINI - CHEF Questo è un grande omaggio alla terra siciliana, proprio per gli ingredienti che stiamo utilizzando, dal grano, alle mandorle, ai fagioli e ai pomodori. È come se fosse un 12 archetipo del grano. Davvero straordinario questo khorasan, io magari me la mangio tutta questa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Bisogna specificare che il khorasan è un grano antico con caratteristiche di alta digeribilità, antiossidante e antinfiammatorio. Kamut, in convezione con l’università di Bologna, ha testato il suo grano khorasan in vitro su cellule in coltura e su animali da laboratorio.

ALESSANDRA BORDONI – PROFESSORESSA SCIENZE E TECNOLOGIE AGROALIMENTARI UNIBO Il grano khorasan, cresciuto negli Stati Uniti, ha un contenuto di antiossidante che era decisamente più alto. E abbiamo visto che la risposta era migliore negli animali che erano stati alimentati con il pane o con la pasta a base di farine Kamut khorasan. Migliore nel senso che l’effetto infiammatorio si vedeva di meno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sull’uomo invece Kamut si è affidata all’Università di Firenze che ha sperimentato i suoi prodotti su venti pazienti che avevano problemi e intolleranze con i cereali.

BERNARDO IOVENE Per due mesi voi gli avete dato tutti questi prodotti?

FRANCESCO SOFI - PROFESSORE SCIENZE E TECNOLOGIE DIETETICHE APPLICATE UNIFI In questo caso solo Kamut, e avevano subito dei miglioramenti in termini di gonfiore e di dolore addominale sin dalla prima settimana, con un miglioramento della qualità della vita nel giro di un mesetto che era abbastanza importante. Cosa molto importante è che noi abbiamo trovato gli stessi risultati anche su grani che non sono a marchio Kamut, e che hanno le stesse tipologie di cose.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I grani antichi e in particolare il khorasan hanno quindi funzione antiossidante, sono più digeribili. Questo è un campo italiano tra Basilicata e Puglia. La spiga del khorasan è alta, da cui si ricava un chicco più lungo, un po' curvo a forma di banana, ed è il grano che ha utilizzato il professor Bonucci, oncologo, lo ha sperimentato a base della nutrizione su 56 malati di tumore al polmone per 3 anni.

MASSIMO BONUCCI – PRESIDENTE ARTOI - RICERCHE TERAPIE ONCOLOGICHE INTEGRATE Abbiamo avuto un miglioramento della nutrizione, un miglioramento di qualità della vita, un miglioramento del sistema immunitario, e poi abbiamo visto che questi pazienti avevano una sopravvivenza migliore. Mangiando pasta, pane, cracker, biscotti, fette biscottate di khorasan. Tre anni.

BERNARDO IOVENE Lei per tre anni a 56 pazienti ha dato questo tipo di dieta?

MASSIMO BONUCCI – PRESIDENTE ARTOI - RICERCHE TERAPIE ONCOLOGICHE INTEGRATE Certo. È una nutrizione, perché non è una dieta. È una nutrizione a base di pesce, vegetali, cereali, e in questo caso grani antichi khorasan. Il khorasan in Italia c’è, ed è anche qualitativamente buono.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma, dopo il Cappelli, il khorasan, questo grano che dà risultati sorprendenti, è differente da un grano duro normale nella forma e nel colore.

BERNARDO IOVENE Questo è khorasan e questo…

TOMMASO CARONE – TITOLARE AZIENDA SANTACANDIDA Questo è un grano khorasan e questo invece è un grano normale.

BERNARDO IOVENE La differenza è enorme.

TOMMASO CARONE – TITOLARE AZIENDA SANTACANDIDA Allora, allora, può vedere anche la differenza netta di colore. Sa perché? Perché questo grano è ricco di polifenoli.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Scopriamo ad esempio che sulle colline di Montebello nelle marche gli agricoltori della cooperativa Girolomoni lo coltivano da trent’anni. Ne fanno solo pasta con il nome Khorasan Graziella Ra.

GIOVANNI BATTISTA GIROLOMONI - PRESIDENTE COOPERATIVA GINO GIROLOMONI Qua è già spigato, si vede la spiga molto grande, chi lo riportò, questo grano, prima che arrivò nelle mani di mio padre, disse: “Se un giorno coltivate a questo grano sarei contento che venisse chiamato come la figlia Graziella”. Uccisa a diciassette anni dai nazisti, aveva un cesto di panni da lontano pensava che nascondesse del cibo per i partigiani e allora gli ha sparato. Per noi è il fiore all’occhiello della nostra produzione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In Toscana il Khorasan è sempre esistito e lo chiamano Etrusco siamo all’azienda agricola il Cerreto.

CARLO BONI BRIVIO – TITOLARE AZIENDA AGRICOLA IL CERRETO Si vede chiaramente, il chicco è diverso… BERNARDO IOVENE Si vede. Questo è il turanicum khorasan, è l’etrusco.

CARLO BONI BRIVIO - TITOLARE AZIENDA AGRICOLA IL CERRETO Per noi è l’etrusco, poi ogni regione le sue denominazioni.

BERNARDO IOVENE Da quanti anni lo fate?

CARLO BONI BRIVIO – TITOLARE AZIENDA AGRICOLA IL CERRETO Noi è circa 22 anni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche loro ne fanno pasta che entra nel circuito di NaturaSì, tutto biologico.

CARLO BONI BRIVIO – TITOLARE AZIENDA AGRICOLA IL CERRETO Ogni zona ha le sua tradizioni su come viene chiamato, questo è per noi un grano originario che c’è sempre stato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il fiore all’occhiello di cui dovremmo andar fieri è il khorasan siciliano, qui lo chiamano “Perciasacchi”.

FILIPPO DRAGO - TITOLARE MOLINI DEL PONTE La caratteristica di questa varietà è che i chicchi sono allungati per dargli il nome “Perciasacchi”. Che “perciare” in siciliano vuol dire bucare, quindi “Perciasacchi” in siciliano vuol dire “buca sacchi”.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Castel Vetrano Filippo Drago ha quattro mulini a pietra, dalle sue farine e semole esce pasta proprio col nome “Perciasacchi”, e poi il pane e tutti i prodotti da forno…

FILIPPO DRAGO - TITOLARE MOLINI DEL PONTE Questi grani hanno dei profumi e dei sapori che sono distinguibilissimi, profumi di aneto, meriloto, camomilla, finocchietto selvatico, che dal campo arrivano fino alla tavola.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per mantenere la purezza della varietà del seme in tutta la regione ci sono, già registrati, 56 custodi per 19 varietà, riconosciuti dal ministero dell’agricoltura come Giuseppe Li Rosi.

GIUSEPPE LI ROSI – PRESIDENTE SIMENZA Da noi si chiama “Perciasacchi”… “strazzapisazzi”, “gnolu”, “vinciatutti”, ma anche “700 anni”, probabilmente perché è una delle varietà più antiche arrivate qua in Sicilia. Non ha bisogno di erbicidi, perché le piante infestanti non riescono a sovrastarlo. Diventare custode significa tenere in purezza questo frumento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sulla Banca del seme khorasan la Sicilia è avanti a tutti, è un grano antico che ha origini mediterranee, e molti pastifici lo hanno recuperato anche in Toscana, Puglia, Basilicata. Nelle Marche Oriana Porfiri sta tentando di recuperarlo con Arcoiris e altre aziende biologiche. Seleziona i semi per ottenere più varietà di turanico-khorasan, l’obiettivo è avviare una filiera che ruota intorno a questa specie di grano.

ORIANA PORFIRI - AGRONOMA Ed è questo.

BERNARDO IOVENE Questo è khorasan?

ORIANA PORFIRI - AGRONOMA Questo è un khorasan. Questo è già un campo tra virgolette puro di una varietà, che è tra l’altro presentata in iscrizione al registro.

BERNARDO IOVENE Quello che voi state cercando di fare è un seme in purezza?

ORIANA PORFIRI - AGRONOMA Non solo in purezza: un seme che abbia un nome, un cognome e una sua carta d’identità. Che si chiamerà, come ti chiami tu? Bernardo. Si chiamerà Bernardo. Bernardo nasce il giorno x, registrato al ministero dell’Agricoltura.

BERNARDO IOVENE Specie khorasan.

ORIANA PORFIRI - AGRONOMA Specie khorasan o grano Turanico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci mancava solo la varietà del grano “Bernardo”, però lui è una garanzia. Comunque, la bella notizia è che, dopo decenni di importazione di grano a marchio Kamut ci siamo resi conto che quella varietà, quel grano ce la abbiamo anche noi, abbiamo creato una filiera che può coltivare una qualità di grano antichissimo, che ha delle proprietà terapeutiche importanti, perché ricco di antiossidanti. E questo grazie a dei produttori, coltivatori, trasformatori e commercianti, che hanno avuto la visione di pensare al futuro guardando al passato, e i custodi dei semi siciliani sono sicuramente un esempio da imitare e ampliare.  

Mattia Feltri per “La Stampa” il 23 maggio 2021. Ieri in Senato è stata approvata l' equiparazione fra agricoltura biologica e biodinamica. Sono questioni di cui so meno di poco. In particolare pensavo che l' agricoltura biodinamica fosse una variante fondamentalista della biologica, ma un amico mi ha letteralmente ordinato di leggere l' intervento - disperato e spettacolare - tenuto dalla scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo. Ho scoperto un mondo. I disciplinari internazionali di agricoltura biodinamica prevedono una forma di concimazione secondo il riempimento con letame di un corno di vacca primipara, quindi sotterrato in autunno e dissotterrato a Pasqua, infine miscelato e dinamizzato con acqua piovana o di pozzo; il gran beneficio deriva dalla capacità del corno di vacca, sinché la vacca è in vita, di catturare i raggi cosmici che si irradieranno poi nei campi per un raccolto galattico. La senatrice ha illustrato anche la dottrina della vescica di cervo imbottita di fiori di achillea, ma non mi fidavo più. Sono andato a prendermi i disciplinari e li ho studiati. Aveva ragione lei. Sono il testo sacro della buona e sana agricoltura in collaborazione con le forze dell' universo, i vasi di terracotta, i crani ricolmati di corteccia di quercia e, se ho capito bene, basata sulle teorie della reincarnazione. Intendiamoci, liberi tutti di produrre o pretendere cibo in armonia con Alfa Centauri, ma l' esito della legge è che la vescica di cervo si potrà finanziare coi contributi dello Stato: nonostante la strenua opposizione di Elena Cattaneo, il Senato ha detto sì alla vacca spaziale. Ma in fondo che ci importa? Tanto abbiamo il Recovery.

Mail a Dagospia di Anna Federici, a capo di un’azienda agricola bio-dinamica: Premesso che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d'arte che si possa desiderare, vorrei replicare a Mattia Feltri che fa lo spiritoso perché si parla di utilizzare un preparato che si è maturato all’interno di un corno di mucca. Bene, si è mai chiesto cosa c’è all’interno del corno?. Ebbene, c’è una miriade di microorganismi che si moltiplicano esponenzialmente se disciolti in acqua calda. Guarda caso molti di questi microorganismi sono funghi e batteri, responsabili della degradazione della materia organica in humus. Il teosofo tedesco Rudolf Steiner Steiner ne parlava in termini “esoterici”, ne esaltava la meraviglia. Mi domando: non è uno stregone anche l’agronomo che gira per le campagne proponendo prodotti a base di ormoni miracolosi che fanno crescere le piante oppure diserbi e insetticidi chimici sterminatori? Quale agricoltore non vi è incappato? Sono questi risultati della ‘’vera scienza’’? Quali sono stati, e sono, le conseguenze dei pesticidi, dei concimi chimici e degli allevamenti intensivi (anche biologici) sull’ambiente? Gli esempi e le vittime sono purtroppo numerosissimi. Ancora vi chiedo dove è la ‘’vera scienza’’? La scienza indaga, studia, conosce ed è pronta a ritrattare. La scienza non detta legge. La scienza è un campo aperto: analizza il fenomeno in laboratorio e si confronta con il sistema complesso qual è un qualsiasi essere vivente o un ancor più vasto organismo qual è un ecosistema in cui convivono piante, animali, umani, microrganismi tutti interagenti fra loro. Si scopre che l’antico è migliore del nuovo. La ricerca vuole indagare lo studio della complessità, e questo ambizioso e nobile scopo è possibile solo attraverso la partecipazione sistemica delle varie e numerose discipline. Si sta forse parlando di un nuovo umanesimo? Partendo dal presupposto che la terra è architettura, il Padiglione Italia della 21esima Biennale di Venezia, curato in maniera geniale da Alessandro Melis e intitolato “Comunità resilienti”, ne è il paradigma. Un padiglione che non è piaciuto agli architetti ma ha eccitato biologi, ingegneri, filosofi, fisici, agricoltori e agronomi. E tutti insieme hanno lavorato per un’architettura che diventa medicina ecologica in sintonia con la madre Terra. Così lo racconta Pierluigi Panza sul “Corriere della Sera”: “Questi alambicchi hanno nomi da trattato teosofico: lo Sprandel è un insieme di biosfere che contengono semi di piante alimentari la cui crescita non è deterministica; il Genoma sono biosfere vitree ove crescono piantine in maniera variabile e lo Slime-mold è un fungo mucillaginoso pluricellulare «e resiliente» posto in una parete di vetro che crescerà e farà da frangisole. C'è anche la parete anti Covid (ceramica bioattiva con particelle)”. Vi prego, ancora un po' di attenzione. Come si potrà ancora vivere insieme? Questo è il tema che madre Terra ci chiede di studiare. Leggiamo ancora: “L’agricoltura è l’espressione dell’incontro tra uomo e natura, il quale influisce attivamente sui processi naturali”. Ancora: “…i prodotti di questa agricoltura devono orientarsi verso l’essere dell’uomo per poter veramente assolvere al proprio compito di diventare il cibo per la vita. L’allevamento, insieme al letame prodotto, è stato e sarà la base per la produzione agricola. L’allevamento richiede la coltivazione di piante destinate all’alimentazione degli animali; l’allevamento dei bovini in particolare, richiede la produzione di foraggio grezzo ed e quindi un fattore determinante per l’impostazione della rotazione colturale. La produzione vegetale è determinata dalle esigenze alimentari di uomo e animale e richiede che il suolo sia trattato con cura. Una coltivazione adatta al luogo tiene conto delle esigenze della pianta e del suolo, dell’animale e dell’uomo. Ecologia e agroecologia: visione sistemica”. Ed a proposito delle famigerate corna dei nostri bovini: “Le corna dei ruminanti sono importanti per lo sviluppo delle forze vitali... Sono una parte dell'essere totale della vacca. Rispetto ad altri tipi di animali, il letame bovino ha un effetto particolarmente stimolante sulla fertilità del suolo. Le corna hanno anche una grande importanza come involucro nella produzione dei preparati biodinamici.” Ed aggiungo che i recenti studi sull’etologia dei bovini hanno dimostrato l’importanza delle corna nella costituzione delle gerarchie di una mandria, aspetto fondamentale per la resilienza del gruppo che vive al pascolo. Un linguaggio magico può essere tradotto anche in termini “scientifici- razionali”. E’ vera scienza invece tagliare le corna agli animali o selezionare animali senza corna? Dove sono gli aspetti ecologici, e la difesa della biodiversità che abbiamo purtroppo perduto per incuria e per spavalda arroganza? Le pratiche biodinamiche e agro-ecologiche ci chiedono di far sì che la coltivazione, la trasformazione, la distribuzione dei nostri alimenti siano eseguite nel rispetto massimo dell’ambiente. La responsabilità nei confronti dell’uomo e dell’ambiente devono essere alla base di ogni fase del processo. Ancora: “L'agricoltura e la lavorazione biodinamica hanno il potenziale per dare contributi pratici per aiutare a risolvere le molteplici e gravi crisi che stanno colpendo il mondo vivente, compresi i cambiamenti climatici, il degrado del suolo, l'inquinamento e la perdita di biodiversità. A tal fine gli agricoltori dovrebbero tenere conto della loro responsabilità verso i sistemi ecologici locali, globali e verso il benessere delle generazioni future quando riflettono sulle loro imprese e prendono decisioni sulle loro attività. “E’ un parlare non solo agricolo, è anche politico, sociologico, filosofico, biologico. Forse per questo oggi nelle università si studia l’agro-ecologia, termine purtroppo meno poetico però più razionale. Questo link demeter.it/wp-content/uploads/2015/08/STANDARD-PRODUZIONE-DEMETER-AGGIORNAMENTO-2-2014.pdf vi connette al manuale degli standard dell’agricoltura biodinamica. Si tratta di oltre 140  pagine le cui parole chiave sono: Ecologia, Sviluppo Umano, Creazione di Valore Economico, Rapporto Sociale, Sostenibilità, Libertà, Solidarietà ,Equità, Olismo, Rispetto, Apertura Mentale, Impatto Cosmico e Spirituale Empatia, Senso di Giustizia Ricerca Spirituale, Responsabilità, Interesse, Partnership, Correttezza, Connessione con l’intero contesto. Temi di studio assai cari all’agro-ecologia e all’agro-forestazione, discipline di studio innovative presenti nelle più importanti università europee e non solo. Tre  sono le pagine dedicate ai preparati che danno terribile scandalo (teschi, pelli di topo, corna di vacca o vesciche urinarie di cervo) all’interno di una parte del mondo scientifico meno interessato ad un approccio sinergico e multidisciplinare.

·        Le prese per il culo.

Consapevolezze E tu, leggi l’etichetta? Anna Prandoni su L’Inkiesta il 15 Ottobre 2021. Scegliere ciò che mangiamo avendo tutte le informazioni necessarie è la base per una corretta nutrizione. In Europa non riusciamo ad accordarci per un sistema standard che sia valido per tutti, e alcuni prodotti italiani rischiano di diventare tabù.

Sono anni che ci proviamo, con scarso successo: perché i sistemi più semplici per determinare il “peso” nutrizionale di un alimento da apporre sulle etichette sono osteggiati da alcuni, e osannati da altri. Spesso, infatti, i metodi che garantiscono una immediata comprensione da parte del consumatore penalizzano molto alcuni prodotti, che si oppongono a finire nelle categorie pericolose, magari solo perché non rispettano uno dei tanti parametri richiesti. E così, tra dinamiche di campanile e poca flessibilità, leggere i nutrienti presenti sugli alimenti confezionati diventa un rebus. Come sempre semplificare è tutt’altro che facile, e gli interessi in campo sono diversi e spesso in contrasto. Inoltre, per interpretare correttamente le informazioni presenti è necessaria una minima cultura di base, che non tutti possiedono. A livello europeo, la prima proposta (francese) presa in considerazione è quella legata al Nutri – Score, una sorta di  “sistema a semaforo” che assegna ad ogni alimento un colore (Verde=Ok, Rosso=Stop) in base al livello di grassi, zuccheri e sale, calcolati su una base di riferimento di 100 grammi di prodotto e che, proprio per questo, va a penalizzare molti degli ingredienti della dieta mediterranea, compreso l’olio di oliva, identificandolo come “grasso” senza considerarne la  reale dose di consumo giornaliero, il lato nutrizionale e i benefici ad esso correlati. Per alcune società scientifiche, medici, nutrizionisti e ricercatori specializzati, il sistema del Nutri- Score, ad oggi, sta facendo emergere alcune criticità soprattutto rispetto all’obiettivo prefissato a livello europeo di prevenzione dell’obesità e delle patologie ad essa correlate, in primis, ad esempio, quella legata alla demonizzazione dei grassi nobili come l’olio di oliva. Dall’altra parte, il Nutrinform Battery (italiano), promosso anche dal Ministero della Salute e studiato a fondo dal Centro Studi e Ricerche sull’Obesità dell’Università di Milano, è un sistema così chiamato “a batteria” che prende in considerazione l’incidenza degli alimenti all’interno della dieta e non li valuta singolarmente. L’etichetta, quindi, è pensata come una “batteria” e indica tutti i valori degli alimenti relativamente ad una singola porzione consumata.

La proposta del Nutriform Battery è vista da molti come una valida alternativa perché permette di prendere in considerazione le singole porzioni, e può aiutare i consumatori a consentire un miglioramento delle scelte alimentari. Un’altra controproposta al Nutri-Score è il sistema Med-Index; un sistema che promuovere l’adesione alla dieta mediterranea incoraggiando i produttori a realizzare prodotti alimentari più sani e sostenibili. Lo scopo del mondo della ricerca è infatti quello di mettersi insieme in maniera multidisciplinare per trovare la miglior FOP che possa dare giustizia anche all’olio d’oliva, uno degli elementi base della dieta mediterranea. Se ne è parlato a Spazio Nutrizione, il Convegno di riferimento in Italia per la comunità medico-nutrizionista che si è appena concluso a Milano, dove l’Istituto Nutrizionale Carapelli ha organizzato una tavola rotonda sul tema: “Etichettatura nutrizionale FOP – Stato dell’arte e il caso paradigmatico dell’olio extra vergine di oliva”. L’incontro ha proposto un dibattito sulle criticità nutrizionali e scientifiche del Nutri-Score rispetto all’obiettivo prefissato a livello europeo di prevenzione dell’obesità e delle patologie ad essa correlate, evidenziando la necessità di promuovere un sistema alternativo di etichettatura nutrizionale FOP capace di veicolare una corretta educazione alimentare. Ad oggi «Come alternativa al Nutri-Score, l’Italia sostiene il nuovo sistema – quello del Nutrinform Battery – promosso anche dal Ministero della Salute e studiato a fondo dal Centro Studi e Ricerche sull’Obesità dell’Università di Milano oltre che approvato o fatto proprio da diverse società scientifiche nazionali» ha spiegato durante il convegno il Professore Enzo Nisoli del Centro Studi Ricerche sull’Obesità dell’Università degli Studi di Milano, che continua «Un recente “position paper” ha analizzato le evidenze che suggeriscono che il sistema Nutrinform Battery può aiutare i consumatori a comprendere le informazioni nutrizionali meglio del sistema Nutri Score, consentendo un significativo miglioramento delle scelte alimentari». La Professoressa Maria Lisa Clodoveo, membro del comitato INC e docente dell’Università di Bari sottolinea come valida alternativa al Nutri-Score il Med-Index, il sistema di etichettatura dei prodotti alimentari per promuovere l’adesione alla dieta mediterranea incoraggiando i produttori a realizzare prodotti alimentari più sani e sostenibili: «Lo scopo del mondo della ricerca è quello di mettersi insieme in maniera multidisciplinare per trovare la miglior FOP che possa dare giustizia anche all’olio d’oliva, l’alimento iniziale dal quale siamo partiti per questo studio» dichiara la Professoressa che sottolinea anche come «la dieta sia uno stile di vita e che ci debba essere sempre un equilibrio tra quantità e qualità dei cibi consumati». In Italia, oggi, esistono 20 diverse organizzazioni di consumatori e non c’è ancora un’uniformità di vedute: uno dei più grossi problemi è proprio quello legato alla lettura dell’etichetta perché manca una cultura e un’educazione di base in questo senso: imparare a leggere correttamente i valori nutrizionali verrà dopo lo sviluppo di una significativa educazione alimentare diffusa.

Cibi scaduti: gli insospettabili che si possono mangiare anche a distanza di settimane (e oltre). Tommaso Galli per il “Corriere della Sera” l'11 settembre 2021. Farine, formaggi, pasta e pane... Non sempre la data di scadenza determina la fine di un alimento: ecco quali cibi scaduti tenere e quali buttare.

Non sempre la data di scadenza determina la fine di un alimento

C'è chi è super organizzato. E divide la dispensa in scompartimenti: le farine tutte insieme e lo scatolame da un'altra parte. E chi invece stipa tutto come se fosse un tetris. In entrambi in casi, però, può sempre scappare una data di scadenza. E così il barattolino di yogurt rimasto nell'angolo, per dimenticanza o incuria, finisce per esser buttato via. Ma davvero la data di scadenza determina la fine di un alimento? Nella maggior parte dei casi no. Perché è solo un'indicazione dell'azienda. Ciò significa, anche come riporta il New York Times, che possiamo mangiare i cibi scaduti. Anche a distanza di giorni, a volte di mesi e addirittura di anni. 

In questo modo si diminuisce lo spreco alimentare

Insomma, è sempre bene controllare lo stato di quello che stiamo per buttare. Senza affidarci solamente a quanto riportato in etichetta. Anche perché in questo modo si potrebbe ridurre notevolmente lospreco alimentare. I supermercati che vendono cibo scaduto esistono già un po' in tutta Europa, ma è quello che possiamo fare giornalmente a incidere di più. Ecco perché è stato portato avanti dalla Tafel Deutschland, organizzazione no-profit tedesca che dal 1993 consegna generi alimentari a chi è più in difficoltà, una ricerca per capire quanto si sbagliano in media, in difetto, le scadenza riportate sulle confezioni degli alimenti.

I risultati

Si scopre così che la pasta e il riso potrebbero essere consumati anche fino a un anno dopo la data di scadenza riportata in etichetta. Come tutto lo scatolame. E addirittura cibi considerati più delicati resisterebbero ancora a lungo.  

Latte

Il latte a lunga conservazione, lo dice già il termine, dura molto di più. Ma anche quello fresco ha un margine di resistenza rispetto alla data di scadenza. Secondo la ricerca, infatti, durerebbe in media sempre un paio di giorni in più. Il consiglio è poi sempre quello di assaggiare. 

Pane

Messo in freezer può durare anche anni. Se lasciato all'aria aperta il rischio, al massimo, è che diventi raffermo. Ma anche se scaduto può resistere, come il latte, qualche giorno in più senza nessun problema.

Uova

Le uova durano a lungo: dalle tre alle quattro settimane. L'importante è saperle conservare.

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Formaggi

I formaggi a pasta dura possono tranquillamente essere mangiati oltre la loro data di scadenza. Nel caso in cui si formi la muffa sulla parte esterna, basta tagliarla e consumare il resto.

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Riso e pasta

Se conservati in contenitori ermetici o nelle loro confezioni, riso e pasta possono essere consumati anche un anno dopo la data indicata sul retro.

Miele e zucchero

Aceto, miele, vaniglia o altri estratti, zucchero, sale, sciroppo di mais e melassa possono durare praticamente per sempre con pochi cambiamenti di qualità.

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Farina

La farina bianca subisce, anche a distanza di mesi, ben poche alterazioni. Quella integrale, contenendo il germe di grano, tende però a irrancidire più facilmente.  

Cibo in scatola

I pomodori pelati, il tonno in scatola, i ceci, i fagioli, il mais e tanti altri cibi in scatola possono essere consumati anche dopo un anno dalla loro data di scadenza, ma devono essere conservati in un luogo asciutto. 

"Indovina chi viene a cena": tornano le inchieste di Sabrina Giannini. Da rai.it/ufficiostampa il 25 settembre 2021. Su Rai3 le rivelazioni sulla rivoluzione "quasi" verde. L’inchiesta “Una rivoluzione quasi verde”, in onda sabato 25 settembre alle 21.20 su Rai3 per “Indovina chi viene a cena” con Sabrina Giannini, svelerà come il fiume di denaro della politica agraria comunitaria sia finito per anni nelle tasche sbagliate e senza alcun legame con l’agricoltura: produttori di acciaio, di reattori nucleari, compagnie telefoniche. Un documento shock che spiega l’origine di un’agricoltura poco democratica, poco sostenibile e anche poco trasparente; un’agricoltura che finanzia le grandi monocolture, una distribuzione del denaro iniqua ai già ricchi proprietari terrieri, che fagocitano i piccoli imprenditori agricoli. L’inchiesta arriva a spiegare come sarà la nuova politica agraria annunciata come green.  Si parte dalle analisi delle mele biologiche o trattate con pesticidi, fino ad arrivare alla corrida spagnola: un lungo reportage che segue una sola pista, quella dei soldi. Fino a scoprire che la principale causa della perdita della biodiversità terrestre e marina - e quindi della riserva di ossigeno e delle risorse per il futuro – è il sistema alimentare dominante, quello più finanziato. Come nelle precedenti edizioni, Sabrina Giannini mostrerà anche le soluzioni alternative per avviare una reale “rivoluzione” verde, svelando i trucchi di marketing di un sistema che non si accontenta di fare profitto, ma vuole anche raccontare sé stesso come il principe azzurro, oggi travestito di verde. 

Indovina chi viene a cena 2021: la nuova edizione con Sabrina Giannini su Rai 3. Pubblicato da maridacaterini.it il  25 Settembre 2021. Torna Indovina chi viene a cena, il programma condotto da Sabrina Giannini su Rai 3. L’appuntamento è in prima serata sabato alle 21:20 sulla terza rete di viale Mazzini. Il programma realizza inchieste su ambiente, animali e modelli alimentari sostenibili. La Giannini, tra l’altro, ha firmato inchieste storiche per Report. Tra queste ricordiamo un reportage sugli allevamenti dei suini ai quali era stata fornita una dose massiccia di antibiotici pericolosissimi per la salute pubblica. Un’altra inchiesta sempre a sua firma era incentrata sullo scandalo dell’olio di palma. Il fine degli autori è di mettere a confronto le ipocrisie e le contraddizioni del sistema di sfruttamento delle risorse tra ricerche e progetti alternativi.

La prima inchiesta. La puntata di questa sera ha per titolo “Una rivoluzione quasi verde“. E svelerà come il fiume di denaro della politica agraria comunitaria sia finita per anni nelle tasche sbagliate. Tasche che non avevano alcun legame con l’agricoltura. Tra questi produttori di acciaio, di reattori nucleari e compagnie telefoniche. Sarà un vero e proprio documento shock che spiega l’origine di una agricoltura poco democratica e poco ecosostenibile, ma anche per nulla trasparente. Un’agricoltura che finanzia le grandi monocolture, una distribuzione del denaro sbagliata ai già ricchi proprietari terrieri che fanno scomparire i piccoli imprenditori agricoli. L’inchiesta spiega come sarà la nuova politica agraria annunciata come “green”. Si parte dalle analisi delle mele biologiche, o trattate con pesticidi, fino ad arrivare ad occuparsi della corrida spagnola. Sarà un lungo reportage che segue una sola pista: quella dei soldi. Arriveremo così a scoprire che la principale causa della perdita della biodiversità terrestre e marina è soltanto il sistema alimentare dominante, ovvero quello più finanziato. In questo modo si perde anche la riserva di ossigeno e delle risorse per il futuro. Come era già avvenuto nelle edizioni precedenti, Sabrina Giannini mostrerà anche le soluzioni alternative affinché si concretizzi una reale rivoluzione verde. Svela i trucchi di marketing di un sistema che non si accontenta di realizzare solo profitti. 

“Indovina chi viene a cena” con Sabrina Giannini. Le inchieste del programma di Rai3 tornano sabato 25 settembre. Simona De Gregorio il 25 Settembre 2021 su sorrisi.com. Le minacce all’ambiente e alla nostra salute, il traffico illecito di animali esotici, le truffe alimentari sono solo alcuni dei temi al centro delle inchieste di Sabrina Giannini in "Indovina chi viene a cena", che torna su Raitre sabato 25 settembre.

Sabrina, parliamo di un tema caro a tutti: le truffe alimentari. Qualche esempio?

«Purtroppo il sistema di etichettatura attuale non aiuta nella scelta perché non fornisce informazioni importanti. Prendiamo la carne: viene indicato il Paese di provenienza, ma non si dice come l’animale ha vissuto, che cosa ha mangiato. Le uova con la scritta “provenienti da allevamenti a terra” non esclude che le galline siano state sempre tenute chiuse in un pollaio ed è impossibile conoscere con quale mangime siano state nutrite. Per non parlare dell’olio...».

Ci dica.

«Tutti i fondi dell’Unione Europea vengono destinati alle coltivazioni intensive che sono concentrate in Spagna. E questo ha tagliato le gambe ai piccoli produttori. Il risultato è che oggi l’olio che consumiamo è solo per il 15 per cento italiano».

Qual è la soluzione?

«L’ideale sarebbe fare la spesa attraverso i gruppi di acquisto solidale. E servirsi dei produttori locali, cosa più facile per chi vive nei piccoli centri».

Avrete anche un’inchiesta sulle mele.

«Sì, mostreremo che le mele sono il frutto che contiene più pesticidi. Ma anche quello più consumato dai bambini e dagli anziani...».

·        La Dieta del Sesso.

LA DIETA DEL SESSO. Da tgcom24.mediaset.it il 24 aprile 2021. Sesso e alimentazione vanno a braccetto: non è una novità, tenuto conto che l'alimentazione è determinante per la nostra salute. Per prepararsi al meglio a un incontro amoroso, oltre a biancheria intima all'altezza della situazione, una seduta dall'estista e una dal parrucchiere, ricordiamoci che per la cena a lume di candela occorre prestare attenzione a quel che metteremo sotto i denti. Ecco dunque cinque cibi che saranno ottimi alleati per una performance da ricordare e qualche suggerimento per evitare imbarazzanti défaillance.

Preziosa tavoletta: il principe dei cibi afrodisiaci è senza ombra di dubbio il cioccolato. Ricco di flavanoli, sostanze antiossidanti presenti nel cacao, il cioccolato migliora le prestazioni perché ricco di sostanze antiossidanti che favoriscono la circolazione sanguigna con conseguente beneficio della tonicità dell'organismo, determinante per incontri amorosi al top. Il cioccolato inoltre contiene caffeina, serotonina ed endorfine, che influenzano i nostri neurotrasmettitori agendo come stimolanti e che regalano energia, concentrazione, desiderio sessuale e senso del piacere. Il top!

Dolce nettare: anche il miele è un ottimo alleato dell'eros. Ricco di vitamina B e sali minerali, oltre che essere un concentrato di virtù benefiche per la nostra salute in generale, con i suoi zuccheri stimola la produzione di liquido seminale. Il miele inoltre contiene il boro, un oligoelemento che aiuta ad aumentare i livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili, e innalza il livello di testosterone, ormone responsabile del desiderio sessuale. La "luna di miele", oltre che essere dolcissima, potrebbe rivelarsi davvero esplosiva.

Giallo banana: al di là della forma, che viene usata spesso in modo allusivo, questo frutto è ricco di nutrienti quali vitamina B, potassio, magnesio e altri minerali che donano energia. La banana inoltre contiene un enzima appartenente alla famiglia delle Bromeliaceae, che favorisce la libido contrastando l’impotenza. Mai rimanere senza!

Gusto fragola: insieme al cioccolato, la fragola rappresenta uno dei cibi afrodisiaci per eccellenza: il connubio è quantomeno goloso. Intingere una fragola nel cioccolato fuso è un'esperienza quasi mistica, ammesso naturalmente che nessuno dei due partner soffra di allergia ai frutti rossi. Le fragole, dalla forma a cuore - sarà un caso? - sono deliziose, leggere e salutari: perfette per un consumo malizioso che faccia da preludio a un incontro dove dolcezza e passione sono le parole d'ordine.

Rosso fuoco: il peperoncino è considerato da sempre un afrodisiaco di cui non si può fare a meno. Questa spezia dalle mille virtù è un cardioprotettore naturale, migliora la circolazione e rafforza le difese immunitarie. Grazie alla capsicina, un alcanoide che è responsabile del gusto piccante, il peperoncino agisce sulla vasodilatazione periferica, stimolando le terminazioni nervose e aumentando l’afflusso di sangue agli organi genitali. Il fuoco della passione parte da qui.

Da evitare come la peste: prima di un incontro sexy, dimentichiamoci dei fritti, pesanti e di difficile digestione, delle carni rosse ed elaborate, dei legumi e dei fagioli in special modo, per evitare spiacevoli gonfiori, del formaggio, che oltre che essere molto calorico potrebbe lasciare un alito cattivo. In questo caso la leggerezza deve essere un must e non soltanto quella a tavola. Ai buongustai l'ardua sentenza.

·        Il Cioccolato.

Dagotraduzione da Study Finds il 25 giugno 2021. Mangiare cioccolato al mattino potrebbe sembrare un biglietto espresso per l’obesità, ma un nuovo studio ha scoperto che potrebbe essere un’idea più salutare di quanto si creda. I ricercatori del Women’s Hospital sostengono che sostituire uova e pancetta con del cioccolato può aiutare a bruciare più grassi e ad abbattere i livelli di zucchero nel sangue durante il giorno. Il team internazionale ha studiato gli effetti del cioccolato in un gruppo di 19 donne in postmenopausa. Ciascuna di loro ha mangiato 100 grammi di cioccolato entro un’ora dal risveglio e altri 100 grammi un’ora prima di andare a letto. Il risultato? Nessun aumento di peso, non solo. Il dolce pasto, se assunto al mattino, aumenta la capacità del nostro corpo di bruciare grassi e riduce i livelli di glucosio nel sangue. «I nostri risultati evidenziano che non solo “cosa” ma anche “quando” mangiamo può influenzare i meccanismi fisiologici coinvolti nella regolazione del peso corporeo», ha detto l'autore dello studio, il neuroscienziato Frank AJL Scheer. «I volontari non sono aumentati di peso nonostante l'aumento dell'apporto calorico. I nostri risultati mostrano che il cioccolato ha ridotto l'assunzione di energia ad libitum, coerentemente con la riduzione osservata della fame, dell'appetito e del desiderio di dolci mostrata in studi precedenti», aggiunge la coautrice Marta Garaulet, PhD. La ricerca è stata pubblicata in The FASEB Journal.

Cioccolato amaro. Report Rai. PUNTATA DEL 23/10/2017di Emanuele Bellano. Collaborazione di Michela Mancini e Simona Peluso. Il cioccolato è così: una voglia improvvisa e non si può fare a meno di scartare la stagnola, scrocchiarlo e lasciarlo sciogliere in bocca. A soddisfare il nostro impulso ci pensa un settore industriale che nel mondo fattura ogni anno più di 100mld di dollari. Si dividono il mercato una decina di multinazionali. Il prezzo del cacao, l'ingrediente primario, è stabilito nelle borse di Londra e New York attraverso strumenti finanziari trattati non solo dai produttori ma anche da fondi speculativi... Il cioccolato è così: una voglia improvvisa e non si può fare a meno di scartare la stagnola, scrocchiarlo e lasciarlo sciogliere in bocca. A soddisfare il nostro impulso ci pensa un settore industriale che nel mondo fattura ogni anno più di 100 miliardi di dollari. Si dividono il mercato una decina di grandi gruppi, multinazionali del cioccolato. Il prezzo del cacao, l'ingrediente primario, è stabilito nelle borse di Londra e New York attraverso strumenti finanziari trattati non solo dai produttori di cioccolato ma anche da fondi speculativi che acquistano e vendono enormi quantità di materia prima, allo scopo di ottenere plusvalenze finanziarie. Alla fine la speculazione incide per circa il 30% sul prezzo finale del cacao. Le grandi piantagioni invece si trovano in paesi poveri dell'Africa Occidentale e del Sudamerica. E qui entrano in campo tre grandi gruppi internazionali di certificazione etica, che dovrebbero garantire a noi consumatori occidentali che il nostro cioccolatino non sia stato prodotto facendo lavorare i bambini o distruggendo l'ambiente. È vero? Abbiamo ricostruito il percorso del cioccolato dalla piantagione alla fabbrica, per capire quanto c'è di vero in quello che leggiamo sulla confezione e che cosa ci mettiamo in bocca.

CIOCCOLATO AMARO Di Emanuele Bellano Collaborazione di Michela Mancini e Simona Peluso

BARMAN Andremo a fare un cocktail al cioccolato usando proprio il cioccolato direttamente preso dalla fontana: ghiaccio, un arancio biologico, una base di vodka. Andiamo ad usare il nostro cioccolato ... Enjoy your chocolate!  RAGAZZO A me piace proprio sentire il gusto del cioccolato. Quindi io lo vado a sentire proprio amaro, fondente. Un buon rum, un pezzettino di cioccolato e stai alla grande.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il cioccolato: dolce, afrodisiaco, di lusso. Ognuno lo preferisce in un modo diverso ma su una cosa sono praticamente tutti d’accordo.

RAGAZZA Una vita senza cioccolato no. Il cioccolato ci deve essere sempre.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E infatti c’è chi lo usa a cena come ingrediente principale di un pasto ricercato

SHAHEDUL KAYSAR – RISTORANTE SAID DAL 1923 Tagliatelle al cacao con ragù di cinghiale dolce forte. Facciamo una grattata di cioccolato fondente 80 per cento.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per gli amanti del benessere è un cosmetico con cui rilassarsi in una spa.

DONNA 1 È una sensazione molto rilassante, molto soffice.

DONNA 2 Il profumo è fortissimo, molto intenso.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Una notte in hotel con bagno di cioccolata costa 250 euro. Quello da mangiare, invece, se è di alta qualità, può superare anche i 100 euro al chilo. La materia prima è il cacao, che cresce solo in pochi paesi tropicali e per valere tanto, la sua lavorazione deve essere rigorosamente artigianale. Qui siamo a Novi Ligure alla pluripremiata cioccolateria Bodrato.

EMANUELE BELLANO Questo è cacao o cioccolato?

FABIO BERGAGLIO – CIOCCOLATERIA BODRATO Questo è già cioccolato di fatto. Gocce di cioccolato

EMANUELE BELLANO Fatto però industrialmente, diciamo

FABIO BERGAGLIO – CIOCCOLATERIA BODRATO Il cioccolato che ti dà la grande industria è facilmente lavorabile. Non esprime magari delle aromaticità pazzesche però non ha neanche dei grossi difetti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Guido Gobino ha una cioccolateria che ha cinquant’ anni di storia e produce il suo cioccolato partendo dalle fave di cacao.

GUIDO GOBINO – CIOCCOLATERIA GUIDO GOBINO Il nostro lavoro è un po’ quello del farmacista quindi andare a cercare le sfumature delle varie varietà di cacao, delle varie provenienze, andarne a cercare le aromaticità, le peculiarità.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Un intero piano del laboratorio è dedicato a lavorare il cacao

GUIDO GOBINO - CIOCCOLATERIA GUIDO GOBINO Queste sono fave di cacao, guarda come sono belle viola.

EMANUELE BELLANO Questa è la fava di cacao essiccata. Si può provare?

GUIDO GOBINO - CIOCCOLATERIA GUIDO GOBINO Sì certo. Questa qui è molto ben fermentata, quando è viola così.

EMANUELE BELLANO Queste qui arrivano da dove?

GUIDO GOBINO - CIOCCOLATERIA GUIDO GOBINO Questo è Messico

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il cacao oltre che dal Messico lo importano anche da piantagioni in Ecuador, Venezuela o São Tomé.

EMANUELE BELLANO Il fatto di andare a scegliere il cacao è funzionale al risultato finale che si ottiene.

GUIDO GOBINO - CIOCCOLATERIA GUIDO GOBINO Assolutamente.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tostate e frantumate le fave vengono trasformate in granella.

GUIDO GOBINO Qui si sentono i primi aromi di tostatura che sono quelli caratteristici delle varie varietà di cacao. La granella subisce una prima raffinazione, passa attraverso questo mulino e vedi che diventa una pasta.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il risultato alla fine è una pasta liquida di cacao

GUIDO GOBINO - CIOCCOLATERIA GUIDO GOBINO Noi possiamo avere il miglior cacao del mondo. Se non facciamo correttamente tutto questo processo possiamo in qualche modo inquinarlo, possiamo non estrarre gli aromi migliori. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Se non te la fai da solo la massa di cacao la devi comprare già pronta dalle grandi industrie del cioccolato come Icam, Barry Callebaut o Nestlé.

GUIDO GOBINO - CIOCCOLATERIA GUIDO GOBINO Sarebbe molto più comodo e meno oneroso comprare della massa di cacao. Arriva già bella e pronta.

EMANUELE BELLANO Cioè arriverebbe da qui, lei partirebbe da qui, tutta questa parte di laboratorio non servirebbe. Qual è la differenza?

GUIDO GOBINO Siamo sempre lì: non siamo più degli artigiani, siamo dei trasformatori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono 600 le cioccolaterie che nel nostro Paese si definiscono artigianali; ma poi quante lo sono veramente? Fate attenzione perché il bluff potrebbe nascondersi anche dietro marchi famosi. Il nostro Emanuele Bellano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il cioccolato artigianale per definizione, in Italia, si fa a Modica, in Sicilia. Il Ministero dell'Agricoltura ha chiesto all’Unione Europea il riconoscimento del marchio IGP, a garanzia dell’unicità e dell’artigianalità di questo prodotto. Durante il G7 di Taormina, il cioccolato di Modica è stato anche offerto alle first lady dei leader mondiali come prodotto tipico italiano.

TURISTA Buono… vuole assaggiare?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO C’è perfino il museo del cioccolato, dove espongono il metate, l’antico strumento in pietra importato dal Sudamerica nel Seicento, su cui le fave di cacao vengono lavorate per ottenere la massa di cacao. In città ci sono oltre trenta cioccolaterie tipiche.

STEFANIA ZACCARIA - CIOCCOLATERIA DON PUGLISI Il cioccolato modicano, intanto, non è industrializzato; è un cioccolato semplice, è arrivato ai nostri giorni veramente come lo facevano spagnoli, come lo facevano ancor prima gli Aztechi. Questa è la pasta di cacao, semplicemente sciolta a bagnomaria. Alla pasta di cacao si aggiunge semplicemente lo zucchero. Metà pasta amara e metà zucchero, al 50 per cento. A questa base poi, che noi chiamiamo classica, si aggiungono le varie spezie.

EMANUELE BELLANO Questa è la materia prima che utilizzate?

STEFANIA ZACCARIA-CIOCCOLATERIA DON PUGLISI Sì, questa è la pasta di cacao che arriva sotto forma di dischetti. EMANUELE BELLANO Quindi di fatto a voi arriva questo materiale qui che è un semilavorato industriale. No?

STEFANIA ZACCARIA - CIOCCOLATERIA DON PUGLISI Sì, nel nostro laboratorio, sarebbe impossibile tostare semi, lavorarli.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Silvio Bessone da 40 anni investe il suo tempo viaggiando da un continente all’altro per assaggiare i migliori tipi di cacao.

SILVIO BESSONE - CIOCCOLATIERE Il cioccolato di Modica io l’ho sempre definito una grande bufala storica. Però di marketing se ne è fatto molto. Nel senso che molti giornalisti hanno staccato fatture per parlare bene del cioccolato di Modica.

EMANUELE BELLANO Perché dice che è una bufala storica?

SILVIO BESSONE - CIOCCOLATIERE È il più semplice da fare. Lo può fare anche lei oggi pomeriggio. Io le do un chilo di massa di cacao...

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La cioccolateria più antica di Modica è la Dolceria Bonajuto. È sempre affollata di turisti. Ma che materia prima usano?

PIERPAOLO RUTA - ANTICA DOLCERIA BONAJUTO Lo chiamano kibbled, perché può essere … in genere dei grossi cubi o dei quadratini di massa di cacao.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Lo comprano in Olanda da Dutch Cocoa, una società del gruppo Ecom, con sede in Svizzera: il terzo più grande produttore mondiale di semilavorati a base di cacao.

PIERPAOLO RUTA - ANTICA DOLCERIA BONAJUTO La massa di cacao l’abbiamo sempre subita… è quasi obbligato che devi passare attraverso chi ti fa questo passaggio di produzione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’Antica Dolceria Bonajuto da un paio d’anni sta tornando alla lavorazione artigianale del cacao e oggi produce partendo dalla fava di cacao una piccola parte del suo cioccolato. Lo stesso ha fatto la cioccolateria Donna Elvira che compra cacao dal Sudamerica. A Modica è nato anche un consorzio per tutelare l’artigianalità del cioccolato. Le cioccolaterie che ne fanno parte però utilizzano principalmente il cacao in scaglie già pronto.

SIMONE SABAINI – CIOCCOLATERIA SABADÌ È vero quello che dici, che la maggior parte usa i semilavorati, aggiungono lo zucchero, mescolano, mettono in frigo, fanno. D’altronde devono fare un souvenir che viene venduto ai turisti. Perché il fatto di produrre il cioccolato di Modica chiaramente ha creato un indotto. Tantissimi hanno iniziato a produrre cioccolato, i turisti vengono per il cioccolato. Ma è un problema di tutto il cioccolato, non di Modica.  EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qui siamo ad Alessandria alla cioccolateria artigianale Giraudi, che fa cioccolato dal 1907.

EMANUELE BELLANO Questo qui è il prodotto originario da cui partite voi?

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Esattamente

EMANUELE BELLANO Tecnicamente come si chiama?

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Lo può anche tecnicamente chiamare cioccolato. Assolutamente sì.

EMANUELE BELLANO Da chi lo comprate questo prodotto qui?

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Mi fai fare … preferisco non essere …

EMANUELE BELLANO Perché? GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Ma perché non so se è corretto. Tendenzialmente il nostro fornitore è un’azienda francese che si chiama Valrhona. Io fino a quando non avrò la padronanza o la competenza per poter trasformare una fava, non lo farò.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Intanto però il marchio Giraudi punta tutto sull’artigianalità del prodotto.

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Questo è il risultato che si ottiene. Questo non te lo lascio inquadrare però, perdonami. Sai perché? Questa è Prada … mi fa un culo così.

EMANUELE BELLANO Questi sono per Prada.

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Sì, che poi è Marchesi. Perché tu sai che … posso parlare? Non posso dirle queste cose, c’è un patto di riservatezza.

EMANUELE BELLANO Di che si tratta?

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Noi produciamo il cioccolato per la pasticceria Marchesi, che era stata acquistata da Prada.

EMANUELE BELLANO Cioè, lo fate voi il cioccolato e poi lo rivendono loro.

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Esattamente.

EMANUELE BELLANO Infatti c’è il marchio Marchesi. Quindi vi danno il marchio per poter imprimere direttamente qui il loro marchio.

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Sì

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La storica pasticceria Marchesi vende cioccolato dal 1824 in centro a Milano. Nel 2014 è stata acquistata da Prada e ha aperto la sua sede più prestigiosa in Galleria a Milano.

EMANUELE BELLANO Quanto è al chilo?

COMMESSA Questi sono 110 al chilo.

EMANUELE BELLANO E li fate voi questi?

COMMESSA Questi li facciamo noi, esatto. Sì.

EMANUELE BELLANO Li producete a partire dalla fava di cacao?

COMMESSA Sì

EMANUELE BELLANO La pasticceria Marchesi produce a sua volta del cioccolato?

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI No, cioccolato no. No, no, no.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quindi, l’industria francese Valrhona fa il cioccolato. Giraudi lo scioglie, ci fa i cioccolatini e li vende a 30 euro al chilo. Gli stessi cioccolatini, marchiati Marchesi, sono venduti da Prada a 110 euro al chilo, dicendo ai clienti che sono di produzione propria.

SILVIO BESSONE – CIOCCOLATIERE Se hai comprato un prodotto commerciale. Io non dico cattivo, dico commerciale, e poi lo spacci come un prodotto di super élite, questa è truffa. Non possiamo parlare di un’altra roba DA MASTERCHEF ITALIA Non c’è prova di pasticceria senza il maestro dei maestri Iginio Massari.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il maestro dei maestri vende nella sua pasticceria di Brescia i gianduiotti, firmati “Iginio Massari” uno per uno. Prezzo al chilo, 70 euro. A produrli però è una pasticceria di Torino, la Prodotti Gianduia che lo stesso gianduiotto, senza la firma di Massari, lo vende a 31 euro al chilo. Massari precisa che la sua pasticceria acquista i gianduiotti dalla prodotti gianduia solo in alcuni periodi dell’anno. Per il resto del tempo li produce internamente e che è lui stesso a fornire la ricetta del suo gianduiotto alla ditta di Torino.

ERNST KNAM - PASTICCIERE La mousse al cioccolato è un pallino di tutti. Questa mousse al cioccolato ha solo due ingredienti, panna e cioccolato. Non servono tanti ingredienti per fare una buona mousse

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ernest Knam in televisione è il re del cioccolato e uno dei giudici di Bake Off Italia talent show sulla pasticceria.

ERNST KNAM - PASTICCIERE Quando hai una passione, soprattutto una professione, puoi lavorare con i migliori materiali del mondo e li rispetti e li fai bene. Esce un capolavoro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Come materia prima però anche lui usa cioccolato industriale già pronto. Ha scelto quello di Icam, industria del cacao di Lecco.

EMANUELE BELLANO Knam usa prodotti Icam?

ADDETTA ICAM Certo.

EMANUELE BELLANO E al tempo stesso è testimonial di una linea Icam, del marchio Icam.

ADDETTA ICAM Della linea professionale che è linea Icam, sì.

EMANUELE BELLANO Ecco, ma viene pagato per questo suo ruolo di testimonial?

ADDETTA ICAM C’è un contratto, io non entro nel merito del contratto.

EMANUELE BELLANO E Knam quando utilizza i prodotti Icam paga per utilizzare quei prodotti, li acquista?

ADDETTA ICAM Non entro nel merito del contratto

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Knam pubblicizza i prodotti della loro linea professionale. Il rapporto con questa azienda inizia nel 2010, quando il re del cioccolato vince il premio Icam e si porta a casa la Fiat 500 in palio. Tavoletta d’oro, Eurochocolate, Icam, il mondo del cioccolato è pieno di premi che i cioccolatai espongono come un bollino sui prodotti con cui hanno vinto.

EMANUELE BELLANO Quanto conta poi, a livello di mercato, poter disporre di un premio di questo tipo e mettere un bollino sul prodotto con cui si è vinto?

SILVIO BESSONE - CIOCCOLATIERE Ti permette di vendere a un prezzo maggiore, di essere inserito meglio in vetrina. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il premio che può cambiare la vita di una cioccolateria oggi si chiama International Chocolate Awards. È stato fondato a Londra da un inglese Martin Christy e da un’italiana Monica Meschini. Entrambi presiedono la giuria che decide chi vince e chi perde.

SILVIO BESSONE - CIOCCOLATIERE Se tu sei un giudice, e sei serio, questo non lo dovresti fare. Dovresti essere super partes nel mondo del cioccolato e invece non è così.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Monica Meschini partecipa a degustazione ed eventi, insieme a distributori e produttori di cioccolato. Loro, per esempio, hanno partecipato e vinto per quattro volte il premio internazionale del cioccolato.

EMANUELE BELLANO Voi conoscete…

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Monica. Sì, la conosco. Ho fatto un corso di degustazione, è stato un arricchimento per i miei ragazzi

EMANUELE BELLANO E quanto è costato?

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI No, no, lei è venuta come professionista.

EMANUELE BELLANO In amicizia.

GIACOMO BOIDI – CIOCCALATERIA GIRAUDI Sì, sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Monica Meschini fa anche consulenze a cioccolatai e cioccolaterie.

MONICA MESCHINI - ESPERTA DI CIOCCOLATO Ovviamente là dove non c'è conflitto di interessi, quindi non faccio consulenze a chi entra nell'International Chocolate Awards.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È stata però ufficio stampa e responsabile relazioni esterne per la cioccolateria di Luca Mannori, che poi ha vinto 5 volte l'International Chocolate Awards.

MONICA MESCHINI - ESPERTA DI CIOCCOLATO Sì, sì, ma lo facevo a titolo assolutamente d’amicizia e non ho mai percepito niente.

EMANUELE BELLANO - ESPERTA DI CIOCCOLATO Ma questo non costituisce, in ogni caso, un conflitto di interessi comunque, è una persona con cui lei ha collaborato.

MONICA MESCHINI - ESPERTA DI CIOCCOLATO No, perché io so come lavoro, assolutamente no.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ha rapporti poi anche con il produttore di cioccolato ecuadoriano Pacari, che ha vinto più di venti International Chocolate Awards e con il distributore italiano di Pacari, la società JoyFlor.

MONICA MESCHINI - ESPERTA DI CIOCCOLATO Allora, io vivo, devo guadagnare, quindi ho istruito il suo personale a diventare chocolate tester, cioè a poter promuovere il prodotto nel modo giusto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tra il 2014 e il 2015 ha partecipato a degustazioni di cioccolato Pacari e a corsi tutti organizzati da JoyFlor.

MONICA MESCHINI - ESPERTA DI CIOCCOLATO Faccio formazione.

EMANUELE BELLANO Per queste cose qui, JoyFlor le ha pagato una consulenza?

MONICA MESCHINI - ESPERTA DI CIOCCOLATO Assolutamente sì.

EMANUELE BELLANO Non dovrebbe essere estranea al settore della cioccolateria?

MONICA MESCHINI - ESPERTA DI CIOCCOLATO Non è mai così in nessun tipo di ambiente, ci sono altri ambienti molto più corrotti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Di questo siamo sicuri e siamo sicuri anche che lei sia in buona fede. Quello che ci chiediamo è: come fai ad essere imparziale quando devi giudicare da terza, gli stessi che hai formato e a cui hai fatto consulenza? Se non li premi alla fine è come se bocciassi te stessa. E l’essere premiati poi o no, ha un peso, perché finisci col pagare poi il cioccolatino 110 euro al chilogrammo. Magari mascherandolo di un’artigianalità che nei fatti non c’è. È un sistema che penalizza l’artigiano vero, quello che va sul campo a scegliersi la fava di cacao. E sulla fava di cacao poi si gioca un’altra partita miliardaria e in campo questa volta scendono le multinazionali. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ogni anno il fatturato mondiale di cioccolato ammonta a circa 100 miliardi di euro. Il 40 per cento se lo dividono quattro grandi industrie: Mars, che ha sede in America e che produce, per esempio, le barrette al cioccolato e altri prodotti di largo consumo. Nestlé, la multinazionale svizzera, con il KitKat per esempio, o gli Smarties e che in Italia ha acquistato la linea Perugina. Poi c’è Ferrero, il produttore di Nutella, ma anche di tutti i prodotti della linea Kinder. E infine Mondelez che produce la cioccolata Milka.

EMANUELE BELLANO Le grandi società del cacao negli ultimi anni si sono fuse e hanno aumentato questa concentrazione.

BERT TIEBEN - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Sì, un mercato che già era ristretto è diventato oggi ancora più ristretto. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Oggi il 54 per cento dell’esportazione e della lavorazione del cacao nel mondo è in mano a sole tre multinazionali: Cargill, Olam e la svizzera Barry Callebaut.

BERT TIEBEN - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Se sei un’industria del cioccolato hai due problemi: ammortizzare i costi fissi, e garantirti la fornitura di cacao. Li risolvi comprando il cacao con un prezzo fisso con sei mesi d’anticipo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È per questo che tutto il cacao viene venduto in borsa, a Londra e New York, attraverso dei prodotti finanziari.

EMANUELE BELLANO Quante volte una partita di cacao viene rivenduta su carta nelle borse internazionali?

YOUSSUF CARIUS - DIRETTORE PULSAR INVESTMENTS Una trentina, una quarantina di volte. È la stessa cosa che succede con petrolio per esempio. È per questo che la speculazione finanziaria incide per il 30 per cento sul prezzo del cacao.

EMANUELE BELLANO Cargill, Barry Callebaut, Nestlé, comprano cacao per usarlo o per speculare sui mercati finanziari?

BERT TIEBEN - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Lo comprano per assicurarsi le forniture, ma nel momento in cui sono sui mercati finanziari si comportano anche come speculatori.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il maggiore produttore di cacao al mondo è la Costa d'Avorio. Nel 2016 ha prodotto il 40 per cento del fabbisogno totale di cacao. Da quando, più di 15 anni fa, il governo ha deciso di investire sulle piantagioni, il cacao è alla base della sua economia. Tutte le più importanti industrie del cacao hanno una loro sede qui.

EMILIE SERRALTA - EX CONSULENTE GLOBAL WITNESS Purtroppo il settore del cacao è sempre stato opaco.

EMANUELE BELLANO Qual è il legame tra le multinazionali del cacao e il sistema economico della Costa D’Avorio?

EMILIE SERRALTA - EX CONSULENTE GLOBAL WITNESS Le istituzioni ivoriane riscuotono delle royalties sul cacao prevalentemente dalle società esportatrici. Queste grandi società pagano le istituzioni del cacao e non si chiedono come vengono usati i soldi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le multinazionali del cacao avevano rappresentanti nella borsa ivoriana del cacao, che durante la guerra civile ha finanziato l’allora presidente nella lotta armata contro i ribelli.

EMANUELE BELLANO A quanto ammonta il denaro che il settore del cacao ha versato al governo?

EMILIE SERRALTA - EX CONSULENTE GLOBAL WITNESS A circa 20 milioni di dollari per comprare armi e per pagare le truppe.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Costa D’Avorio è stata devastata per nove anni da una sanguinosa guerra civile, con esecuzioni di massa nelle strade, crimini di guerra, bambini soldato. Cargill, ADM, Barry Callebaut e le altre grandi compagnie internazionali del cacao hanno negato di essere a conoscenza della destinazione dei loro soldi.

BERNARD KIEFER Abbiamo saputo della sua scomparsa il giorno in cui mia cognata ha ricevuto una telefonata anonima in cui dicevano: “tuo marito è stato rapito”.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L'uomo che è stato rapito è suo fratello, il giornalista francese Guy-Andre Kieffer.

BERNARD KIEFER È stato prelevato davanti a un supermercato di Abidjan. Abbiamo saputo dalle autorità francesi e ivoriane che probabilmente è stato ucciso e che il suo corpo è sparito.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Guy-André Kieffer stava indagando su un accordo che prevedeva la vendita di armi in cambio di una ingente partita di cacao.

BERNARD KIEFER Dopo il suo rapimento sono stato nel suo ufficio ad Abidjan, ma erano spariti i taccuini e il PC.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il giornalista stava lavorando su questo contratto, che prevede la consegna alla società Gambit di 300 mila tonnellate di cacao per un totale di 460 milioni di euro, in cambio di due elicotteri da guerra. L’uomo che avrebbe procurato gli elicotteri sul mercato clandestino degli armamenti è il direttore di Gambit Limited, il francese Christian Garnier.

EMILIE SERRALTA - EX CONSULENTE GLOBAL WITNESS Di lui è stato detto che faceva parte dei servizi segreti, che fosse un mercante d’armi e anche un mercenario. Lui si definiva un consigliere militare del governo ivoriano. Ci ha confermato che è stato lui a procurare i due elicotteri da guerra.

BELLANO FUORI CAMPO Il cacao utilizzato per pagare gli elicotteri di guerra è stato procurato da quattro cooperative ivoriane. Due di esse operano ai margini di foreste protette. Nelle foreste pluviali della Costa d’Avorio, in passato, vivevano migliaia di elefanti. Oggi ne sarebbero rimasti non più di 400, privati del loro habitat naturale. Una delle cause della deforestazione sarebbe la coltivazione del cacao.

EMANUELE BELLANO Ci sono piantagioni di cacao nelle foreste protette e nei parchi nazionali in Costa D’Avorio?

CHRISTOPHE AUGUSTE DOUKA – SINDACATO PRODUTTORI CACAO COSTA D’AVORIO Assolutamente sì. Il governo ha cacciato i coltivatori, ma le piantagioni sono ancora lì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le piantagioni all’interno dei parchi nazionali sono illegali. Dalla capitale finanziaria, Abidjian, percorriamo sette ore di macchina per arrivare nell’estremo ovest del paese. La prima tappa è una foresta protetta vicino al confine con la Liberia

ANGE ABOA - GIORNALISTA Questo cartello è l’insegna affissa da Sodefor per segnalare l’ingresso nella foresta protetta di Gouin Débé: un terreno di 133 mila ettari.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sodefor è la compagnia pubblica ivoriana che si occupa di conservare la foresta tropicale.

ANGE ABOA - GIORNALISTA Vedi? Qui i contadini hanno distrutto quest’ area di foresta per coltivare il cacao. Questa è una piccola pianta. Hanno abbattuto gli alberi perché il cacao non ama l’ombra e così queste piante potranno crescere più velocemente. Ecco vedi, questa è la ragione per cui distruggono la foresta. Questa qui è la cabossa di cacao.

EMANUELE BELLANO Cioè il frutto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le piantagioni di cacao sono dappertutto. Affianco a piantagioni vecchie, con più di 10 anni, ce ne sono altre giovani.

ANGE ABOA - GIORNALISTA Vedi, qui i contadini hanno distrutto quest’area di foresta per coltivare il cacao. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il territorio del parco nazionale in realtà è di proprietà dello stato.

EMANUELE BELLANO Come avete fatto a piantare il cacao?

CONTADINO Abbiamo tagliato le piante basse, pulito il sottobosco e poi abbiamo ucciso gli alberi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qualche chilometro più in là tra gli alberi si intravede del fumo.

ANGE ABOA - GIORNALISTA È così che fanno. Appiccano il fuoco alle radici di quest’albero e poi toccherà a quest’altro, che come vedi è già pronto. Accendono il fuoco e aspettano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La fiamma brucia le radici e l’albero muore. Poi alla fine cade: proprio come è successo a questo grande tronco. Sbarra la pista che porta dentro la foresta e per questi uomini, non resta che farlo a pezzi e toglierlo dalla strada.

EMANUELE BELLANO Cosa fate?

RACCOGLITORE Andiamo nei villaggi e raccogliamo le fave di cacao dai coltivatori e poi le vendiamo agli esportatori.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tutte queste piantagioni sono illegali, ma ogni giorno vengono raccolte qui tonnellate di cacao, che alla fine partono per l’Europa. È proprio in queste piantagioni immerse nelle foreste che in base a quanto denunciano le ONG lavorerebbe oltre un milione di bambini. Li incontriamo lungo la strada, con attrezzi o sacchi di cacao. Proviamo ad avvicinarne, uno ma appena si accorge di noi scappa via. Scendiamo più a fondo nella foresta, in un punto in cui si accede solo in moto. Anche qui tra una piantagione e l’altra ci sono bambini, anche molto piccoli. L’uomo dice che sono figli suoi.

EMANUELE BELLANO Vanno a scuola?

COLTIVATORE Sì, ma in questo periodo ci sono le vacanze, perciò vengono qui.

EMANUELE BELLANO Quanti anni hai?

BAMBINO 1 Otto anni.

EMANUELE BELLANO Quante ore al giorno lavori?

BAMBINO 1 Dalle nove di mattina alle 3 del pomeriggio.

EMANUELE BELLANO Preferiresti andare a scuola?

BAMBINO 1 Sì, certo.

EMANUELE BELLANO Qual è la parte più dura di questo lavoro? BAMBINO 2 È tagliare le piante, usare il machete. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Secondo le leggi internazionali far lavorare bambini così piccoli è illegale. Come è illegale coltivare cacao nelle aree protette. Eppure la ricevuta che ci mostra il coltivatore prova che tutto viene fatto alla luce del sole.

AL TELEFONO - COOPERATIVA ZOUZANKRO-CAZO Noi non abbiamo coltivatori che si trovano all’interno della foresta protetta.

EMANUELE BELLANO AL TELEFONO Ma noi abbiamo incontrato un coltivatore che ha una piantagione nella foresta protetta e che ha venduto a voi il suo raccolto. Quali sono le società che comprano il vostro cacao?

AL TELEFONO - COOPERATIVA ZOUZANKRO CAZO C’è Cargill e poi Barry Callebaut.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Cargill con base negli Stati Uniti ha una sede ad Abidjan, la capitale economica della Costa D’Avorio. Barry Callebaut ha sede in Svizzera: è uno dei principali esportatori dalla Costa D’Avorio e rifornisce di cacao la maggior parte dei produttori di cioccolato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, il contesto è quello che avete visto. Ed è per questo che le aziende che utilizzano il cacao proveniente dalla Costa D’Avorio, poi si presentano sul mercato europeo con delle certificazioni equo solidali ed etiche. É un certificato che tira perché il 72% dei consumatori del mondo sceglie dei prodotti di quelle aziende che hanno dimostrato di avere a cuore le sorti del pianeta. A certificare sono l’olandese UTZ, l’americana Rainforest, la tedesca Fairtrade. I prodotti che ha certificato quest’ultima azienda, da soli, nel 2016 hanno venduto per 7,8 miliardi di euro. Ed è stato proprio il mercato del cacao a tirare la volata. Ma queste certificazioni etiche, quanto poi sono davvero etiche?

EMANUELE BELLANO Da dove viene il cacao che utilizzate?

COMMESSA Africa, fondamentalmente

EMANUELE BELLANO Africa occidentale?

COMMESSA Sì.

EMANUELE BELLANO Quindi Costa d’Avorio?

COMMESSA Sì.

EMANUELE BELLANO Sa che nelle piantagioni, spesso, vengono utilizzati i bambini per la lavorazione del cacao?

COMMESSA Non è il nostro caso. Non è assolutamente il nostro caso. C’è tutto un programma di tracciabilità del cacao. Tutto è fatto ovviamente in maniera assolutamente legale.

EMANUELE BELLANO Come avviene questo?

COMMESSA Ci sono delle certificazioni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli enti di certificazione internazionali sono tre: UTZ con sede in Olanda, Rainforest Alliance negli Stati Uniti e Fairtrade, a Bonn, in Germania. Buona parte del cioccolato che troviamo in negozio ha sulla confezione uno di questi marchi. Altre volte, è sul sito del produttore: come nel caso della Ferrero, che afferma di utilizzare il 40 per cento di cacao certificato. Quasi tutto il cacao usato in Europa arriva ad Amsterdam in stabilimenti come questo. Qui viene immagazzinato in attesa di essere spedito alle industrie di cioccolato.

EMANUELE BELLANO Questo qui è certificato da Rainforest Alliance e viene dalla Costa D’Avorio. C’è il simbolo, lassù. DICK DE BRUIN - CWT COMMODITIES Questo invece è Fairtrade.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ad Amsterdam, fanno base tutte le grandi industrie del cacao. Abbiamo chiesto di visitare i loro magazzini. I no arrivano da Cargill, ADM, Dutch Cocoa. Gli unici a farci entrare sono loro che non lavorano il cacao ma svolgono un ruolo esclusivamente logistico.

DICK DE BRUIN - CWT COMMODITIES Dicono che è un sistema controllato, sicuro, ma non è così. In Africa il sistema è incontrollabile. Le certificazioni sono un pezzo di carta. Tutto qui. Ma sarà molto difficile da provare perché non hai nessun aiuto dal governo ivoriano ed è molto pericoloso, potrebbero farti del male.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per avere il marchio il cacao non deve essere prodotto sfruttando bambini né all’interno di foreste e parchi nazionali protetti. Infatti le città ivoriane sono piene di cooperative del cacao certificate. I marchi sono esposti sulla facciata e le fave di cacao sono a seccare su teli di plastica. Se si tira fuori la telecamera però.

ANGE ABOA - GIORNALISTA Basta, basta. Smetti di riprendere. Quel ragazzo era sospettoso. Non so, credo che abbia chiamato qualcuno, forse il capo. Quindi è meglio se andiamo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La persona che dovevamo incontrare è un dipendente di una cooperativa certificata con alcune informazioni per noi.

DIPENDENTE COOPERATIVA Hanno detto che vogliono fare un’inchiesta su di me e sono capaci di chiudere il mio contratto perché vi ho incontrato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Secondo questa persona le cooperative non rispetterebbero gli standard di certificazione. La foresta protetta di Gouin-Débé, nell’Ovest della Costa d’Avorio, è piena di magazzini di cacao.

UOMO Sì, questa cooperativa è certificata, sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La sede è a Bloléquin una piccola città appena fuori dalla foresta. Sono certificati con UTZ e con Fairtrade. Scritte e disegni sull’edificio ricordano che il cacao certificato non deve essere coltivato nella foresta e nelle piantagioni non devono lavorare bambini.

EMANUELE BELLANO Nella foresta protetta abbiamo visto un magazzino di cacao con la vostra insegna. Ma voi siete certificati con UTZ, con Fairtrade, perché avete un magazzino all’interno di un parco, dove il cacao si raccoglie da piantagioni illegali in cui spesso lavorano bambini?

AMMINISTRATORI COOPAWEB Non lo so, non mi ricordo di questo magazzino.

EMANUELE BELLANO Ma c’è la vostra targa, con il vostro nome. Lo state usando attualmente questo magazzino. AMMINISTRATORI COOPAWEB Il magazzino? Non lo so, ho detto che non ricordo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Eppure davanti al magazzino ci sono fave di cacao a essiccare e dentro sacchi stoccati e pronti per essere portati via. Ci spostiamo a est verso il grande parco nazionale di Marahoué. Poco prima di entrare, c’è un altro magazzino con il cartello di una cooperativa e i marchi UTZ, Rainforest Alliance e Fairtrade. Proprio sul sito italiano di Fairtrade la cooperativa Kavokiva è indicata come uno dei produttori di cacao equo e solidale italiano parte del circuito Fairtrade dal 2004 al 2016. Qui intorno, però, per chilometri non ci sono piantagioni di cacao.

ANGE ABOA - GIORNALISTA Il cacao per crescere ha bisogno di un buon terreno. E nel parco nazionale la terra è migliore.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le prime piantagioni infatti appaiono appena si entra nel parco nazionale. Tutta la foresta è stata abbattuta e sostituita da piante di cacao.

EMANUELE BELLANO Ci sono bambini che lavorano nelle vostre piantagioni?

CONTADINO 1 Sì, sì, ce ne sono molti.

EMANUELE BELLANO Che età hanno?

CONTADINO1 Dieci anni, undici anni.

EMANUELE BELLANO Le cooperative certificate comprano cacao da queste piantagioni?

CONTADINO 1 Sì, per esempio c’è Kavokiva.

EMANUELE BELLANO Ci sono altre cooperative certificate che comprano in quest’area?

CONTADINO 2 Socopad

CONTADINO 3 Io vendo a Zamacom

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Appena fuori dal parco nazionale c’è un altro magazzino. Anche questo ha la certificazione etica UTZ. La cooperativa che lo usa è convenzionata con Zamacom. È il ramo ivoriano di una multinazionale delle materie prime alimentari, il gruppo Ecom con sede in Svizzera, che rifornisce cioccolaterie e industrie del cioccolato in tutta Europa. Socopad invece è una grande cooperativa con sede a Daloa, la capitale ivoriana del cacao.

ANGE ABOA - GIORNALISTA È possibile parlare con qualcuno?

VOCE DA DENTRO No, non c’è nessuno con cui parlare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La cooperativa è certificata UTZ e Rainforest Alliance. Sulle pareti, a grandi lettere, i decaloghi degli enti certificatori ricordano che quel cacao non deve venire dalla foresta e non può essere prodotto con il lavoro minorile.

ANGE ABOA - GIORNALISTA Scusate ma è meglio andare. Mi dispiace, ma non è prudente stare ancora qui.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Piccole cooperative e coltivatori individuali vendono il loro cacao certificato a intermediari anche loro certificati dagli enti internazionali. Sono questi poi a vendere i sacchi di cacao alle multinazionali occidentali.

EMANUELE BELLANO Qui avete cacao ordinario e cacao certificato. Qual è la differenza sul prezzo?

IBRAHIM BAGALÀ - SABF CACAO Se per esempio il cacao ordinario sta a mille franchi al chilo, il certificato ce lo pagano cento franchi in più.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel suo magazzino il cacao ordinario è stipato da un lato, quello certificato dall’altro. Lo stesso avviene nei magazzini di tutte le cooperative che abbiamo visitato.

EMANUELE BELLANO Se ho i sacchi di cacao ordinario e quelli di cacao certificato nello stesso magazzino, sarà conveniente mischiarlo per guadagnare di più.

CHRISTOPHE AUGUSTE DOUKA – SINDACATO PRODUTTORI CACAO COSTA D’AVORIO Sì, certo, lo vendo più caro.

EMANUELE BELLANO Dunque, c’è una possibilità che venga mischiato?

CHRISTOPHE AUGUSTE DOUKA – SINDACATO PRODUTTORI CACAO COSTA D’AVORIO Lo mischiano, lo mischiano certo.

EMANUELE BELLANO Chi sono i responsabili di queste società di certificazione che devono verificare che la filiera sia davvero certificata?

CHRISTOPHE AUGUSTE DOUKA – SINDACATO PRODUTTORI CACAO COSTA D’AVORIO Non ci sono

MICHELE NARDELLA - INTERNATIONAL COCOA ORGANIZATION La tracciabilità è molto difficile anche perché sarebbe molto costosa.

EMANUELE BELLANO Però una certificazione senza tracciabilità rischia di essere un marchio buttato un po’ lì a caso.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Michele Nardella è un dirigente dell’International Cocoa Organization, l’organo internazionale collegato alle Nazioni Unite e con sede ad Abidjan, Costa D’Avorio, che controlla l’economia del cacao e la sua sostenibilità.

MICHELE NARDELLA - INTERNATIONAL COCOA ORGANIZATION L’unico modo per avere una tracciabilità è che ogni sacco di cacao ha un codice a barre e a quel codice a barre corrisponde una locazione con un GPS. Io non sono a conoscenza di nessun sistema del genere. Questi enti di certificazione non hanno mai, non dicono di avere un prodotto tracciabile.

EMANUELE BELLANO Quindi il marchio etico in realtà è tutta una finta insomma.

MICHELE NARDELLA - INTERNATIONAL COCOA ORGANIZATION Ma questo bisognerebbe chiederlo a loro ai certificatori

EMANUELE BELLANO Siete sicuri che le cooperative in Costa D’Avorio da voi certificate non usino bambini nelle piantagioni e non raccolgano cacao all’interno delle foreste protette e dei parchi nazionali?

INDIRA FRANCO – FAIRTRADE ITALIA I territori dove noi lavoriamo sono territori molto poveri con grandissimi problemi. Non possiamo garantire al cento per cento che in una tavoletta non sia stato utilizzato, credo che non ci riuscirebbe nessun certificatore.

EMANUELE BELLANO E allora forse sarebbe meglio non metterli i marchi di certificazione, no?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Da una tavoletta con il marchio Fairtrade il consumatore si aspetterebbe che la certificazione significhi: niente piantagioni in zone protette e niente lavoro minorile.

INDIRA FRANCO – FAIRTRADE ITALIA Da nessuna parte lo scriviamo.

EMANUELE BELLANO Da nessuna parte lo scrivete.

INDIRA FRANCO – FAIRTRADE ITALIA No. Da nessuna parte noi diciamo “child labour free”.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E allora cosa garantisce la certificazione Fairtrade?

INDIRA FRANCO – FAIRTRADE ITALIA È nata per combattere la povertà e per combattere situazioni di scarso sviluppo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma chi finanzia questo nobilissimo intento?

INDIRA FRANCO – FAIRTRADE ITALIA Per ogni tavoletta, poniamo, di Kit-Kat, Nestlé, che in Inghilterra viene venduta con il marchio Fairtrade, una parte va pagata in diritti di licenza Fairtrade. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quindi Nestlé, Mars e le altre grandi aziende del cacao finanziano Fairtrade con una percentuale del loro fatturato. EMANUELE BELLANO Un sistema così organizzato, non mette le grandi multinazionali del cacao in una posizione di forza rispetto all’ente che dovrà certificare che i loro prodotti siano veramente conformi a questi criteri etici?

INDIRA FRANCO – FAIRTRADE ITALIA No. Ci sono sempre discussioni in atto. Chiaramente è ovvio che una Nestlé magari conta più di un artigiano.

EMANUELE BELLANO Penso di sì.

INDIRA FRANCO – FAIRTRADE ITALIA Ecco.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma chi sono Fairtrade e gli altri enti di certificazione? Formalmente sia UTZ che Fairtrade risultano associazioni senza scopo di lucro.

GIAN GAETANO BELLAVIA - COMMERCIALISTA A monte c’è una fondazione, le cosiddette Stichting olandesi, che controlla una società operativa. Quindi una capogruppo non profit, ovviamente senza scopo di lucro, che però controlla una società di capitali che guadagna.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Infatti la Fondazione UTZ è proprietaria al 100 per cento della società di capitali olandese UTZ BV. Di fatto, una srl. Stessa cosa per Fairtrade, associazione senza scopo di lucro, ma unico proprietario della società tedesca Flocert. Entrambe, pur essendo non profit fanno un sacco di utili. UTZ, per esempio, nel 2014 ha fatturato 10 milioni di euro e ha registrato un utile di 4 milioni di euro: pari a circa il 40 per cento.

GAETANO BELLAVIA - COMMERCIALISTA Sono livelli molto elevati in percentuale. Lei deve considerare che le normali società di certificazione di prodotto, possono arrivare a un 3, al 5, al 6 per cento di utile, mai al 30-40 per cento. EMANUELE BELLANO Molto profit.

GAETANO BELLAVIA - COMMERCIALISTA Molto profit. Molto profit nel non profit.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Profit e inoltre godono anche di denaro pubblico. UTZ ha ricevuto 3,2 milioni dal governo olandese, mentre Rainforest, 11 milioni da fondi governativi americani. Ma a che titolo? Non hanno risposto a questa domanda. UTZ ha anche incassato 177 mila euro dalle aziende a cui rilascia le certificazioni etiche. Ma di quali certificazioni etiche parliamo se poi, per loro stessa ammissione, non riescono a controllare i produttori africani 365 giorni l'anno. Ma questo nessuno lo chiede: basterebbe però che ogni tanto, come ha fatto il nostro Emanuele Bellano, andassero sul posto e guardassero con i loro occhi quello che succede. Mentre invece le aziende certificate Mars e Ferrero, gli unici che ci hanno risposto, hanno ammesso il problema e si impegnano a risolverlo ma, ci scrivono “ci vorrebbe un’azione condivisa tra industria, governi, ong e produttori”. Ecco. Non possiamo che apprezzare la loro onestà intellettuale.

·        Il Cibo che ingrassa.

Erin Brodwin per "it.businessinsider.com" il 7 febbraio 2021. Nella guerra mondiale tra cibi gli zuccheri e i grassi sono gli eserciti allo scontro finale. È intuitivo che i cibi sostanziosi, come i cremosi avocado o il salmone ben imburrato, possano contribuire all’aumento di peso. Accumulare dolciumi come cereali dolci o ciambelle piene di carboidrati è allo stesso modo poco utile a tenere sotto controllo il giro vita. Gli scienziati stanno sempre più esaminando cosa succede nel nostro corpo quando indulgiamo regolarmente al consumo di grandi quantità di zuccheri o grassi presi singolarmente. In molte parti del mondo questi due ingredienti sono raramente mangiati da soli. Prendete ad esempio le doughnuts, le ciambelle. Quando l’impasto pieno di carboidrati è fritto nell’olio, si ottiene una classica combinazione di zuccheri e grassi con un sapore ricco che dà una forte sensazione di appagamento, difficile da evitare. Una crescente mole di prove inizia a suggerire che se mangiato da solo il grasso non contribuisce all’aumento di peso. D’altra parte, dozzine di studi indicano che lo zucchero da solo è legato in modo significativo all’aumento di peso. Il titolo di un recente libro di Aaron Carroll, professore di pediatria alla Indiana University School of Medicine, è The Bad Food Bible: How and Why to Eat Sinfully (La bibbia del cibo malvagio: come e perché mangiare peccaminosamente). “C’è una cosa che sappiamo a proposito dei grassi,” ha scritto. “Il consumo di grassi non provoca aumento di peso. Al contrario, potrebbe piuttosto aiutare a perdere qualche chilo”. Ciò significa che i cibi come i burrosi avocado, l’appetitoso salmone e le saporite noccioline dovrebbero forse avere un posto nella vostra dieta. Se li aveste banditi durante la moda dietetica a basso contenuto di grassi degli anni Novanta, è tempo di recuperarli.

La prova è nel vasetto del budino. Per inchiodare alla sua responsabilità quale ingrediente – zucchero o grasso – sia responsabile dei maggiori effetti negativi sulla salute, aiuterà mettere a confronto persone che hanno mangiato a basso tenore di grassi o di carboidrati.

Ancora una volta, gli studi che se ne occupano indicano come le persone che hanno ridotto i grassi non solo non perdono peso, ma non riducono nemmeno il rischio di malattie. Al contrario, le persone che mangiano molti grassi ma tengono sotto controllo i carboidrati raffinati come i cereali addolciti, il pane e il riso bianco tendono invece a veder diminuire entrambe le cose. In altre parole, la prova che lo zucchero sia correlato all’aumento di peso è nei vasetti che mangiamo – in modo abbastanza letterale. Secondo un resoconto di diverse ricerche pubblicato sulla rivista «The Lancet», gli scienziati hanno messo a confronto oltre 150.000 persone in 18 stati, con diete alternativamente ad alto tenore di grassi o a basso tenore di carboidrati. Le persone che seguivano diete a basso tenore di grassi avevano più probabilità di morire per cause diverse; c’era poi un grande rischio di morire per attacchi di cuore o malattie cardiache. Per contrasto, le persone con diete a basso tenore di carboidrati avevano un rischio significativamente minore di andare soggetti a entrambe queste conseguenze. I risultati ottenuti sono sembrati così solidi, hanno concluso gli autori del resoconto, che “andrebbero riconsiderate le linee guida dietetiche globali,” hanno scritto.

Cosa accade quando riduciamo i grassi. Una conclusione del genere ha ancora più senso quando si guardi a ciò che accade quando le persone provano a togliere i grassi dalle proprie diete. In genere, finiscono soltanto per passare da ingredienti ricchi e cremosi a cibi pieni di zuccheri e carboidrati. Durante una verifica durata otto anni, che ha coinvolto quasi 50.000 donne, gli scienziati hanno messo circa una metà di queste a una dieta  a basso tenore di grassi. Le soggette a questo tenore alimentare non solo non hanno perso granché peso, ma neanche una diminuzione del rischio di cancro al seno, tumore del colon-retto o esiti di malattie cardiache comunemente associati a un piano alimentare più sano. Una parte del problema è in ciò che succede al resto della nostra dieta quando cerchiamo improvvisamente di mangiare solo cibi a basso tenore di grassi. Molti alimenti pronti al consumo nella categoria “low-fat” sono pieni di zuccheri e carboidrati. Prendete ad esempio i cereali comuni, quelli in barrette, lo yogurt, e date un occhiata alla tabella nutrizionale: sono tutti ad alto tenore di zuccheri e carboidrati, nonostante siano a basso contenuto di grassi. Allo stesso tempo, alcuni studi suggeriscono che entrambi questi ingredienti siano strettamente collegati all’aumento di peso. Da un resoconto sui risultati di cinquanta studi su diete e aumento di peso, pubblicato sulla rivista Food and Nutrition Research si vede come, in media, più si mangiava frumento raffinato (come quelli nei cereali lavorati da colazione, o nelle barrette) più si aumentava di peso, durante il periodo preso in esame dallo studio. Mentre quindi i prodotti a basso contenuto di grassi sono commercializzati come strumenti per perdere peso, la realtà è che questi prodotti possono contribuire molto di più a far aumentare di peso di un prodotto ricco di grassi ma povero in carboidrati raffinati. Il messaggio da portarsi a casa da tutto ciò è che i grassi sono elementi dietetici cruciali, mentre gli zuccheri – nonostante siano presenti in dozzine di cibi quotidiani – non lo sono. Ciò significa che a fronte di una maggiore fatica per tenere a freno l’assunzione di zuccheri, le prove disponibili suggeriscono che ne vale la pena, rispetto a quella necessaria per ridurre i grassi.

·        Il Cibo che inquina.

Da "liberoquotidiano.it" il 6 giugno 2021. Avete presente le stoviglie di bambù, dalle forchette ai coltelli e fino ai piatti? Bene, in Svizzera verranno presto vietate. Anche se ecosostenibili e "green". La ragione? Come spiega ilfattoalimentare.it, verranno ritirate dal mercato e vietate perché possono essere dannose per la salute dei consumatori. Insomma, l'alternativa ecologica nasconderebbe delle gravi insidie. Il punto è che questi prodotti sono realizzati miscelando le fibre di bambù con resine e polimeri plastici, che possono contaminare gli alimenti con sostanze pericolose, come melammina e formaldeide. Per questo non sono né biodegradabili né compostabili. Ancora la data del ritiro ufficiale non è stata comunicata, ma il provvedimento è stato confermato dall’Ufficio federale della sicurezza alimentare e di veterinaria (Usav) a RSI. La decisione è arrivata dopo un’indagine del Servizio del consumo e degli affari veterinari (Scav) del cantone di Ginevra, indagine che ha dato risultati preoccupanti. Ne dettaglio, sono stati analizzati 88 campioni di stoviglie realizzati con fibre vegetali, tra i quali quelle in bambù. I campioni sono poi stati analizzati per cercare una quarantina di sostanze, tra cui formaldeide, melammina e interferenti endocrini. Per questi ultimi, i controlli non hanno rivelato irregolarità. Il problema, semmai, riguarda formaldeide e melammina: il 38% dei prodotti era fuori norma per il superamento dei limiti di queste sostanze, alla base della resina plastica utilizzata per la fabbricazione dei prodotti in questione.  Come spiega lo studio, quando le stoviglie in bambù vengono scaldate o entrano in contatto con alimenti acidi, come il limone, l’aceto o il pomodoro, possono liberare formaldeide e/o melammina, circostanza che potrebbe contaminare il cibo che viene poi ingerito. Si ricorda che la formaldeide è considerata dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) come una sostanza cancerogena per gli esseri umani (gruppo 1), mentre la melammina può causare lesioni ai reni. Insomma, vietate in Svizzera. L'Italia che farà?

Dagotraduzione dal DailyMail il 6 giugno 2021. I ricercatori del Colorado hanno scoperto che i livelli di metano nei gas serra sono aumentati lo scorso anno di 14,7 parti per miliardo, il doppio rispetto al 1983, anno in cui è iniziato il monitoraggio. «È un aumento più grande di quello registrato nei primi anni '80, quando l'industria del gas era in forte espansione» ha detto Euan Nisbet, professore di scienze della terra alla Royal Holloway di Londra al New Scientist. Secondo alcuni esperti l'eccessiva produzione di metano è da attribuire al fracking, una tecnologia per estrarre il petrolio o ad altre attività umane, come l'allevamento di bovino e ovini. Ma il metano analizzato dai ricercatori del Colorado è ricco di carbonio-12, un elemento chimico che è associato alle zone umide e all'agricoltura più che ai combustibili fossili. «I combustibili fossili fanno sicuramente parte del quadro, ma è difficile spiegare i nostri dati senza avere un aumento del metano biogenico», cioè del metano prodotto dai processi di decomposizione in determinate condizioni climatiche. Gli scienziati hanno provato a spiegare il fenomeno partendo dalle temperature: i microbi producono più metano quando fa caldo, e il clima più caldo genera più microbi, creando un ciclo mortale. «E se sottili cambiamenti di temperatura e precipitazioni aumentassero le emissioni naturali di metano?» dice Ed Dlugokencky, un chimico ricercatore presso la NOAA. «Sarebbe coerente con i segnali isotopici osservati. Ma complicherebbe anche la sfida di ridurre le emissioni di gas serra per stabilizzare il clima». Secondo il recente Global Methane Report delle Nazioni Unite le emissioni di metano devono essere ridotte del 45 per cento per evitare l'aumento di 0,3 gradi Celsius di riscaldamento globale - e 255.000 morti premature - entro il 2040. Abbattere le emissioni di metano dovrebbe essere più semplice che agire sull'anidride carbonica. Tra gli sforzi da mettere in pratica c'è quello di vietare le discariche scoperte ed evitare perdite nei pozzi di gas e nelle conduttore. Una startup europea ha escogitato una soluzione ancora più ingegnosa: il produttore anglo-svizzero Mootral ha ideato un integratore alimentare a base di aglio e agrumi che promette di ridurre la flatulenza dei bovini del 30%. La Cnn ha calcolato che se fosse adottato in tutto il mondo, si eviterebbe una quantità di emissioni di metano equivalente a quella di 300 milioni di auto.

Così una fattoria può diventare carbon-negative. Fabio Marzano su La Repubblica l'11 marzo 2021. La strategia per le emissioni di gas serra passa da una dieta con più grassi per le mandrie e campi digitalizzati per controllare la maturazione di frutta, verdura e foraggi. Con un controllo hi-tech per il consumo di acqua per irrigazione. Una dieta con più grassi per le mandrie e campi digitalizzati per controllare la maturazione di frutta, verdura e foraggi. Nella fattoria a emissioni zero innovazione tecnologica e pragmatismo contadino viaggiano in parallelo. L'alimentazione e la gestione degli animali insieme all'Internet of Things per le piante sono gli interventi a portata di mano per rendere più sostenibile il settore.  Secondo l'ultimo rapporto dell'Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) agricoltura e allevamento in Italia sono responsabili del 7 per cento delle emissioni di gas serra ma la quota a livello globale è quasi quattro volte tanto. Pesa anche il consumo di acqua per l'irrigazione che in Italia sfiora il 50 per cento del totale utilizzato. Per non parlare del metano rilasciato durante la digestione dei bovini che rappresenta il 10 per cento di quello concentrato nell'aria. Un tentativo di tassazione della fase più intima della digestione bovina, poi soprannominata Fart Tax, era naufragato nel 2009 negli Stati Uniti. In realtà, nel lungo periodo il potenziale inquinante del metano è 28 volte maggiore di quello dell'anidride carbonica.  Il primo passo per la transizione ecologica di una fattoria è sapere quante emissioni di CO2 produce l'attività. Ed è quello che ha fatto un team di ricerca internazionale su 19 ettari di allevamento in provincia di Viterbo. I risultati dello studio sono stati pubblicati una settimana fa sulla rivista Journal of Cleaner Production. "Si tratta di un metodo che integra diversi criteri per la valutazione dell'impronta di carbonio lungo tutte le fasi dell'allevamento" spiega Riccardo Valentini, docente di ecologia forestale all'Università della Tuscia e coordinatore della ricerca. "Dalla produzione di metano nel processo di digestione degli animali fino alle emissioni di ossidi di azoto nella lavorazione del letame, l'effetto dei fertilizzanti e delle macchine agricole, nonché gli strumenti per la lotta ai parassiti". Poi si passa all'azione. Una delle sperimentazioni più promettenti riguarda la dieta della mucche. Una maggiore presenza di grassi nel menù quotidiano, così come una maggiore qualità dei foraggi, è in grado di ridurre la quantità di metano rilasciata dagli animali. "Poi è necessario aumentare la capacità di accumulo del carbonio nel suolo evitando di sovraccaricarlo e lasciando che i resti delle coltivazioni, per esempio di foraggio, rimangano al suolo come una copertura spontanea. Così si aumenta la presenza di humus e la capacità naturali del terreno di sequestrare il carbonio", prosegue Valentini. "Le aziende agricole che abbiamo studiato producevano 3,9 megatoni di anidride carbonica all'anno. Con un modello di lavorazione minima, che prevede tra le altre cose la coltivazione del foraggio in azienda e la valorizzazione energetica del letame, non solo si possono ridurre a zero le emissioni ma risparmiare fino a 5 megatoni diventando di fatto carbon negative". Considerata l'età media degli allevatori e le superfici bonsai delle aziende italiane la svolta green della campagna non sarà immediata. La scarsa confidenza con l'informatica è uno dei freni che rallenta il percorso verso la sostenibilità perché la cosiddetta agricoltura di precisione offre davvero opportunità fino a ieri impensabili. A partire dal monitoraggio in remoto delle piante con sensori in grado di registrarne anche le condizioni di salute che consente di pianificare eventuali trattamenti con fertilizzanti e insetticidi. Secondo uno studio dell'Università La Statale di Milano, con questi strumenti si può risparmiare fino al 50 per cento di agrofarmaci e il 70 per cento di acqua consumata oggi per l'irrigazione.

+ Emissioni di gas serra: Cattiva alimentazione dei bovini, non valorizzazione del letame, scarsa manutenzione dei campi, trasporti inquinanti e assenza di interventi di efficienza energetica.

- Emissioni di gas serra: dieta ricca di grassi per i bovini, trasformazione del letame in biogas, riduzione dei fertilizzanti e coltivazionedi piante perenni per il foraggio.

LO STUDIO. Carne e salumi, quei 37 miliardi di costi nascosti. Alessandro Sala il 9 marzo 2021 su Il Corriere della Sera. La ricerca Demetra prende in considerazione l’impatto che la produzione di bovini, suini e pollame ha su ambiente e sistema sanitario: una «tassa» di 650 euro in più per ogni cittadino. Lav: «Le istituzioni spingano verso un’alimentazione a base vegetale». C’è il prezzo nominale, che paga il consumatore che acquista tagli di carne o salumi da un rivenditore, sia esso una bottega di quartiere o un punto vendita della grande distribuzione. E poi c’è un prezzo reale, quello che non risulta sullo scontrino, che pagano di fatto tutti i cittadini, anche quelli che non hanno beneficiato direttamente dell’acquisto. E non è roba da poco: in un anno sulla collettività finiscono col gravare quasi 37 miliardi di euro di costi nascosti dovuti alla produzione di carne. A determinarli sono che conseguenze dell’impatto che l’intera filiera ha sull’ambiente e la maggiore spesa sanitaria determinata dalle malattie connesse con i consumi eccessivi. I conti li ha fatti Demetra, società di consulenza nell’ambito della ricerca scientifica sulla sostenibilità, che in uno studio indipendente diffuso in queste ore ha provato a quantificare il vero peso economico di ogni porzione di carne che finisce nei piatti degli italiani. La cifra complessiva è considerevole — e ripartita sulla popolazione significa una sorta di «tassa» di 650 euro pro-capite, molto più di una manovra di bilancio in tempi di pace —, ma è solo parziale perché la ricerca ha preso in considerazione solo le carni maggiormente diffuse in Italia, ovvero quelle di bovino, suino o del comparto avicolo (pollame e dintorni), senza tenere conto del resto degli animali allevati a scopo alimentare che, pur se quota minoritaria, rappresentano il 3,1% del totale. Passando dal livello macro al dettaglio, lo studio evidenzia come a 100 grammi di pollo corrispondano costi per la collettività pari a 50 centesimi. Per la stessa quantità di maiale i costi salgono ad 1 euro e arrivano a quasi il doppio (1,9o) nel caso di bovini o salumi. Detto in altri termini, se questi costi facessero parte del prezzo pagato dai consumatori il prezzo al chilogrammo della carne bovina e dei salumi sarebbe di 19 euro in più rispetto all’attuale, quello del maiale di 10 euro in più e quello dei polli di 5 euro in più. L’impatto maggiore, sui grandi numeri, è quello dei salumi, sia perché registrano un consumo elevato, sia perché danno origine a costi sanitari maggio rispetto ad altri tipi di carne (anche l’Organizzazione mondiale della sanità li aveva individuati come alimenti che dovrebbero essere consumati con moderazione). Tenendo conto invece dei soli costi ambientali, la quota maggiore va attribuita all’allevamento dei bovini (dei 19 euro di cui si parlava, sono ben 13,5 quelli riferibili all’impatto sull’ambiente). «In un anno — si legge nel comunicato di sintesi — le emissioni associate al ciclo di vita della sola carne bovina consumata in italia equivalgono a oltre 18 milioni di tonnellate di Co2 equivalente, per un costo nascosto annuale di oltre un miliardo di euro». L’analisi dei costi sanitari, calcolati sulla base dei consumi medi e riferiti ad alcune delle patologie più strettamente connesse con il consumo di carne, stima in circa 350 mila gli anni di vita persi ogni anno in Italia. Va da sè che la produzione di qualunque cibo, anche vegetale, porti con sé inevitabilmente dei costi che vengono «socializzati», ovvero distribuiti sulla collettività. Ma alcuni prodotti alimentari, dal punto di vista dell’impatto sociale, risultano oggettivamente più onerosi di altri. Come se ne esce? La soluzione è nel cambiamento degli stili di vita e, sostanzialmente, nella riduzione generalizzata dei consumi di carne. «L’alternativa esiste ed emerge palese da questa ricerca — sottolinea Roberto Bennati, direttore generale di Lav, che ha commissionato lo studio a Demetra —. La produzione di 100 grammi di legumi costa alla collettività, in termini di impatti ambientali e sanitari, circa 5 centesimi di euro. Le proteine vegetali sono un’alternativa sana e di bassissimo impatto ad un’industria, quella della carne, eccezionalmente dannosa oltre che crudele». Lav chiede dunque che vi sia una spinta decisa da parte delle istituzioni, si a livello nazionale sia a livello di Ue, per l’avvio di politiche che agevolino la transizione verso un’alimentazione più «green», anche attraverso la leva fiscale e la rimodulazione dei contributi della Politica agricola comune europea, per favorire attività agricole più sostenibili. Non sarà facile cambiare le abitudini degli italiani. Proprio oggi, gli organizzatori della manifestazione fieristica «Tutto Food», che si svolgerà nei prossimi giorni a Milano e che avrà un padiglione dedicato al comparto carne, hanno diffuso i numeri di un report (su elaborazione Iri) secondo cui le vendite di carne confezionata a peso imposto nella distribuzione organizzata sono salite in valore del 13,4%, arrivando a sfiorare il miliardo di euro. A dicembre, secondo lo stesso rapporto, l’incremento è stato ancora più marcato, un +14,8% con vendite per 87 milioni di euro in un solo mese.

L’insostenibile costo della carne. Per ogni kg di bovino o maiale 19 euro in più: il vero prezzo, inclusi i danni ambientali e sanitari. Luisiana Gaita il 9/3/2021 su Il Fatto Quotidiano. Ogni anno oltre 36 miliardi: è il costo per la salute e per l'ecosistema, generato dal ciclo di vita dei prodotti alimentari derivanti da bovini, suini e polli: si va dall'acidificazione terrestre all'insorgere di malattie legate al consumo di prodotti animali. Un danno e una spesa collettiva quantificati per la prima volta nella ricerca scientifica indipendente realizzata da Demetra per Lav. Un hamburger di manzo da 100 grammi riposto nel carrello della spesa non costa solo il prezzo visibile sullo scontrino. C’è un costo ‘nascosto’, aggiuntivo, di almeno 1,9 euro, che corrisponde al valore economico dei danni ambientali (1,35 euro) e sanitari (54 centesimi) prodotti durante il ciclo di vita di quell’etto di carne di bovino. Significa 19 euro al chilo. Stessa cifra anche per la carne di maiale lavorata: in questo caso, però, un chilo di prosciutto, mortadella, wurstel o salame costa in media 5 euro per i danni ambientali, ma 14 euro per quelli sanitari. Per un chilo di carne di maiale fresca il sovrapprezzo è di oltre 10 euro (4,9 di costi ambientali, 5,4 di sanitari), mentre è di circa 5 euro per ogni chilo di pollo. Sono le stime a cui giunge uno studio indipendente realizzato per LAV (Lega Anti Vivisezione) dalla onlus Demetra, società di consulenza in ambito di ricerca scientifica sulla sostenibilità. Un lavoro che Ilfattoquotidiano.it presenta in esclusiva e offre in anteprima ai suoi Sostenitori (se non sei ancora Sostenitore scopri come diventarlo). Si tratta di una ‘traduzione economica’ dei danni causati da produzione e consumo di carne e che ricadono su ogni cittadino, indipendentemente dal suo consumo di carne e non solo da quel 90% di italiani, onnivoro, che ne consuma in media 128 grammi al giorno.

LE PAROLE DEL MINISTRO – La ricerca viene pubblicata a pochi giorni dalle parole pronunciate dal ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, nel suo intervento alla conferenza preparatoria della ‘Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile’, che ha suscitato le reazioni delle associazioni di categoria. Secondo il ministro “si dovrebbe diminuire la quantità di proteine animali sostituendole con quelle vegetali” oltre che per una questione di salute, anche perché “la proteina animale richiede sei volte l’acqua della proteina vegetale, a parità di quantità” e “gli allevamenti intensivi producono il 20% della CO2 emessa a livello globale”. Per Lav non c’è altra strada, se non quella di “una transizione alimentare, che veda ridursi drasticamente e rapidamente il consumo di proteine animali in favore di quelle vegetali” spiega a ilfattoquotidiano.it il direttore generale Roberto Bennati. Un cambio di rotta in un momento in cui “il settore zootecnico – aggiunge – si regge grazie a flussi continui di sussidi nazionali e provenienti dall’Unione Europea, per non parlare delle campagne pubblicitarie nelle quali non si fa cenno alla vita da cloni a cui sono costretti milioni di animali”.

IL COSTO "NASCOSTO" DELLA CARNE – Lo studio si concentra sulle carni più diffuse nel nostro Paese: da bovino fresca e lavorata (bresaola e carne in scatola), maiale, maiale lavorato e pollo. Ogni giorno un italiano onnivoro mangia in media 61 grammi di carne di maiale (44,9 sono di carne lavorata), 33 di pollo, 29 di carne di bovino (27 grammi di carne fresca), oltre a circa 4 grammi di altre carni meno diffuse (conigli, cavalli, ovi-caprini). Secondo la ricerca, il costo nascosto della carne che ricade sulla collettività ammonta in media a 36,6 miliardi di euro all’anno, ossia quanto servirebbe potenzialmente per rimediare ai danni generati. Si tratta di 605 euro per ogni cittadino, con un range che varia dai 316 ai 1.530 euro a testa. Dovuti per il 48% a costi ambientali e per il 52% a quelli sanitari. Come ordine di grandezza, la cifra equivale alla somma di tre imposte attive in Italia: quella sull’energia elettrica e gli oneri di sistema (14,4 miliardi di euro nel 2017), l’addizionale regionale Irpef (11,8 miliardi), l’imposta sui tabacchi (10,5 miliardi). “Equivale all’incirca all’ammontare delle risorse annuali che avremo dal Recovery Plan, ossia quei 200 miliardi in sei anni” aggiunge Bennati. E si tratta verosimilmente, spiegano gli autori, “di una sottostima dell’effettivo costo nascosto” dovuta all’esclusione di alcune categorie ambientali e malattie direttamente o indirettamente collegate al consumo di carne, “per mancanza di una robusta letteratura scientifica” riguardo ai potenziali impatti.

QUASI 20 MILIARDI ALL’ANNO IN PIÙ PER LA CARNE LAVORATA – Considerando il valore economico dei danni cha ogni anno ricadono sui cittadini, il contributo principale (54%) arriva dal consumo di carne di maiale lavorata che costa 19,7 miliardi di euro all’anno, dato l’elevato consumo (46 grammi al giorno in media) e gli elevati impatti sanitari (per 14,4 miliardi). Segue la carne di bovino (31% del costo, includendo quello della carne lavorata), per cui la collettività paga 11,5 miliardi, 8 a causa dell’impatto ambientale degli allevamenti. Due i principali fattori: minor resa di conversione alimentare ed emissioni di metano generate dalla fermentazione enterica. La carne di pollo grava per circa 3,2 miliardi, 53 euro a testa. Nello studio sono tutti addebitati all’impatto ambientale ma, va sottolineato, per calcolare quello sanitario è stata considerata solo la relazione tra il rischio di contrarre le quattro malattie analizzate (carcinoma del colon-retto, diabete di tipo 2, ictus e malattie cardiovascolari) e il consumo di carne rossa o lavorata, le uniche per cui è stato trovato un rapporto causale suffragato da dati solidi. Eppure, quei 5 euro di danni ambientali per ogni chilo di prodotto, sono un valore doppio rispetto al costo medio del pollo all’ingrosso. La carne di maiale fresca (circa il 17% della carne di maiale consumata), invece, costa circa 37,5 euro all’anno per abitante e 2,3 miliardi alla collettività (sia per l’impatto ambientale, sia per quello sanitario, di poco maggiore). “Queste cifre rendono la produzione di carne economicamente insostenibile” spiega a ilfattoquotidiano.it l’ingegnere ambientale Guido Scaccabarozzi, ricercatore di Demetra e tra gli autori del rapporto. “Se fossi un allevatore e lo Stato mi chiedesse di compensare i costi ambientali e sanitari che contribuirei a produrre – aggiunge – lo considererei un forte deterrente”.

IL CICLO DELLA CARNE IN ITALIA – La tipologia di carne oggi più prodotta in Italia è quella di maiale, anche se la maggior parte di quella consumata arriva da animali nati o allevati all’estero. Nel nostro Paese si macellano circa 595 milioni di animali all’anno e sono quasi tutti polli (534 milioni). E se negli allevamenti la popolazione di animali ammonta a circa 200 milioni,150 milioni sono ancora una volta polli (il 73% degli animali vivi al momento del censimento). Per ogni persona residente in Italia, ci sono circa 2,5 polli vivi ma, data la loro breve vita, ogni anno ne vengono macellati quasi 9 a testa. “Sicuramente le emissioni di metano legate ai bovini vanno a incidere in modo fondamentale sui cambiamenti climatici, soprattutto se consideriamo i numeri di cui stiamo parlando – spiega Guido Scaccabarozzi – ma, proprio in tema di numeri, fa riflettere che la popolazione di polli sia superiore a quella dei cittadini”.

LE ALTERNATIVE VEGETALI – L’indagine confronta anche l’impatto dei diversi tipi di carne con possibili alternative vegetali, come piselli e soia. “L’obiettivo principale – aggiunge Scaccabarozzi – è quello di scattare una fotografia degli impatti generati oggi e aiutare consumatori e decisori politici a essere più consapevoli dei potenziali costi per la società e non è quello di stimare la variazione degli impatti qualora gli italiani decidessero di cambiare dieta, verso un’alimentazione a base di legumi. Per capire gli effetti di una ipotetica conversione verso la produzione vegetale sarebbe opportuno, infatti, condurre ulteriori studi, in quando entrerebbero in gioco diverse dinamiche”. Di fatto, il costo ambientale e sanitario dovuto al consumo di 100 grammi di legumi è di 5 centesimi di euro, più basso rispetto a quello generato da tutti i tipi di carne considerati nello studio. Anche escludendo i benefici sanitari derivanti da una dieta a base di legumi, il costo nascosto della carne risulta tra le 8 e le 37 volte quello dei legumi. Ancora di più, se il confronto è su base proteica. Perché su 100 grammi di prodotto, la soia ne contiene 36, i piselli 21,5, la carne di bovino 20, il pollo 17,5 e il maiale 16. Facendo i conti, 100 grammi di proteine da legumi costano alla collettività 17 centesimi di euro, 100 grammi di proteine da carne costano tra i 2 e gli 11 euro. Ma se, per esempio, producessimo più soia, non rischieremmo di eccedere nelle monoculture? “Oltre il 90% delle monocolture è impiegato proprio nell’alimentazione degli animali – replica il direttore generale di Lav, Bennati – senza parlare della soia transgenica che arriva dal Brasile e con la quale si alimentano i nostri polli”. In termini di rapporto tra consumo di suolo e proteine, come spiega la Fao, su un ettaro di terra è possibile produrre soia con un contenuto proteico di 1848 chili, ma se quello stesso spazio lo destiniamo al foraggio per alimentare i bovini, alla fine ne ricaveremmo appena 66 chili di proteine animali. “Ecco perché credo che la transizione porterebbe con sé la possibilità di tornare alla differenziazione e, quindi, a un’agricoltura rigenerativa del terreno, non basata su monocolture e modelli intensivi” aggiunge Bennati.

AMBIENTE, DALLA CARNE DI BOVINO IL MAGGIOR IMPATTO – Ma come si è arrivati a quei 36,6 miliardi all’anno di costi complessivi? Il potenziale costo ambientale è stato stimato tramite un’analisi dell’intero ciclo di vita della carne (Life Cycle Assessment – LCA), convertendo in costi economici per la società le emissioni generate in tutte le fasi (allevamento, macellazione, lavorazione, imballaggio, distribuzione, consumo e trattamento reflui) ma anche quelle generate dalla produzione di energia necessaria nei vari passaggi. Undici le categorie di impatto prese in esame, suggerite dalla Commissione Ue per gli studi LCA: cambiamenti climatici, riduzione dello strato di ozono, acidificazione terrestre, eutrofizzazione (in acqua dolce e marina), tossicità umana, formazione di smog fotochimico, formazione di particolato, eco-tossicità (terrestre, in acqua dolce e marina), radiazione ionizzante, occupazione di suolo e consumo di acqua. Il costo monetario espresso in euro indica la perdita di benessere per la società dovuto all’emissione di un chilogrammo di inquinante in ambiente, calcolato dal centro di ricerca CE Delft nel manuale dei prezzi ambientali (Environmental Prices Handbook). Per ognuna delle 11 categorie di impatto c’è un indicatore. La carne di bovino genera il maggior costo sulla società: se per ogni 100 grammi la società subisce danni per 1,35 euro (con una forbice che va da 0,56 a 3,61 euro), per una bistecca da 3 etti siamo oltre i 4 euro. Un etto di carne di maiale nasconde un costo extra che va dai 49 centesimi (per quella fresca) ai 51 centesimi (per la lavorata), mentre 100 grammi di carne di pollo costano almeno 47 centesimi. E se un chilo di carne di pollo o maiale genera 8 volte più costi per la società rispetto ai legumi, la stessa quantità di carne di bovino li genera ben 23 volte. Per un etto di prodotto, la produzione di piselli è quella con meno costi ambientali per la società (4,2 centesimi), mentre in termini proteici è la soia il prodotto che genera un minor costo ambientale (15 centesimi per 100 grammi di proteine).

IMPATTO SANITARIO, I COSTI ARRIVANO AL 90% DALLA CARNE LAVORATA – Per calcolare l’impatto sanitario, invece, in linea con studi epidemiologici, si è partiti dalle curve di rischio in funzione del consumo giornaliero in Italia di carne rossa (43,8 grammi al giorno) e lavorata (46 grammi). Utilizzando le stime sul totale degli anni di vita persi per ciascuna malattia, definite in studi di riferimento, come unità di misura è stato scelto il Daly (Disability-Adjusted Life Year), che esprime il carico complessivo della malattia, il numero di anni in salute persi a causa di problemi di salute, disabilità o morte prematura. I Daly sono stati moltiplicati per un valore medio europeo di 55mila euro, ossia la somma minima attribuibile a un anno di vita in salute perso. Il consumo dei due tipi di carne è responsabile di 53mila Daly persi a causa del carcinoma del colon-retto in Italia, con un costo per la società di 2,9 miliardi, di oltre 177mila Daly persi per diabete di tipo 2 con un costo di 9,7 miliardi, di quasi 116mila Daly persi per ictus (costo 6,3 miliardi) e di 103mila Daly persi per malattie cardiovascolari (5,7 miliardi). Ma è la carne lavorata il responsabile principale, contribuendo per quasi il 90% dell’impatto sanitario. Ripartendo la spesa tra i quantitativi di carne consumata ogni anno in Italia (1.060 kt/a di carne lavorata e 782 kt/a di carne rossa), si può stimare il costo generato dal consumo di un chilo o un etto di carne.

UN CHILO DI PROSCIUTTO COSTA 14 EURO IN PIÙ (PER GLI ANNI DI SALUTE PERSI) – Mostrando i dati sulle malattie cardiopatiche maggiori margini di incertezza, sono stati esclusi dalla stima finale dei costi sanitari (ancora una volta conservativa). Il risultato è che un etto di manzo costa alla collettività, come impatto sanitario, 54 centesimi, mentre un etto di prosciutto ne costa 1,40, ossia ben 14 euro al chilo. A livello nazionale, il costo medio per la collettività è di 19,1 miliardi (315 euro a testa). “A causa del consumo di carne, ogni anno in Italia vengono persi circa 350mila anni di vita” spiega il direttore generale di Lav, secondo cui un’alternativa c’è, ed è già il presente. Secondo lo studio, il consumo di 50 o 100 grammi al giorno di legumi non aumenta il rischio di contrarre nessuna delle malattie analizzate. “Siamo consapevoli – aggiunge Bennati – che non si tratta di cambiamenti da attuare da un giorno all’altro, ma le stime della FAO secondo cui il consumo di carne attuale nel 2050 raddoppierà arrivando a 465 milioni, ci indicano la direzione”. Per Lav la strada giusta è quella, per esempio, di una “progressiva e rapida riduzione, fino all’azzeramento, dei Sussidi ambientalmente dannosi” che riguardano la zootecnia, ma anche “una revisione della Politica Agricola Comunitaria” e un quadro di finanziamenti “della coltivazione di proteine vegetali specificamente destinate all’alimentazione umana”.

·        Il Panettone.

Da "leggo.it" il 25 dicembre 2021. Come riconoscere un buon panettone? Cosa serve per fare un panettone di alta qualità? Arriva il decalogo per riconoscere un buon panettone anche grazie ai consigli dello chef Iginio Massari sull'ultimo numero di Inchieste. Ma anche gli occhi meno esperti possono riconoscere un buon panettone in poche mosse. Altroconsumo, seguendo criteri e punteggi, ha stilato una classifica dei 15 panettoni da comprare al supermercato. I criteri sono appunto la qualità di burro e uova, la presenza di frutta, il peso, la presenza di lieviti: un gruppo selezionato di pasticceri ha valutato l’insieme, e il loro giudizio è stato unito a quello di 150 consumatori. Sul podio tre marche non certo mainstream. Al primo posto c’è il panettone classico Fior fiore Coop (70 punti, 8,74 euro), che ha raggiunto il punteggio più alto grazie alla pasta soffice. Al secondo posto con 65 punti il Gran Galup (15,90 euro) marchio piemontese attivo da quasi cento anni, mentre il gradino più basso del podio va al Duca Moscati (63 punti, 3,29 euro), il panettone classico di Eurospin, che si aggiudica anche la palma di numero 1 nel rapporto qualità prezzo. Ottimo come qualità prezzo anche il panettone Le Grazie (62 punti), che si piazza al quarto posto davanti al Mandorlato Balocco e al Giovanni Cova & Co. (entrambi a 59 punti). Al settimo posto il ‘panettone di Milano’ di Terre d’Italia e il gran Nocciolato Maina (57 punti), mentre il Panettone all’antica Tre Marie si piazza al nono posto con 56 punti. Seguono Caffarel, Bauli, Vergani, Melegatti, Motta e Paluani che completano la speciale classifica.

IL DECALOGO Il panettone deve presentare la forma a fungo, con la cupola che deborda dall'involucro di carta, la crosta deve essere ben compatta e di colore uniforme e non bruciacchiato; un buon pirottino (cioè lo stampo di carta oleata in cui viene messo l'impasto del panettone per la cottura) dev'essere abbastanza rigido, in modo da sostenere meglio il panettone e proteggerlo dagli affossamenti;

la scarpatura, cioè il tipico taglio a croce sulla cupola del panettone non è solo un accessorio estetico: un'incisione corretta aiuta l'impasto a gonfiarsi e a cuocere in modo uniforme, lasciandolo morbido, leggero e più aromatico;

al taglio il panettone deve risultare soffice, senza difetti evidenti (buchi nella pasta, fondo bruciacchiato); 

gli alveoli, cioè i fori che si formano nell'impasto di un panettone, dicono molto sulla cura con cui è stato posto a lievitare. Devono essere grandi e soprattutto non omogenei (un'alveolatura più fine e compatta è invece più tipica del pandoro).

Se il panettone è lievitato bene, sarà morbido e soffice; canditi e uvetta sono forse la caratteristica principale del panettone: più ce ne sono in superficie, più ne troverai anche nell'impasto. La loro distribuzione deve essere uniforme. I canditi devono essere di buona qualità (non piccoli e duri) e ci deve essere anche il cedro, più pregiato dell'arancia; 

il disciplinare del panettone prevede una quantità minima di tuorlo d'uovo del 4%. Ovviamente più tuorli si utilizzano, più intenso sarà il colore giallo della pasta. Un buon panettone si riconosce anche da questo;

aroma e gusto dovrebbero essere quelli caratteristici delle paste acide lievitate: quando invece il sapore è alterato, spesso è dovuto all'eccessiva cottura che rende la parte esterna troppo amara, e alla scarsa qualità dell'uvetta, che può risultare a volte troppo acida.

Il vero panettone non può sgarrare sugli ingredienti. Deve essere fatto con burro e non con altri grassi, contenere una certa quantità di tuorlo d'uovo, canditi e uvetta. Il lievito deve essere naturale, ottenuto dalla lavorazione precedente, per dare il tipico sapore leggermente acido all'impasto. 

La legge detta norme precise sugli ingredienti che devono essere aggiunti all'impasto del panettone: chi produce deve seguire scrupolosamente le indicazioni non solo sul tipo di materia prima da usare, ma anche sulla sua quantità.

L'impasto deve contenere: farina di frumento; zucchero; uova di gallina di categoria «A» e/o tuorlo (in quantità tale da garantire non meno del 4% in tuorlo); burro per almeno il 16%; uvetta e scorze di agrumi canditi (arancia ma possibilmente anche cedro) in quantità non inferiore al 20% e preferibilmente avere uguale proporzione (possono anche non esserci, purché sia indicato nella denominazione di vendita);

lievito naturale costituito da pasta acida (cioè da un pezzetto di impasto già lievitato); sale. Si possono aggiungere altri ingredienti specificati, per esempio miele, burro di cacao, emulsionanti, conservanti. 

Milano: storia e leggenda del panettone, il dolce meneghino più amato. Monica Cresci il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il panettone è un vero simbolo di Milano, emblema della tradizione natalizia e divenuto nel tempo testimone della cultura italiana nel mondo. Soffice, morbido goloso: il panettone è il dolce classico natalizio, da sempre legato alla città di Milano e alla sua tradizione culinaria. Nato come pane nobile da consumare e donare durante le festività meneghine, con il tempo è riuscito a diffondersi in tutta Italia ma anche nel mondo. Complici le occupazioni del passato che hanno esteso la fama dello stesso dolce, fino alla grande produzione e distribuzione commerciale degli anni '50. Un prodotto decisamente internazionale in grado di rappresentare l'Italia nel mondo. Ma anche di catturare l'attenzione degli chef più famosi che, da tempo, ne rivisitano forma e presentazione, ma senza perdere il sapore della tradizione. 

Emblema della tavola natalizia, il panettone è un evergreen senza tempo in grado di soddisfare ogni palato, grazie alla vasta proposta che colora e ravviva gli scaffali dei supermercati durante le festività. C'è solo l'imbarazzo della scelta per quello che, da sempre, è il dolce simbolo di Milano. Un prodotto che rappresenta la storia e la tradizione della città meneghina ma che vanta una genesi immersa nella leggenda. Sono tante le storie che hanno segnato il percorso di questo dolce, tutte ricche di tradizione e poesia. 

Secondo il passaparola più accreditato, il panettone sarebbe nato intorno al 1495 durante il periodo di reggenza di Ludovico Maria Sforza, altrimenti noto come Ludovico il Moro, signore di Milano. Alla corte, durante le festività, c'era grande fermento per la preparazioni delle pietanze del pranzo di Natale, con grande attenzione per i dolci ovvero delle ciambelle dal grande formato.

Il cuoco aveva domandato al giovane sguattero Toni, di soli 12 anni, di monitorare la cottura delle stesse. Ma il povero giovane, provato dalla fatica, aveva ceduto al sonno anche se per pochi minuti, un brevissimo periodo ma sufficiente per far bruciare le tanto pregiate ciambelle. Terrorizzato dalla situazione, Toni decise di proporre un dolce sostitutivo che aveva preparato con gli avanzi, completando l'impasto con uova, burro, canditi e uvetta.

Nonostante i timori inziali, il cuoco decise di servirlo riuscendo così a conquistare il palato della duchessa e di tutti i commensali. Il dolce si trasformò in un prodotto da replicare nei pastifici della città, per poi varcare i confini della regione. Nonostante il cuoco non volle mai rivelare la genesi del profumatissimo dessert, la verità riuscì comunque a emergere, tanto che venne ribattezzato in dialetto "el pan de Toni" e successivamente panettone. 

Altre due storie caratterizzano il percorso del panettone, la prima pare risalire allo stesso periodo della reggenza di Ludovico il Moro. Ma ha come protagonista Ughetto, figlio di Giacomo Atellani, che viveva in un palazzo - dono del Moro - a pochi passi dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Il giovane si era innamorato di Adalgisa, figlia del fornaio di zona, un amore osteggiato dalla famiglia di Ughetto viste le umili condizioni della ragazza. Per ovviare al problema, Ughetto si era fatto assumere come garzone dal padre di Adalgisa e, per aiutarlo nella produzione, aveva letteralmente messo mano al pane del negozio. Migliorandone gusto e aspetto con l'aggiunta di zucchero e burro, ottenendo un ottimo riscontro che lo convinse anche ad inserire cedro candito e uvetta.

Il successo di vendita fu tale che catturò l’intera città e fece cambiare opinione al padre di Ughetto, tanto da acconsentire al matrimonio. Una seconda leggenda vede la fantomatica figura di suor Ughetta, decisa a migliorare il Natale delle consorelle aggiungendo all'impasto del pane zucchero, uova, burro e pezzettini di cedro candito. In dialetto milanese l'uvetta è nota come "ughet".

Nonostante le incredibili leggende sulla nascita del dolce meneghino, il panettone può contare anche su un percorso storico lineare e verificato. Grazie alle parole dello storico Pietro Verri che, attraverso la pubblicazione della "Storia di Milano", raccontò della magica tradizione del ceppo, ovvero bruciare sul fuoco un ciocco di legno agghindato con fronde e mele sul quale si spargeva per tre volte vino, monete e ginepro. Il tutto impreziosito dalla presenza di tre grossi pani che il padre di famiglia spezzava in modo simbolico, una ritualità molto amata e replicata anche all'interno del palazzo del duca di Milano.

Da uno di questi grossi pani si tagliava una fetta da conservare per tutto l'anno. Ma la tradizione tutta milanese di cuocere un pane speciale per Natale pare sia più antica: tutti i fornai meneghini potevano impastare il pane di frumento per la giornata della natività da distribuire a tutti. Un'eccezione importante visto che Le Corporazioni di Milano imponevano due preparazione differenti di pane, uno per i più poveri al miglio - o "pan de mej" - e uno per la classe agiata, pane bianco o micca.

Una differenza sociale che cessava di esistere solo a Natale, come segno di condivisione di questo pane prezioso noto come pane dei signori, ovvero "pan de Sciori" o "Pan de ton", cioè pane di lusso, creato appunto con burro, zucchero e zibibbo. Una prima versione del panettone attuale che, secolo dopo secolo, riuscì a guadagnare sempre più spazio anche grazie all’introduzione dei macchinari per la produzione dell'impasto stesso.

Fu Angelo Motta nel 1919 a trasformarlo in un vero prodotto della ricorrenza per la grande distribuzione, valicando definitivamente i confini lombardi.

Oggi il panettone è prodotto in tutta Italia, con tutte le sue varianti, ed esportato con successo anche all'estero. Secondo la tradizione milanese, una fetta va conservata fino all'8 febbraio, festa di San Biagio, per consumarla a digiuno con la famiglia come gesto propiziatorio contro i malanni di stagione. Accompagnando il tutto con il detto milanese: "San Bias el benediss la gola e el nas", ovvero San Biagio benedice la gola e il naso.

Secondo la legge italiana, il panettone possiede il riconoscimento del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali come prodotto agroalimentare tradizionale italiano. Ma nel dettaglio il panettone è incluso nella lista P.A.T. lombarda grazie alla Legge 350/1999, che definisce prodotti agroalimentari tradizionali: "quelli le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultano consolidate nel tempo" (art. 1).

Dal 2005 per Decreto Ministeriale è tutelato dalla legge in qualità di prodotto da forno della tradizione culinaria italiana, con relativa specifica degli ingredienti e delle percentuali degli stessi. Monica Cresci

·        La Colomba Pasquale.

Gemma Gaetani per “La Verità” il 30 marzo 2021. È il secondo dolce festivo più famoso in Italia, dopo il panettone natalizio, con il quale celebriamo la Pasqua e anche l'arrivo della primavera. In molti bei manifesti d'antan (venduti online come memorabilia per collezionisti e nemmeno a poco) dell'azienda milanese Motta, genitrice universalmente riconosciuta della colomba odierna, infatti, lo slogan ricorrente è «il dolce che sa di primavera». Con quella allocazione stagionale del dolce a forma di colomba non si glissava, però, sul suo simbolismo cattolico. Anzi, fin dalla prima campagna pubblicitaria, nata contemporaneamente al prodotto dolciario, la colomba di riferimento di quella di pasta lievitata era quella cattolica. Nel 1934 arrivò alla Motta come direttore pubblicità il leggendario Dino Villani (che inventò anche il concorso di Miss Italia), il quale pensò di tenere aperto lo stabilimento Motta di viale Corsica a Milano anche il semestre che restava chiuso, terminata la produzione del panettone. Dall'esordio nel 1919 in via Chiusa come piccolo laboratorio denominato Angelo Motta pasticciere, l'attività di Angelo Motta si era espansa, anche grazie al grande successo del suo panettone che da Milano ormai arrivava in tutta Italia, espansione che poi la colomba bisserà. Il sito Internet dell'attuale Motta spiega prima l'origine storica, pre Motta, tra realtà e leggenda: «La leggenda della colomba risale all'alto medioevo longobardo. Si racconta che dopo tre anni di assedio re Alboino riuscì alla vigilia della Pasqua del 572 a entrare a Pavia e fu allora che per placare la sua vendetta si presentò davanti al suo trono un vecchio panettiere che offriva al re un dolce a forma di colomba: "Alboino, io ti porgo questo simbolo, quale tributo di pace nel giorno di Pasqua". Il dolce profumato di miele e di forno così buono e invitante strappò al sovrano una promessa di pace». Poi, s'illustra quella della colomba dei nostri tempi: «La colomba che conosciamo oggi ha origini ben più recenti. Fu infatti Motta che nei primi anni Trenta decise di riprendere una vecchia ricetta per ideare il dolce italiano da consumarsi in occasione della festività pasquale. Venne spedito un campione di prodotto a famosi scrittori e giornalisti del tempo con una lettera personale di Angelo Motta chiedendo il loro parere sul dolce ed effettuata una campagna di sensibilizzazione dei consumatori all'acquisto. La colomba piacque ed ebbe subito un successo incredibile. Scriveva Ernesto Bertrarelli: "La colomba è una tradizione che risale a Noè, più semplice e meno cruenta dell'agnello. È la dolce colomba della pace e della primavera". Fu così quindi per la gioia di grandi e piccini che la colomba Motta divenne il dolce della Pasqua di tutti gli italiani».

Occhio di mandorla. La colomba in quelle prime versioni Motta aveva anche l'occhio, fatto con una mandorla intera, che rilucendo tra il biancore madreperlato della glassa di albume, zucchero e ancora mandorle che ne ricoprivano il corpo, faceva davvero pensare alla colomba bianca in volo che, nella tradizione cattolica, rappresenta lo Spirito Santo. Nel Vangelo secondo Marco (1,9-11), nel Vangelo secondo Matteo (3,13-17) e nel Vangelo secondo Luca (3,21-22) è precisamente scritto che quando Giovanni Battista battezzò Gesù si aprirono i cieli e lo Spirito Santo scese su di lui sotto forma di colomba. Che infatti è presente nelle magnifiche rappresentazioni pittoriche del Battesimo di Gesù (che si festeggia la prima domenica dopo l'Epifania) di Piero della Francesca, di Francisco de Goya, del Mantegna. Anche nella basilica di San Pietro, nello spettacolare abside sopra la Cattedra di San Pietro, splende, incastonato in una raggiera di stucchi dorati circondata da angeli, un finestrone in alabastro che raffigura un'imponente colomba (ha una apertura alare di 1,62 metri): simboleggia lo Spirito Santo che guida i papi successori di Pietro. Il ramo fiorito che una colomba bianca, fuoriuscente da uno squarcio nel cielo, ha nel becco mentre vola poco distante dalla colomba dolce, nel primo, memorabile manifesto della colomba Motta, come notava Bertrarelli, è anch'esso un riferimento cristiano: nel libro biblico della Genesi, infatti, è scritto che Noè lasciò andare dall' arca una colomba e questa tornò con un rametto di ulivo nel becco a indicare la pace tra l'uomo e Dio, che aveva fatto terminare il diluvio universale. Autore di quell'ormai storico manifesto fu l'affichiste franco-ucraino Cassandre (pseudonimo di Adolphe Jean-Marie Mouron), chiamato da Villani nel 1936. Con il passare dei decenni, si avvicendarono altre campagne, ma in tutte la colomba si riallaccia a quella cattolica, anche tramite gli slogan: «A Pasqua su ogni mensa il dolce che sa di primavera», «Fragrante gentile dono della tradizione pasquale», «I tradizionali simboli della Pasqua riuniti nella confezione primavera» recita la pubblicità del 1962 di una scatola che contiene la colomba e l'uovo di cioccolato, anch'esso dono pasquale di connotazione religiosa perché, come abbiamo visto la scorsa settimana, l'uso di donare e consumare uova di cioccolato per la Pasqua deriva anche dall'accumulo delle uova di gallina durante la quaresima, quando non potevano essere mangiate, divieto che si risolveva con la resurrezione di Gesù, uscito dal sepolcro rotto come un guscio.

Ricetta antica. Molte fonti riportano che la colomba sia stata inventata praticamente dal nulla dalla Motta: si tratta di un'affermazione perentoria e assolutistica con la quale non possiamo concordare, anche perché la stessa Motta parla - abbiamo letto - di recupero di una ricetta già esistente. Però una cosa è certa: Motta ha inventato, questo sì, la colomba novecentesca, così come possiamo trovarla ancora oggi nei supermercati e nelle pasticcerie, l'ha nazionalizzata partendo da Milano e arrivando al resto dello Stivale, esattamente come era avvenuto con il panettone. Le affinità e le differenze tra panettone e colomba sono molte. Il panettone tipico della tradizione artigiana milanese, come vedemmo sulla Verità del 14 dicembre scorso, ha avuto riconosciuto un suo disciplinare di produzione nel 2003, è anche un marchio brevettato alla Camera di commercio di Milano ed è anche un prodotto agroalimentare tipico (Pat) della Lombardia. Sono tutte azioni di politica agroalimentare conservativa che tutelano il vero panettone anche dalla sua demilanesizzazione operata con il decreto 22/7/2005 del ministero delle Attività produttive. Quel decreto autorizzava a chiamare panettone anche un panettone che, diversamente da quanto indicato nel disciplinare milanese, conteneva lievito di birra, conservanti, stabiliva che «può essere caratterizzato dall'assenza di uvetta o scorze di agrumi canditi o di entrambi» e autorizzava il produttore ad aggiungere al 60% minimo di impasto canonico «farciture, bagne, coperture, glassature, decorazioni, nonché altri ingredienti caratterizzanti», a gusto suo.

Ingredienti discussi. L'articolo 7 e quelle deroghe riguardano anche la colomba, per di più con un errore marchiano perché si autorizza l'assenza dell'uvetta che però nella colomba non è prevista: infatti nell'articolo dello stesso decreto dedicato agli ingredienti della colomba non c'è. Gli ingredienti della colomba, che non ha un disciplinare locale come quello del panettone, sono stati quindi codificati, con quel decreto, già derogati rispetto a un panettone purista preparato secondo disciplinare milanese e rispetto alla prima colomba Motta, che era, sostanzialmente, preparata con l'impasto del panettone arricchito con sola arancia candita (no cedro e no uvetta) e una glassa di albumi, zucchero e mandorle, che il panettone non aveva. Circa 70 anni dopo la prima colomba tradizionale, quindi, quel decreto autorizzava la «neocolomba» di oggi, un ibrido tra tradizione e contemporaneità, una contraddizione in termini perché si può chiamare colomba, si dice che nacque alla Motta di Milano, ma poi si coniuga in un versionismo folle per cui, tra cioccolato rosa e creme al limoncello, al mascarpone, al pistacchio e alle fragoline, dell'originale e vera colomba non resta che una mollica. C'è anche un curioso caso di fake new che riguarda la colomba. Troverete scritto su molte fonti Internet che è un Pat lombardo. Basta consultare l'elenco dei Pat della Lombardia per scoprire che non lo è. Molto probabilmente, la fake new è nata da un fraintendimento della pagina Wikipedia «colomba pasquale», dove si dà notizia del Pat ma senza specificare di quale regione sia. Leggendo che la colomba è Pat, si è ipotizzato che lo fosse della Lombardia, indicata nella stessa voce come regione di origine, e così la deduzione errata si è trasformata in verità falsa. La colomba pasquale è Pat innanzitutto della Sicilia: i palummeddi o pastifuorti sono antichi dolcetti siculi chiamati anche colombe pasquali perché sono fatti di pasta frolla modellata a forma di colombina, sul cui corpo stanzia un uovo (come abbiamo visto, simbolo della Resurrezione nell'iconografia cattolica) trattenuto da una croce, però si tratta di dolcetti molto diversi dalla nostra, invece ben rappresentata dalla colomba pasquale di Verona, Pat anch'essa. Verona? Sì, per molti è nata lì. Per qualcuno anche il dolce natalizio Veneziana, glassata come la colomba, origina a Venezia e non a Milano, e a Verona nasce anche il Nadalin, un dolce di Natale con glassa anch'esso.

Cugina del panettone. Si può ipotizzare che la colomba derivi allora da questi e non dal panettone, ma sono ipotesi. Insomma, non possiamo dirimere la questione, non sappiamo se la vecchia ricetta Motta fosse magari una ricetta veneta, ma forse non è nemmeno importante. Importante è mangiare colombe tradizionali, perché la ricetta non scompaia in mezzo al festival in corso delle colombe yéyé: la più yéyé è la colomba psico-attiva dello chef stellato Giuliano Baldessari del ristorante Aqua Crua di Barbarano Vicentino, acquistabile anche online, con «stimolanti dei nostri neuro-trasmettitori come capperi e gocce di assenzio, che vi faranno sentire eccitati e rilassati». Per quanto riguarda la stimolazione, da parte della colomba, del nostro peso, non preoccupatevi. La differenza tra colomba e pastiera napoletana, altro dolce pasquale quotatissimo (che dal Sud si sta diffondendo in tutta Italia, anch'esso grazie al supermercato, dove da sempre troviamo il grano precotto per pastiera), è irrisoria: 100 grammi di pastiera presentano 385 calorie, 100 grammi di colomba 393. Quello che supera entrambe è l'uovo di cioccolato: fondente ha 515 calorie, al latte 545 ogni 100 grammi. Va anche detto che nessuno mangia un uovo di cioccolato intero, che pesa almeno 150 grammi, tantomeno una pastiera o una colomba. Però non esageriamo e magari tagliamo fettine da, appunto, 100 grammi. Magari dalla colomba che prepareremo con le nostre mani seguendo le ricette, tradizionalissime, nei box, in barba alle mille fogge della neocolomba yéyé.

·        Ogm sì o no?

Dagotraduzione dall’AP l'1 giugno 2021. È iniziata questa settimana la fase di raccolta del salmone geneticamente modificato della società di biotecnologia AquaBounty. Diverse tonnellate di pesce andranno a ristoranti e aziende di catering del Midwest e della costa orientale. Questo salmone è il primo animale geneticamente modificato a essere stato autorizzato al consumo negli Stati Uniti. I pesci sono stati progettati per crescere due volte più rapidamente rispetto al salmone selvatico, in modo da raggiungere le dimensioni giuste per il mercato in 18 mesi anziché 36. Aquabounty, che ha sede nel Massachusetts, aveva pianificato di raccogliere il pesce alla fine del 2020 ma «l'impatto del COVID ci ha fatto ripensare alla nostra cronologia iniziale... allora nessuno cercava più salmone», ha detto l’amministratore delegato Sylvia Wulf. «Siamo molto entusiasti ora. Abbiamo programmato il raccolto con la ripresa dell'economia e sappiamo che la domanda continuerà ad aumentare». Ma non tutti sono così felici. La società internazionale di servizi di ristorazione Aramark a gennaio ha annunciato il suo impegno a non vendere il salmone, parlando di preoccupazioni ambientali e potenziali impatti sulle comunità indigene che raccolgono salmone selvatico. Altre importanti società di servizi di ristorazione - Compass Group e Sodexo - e molti grandi rivenditori di generi alimentari, aziende ittiche e ristoranti statunitensi hanno fatto annunci simili. Costco, Kroger, Walmart e Whole Foods sostengono di non vendere salmone geneticamente modificato o clonato. Il boicottaggio contro il salmone AquaBounty è arrivato in gran parte dagli attivisti della campagna Block Corporate Salmon, che si propone di proteggere il salmone selvatico e preservare i diritti degli indigeni a praticare la pesca sostenibile. «Il salmone geneticamente modificato è un'enorme minaccia per qualsiasi visione di un sistema alimentare sano. Le persone hanno bisogno di modi per connettersi con il cibo che stanno mangiando, così sanno da dove viene», ha detto Jon Russell, membro della campagna e organizzatore di giustizia alimentare con la Northwest Atlantic Marine Alliance. «In questo paese la maggior parte del salmone viene importato e durante la pandemia non siamo riusciti a immettere prodotti sul mercato», ha affermato Wulf. «Quindi, avere una fonte di approvvigionamento domestica che non è stagionale come il salmone selvatico e che viene prodotto in un ambiente altamente controllato e bio-sicuro è sempre più importante per i consumatori». AquaBounty descrive il suo salmone come sano e allevato senza l’uso di antibiotici, con un’impronta di carbonio ridotta e protetto dall’inquinamento degli ecosistemi marini, che affligge gli allevamenti tradizionali in gabbia. Nonostante la rapida crescita, il salmone geneticamente modificato richiede meno cibo rispetto alla maggior parte dei salmoni atlantici d'allevamento. Le unità di biofiltrazione mantengono pulita l'acqua nei numerosi serbatoi da 70.000 galloni (264.979 litri) della struttura dell'Indiana, riducendo le probabilità che i pesci si ammalino o richiedano antibiotici. La FDA ha approvato l'AquAdvantage Salmon come «sicuro ed efficace» nel 2015. È stato a lungo l'unico animale geneticamente modificato approvato per il consumo umano. Poi a dicembre i regolatori federali hanno dato il via libera a un maiale geneticamente modificato per alimenti e prodotti medici. Nel 2018, l'agenzia federale ha dato il via libera al tentacolare stabilimento dell'Indiana di AquaBounty, che attualmente sta allevando circa 450 tonnellate di salmone da uova importate dal Canada, ma è in grado di raccogliere più del doppio di questa quantità. Ma in un mercato interno mutevole che valorizza sempre più l'origine, la salute e la sostenibilità e il pesce selvatico rispetto a quello d'allevamento, altri hanno una visione diversa del salmone, che alcuni critici hanno soprannominato "Frankenfish". Parte del rifiuto ruota attorno al modo in cui il pesce ingegnerizzato deve essere etichettato secondo le linee guida della FDA. I pescatori di salmone, gli allevatori di pesce, i grossisti e altre parti interessate desiderano pratiche di etichettatura chiare per garantire che i clienti sappiano che stanno acquistando un prodotto ingegnerizzato. La legge sull'etichettatura dell'USDA impone alle aziende di divulgare ingredienti geneticamente modificati negli alimenti attraverso l'uso di un codice QR, un'esposizione di testo sulla confezione o un simbolo designato. Il rispetto obbligatorio di tale regolamento entrerà in vigore a gennaio, ma le regole non si applicano ai ristoranti o ai servizi di ristorazione. Wulf ha garantito che la società si è impegnata a utilizzare l'etichettatura «geneticamente modificata» quando il suo pesce verrà venduto nei negozi di alimentari nei prossimi mesi. A novembre, il giudice distrettuale degli Stati Uniti Vince Chhabria a San Francisco ha affermato che la FDA aveva l'autorità di supervisionare animali e pesci geneticamente modificati. Ma ha stabilito che l'agenzia non ha valutato adeguatamente le conseguenze ambientali della fuga del salmone AquaBounty in natura. La società ha sostenuto che la fuga è improbabile, affermando che i pesci sono monitorati 24 ore su 24 e contenuti in vasche con schermi, griglie, reti, pompe e disinfezione chimica per impedire la fuga. I salmoni dell'azienda sono anche femmine e sterili, il che impedisce loro di accoppiarsi. «I nostri pesci sono effettivamente progettati per prosperare nell'ambiente terrestre. Questo fa parte di ciò che li rende unici», ha detto Wulf. «E siamo orgogliosi del fatto che l'ingegneria genetica ci consente di portare sul mercato un prodotto più sano e nutriente in modo sicuro e sostenibile».

Partiamo dai dati, non dai social. Ilaria Donatio su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. «Riuscire a generare impatto». Ecco cosa si augura Sessen Daniel Iohannes, tra i coordinatori del “progetto Biotecnologico”, studentessa del Sant’Anna che un anno fa, insieme a una dozzina di colleghi ha avviato questa iniziativa di divulgazione scientifica, tanto ambiziosa quanto necessaria. Come rendere accessibile ai cittadini la scienza è una questione enorme, in passato sottovalutata dagli stessi scienziati. «La scienza non è democratica. La velocità della luce non si decide per alzata di mano», ha detto tempo fa Piero Angela riferendosi alla facilità, nell’epoca dei social, con cui si esprimono opinioni superficiali su temi complessi. E anche se al grande divulgatore scientifico, tutti dobbiamo tanto, una dozzina di giovani studenti dei tre Atenei di Pisa lavorano per smentirlo. L’obiettivo è – come diceva Norman Borlaug il padre della rivoluzione verde, spiega Sessen, “Take it to the farmers”: portare i risultati della ricerca direttamente agli agricoltori. Incidere sulla realtà. Ma partiamo dalle basi. In Italia non si possono coltivare Ogm, ma si possono importare e utilizzare, e si può ipoteticamente fare ricerca (in laboratorio ma non in campo aperto). Un’incoerenza esemplare. Questo significa che la richiesta esistente viene assorbita in altro modo: acquistando Ogm dall’estero. Soprattutto Nord e Sud America per mais e soia, Cina e India per il cotone (anche quello idrofilo, usato in campo medico), e tra i paesi da cui importiamo c’è anche l’Ucraina (e Chernobyl?). Eppure il dibattito sulla questione è spesso ideologico e di trincea, e cercare sul web informazioni da fonti verificate non è affatto facile per i non addetti ai lavori. Per esempio, pochi di noi sanno che il mais Ogm free è cancerogeno, esposto com’è all’attacco della piralide, una farfallina che depone le larve negli stocchi del mais, e veicola funghi che producono tossine cancerogene: per questo, agricoltori e allevatori sono costretti a eliminarlo e ad acquistare dall’estero mais Ogm. Ecco che, il “progetto biotecnologico” parte proprio dalla volontà di condividere con tutti le conoscenze acquisite nei percorsi universitari e di contribuire alla maturazione dell’opinione pubblica anche su argomenti controversi come le biotecnologie in agricoltura e i vaccini. «Come giovani studenti, come cittadini e come futuri agenti di cambiamento crediamo che l’innovazione in agricoltura sia essenziale per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile: appunto, dalle biotecnologie all’IoT – Internet of Things – in agricoltura e in campo medico, alla l’intelligenza artificiale» spiega al Riformista Sessen Daniel Iohannes, tra i coordinatori del progetto. Sessen è allieva della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e si sta specializzando in Scienze agrarie e biotecnologie vegetali: «Siamo però convinti che l’innovazione scientifica da sola non basta: occorre fare ricerca e soprattutto saperla comunicare». Nata in Italia, cresciuta ad Asmara, in Eritrea, e tornata qui per gli studi, questa giovane ricercatrice, dopo la laurea magistrale in Biotecnologie Molecolari all’Università di Pisa con una tesi sulla genomica delle piante, ha da poco iniziato una collaborazione alla ricerca presso il gruppo di genetica delle piante sempre al Sant’Anna. «Non ci può essere sviluppo sostenibile senza innovazione scientifica, ma non ci può essere neanche innovazione scientifica senza ricerca e buona comunicazione che a sua volta non esiste senza formazione e partenariato». Hanno le idee chiare Sessen e i suoi giovani colleghi del Sant’Anna, della Scuola Normale Superiore e dell’Università di Pisa, e questo si capisce andando a visitare i social del progetto Biotecnologico. L’ultimo post su Instagram racconta in un modo comprensibile a tutti cosa sia la “super mucca di Bill Gates”: una mucca geneticamente ingegnerizzata, capace di produrre grandi quantità di latte in ambienti caratterizzati da un clima molto caldo, come nel continente africano, dove il filantropo vorrebbe contribuire a prestare soccorso a milioni persone che soffrono la fame e la povertà. Ecco perché “occuparsi di agricoltura”: «Cambiamenti climatici, depauperamento delle risorse, erosione dei suoli: sono alcune delle sfide che stanno minacciando lo sviluppo sostenibile e la sicurezza alimentare, pilastri dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile». E cita ancora Norman Borlaug che, in occasione del conferimento a Premio Nobel per la pace nel 1970, disse: «Non esistono miracoli nella produzione agricola, non esistono cure che possano servire come elisir per curare tutti i mali di un’agricoltura tradizionale stagnante». Non esistono ma si può lavorare per sbloccare la situazione. «Uno dei problemi principali dell’agricoltura italiana ma che poi si riflette anche in altri ambiti – per esempio quello culturale – è quello che il professor Michele Morgante nel suo libro I semi del futuro indica come immobilismo genetico»: è quella visione molto romantica ma distorta della realtà che ritrae l’agricoltura come qualcosa di naturale e che vede «qualsiasi intervento dall’esterno come qualcosa di innaturale e quindi da scartare». Questa tendenza rischia di «mettere a repentaglio il progresso scientifico tecnologico ed economico». Un pezzo importante dell’attività collegata al Progetto Biotecnologico, spiega Sessen Daniel Iohannes, “è fare debunking”, dunque, smentire, basandosi su metodologie scientifiche, affermazioni false, esagerate, antiscientifiche. I canali social riescono a raggiungere una platea piuttosto vasta di utenti e dunque informazioni così complesse, veicolate in un registro semplice ma mai banale, hanno enormi chance di successo. «È essenziale che scienziati e ricercatori riescano a collaborare, uscendo dalla propria nicchia: sfruttare l’intelligenza anche collettiva è uno dei grandi insegnamenti di questa pandemia», spiega Sessen che sottolinea l’importanza di unire «ricerca di base e ricerca applicata» e di «investire su entrambe». Parole d’ordine: interdisciplinarietà e approccio scientifico. E «comprendere quello che François Jacob chiamava La logica del vivente: soltanto dalla comprensione dei meccanismi che stanno alla base di diversi processi biologici – che viene acquisita con la ricerca di base – si può poi passare alla loro applicazione». La giovane scienziata, poi, conclude: «Noi divulgatori in divenire siamo nani sulle spalle dei giganti»: i tanti divulgatori scientifici che in questo Paese, da anni, lavorano, spesso in solitudine, per rendere la scienza accessibile a tutti.

·        La battaglia alimentare.

Se le eccellenze diventano motivo di scontro. Le guerre del pomodoro e del caffè fanno solo male al Sud. Andrea Esposito su Il Riformista il 24 Marzo 2021. L’hanno già ribattezzata “guerra del caffè”. E non riguarda la tecnica per preparare la bevanda che, in Questi fantasmi, induceva Eduardo a esclamare: «Quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo». In gioco, stavolta, c’è l’inserimento nel patrimonio immateriale dell’Unesco. Come riportato ieri da Repubblica, sono due le candidature che si fronteggiano: quella del “Rito del caffè espresso italiano tradizionale”, promossa da un Consorzio trevigiano, e quella della “Cultura del caffè napoletano tra rito e socialità”, avanzata dalla Regione Campania col supporto di 23 associazioni e migliaia di cittadini. Niente di strano se il Ministero delle Politiche agricole non avesse deciso di presentare entrambe le candidature, ma con quella campana “in subordine” a quella nazionale. Apriti cielo: dall’una e dall’altra parte è sceso il campo il fior fiore degli intellettuali per sostenere, documenti e foto d’epoca alla mano, che il caffè è un simbolo di tutto il Paese o che la tazzulella è indissolubilmente legata a Napoli e solo a Napoli. Non si tratta della prima polemica su un’eccellenza alimentare di casa nostra. Soltanto pochi giorni fa, infatti, sindacati e associazioni datoriali pugliesi si sono schierati al fianco dell’assessore regionale Donato Pontassuglia che si sta opponendo al riconoscimento dell’Indicazione di origine protetta (Igp) al pomodoro di Napoli. Il motivo è molto semplice: il pomodoro lungo non sarebbe partenopeo ma pugliese, visto che il 90% della produzione nazionale è concentrato in Capitanata e che le aziende campane non fanno altro che prelevarne grosse quantità da Foggia e dintorni per poi rivenderlo come specialità propria. Certe polemiche dimostrano come, per qualcuno, identità debba fare necessariamente rima con esclusività. Il caffè? Quello vero è solo napoletano. Il pomodoro? Quello originale è solo pugliese. La disputa è stucchevole e forse priva di senso, se si pensa che certi prodotti non sono “nati” in Italia ma sono stati importati, centinaia di anni fa, da località anche piuttosto lontane. Però, in questa “guerra tra bande” su due delle eccellenze agroalimentari nostrane, è un altro il pericolo che si annida: quello di un campanilismo fine a se stesso, capace più di tarpare le ali che non di mettere il vento in poppa all’economia che su certi prodotti si regge. In questo momento, infatti, servirebbero maggiori unità d’intenti e concretezza. Il Covid ha messo a dura prova anche l’agricoltura e non saranno certo le polemiche sulle nomination a decretare la salvezza di un settore produttivo di grande rilevanza strategica per l’economia italiana e regionale. Basti pensare che, al momento, solo le esportazioni di prodotti agroalimentari made in Italy crescono dell’1,9% e, nel 2020, fanno segnare il massimo storico di sempre con un valore di 46,1 miliardi a dispetto delle restrizioni legate alla pandemia. Se davvero si vogliono difendere le eccellenze agroalimentari, non bisogna far altro che stimolare gli investimenti delle imprese, promuovere uno sviluppo sostenibile del territorio e, soprattutto, dotare la Campania e l’Italia di tecnologie, collegamenti stradali, ferroviari, marittimi e aeroportuali indispensabili tanto per l’agroindustria quanto per gli altri settori produttivi. Perché è con visione, strategie e investimenti che si rilancia l’economia del Sud e del resto del Paese. Non certo con i campanilismi e con le polemiche.

Gabriele Principato per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2021. Italiano o napoletano. La disfida sull'identità culturale e sociale del caffè in tazzina è aperta. Intanto, però, è costata la rinuncia da parte della commissione nazionale per l'Unesco a chiederne il riconoscimento di «Bene immateriale dell'umanità». Almeno per quest'anno. Per capire la vicenda bisogna tornare indietro di qualche tempo. La candidatura del «rito del caffè espresso italiano tradizionale» era stata presentata ufficialmente nel 2019. Qualche mese dopo, era arrivata quella della «cultura del caffè espresso napoletano». La prima, patrocinata dall'omonimo consorzio trevigiano di tutela, si concentrava sull'importanza del consumo della bevanda come rito quotidiano: divenuto simbolo di un'intera nazione. La seconda, promossa dalla Regione Campania, vedeva al centro le torrefazioni centenarie, i locali storici e le peculiari abitudini sociali stratificatesi nei secoli a Napoli. E già raccontate all'inizio dell'800 nel Viaggio in Italia dello scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe. Nei mesi scorsi il confronto fra esperti, tecnici e politica su quale candidatura presentare è stato incessante. Alla fine, però, nell'impossibilità di scegliere fra i due dossier, il ministero delle Politiche Agricole ha deciso di presentare entrambe alla commissione interministeriale che, dopo averle valutate, ha invitato i proponenti a unificare i dossier «per un'eventuale candidatura congiunta l'anno prossimo». Trasmettendo, invece, al team di valutatori dell'Unesco, la domanda del Festival Tocatì: la rassegna veronese dedicata alla salvaguardia degli antichi giochi di strada. «Un'occasione mancata per l'universo del caffè italiano», spiega Carolina Vergnano, quarta generazione della famiglia alla guida dell'omonima e storica azienda piemontese, attiva dal 1882. «In un momento di incertezza come quello attuale avrebbe rappresentato una boccata d'ossigeno: non solo per noi produttori, ma anche per tutti gli italiani che durante questi mesi di lockdown hanno dovuto rinunciare al rito quotidiano dell'espresso al bar», aggiunge. «È necessario che il settore faccia sistema: abbiamo un prodotto noto e apprezzato nel mondo e dobbiamo essere compatti, tenendo sotto un unico cappello, senza discriminazioni e polemiche, i meravigliosi riti del caffè made in Italy». Una bevanda trasversale, che nel nostro Paese vale 3,9 miliardi di euro di fatturato. E dà lavoro a oltre 7.000 persone, in più di 800 torrefazioni. «Del resto il caffè è da sempre un prodotto che unisce. Basti pensare quanto la sua cultura in Italia sia capillare: si trovano torrefazioni antiche e moderne da Nord a Sud, così come usi e tradizioni: dall'espresso napoletano, a quello triestino, passando per il bicerin piemontese», chiosa Carolina Vergnano. È proprio per questa eterogeneità di interpretazioni e culture riguardo la preparazione di questa bevanda che, secondo alcuni, avrebbe più chance la candidatura partenopea. «Mentre nel resto del Paese ci sono tante usanze intorno al caffè, in Campania il gesto è il medesimo e rappresenta una pratica antica, legata a socialità e convivialità. Proprio come l'arte del pizzaiuolo napoletano, riconosciuta dall'Unesco nel 2017», spiega Mario De Rosa, direttore marketing di Caffè Borbone, azienda campana che tosta 1.800 tonnellate di grani al mese, per un fatturato complessivo di 220 milioni di euro nel 2020. «Per rendersene conto bastano pochi esempi: la cultura del caffè sospeso, cioè regalato a un estraneo che non può permetterselo. O il caffè della consolazione, l'uso da parte di vicini e parenti di regalare i grani tostati per consolare dal dolore di una perdita. Gesti che sono ormai parte integrante dell'identità campana, tanto da essere raccontati, ad esempio, nel teatro dei fratelli De Filippo o nei film di Totò o Sophia Loren», spiega. «Non è una questione di divisioni, ma di caratteristiche. È l'espresso napoletano che potrebbe avere quelle più aderenti a ciò che l'Unesco richiede: l'aspetto antropologico legato al culto e alla convivialità».

I pomodori cinesi raccolti schiavizzando gli uiguri arrivano anche in Italia. Stefano Liberti su L'Espresso il 20 aprile 2021. I prodotti dello Xinjiang finiscono ad aziende del nostro Paese che poi li riesportano con bandiera tricolore. Il dibattito sulle sanzioni Ue dovrebbe tenere conto anche di questo commercio e dei suoi effetti sul clima. C’è un commercio che riguarda da vicino il nostro Paese e che tuttavia è poco discusso nel dibattito sulle sanzioni imposte alla Cina dall’Unione europea per la repressione attuata nello Xinjiang. Secondo un rapporto degli esperti delle Nazioni Unite, circa un milione di uiguri - la minoranza etnica di religione musulmana che abita nella regione - sarebbero internati in «campi di rieducazione», dove sarebbero sottoposti a programmi di indottrinamento. Così da fine marzo quattro funzionari di alto rango del Partito comunista locale sono soggetti a un divieto di ingresso nei Paesi Ue e al congelamento di eventuali beni detenuti nel territorio dell’Unione. Alcune aziende d’abbigliamento - tra queste l’Oviesse in Italia - hanno annunciato che non si riforniranno più di cotone dallo Xinjiang, che è una delle principali regioni produttrici del mondo, per timore che nei campi sia impiegata manodopera sfruttata. Ma oltre al cotone, lo Xinjiang esporta massicciamente un altro prodotto: il triplo concentrato di pomodoro. Il frutto rosso viene qui coltivato su migliaia di ettari, per poi essere trasformato in una trentina di fabbriche disseminate su tutto il territorio della provincia. Esattamente come il cotone, il concentrato di pomodoro è una merce globalizzata: non viene consumato nel mercato interno, ma è esportato nella sua totalità. Una volta prodotto in questa remota regione dell’Asia centrale, inizia infatti un lungo viaggio che lo condurrà ai quattro angoli del pianeta, con una destinazione privilegiata: il porto di Salerno. Alcune aziende campane acquistano triplo concentrato proveniente dallo Xinjiang, vi aggiungono acqua e sale e lo trasformano in doppio concentrato prodotto in Italia. In questa veste lo riesportano con la bandiera tricolore in tutto il mondo. Intendiamoci, il processo è del tutto legale. Ma solleva una serie di questioni: perché questi industriali si riforniscono di materia prima in Cina piuttosto che in Italia, primo produttore europeo di pomodoro? Quali sono le implicazioni morali di questa importazione? Il pomodoro concentrato cinese ha un prezzo notevolmente inferiore rispetto a quello prodotto in Italia. I costi di produzione cinesi sono molto bassi proprio perché la raccolta nei campi è compiuta da coorti di braccianti pagati pochissimo, con l’impiego diffuso di manodopera minorile. Molti di questi lavoratori sono uiguri. La filiera di produzione di pomodoro nello Xinjiang, avviata negli anni ’90 del Novecento proprio su sollecitazione di alcuni industriali italiani, è legata a doppio filo al sistema di controllo e repressione attuato negli anni nei confronti degli uiguri. Una delle due aziende che produce ed esporta pomodoro - la Chalkis - è proprietà dello Xinjiang Shengchan Jianshe Bingtuan (Corpi di produzione e costruzione dello Xinjiang - Xpcc nel suo acronimo inglese). Fondato nel 1954 per colonizzare lo Xinjiang, questo ente ha assunto negli anni interessi variegati nella regione, amministrando direttamente terre, città, tribunali, holding e aziende, fra cui la Chalkis. Con l’accusa di gestire i campi di internamento, lo Xpcc è finito nel mirino delle sanzioni Ue. Oltre al possibile ruolo nello sfruttamento degli uiguri, questo commercio di concentrato ha altre non trascurabili conseguenze: il suo trasporto da una parte all’altra del pianeta produce tonnellate di emissioni clima-alteranti, fa concorrenza sleale ai nostri produttori di pomodoro e, in ultimo ma non meno importante, sottrae terre alla produzione alimentare destinata alla popolazione cinese. Se, come ha sottolineato l’eurodeputato francese Raphaël Glucksmann in un’intervista su questo giornale «la politica deve avere il coraggio di riprendere in mano le redini della globalizzazione», forse si potrebbe cominciare ad agire su questo commercio di pomodoro, così poco sostenibile sia dal punto di vista ambientale che del rispetto dei diritti dei lavoratori.

La battaglia alimentare. La "guerra" del pomodoro tra Regioni: Napoli punta all’Igp, la Puglia annuncia ricorso. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Tra Puglia e Campania è guerra del pomodoro. Una battaglia lunga quattro anni che torna d’attualità dopo la  pubblicazione da parte del ministero dell’Agricoltura, sulla Gazzetta ufficiale del 13 marzo scorso, della richiesta di riconoscimento della denominazione “pomodoro pelato di Napoli” Igp, presentata dall’associazione dei trasformatori conservieri Anicav.

Una mossa che non è andata giù, usando un eufemismo, al governatore pugliese Michele Emiliano e alle associazioni di categoria locali. L’assessore pugliese alle Politiche agricole Donato Pentassuglia ieri ha anticipato infatti la volontà della Regione di opporsi in ogni sede alla possibilità di un riconoscimento Igp per il pomodoro pelato di Napoli: “Ho già avuto contatti con il ministero delle Politiche agricole, stiamo istruendo il fascicolo e a breve sarà pronto. Non arretreremo nemmeno di un millimetro”. La questione, come detto, è già nota: nel 2017 la Campania provò una prima volta ad ottenere il riconoscimento, con l’opposizione pugliese in difesa del pomodoro lungo foggiano, dove si concentra “il 90% della produzione nazionale”, rivendica Pentassuglia. Ora però con l’istruttoria ministeriale per la rivendicazione napoletana si è fatto un passo in avanti deciso, arrivando alla stesura del disciplinare di produzione della indicazione geografica protetta “pomodoro pelato di Napoli”. Pentassuglia ribadisce all’Ansa che l’opposizione sarà certa, “il fascicolo è quasi istruito”. La Puglia ha 60 giorni dalla registrazione per fare ricorso e nella Regione guidata da Emiliano tutti hanno fatto fronte comune contro il possibile riconoscimento del pomodoro napoletano, dai banchi di maggioranza e opposizione alla locale Coldiretti Puglia.

“Bisogna uscire dalla grande ambiguità di commercializzare un prodotto che può fregiarsi di un marchio comunitario così fortemente distintivo, senza che ci sia alcun obbligo di utilizzare i prodotti agricoli del territorio al quale la indicazione si ispira. Il 40 percento del pomodoro italiano – dichiara il presidente di Coldiretti Puglia, Savino Muraglia – viene proprio dalla Capitanata, che da sola produce il 90% del pomodoro lungo. La provincia di Foggia è leader nel comparto, con 3.500 produttori di pomodoro che coltivano mediamente una superficie di 32 mila ettari, per una produzione di 22 milioni di quintali ed una Produzione lorda vendibile di quasi 175.000.000 euro”. Tra Puglia e Campania non è il primo scontro per questioni alimentari. La Regione guidata da Vincenzo De Luca, patria della mozzarella di Bufala Dop, si era opposta alla denominazione simile per quella pugliese di Gioia del Colle, ottenuta lo scorso dicembre dopo una battaglia durante più di tre anni.

Conserve e buoi dei paesi tuoi. Report Rai PUNTATA DEL 19/04/2021 di Chiara De Luca Collaborazione di Greta Orsi, Immagini di Matteo Delbò, Dario D’India e Fabio Martinelli, Montaggio e grafica di Michele Ventrone. La stazione sperimentale delle conserve è una fondazione di ricerca con sede a Parma. Ogni anno più di tremila aziende che producono conserve alimentari ittiche, vegetali e animali sono tenute a pagare un contributo obbligatorio a questo ente, che rappresenta quasi il 70% del suo fatturato annuale. Ma chi gestisce questi soldi e come?

“CONSERVE E BUOI DEI PAESI TUOI” Di Chiara De Luca Collaborazione Greta Orsi

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il made in Italy è conosciuto in tutto il mondo anche grazie all’industria delle conserve alimentari. Nel 2020 le sole conserve vegetali hanno fatturato più di 4 miliardi di euro. L’Italia è il terzo produttore di pomodoro al mondo.

CARMELO ARESTIA – PRESIDENTE AGROMONTE Il nostro pomodoro che voi vedete benissimo trasformato e messo direttamente nelle bottiglie.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Non è da meno il comparto conserviero ittico che vanta un fatturato di più di un miliardo.

GIUSEPPE SARDINA - TITOLARE SARDINAFISH – BAGHERIA (PA) Tutto viene fatto in latta o in contenitori sotto sale.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Solo nel 2019 la produzione nazionale di tonno in scatola ha raggiunto 74 mila tonnellate. Anche salumi e prosciutti rientrano nei prodotti alimentari conservati. Ne abbiamo prodotti più di 1 milione di tonnellate.

MAURO ROSSI - SALUMIFICIO POGGINO Questi so’ i prosciutti appena lavati, è una pre-stagionatura poi vengono sugnati e portati in stagionatura.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Cosa hanno in comune tutti coloro che producono alimenti conservati? Che devono pagare un contributo obbligatorio a un ente che è stato soppresso nel 2010: La stazione sperimentale delle Conserve che si trova a Parma.

CHIARA DE LUCA Perché sono state soppresse?

STEFANO CAPACCIOLI – ESPERTO CONTABILE Lei sopprime una cosa quando? Quando non la ritiene non più utile. È stata soppressa e tutte le funzioni e tutti i compiti e le attribuzioni sono passate alla Camera di Commercio.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Nel 2015 poi la Camera di Commercio di Parma trasforma la stazione sperimentale in una fondazione di ricerca ma nonostante il passaggio da azienda speciale della Camera di Commercio a fondazione, continua a imporre un contributo obbligatorio a tutte le aziende che producono conserve, che però non ci stanno.

CARMELO ARESTIA – PRESIDENTE AGROMONTE Noi abbiamo le nostre Camere di Commercio. Le industrie alimentari sono disperse in tutta Italia, però tutti i soldi vanno a finire in Emilia-Romagna, ma perché?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Già, bella domanda, buonasera. Insomma, gli imprenditori delle conserve, che sono una risorsa del made in Italy, devono versare obbligatoriamente un contributo a un ente che è un po' misterioso, la stazione sperimentale delle conserve. Devono versare anche quando importano del prodotto, perché è un ente un po’ misterioso? È stato soppresso nel 2010 dal ministro Tremonti, governo Berlusconi, e poi è stato inglobato dalla Camera di Commercio di Parma che a sua volta l’ha trasformata in una fondazione privata. Questo le consente di non essere così trasparente al pubblico nelle attività che svolge, e a questo punto però gli imprenditori si chiedono ma perché se noi già versiamo un contributo alle nostre camere di commercio, dobbiamo anche pagare questa fondazione privata, per fare cosa? Già, per fare cosa, la nostra Chiara De Luca.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Le aziende che versano un contributo obbligatorio alla stazione sperimentale delle conserve sono 3.370 per un totale di quasi 7 milioni e 500 mila euro l’anno. Questo contributo però è mal digerito sia dalle piccole aziende…

GIUSEPPE SARDINA - TITOLARE SARDINAFISH – BAGHERIA (PA) A oggi non capisco a cosa serve e per quale motivo io la pago o che vantaggi ci dà.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma anche dalle grandi. CHIARA DE LUCA Quanto pagate se posso permettermi?

ANDREA RIGONI – AMMINISTRATORE DELEGATO RIGONI DI ASIAGO (VI) Intorno ai 10 mila euro l’anno.

CHIARA DE LUCA Da quanti anni lei paga questo contributo?

ANDREA RIGONI – AMMINISTRATORE DELEGATO RIGONI DI ASIAGO (VI) Dal 1982.

CHIARA DE LUCA E in cambio?

ANDREA RIGONI – AMMINISTRATORE DELEGATO RIGONI DI ASIAGO (VI) E in cambio non abbiamo mai ricevuto niente. Per noi la stazione sperimentale delle conserve alimentari è un laboratorio di analisi per il resto potrebbe non esistere.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dall’altopiano di Asiago, fino a Ragusa.

CARMELO ARESTIA – PRESIDENTE AGROMONTE (RG) Vorremmo più assistenza con delle ricerche applicate, tutto queste cose dovrebbe essere un servizio che noi dovremmo avere in modo automatico.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La stazione svolge un’attività di ricerca, sviluppo, analisi, consulenza e formazione, ma non tutti lo sanno.

GIUSEPPE SARDINA - TITOLARE SARDINAFISH – BAGHERIA (PA) Non ho mai avuto contatti direttamente con loro, mi inviano solo la cartella annualmente.

CHIARA DE LUCA Cioè voi li sentite soltanto per il pagamento?

ANDREA RIGONI – AMMINISTRATORE DELEGATO RIGONI DI ASIAGO (VI) Sì, non li sentiamo neanche ci arriva la comunicazione di quello che è il contributo annuo.

ANDREA DISTEFANO - RESPONSABILE ORGANIZZATIVO CNA RAGUSA Le imprese lamentano questo che spesso ecco non hanno un corrispettivo di servizio in base a quanto pagano.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Anche questa se vogliamo è un’anomalia: la stazione sperimentale delle conserve era stata abolita, poi inglobata dalla Camera di Commercio di Parma e infine è diventata una fondazione e non deve chiedere conto a nessuno sulla tipologia di ricerche che effettua.

ENZO SPISNI – PROFESSORE DIP. SCIENZE BIOLOGICHE – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Si va da alcuni studi locali, sulle conserve, confronti tra le conserve italiane e quelle prodotte per esempio in Cina e si va anche su per esempio sullo studio sul gradimento della birra senza glutine in Polonia.

CHIARA DE LUCA Un ente d’eccellenza perché dovrebbe studiare quanta birra viene consumata in Polonia?

ENZO SPISNI – PROFESSORE DIP. SCIENZE BIOLOGICHE – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Non è una produttività scientifica da centro di eccellenza. Scientificamente, le dico, faccio fatica a capire una ragione per una stazione sperimentale di questo tipo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il fatto che poi la stazione si trovi a Parma potrebbe far pensare a dei privilegi.

MAURO ROSSI - SALUMIFICIO POGGINO - VITERBO Il prosciutto di Parma credo che sia privilegiato rispetto ad altri.

CHIARA DE LUCA Perché?

MAURO ROSSI - SALUMIFICIO POGGINO - VITERBO In base agli studi che fanno.

CHIARA DE LUCA Cioè quindi diciamo sono riferiti sempre al prosciutto dolce che è la tipicità del prosciutto di Parma?

MAURO ROSSI - SALUMIFICIO POGGINO - VITERBO Il nostro prosciutto come il toscano come l’umbro è un prodotto più saporito rispetto al Parma che è più dolce.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A questo poi si aggiunge anche il fatto che non si capisce bene come vengano selezionate le aziende che devono pagare alla Stazione i contributi.

PAOLO SILVESTRI- AMMINISTRATORE DELEGATO PEXTO SRL - GENOVA Dopo quasi 10 anni di attività, io ho scoperto che esistevano, li ho contattati per avere informazioni tecniche e non hanno saputo rispondermi, ma per altro mi hanno subito mandato dei bollettini da pagare.

CHIARA DE LUCA Quindi dopo che lei si è rivolto alla stazione sperimentale loro hanno cominciato a chiedere il contributo prima no?

PAOLO SILVESTRI- AMMINISTRATORE DELEGATO PEXTO SRL - GENOVA No, non sapevano nemmeno che esistessimo. Se tu li contatti questi cominciano a farti pagare.

CHIARA DE LUCA Era meglio se non li contattava.

PAOLO SILVESTRI- AMMINISTRATORE DELEGATO PEXTO SRL - GENOVA Certamente.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E non si capisce bene nemmeno il criterio con cui viene calcolato il tributo.

MIRKO ALBOINO - TITOLARE ANTICA FORNERIA DI RECCO (GE) Viene calcolato in base alla retribuzione lorda annuale dei propri lavoratori dipendenti.

STEFANO CAPACCIOLI – ESPERTO CONTABILE Paradossalmente va a sfavore delle industrie con meno intensità di capitale e questo obiettivamente va in contrasto anche contro i principi di capacità contributiva.

CHIARA DE LUCA Questo per la tua azienda cosa comporta?

MIRKO ALBOINO - TITOLARE ANTICA FORNERIA DI RECCO (GE) Un salasso perché comunque la nostra azienda è una piccola azienda che impiega però un alto numero di lavoratori, saremo costretti a pagare oltre i 5 mila euro l’anno.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO È assurdo che debbano essere penalizzate in rapporto, non tanto chi ha un fatturato maggiore ma le aziende che hanno più lavoratori dipendenti in regola. E per evitare il salasso la Proferec, insieme al CNA Liguria, ha fatto ricorso e la commissione tributaria gli ha dato ragione: perché così calcolato implicherebbe un maggior tributo per le piccole imprese…

STEFANO CAPACCIOLI – ESPERTO CONTABILE Lei si immagini una industria fortemente capitalizzata con macchinari, impianti che paga molto di meno rispetto a una cooperativa agricola beh…

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La stazione sperimentale delle conserve non è l’unica, c’è anche quella del vetro a Murano dove lavorano i pochi maestri vetrai rimasti. Ma la stazione del vetro a differenza di quella delle conserve ha deciso di chiedere meno contributi alle aziende.

ANTONIO LUI - PRESIDENTE STAZIONE SPERIMENTALE DEL VETRO - VENEZIA Lo abbiamo praticamente ridotto di tre volte.

CHIARA DE LUCA Perché lo volete ridurre questo contributo esterno?

ANTONIO LUI- PRESIDENTE STAZIONE SPERIMENTALE DEL VETRO - VENEZIA Un’industria non deve vivere di contributi, un’industria deve vivere di forze proprie, di capacità proprie.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO I manager della stazione sperimentale del vetro sono più virtuosi nel chiedere il contributo obbligatorio alle aziende che rappresenta solo il 6 per cento del suo fatturato annuale mentre quello della stazione sperimentale delle conserve rappresenta quasi il 70 per cento. Questo perché punta molto sulla vendita di servizi di analisi e consulenza. Servizi che anche la stazione delle conserve offre, ma c’è un problema.

MIRKO ALBOINO - TITOLARE ANTICA FORNERIA DI RECCO (GE) Peccato che è praticamente fuori mercato. Il colore è un parametro che la stazione sperimentale fa pagare otto euro, noi attualmente paghiamo 1 euro e 40.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma i manager della stazione come spendono i 7 milioni e 500 mila euro che ogni anno incassano dalle aziende che producono conserve? Già presidente della Camera di Commercio di Parma, Andrea Zanlari nel 2010 diventa anche presidente della stazione sperimentale fino a novembre del 2020, quando il prefetto di Parma ha commissariato l’ente, perché incapace di dotarsi degli strumenti necessari per la corretta gestione organizzativa, amministrativa e contabile.

CHIARA DE LUCA Ma perché è stata commissariata la fondazione?

MASSIMO RUTIGLIANO - AVVOCATO DEL COMMISSARIO CAMERA DI COMMERCIO DI PARMA Perché a fronte di situazione di dissidi e quindi di non accordi c’era un problema di funzionamento.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Un funzionamento che faceva acqua da tutte le parti, e mentre l’acqua usciva la criminalità organizzata si infiltrava, come emerge dall’operazione guidata dalla Dda di Bologna secondo cui alcune società sarebbero riuscite a ottenere tramite pratiche corruttive e alterando le gare d'appalto, lavori per circa 80 mila euro all'interno della fondazione che come si legge nelle carte dell’indagine è riconosciuta come ente pubblico, su cui la Camera di Commercio esercita un controllo.

MASSIMO RUTIGLIANO – AVVOCATO DEL COMMISSARIO CAMERA DI COMMERCIO DI PARMA La sovrapposizione tra Camera di Commercio e stazione sperimentale secondo me è un errore, sono due soggetti giuridici completamente diversi e distinti con una loro autonomia.

CHIARA DE LUCA Non è che la Camera di Commercio in qualche modo visto il commissariamento se ne vuole lavare le mani?

MASSIMO RUTIGLIANO – AVVOCATO DEL COMMISSARIO CAMERA DI COMMERCIO DI PARMA No, neanche per idea, assolutamente, c’è anzi un interesse a un funzionamento preciso della fondazione perché poi è un patrimonio di tutti.

CHIARA DE LUCA Ma in tutto ciò perché Zanlari non ha voluto parlare con me?

MASSIMO RUTIGLIANO - AVVOCATO DEL COMMISSARIO CAMERA DI COMMERCIO DI PARMA Io vi ho visto lavorare, ma ragazzi, vi ho visto anche far fare delle figure da cioccolatino a delle persone.

CHIARA DE LUCA Aveva paura di fare la figura del cioccolatino Zanlari?

MASSIMO RUTIGLIANO – AVVOCATO DEL COMMISSARIO CAMERA DI COMMERCIO DI PARMA Le persone possono avere le loro insicurezze o comunque i loro timori e ci sta questo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma qual è la figura del cioccolatino non lo sappiamo. Rimaniamo sulla metafora alimentare. Comunque, Zanlari, il manager dai mille incarichi, è stato presidente della Camera di Commercio di Parma per 20 anni, per 10, fino a quando è stata commissariata, nel 2020, lo è stato anche della stazione sperimentale. Compenso: 80 mila euro l’anno. Il suo legale dice: però guardate che non c’è collegamento sono due enti separati, la Camera di Commercio e la stazione sperimentale. E la stessa stazione sperimentale ci ha scritto che i suoi studi sono di respiro nazionale e non vengono influenzati dall’area geografica dove si trova. Ora detto questo va anche specificato che il presidente e il cda della stazione sperimentale vengono nominati dalla Camera di Commercio di Parma e non ha scelto bene se è vero che il prefetto l’ha commissariata perché è stata gestita male. E tra le maglie larghe si sarebbe anche infilata la criminalità organizzata e si sarebbe anche accaparrata degli appalti in maniera diretta. In più c’è anche un’ipotesi di corruzione. Non è certo un bel vedere se si pensa che quelli sono contributi delle aziende che vengono pagati in base ai posti regolari, di lavoro, mantenuti da questi imprenditori. Hanno anche un alto valore simbolico. Ecco cerchiamo di farli funzionare bene. Ora Report può cominciare.

·        L'Antispreco.

Alessia Guerrieri per “Avvenire” il 29 settembre 2021. Frutta, verdura, latticini, pane. Prodotti freschi comprati in eccesso o dimenticati in fondo al frigo che, ormai deteriorati, finiscono nella spazzatura. Va detto, ad onor del vero, che gli italiani sono il popolo che spreca meno cibo a settimana, poco più di mezzo chilo, ma a livello globale il nostro Paese è al terzo posto come percentuale di quante volte a settimana buttano alimenti. I più virtuosi sembrano infatti essere gli spagnoli, con il 71% degli intervistati che ammette di gettare il cibo meno di una volta a settimana. Seguono russi e tedeschi con il 70%, appena dietro gli italiani con il 69%. Mentre due terzi dei cittadini cinesi gettano il cibo una o più volte la settimana perché «non amano gli avanzi» e dietro di loro ci sono gli statunitensi che hanno il primato dei più disinvolti nel far diventare cibo spazzatura: il 55% spreca almeno settimanalmente. Sono perciò in generale gli europei i più attenti a non far finire alimenti nel secchio, secondo i risultati del primo report globale sul rapporto tra cibo e spreco, promosso da Ipsos e Waste Watcher, l'osservatorio internazionale su cibo e sostenibilità, realizzato in otto Paesi del mondo: Italia, Spagna, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Cina, in vista della seconda Giornata internazionale di consapevolezza sulle perdite e gli sprechi alimentari di oggi. Ma sono gli sprechi in valore assoluto che incoronano gli italiani come il popolo più virtuoso, con solo 529 grammi di cibo dissipato a testa nell'arco di una settimana. Sul versante opposto gli americani che auto-denunciano lo spreco di 1453 grammi di cibo settimanali. Subito dopo ci sono i cinesi con 1153 grammi, quindi i canadesi con 1144 g, seguono i tedeschi con 1081 g, e quindi arrivano i cittadini inglesi (949 g), spagnoli (836 g) e russi (672). Sono i prodotti freschi e deperibili, frutta e ver- dura ad essere gettati maggiormente a qualsiasi latitudine del pianeta (gli italiani si attestano su uno spreco settimanale medio di 32,4 grammi settimanali per la frutta e 22,8 grammi per la verdura), ma ai vertici nel mondo c'è soprattutto il pane: dai 38,3 grammi settimanali per gli Stati Uniti ai 22,3 grammi in Italia, e in mezzo il Regno Unito con 33,8 grammi. «Il rapporto conferma il forte collegamento fra abitudini di consumo, spreco alimentare e diete sane, sostenibili e tradizionali come la dieta mediterranea», spiega il direttore scientifico di Waste Watcher International Andrea Segrè, fondatore della campagna Spreco Zero, ordinario di Politica agraria internazionale all'università di Bologna, che conferma l'esistenza di un 'caso Italia': «Chi è abituato a mangiare fuori spreca di più in casa». Ecco perché, come ricorda il vice direttore generale aggiunto della Fao Maurizio Martina, «c'è tanto lavoro da fare sul dimezzamento degli sprechi al 2030 con un protagonismo attivo della società civile e dei governi», rendendo la ricorrenza anti-spreco di oggi «non solo una giornata di testimonianza ma una giornata di impegno e mobilitazione delle responsabilità». Partendo, gli fa eco la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, dal promuovere «una vera educazione alla cultura del cibo che metta in luce i devastanti effetti economici e morali della sua perdita e del suo spreco».

Morello Pecchioli per la Verità il 17 gennaio 2021. Avanzi popolo! Se anche quest' anno, con tutto quello che ci è capitato, gettiamo, dopo le feste, nel bidone dell'umido pasta e riso avanzati nella zuppiera; fette di arrosto, di bollito, di cotechino o pezzi di cappone rimasti sul tagliere; spigole, capitoni, branzini ancora nei vassoi di portata (la Coldiretti informa che l'anno scorso abbiamo buttato nella pattumiera mezzo miliardo di euro), significa siamo un popolo di fessi che meriterebbero di essere condannati a pane e acqua per il resto della vita. Con quali capi d'accusa? Strage alimentare, furto (rubiamo a chi soffre la fame) e ignoranza gastronomica abissale perché con i cibi rimasti si possono preparare piatti succulenti, gustosi, diversi dagli originali. Chi è convinto che quest' anno di giorni rossi e cene (proibiti i cenoni) a ranghi ridotti, non ci saranno sprechi, è un povero illuso. Ma li ha visti gli assalti nei giorni scorsi a ortofrutta, pescivendoli e supermercati? Peggio dell'assalto ai forni nei Promessi Sposi. La cultura antispreco, il riutilizzo degli avanzi, nasce con l'uomo e arriva, secolo dopo secolo, per merito di tutte le classi sociali, dalle più povere alle più opulente, fino ai nostri giorni. Prima del nostro arrivo sul pianeta nessuno gettava il cibo nella spazzatura. Non lo facevano re, imperatori, conti e marchesi, ricchi borghesi attenti al risparmio e men che meno (ammesso che avanzasse loro qualcosa) se lo permettevano contadini e proletari. Solo noi occidentali ricchi abbiamo deviato dall'antica e retta via. Colpa del boom, dell'enorme sviluppo dell'industria alimentare, del consumismo, dell'illusione di essere tanto ricchi da permetterci di sprecare il cibo avanzato. Chi scrive fa colazione con un rosicchiolo di pane e caffelatte, convinto di fare un primo pasto modesto. Ha scoperto, invece, che è un breakfast imperiale. Antonino Pio, 15° imperatore di Roma vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, sovrano saggio, uomo di virtù come rivela l'epiteto, odiava gli sprechi. Alla fine di ogni convivium (il banchetto serale dei romani ricchi) comandava ai servi di raccogliere il pane avanzato e di tenerlo per lo ientaculum della mattina dopo: la prima colazione che consumava con la famiglia e con i membri del suo consiglio. Pur non arrivando alla frugalità di Antonino, era, comunque, costume dei Romani far colazione con ciò che era rimasto dalla coena consumata al tramonto del giorno prima. Scrive Ilaria Gozzini Giacosa in A cena con Lucullo: «Appena levatosi, il Romano come l'inglese attuale, faceva una ricca colazione che consumava in piedi. In genere tale colazione era costituita per gli adulti dagli avanzi della sera prima (olive, capperi, uova, un po' di formaggio, pane e miele). Per i bambini, da latte e focaccine». Nei conventi dell'alto medioevo era una regola raccogliere le micae panis rimaste sulla tavola dei refettori conservandole in un vaso di terracotta. A fine settimana il fra' Pappina di turno impastava le briciole con uova e farina ricavandone un dolce che rallegrava la comunità monastica. Con i cibi che restano si preparano piatti straordinari. Lo assicurano i grandi della letteratura gastronomica come Olindo Guerrini autore de L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa, giornalisti gastronomi moderni come Paolo Massobrio (Avanzi d'autore), accademici come Roberto Zottar che presenta sulla Rai del Friuli le ricette del riciclo che, da bravo archeogastronomo, recupera nei siti storici della sua regione. L'ultimo rinvenuto è la Pancia della monaca, una sorta di torta per riciclare avanzi d'arrosto. Con tutto ciò che è rimasto dalla preparazione delle cene di Natale o di Capodanno e un ghiribizzo d'estro c'è da divertirsi inventando nuovi piatti e nuovi sapori. Col risotto avanzato si preparano arancini di riso o ghiotti cannelloni. Basta frullare, fare la farcia, introdurla nella pasta cilindrica, cuocere e il gioco è fatto. Con la carne avanzata si mettono in tavola meravigliose paste ripiene: ravioli, tortellini, pasticci. O si preparano saporiti ragù. Il pesce - crostacei, salmone, branzino, polpo, anguilla... - è più facile da recuperare: in insalata con la maionese, in sushi o tempura. Ancora con la carne si fanno frittate, polpette e polpettoni, frittelle, supplì, insalate di pollo. Avanzate pandoro e panettone? Provateli con lo zabaione o crema o trasformateli in tiramisù. Avete avanzato noci, arachidi e mandorle? Con un po' di zucchero o miele ecco i croccanti. Giorgio Gioco, il compianto cuoco e poeta veronese del ristorante 12 Apostoli dava tre consigli alla vigilia delle feste: non esagerare con gli acquisti, non eccedere ai fornelli e comperare cibi di stagione. «Comunque gli avanzi», sosteneva Gioco, «sono la prima economia domestica. Ci vuole poco per recuperarli. È rimasto del manzo? Si tagli a fette, s' adagi in una padella di ferro arroventata, con olio, aglio e prezzemolo ed ecco un piatto straordinario: il manzo fasanà. Col risotto avanzato si faccia una bella crostata di riso. In una padella arroventata, umettata d'olio, si mette il risotto avanzato e si appiattisca bene con una paletta. Si lasci cuocere, che faccia la crosticina sotto. Poi si gira: altra crostina. Servire il riso condito di formaggio». I Veneti con l'umile polenta avanzata fanno un dolce strepitoso, la fugassa. Basta aggiungere uvetta, fette di mela, uova, un po' di cannella, si frulla il tutto, si mette in forno e, voilà!, pronto un dolce dogale. I toscani propongono la ribollita, una zuppa povera, ma saporita che vanta leggendarie origini medioevali. Marzia Morganti raffinata giornalista di gastronomia, autrice di molti libri sulla cucina toscana, racconta che in quei lontanissimi tempi non si usavano i piatti in tavola: i signori appoggiavano carni e verdure su focacce. I servi che raccoglievano tali avanzi li mettevano a bollire in un pentolone con verdure povere: cavoli, cipolle, verze, bietole, e poi mangiavano quella zuppa con gran gusto. Se avanzava, il giorno dopo la ribollivano raddoppiando il sapore e il piacere.Guerrini riporta nel suo libro un proverbio genovese: «Un bon pasto o dûa (dura) trei giorni». Lo scrittore era una sagoma d'uomo: ironico, salace e polemico. Colto e curioso - girò, a quei tempi, l'Italia in bicicletta - scrisse gli Avanzi in risposta alla Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene dell'amico Pellegrino Artusi. Guerrini dimostrò che riutilizzare gli avanzi non era svilire la cucina, ma esaltarla; non era impoverirla o declassarla, ma arricchirla di sapori diversi, di nuove e incredibili ricette. Sull'uso degli avanzi nella storia ci illumina Massimo Montanari, docente a Bologna di storia dell'alimentazione: «Nelle società tradizionali non si gettava nulla. Sprecare era inconcepibile, in un mondo abituato a far tesoro delle proprie risorse, a valorizzarle fino in fondo. Ciò valeva nella società contadina, attentissima a far quadrare risorse e bisogni, a combattere la paura della fame con strategie di conservazione degli alimenti, di recupero e riutilizzo degli avanzi. Valeva nella società borghese, sensibile al tema dell'economia e del risparmio. Valeva nelle corti aristocratiche, dove l'ostentazione e l'abbondanza del cibo non si traducevano mai in spreco. I resti non si gettavano: si riutilizzavano per il personale di servizio, talvolta si vendevano. La "cucina dei resti" non era frutto di un'economia "povera". Al contrario: più il pasto era ricco, più avanzi c'erano, e più a lungo duravano le risorse impiegate».

·        La Scadenza…

Alimenti scaduti e rischi: lievito, caffè e farina da buttare subito, ecco perché. Martina Barbero su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2021. Li abbiamo in casa tutti e tutti pensiamo che durino a lungo. In realtà questi alimenti, una volta aperti, deteriorano in fretta. Ecco che cosa fare.

Dispense da incubo

Mai come nell’ultimo anno e mezzo la dispensa è stata il fulcro delle nostre cucine. Abbiamo imparato a gestirla al meglio ottimizzando le provviste così da non dovere andare al supermercato tanto spesso, data l’emergenza Covid-19 con la quale stiamo imparando a convivere. Sarà capitato anche a voi di imbattervi in pacchetti e barattoli, pieni, dimenticati da tempo. Che fare? Consumare nonostante la data di scadenza, ormai passata, oppure buttare? Il punto non è tanto la salubrità del contenuto di quei pacchetti: si tratta comunque di alimenti innocui per la salute (leggi anche i cibi da evitare assolutamente secondo Franco Berrino). Il problema sta, casomai, nell'aspetto e nell'efficacia dentro anche le ricette più semplici. E allora, dal lievito al caffè ecco gli 8 prodotti da controllare e, probabilmente, buttare per il bene della vostra dispensa. E del menu. 

Lievito

Il lievito è una cosa viva, sia esso fresco o in polvere. Se è vecchio, non produrrà una pagnotta ben lievitata o una focaccia soffice. I pacchetti chiusi dovrebbero mantenersi per un anno a temperatura ambiente, ma una volta aperti, con l'esposizione all'aria, è bene utilizzarli entro un paio di mesi. Un trucco per controllare se l'agente lievitante funziona ancora è mescolarne un pizzico in acqua dolce calda (non bollente): se produce schiuma allora significa che è ancora attivo. 

Lenticchie

Le lenticchie, quelle secche, contrariamente a quanto si possa pensare, non durano in eterno. Se conservate nel luogo sbagliato, cioè umido e non fresco, tendono a inglobare umidità rischiando di diventare acidule. Il consiglio è di consumarle entro un anno.

Spezie

Le spezie non vanno a male di per sé, ma il loro sapore perde di intensità e si degrada nel tempo, soprattutto quelle macinate e in polvere. L'ideale è consumarle entro 3 mesi dall'acquisto. Il primo segnale che indica perdita di aroma è il colore: se un curry o della curcuma, ad esempio, mancano di brillantezza significa che è giunto il momento di fare un po' di pulizia.

Bicarbonato

Anche questo, come il lievito, perde potenza. Un bicarbonato con qualche mese di troppo non nuoce alla salute, vero. Però può essere un vero danno per torte e dolci, che rimarranno bassi e tutt'altro che soffici. Il consiglio è di buttarlo se sono trascorsi più di sei mesi dall'acquisto. 

Riso

Se chiusa, la confezione dura a lungo, anche ben oltre la data di scadenza. Una volta aperta, però, è meglio consumare i chicchi il più velocemente possibile. Con lo scorrere del tempo, infatti, la superficie del riso cambia e impiega sempre di più a cuocere e ad assorbire acqua, col rischio, poi, di perdere di cremosità nel caso si volesse cucinare, ad esempio, un risotto.

Aceto

Si tratta di un ingrediente vivo e ricco di microrganismi, per cui se da un lato l'aceto non può andare a male, dall'altro rischia di fermentare e sviluppare quella che viene chiamata «madre», cioè un accumulo di lieviti leggermente viscido che però è totalmente innocuo. In alcune occasioni potrebbe scolorire o sviluppare sedimenti e il profilo aromatico cambiare. Per rallentare la fermentazione, il consiglio è di conservare gli aceti in frigorifero fin dall'inizio. 

Caffè

Molti ignorano che il caffè è un alimento facilmente deteriorabile: inizia a perdere nutrienti e intensità di sapore appena dopo la macinazione. Il modo migliore per rallentare il suo invecchiamento (negativo) e conservarlo al meglio a casa è seguire questa guida. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 ottobre 2021. Siete sicuri di sapere come conservare il formaggio? L’esperta francese Aurore Ghigo ha stilato una guida completa per appassionati, da come creare il perfetto tagliere al modo migliore per conservarli. Secondo Ghigo conservare correttamente il formaggio in frigorifero è essenziale per mantenerlo fresco il più a lungo possibile. «Il modo migliore per conservarlo è nella confezione di carta in cui è avvolto. Ma se lo hai comprato avvolto in pellicola trasparente, il modo migliore è avvolgerlo nella carta da forno e poi metterlo in un contenitore ermetico. La pellicola è da evitare perché fa sudare il formaggio». Per creare un tagliere perfetto l’ideale è posizionare un numero dispari di formaggi diversi disposti dal più dolce al più forte. «La regola “francese” vuole che i formaggi siano sempre dispari, quindi tre o cinque vanno benissimo» ha detto. «Utilizzare una miscela di consistenza è sempre un buon consiglio da tenere a mente: alternare duro, morbibo e friabile». Uno degli errori più frequenti è quello di mettere due formaggi della stessa famiglia nel tagliere, per esempio due formaggi sottoposti a erborinatura, oppure due muffe bianche, come il brie o il camembert. «Certo si tratta di gusto personale, ma per la varietà, è meglio mettere diversi tipi di formaggio sulla tavola». Il tagliere va composto sempre, secondo Ghigo, tagliando piccoli pezzi da un formaggio intero prima di servirlo a tavola. «Permetterà agli ospiti di sentirsi sicuri nel prendere un pezzo» ha detto. Vietato esporre formaggi ancora nella confezione, e lo stesso vale per salse e cracker. Importante inoltre portare un coltello diverso per ogni tipo di formaggio. Il tagliere preferito di Aurore Ghigo è composto da Langres, Brillat Savarin, Comte, French Camembert e Bleu D’Auvergne. «È così difficile scegliere tra i formaggi, adoro il formaggio a pasta molle, ma per compiacere gli ospiti metto sempre almeno due formaggi a pasta dura sui miei taglieri». Inoltre è importante accompagnare il tagliere con pane o cracker. «Aggiungo sempre una marmellata, diversi tipi di cracker, miele (dolce) o olio d’oliva e sale (salato) per aiutare a rendere il gusto delle marmellate più intenso». 

DAGOTRADUZIONE DA dailymail.co.uk l'8 aprile 2021. Cosa si nasconde nel vostro frigorifero o in fondo agli scaffali delle vostre cucine? Una scatola di tonno che di qualche anno fa, un vecchio blocco di formaggio, o altri articoli vari ben oltre le loro date di scadenza? Il vostro istinto è probabilmente quello di buttarli via, contribuendo al problema globale degli sprechi alimentari. Un recente rapporto ha rivelato che i più grandi supermercati del Regno Unito buttano via circa 190 milioni di pasti perfettamente commestibili all’anno, mentre L'ONU afferma che ogni anno un quinto del cibo domestico finisce nella spazzatura. Una delle cause principali di questi sprechi è la tendenza di scartare di cibi che si avvicinano alle date di scadenza, cosa che molti di noi prendono come un segno che stanno andando a male. Ma non è necessariamente così. Mentre le date “da consumarsi entro” (trovate su carne, latticini e altri alimenti freschi) riguardano la sicurezza alimentare, quindi che il cibo non dovrebbe essere mangiato una volta trascorsa questa data, “da consumarsi preferibilmente entro” (che si trovano su barattoli e pacchetti) riguardano la qualità del cibo, ovvero che si possono mangiare ma potrebbero non essere al meglio. Quanto è commestibile il cibo dopo la data di scadenza? Sarah Rainey ha frugato nei suoi armadi alla ricerca di pacchetti, barattoli e scatole scaduti da tempo e li ha inviati al principale centro di microbiologia NationWide Laboratories, nel Lancashire, per scoprirlo…

Zuppa in scatola (Scaduta da sei anni e tre mesi). Una scatola chiusa di zuppa di pollo Heinz del 2014. Anche se un po' polverosa, sembra in condizioni perfettamente buone. La zuppa all'interno sembra identica al contenuto di una lattina appena acquistata.

ASPETTO. Proprio come ti aspetteresti; cremoso, carnoso e un po' aglioso.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Il laboratorio non ha trovato tracce di salmonella, listeria, lievito, muffe o E. coli.

COMMESTIBILE? Sì.

Uova (Scadute da 8 giorni). Una scatola di sei uova medie da un alimentari. Le uova sono uno dei pochi prodotti ad avere una data di scadenza; sono generalmente considerate sicure da mangiare fino a tre settimane dopo se conservate in frigorifero, più a lungo si rischia che i batteri della salmonella si moltiplichino all'interno del guscio.

ASPETTO. Una volta aperte le uova hanno un aspetto normale: i bianchi sono limpidi e colanti; i tuorli intatti.

ODORE. Le uova marce hanno un odore solforoso molto caratteristico; queste non odorano di niente.

CONTEGGIO BATTERI. Basso. I test rilevano 20 "unità formanti colonie" (UFC) di batteri per grammo, quindi stanno appena iniziando a esplodere ma sono ancora sicure da mangiare. Nessuna salmonella presente.

COMMESTIBILE? Sì.

Pesto in scatola (Scaduto da due anni e quattro mesi). Un vasetto da 190g di pesto a base di basilico, pinoli, pecorino e olio extravergine di oliva. 

ASPETTO. Un po 'oleoso in alto ma per il resto di consistenza normale. Ancora di un verde vibrante.

ODORE. Essendo rimasto chiuso per così tanto tempo, l'odore di erbe e aglio è abbastanza forte ma non è maleodorante o acido.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. L'olio ha conservato perfettamente il contenuto.

COMMESTIBILE? Sì.

Pane in cassetta (Scaduto da cinque giorni). Una pagnotta di pane bianco in cassetta non aperto tagliato a fette di medio spessore. ASPETTO. All'interno della confezione inizia a formarsi della condensa e il pane è un po' meno morbido di quanto suggerisce lo slogan. Ma è tutt'altro che stantio e non ci sono prove di muffa. 

ODORE. Sgradevolmente dolce. Una volta passati un paio di minuti per "respirare", il pane ha un odore più accettabile.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Nonostante i lievi cambiamenti nell'aspetto e nell'odore, questo pane è ancora buono.

COMMESTIBILE? Sì.

Formaggio (Scaduto da un mese). Un blocco di Cheddar acquistato da un negozio all'angolo. Essendo più stabile del latte o dello yogurt, ha una data “da consumarsi preferibilmente entro”. Solo i formaggi freschi come la ricotta hanno le date “da consumarsi entro”.

ASPETTO. Arancione brillante e privo di muffa, ma inizia a diventare un po' molliccio ai bordi.

ODORE.

Non eccezionale. Ha quell'odore sgradevole da calzino vecchio del formaggio rancido.

CONTEGGIO BATTERI. Estremamente alto. I test rilevano 200.000 UFC per grammo di formaggio, ma gli scienziati dicono che non dovrebbe essere motivo di preoccupazione. Poiché il formaggio viene prodotto inserendo i batteri nel latte pastorizzato, non esiste una conta batterica inaccettabile. Ciò che viene rilevato potrebbero anche essere batteri che formano acido lattico, un sottoprodotto del processo di maturazione, ma non contano come agenti patogeni ("batteri cattivi"). I test non rilevano salmonella, listeria, lievito, muffe o E. coli.

COMMESTIBILE? Tecnicamente, ma a causa dell'odore non lo mangerei personalmente.

Pacchetto di wafer (Scaduti da 5 mesi). Una confezione di wafer da 1 euro, farcite con una crema al cioccolato.

ASPETTO. Completamente normale. Sorprendentemente, sono ancora croccanti e la crema all'interno è appiccicosa.

ODORE. Insipido. Pochissimo odore.

CONTEGGIO BATTERI. Medio. I test rivelano 100 UFC per grammo, il terzo più alto del lotto. Non è pericoloso ma mostra che i biscotti possono andare a male, non solo diventare stantii e non dovrebbero essere lasciati chiusi per mesi.

COMMESTIBILE? Sì.

Concentrato di pomodoro (Scaduto da 3 anni e 5 mesi). Concentrato di pomodori secchi a base di pomodori, aglio, zucchero, sale, erbe aromatiche e olio di girasole. Le istruzioni dicono di tenerlo al chiuso in un luogo fresco e asciutto.

ASPETTO. Ha una consistenza granulosa e inizia a diventare di un colore marrone opaco. C'è uno strato di olio che copre la parte superiore.

ODORE. Ammuffito e acido, con un aroma pungente e persistente che non ha un buon odore.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. I test non hanno trovato nulla di pericoloso.

COMMESTIBILE? Tecnicamente sì; non si andrebbe incontro a un'intossicazione alimentare. Ma è chiaramente passato in termini di odore e gusto.

Sardine in scatole (Scadute da un anno e 9 mesi). Filetti di sardine sott’olio. Il pesce e la carne freschi hanno date "da consumarsi entro", ma le alternative in scatola sono così ben sigillate che hanno date "da consumarsi preferibilmente entro".

ASPETTO. Ancora intero e con un po 'di colore grigio-blu.

ODORE. Di pesce; non sgradevole.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. I test non rilevano batteri o agenti patogeni.

COMMESTIBILE? Sì.

Barattolo di sugo (Scaduto da 6 mesi).  Barattolo di sugo a base di pomodori, vino rosso, basilico e origano. Le istruzioni per la conservazione dicono che il barattolo da 350 g deve essere conservato in un luogo fresco e asciutto.

ASPETTO. I contenuti si sono un po' separati ma per il resto è normale.

ODORE. Appetitoso come il giorno in cui è stato acquistato.

CONTEGGIO BATTERI: Basso. Il laboratorio ha rilevato 20 CFU per grammo di salsa, che rientra ampiamente nei limiti di legge; e nessuna traccia di altri agenti patogeni nocivi come l'e-coli.

COMMESTIBILE?  Sì.

Bottiglietta di salsa (scaduta da 3 anni e 5 mesi). Una bottiglia grande, polverosa e non aperta di salsa HP.

ASPETTO. Marrone, liscia.

ODORE. Acetoso, maltato, leggermente dolce e speziato.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Salse come ketchup, salsa marHProne e senape sono ben conservate con abbondante zucchero e sale e sigillate con un foglio sotto il tappo di plastica, quindi ci impiegano molto tempo per andare.

COMMESTIBILE? Sì.

Caffè solubile (Scaduto da 6 anni e 5 mesi). Sei bustine di caffè solubile Nescafé Azera. Creati per essere mischiati con acqua bollente, sono composti da latte scremato in polvere, caffè e zucchero.

ASPETTO. Ogni bustina è riempita con polvere marrone che sembra normale e priva di grumi.

ODORE. Molto blando e dolce. A malapena un sentore di caffè, quindi sarebbe una tazza tutt'altro che profumata e a corto di gusto.

CONTEGGIO BATTERI. Medio. I test hanno scoperto 120 UFC per grammo, rendendolo il secondo più alto del lotto. Ma questo, dicono gli esperti, è ancora abbastanza sicuro e non c'era traccia di listeria, ecc.

COMMESTIBILE? Sì.

Barattolo di marmellata (Scaduto da 6 mesi). Confettura di fragole dal supermercato. È stata conservata in frigorifero, il che potrebbe averne ulteriormente rallentato il declino.

ASPETTO. Fruttato, rosso e confuso.

ODORE. Dolce. Non è molto profumato ma non è destinato a decadere. Mantenerlo freddo potrebbe aver smorzato il suo fascino.

CONTEGGIO BATTERI. Zero.

COMMESTIBILE? Sì.

Olio (Scaduto da 4 anni e 18 giorni) Una bottiglia non aperta di olio di colza aromatizzato al limone, acquistato sei anni fa. Tenere l'olio troppo a lungo (o esporlo a troppa luce o calore) causa la decomposizione delle molecole di grasso, rendendolo rancido.

ASPETTO. Arancione è leggermente torbido, ma non ci sono segni di marciume o muffe.

ODORE. Artificiale; la freschezza sembra essersi attenuata nel tempo.

CONTEGGIO BATTERI. Zero.

COMMESTIBILE? Sì.

·        Il Microonde.

Julia Guerra per "it.businessinsider.com" il 14 aprile 2021. Alcune persone hanno delle riserve sull’uso del forno a microonde per riscaldare o cucinare il cibo, ma per la maggior parte, il microonde è un apparecchio sicuro. Contrariamente alla credenza popolare, la scienza ha dimostrato che, in effetti, le microonde non causano il cancro, né tolgono il valore nutrizionale alla maggior parte degli alimenti. Detto questo, alcuni alimenti non sono fatti per essere messi nel microonde e probabilmente conviene sapere cosa non cucinare in questo dispositivo per la tua salute e la tua sicurezza.

Le carni magre si seccheranno nel microonde. Lo chef Mareya Ibrahim, esperto riconosciuto a livello nazionale di sicurezza alimentare e esperto di alimenti sani, imprenditore pluripremiato, chef televisivo, autore e inventore, noto anche come “The Fit Foodie”, ha detto  Insider che le carni ad alto contenuto di grassi, come il bacon “si cuociono perfettamente nel microonde” a causa del loro grasso. Le carni magre come maiale e pollo, tuttavia, si seccheranno nel microonde e diventeranno quasi immangiabili.

Molluschi e frutti di mare possono diventare gommosi se li cucini nel microonde. “Frutti di mare come gamberetti e molluschi, a meno che non siano ben conditi con salsa, cuociono velocemente e diventano gommosi nel microonde,” ha detto lo chef Ibrahim, quindi è meglio non provarci.

Materiali come alluminio e argento sono infiammabili nel microonde. Fai attenzione a cose come fogli di alluminio, argenteria, lamine di metallo su piatti e tazze, e persino alla carta plastificata (a meno che non sia etichettata come “da microonde”), perché lo chef Ibrahim ha avvertito che mettere per sbaglio uno di questi nel forno a microonde potrebbe generare un incendio. Tutto ciò che è fatto di gomma, plastica o polistirolo tipicamente non è da microonde. “Il processo di riscaldamento [di gomma, plastica e polistirolo] può rilasciare tossine come biosphenol-A (BPA) e percolare o fondersi nel cibo, che non è una buona cosa” ha spiegato Chef Ibrahim via email. A meno che non siano chiaramente indicati come “sicuri per microonde”, non rischiare.

Le microonde rovinano la consistenza del pane e della pizza. Avete mai messo una fetta di pizza fredda ma croccante nel forno a microonde, per poi ritrovarvi con una fette bollente e moscia? Il co-fondatore e executive chef di Outstanding Foods, lo chef Dave Anderson ha dichiarato a Insider che mettere nel microonde la pizza, il pane – praticamente tutto ciò che viene fatto lievitare – “distrugge la consistenza e tutto ciò che c’è di buono”. “Seguo la filosofia di Ellen Degeneres quando si parla di microonde”, ha affermato. “Tutto ciò che diventa così caldo senza fuoco, viene dal diavolo”.

Probabilmente dovresti anche smettere di scongelare la carne congelata nel microonde. Il Dr. Nidhi Ghildayal che ha conseguito un dottorato di ricerca nella sanità pubblica della Scuola di sanità pubblica dell’Università del Minnesota, ha detto a Insider che scongelare carne congelata nel microonde è assolutamente da evitare in quanto il calore può accelerare la crescita dei batteri e portare la carne a deteriorarsi se non la si cucina abbastanza velocemente. “Il modo più sicuro per scongelare la carne è sbrinarla durante la notte nel frigorifero”, ha osservato Dana Murrell, Executive Chef di Green Chef.

I sacchetti di carta marrone sono altamente infiammabili nel microonde. Inoltre, i sacchetti di carta possono contenere anche inchiostro e colla che, una volta riscaldati, rilasciano fumi tossici, ha detto Ghildayal.

Il piombo che si trova in vecchie porcellane o servizi di piatti può essere tossico. Quando riscaldati, questi materiali penetrano nel tuo cibo, ha detto Ghildayal, quindi è meglio usare contenitori e stoviglie che sai per certo essere al 100% a prova di microonde.

Le uova crude non sono fatte per essere cotte nel forno a microonde. Le ricette egg-in-a-mug (per cuocere le uova in una tazza nel microonde) sono intelligenti e deliziose, ma ti conviene attenerti alla tecnica delle uova strapazzate se vuoi una colazione al volo. “Mettere le uova crude nel microonde potrebbe causare un gran caos, poiché le alte temperature potrebbero farle esplodere”, ha detto Murrell a Insider. “Il gusto delle uova cotte nel microonde non raggiungerà mai la qualità e la consistenza dell’uso di una padella”.

La bistecca nel microonde è un pericolo per la salute e la sicurezza. Non importa quanto cotta ti piace la tua bistecca: Yankel Polack, capo chef di ButcherBox, ha detto a Insider che questa fetta di carne non dovrebbe neanche avvicinarsi al microonde. Per prima cosa, Polack ha detto che, poiché le microonde tendono a riscaldarsi in modo non uniforme, i batteri che vivono sulla superficie della carne prospereranno e guasteranno il piatto. Inoltre, il tentativo di rendere la superficie della tua carne abbastanza calda molto velocemente può rappresentare un pericolo di incendio. “A parte la salute e la sicurezza”, ha aggiunto, “la bellezza della bistecca è proprio nel modo in cui interagisce con il calore: in particolare, il contatto con le superfici calde e la prossimità al fuoco reale. il microonde non ti dà niente di tutto questo.“

I thermos da viaggio possono danneggiare il tuo forno a microonde. Almeno se sono fatti di acciaio inossidabile. Doug Rogers, presidente della Neighborly Company Mr. Appliance, ha dichiarato a Insider che non solo l’acciaio inossidabile impedisce al calore di riscaldare il liquido in maniera effettiva, ma questo tipo di blocco può danneggiare il vostro forno a microonde. Trasferisci il cibo cinese fuori dal suo contenitore da asporto e metterlo in un contenitore per microonde prima di riscaldarlo. Il cibo cinese da asporto è tipicamente confezionato in uno dei due tipi di contenitori: plastica e carta con manici in metallo. I manici in metallo possono generare un fuoco, mentre i contenitori di plastica, spiega Rogers, “possono contenere Bpa, che può rilasciare fumi tossici e filtrare nel cibo quando viene riscaldato”.

Carote crude e altri ortaggi, come il cavolo, possono provocare scintille nel forno a microonde. Secondo il Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti, verdure crude possono causare scintille, “a causa dei minerali nel terreno in cui sono state coltivate.” Se per qualche motivo ti allontani dal cibo mentre si cucina, o non ti accorgi delle scintille, l’organizzazione fa notare che scintille prolungate “possono danneggiare il forno e / o l’utensile”.

Sai usare il microonde? Tutti gli errori da non fare. Valentina Dardari il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. Alcuni alimenti non possono essere cotti nel dispositivo. Il rischio che arrivino i pompieri è dietro l’angolo. Il microonde spesso può aiutare. E molto. Inizialmente si temeva che il suo funzionamento a onde causasse il cancro o togliesse vitamine e valori nutrizionali agli alimenti, questa paura è stata però smentita da studi scientifici. Ma non tutti i cibi, come riportato da Business Insider, possono essere scaldati o cucinati nell’apparecchio. Andiamo a vedere quali alimenti, per la nostra salute e sicurezza, è meglio non mettere nel magico apparecchio.

Carni grasse e magre. Intanto, per quanto riguarda le carni ad alto contenuto di grassi, come per esempio il bacon, secondo le chef Mareya Ibrahim, noto a livello nazionale in fatto di sicurezza alimentare ed esperto di alimenti sani, nonché imprenditore pluripremiato, chef televisivo, autore e inventore, riconosciuto anche come “The Fit Foodie”, “si cuociono perfettamente nel microonde”. Discorso diverso per il maiale e il pollo, carni magre, che rischiano invece di seccarsi e diventare praticamente immangiabili.

Molluschi come gomma. Anche i molluschi e i frutti di mare, se non conditi con salse apposite, non verranno molto bene. Come Ibrahim ha tenuto a sottolineare, “frutti di mare come gamberetti e molluschi, a meno che non siano ben conditi con salsa, cuociono velocemente e diventano gommosi nel microonde”. Meglio quindi evitare brutte figure con i nostri ospiti.

Attenzione a certi materiali come alluminio e argento. Non tutti i materiali possono essere introdotti nel microonde. Bisogna fare molta attenzione a fogli di alluminio, argenteria, lamine di metallo che si trovano su piatti e tazze, e anche alla carta plastificata, a meno che non riporti una dicitura apposita che ne consenta l’utilizzo nell'apparecchio. Lo chef ha spiegato che uno di questi materiali, messo per sbaglio nel dispositivo, potrebbe addirittura generare un incendio. Segnatevi bene che tutto quello che è composto da gomma, plastica o polistirolo solitamente non va nel microonde. Più esattamente, l’esperto ha spiegato tramite mail che “il processo di riscaldamento [di gomma, plastica e polistirolo] può rilasciare tossine come biosphenol-A (BPA) e percolare o fondersi nel cibo, che non è una buona cosa”.

Pane e pizza. Una fetta di pizza fredda posizionata nel microonde, dopo qualche minuto non diventerà bella calda e croccante come ci aspettiamo, ma piuttosto moscia e bollente. Lo chef Dave Anderson, co-fondatore e executive chef di Outstanding Foods, ha spiegato a Insider che tutti gli alimenti che vanno fatti lievitare, come appunto la pizza e il pane, nel microonde perdono la loro consistenza e tutto il buono. Per essere più incisivo, lo chef ha affermato, seguendo la filosofia di Ellen Degeneres, che “tutto ciò che diventa così caldo senza fuoco, viene dal diavolo”.

Evitare di scongelare la carne nel microonde. Non è una bella idea neanche quella di scongelare la carne nel dispositivi preso in questione. Secondo il Dr. Nidhi Ghildayal, che ha conseguito un dottorato di ricerca nella sanità pubblica della Scuola di sanità pubblica dell’Università del Minnesota, questa pratica è assolutamente da evitare perché il calore può aumentare la proliferazione di batteri e portare la carne a deteriorarsi se non viene cucinata velocemente. Quindi, anche questo sarebbe meglio evitarlo. Possiamo invece, come consigliato da Dana Murrell, Executive Chef di Green Chef, lasciarla sbrinare tutta la notte prima di passare alla cottura.

Sacchetti di carta marrone sono pericolosi. Se non vogliamo vedere arrivare i pompieri a casa, evitiamo di mettere i sacchetti di carta nel microonde, perché sono altamente infiammabili, e tra l’altro possono contenere inchiostro e colla che con il calore rilasciano fumi tossici altamente nocivi per la nostra salute.

Vecchi servizi in porcellana. I servizi in porcellana della nonna non sono stati pensati per il microonde, che ancora forse non esisteva dato che è nato nel 1945, e possono risultare tossici. Al loro interno può infatti esserci del piombo che, quando riscaldato, penetra nell’alimento e in seguito nel nostro organismo. Ghildayal ha consigliato di utilizzare esclusivamente contenitori sicuri al 100% e a prova di microonde.

Niente uova crude. Per una colazione al volo usiamo solo la tecnica delle uova strapazzate, ovvero quella per cuocere le uova nelle tazze mug. Altrimenti, le alte temperatura potrebbero far esplodere il nostro uovo e, teniamo anche presente, che “il gusto delle uova cotte nel microonde non raggiungerà mai la qualità e la consistenza dell’uso di una padella” come ha fatto notare Murrell.

La bistecca cotta così è pericolosa. Mai mettere una bistecca nel microonde, potrebbe rivelarsi molto pericoloso per la nostra salute. Secondo quanto affermato da Yankel Polack, capo chef di ButcherBox, questo alimento non dovrebbe neanche vedere il microonde. E il motivo sembra essere legato proprio alla sicurezza per la nostra salute. Il fatto che il riscaldamento non sia omogeneo, porta i batteri presenti sulla superficie della fettina di carne a proliferare e quindi guastare il piatto. Anche in questo caso poi il pericolo di incendio è dietro l'angolo, con conseguente arrivo dei vigili del fuoco, ai quali dovremo spiegare la nostra incapacità in cucina. " A parte la salute e la sicurezza, la bellezza della bistecca è proprio nel modo in cui interagisce con il calore: in particolare, il contatto con le superfici calde e la prossimità al fuoco reale. il microonde non ti dà niente di tutto questo" ha aggiunto Polack.

Il danno dei thermos da viaggio. I thermos in acciaio che vengono utilizzati durante i viaggi potrebbero rivelarsi molto nocivi per il nostro forno microonde, se non letali. Oltre al fatto che l'acciaio inox impedisce al calore di propagarsi correttamente e di riscaldare effettivamente il liquido al loro interno, questo può anche danneggiare il nostro dispositivo, come ha tenuto a sottolineare a Insider Doug Rogers, presidente della Neighborly Company Mr. Appliance.

Come scaldate il cibo cinese. A differenza di pane e pasta, non vi sono particolari controindicazioni per scaldare il cibo cinese. A patto che gli alimenti vengano riscaldati in appositi contenitori da microonde e non nelle vaschette tipiche in cui vengono venduti, composti di plastica e carta con manici di metallo. La parte in metallo può generare fiamme improvvise, con immediato arrivo dei soliti pompieri, mentre la parte in plastica, come spiegato da Rogers, può “contenere Bpa, che può rilasciare fumi tossici e filtrare nel cibo quando viene riscaldato”.

Carote e cavoli. Se state pensando di posizionare carote crude o altri ortaggi come il cavolo nel microonde, ripensateci: i vigili del fuoco sono già pronti per correre in vostro aiuto. Infatti, secondo il Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti, le verdure crude possono causare scintille causate dai minerali presenti nel terreno in cui sono state coltivate. Il dipartimento ha chiarito che tali scintille “possono danneggiare il forno e/o l’utensile”.

·        Come si mangia.

 Melania Rizzoli per Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. Le scelte alimentari che facciamo ogni giorno riflettono alcuni tratti della nostra personalità ed osservare una persona a tavola mentre mangia ci permette di capire molte cose su di essa, poiché è dimostrato che esiste una correlazione tra il modo in cui si consuma un pasto, il proprio carattere e finanche la propria sessualità. La quantità di cibo che mangiamo per esempio è in grado di rilevare molti lati celati ed oscuri della vita affettiva e sentimentale di una persona, poiché coloro tendenti a mangiare pochissimo o con disturbi di anoressia manifestano il rifiuto del cibo come fossero in sciopero mentale e sessuale, una sorta di vendetta intesa nei confronti della famiglia o dei genitori, in realtà rivolta verso se stessi. Diversamente chi tende all'obesità ed accusa sempre la necessità di alimentarsi rivela la carenza di emozioni forti, che tendono ad appagare nutrendosi a dismisura anche in assenza di vera fame. Il cibo notoriamente è una necessità ma anche un piacere, in quanto influenza il nostro umore, regala un senso di sollievo, di sazietà, di allegria e disponibilità verso gli altri, predispone alla convivialità ed alla condivisione, e quello che mangiamo rivela anche qualcosa su quello che proviamo nell'anima poiché nei momenti tristi l'interesse di nutrirsi decade fino quasi ad azzerarsi. La relazione tra il cibo e la psiche è molto più che un aneddoto, e chi soffre di emozioni represse è succube delle voglie improvvise, di una fame emotiva senza avere appetito, con un bisogno impellente di assaporare un alimento in quei minuti gratificante, che compensa un disagio più o meno nascosto spesso confuso con noia e insoddisfazione.

LO STATO EMOTIVO Chi preferisce gli alimenti dolci è alla ricerca di affetto e sostegno, di recuperare quelle gratificazioni che mancano nella loro vita in quel momento, per cui, nell'esigenza di colmare qualche mancanza, è aperto ad una vita familiare ed amorosa, dimostrando un calo umorale quando rinuncia ai carboidrati durante il giorno. Solitamente si osserva come le persone tendano a ricercare cibi più zuccherini e grassi quando sono di cattivo umore, come compensazione, allo scopo di modulare gli stati emotivi, per tentare di colmare sensazioni di vuoto o placare il dolore interiore, per cui la cioccolata diventa una sorta di conforto, tranne in chi è affetto da anoressia, patologia che accentua gli aspetti negativi del cibo da cui si tenta di rifuggire, creando così un circolo vizioso che imprigiona il paziente in un meccanismo di insoddisfazione autodistruttivo. Chi invece opta per i cibi ricchi di sale e saporiti rispecchia il più delle volte una personalità riflessiva e complessa, una inquietudine interiore, con tendenza ad essere aggressivo od irruente, come chi preferisce gli alimenti piccanti, o sceglie di coprire i sapori naturali con spezie, peperoncini o altri ingredienti per celare o soprassedere ad una situazione di disagio ricercando le emozioni del palato. Il cibo ha una funzione nutritiva ma la scelta delle pietanze ha anche un significato simbolico, in quanto rivela l'espressione di sé, di chi si è e di come ci si propone, oltre a riflettere il proprio posizionamento sociale, perché le nostre scelte alimentari raccontano chi siamo, comunicano l'identità personale, culturale, affettiva e sessuale, esprimono uno stile di vita. Chi mangia lentamente, assaporando i cibi con calma rivela di essere una persona attenta, non frettolosa nemmeno nell'intimità, e generoso nel regalare piacere. Chi invece chiede informazioni su vari piatti e ingredienti di un menù, rivela di essere una persona che non sceglie con superficialità, affidabile ma molto esigente, mentre chi sceglie un piatto qualunque senza molta attenzione, che mangia con voracità è quello che viene definito un "predatore" e questa fretta potrebbe averla anche nell'intimità. Coloro che invece scelgono cibi di qualità da consumare con parsimonia sono persone ordinate, precise ma molto pignole, perfette per le relazioni durature, ma non come amanti virili e focosi.

I CURIOSI Infine chi ordina più portate di quelle che riesce poi a mangiare o finire dimostra di essere curioso ma poco costante e le sue storie sono in genere intense ma brevi. Negli ultimi anni l'attenzione scientifica si è concentrata sul "microbiota intestinale" puntando a comprendere come l'alimentazione e la sua interazione con il sistema immunitario e nervoso centrale possano andare ad influire sul comportamento personale e sociale, essendo ormai accertata la stretta interconnessione tra cibo e mente e la loro reciproca interdipendenza. Uno dei primi sintomi fisici e mentali della depressione per esempio, è proprio la perdita di appetito, a cui si somma la mancanza di piacere nel mangiare. Sul cibo scarichiamo tutte le paranoie, le frustrazioni, le dipendenze e le manie di controllo, sottovalutando che la felicità o la tristezza non nascono solo dai condizionamenti psicologici, sociali e affettivi che ci circondano, ma soprattutto da cosa e da come mangiamo, poiché chi ha un cattivo rapporto con il cibo, lo ha anche con le persone che frequenta, dal momento che una cattiva alimentazione influisce sulla salute fisica, psicologica e mentale.

La cucina è politica (ma anche eros). Due saggi laterziani raccontano la metafora alimentare. Enrica Simonetti su su Il Quotidiano del Sud il 24 marzo 2021. Nell'era pandemica, abbiamo detto addio ai banchetti, addio ai buffet e alle tavolate. Persino i «mangiatartine» più incalliti sono ridotti alle conferenze online, che si chiudono con un semplice «grazie a tutti» invece della solita corsa al piattino o del brindisi amichevole. E allora, chiusi come siamo nelle cucine di casa o nel delivery da coprifuoco, leggiamo con ancora più piacere il bel racconto storico sul cibo e la sua metafora che emerge dal saggio laterziano Cucina politica, a cura di Massimo Montanari (pagg. 326, euro 20). Un saggio collettaneo nel quale si alternano voci e storie di esperti del... gusto del potere, con un excursus storico che parte da Carlo Magno e arriva ai tempi nostri, passando da Luigi XIV e persino dalla dieta maoista. Le curiosità sono tante e, altro che vegani, basta addentrarsi nella parte storica iniziale, per capire che il potere è carne. Montanari, ad esempio, ricostruisce la cibaria multa per i tavoli dei re e esamina passi dello storico Liutprando in cui si esalta l'arte politica di andare a caccia, come esempio di carisma e di potenza. Lo faceva lo stesso Carlo Magno imperatore-gustatore; mentre venne aspramente criticato il «re greco» quando lo stesso Liutprando alla corte di Niceforo Foca constatò che... «ma che uomo è questo re dei Greci che mangia aglio cipolle e porri come un qualsiasi contadino ed è sempre frugale (semper parcus)?». Sì perché il potere non è mai a dieta. Più avanti, nel volume, c'è una densa descrizione dei banchetti diplomatici, firmata da Bruno Laurioux, feste nate come tali tra il XIV e il XV secolo, accompagnando ad esempio colloqui e incontri sulla Guerra dei Cent'anni, con soggiorni imperiali e grandi ospitate. Tutto ciò oggi è tracciabile anche attraverso dipinti e miniature dell'epoca, in cui appaiono folle di commensali (oggi le chiameremmo assembramento!) e rituali gestuali politici carichi di metafore e di segnali al popolo. Il cibo come forma di linguaggio che lancia idee e valori: non solo segno di appartenenza a una comunità, ma anche pubblico potere, segnale di sicurezza alimentare ai sudditi, o simbolo di unione tra popoli diversi. Chi non ricorda la foto storica con il presidente Usa Richard Nixon che mangia con il ministro degli esteri cinese Chou En Lai, usando le bacchette nel 1972? E anche, diremmo, sbirciando dai commensali, per capire come usarle? Il piatto comunica, il piatto è un'icona parlante. E, sempre Laterza, ha pubblicato il mese scorso L'eros gastronomico. Elogio dell'identitaria cucina tradizionale, contro l'anonima cucina creativa, testo che esce postumo a firma di Tullio Gregory (scomparso nel 2019). Il quale nella vita è stato filosofo, ma anche grande gourmet. E qui nelle pagine dei suoi vari scritti, scorrono le motivazioni della grande moda culinaria che imperversa, non soltanto in Tv, perché lo studioso nel saggio curato da Gianni Moriani, percorre un itinerario alla ricerca del senso di una civiltà della cucina, di un gusto che rischia di essere dimenticato. Dai consigli di lettura ai decaloghi del perfetto gastronomo: ogni pagina è un inno al mangiar bene a quell'eros gastronomico che non va contenuto ma va tutelato per poter riconquistare – diceva Gregory - il patrimonio di tradizioni enogastronomiche, la gioia del convivio, l'aggregazione, il sapore della vita.

Così l'arte e la filosofia del cibo hanno reso l'uomo più uomo. Dall'homo sapiens ai giorni d'oggi, la cucina ci ha cambiato radicalmente. E ci ha spronati ad esser sempre migliori. Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Domenica 10/01/2021 su Il Giornale. In principio fu il fuoco. È infatti grazie ad esso che siamo diventati ciò che siamo oggi. È ciò che differenzia il nostro modo di mangiare da quello degli animali. Di più, nota Massimo Montanari in Il cibo come cultura (Laterza): "Il crudo e il cotto, a cui Claude Lévi-Struss dedicò un saggio giustamente celebre, rappresentano i poli opposti della contrapposizione - peraltro ambigua e per nulla semplice - fra Natura e Cultura". Il fuoco ha modificato non solo i nostri stomaci, ma anche i nostri volti. E, soprattutto, ci ha dato molto tempo libero. Sia lode al fuoco. Avete presente cosa fanno le scimmie nelle foreste o le mucche al pascolo? Masticano. Per ore. L'uomo no. Merito anche del fuoco. Come nota Michael Pollan, in un libro che non poteva che chiamarsi Cotto (Adelphi), "l'avvento del cibo cotto modificò il corso dell'evoluzione umana: fornendo ai nostri progenitori una dieta più facile da digerire e con una maggior densità di energia consentì al nostro cervello (un organo che, com'è noto, è un gran divoratore di energia) di diventare più voluminoso, e al nostro intestino di accorciarsi". Non solo: il fuoco detossifica e, così facendo, allarga (e non poco) le possibilità di nutrirsi. Cucinare è qualcosa di magico. E non in senso romantico. Si prende una materia prima e la si trasforma, anche mettendola semplicemente sulla brace. Il suo colore e il suo sapore cambiano. Si arricchiscono. Ed è forse per questo che, nell'antica Grecia, c'era un solo termine per indicare il cuoco, il macellaio e il sacerdote: mageiros, una parola che ha la stessa radice etimologica di magia. Mettersi ai fornelli è dunque tutto questo. Anche se ce lo siamo dimenticati, nonostante il numero sempre maggiore di programmi di cucina. Secondo i dati degli ultimi anni, infatti, gli italiani passano sempre meno tempo in cucina (lockdown a parte). Siamo attratti dal cibo, ma non abbastanza da dedicargli il tempo che si merita. Ci buttiamo così sul già pronto, senza renderci conto che, così facendo, diventiamo schiavi. Scrive giustamente Pollan: "Cucinare per il piacere di farlo, dedicare una parte del nostro tempo libero a questa attività, significa dichiarare la nostra indipendenza dalle industrie che cercano di di organizzare, così da farne un'ulteriore occasione di consumo, ogni nostro singolo istante di veglia (e a pensarci bene, non solo quelli: la pillola di sonnifero vi dice qualcosa?). Significa respingere, almeno fintanto che siamo a casa, l'idea che la produzione sia svolta meglio da qualcun altro, e che l'unico modo legittimo per impiegare il tempo libero sia il consumo: un'idea che ci sottrae forza. I venditori chiamano 'libertà' questa forma di dipendenza. Cucinare non ha soltanto il potere di trasformare piante e animali: trasforma anche noi, da meri consumatori a produttori". Cucinare stimola la nostra intelligenza, oltre alla nostra creatività. E, soprattutto, ci permette di sopravvivere. Pensate alla Caesar Salad, per esempio. Siamo in pieno proibizionismo quando, il 4 luglio del 1924, il ristorante dello chef italiano Caesar Cardini viene preso d'assalto dai soliti turisti americani in cerca di alcolici. Lui, per cercare di sfamarli (e non far prendere loro una sonora sbronza), mette insieme gli avanzi che ha in cucina: lattuga romana, uova, crostoni, salsa Worcestershire, parmigiano, succo di limone e olio di oliva. È un successo, tanto che alcuni anni dopo Cardini deve brevettare questo dressing. Il suo smette di essere un piatto ed entra nella leggenda. La sua storia è raccontata in Quando un piatto fa storia. L'arte culinaria in 240 piatti d'autore (L'ippocampo). Che non è solo un libro di ricette - tranquilli, alla fine trovate anche quelle - ma un libro di storia della cucina, da Procopio Cutò ("l'inventore" del gelato) a Christophe Pelè. In questi quattrocento anni di storia trovate di tutto, dai voulevant di Marie Antoine Carême, il cuoco di Luigi XV, al Riso, oro e zafferano di Gualtiero Marchesi, lo chef che rivoluzionò la cucina italiana: "Per Marchesi - si legge in Quando un piatto fa la storia - la scena culinaria degli anni '70 era un imbarazzante sfoggio di romanticismo bucolico che brillava per assenza di tecnica. (...) Considerata il suo capolavoro, la ricetta sintetizzava i principi di Marchesi: non solo coinvolgeva il gusto in modo innovativo, ma suscitava anche una riflessione sul contesto storico e sulla tavola come autentica messa in scena. Coniugando i dualismi pericolo-attrazione e veleno-nutrimento, il piatto era al tempo stesso visivo, letterale, metaforico, spettacolare ed effimero. Se lo zafferano era ritenuto fin dal Medioevo la versione commestibile dell'oro, accompagnare il risotto con l'autentico metallo significava riconoscere che la tradizione culinaria si tramanda da una generazione all'altra arricchendosi nel corso del tempo". Era dai tempi di Pellegrino Artusi che l'Italia non vedeva una rivoluzione simile in cucina. A proposito: La Nave di Teseo ha da poco ripubblicato La scienza in cucina e l'Arte di mangiare bene, il celebre volume dell'Artusi, oggi curato da Fabio Francione, che scrive: "Gli italiani ebbero da lui la loro cucina. Non che non l'avessero in precedenza, tutt'altro, ma era loro riconosciuta per regioni, particolareggiata per città e province e non come blocco unico a cui attingere liberamente anche nella commistione dei nomi e delle varianti locali. Ciò lo annovera a tanti altri scrittori italiani che hanno saputo inventare e dare nomi a mondi sconosciuti come ad esempio Pasolini". Nel libro, l'Artusi propone 790 ricette, la gran parte delle quali ancora attuali. È da qui che bisogna partire se si vuol cominciare a spadellare seriamente. Qui ci sono le basi, come le paste ripiene, gli arrosti e i bolliti (che sono un'altra cosa rispetto i lessi), che tutti dovrebbero conoscere. Ma non solo. Sempre La Nave di Teseo ha dato alle stampe Pantagruel, una rivista quadrimestrale che, come scrive Elisabetta Sgarbi, "ha in sé una vocazione al disordine, alla voracità, alla fame e sete di un tutto mai veramente circoscrivibile. C’è un principio di anarchia e di sovversione, non gridato, non roboante ma silenzioso e persino pudico. Come La nave di Teseo". Pantagruel è una rivista per chi ha fame. Per chi è vorace. Non solo di cibo, ma anche (e soprattutto) di cultura. Ed è disposto a mettersi in gioco e a cambiare i piani, come ha fatto la stessa casa editrice. Il primo numero, lo zero, sarebbe dovuto essere infatti sulla filosofia del cibo e del vino. Ma così non è stato. Già perché, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi si è imbattuta in Matera e nel suo pane e così ha cambiato tutto, dedicando il volume pilota proprio a questo alimento. "Partito prima, dunque, il progetto di "Pantagruel - Filosofia del cibo e del vino" arriva in libreria dopo, con un tempo più lungo di gestazione, necessariamente più ricco del numero zero, che, tuttavia, mostrava la freschezza e l'auta che spettano agli inizi". Buona lettura dunque. O buon appettito (anche se non si dovrebbe dire). Ma questa è un'altra storia...

Quando i meridionali greco-latini già cucinavano, i barbari al nord ancora a macerare la carne cruda sotto la sella. Pompei, la straordinaria scoperta: riportato alla luce il Termopolio. Per Massimo Osanna, direttore del Parco Archeologico di Pompei, la scoperta "restituisce un'incredibile fotografia del giorno dell'eruzione". Gabriele Laganà, Sabato 26/12/2020 su Il Giornale. Pompei non smette di regale sorprese sensazionali. Dopo millenni è tornata alla luce un Thermopolium, una sorta di antica bottega di alimentari con smercio di street food, genere molto amato dai cittadini dell’epoca. Una struttura quasi integra formata da un grande bancone ad "elle" decorato con immagini così realistiche da apparire quasi tridimensionali che riproducono una ninfa marina a cavallo e animali dai colori accesi. A stupire non solo i disegni ma anche il ritrovamento in alcuni recipienti di tracce di alimenti che venivano venduti in strada, dal capretto alle lumache passando per una specie di antica paella e il vino corretto con le fave. Tutto praticamente fermo al giorno dell’eruzione del Vesuvio. Un po’ come una capsula del tempo formata dal materiale piroclastico espulso dal vulcano che ha avvolto, sigillandone, gli elementi fondamentali. "Una fotografia di quel giorno nefasto", è stato il commento rilasciato all'Ansa dal direttore del Parco Archeologico di Pompei Massimo Osanna. "Oltre a trattarsi di un'ulteriore testimonianza della vita quotidiana a Pompei- ha aggiunto- le possibilità di analisi di questo Termopolio sono eccezionali, perché per la prima volta si è scavato un itero ambiente con metodologie e tecnologie all'avanguardia che stanno restituendo dati inediti". Un team interdisciplinare di specialisti (tra cui un antropologo, un fisico, un archeologo, un archeobotanico un archeozoologo, un geologo ed un vulcanologo), stanno già studiando, attraverso analisi chimiche, il materiale per verificare quanto questa scoperta possa ampliare le conoscenze sulle abitudini alimentari di età romana. Il Termopolio è collocato nella Regio V, all'angolo fra il vicolo dei Balconi e la casa delle Nozze d'Argento, era stata individuato e parzialmente scavato nel 2019 durante gli interventi del "Grande Progetto Pompei" per la messa in sicurezza e consolidamento dei fronti di scavo storici. In quell’anno era riemersa l'impronta lasciata sulla cenere da uno dei grandi portoni in legno ed era stato ritrovato il balcone del primo piano insieme con una prima parte del bancone. Di fronte al Termopolio erano già emerse una cisterna, una fontana e una torre piezometrica per la distribuzione dell'acqua, dislocate a poca distanza dalla bottega già nota per l'affresco dei gladiatori in combattimento. Sono stati gli scavi recenti a restituire al mondo quelle opere, oggi di immenso valore, che si pensava andati persi a causa dalla potenza del Vesuvio. L’aver riportato oggi alla luce l’intera struttura è motivo di grande soddisfazione. Anche il ministro per i Beni e per le Attività culturali e per il Turismo, Dario Franceschini, applaude alla scoperta sottolineando il frutto del lavoro di squadra che si sta facendo nella storica località della Campania: "Un grande esempio per la ripresa del Paese Con un lavoro di squadra, che ha richiesto norme legislative e qualità delle persone, oggi Pompei è indicata nel mondo come un esempio di tutela e gestione, tornando a essere uno dei luoghi più visitati in Italia in cui si fa ricerca, si continua a scavare e si fanno scoperte straordinarie come questa". In questa nuova fase di scavo sono emerse altre suggestive scene di nature morte con rappresentazioni di animali, probabilmente macellati e venduti nel locale. Come ha spiegato nella sua relazione l'archeozoologa Chiara Corbino, i resti dei piatti in menù "con l'impiego congiunto di mammiferi, uccelli, pesce e lumache nella stessa pietanza", rappresentano di fatto una specie di paella. Valeria Amoretti, funzionario antropologo del Parco, ha annunciato i primi rinvenimenti: "Le prime analisi confermano come le pitture sul bancone rappresentino, almeno in parte, i cibi e le bevande effettivamente venduti all’interno del termopolio: tra i dipinti del bancone sono raffigurate due anatre germane, e in effetti un frammento osseo di anatra è stato rinvenuto all’interno di uno dei contenitori, insieme a suino, caprovini, pesce e lumache di terra, testimoniando la grande varietà di prodotti di origine animale utilizzati per la preparazione delle pietanze". Frammenti ossei, probabilmente appartenenti agli stessi animali, sono stati inoltre rinvenuti all'interno di recipienti facenti parte del bancone contenenti cibi destinati alla vendita. Altrettanto interessante è il rinvenimento di ossa umane: alcune sono di un individuo di almeno 50 anni che, verosimilmente, al momento dell'arrivo della corrente piroclastica, era su un letto di cui incredibilmente restano tracce. Altre ossa, ancora da indagare, sono di un altro individuo e sono state rinvenute all'interno di un grande vaso. Questi ultimi resti forse potrebbero essere stati occultati lì da scavatori forse del XVII secolo. Rinvenuto anche lo scheletro di un cagnolino trovato a un passo da bancone, proprio vicino al dipinto che ritrae un cane al guinzaglio. C’è anche una ironica, forse omofoba, iscrizione graffita: "Nicia cinede cacato", si legge sulla cornice che racchiude il dipinto del cane. Ovvero: "Nicia (probabilmente un liberto proveniente dalla Grecia) Cacatore, invertito". Gli studiosi presumono che tale frase sia stata lasciata per prendere in giro il proprietario o da qualcuno che lavorava nel termopolio. La ricerca è solo agli inizi ma, come ha sottolineato ancora Osanna, che promette di avere "sviluppi molto interessanti". "La bottega sembra essere stata chiusa in tutta fretta e abbandonata dai proprietari – ha spiegato il direttore del Parco - ma è possibile che qualcuno, forse l'uomo più anziano, fosse rimasto al suo interno e che sia morto nella prima fase dell'eruzione, schiacciato dal crollo del solaio. Il secondo potrebbe essere invece un ladro o un fuggiasco affamato, entrato per racimolare qualcosa da mangiare e sorpreso dai vapori ardenti con in mano il coperchio della pentola che aveva appena aperto". Intanto anche in questi giorni il cantiere va avanti tanto che si è al lavoro per il consolidamento e il restauro della struttura e per il riposizioneremo anche il balcone. L'idea è di aprire alle visite il Thermopolium, se l’emergenza sanitaria lo permetterà, già la prossima primavera, allestendo un percorso che passi anche dal cantiere della casa delle Nozze d'Argento.

Il lungo ritorno al cibo dei "barbari". Massimo Montanari su La Repubblica.it il 31 maggio 2009. Crudo è sinonimo di Natura. Ce lo ha insegnato Claude Lévi-Strauss e ce lo insegnano i testi antichi, che inevitabilmente associano le pratiche crudivoriste all' idea di non-civiltà. Il mito di Prometeo, che ruba agli dèi il segreto del fuoco per regalarlo agli uomini, fonda un' idea di cultura come capacità di trasformare la natura: di questa capacità, la cucina è una dimensione essenziale. Perciò i Greci e i Latini, volendosi rappresentare come i depositari unici della civiltà, amano descrivere gli altri, i «barbari», come mangiatori di carne cruda: i Germani di Tacito, gli Unni di Ammiano Marcellino (che si limitano a scaldare la bistecca fra il dorso del cavallo e il proprio corpo) sono il prototipo di un modello mentale che durerà nei secoli: ancora nel Medioevo sono descritti come «barbari» i popoli che non cuociono le carni (gli Scandinavi di Paolo Diacono) o i cereali (i Mauri di Procopio). E gli eremiti cristiani, quando vogliono esprimere la loro contestazione radicale del «mondo» e della «civiltà», scelgono di cibarsi di sole erbe crude (e selvatiche). A questi pregiudizi culturali si sovrappone la generale diffidenza del pensiero medico-dietetico nei confronti dei cibi crudi. A queste premesse si attengono i libri di cucina, totalmente sbilanciati verso le pratiche di cottura: tutto in tavola si vuole cotto, non solo carni e pesci ma anche frutta e verdura e persino i formaggi, i salumi, i tartufi. Qualche eccezione non manca: Antimo, nel Sesto secolo, allude all' uso dei Franchi di mangiare lardo crudo per curare le affezioni del ventre e nota, con stupore ma senza scandalizzarsi, che i popoli abituati a mangiare carni crude solitamente godono di buona salute. Ma il più ampio spiraglio crudista è legato al gusto tutto italiano per le verdure, a cui sono dedicati, fra Cinque e Seicento, appositi trattati di Costanzo Felici, di Salvatore Massonio e di Giacomo Castelvetro (particolarmente significativo il titolo di quest' ultimo: Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l' erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano). Due profondi cambiamenti accompagnano la definitiva riabilitazione del crudo nella gastronomia contemporanea. L' uno di carattere filosofico: il pensiero illuminista e quello romantico, da angolature diverse, per la prima volta rappresentano la Natura come qualcosa di buono, come un "buono originario" (pensiamo a Rousseau) che non va modificato, ma conservato così com' è. Il secondo di natura scientifica: solo nel corso del Novecento si è scoperto che ci sono componenti nei cibi, le vitamine, fondamentali per l' equilibrio nutrizionale ma che scompaiono con la cottura. Aggiungiamo lo sviluppo delle tecniche di conservazione, oggi più efficaci e sicure di un tempo. Su queste basi si è rovesciata la nostra prospettiva, che non pensa più al Crudo come a un arcaico residuo, ma come a un segno della modernità alimentare. Il percorso dal Crudo al Cotto pare sulla via del ritorno.

Alla tavola dei nostri antenati - Estratto da "Alla Tavola della Longevità". di Valter Longo nel 2017 su macrolibrarsi.it. Leggi in anteprima un estratto dal libro di Valter Longo e scopri i piatti della nostra cucina che aiutano a preservare la giovinezza del corpo e la buona salute. Come descrive lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari in Il cibo come cultura, ciò che mangiamo può essere interpretato per comprendere e comunicare ciò che siamo e la cultura a cui apparteniamo.

L’Italia al centro del Mediterraneo: dagli etruschi al Rinascimento. Anche la semplice pasta al pomodoro ci racconta la storia del nostro Paese: la diffusione della pastasciutta grazie alla dominazione araba in Sicilia intorno al IX e X secolo, l’introduzione del pomodoro dalle Americhe durante l’epoca delle esplorazioni e il suo utilizzo nel Settecento e la creazione e la diffusione di piatti «nazionali» per unire l’Italia frammentata dopo l'unificazione del 1861. Nelle pagine che seguono ripercorriamo la storia dell’alimentazione nella penisola italiana dall'epoca etrusca al XXI secolo, cercando di ricostruire e comprendere ciò che si trova e trovava sulle nostre tavole, ma soprattutto cercando di evidenziare che la Dieta della Longevità e molti dei suoi ingredienti, descritti nel mio primo libro, sono parte centrale dell’alimentazione dei nostri antenati del Mediterraneo. La storia dell’alimentazione nella nostra penisola evidenzia anche che il consumo di molti prodotti di origine animale non è una cosa nuova, ma che quei prodotti arrivavano sulle tavole italiane molto meno frequentemente di oggi ed erano sicuramente di qualità superiore, grazie all'allevamento locale degli animali e al consumo regionale di carne, uova, latte e formaggio.

Gli etruschi. Dal IX al III secolo a.C. la penisola italiana, al centro del Mediterraneo, è un luogo importante di incontro, interazione, commerci e scambi tra popolazioni: fenici, greci, egiziani ed etruschi. Nel momento di massima espansione, i territori di questi ultimi si estendono dal Po all'isola d’Elba, alla Corsica e alla baia di Napoli. Della loro civiltà sono una ricca testimonianza le necropoli della Toscana e del Lazio. Grazie ai reperti archeologici oltreché alle testimonianze degli storici latini sappiamo che gli etruschi producevano ed esportavano grandi quantità di frumento e cereali (grano, farro, orzo, miglio)" che, trasformati in farine, servivano alla preparazione di farinate, pappe o polenta che costituivano la base della loro alimentazione. Le proteine erano principalmente fomite dai legumi (piselli, ceci, lenticchie e fave), spesso utilizzati per la preparazione di zuppe. A questi si aggiungevano vegetali, uva, frutta fresca e secca, olive e formaggi. Come in molte società antiche, il consumo di carne avveniva solo dopo il sacrificio degli animali alle divinità durante feste e celebrazioni, e nelle classi meno benestanti era molto limitato. Gli aristocratici, invece, potevano godere anche della selvaggina cacciata in una terra ricca di cinghiali, cervi, lepri, caprioli, uccelli acquatici, come testimonia La Tomba della Caccia e della Pesca nella necropoli di Monterozzi a Tarquinia. A differenza dei greci, gli etruschi mangiavano due volte al giorno, ma il loro amore per i banchetti e i festeggiamenti viene indicato dagli storici latini come una delle cause della loro decadenza. I poeti non sono da meno: Catullo li chiama «obesi etruschi» e Virgilio «pingui tirreni».

I romani: quasi vegetariani fino alla caduta dell’Impero. Agli albori della loro civiltà, i romani erano pastori e agricoltori e la loro dieta era influenzata da quella della vicina popolazione etrusca. L’importanza di una dieta a base vegetale non muta profondamente nel corso dei secoli; secondo i testi medici del periodo tardo repubblicano e imperiale i prodotti del suolo coltivato, le fruges, sono essenziali per la salute, tanto che da loro deriva il termine frugalitas, sinonimo di una vita regolata dal punto di vista calorico. Le verdure potevano anche essere mangiate crude, in quanto venivano considerate già «cotte» dal sole; la «cottura» continuava poi nello stomaco e nel fegato che, secondo le idee dell’epoca, trasformava il cibo digerito in sangue, muscoli e ossa. Le insalate, come osserva Plinio nella Naturalis Historia, permettevano inoltre di risparmiare il fuoco ed erano sempre pronte e disponibili. I legumi - fave, lenticchie, ceci, lupini - erano considerati meno «cotti» e venivano essiccati, bolliti e utilizzati per minestre oppure trasformati in farina e impiegati nella produzione di farinate. Lo stesso valeva per i cereali - orzo, grano, farro, miglio, segale e sorgo - utilizzati per minestre, pane, polente (puls) o farinate. Il pane più comune era dapprima quello di farro, sostituito poi da quello bianco di farina di frumento e quello nero per i poveri e gli schiavi, che lo mangiavano con il pulmentarium: olio, sale, aceto, olive e fichi, gli unici frutti non riservati esclusivamente alle classi elevate. Inserito al primo posto tra i cibi necessari dall’imperatore Diocleziano nel suo Editto dei massimi prezzi (Edictum de pretiis rerum venalium) del 301 d.C., già a partire dal regno dell’imperatore Aureliano (270 a.C.-5 d.C.) il pane veniva distribuito ai cittadini al posto del frumento. Era anche considerato segno di civiltà, insieme all'olio d’oliva e al vino. Nei primi secoli della storia romana il consumo di carne (peduces) includeva solo animali offerti in sacrificio agli dei; nel periodo imperiale la carne si diffuse anche tra gli strati meno benestanti, e iniziò ad apparire anche selvaggina esotica proveniente da vari angoli dell’Impero. Anche il pesce entrò tardi nella dieta romana, considerato comunque un genere di lusso. Nel mondo romano i pasti erano tre: la prima colazione, ientaculum, sostanziosa e a base di alimenti semplici come olive, formaggi, uova, per alcuni privilegiati carne e anche degli avanzi della sera precedente; il prandium, uno spuntino veloce solitamente a base di verdura, frutta (olive, cipolle, verdure sott'olio, insalata, fichi) e talvolta pane, pasto tipico di coloro che erano impegnati in attività lavorative e dei soldati (per i quali era spesso anche il pasto serale); e infine la cena, tipica delle classi abbienti e dei ceti elevati, che nel periodo imperiale diventò vera e propria esibizione di ricchezza. Era composta da diverse portate, dall’antipasto (gustatio) alle portate principali di carne e pesce, alle secundae mensae, costituite solitamente da frutta e seguite da una commisatio, un brindisi, e un momento finale dedicato al vino e alla conversazione. Molte ricette e piatti protagonisti di questi banchetti si trovano nel famoso ricettario di Apicio De re coquinaria, redatto tra il I e il II secolo d.C., mentre la descrizione forse più famosa di un banchetto di età imperiale è quella del Satyricon attribuito a Petronio Arbitro e risalente al I secolo d.C. Nello stesso periodo, l’abbandono della frugalitas viene stigmatizzato da Seneca nelle Epistole a Lucilio, in cui il filosofo e precettore di Nerone descrive i benefici di una dieta vegetariana.

La dieta dei «barbari» e quella medioevale. Abbiamo visto che per i romani, soprattutto nel periodo delle origini e in quello repubblicano, nutrirsi per la maggior parte di pane, olio d’oliva e vino distingue i popoli civilizzati del Mediterraneo da quelli che vengono definiti dai romani stessi «barbari», ossia le tribù germaniche che si cibano principalmente di carne e prodotti animali come latte e formaggi e bevono birra. Con il collasso dell’Impero romano e sotto la spinta di quelle popolazioni, non più propense a essere assimilate, la Penisola vede la creazione di un sistema economico in cui tutte le classi sociali hanno accesso a una dieta maggiormente variata, distinta solo in base a differenze di quantità e qualità degli alimenti. Il regime alimentare dell’Alto Medioevo dal V al X secolo si basa su prodotti dell’agricoltura quali cereali, legumi e verdure e su alimenti presenti nelle aree «selvagge» come pesce, selvaggina, bestiame, frutti ed erbe selvatiche. Al sistema di alimentazione romano a forte caratterizzazione vegetale si affianca un sistema «nordico» in cui la carne, in particolare di maiale, è prevalente al posto di pane e polente di frumento - sono invece presenti pappe d’avena e focacce d’orzo; il burro e il lardo vengono utilizzati per cucinare e come bevande si scelgono il latte di giumenta, il sidro derivato dalla fermentazione dei frutti selvatici e la birra. I valori dei nuovi conquistatori sono legati a una visione del potere rappresentato dalla forza fisica, dal vigore e dalla capacità di combattere che si rispecchia nel consumo di carne, fonte di potenza ed energia. Il guerriero dell’Alto Medioevo consuma grandi quantità di carne per mostrare il suo prestigio e la sua prestanza fisica. D’altro canto, le popolazioni germaniche e nordiche, e in particolare la nuova classe dirigente, sono affascinate dalla raffinata cultura romana e iniziano gradualmente ad assorbirla e con essa la religione cristiana, divenuta religione ufficiale dell’Impero e che si presenta come l’erede della civiltà romana e mediterranea, di cui ha assunto come simboli sacri proprio il pane, il vino e l’olio d’oliva. Grazie alla religione il modello alimentare romano-cristiano raggiunge l’Europa del Nord e le isole britanniche, dando vita a quella che viene descritta come «una inedita integrazione fra la cultura della carne e quella del pane». È proprio il pane il protagonista principale, essendo il vino e l’olio molto più difficili da reperire nelle regioni interne e settentrionali dell’Europa e quindi considerati prodotti preziosi e pregiati di prerogativa delle élite. Per quanto riguarda la produzione di pane e cereali, il frumento, più difficile da coltivare e meno produttivo, è spesso sostituito da grani di qualità inferiore: la segale diviene il cereale più coltivato e il pane di segale, nero (o composto anche da altri cereali) e spesso raffermo, viene consumato dalle classi meno abbienti, mentre il frumento e il pane bianco, lievitato e fresco sono riservati alle classi privilegiate. Altri cereali come orzo, avena, farro e miglio vengono utilizzati insieme ai legumi per polente e zuppe insaporite con carne e lardo, che costituiscono la base fondamentale dell’alimentazione dei ceti più umili di quel periodo. Anche le verdure (cavoli, rape, cipolle, aglio, porri, lattuga, carote), coltivate in orti e aree non sottoposti a tassazione, costituiscono un complemento per cereali e legumi.

Gradualmente, anche altri animali oltre il maiale, in particolare bovini, allevati allo stato semiselvaggio ai bordi delle foreste, iniziano a essere consumati dai ceti poveri. La carne bovina diviene una fonte importante di carne per alcuni, anche se considerata «volgare» rispetto alla selvaggina, riservata quasi esclusivamente all'aristocrazia. Il pesce (storione, anguilla, trota e luccio), ritenuto meno nutriente della carne, è consumato principalmente nei monasteri.

L’influenza araba. Con l’invasione araba della penisola iberica (711-1492) e della Sicilia (827-902), il cibo diventa simbolo di forte identità sociale, culturale e religiosa. L’abbinamento tra pane e maiale che caratterizzava l’Europa fino a quel momento perde la sua forza nei territori sottomessi alla dominazione islamica: il pane non ha il significato simbolico tipico del Cristianesimo e la carne di maiale viene rifiutata in quanto impura. Tramite la mediazione araba fanno la loro apparizione nel Mediterraneo molti nuovi prodotti, spesso provenienti dal mondo persiano come gli spinaci, le melanzane, gli agrumi, l’anguria, la canna da zucchero (utilizzata per la frutta candita e il marzapane), la pasta, il riso e una grande abbondanza di spezie, già note al mondo romano come il pepe, ma ora maggiormente disponibili. La cultura gastronomica araba riprende la tradizione romana, la rielabora e consolida il suo influsso. La propensione verso l’agrodolce tipica del mondo romano si rafforza, e l’aceto e il miele vengono ora sostituiti dagli agrumi e dallo zucchero di canna. Si intensifica l’uso delle spezie che, dato il costo elevato, diventano simbolo di prestigio e ricchezza sulle tavole dei ceti elevati fino all'inizio dell’Età moderna.

Campagna e città. Dall'XI al XV secolo il continente europeo conosce un vero e proprio boom demografico, interrotto solo dalle epidemie e dalle carestie nei secoli XIV e XV, in particolare la peste nera che tra il 1348 e il 1350 decima un terzo della popolazione europea. La crescita demografica ha come conseguenza una forte richiesta di prodotti alimentari e quindi uno sviluppo dell’agricoltura a discapito di aree incolte, boschi e foreste che vengono distrutti per essere coltivati o riservati ai signori locali per la caccia. Gli aristocratici esercitano ora il loro controllo su intere aree e sulle attività produttive, sulla pubblica amministrazione e sulla giustizia e spingono i contadini e la manodopera a produrre un surplus di prodotti da poter vendere nei mercati cittadini. Da un’economia di autosussistenza si passa a una fondata sul mercato e sul commercio e nelle città fiorisce la classe dei mercanti. Il divario tra campagna e città si fa sempre più importante, così come quello nell'alimentazione tra le diverse classi sociali. I contadini ora non possono più cacciare, far pascolare il bestiame né raccogliere frutta in territori ormai non più liberi e la loro dieta si limita a cereali, legumi e verdure. Il pane nero è l’elemento essenziale nella dieta delle classi povere, tanto che ogni altro ingrediente non è altro che un accompagnamento, come testimonia il sostantivo «companatico». A coltivare in piccolissimi orti i legumi e le verdure sono donne e bambini e la frutta, che non possono più raccogliere, torna a diventare un privilegio delle élite. Le proteine animali tornano a essere quelle del maiale, consumato sotto forma di carne salata, lardo o salsicce, mentre il pollame è utilizzato per produrre uova e mangiato solo in occasioni speciali. Anche il formaggio diviene raro se non nelle regioni montuose. Il consumo di carne, soprattutto fresca e in particolare selvaggina, è un privilegio dei ceti alti e delle élite urbane, così come le esotiche e vagheggiate spezie provenienti dall'India e dall'Estremo Oriente, la cui aggiunta favoriva, secondo le conoscenze mediche dell’epoca, la digestione, considerata un processo di cottura del cibo nello stomaco. Grazie all’influsso arabo, sulla tavola dei privilegiati appare anche la pasta secca, dapprima in Sicilia e poi a Napoli e in Liguria. Infine compaiono i biscotti preparati con gli avanzi della farina e consumati a fine pasto con il vino o a colazione, e le torte fatte con carne, pesce, formaggio, uova e verdura.

Moderazione e penitenza. Tutti questi mutamenti sono testimoniati dai libri di cucina indirizzati ai cuochi: il primo pubblicato in Italia è l’anonimo Liber de coquina, nel XIV secolo. Per distinguersi, ora l’aristocrazia esalta non più la quantità, quanto la raffinatezza e la cura nella preparazione delle vivande, le buone maniere, la conversazione e l’intrattenimento con musica e spettacoli. Sulla scia di questo nuovo modello, in tutti i ceti elevati l’ingurgitare grandi quantità di cibo lascia spazio all’idea di moderazione e misura. La stessa idea di temperanza si ritrova nei consigli offerti a coloro che si occupano della salvezza dell’anima del popolo, agli oratores, la classe monastica. La frugalità è un mezzo di perfezionamento spirituale e penitenza; la gola uno dei sette peccati capitali. Quindi, dal primo ottobre alla Quaresima in convento si consumano due pasti al giorno, consistenti in due piatti caldi: una zuppa vegetale, comunemente di fagioli, e un piatto di verdure. Da Pasqua a settembre la cena è composta dagli avanzi del pranzo con l’aggiunta di qualche frutto. Ai religiosi dediti al lavoro, i malati e gli anziani era servita anche una scarsa colazione, un pezzo di pane e vino, e nelle ricorrenze speciali veniva offerto un vino aromatizzato con miele, pepe e cannella chiamato pigmentum. Durante i periodi dedicati al digiuno, l’Avvento, la Quaresima e in alcune occorrenze speciali, si consumava solo un pasto al giorno, simile a quello ordinario e durante la Quaresima veniva eliminato il lardo per cuocere le verdure. Nei periodi di digiuno religioso, la dieta della popolazione era molto simile a quella ordinaria dei monaci e si basava su prodotti sostitutivi della carne quali legumi, formaggi, uova e pesce. Tuttavia, il pesce, maggiormente difficile da conservare in quanto più deperibile, entra a fatica nell'alimentazione di «magro» della classi subalterne. Quello fresco è molto costoso e di lusso e quello salato o essiccato, come le aringhe o le carpe, è troppo leggero per calmare i morsi della fame e considerato troppo «umile». Se in alcuni ordini monastici era ammesso consumare pesce, formaggio, uova, latte, lardo e olio, i cistercensi e i nuovi ordini mendicanti che si diffondono nel XII e XIII secolo a partire dall'esempio di santi quali Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman predicavano la povertà, la penitenza, la sobrietà e la temperanza anche sul piano alimentare. Si giunge anche ai casi estremi dell’anorexia mirabilis, del rifiuto e spesso totale rinuncia del cibo, da parte di sante come Angela da Foligno (1248-1309) e Caterina da Siena (1347-1380), spesso accompagnato da eventi miracolosi come stigmate, apparizioni e penitenze fisiche estreme come le flagellazioni. Con il digiuno queste sante cercavano di punire la carne e il corpo, considerato (soprattutto quello femminile) fonte di peccato, purificandoli attraverso la penitenza per condividere la sofferenza di Cristo ed espiare i propri peccati e quelli dell’intera umanità.

La dieta del Rinascimento. Il Rinascimento, epoca di straordinaria fioritura delle arti, vede operare anche celebri cuochi come Bartolomeo Scappi (1500-1557) e Cristoforo da Messisbugo (7-1548), autori di spettacolari banchetti, rispettivamente alla corte papale e a quella di Ferrara, e di trattati di cucina. Non ci sono sostanziali cambiamenti nella dieta delle classi inferiori, che continuano a consumare pane nero, verdura, erbe, legumi, raramente carne e pesce, qualche volta uova. Nelle cucine vengono ancora preparati per le famiglie povere grandi paioli di zuppe di cipolle, fave, cavoli, erbe di campo, con un po’ di lardo o olio o polente o la panata, pezzetti di pane cotti a fuoco lento con acqua, pancetta e verdure, e nei giorni di festa frittelle e pasticci. Il tutto insieme a vino di scarsa qualità. La tavola aristocratica, invece, è prima di tutto messa in scena di vivande accompagnata da musica e rappresentazioni teatrali, e viene introdotto per la prima volta l’uso individuale della forchetta. L’apparizione nella penisola italiana di questa posata è legata al suo utilizzo per mangiare la pasta, condita con molto formaggio e talvolta pepe o sugo di came o brodo ristretto. Compaiono anche i trattati di buone maniere, come Il Cortegiano del diplomatico Baldassar Castiglione (1528) e il Galateo dell’arcivescovo Giovanni della Casa (1558). In particolare, nel capitolo V del Galateo ci si occupa dei comportamenti a tavola sia dei commensali sia dei servitori e si osserva come non ci si dovrebbe ingozzare a tavola, sporcarsi mentre si mangia né imbrattare la tovaglia, non usare il pane per pulirsi le dita unte e i servitori non dovrebbero tossire, sputare o starnutire. La carne e soprattutto la selvaggina, sempre simbolo di prestigio, è protagonista accanto al pesce, alle spezie e a una grande abbondanza di zucchero importato da Genova e soprattutto da Venezia, dove si sviluppano le arti della confetteria e della pasticceria. Lo zucchero, introdotto dagli arabi nel Mediterraneo, è coltivato in India, nell'area della Persia, in Cina e dal 1300 a Cipro, in Andalusia e dai portoghesi a partire dal 1400 anche a Madeira. Il gusto dell’agrodolce domina la cucina rinascimentale e tracce di essa giungono fino ai giorni nostri: basti pensare alla mostarda di Cremona e all’unione di pepe e zucchero nel panpepato. Anche elementi tipici della cucina delle classi meno abbienti entrano a far parte di quella delle élite. L’Italia è la prima a presentare queste combinazioni di cucina «povera» e «ricca»: viene consumata una grande varietà di formaggi, dal parmigiano al pecorino, caciocavallo e mozzarella; verdure quali i carciofi e finocchi, frattaglie come cervella, occhi e orecchie, carne di manzo e vitello e pesce come merluzzo e storione. I legumi diventano la base per la preparazione di minestre, frittelle e torte e si preparano i «maccheroni», cioè gnocchi fatti di farina e mollica di pane. Tutto ciò è documentato dal Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, cuoco della seconda metà del XV secolo alla corte milanese di Francesco Sforza. «Piacere» è il termine essenziale per comprendere la cucina del Rinascimento. I sensi non sono più visti come fonte di peccato, ma come mezzo di conoscenza del mondo e della natura delle cose e affidarsi al proprio corpo, costruito a immagine e somiglianza di Dio, non può che portare beneficio. Riprendendo l’antica teoria degli umori di Ippocrate, rafforzata grazie agli studiosi arabi Averroè e Avicenna e alla scuola medica di Salerno, Bartolomeo Sacchi, nel suo Il piacere onesto e la buona salute (De honesta voluptate et valetudine, Roma 1470-5 e Venezia 1475), consiglia comportamenti alimentari salutari. Il cibo viene visto come elemento essenziale per raggiungere armonia, equilibrio e una vita sana e felice e il valore della temperanza riappare tra i ceti elevati, in particolare i dotti e i letterati.

Alla Tavola della Longevità. Un viaggio tra tradizione e scienza alla scoperta dei piatti della longevità per la ricerca contro le malattie dell'invecchiamento di Valter Longo.

·        I Cachi.

Cachi, il frutto che colora l'autunno. Sofia Dinolfo l'8 Ottobre 2021 su Il Giornale. I cachi sono un frutto di stagione del quale non poter fare a meno: tanti i motivi, soprattutto per il nostro benessere. Frutto tipicamente autunnale, di color arancione, il cachi per la sua dolcezza soddisfa il palato dei grandi e dei piccoli. Ricco di sostanze nutrizionali, acqua, minerali, vitamine, soprattutto quelle del gruppo A, rappresenta un vero e proprio alleato per la tutela del nostro organismo. Scopriamone tutte le caratteristiche per il nostro benessere.

Caratteristiche dei cachi 

Proveniente dall’Asia orientale, il cachi trova in Italia buona parte della coltivazione in Sicilia dove le condizioni climatiche ne consentono una produzione in grandi quantità. Il cachi al suo interno contiene un tesoro di sostanze benefiche. Ogni frutto ha circa l’80% di acqua e circa il 12% di zuccheri. La presenza di questa buona quantità di zuccheri rende il cachi un frutto non consigliato a chi soffre di diabete. Allo stesso modo se ne sconsiglia il consumo agli obesi o a chi segue delle diete per dimagrire: 100 grammi di frutto contengono 70 calorie.

Poche le proteine, buona invece la quantità di fibra e di minerali, come potassio, calcio, magnesio e le vitamine come la A, alcune della B, la C e la E. Presenti anche betacarotene, licopene e zeaxantina che sono degli importanti antiossidanti.

Cachi, i principali benefici 

Essendo un frutto con degli zuccheri, il cachi aiuta a fornire energia al nostro corpo. Ideale in questo periodo che ci sentiamo ancora poco carichi sia fisicamente che mentalmente. Proprio per questo motivo è consigliabile inserirlo nella colazione. Per la stessa ragione, questo frutto è consigliato a chi pratica attività sportive o svolge lavori che richiedono un certo impegno fisico. La vitamina A assieme alle carotenoidi, aiuta il sistema immunitario a lavorare bene per la difesa dell’organismo, protegge la vista e la migliora. Dà supporto alle ossa, previene l’invecchiamento della pelle e tutela i tessuti. La vitamina C oltre ad alzare le difese immunitarie, contrasta la formazione dei radicali liberi prevenendo la formazione di tumori. La vitamina B, tra le varie caratteristiche, riduce il senso di stanchezza, protegge le funzioni celebrali, stimola il corretto metabolismo sia di zuccheri che di grassi.

Dentro al cachi è possibile trovare anche le catechine. Sostanze dall’effetto antinfettivo e antiemorragico. Ricco di fibre, questo frutto aiuta a combattere la stipsi. La presenza degli antiossidanti contrasta la formazione di radicali liberi, previene la formazione di patologie cardiovascolari, rallenta l’invecchiamento della cute, protegge la vista.

Maschere di bellezza 

Viso, stanco e pelle spenta? Il cachi si presta bene a delle maschere fatte in casa per ridare al viso idratazione, tonicità e lucentezza. Bastano pochi ingredienti. Si può frullare la polpa di mezzo cachi assieme a due cucchiaini di miele e tenere il composto sul viso una quindicina di minuti. Poi, risciacquare con acqua tiepida e la pelle farà notare subito gli effetti del trattamento. Un altro suggerimento è quello di frullare la polpa di mezzo cachi con un cucchiaino di yogurt magro e un cucchiaino di polvere di cacao magro. Dopo una posa di 20 minuti, risciacquare e, anche in questo caso, si noterà sin da subito una pelle più levigata.

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena

·        La Mela.

Mela, perché fa bene alla salute e alla bellezza. Monica Cresci il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Mela: un concentrato di puro benessere, salute e tanta golosità e utile anche per il beauty. Elisir per una vita longeva e piena di dolcezza, perché è importante mangiarne a tavola. Con le oltre settemila varietà, la mela è l’indiscussa regina del banco frutta non solo per il suo sapore dolce e succoso ma, principalmente, per le innumerevoli proprietà che racchiude come uno scrigno prezioso. Niente male per questo piccolo e tondeggiante frutto diffuso in tutto il mondo o quasi, in grado di presenziare praticamente tutto l’anno. Mangiata secondo le tempistiche stagionali, la mela nasce e matura naturalmente ad agosto fino alla fine di ottobre, date che possono cambiare in base alla varietà di appartenenza. Piccola ma così importante, la mela è considerato botanicamente il falso frutto dell’albero del melo o Malus domestica, che invece è ben rappresentato dall’unica parte che viene gettata: il torsolo. Protagonista eccezionale nel campo alimentare la mela si è ricavata un ruolo di rilievo anche in molti altri ambiti, dall’arte alla mitologia, dalla medicina alla narrazione e alla poesia. Ha viaggiato nel tempo e nelle ere storiche, lasciando traccia del suo incredibile passaggio.

Mela, ecco le origini 

La mela, come abbiamo scoperto, è considerato il non frutto del melo ovvero di una pianta che non è in grado di autoimpollinarsi, per questo è fondamentale la presenza delle api e degli insetti, oltre che dell’intervento umano. Nonostante l’Italia sia tra le nazioni maggiormente produttrici di questo frutto, il melo proviene dal medio oriente; l'antica pianta era nota come Malus sieversii ed era in grado di crescere spontaneamente sulle montagne del Tian Shan in Kazakhstan, un luogo sicuramente impervio dal quale ha avuto origine la diffusione del melo, grazie anche e principalmente allo spostamento delle zolle terresti e alla selezione messa in atto dagli orsi.

Mela, caratteristiche e virtù del frutto

Questi animali così golosi di frutti e prodotti dolci hanno imparato a selezionare le mele meno aspre, mangiandole e diffondendole durante il percorso attraverso le loro feci. Un processo del tutto naturale che ha così stabilito una selezione dei prodotti più dolci e relativa diffusione, trasformando il melo in una pianta molto adattabile e fortemente presente. Al resto ha pensato l’uomo con coltivazioni e selezioni precise, ma anche con importazioni ed esportazioni in tutto il resto d’Europa e nel mondo.

Mela, benefici e le proprietà 

Si dice sempre che una mela al giorno riesca a preservare la salute tenendo a distanza il medico, una metafora singolare ma veritiera. La mela è un frutto benefico, completo e che si può mangiare sia cruda che cotta. Contiene un’alta percentuale di fibre in grado di regolarizzare il transito intestinale, mentre se viene assunta cruda vanta un effetto antidiarroico. Della mela non si butta via nulla: la buccia contrasta l’azione dei radicali liberi perché contiene proantocianidine, monomeri e polimeri dei flavonoidi, i polifenoli amici del benessere. Abbassa i livelli di colesterolo nel sangue, ma è anche una fonte inestimabile di sali minerali quali potassio, fosforo, calcio, magnesio, sodio e ferro oltre che di vitamine come C, PP, B1, B2, B6, A ed E.

Nausea, i cibi utili per contrastarla

Nonostante il sapore dolce non contiene dosi eccessive di zucchero ma percentuali basse di fruttosio, facilmente metabolizzabile senza ricorrere all’insulina, trasformandosi così in un frutto perfetto per i diabetici. Idrata, rinforza il sistema immunitario, non contiene grassi o proteine, è poco calorica e facilita la digestione grazie alla presenza degli acidi citrico e malico. La mela contiene anche pectina che, fermentando nel corpo, favorisce la produzione di acido butirrico con una forte azione antitumorale, al vaglio degli studiosi e degli scienziati.

Un peccato di gola benefico 

Abbiamo scoperto che della mela non si cestina nulla: ogni sua parte offre delle proprietà importantissime per il corpo, tranne i semi che contengono amigdalina, un composto glicosidico cianogenetico particolarmente tossico quando sottoposto a idrolisi enzimatica noto come vitamina B17. L’uomo non produce enzimi beta-glucosidasi che favoriscono questo genere di reazione, ma la flora batterica è comunque in grado di degradare l’amigdalina. Per questo è sempre bene buttare i semi e consumare tutto il resto, sia crudo che cotto ma lavando sempre accuratamente la buccia.

Perché i polifenoli fanno bene

Ad esempio, si può assimilare attraverso un delizioso decotto, creando confetture saporite, realizzando un piatto semplice come la mela cotta insaporendola con la cannella oppure preparando uno strudel. Ma anche una classica torta di mele, un dolce al cucchiaio, uno smoothie, un frullato detox, un succo goloso o anche tanti morbidi biscotti si aggiungono all'appello, fino a trasformarla in un contorno o ingrediente saporito per piatti salati, secondi, insalate e carpacci.

Le varietà e gli impieghi per la bellezza 

Le varietà di mela sono infinite, quasi oltre 7000, con forme e colori simili ma al contempo differenti. Tra le più note troviamo la renetta seguita da Golden Delicius, passando per Granny Smith, Royal Gala, Stark delicius, fuji, Annurca e moltissime altre.

Scrub per il corpo anche in inverno

Con le mele si possono realizzare ricette golose ma anche prodotti per la bellezza della pelle e del corpo. Un classico è il bagno con le mele che si ottiene immergendo tante fette nell’acqua della vasca. Si può creare una maschera per capelli frullando due mele con una banana e poco miele, ottenendo un composto da stendere sulla capigliatura per dieci minuti, ma anche una maschera per il viso mixando una mela con mezzo vasetto di yogurt naturale e miele, oppure uno scrub con l’aggiunta di una manciata di sale grosso o di zucchero grezzo. Monica Cresci 

·        La Ciliegia.

Il frutto del desiderio. La bellezza del ciliegio secondo Antonio Pascale. Antonio Pascale su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Il suo “La foglia di fico” (Einaudi) raccoglie racconti di vicende personali declinate secondo l’influsso di un albero o di una pianta. Un mondo vegetale insieme simbolico e reale che racchiude verità profonde spesso dimenticate. Siamo fortemente, biologicamente, legati alle piante, ma pur parcheggiando le nostre macchine sotto le loro chiome, bruciandone il legno, mangiandone i frutti, pur facendo questo e altro, non le conosciamo: peccato, nelle loro radici c’è la nostra eredità, nei tronchi una nota del tempo, atmosferico e cosmico, che dovremmo ascoltare. Gli alberi di ciliegio, in genere, sono molto alti, fino a dieci metri, alcune antiche cultivar ancora di più, ne consegue che uno dei costi maggiori nella coltivazione del ciliegio è proprio la raccolta. Hai bisogno di lunghe scale, e poi mettici il pericolo e, insomma, negli anni Ottanta si trovavano poche persone disposte a salire tra le fronde per raccogliere le drupe, e quelle disposte a farlo, be’, dovevi pagarle bene. Per questo stavamo perdendo le ciliegie, e con loro il desiderio, e i simboli che questo albero si porta dietro. Fortuna che siamo riusciti a innestare una varietà barese, «Ferrovia», più bassa, con altre varietà, e così ecco alberi di circa tre metri, facilmente adattabili ai vari ambienti (Emilia, Trentino). Risultato? Il costo è sceso... 

Era questa la traccia del mio intervento a un convegno all’Orto botanico di Napoli. Uno dei soliti a cui sono invitato in veste di scrittore fissato con le piante. Io accetto sempre, non perché mi reputi competente, è che mi faccio spiegare tutto da Antonino per fare bella figura. Ho parlato di nuove cultivar, ottenute grazie al miglioramento genetico. In queste, il peduncolo, cioè l’elemento che collega il frutto al ramo, si stacca più facilmente. Così invece di salire sulla pianta e raccogliere a uno a uno i grappoli, basta scuotere i rami ed ecco il desiderio nelle nostre mani. Anche in questo caso il costo per la raccolta è più basso. – Dobbiamo salvare il ciliegio, – ho aggiunto avviandomi a concludere il mio intervento, – è un albero ricco di simboli e di riti dimenticati.

Ci tenevo a essere convincente, per questo ne ho elencati alcuni.

– Gli albanesi nelle notti del 24, 31 dicembre e 5 gennaio bruciano i rami di ciliegio e poi la cenere viene conservata per concimare la vigna. Nelle campagne francesi, gli innamorati mettono un ramo di ciliegio in fiore davanti all’uscio delle loro fidanzate nella notte tra il 30 aprile e il 1o maggio. E conoscete la canzone Era de maggio, musicata sui versi di una poesia di Salvatore Di Giacomo: racconta di due amanti che si ritrovano a maggio. Lei è in un giardino con i grappoli di ciliegie che le cadono in grembo, lui la guarda incantato, a bocca aperta. Devono separarsi ma niente paura, tornerà maggio, torneranno le ciliegie e loro canteranno insieme una canzone.

Visto che avevo citato Di Giacomo mi è tornata in mente Cristina, volevo parlare del rapporto tra ciliegio e amore, amore e desiderio, desiderio e morte, morte e bellezza, ma niente, finisce sempre così, o non mi ricordo le cose oppure ne voglio dire troppe e non riesco a metterle una dietro l’altra.

Vabbè, applausi, dopodiché, prima di tornare a Roma, ho pensato: mo faccio una sorpresa ai miei, Napoli-Caserta sono venti minuti di treno, mangio con loro e poi riparto. Ho telefonato ai miei genitori: – Oh, mi fate mangiare una cosa, sì?

Mio padre mi ha risposto: – Qua stiamo.

Niente, abbiamo mangiato, due chiacchiere veloci, le solite. Poi, mentre mio padre preparava il caffè mia madre, all’improvviso, ha detto: – Siamo rimasti soli, – e l’ha ripetuto. – Tutti quelli della nostra giovinezza sono morti, è tutto in bianco e nero adesso, come diceva il nonno.

È incredibile, era una bella giornata di sole e si è scurito tutto.

– Mamma, che è stato, – ho chiesto, – che è successo? –

Niente, la sera prima aveva visto in televisione Il giardino dei ciliegi. Da quando hanno la smart tv guardano un sacco di film e spettacoli teatrali. Però si era spaventata per il finale, le ultime parole del maggiordomo: «Si sono scordati di me… La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta».

Sono tornato al 1975, il bianco e nero, mio nonno morto, lo sfarfallio: eccoci qui, ho pensato, ci risiamo.

Ho detto: – Esco un minuto, vado e vengo –. Sono arrivato sulla montagnella, appoggiati al ciliegio c’erano due ragazzi, entrambi con i capelli lunghi, abbracciati e sorridenti, filiformi, erano bellissimi. A vederli, tra tutte le cose che potevo pensare mi è venuta in mente la più banale: la vita è più bella della morte – magari non lo penso sempre, ma quel giorno sì.

Ho detto: – Scusate, vorrei prendere dei rami.

– No, per carità, – ha risposto lui, – fate, – mi dava del voi e ho pensato un’altra cosa banale: la giovinezza è meglio della vecchiaia.

Comunque il ciliegio conservava ancora i segni dello strappo di quarant’anni prima. Ho deciso di staccare un ramo. Ho cercato di essere delicato, ma ho dovuto forzare, torcere, il legno era umido e non voleva rompersi.

Poi ho voltato le spalle all’albero, ma dopo due passi ho sentito come una voce, forse un tocco lieve sulla spalla, e sì: il richiamo del ciliegio. Così mi sono girato. Che dire, la fioritura era bella, come al solito, ma il tronco, i rami avevano un altro portamento. Più mesti, ingobbiti. A guardarla bene, ora era una pianta in bianco e nero, evanescente, stava sparendo come l’immagine dalla tv, uno sfarfallio. Ho sentito il desiderio di salire di nuovo, come quarant’anni prima, tra le fronde, non per cogliere rami e brandire il mio desiderio, al contrario, volevo sparire, abbandonarmi al ronzio del tempo: per capire la vita bisogna accettare la morte.

E mi è tornato in mente Randazzo: hai visto mai che proprio oggi ho colto il senso dell’impermanenza? In quel momento ho pensato: questa è una rivelazione che merita un racconto. Il ciliegio, il desiderio e le sue declinazioni, mi sembrava di averci capito tutto.

Per prima cosa ho donato il ramo di ciliegio a mia madre, poi mi sono rifatto il caffè. Intanto mio padre si stava lamentando: – Guarda che strappo hai fatto, potevi portarti un coltellino, l’hai rovinato ’sto ramo.

Gli ho risposto che quel ciliegio resisteva bene, già quarant’anni prima quelli del quartiere lo avevano devastato. – Cioè, – ho aggiunto, – i ciliegi che hai piantato tu nel giardino si sono ammalati, e infatti li hai dovuti tagliare, invece quello niente.

– Ma di quale ciliegio parli? – ha chiesto mio padre.

– Quello sulla montagnella, papà, – ho aggiunto. – Uno ce ne sta nel quartiere, come quale?

– Quello è un Prunus cerasus, non avium. Sono amarene, non ciliegie.

– Ma che dici? – ho risposto. – Quando mai? Io le ho mangiate quelle ciliegie.

– Hai mangiato le amarene, non le ciliegie –. Poi ha preso il ramo: – Lo vedi? I fiori so’ piccoli rispetto al ciliegio dolce, è pure diversa l’infiorescenza.

Sono andato a controllare in rete: cazzo. Erano amarene.

– Cioè, – mi ha detto mio padre, – so’ quarant’anni che confondi le ciliegie con le amarene? Un frutto amaro… Mi raccomando non ci scrivere un racconto sopra… che qua fai figure di merda, altro che i tuoi voli pindarici.

da “La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini”, di Antonio Pascale, Einaudi, 2021, pagine 296, euro 20

·        Il Pompelmo.

Pompelmo, l'agrume povero di calorie che fa bene alla salute. Maria Girardi il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. A differenza degli altri agrumi, questo frutto è particolarmente povero di zuccheri semplici e di calorie. Lo si potrebbe confondere con l'arancia, ma rispetto a questa è più grosso, di colore giallo o rosa e dal sapore amarognolo. Stiamo parlando del pompelmo, un agrume (Citrus paradisi) appartenente alla famiglia delle Rutaceae. Anticamente era un ibrido, nato forse dall'unione tra l'arancio dolce (Citrus sinensis) e il pomelo (Citrus maxima), ma dal 1830 costituisce una specie autonoma. Esistono numerose varietà, la maggior parte delle quali vengono coltivate in Italia soprattutto in Puglia, Calabria e Sicilia da dicembre fino a primavera inoltrata. Per l'acquisto si consiglia di scegliere frutti locali e di stagione che andranno conservati a temperatura ambiente per pochi giorni oppure in frigorifero per un massimo di quindici giorni. Scopriamo quali sono le proprietà del pompelmo e quali benefici può offrire all'organismo.

Pompelmo, un po' di storia 

Il nome pompelmo deriva dalla parola tamil "pampa limāsu" che significa "grosso limone". In inglese, invece, l'etimologia corrisponde a "grapefruit", ovvero "frutto dell'uva". Esso, a differenza degli altri agrumi, non è originario dell'Asia sudorientale, bensì delle Barbados dove si ritiene che comparve verso la metà del XVII secolo. Discende, dunque, dagli agrumi portati in America dagli europei. Si pensi a Cristoforo Colombo che nel secondo viaggio del 1943 fece seminare cedri, aranci e limoni e ai francescani che nel Cinquecento introdussero questi frutti in Florida. Non vi sono dati certi in proposito, tuttavia si ipotizza che il pompelmo sia arrivato in Europa, insieme all'arancio dolce, dall'Estremo Oriente e più precisamente percorrendo la Via della seta. Nel Vecchio Continente, dove a lungo venne utilizzato come pianta ornamentale, diventò popolare solo nel XIX secolo. Nel 1837 fu il botanico inglese James MacFayden ad attribuirgli il nome ufficiale di Citrus paradisi.

Pompelmo, proprietà nutrizionali 

Rispetto agli altri frutti, il pompelmo è particolarmente povero di calorie e di zuccheri semplici. Notevole, invece, la concentrazione di acqua. Gli elementi nutrizionali fanno del pompelmo un alimento alleato della salute. In particolare in 100 grammi troviamo:

ferro: 0,3 mg;

calcio: 17 mg;

potassio: 230 mg;

sodio: 1 mg;

zinco: 0,1 mg;

fosforo: 16 mg;

vitamina C: 40 mg;

vitamina B1: 0,05 mg;

vitamina B2: 0,03 mg;

vitamina B6: 0,03 mg;

vitamina A: 0,19 mg;

vitamina E: 0,19 mg.

I benefici del pompelmo 

Da tempo è diffusa la credenza che il pompelmo possiede proprietà dimagranti, ma la realtà non è esattamente questa. Il frutto è ricco di naringerina, un flavonoide capace di contrastare l'azione dei radicali liberi e il colesterolo in eccesso. Diversi studi hanno dimostrato come la somministrazione di naringerina alle cavie sia in grado di innescare effetti metabolici positivi, tra cui la normalizzazione della glicemia e un dimagrimento più accentuato.

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Tuttavia, il calo ponderale non è mai stato osservato nell'uomo. Il pompelmo di certo non fa perdere peso, però è in grado di ridurre lo stress ossidativo grazie al suo elevato contenuto di flavonoidi. In particolare le furanocumarine, ossia delle sostanze organiche naturali, possono inibire la riproduzione delle cellule tumorali e il bergaptolo, una delle principali furanocumarine, aiuta a prevenire il diabete, le malattie cardiovascolari e quelle neurodegenerative.

Notevole è poi l'azione antinfiammatoria svolta dalla vitamina C. Le fibre, invece, favoriscono la peristalsi intestinale e il succo del frutto è un valido alleato in caso di flatulenza, mal di stomaco e altre problematiche gastriche. Mangiare un pompelmo dopo cena, infine, può alleviare l'insonnia. Il merito spetta al triptofano, un amminoacido essenziale precursore della serotonina, altrimenti definita ormone della felicità.

Le proprietà dell'olio essenziale di pompelmo 

In erboristeria è possibile acquistare l'olio essenziale di pompelmo, ovvero il residuo che rimane in seguito alla spremitura a mano o meccanica della buccia del frutto. Dal colore giallognolo e dal profumo fresco e frizzante, esso viene spesso utilizzato in ambito olistico e aromaterapico. Da tempo sono note le sue proprietà:

tonificanti: se massaggiato sui muscoli prima dell'attività fisica, l'olio essenziale li prepara allo sforzo. Subito dopo aiuta a distenderli e a rilassarli;

purificanti: fatta eccezione per la stagione estiva in quanto fotosensibilizzante, l'olio essenziale è in grado di contrastare l'acne e la pelle grassa grazie alla sua azione astringente;

antiforfora: massaggiato sul cuoio capelluto, l'olio essenziale. in virtù della sua capacità sebo-regolatrice, aiuta a ridurre la forfora;

riequilibranti: poiché se inalato favorisce la corretta produzione degli ormoni che regolano alcune funzioni come il ciclo sonno-veglia, fame-sazietà e il tono dell'umore, l'olio essenziale è particolarmente indicato in caso di fame nervosa, cambiamenti di stagione, periodi di ansia e di forte stress. 

·        La Malva.

 Malva, proprietà e benefici dell'antica pianta. Maria Girardi il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Noto sin dall'antichità, la scienza si sta interroganto sulle possibili proprietà antitumorali di questo arbusto. Sui suoi petali non profumati trovano accoglienza stupende sfumature di rosa, lilla e porpora. La malva è una pianta erbacea perenne o biennale appartenente alla famiglia delle Malvaceae e tipica delle regioni tropicali e temperate di Europa meridionale, Asia e Africa settentrionale. Si contano più di 4.200 specie (Malva Sylvestris, Rotundifolia, Parviflora) spontanee ma anche coltivate negli orti e tutte si caratterizzano per la commestibilità. Oltre alle foglie è possibile consumare il midollo dei frutti sia crudo che cotto. I fiori, infine, vengono utilizzati per decorare insalate e altri piatti freddi. La malva (il nome deriva dal greco "malakos" ovvero "emolliente") è da sempre impiegata nella medicina popolare europea. Scopriamo quali sono le sue proprietà e i suoi benefici.

Malva, un po' di storia 

L'utilizzo della malva affonda le radici nell'antichità. Tracce dei suoi semi, infatti, furono rinvenute in alcuni resti archeologici siriani risalenti al 3.000 avanti Cristo. Nel Nord Europa avvolgeva la pianta un'aurea sacrale; non a caso le popolazioni celtiche ritenevano che i suoi semi, posti sugli occhi dei defunti, avessero la capacità di cacciare gli spiriti maligni e di aprire le porte del paradiso. Le stesse credenze appartenevano a Greci e Romani. Secondo Pitagora l'arbusto doveva essere consumato quotidianamente per purificare la mente. Plinio il Vecchio sosteneva, invece, che il succo dello stesso sorseggiato al mattino era in grado di donare benessere al corpo e di allontanare qualsiasi malattia.

In epoca medievale, alla malva venne attribuita una grande importanza: non a caso essa divenne un ingrediente fondamentale per tutti i preparati del tempo. Era, infatti, conosciuta come "omnimorbia", ossia "rimedio per tutti i mali". Nel XVI secolo la Teoria delle Segnature, una dottrina che associava le piante agli organi necessitanti di cure, affermava che il fusto era utile per far ricrescere i capelli. Le radici, invece, potevano essere impiegate come spazzolini da denti e venivano fatte masticare ai bambini durante il periodo della dentizione.

Proprietà e benefici della malva 

I principi attivi della malva sono davvero numerosi, tra gli altri comprendono: mucillagini, vitamina E, vitamina C, tannini, flavonoidi, terpeni, antociani e fenoli. Sono proprio questi a conferirle le ormai ben note virtù. La pianta possiede dunque proprietà:

analgesiche: l'estratto acquoso è efficace nel contrastare i dolori addominali. Inoltre è in grado di inibire l'algia neurogenica e quella legata all'infiammazione sia a livello centrale che a livello periferico;

lassative: il merito spetta alle mucillagini, sostanze organiche ricche di fibre solubili e polisaccaridi che, entrando in contatto con l'acqua, creano una massa viscosa che favorisce la peristalsi;

depurative: ricerche scientifiche hanno confermato la capacità della malva di ridurre la concentrazione delle transaminasi nel sangue e di svolgere un'azione protettiva nei confronti del fegato in seguito all'assunzione prolungata del paracetamolo;

antinfiammatorie: i benefici antiflogistici sono da imputare alla componente chimica, nota come malvidina 3 glucoside;

antiossidanti: tali proprietà sono riconducibili alla massiccia presenza di flavonoidi;

antimicrobiche e antifungine: la pianta è efficace nel combattere infezioni batteriche (Escherichia Coli, Helicobacter Pylori, Candida, Aspergiullus Niger).

Malva e proprietà anticancro 

Da tempo la scienza discute sulle possibili virtù antitumorali della malva. In particolare, si ritiene che gli estratti idroalcolici ed etanolici delle foglie abbiano un'azione antiproliferativa nei confronti delle cellule cancerose implicate nell'insorgenza di una neoplasia sempre più diffusa, il melanoma.

La speranza contro il melanoma

Interessanti sono poi diversi studi, tra cui uno guidato da un team dell', che hanno dimostrato come la pianta sia in grado di constrastare la mucosite (infiammazione della mucosa di bocca e faringe) e la xerostomia (secchezza delle fauci). Questi ultimi sono disturbi molto comuni nei pazienti sottoposti a chemio e a radioterapia. Nello specifico la somministrazione di un estratto di Malva sylvestris associata ad Alcea digitata in soggetti con tumori della testa e del collo, ha comportato un miglioramento non solo della mucosite e della xerostomia, ma anche della capacità di articolare la parola e di masticare. Si è altresì verificata una riduzione delle sensazioni dolorose.

Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero. Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza

·        Le Patate.

Alessandra Meldolesi per reportergourmet.com il 2 agosto 2021. La tripla cottura è il segreto della migliore patatina fritta del mondo: quella di Heston Blumenthal, che ha sottoposto a rigoroso studio scientifico lo snack scacciapensieri per antonomasia. Morbide dentro, croccanti fuori, al limite della vetrosità, le “triple cooked chips” sono sottoposte prima a sbollentatura, secondo un procedimento già usuale, poi a due diverse fritture, intervallate da un passaggio in abbattitore per eliminare l’umidità. Il lavoro, iniziato nel 1992, si è protratto per 3 anni. “Ero ossessionato dalla ricerca della patatina perfetta”, ha dichiarato lo chef britannico, esponente di punta della cucina molecolare, poi rinnegata. Di fatto dal 1995 le celebri chips non sono più uscite dalla carta del Fat Duck, rappresentano anzi secondo alcuni la sua innovazione più dirompente e secondo l’autore la sua prima ricetta autenticamente personale. Il nemico numero uno? L’umidità, esorcizzata con l’ausilio della tecnica. Durante la prima frittura, le patate svilupperanno in superficie una crosta protettiva, utile nel secondo bagno d’olio: un unico passaggio non riuscirebbe a impedire la trasmigrazione dell’umidità interna in superficie, compromettendo il crunch, come avviene di solito nelle fritture casalinghe. Utile a questo proposito è stato l’esempio delle patatine industriali, croccanti perché prefritte. La varietà più idonea? Blumenthal ne utilizza una tipicamente britannica, la Maris Piper. Ed è uno snack come ricerca dell’assoluto. Capitolo abbinamenti, Marilyn in un celebre film stappava Champagne. Di sicuro andrebbe bene Collard-Chardelle Saveurs d’Antan 2002, giura Sebastien Ferrara, sommelier del Mudec. “La bellezza di questo vino? Tanta precisione data dallo chardonnay e dal poco pinot noir che, insieme al passaggio in botti di legno, aggiunge materia e dà quindi più carattere al vino. Essendo un 2002 non ha alcuna traccia di ossidazione, freschezza e profumi ancora giovani e solari sono gli elementi primari di questo fantastico Champagne. Olfatto e gusto troveranno conforto tra l’invitante profumo di una delicata frittura e gli aromi decisi e avvolgenti dello Champagne; la tendenza dolce del tubero sposerà l’armonia di questo 2002”.

Ingredienti per 4 persone 

1 kg di patate

1 l di olio di arachidi o di vinaccioli

Sale marino

Procedimento. Sbucciare e tagliare le patate a bastoncini spessi un centimetro abbondante. Lasciarle sotto l’acqua corrente in una ciotola per 5 minuti, in modo da eliminare l’amido. Lessarle per una quindicina di minuti in acqua salata prebollente, finché in superficie non si formeranno crepe, utili per far penetrare l’olio di cottura. Estrarle delicatamente e asciugarle. Mettere le patate su un vassoio, senza sovrapporle, e poi nell’abbattitore, affinché non si sfaldino, per almeno un’ora. A questo punto procedere alla prima frittura nell’olio scaldato a 130 °C per 5 minuti, passare nuovamente nell’abbattitore per un’ora e friggere ancora, ma alla temperatura di 180 °C per 7 minuti. Scolare e servire con sale marino. Dopo la prima frittura, le patate possono essere conservate per 3 giorni prima della cottura finale.

·        Il Peperone.

Gemma Gaetani per "la Verità" il 4 luglio 2021. Il peperone è una pianta erbacea annua alta 100-150 centimetri, con bei fiori bianchi, solitari ossia uno per ascella fogliare e cadenti, coltivata per i frutti commestibili a bacca che possono essere di colore verde, rosso, arancione o giallo, più raramente viola, e di sapore dolce o piccante. Dal punto di vista del genere e della specie, il peperone e alcuni tipi di peperoncino sono la stessa cosa: il genere è infatti per tutti il Capsicum e la specie annuum, della grande famiglia delle Solanacee. Sono per esempio peperoncini della specie Capsicum annuum il pepe di Caienna, lo jalapeño, il serrano, il thai, il peperoncino calabrese, il peperoncino nero (detto anche violetto fuoco nero, mentre l' habanero appartiene alla specie Capsicum chinense e il tabasco alla specie Capsicum frutescens). Quelle che noi chiamiamo semplicemente peperone sono altre varietà della specie Capsicum annuum che, diversamente da quelle dei peperoncini, non contengono la capsaicina, responsabile della piccantezza del peperoncino: un peperone ha valore zero nella scala di Scoville, che misura la piccantezza. 

La sequenza cromatica

La specie Capsicum annuum è la più coltivata al mondo tra le specie del genere capsicum, il quale prende il nome dal latino capsa, cioè «scatola», perché, a prescindere dalla forma, che può essere allungata, conica, prismatica o globosa, la bacca del peperone, senza succo, rassomiglia a un contenitore il cui unico contenuto sono, appunto, i semi racchiusi in un tessuto detto placenta di colore bianco (nelle varietà piccanti, la capsaicina è prodotta da ghiandole situate tra la parete del frutto e la placenta, che ne è ricca, mentre i semi sono ricoperti in superficie di capsaicinoidi, ma ne sono privi all' interno, perciò non sono piccanti quanto la placenta, inoltre poca altra capsaicina si trova nelle parti carnose dei frutti). La parola peperone deriva dal latino piper, cioè «pepe». Il peperone è un frutto della terra molto bello anche per la sua varietà cromatica: quello verde, però, è semplicemente un peperone giallo, arancio, rosso o viola colto anzitempo. La sequenza cromatica della maturazione è proprio questa: verde da acerbo, giallo/arancio mediamente maturo, rosso/viola maturo. Oggi, comunque, esistono varietà che a maturazione compiuta raggiungono uno solo di questi colori. 

Metafore e sfottò

Si usa molto, oggigiorno, l'espressione comparativa negativa «Tizio è un Caio che non ce l'ha fatta». Il giornalista Andrea Scanzi ha scritto di Carlo Calenda che «è come un Renzi che non ce l'ha fatta, cioè uno che non ce l'ha fatta due volte, però lui resiste e insiste come Rocky Balboa» e Matteo Renzi scrisse del suo omonimo: «Salvini che diffonde le foto delle sue cene è un'aspirante webstar, è una Chiara Ferragni che non ce l'ha fatta». Togliendo da questo tormentone linguistico lo snobismo col quale spesso viene usato e citandola in maniera neutrale, possiamo allora affermare che il peperone verde è un peperone di altro colore che non ce l' ha fatta - per scelta del coltivatore! - a maturare. Il peperone ricorre più di altre verdure, nella nostra lingua, in similitudini: si dice «diventare rosso come un peperone» nel senso di arrossire, oppure «a peperone», del naso, per intenderlo lungo e grosso. Forse per questo, il peperone è anche usato come sinonimo scherzoso per il sesso maschile: nella leggendaria canzone Servi della gleba, l'amico del protagonista innamorato di una ragazza che non lo ricambia (ma lui non lo ha ancora capito), gli chiede: «Le hai mostrato il popparuolo?» e lui, povero illuso, gorgheggia convinto: «No, ma ho buone possibilità». Quella della canzone del gruppo Elio e le storie tese è una citazione: già gli Squallor avevano cantato «A chi lo do stasera/ questo popparuolo» nel brano A chi lo do stasera.

Occhio alla pizza

Le nostre similitudini, comunque, sono tutte nostre: in inglese, pur esistendo il concetto (e pure, declinato al plurale, il gruppo musicale omonimo) del red hot chili pepper, cioè del peperoncino, non si dice «red as a pepper», ma «red as a beetroot» o «as a lobster», cioè come una barbabietola o un'aragosta. Il peperone è però protagonista di una bella filastrocca scioglilingua inglese registrata al n. 19745 del database di canzoni della tradizione orale Roud folk song index, Peter Piper, che dice: «Peter Piper picked a peck of pickled peppers./ A peck of pickled peppers Peter Piper picked./ If Peter Piper picked a peck of pickled peppers,/ Where' s the peck of pickled peppers Peter Piper picked?». La prima comparsa su carta di Peter Piper risale al 1813, nel Peter Piper' s practical principles of plain and perfect pronunciation di John Harris, una raccolta con uno scioglilingua per ogni lettera alfabetica, ma in versione orale era già nota da almeno una generazione. Secondo alcuni Peter Piper è la traslazione inglese del nome francese Pierre Poivre, botanico e missionario che per primo investigò il potenziale delle Seychelles per la coltivazione delle spezie. Ma Peter Piper era anche il nome col quale era conosciuto Aston Dalzell Piper, capitano della Royal naval reserve britannica della seconda guerra mondiale, ed è anche il titolo di una canzone del gruppo Run Dmc, e il nome che ha ispirato quello della catena di pizzerie statunitensi con aree giochi Peter Piper Pizza. Negli Stati Uniti, pepperoni non vuol dire peperoni: è un salame arricchito con paprika o altri tipi di peperoncino e la «pizza pepperoni» è un grandissimo classico che indica una margherita con fette di questo salame, di invenzione italo-americana tardo ottocentesca, che somiglia molto alla salsiccia secca piccante di Napoli o alla soppressata della Calabria, ma con grana più fina, simile a quella del salame Milano. La pizza pepperoni è la più prodotta negli Stati Uniti, dove si consumano 251,7 milioni di libbre di pepperoni all' anno, sul 36% di tutte le pizze prodotte a livello nazionale. Per un italiano, chiamare «pepperoni» il salame è buffo: spesso, nei film americani nei quali compare la pizza pepperoni, il doppiaggio traduce «pizza ai peperoni». Al contempo, in molti ristoranti e pizzerie d' Italia con clientela straniera, nella traduzione inglese del menù ora compare la parola «pepperoni» al posto di «salami» o «hot sausage» per indicare la pizza col salame piccante.

Da Napoli alla Svezia

D' altronde, anche noi abbiamo il nostro bel daffare coi nomi di peperoni: in Italia si chiamano «friggitelli» quelli che in America chiamano «pepperoncini», cioè i peperoni verdi piccoli e non piccanti, specialmente conservati sottaceto. Ma fate attenzione quando ordinate in Campania o nei ristoranti e pizzerie campane disseminate per lo Stivale, perché potreste scambiare i «friarielli» del menu partenopeo per i «friarelli»: ricordatevi che in napoletano i friarelli sono i friggitelli, ossia, all' americana, i pepperoncini, mentre i friarielli, chiamati anche broccoletti a Roma, broccoli di rapa in Calabria, cime di rapa in Puglia, rapini in Toscana o pulezze nell' Aretino e in Valdichiana, sono le infiorescenze appena sviluppate della cima di rapa. Per concludere la rassegna linguistica, ci sembra rilevante ricordare che esistono anche i fefferoni o feferoni: sono i «pepperoncini» in Svezia e Slovenia! Il peperone si consuma sia fresco, crudo come cotto, che secco, come nel caso del peperone crusco. Originario del continente americano, arriva in Europa col pomodoro nel Sedicesimo secolo grazie alle spedizioni spagnole e portoghesi e attecchisce presto, col nome ora scomparso di «pepe del Brasile». I valori nutrizionali del peperone possono variare in base alle diverse varietà, perciò abbiamo fatto una media di alcuni valori del peperone giallo, rosso e verde. Per 100 grammi di peperone abbiamo soltanto 26 calorie, che ne fanno un contorno leggerissimo; 92,7 grammi di acqua, quindi ottima fonte alimentare di idratazione; 5,6 grammi di carboidrati di cui 2,4 di zuccheri nel verde e 4,2 nel peperone rosso, che infatti risulta più dolce al palato; 0,34 grammi di grassi; 0,95 grammi di proteine; 1,5 grammi di fibre. C' è poi una quota rilevante di vitamina C, che aiuta a rafforzare il sistema immunitario ma anche a sintetizzare il collagene, la proteina più importante del corpo, così mantenendo integri vasi sanguigni, pelle e ossa. Ne abbiamo 80,4 milligrammi nel verde, 127,7 nel rosso e ben 183,5 nel giallo. Il verde ha il doppio della vitamina C di un'arancia, il giallo e il rosso il triplo. Importante è anche l'apporto di provitamina A cioè i carotenoidi. Sono pigmenti che troviamo in piante, alghe e alcuni batteri e sono considerati precursori della vitamina A perché animali e esseri umani che se ne cibano li trasformano in retinolo, cioè vitamina A. Esistono oltre 600 tipi di carotenoidi e si dividono in due classi, caroteni e xantofille: tra i primi (alfa e betacarotene e licopene) e i secondi (come criptoxantina, luteina e zeaxantina), i nostri peperoni ci forniscono un buon quantitativo di provitamina A, rispettivamente più alto nel peperone verde, poi giallo e infine rosso.

Integratori naturali

La vitamina A fortifica il sistema immunitario, aiuta la vista coadiuvando la visione notturna, protegge la pelle dai danni dell'esposizione solare, è un potente antiossidante perché combatte i radicali liberi responsabili dell'invecchiamento cellulare e protegge anche dal cancro, soprattutto da quello alla prostata. La vitamina A si trova negli alimenti di origine animale in forma definitiva di retinolo e in quelli di origine vegetale nella forma dei carotenoidi. Alcune vitamine sono termolabili, cioè la cottura ne diminuisce la bioaccessibilità. Lo è anche la provitamina A, ma non del tutto. Se una parte si degrada, la cottura rende il resto più accessibile. Essendo poi liposolubile - cioè si scioglie nei grassi e non nell' acqua -, basta aggiungere anche solo 1 cucchiaino cioè 5 grammi di olio extravergine di oliva (o burro) perché la provitamina A dei peperoni, cotti come crudi, diventi anche più biodisponibile, cioè più assorbibile da parte dell'intestino. Di contro, nel peperone verde abbiamo più clorofilla rispetto agli altri colori. Anch' essa è molto utile, in sinergia coi carotenoidi, per le sue proprietà antianemiche, ancora antiossidanti e antitumorali. In particolar modo il carotenoide beta-criptoxantina pare utile come preventivo del tumore ai polmoni nei soggetti a rischio e la clorofilla parrebbe ridurre l'assorbimento gastrointestinale di sostanze cancerogene, come idrocarburi aromatici del fumo di tabacco o le ammine eterocicliche, gli idrocarburi policiclici aromatici e l'acrilamide dei cibi bruciati e bruciacchiati, che hanno un ruolo nel cancro dello stomaco. Quanto ai sali minerali, abbiamo un buon quantitativo di magnesio (composto della clorofilla, ce ne sono 10 milligrammi nel verde, 12 nel giallo e nel rosso) e uno ancora migliore di potassio (175 milligrammi nel verde, 212 nel giallo, 211 nel rosso), alleati contro la stanchezza in generale e da caldo estivo che sono venduti in combo in integratori da farmacia e che possiamo invece assumere grazie ai peperoni. Si ritiene che i peperoni siano indigesti. In realtà, ad essere di difficile digestione rispetto alla polpa è la buccia. Se avete avuto problemi di appesantimento, provate a spellarli o, se amate mangiarli crudi anche per preservare tutta la vitamina C, semplicemente non mangiatene troppi.

·        I Fagiolini.

Gemma Gaetani per "la Verità" il 19 settembre 2021. Sono forse i fagiolini dei piccoli fagioli? Potrebbe sembrare una stucchevole domanda da semantica emotiva, invece quel diminutivo attribuito al fagiolo definisce il vero. Sì, i fagiolini sono piccoli fagioli nel senso di fagioli raccolti a maturazione incompleta dei quali si consuma l'intero baccello e non solo il seme, come invece facciamo con i fagioli. In questo periodo di ubriacatura progressista per l'ecologismo che ha trasformato una sensibilità da sempre esistente nella tradizione (la tradizione anticonsumistica è costitutivamente ecologica) in vuota moda, nuovo mercato per imprese e Paesi amici e discutibile festival di soluzioni dall'efficacia tutta da dimostrare, si sente nominare spesso il concetto di rifiuti zero e in nome di esso si è giunti a teorizzare che dovremmo mangiare anche le bucce che mai abbiamo mangiato. Abbiamo scritto tempo fa, su queste pagine, della dietista australiana Susie Burrell che consiglia di ingurgitare banane con tutta la buccia e abbiamo anche scritto che ci sembra un po' troppo. Per non sprecare, le bucce di banana si possono compostare, non c'è bisogno di stravolgere la nostra cultura tradizionale dell'alimentazione. La quale già recupera da sempre bucce diverse da quelle delle banane, come quelle dei legumi, per esempio bollendole per ottenere una crema dopo il passaggio al setaccio o al passaverdure per eliminare filamenti e parti dure: l'operazione comporta un certo lavoro con una resa non poi così copiosa, tuttavia è giustificabile nell'ottica del recupero. Ma è già previsto che dei fagiolini mangiamo il baccello: essi sono naturalmente antispreco. Ricchissimi di acqua, poco calorici, con poche proteine e pochi carboidrati, in un certo senso sono un ortaggio «transgender», cioè un ortaggio da seme - tali sono i legumi - che però percepiamo come un ortaggio a frutto - tali sono, per esempio, le zucchine. Pur essendo a tutti gli effetti legumi, i fagiolini non ne hanno le caratteristiche tipiche: ancor di più se secchi, i legumi sono molto calorici, non sono così ricchi di acqua, sono molto proteici e molto glucidici. I fagiolini possiedono, piuttosto, le caratteristiche degli ortaggi a frutto, a fiore, a foglia e così via (l'ortaggio da tubero, come la patata, è un'altra eccezione, perché non è proteico come gli ortaggi da seme, ma, come loro, è glucidico). Ecco perché tutti identificano i fagiolini più come verdura di contorno che come legumi. I fagiolini sono cultivar della pianta dei fagioli comuni, genere Phaseolus specie Phaseolus vulgaris, della famiglia delle fabaceae anche dette leguminose di cui fanno parte anche lenticchie, fave, piselli, soia e ceci. Si possono dunque considerare - sì, ora facciamo gli stucchevoli da semantica emotiva - fagioli in età infantile, «cuccioli di fagioli» che si differenziano dagli «adulti» per le proprietà nutrizionali più light e il consumo totale. La specie Phaseolus vulgaris, originaria dell'America centrale, è stata importata in Europa dopo la scoperta dell'America. Fino ad allora, sul suolo europeo c'erano soltanto fagioli di specie appartenenti al genere Vigna. Di origine asiatica, furono poi soppiantati dai Phaseolus, caratterizzati da maggiore facilità coltivativa e produttività (la resa per ettaro dei Phaseolus rispetto ai Vigna è quasi doppia). Il fagiolo è una pianta erbacea, annuale, con portamenti differenti in base alle varietà (ci sono quelli rampicanti e quelli che ramificano). Abbiamo diverse varietà di fagiolo mangiatutto, il fagiolino è chiamato anche così, oltre che cornetto o tegolina. Ci sono davvero tante varietà, anche di diversi colori, come l'Anellino verde o l'Anellino giallo oppure il Cornetto largo giallo, e addirittura viola, come il Trionfo violetto mangiatutto, di un bel colore violaceo che emerge dalla bollitura di colore verde scuro. Per la forma poco diffusa, risultano molto particolari i fagiolini serpente. Lunghi da 40 a 50 centimetri, sono detti anche stringhe, per la somiglianza con i lacci delle scarpe, fagiolini a metro, scurie (cioè fruste) in Veneto, fagiolini asparago o fagiolini di Sant' Anna (madre della Madonna) perché si raccolgono a fine luglio, in concomitanza con la festa della santa che cade, appunto, il 26 luglio. La loro caratteristica principale è che sono varietà della specie Vigna unguiculata, per la precisione i Vigna unguiculata var. sesquipedalis. Vigna è la trasformazione in nome generico del cognome di Domenico Vigna, direttore dell'Orto botanico di Pisa dal 1609 al 1632, che per primo descrisse questi fagioli come abbiamo visto un tempo comunissimi, oltre che unici, sul nostro suolo. Poi, unguiculata vuol dire «con piccola unghia», sottinteso «su dita ad artiglio», per l'orientamento appena arrotondato, mentre sesquipedalis fa riferimento a una unità di lunghezza in uso presso i Romani corrispondente a un piede e mezzo, e significa, per estensione, «molto lungo». Quelli toscani -di questa eccezione alla regola del dominio del Phaseolus sul Vigna - sono gli Occhio del Valdarno e in generale tutti questi fagiolini oversize sono detti anche dolici (in latino vuol dire lungo, come nel greco dolikos). Sesquipedali o no, i nostri fagiolini sono un bell'alleato estivo. Ma prima di andare a scoprire perché, un'ulteriore premessa. In questo periodo di messa alla berlina della carne e di altrettanto dogmatica santificazione del vegetale, atteggiamenti manicheistici (e progressisti) sbagliati, sempre più persone sono portate a credere che mangiare carne sia pericoloso e abbuffarsi di legumi e vegetali, magari crudi, non possa fare che bene. Non è così, non lo è in assoluto e non lo è nello specifico dei fagiolini, che sono stati protagonisti di un recente comunicato da parte del Bfr, il Bundesinstitut für Risikobewertung, cioè l'Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio. Il quale ha notato che, forse per il maggior tempo passato in casa e la chiusura dei ristoranti durante la pandemia, nel 2020 è aumentato il consumo di verdure, ma sono anche aumentati i casi di cotture sbagliate o di consumo crudo di fagiolini segnalati dai centri antiveleni. «A differenza di molti altri tipi di verdure, i fagioli non possono essere consumati crudi», afferma il professor Andreas Hensel, presidente dell'Istituto. «I fagioli crudi contengono fasina, proteina che può essere dannosa per la salute umana anche a dosi minime e viene distrutta solo dalle alte temperature. I metodi di cottura delicati, come la stufatura leggera o la cottura a vapore, non sono adatti». Va molto di moda la risposta ironica «Mo' me lo segno» a un'affermazione che non interessa, ma questa obbligatorietà della bollitura perfetta del fagiolino è da memorizzare. I fagiolini, infatti, come tutti i legumi e anche alcune verdure non leguminose, contengono fasina, una proteina velenosa che viene distrutta solo da una lunga cottura in acqua. Basta che i fagiolini siano poco cotti per avere sgradevoli effetti di intossicazione come dolori addominali, nausea, febbre. Il fagiolino ben cucinato, invece, è altamente digeribile. Ormai si trovano di serra tutto l'anno, ma la loro stagionalità naturale è quella estiva. Per pulirli bene, bisogna lavarli sotto acqua corrente, magari lasciandoli prima 10 minuti in ammollo in acqua e bicarbonato, poi sciacquare, tagliare a ciascuno le due cime, quella del picciolo e quella della punta, tirar via, se c'è, il filo laterale e lessare in acqua bollente salata finché sono teneri (almeno 20-25 minuti). Per mantenere il colore verde brillante che li caratterizza, basta scolarli e metterli in acqua e ghiaccio. Un etto di fagiolini ci fornisce 18 calorie, quasi pari alle zucchine che ne hanno 17, e molte meno del fagiolo fresco, che sono 133, o secco, 303. Con 0,10 grammi di lipidi, 2,10 grammi di proteine e 2,4 grammi di carboidrati, abbiamo una sorta di «ortaggio da frutto legumato», perché un ortaggio puro come la zucchina ha meno carboidrati, 1,4 grammi. Però abbiamo anche 2,9 grammi di fibre, che sono quasi il triplo delle fibre della zucchina, che ne ha 1,2 grammi, e quell'abbondanza di fibre, tipica dei legumi, trasforma i nostri fagiolini in un grande complice per la corretta funzionalità dell'intestino, che essi stimolano senza rischiare di sovraccaricarlo come potrebbero fare i legumi maturi. Questa ricchezza in fibre ne fa anche un potenziale anticancro, perché le fibre solubili e insolubili proteggono l'intestino, e tramite esso l'organismo, dall'assunzione di sostanze potenzialmente dannose. Il fagiolino, sempre grazie alle fibre che assorbono altresì zuccheri e grassi, è anche un ottimo alleato in caso di sovrappeso, diabete e iperlipidemia. Infine, ancora grazie a esse, sazia più di un ortaggio: evitiamo repentini picchi glicemici e pari crolli iperglicemici e impieghiamo di più a digerirlo, in confronto a una zucchina, e ciò evita che ci torni subito fame. La combinazione di vitamina A retinolo equivalente (41 microgrammi) ne fa un potente contorno antiradicali liberi. Lo dice anche il ministero della Salute: «Gli effetti benefici del consumo di frutta, verdura e legumi dipendono anche dal fatto che alcuni loro componenti svolgono una azione protettiva, prevalentemente di tipo antiossidante, contrastando così l'azione di radicali liberi, coinvolti in processi di invecchiamento e in reazioni che sono all'origine di diverse forme tumorali». A ciò si aggiunge la vitamina C, 6 milligrammi ogni 100 grammi, un quantitativo certamente non esaustivo della razione giornaliera suggerita, che è 90 milligrammi. Ma con 2 etti (la porzione tipica) siamo a 12 milligrammi, e con 3 a 18, e per un contorno non è poco.

La vitamina C previene (o ne velocizza la cura) le più diffuse patologie da raffreddamento, in primo luogo il raffreddore: un'assunzione di 1 grammo di vitamina C al giorno riduce la durata del raffreddore del 18% nei bambini e dell'8% negli adulti (sempre meglio prendere ciò di cui il nostro organismo ha bisogno dal cibo, che da integratori in pillole). Essa rinvigorisce il sistema immunitario perché aiuta l'organismo a combattere virus e batteri. Inoltre, è un potentissimo antiossidante (non solo interno, anche esterno e locale: sono sempre più diffusi creme e trattamenti di bellezza alla vitamina C). Infine, amplifica l'assorbimento del ferro: i fagiolini contengono 0,9 milligrammi di ferro non eme. Sommati ai 37 microgrammi di folati, fanno dei fagiolini un'ottima pietanza per anemici e donne incinte (i folati aiutano a ridurre il rischio di gravi alterazioni nello sviluppo del sistema nervoso del feto). Abbiamo bisogno di 14 milligrammi di ferro al giorno, più o meno, e i fagiolini non sono sufficienti: accanto a 200-300 grammi di fagiolini, perciò, ci starà bene una porzione da 200 grammi di carne di manzo (7,2 milligrammi di ferro). Avremo un abbinamento perfetto e un pasto completo. Le vitamine del gruppo B (0,07 milligrammi di tiamina, B1, 0,15 milligrammi di riboflavina, B2, 0,8 milligrammi di niacina, B3 o PP) stimolano il corretto funzionamento del sistema nervoso, aiutano il tono muscolare e, trasformando i carboidrati in glucosio, sono essenziali per fornire energia all'organismo tramite un corretto metabolismo, ciò che ci aiuta a contrastare la fiacchezza tipica dell'estate. Il fagiolino ci aiuta anche a contrastare la disidratazione, anch' essa refrain del caldo estivo, con 90,5 grammi di acqua ogni 100 di peso. 

·        Il Riso.

Gemma Gaetani per “La Verità” il 7 settembre 2021. «Il riso è un cibo bellissimo. È bello quando cresce, file precise di gambi verde brillante che si stagliano verso il sole estivo; è bello quando viene raccolto, covoni dorati in autunno, impilati in risaie simili a patchwork; è bello quando, trebbiato, si riversa nei silos come un mare di piccole perle; è bello quando è cucinato da una mano esperta, bianco splendente e dolcemente fragrante», ha scritto Shizuo Tsuji, del prestigioso Tsuji culinary institute di Osaka, la più grande scuola di formazione per chef professionisti del Giappone, autore di oltre 30 libri di gastronomia che hanno contribuito a divulgare la cucina giapponese in Occidente. Cereale più consumato al mondo, fondamento monstre delle cucine orientali, dato che in Giappone e Cina fornisce metà delle calorie quotidiane, e vezzosa più che giornaliera, ma comunque radicata, alternativa alla pasta per gli italiani, in particolar modo settentrionali, il riso è la terza coltura al mondo dopo il mais e, al primo posto, la canna da zucchero. Chiamato anche risoide, il riso è la cariosside, cioè il frutto contenente il seme, di varie specie di piante erbacee annuali appartenenti alla famiglia delle Poaceae (graminacee). Il fusto è sottile, con forma cilindrica, foglie lineari e fiori a spiga, proprio come il «fratello» grano. Le piante di riso più diffuse sono l'Oryza sativa, dalla quale si ottiene il «riso asiatico», l'Oryza glaberrima, dalla quale si ottiene il «riso africano», e la Zizania, dalla quale otteniamo il riso selvatico. Reperti di 15.000 anni fa testimoniano l'uso del riso selvatico in Cina, altri di 7.000 anni fa di riso coltivato. Tra il quarto e terzo millennio avanti Cristo il riso si espande verso il Sudest asiatico e l'Occidente. Per quanto riguarda il nostro Stivale, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (77-78 d.C.) testimonia che il riso qui è conosciuto. Tuttavia, Greci e Romani - e continua così per tutto il Medioevo e fino al Rinascimento - consideravano il riso una spezia nel senso di un farmaco, medicamento per tante patologie o con effetto cosmetico: in una satira, Orazio racconta di un medico che aveva prescritto una tisana di riso. Il riso, che si semina in primavera, matura in 140-170 giorni. «Nel riso la fase vegetativa è piuttosto lunga mentre la fase riproduttiva si concentra in un breve lasso di tempo: la pianta sfrutta la seconda metà dell'estate per fiorire, formare e riempire i nuovi chicchi e infine maturare, indicativamente dall'inizio del mese di agosto alla fine del mese di settembre. Con il procedere della maturazione il verde erbaceo dei campi viene gradualmente sostituito dal bellissimo color oro dei chicchi maturi», scrive, nella bellissima monografia Il risottario, lo chef Sergio Barzetti, Guido Tommasi Editore. Proprio in questi giorni, dunque, il riso sta maturando. Sono molte le domande che riguardano l'impatto del riso sulla nostra alimentazione e, di conseguenza, sulla nostra salute. Per esempio, che differenza c'è tra riso bianco o brillato, riso parboiled e riso integrale? E il riso del sushi? Cominciamo dall'inizio. Il riso che verrà raccolto da fine settembre e poi stipato in silos anche un anno prima di essere lavorato è il risone, anche detto riso grezzo o riso vestito, che poi viene pulito e sbramato (o scorzato), cioè si distaccano le glumelle, sorta di foglioline, dal chicco, tramite il passaggio nello sbramino. Ciò che si ottiene è, innanzitutto, il riso integrale e poi lo scarto più esterno, la lolla, e quello più interno, la pula. Poi il riso si sbianca, ovvero si separano dal chicco il germe, da cui l'olio di riso, e il restante strato aleuronico, da cui si ottengono mangimi per animali. Dalle varie fasi di sbiancatura si ottengono risi più o meno raffinati: semiraffinato, mercantile, raffinato di I grado e raffinato di II grado. Poi, si possono effettuare la brillatura, un trattamento che lucida i chicchi con talco o glucosio, e l'oliatura, con olio di lino o vaselina, che dà luogo al riso camolino. Il processo molitorio fa perdere al riso alcuni sali minerali, che si trovano nel pericarpo, cioè la pellicola che avvolge il chicco, e alcune vitamine, che si trovano nello strato aleuronico. Il riso integrale, quindi, anche detto semigreggio, contiene ancora questi sali minerali e vitamine. Il brillato no. Ma li contiene anche il riso parboiled, quello cioè trattato a vapore prima del processo di raffinazione: parboiled è infatti crasi per «partially boiled», cioè parzialmente bollito. A dispetto della definizione, il parboiled non è affatto precotto, anzi il trattamento parboiling lo rende adatto a cotture prolungate (è il cosiddetto «riso che non scuoce»). Il trattamento prevede idratazione del riso grezzo in acqua calda, vaporizzazione ed essiccazione. Ciò gelatinizza l'amido, arricchisce i chicchi di vitamine, minerali e proteine, che passano dagli elementi che poi verranno separati con la raffinazione al chicco, aumenta il tempo di conservazione del riso sia prima sia post cottura e riduce l'assorbimento dei condimenti (quindi si può condire un filo meno, se si è a dieta). Possono sembrare quisquilie, ma pensate che quando fu introdotta la brillatura nelle regioni asiatiche, il deficit di vitamina B1, la tiamina, dovuto alla brillatura, determinò la diffusione della malattia da denutrizione beri beri, che ha sintomi come stanchezza cronica, cefalea, irritabilità, disturbi della memoria, palpitazioni, affanno. Si tratta di un monito da tenere presente nel caso in cui si consumino esclusivamente cereali raffinati. Consumare riso integrale e in generale cereali integrali (o riso parboiled), almeno ogni tanto, evitare cioè il consumo esclusivo e abbondante di cereali raffinati, contrasta la perdita di B1, vitamina fondamentale per lo sviluppo e il normale funzionamento di cervello, nervi e cuore. Tornando al riso integrale, rispetto al riso bianco e parboiled esso contiene fibra insolubile che aumenta la massa che transita nell'intestino, promuovendo la facilità di espulsione e la regolarità intestinale. E fibra solubile, che contrasta l'assorbimento di colesterolo e zuccheri, contrasto che si rivela utile non solo nelle diete dimagranti, ma anche contro aterosclerosi e diabete. D'altro canto, se si soffre di diarrea si deve evitare il riso integrale e preferire invece quello bianco, che ha effetto astringente. In generale, poi, bisogna tenere conto del fatto che meno raffinazione, in legumi e cereali, vuol dire anche più antinutrienti (fitati, che riducono l'assorbimento di vitamine e minerali), che però sono inattivati dal calore e dalla fermentazione, quindi il riso integrale va sempre ammollato prima della cottura e poi ben cotto. A nostro avviso, l'ideale è alternare i risi e non «votarsi» a una sola tipologia. Altro riso che diventa sempre più presente nei nostri stomaci è quello da sushi, la varietà giapponese a chicco piccolo (kome) che si chiama anche riso glutinoso perché dopo la cottura i chicchi restano particolarmente aggregati in virtù dell'alto contenuto di amilopectina (una delle due componenti dell'amido). Ha 370 calorie ogni 100 g, un po' più del riso brillato che ne ha 332. Le calorie degli altri sono 337, sia dell'integrale, sia del parboiled. Il riso ha poche calorie in meno rispetto alla pasta, che ne ha 371. Però rispetto a essa presenta varie differenze. Innanzitutto, il riso non contiene glutine e questo lo rende «la pasta dei celiaci». Tra tutti i cereali, il riso è quello dotato del minor potenziale allergenico assoluto, non soltanto nei confronti di chi soffre di celiachia, sensibilità al glutine e problemi renali. Il riso è più digeribile rispetto alla pasta, perché il suo amido è costituito da granuli di piccole dimensioni. Necessitiamo di 3-4 ore per digerire la pasta e di 1 o 2 ore per il riso, la cui digestione, poi, non causa la classica sonnolenza da pizza o pasta. Inoltre, a parità di peso secco, il peso finale della pasta e del riso cotti è molto diverso. L'indice di conversione da pasta corta cruda a cotta è 2, ossia 100 grammi di pasta corta cruda diventano 200 grammi da cotta. Il riso ha indice di conversione 2,5: da 100 grammi di riso crudo se ne ottengono 250 cotto. Questo accade perché la pasta è più ricca di proteine, mentre il riso contiene più amido, che durante la cottura assorbe più acqua, quindi il riso sazia di più e risulta meno calorico della pasta. L'indice glicemico del riso, però, varia a seconda della tipologia da 54 a 132. Sommata questa caratteristica a quella della digestione del riso in metà tempo rispetto alla pasta, che ha indice glicemico 54, possiamo decretare che il riso è certamente più «leggero» della pasta, da un certo punto di vista, ma può far tornare fame prima. Insomma, il nostro consiglio è quello di alternare pasta e riso come primo piatto, anche in questo residuo di estate: nei giorni più caldi, potete preparare il classico riso freddo, anche detto insalata di riso. Così: lessate 4 wurstel grandi il tempo di cottura indicato sulla confezione. Lessate 320 grammi di riso in abbondante acqua salata e scolatelo al dente, passandolo sotto il getto dell'acqua fredda per fermare la cottura. Ponetelo in insalatiera. Aggiungete il contenuto di una confezione di sottaceti per insalata di riso (non scolateli troppo, lasciate che dell'aceto cada sul riso), 200 grammi di fontina (o emmental) a tocchetti, i wurstel affettati non troppo sottili, 2 scatolette da 160 grammi di tonno, 4 uova sode a fette grosse, 8 cucchiai di maionese, 4 cucchiai di olio evo e mescolate delicatamente. Si può conservare in frigo fino a due giorni e l'ideale è mangiare questo riso letteralmente freddo di frigorifero.

Il Riso Rosso. Antonio G.Rebuzzi Docente di Cardiologia Università Cattolica Roma per "il Messaggero" il 21 marzo 2021. La abbinata colesterolo e piatto di riso rosso per abbassarlo sembra essere diventato l' abbinamento spontaneo tra i pazienti. Troppo spesso trascurando anche i farmaci. Senza ripensare ai comportamenti quotidiani. Dall' alimentazione, allo sport, al seguire, necessario, anche una terapia. Per capirci, riso rosso sì ma valutare le scelte con il medico. Stiamo parlando del riso rosso fermentato, prodotto della fermentazione ad opera del lievito Monascus purpureus. Questo arricchisce il prodotto finale di sostanze simili ai farmaci più utilizzati per combattere il colesterolo alto, le statine, che aiutano a ridurre i livelli di colesterolo. Nel numero di febbraio della rivista Journal of American College of Cardiology, Arrigo Cicero del dipartimento di Medicina dell' Università di Bologna fa un' attenta revisione di quanto si è scritto sugli effetti e sui limiti del riso rosso fermentato nel trattamento dell' ipercolesterolemia.

Obiettivo: verificare l' efficacia dell' alimento rispetto ai farmaci.

Risultato: è inferiore a quella delle statine. Questo significa che, nei casi più gravi, non ci si può affidare solo alle porzioni di riso rosso.

STATINE. Uno dei più importanti tra gli studi revisionati è quello effettuato da Maaike Gerards dello Slotervaart Hospital di Amsterdam e pubblicato sulla rivista Atherosclerosis. Sono stati esaminati oltre 6.600 pazienti affetti da ipercolesterolemia ed intolleranti alle statine. In un periodo variabile tra i 2 ed i 24 mesi duranti i quali hanno consumato questo alimento senza prendere i farmaci sono stati ridotti i livelli medi di colesterolo di poco più di 39 mg/dl. Livelli di riduzione che si ottengono con dosi minime di statine somministrate per un tempo molto più breve. Era documentato anche un piccolo incremento di colesterolo Hdl (buono) nonché una, sia pur modesta, riduzione dei trigliceridi. Proprio per questa efficacia, anche se non eccelsa, il riso rosso è stato accoppiato, nelle preparazioni commerciali, ad altre sostanze (berberina estratto di carciofo ed altri) che ne accrescerebbero l' efficacia sulla riduzione del colesterolo. Ma riducendo il colesterolo, il riso rosso riduce il rischio d' infarto? Uno studio cinese (il China Coronary Secondary Prevention Study) pubblicato sull' American Journal of Cardiology avrebbe documentato una riduzione del 4.7% (dal 10,4% al 5,7%) del rischio d' infarto senza effetti collaterali importanti. La Food and Drug Administration americana ha più volte consigliato cautela nell' accantonare il farmaco affidandosi al riso rosso solamente.

IL FEGATO. Nel 2020 l' American Heart Association Council on Epidemiology and Prevention ha documentato che circa il 50% della popolazione occidentale aveva livelli di colesterolo Ldl (cattivo) non ottimali, per cui, visti anche i problemi muscolari ed epatici legati all' uso di statine, nei Paesi più sviluppati si è andata sempre più diffondendo l' abitudine di dare grande attenzione a quei composti naturali (i nutraceutici) in grado di migliorare il quadro lipidico nell' ambito di un più corretto stile di vita. Si è pertanto sempre più diffuso l' uso di integratori naturali quali steroli o fibre solubili o proteine della soia la cui azione sarebbe quella di inibire l' assorbimento del colesterolo a livello intestinale.

·        La Pasta.

Gemma Gaetani per "la Verità" il 6 dicembre 2021. Esiste qualcosa di più buono e identitario della pasta per un italiano? E anche per chi, non italiano, adori la pasta? Sì, esiste: la pasta all'uovo. Però è una risposta affermativa col trucco, perché la pasta all'uovo è un tipo di pasta, quindi il primato di bontà della pasta resta insuperato da qualcosa che pasta non sia. I tipi di pasta sono tanti: fresca e secca, di sole acqua e farina di grano tenero o semola di grano duro (che è quella alla quale ci si riferisce con la denominazione «pasta»), all'uovo, ripiena. Si dice sempre che la pasta di semola di grano duro sia tipica del Sud e la pasta all'uovo e farina di grano tenero lo sia del Nord Italia. Come spiega bene anche Paste fresche e gnocchi (Giunti e Slow Food editori), il Sud come «patria del grano duro e quindi delle paste di sola semola e acqua» e il Nord «imperniato sul binomio farina e uova» sono più stereotipi che immutabili fotografie.  È vero che tante farine di frumento tenero meridionali sono poco proteiche e ciò, nel tempo, ha radicato l'uso del grano duro - più proteico - in alternativa all'uovo come agente proteinizzante dell'impasto. Ma è anche vero che la semola è sempre stata nota nei luoghi di accesso al Nord come le città portuali, l'uso dell'uovo è sempre stato collegato alla sua disponibilità e si afferma sempre più il binomio uovo+farina e semola al posto del solo uovo+farina. A parte queste piccole evoluzioni o varianti spontanee, ci sono quelle macroscopiche e imposte. Nella grande risciacquatura in Arno transumanista che oggi tocca a tutto, non solo al cibo, sono arrivate sugli scaffali dei supermercati le paste modificate iperproteiche. Ci sono quelle aggiunte di proteine, quelle preparate con aggiunta di farine di legumi, sul modello di quella tradizionale cinese di soia, quelle che non contengono affatto farina come la pasta di konjac, gli shirataki noodles nipponici composti di acqua e fibra (il glucomannano): oltre al desiderio di manipolare la tradizione fino a cancellarla, queste paste soddisfano l'imperativo dietetico che criminalizza i carboidrati. Ma la versione più proteica e più ricca di fibre della pasta esiste già ed è quella all'uovo. La consuetudine vuole che la pasta sia la regola ordinaria e la pasta all'uovo sia l'eccezione festaiola, fatte salve regioni dove la pasta all'uovo è un'istituzione, in primo luogo l'Emilia Romagna. Di norma, la pasta all'uovo si prepara con 100 grammi di farina di grano tenero e 1 uovo. Sempre più spesso, tuttavia, ci si trova di fronte a ricette che prevedono 50 grammi di semola di grano duro e 50 grammi di farina di grano tenero. L'apporto calorico della pasta secca è di 353 calorie ogni 100 grammi. Essa contiene per il 74% carboidrati, proteine dal 7 al 10% in funzione del tipo di farina usata (la farina integrale, la semola di grano duro e il grano tenero manitoba, per esempio, hanno più proteine delle altre farine), 1,4% di grassi. La pasta all'uovo fresca, invece, ha 366 calorie e presenta la stessa quota di carboidrati, ma più proteine (13%), più acidi grassi (2,4% di cui 73 milligrammi di colesterolo su 100 grammi) e più fibre, il 3,2% contro il 2,7% della pasta secca. Aumentano ancora proteine e grassi nella pasta che oltre che all'uovo è ripiena, come per esempio i tortellini, che anche per questo possono perfettamente svolgere il ruolo di pasto completo, affiancati a una porzione di verdura. Questa possibilità di «fare pasto» appartiene anche alla pasta all'uovo non ripiena, mentre nel caso della pasta manca l'elemento proteico animale e da sola non si può considerare pasto esaustivo. La pasta fresca contiene il 30% di acqua in più rispetto a quella secca, quindi la classica porzione da 80 grammi di pasta secca va aumentata a 120 grammi se fresca all'uovo: in cottura quest' ultima, già idratata, assorbirà meno acqua rispetto alla pasta secca, rendendo come quella secca. Rispetto all'impasto di acqua e semola o farina oppure entrambe, l'impasto che sostituisce l'acqua con l'uovo sfrutta le caratteristiche nutrizionali e fisiche proprie del prodotto della gallina. Nella pasta, l'impasto di semola (o farina) e acqua fa sì che le glutenine e le gliadine, le proteine non solubili dello sfarinato, creino il glutine, che imprigiona acqua e amido. La farina di grano tenero ha meno glutine e quindi, in fase di modellaggio e cottura, la pasta sarà meno plastica e resistente, non a caso la pasta di grano tenero intorbidisce l'acqua di cottura perdendo amido e si usa molto nei formati per minestra, piatto nel quale la consistenza meno tenace non è un problema. Impastando con acqua calda invece che fredda la struttura glutinica della pasta migliora sensibilmente perché l'acqua riscaldata gelifica l'amido. Infatti nelle ricette del Sud di formati di pasta da mangiare asciutti vi capiterà spesso di trovare l'indicazione di usare l'acqua calda, suggerimento che non troverete per paste da mangiare in brodo. L'impasto, poi, migliora ancora di più con semola di grano duro, ma mai come quando alla farina o alla semola si aggiungono le uova e non l'acqua. Insomma, se cercate una pasta gradevole al gusto e performante in termini di proteine e fibre, provate più spesso - magari impastandola con le vostre mani - la pasta all'uovo.

Orecchiette alle cime di rapa: tra miti e tradizioni della Puglia. Angela Leucci il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Le orecchiette alle cime di rapa sono forse il piatto tipico più noto di Puglia: piacquero alla dea Demetra e vengono realizzate ancora secondo tradizione. Le orecchiette alle cime di rapa rappresentano probabilmente una delle preparazioni tradizionali pugliesi tra le più conosciute. Si tratta di un primo piatto formato da un condimento legato alla tradizione contadina, che insaporisce una pasta artigianale che le massaie di Puglia realizzano da sempre con metodi antichi e una perizia - oltre che una velocità - ipnotica a vedersi. Ma esistono anche marchi industriali che realizzano pasta tradizionale con questo taglio.

La realizzazione delle orecchiette avviene attraverso un impasto di acqua e semola di grano duro - con alcune varianti locali, che possono essere la farina d’orzo in provincia di Lecce e il grano arso in provincia di Foggia.

Le orecchiette si modellano usando le mani e un particolare coltello in pesante metallo, dalla punta oblunga e arrotondata. L’impasto viene infatti lavorato con dita e polpastrelli per formare un serpentello di pasta: questo serpentello viene tagliato in pezzetti di un centimetro l’uno. I pezzetti vengono poi “stirati” sulla spianatoia, servendosi appunto della punta del coltello, mentre poi con il pollice la pasta viene rivoltata formando un cappelletto con la parte ruvida verso l’esterno. Per questa ragione, per via della presenza di questa parte ruvida, le orecchiette - oltre che essere preparate con le cime di rapa - vengono condite tradizionalmente con sughi mediamente liquidi e a base di carne oppure con salsa di pomodoro, in cui viene mescolata della ricotta forte.

L’Associazione Italiana Food Blogger ha provato a tracciare le origini di questo taglio di pasta, ma possono essere formulate solo delle ipotesi antecedenti alla fine del XVI secolo: non ci sono vere e proprie certezze sulla nascita delle orecchiette. Per esempio, nel “De Lingua Latina” di Marco Terenzio Varrone vengono annoverate le lixulae, la cui forma discoidale ricorda appunto le orecchiette, ma non si sa se ci sia stata una reale connessione tra questi due tipi di pasta, quello antico e quello moderno. C’è chi ritiene che invece le orecchiette siano state “importate” culturalmente in Puglia a seguito della dominazione angioina, oppure della dominazione normanno-sveva.

È difficile invece ipotizzare che la forma delle orecchiette richiami quella dei tetti dei trulli: i trulli sono particolarmente diffusi solo nella zona centrale della Puglia, mentre le orecchiette sono tradizionali in tutta la regione e anche in molti luoghi della Basilicata.

Si parla sicuramente per la prima volta di orecchiette in un atto notarile del 1596 che riguarda l’eredità di un maestro pastaio che lascia alla figlia tutta la propria attrezzatura da lavoro: il manoscritto esiste ancora oggi ed è conservato nella chiesa di San Nicola di Bari.

Perché le orecchiette alle cime di rapa

Il condimento di questo piatto si realizza sbollentando le cime di rape pulite e poi saltandole in padella con filetti di acciughe e aglio in camicia. Le cime di rapa sono le infiorescenze di questo ortaggio, che vengono raccolte prima della fioritura completa perlopiù in autunno e in inverno.

Secondo la leggenda, la ricetta delle orecchiette alle cime di rapa fu assaggiata e gradita dalla dea Demetra in persona. Si può ipotizzare che questa leggenda nasca dal fatto che Demetra era la dea della terra e che questo piatto della tradizione contadina rappresenti un omaggio alla natura e alla speranza di fertilità, fertilità che era anche fondamentale in un’economia anticamente basata sui frutti dei campi.

Dagotraduzione dal Daily Beast il 4 novembre 2021. Chi ha introdotto per primo gli spaghetti in Italia? Si sente spesso dire che è stato Marco Polo a introdurre la pasta in Italia dopo il suo ritorno dalla Cina. Ed sarebbe stata scoperta da uno dei suoi marinai, un veneziano il cui nome era, appunto, Spaghetti. L'unico problema con questa storia memorabile è che nulla di tutto ciò è vero. Questo è solo un assaggio delle affascinanti informazioni, accurate e false, contenute in Breve storia degli spaghetti al pomodoro di Massimo Montanari. Il libro è della lunghezza giusta (128 pagine), accademico e fa un discorso assolutamente affascinante sulla storia del cibo. Spiega come la pasta sia diventata così incredibilmente popolare e come, nel corso degli anni, sia stata abbinata a parmigiano, salsa di pomodoro, basilico e olio d'oliva, per formare il piatto che molti di noi apprezzano regolarmente oggi. Definendo il suo libro una “ricostruzione storica” del piatto, Montanari prosegue osservando che «gli spaghetti al pomodoro, specie se conditi con parmigiano grattugiato, sono il simbolo dell'identità [italiana] per eccellenza». Partendo da questo presupposto, Montanari, docente di Storia dell'alimentazione all'Università di Bologna, torna indietro di centinaia di anni alla ricerca delle origini dei vari ingredienti che ancora oggi entusiasmano le nostre papille gustative. Il libro è, dice, anche una “decostruzione storica” del piatto e ne approfondisce origini, preparazioni e utilizzi. Con così tante informazioni in un volume così breve, abbiamo approfondito cinque fatti chiave.

La storia della pasta secca

«La pratica dell'essiccazione della pasta è stata di grande importanza nella storia dell'alimentazione, non solo perché ha reso possibile la conservazione della pasta in casa, ma anche perché ha moltiplicato le potenzialità industriali e commerciali di questo prodotto. L'essiccazione della pasta prese piede soprattutto in Italia, a partire dalla Sicilia, dove gli Arabi introdussero l'uso della pasta secca, pratica da loro importata dall'Oriente. È in Sicilia che, nel XII secolo, nasce l'industria della pasta. Da allora l'Italia è diventata progressivamente (ed è tuttora) il maggior produttore mondiale di pasta secca. Questo sviluppo è stato il prodotto di diversi fattori. Tra questi, fondamentale è stato il primo incontro in Sicilia di due diversi modi di utilizzare la pasta, uno orientale, introdotto in Occidente dagli arabi, e uno di origine greco-romana». 

Come è stato aggiunto il parmigiano

«Nel Medioevo il parmigiano è diventato il formaggio di vacca più importante d'Italia. Fino ad allora il formaggio era prodotto quasi esclusivamente con latte di pecora, e i bovini erano usati essenzialmente solo per il lavoro. Il grande successo del parmigiano era dovuto non solo al fatto che aveva un sapore 'buono' (lo stesso si potrebbe dire di molti altri tipi di formaggio) ma al fatto che fin dall'inizio era associato alla pasta come condimento primario. Già nel Medioevo e ancora nel Settecento era comune associare pasta e formaggio, per motivi di gusto ma anche per le prescrizioni della scienza alimentare. Tenere presente questo aspetto della storia della pasta è importante, in quanto mostra che la storia del cibo non è la storia dei singoli prodotti, ma dei 'sistemi' e delle 'associazioni' tra gli alimenti». 

Quando la pasta è diventata identificativa dell’Italia?

«Durante il Medioevo e il Rinascimento la pasta ha acquisito un ruolo sempre più importante nella cucina italiana. Tuttavia, all'epoca, la pasta non era ancora diventata il piatto distintivo della cultura gastronomica italiana, associata alla sua identità nazionale. Era consumata dall'aristocrazia ma solo per accompagnare la carne come 'contorno'. Le cose cominciarono a cambiare nel XVII secolo, prima a Napoli poi altrove. Da un lato, il cambiamento era il risultato dell'impoverimento della popolazione urbana, per la quale procurarsi il cibo diventava più difficile. Dall'altro, l'invenzione di macchine come l'impastatrice (o impastatrice meccanica) e l'estrusore per pasta ha permesso di produrre pasta più velocemente e a minor costo, riducendone il prezzo di mercato. Prima nelle città e solo successivamente nelle campagne». 

La nascita dell’olio d’oliva

«Per secoli burro e strutto sono stati i condimenti della pasta, insieme al formaggio. Burro sulle tavole dei nobili, lardo su quelle della gente comune. L'olio d'oliva era estremamente raro e costoso, e si usava solo sulle verdure o sul pesce, non sulla pasta; era considerato un alimento 'a basso contenuto di grassi' che poteva essere consumato nei giorni in cui il calendario della Chiesa vietava l'uso di prodotti animali. A partire dal XIX secolo, e soprattutto durante la seconda metà del XX secolo, la produzione di olio d'oliva è aumentata notevolmente, consentendone un consumo più ampio. Inoltre, negli ultimi decenni la scienza della nutrizione ha enfatizzato sempre di più i benefici della sostituzione dei grassi animali con oli vegetali. La combinazione di fattori economici e sanitari ha progressivamente modificato i gusti delle persone». 

L’uso di pomodoro e basilico

«Il basilico era quasi del tutto assente dalla cucina medievale e rinascimentale. L'uso del basilico si diffuse nel XIX secolo perché il suo sapore e il suo profumo si sposavano perfettamente con la salsa di pomodoro, introdotta nella cucina italiana nel XVIII secolo e, a partire dal XIX secolo, iniziò ad essere utilizzato sulla pasta. I tradizionali condimenti della pasta (formaggio, burro, strutto) non si sposavano bene con il basilico, a prescindere dai pregiudizi che si potevano avere su questa pianta. Penso che quel gusto abbia deciso il successo del basilico: si sposa perfettamente con il pomodoro, tanto da superare ogni pregiudizio. Alla fine vince sempre il gusto».

Morello Pecchioli per “la Verità” il 17 ottobre 2021. Meno 10. Mancano dieci giorni al 23° World pasta day, la giornata mondiale della pasta istituita nel 1998 dall'International pasta organization (Ipo). La festa si celebra in tutto il mondo ogni 25 ottobre. Dire «pasta» in Italia equivale a pronunciare un nome venerabile, degno del massimo rispetto. Pasta è in stretta relazione con mamma, famiglia, casa, patria. Ogni tanto ci provano i giornalisti birichini di Der Spiegel a sputtanare l'Italia oltraggiando il nostro cibo più sacro, gli spaghetti. Nel 1977 il settimanale tedesco uscì in copertina con un piatto di vermicelli «condito» con una pistola. Come dire: Italia paese di mafiosi e delinquenti. E nel giugno di tre anni fa, dopo averci definiti «scrocconi», un'altra copertina mostrò una forchetta con uno spaghetto arrotolato che scendeva dai rebbi in forma di cappio, metafora dell'Italia che impicca l'Europa. Adesso basta signori di Der Spiegel, giù le mani dalla pasta. Offendiamo forse, noi italiani, la vostra kartoffelsalat, l'insalata di patate, accostandola al Dieselgate Volkswagen? O mettendo una mascherina anti Covid (vedi lo scandalo nel marzo di quest' anno) sopra una coppia di wurstel grigliati? Oltretutto le vostre offese cadono nel vuoto perché ai vostri compatrioti la pasta italiana piace, eccome. La Germania è tra i maggiori importatori di spaghetti, penne, lasagne e rigatoni tricolori. I tedeschi mangiano volentieri la pasta a Jesolo, sul lago di Garda, a Napoli, ma anche a Bonn, Berlino, Monaco e Amburgo. E non l'apprezzano solo loro. Un rapporto dell'Ipo informa che nel 2019 sono stati prodotti in tutto il mondo quasi 16 milioni di tonnellate di pasta lunga e corta: fettuccine, fusilli, farfalle, sedanini e via pastasciuttando. Un quarto della produzione italiana è made in Italy.Se poi ci dicono «italiani mangia spaghetti», non offendiamoci. Anzi, andiamone orgogliosi. L'Ipo - dati sempre del 2019 - ci mette sul podio più alto di mangiatori di pasta con 23,1 chilogrammi annui divorati a testa. Seguono la Tunisia con 17, il Venezuela con 12, la Grecia (11), il Cile (9,4), gli Stati Uniti (8,8), Argentina e Turchia (8,7), Francia (8), Germania (7,7), Giappone. Altro che Napoleone, altro che dal Manzanarre al Reno... Le armate di bucatini, fettuccine, mezze maniche, che si sono mosse dal Bel Paese fin dal Rinascimento conquistando le corti europee, ma che hanno intensificato le operazioni nell'Ottocento e nel Novecento grazie agli emigranti, alle trattorie Bella Italia sparse per il mondo e al turismo d'assaggio, hanno conquistato il mondo. Ma la pasta è davvero nata in Italia? Una stupida leggenda commerciale inventata nel 1929 dal Macaroni Journal, rivista dell'Associazione americana di produttori di pasta attribuisce ai cinesi l'invenzione di lunghi fili di pasta essicati al sole. Sarebbe stato un marinaio di Marco Polo che aveva l'improbabile cognome di Spaghetti a rubare la ricetta. Il grande viaggiatore veneziano li avrebbe poi diffusi in Italia. Un'americata. Rimaneggiata e sceneggiata, fu riproposta nel 1938 nel film Le avventure di Marco Polo con protagonista Gary Cooper. Probabilmente a inventare per caso la prima pasta fu un contadino qualche migliaio di anni fa. Fatto un impasto con acqua e farina di cereali, lo stirò e lo mise a cuocere su una pietra rovente ottenendo un cibo che solo con molta buona volontà può essere definito l'antenato della pasta. Ben diversa è la storia raccontata dai rilievi che ornano la tomba della famiglia etrusca dei Rasenna a Cerveteri. Il tumulo, che lo scrittore inglese David H. Lawrence chiamò Grotta Bella, è un libro aperto sugli usi degli Etruschi a tavola. In casa Rasenna, raccontano i rilievi, si tirava la sfoglia come fa una rezdora emiliana d'oggidì: pescando la farina da un sacco, usando mestoli per l'acqua, il matterello e la tavola spianatoia, il coltello e perfino la rotella tagliapasta. Ma già i Greci e, successivamente, i Romani conoscevano il laganum che molti storici definiscono l'antenato della lasagna. Cicerone ne andava ghiotto e Orazio lo esalta nelle Satire: «...inde domum me ad porris et ciceri refero laganique catinum», quindi me ne torno a casa, al mio piatto di porri, di ceci e di lagano. Apicio, il cuoco dei Luculli e dei Trimalcioni imperiali detta nel Re Coquinaria la ricetta di un pasticcio che chiama lagana in cui le strisce di pasta sono alternate a strati di carne e di pesce. Il tutto è, poi, cotto in forno. Per trovare traccia di spaghetti e maccheroni bisogna aspettare un millennio e l'insediamento degli Arabi in Sicilia. Da uno scritto del viaggiatore e geografo Muhammad al-Idrisi che risale al 1154 (e quindi ben prima di Marco Polo) apprendiamo che a Trabia, l'araba Al Tarbiah, allora piccolo borgo poco distante da Palermo si produceva un «cibo di farina in forma di fili» chiamato itriyah, spaghi. Adiacente a Trabia c'è Termini Imerese e qui, secondo La storia della cucina italiana a fumetti pubblicata dall'Accademia italiana della cucina, sono nati, sempre grazie agli Arabi, i vermicelli con le sarde, pinoli e uvetta, piatto che dopo mille anni si mangia ancora di gusto a Palermo. A Salento si mangia con altrettanto piacere il tradizionale ciceri e tria, che ancora porta il nome degli antenati itriyah. Furono i mercanti di Genova che nello stesso XII secolo fecero conoscere gli spaghi arabi nel nord Italia dove, per secoli, furono conosciuti come «trii genovesi». Per centinaia di anni furono mangiati nelle corti e nei palazzi principeschi in bianco, conditi con formaggio, con burro zucchero e cannella, con formaggio e spezie.  A compiere il miracolo che li tinse di rosso furono un re, Ferdinando IV di Borbone, e un santo, San Marzano, nome della località in cui il re ordinò di piantare i semi di pomodoro ricevuti in regalo dal vicerè del Perù. Ma l'accoppiamento tra pasta e pummarola, che Antonio Latini ne Lo scalco alla moderna (Napoli, 1694) chiama «salsa spagnola», non avvenne automaticamente. Nella città di San Gennaro il popolino continuò a mangiare fino a '800 avanzato i maccheroni, cibo nutriente e a basso costo, in bianco. Soltanto verso la metà di quel secolo le dita che i napoletani- vedi Totò nel film Miseria e nobiltà- usavano come forchetta, s' imbrattarono di rosso. Il resto è storia contemporanea. «La vita è una combinazione di pasta e magia», dichiarò Federico Fellini che nel 1985 girò il celebre spot per la Barilla: un'aristocratica signora in un lussuoso ristorante, dopo la recita da parte del maître di un menu tutto in francese, ordina: «Rigatoni». Cos' è la pasta lo dice Aldo Fabrizi in una dichiarazione d'amore in versi: «È un'opera d'ingegno e fantasia,/ una grazia de Dio che s' assapora:/ l'unico tranquillante che rincora/ sia er popolino che la borghesia». In un altro sonetto Fabrizi elenca in romanesco 36 formati di pasta. Tra i più curiosi e strani: schiaffoni, occhi de lupo, lumaconi, pippe, cazzetti d'angelo, fischiotti....Perfino i frati cappuccini sono entrati nello spirito della Giornata mondiale della pasta riproponendo la ricetta della Pasta francescana. «Forse San Francesco non l'ha mai mangiata», scrivono sull'ultimo numero del mensile Frate Indovino, «ma è buona sempre perché la forza della ricetta è quella di non essere un piatto povero. Si può preparare con i fusilli, con le ruote o con i cannelloni. Si prepara un soffritto di cipolla e salsiccia (o guanciale) in olio extravergine d'oliva, si aggiungono funghi freschi e passata di pomodoro. Nel sugo si salta la pasta al dente e si impiatta con una manciata di parmigiano e un trito di prezzemolo». Pace e bene e buon appetito.

Da “ANSA” il 29 settembre 2021. Andriani, azienda di Gravina in Puglia specializzata nella produzione di pasta senza glutine, e ApuliaKundi, start-up pugliese che produce l'alga spirulina definita dalla Fao il "cibo del futuro", hanno siglato una intesa grazie alla quale saranno prodotti, tra l'altro, gli spaghetti alla spirulina, attraverso un processo che consentirà di risparmiare acqua e catturare l'anidride carbonica restituendo ossigeno all'ambiente. L'acqua in cui verrà coltivata la Spirulina, infatti, sarà quella utilizzata per il processo di produzione della pasta negli stabilimenti di Andriani, recuperata e purificata attraverso un impianto di ossidazione abbinato ad uno di osmosi inversa. La Spirulina, dopo essere stata raccolta, verrà pressata, estrusa ed essiccata a freddo al fine di preservare le sue caratteristiche nutrizionali. Successivamente una parte dell'alga verrà utilizzata da Andriani come ingrediente nella produzione di pasta biologica, aggiungendola alla farina di riso integrale, naturalmente gluten free. La pasta, a marchio Felicia, farà il suo ingresso nella grande distribuzione. La restante parte di Spirulina verrà utilizzata da ApuliaKundi per altri prodotti tra cui stick e compresse che sono già in commercio. L'iniziativa è stata presentata oggi a Gravina in Puglia. Considerata sin dall'antichità il "cibo degli dei", la spirulina è una microalga di colore verde-blu caratterizzata da un elevato valore nutrizionale e da un basso impatto ambientale. Ha il più alto contenuto di proteine vegetali, circa il 60-65%, che contengono tutti gli aminoacidi essenziali e con un basso contenuto calorico e di colesterolo. Inoltre coltivare Spirulina - è stato sottolineato nel corso della presentazione dell'iniziativa - non causa inquinamento e contribuisce all'abbattimento dei gas serra catturando l'anidride carbonica e restituendo ossigeno nell'aria. ApuliaKundi nel 2010 ha dato vita a un'idea nata in Africa, in occasione di un progetto di cooperazione internazionale in un villaggio in Malawi. Da quel momento ha scelto di occuparsi di ricerca nell'ambito delle micro alghe e di produzione di 'spirulina K', italiana, biologica e pura al 100%. Danila Chiapperini, project manager di Apulia Kundi, ritiene che l'intesa con Andriani sia "un messaggio da dare ai giovani del nostro territorio, a chi pensa che per fare innovazione occorra andare via dalla nostra terra: soprattutto - spiega - è un messaggio di cooperazione contrapposta alla competizione che si vede ogni giorno". Michele Andriani, amministratore delegato dell'omonimo pastificio, sottolinea che "c'è molta vita in quello che si fa con ApuliaKundi, oltre che tanta tecnologia. Abbiamo deciso di aiutare questa start-up con un ruolo di acceleratore di impresa ma senza entrare nella governance". Quanto alla capacità produttiva dell'impianto, Raffaele Settanni, Ceo di ApuliaKundi, evidenzia che si varia "dalle tre alle cinque tonnellate all'anno, mantenendo la stagionalità e il bioritmo della Spirulina". Circa tre grammi al giorno di spirulina al giorno - è stato sottolineato - forniscono le proteine necessarie per avere forza ed elasticità dei muscoli, oltre che vitamine, antiossidanti e omega. L'alga non fa ingrassare né dimagrire, ma velocizza il metabolismo. 

Un'eccellenza in tutto il mondo. Made in Italy, la filiera della pasta per un brand globale. Vittorio Ferla su Il Riformista il 23 Maggio 2021. La pasta italiana è il piatto dell’anno della pandemia. Nel 2020, infatti, registra il record storico del valore delle esportazioni (+16%). L’analisi della Coldiretti sui dati Istat rivela che mai così tanta pasta italiana è stata consumata sulle tavole mondiali. I maggiori consumatori mondiali sono diventati gli Stati Uniti con un aumento record del 40%. Ma Il successo del nostro prodotto più identitario è cresce anche negli altri continenti: in Oceania c’è il balzo del 39% in Australia, mentre in Asia si registrano aumenti in Giappone (+16) e in Cina (+23). Secondo Coldiretti, «la tendenza è favorita anche dall’interesse per la pasta certificata 100% italiana. D’altra parte, a partire dal 2018, l’indicazione dell’origine del grano impiegato nella pasta ha spinto le principali industrie alimentari a promuovere delle linee produttive con l’utilizzo di cereale interamente prodotto sul territorio nazionale». Un fenomeno che coinvolge quasi tutti i principali marchi italiani. Va segnalato inoltre che, dopo le turbolenze generate dalla prima ondata del Covid, la filiera del grano duro torna ai livelli pre-pandemia: produzione e consumi tornano in linea con quelli del 2019, mentre si registra un allentamento della pressione sui prezzi. Secondo lo studio di Areté, l’istituto di ricerca e consulenza specializzato nell’agri-food, nel 2020, nonostante la chiusura di hotel e ristoranti, la filiera italiana ha prodotto l’11% di pasta in più rispetto al 2019, con picchi di crescita superiori al 40% in alcuni periodi dell’anno. Le stime per il prossimo anno prevedono un ritorno ai livelli di consumo registrati nel 2019. Nel 2021 la produzione di grano duro è stimata in crescita sia a livello nazionale (+9%) che a livello mondiale (+6%). I dati sono stati presentati nel corso dei Durum Days 2021, l’evento che ogni anno riunisce gli attori della filiera: Assosementi, Cia-Agricoltori italiani, Confagricoltura, Copagri, Alleanza Cooperative Agroalimentari, Compag, Italmopa e Unione Italiana Food. Secondo Areté, i consumatori sono sempre più attenti ai prodotti di qualità e la forte richiesta per la pasta 100% made in Italy dà una spinta consistente al mercato dei piccoli brand di nicchia. L’impegno per sostenere questa richiesta viene anche dal governo Draghi. Gian Marco Centinaio, sottosegretario alle Politiche agricole alimentari e forestali, commenta così i dati presentati nel corso di Durum Days 2021: «l’impegno è fare squadra per rafforzare la filiera, garantendo maggiore competitività alle imprese. Lavoriamo per aumentare le superfici coltivate e le produzioni nazionali di grano duro e ridurre così la dipendenza dall’estero». Ma la sfida più importante per la filiera del grano duro italiano sarà quella di «produrre di più con meno»: investire sulla sostenibilità ambientale grazie all’uso delle nuove tecnologie, della genetica e di tecniche agronomiche innovative. Vittorio Ferla

Carlo Ottaviano per "il Messaggero" il 6 aprile 2021. Autunno 1944, l'alto ufficiale della V Armata americana guarda gli aerei sorvolare Roma ferita dai bombardamenti e dice: «Signori, siamo ancora lontani dalla fine. I ragazzi là fuori ne hanno passato di tutti i colori. Non basta una pacca sulle spalle, a loro serve qualcosa di più, qualcosa che risollevi lo spirito. Un grande pasto, non queste terribili razioni americane». E intima al primo che passa: «Robbins, è compito tuo. Hai 4 giorni». Con la disperata missione del soldato di prima classe Robbins, inizia il cortometraggio Carebonara diretto dal belga Xavier Mairesse che Barilla ha realizzato in occasione del Carbonara Day di oggi. Nel film sarà poi un cuoco romano (impersonato da Claudio Santamaria) a mantenere alto l' umore dei soldati mettendo assieme i contenuti della loro energetica ma insapore Razione K (uovo in polvere e bacon) con spaghetti e pecorino.

LE POLEMICHE. «Il film è un tributo alla pasta, che da sempre unisce le persone e le culture», commenta Luca Barilla. Il cortometraggio è destinato a risollevare le polemiche sulla vera origine del piatto che potrebbe essere anche un' evoluzione del cacio e ova dell' Appennino, considerando che il termine Carbonada in Abruzzo indicava la carne di suino salata e cotta sui carboni. C' è anche l' ipotesi di una origine napoletana, alla luce di un ricettario del 1837. Che sicuramente non poteva prevedere e forse nessuno osava fino a ieri perfino il gelato al gusto carbonara, messo a punto proprio per la giornata di oggi dalla gelateria milanese Gusto 17, né la versione degli spaghetti su stecco, utile per le pause dallo smart working. Insomma, nessuno scandalo sulle presunte origini, né su come viene cucinata oggi, specialmente dopo le polemiche seguite appena due mesi fa alla pubblicazione sul New York Times della ricetta Smoky Red col pomodoro tra gli ingredienti. La ricetta italiana più violentata nel mondo, secondo i puristi dovrebbe avere tra gli ingredienti solo pasta, pecorino, uovo, pepe. Con l' irrisolto dilemma guanciale o pancetta. «Molti afferma lo chef Antonello Colonna, oggi testimonial dell' Associazione Carni Sostenibili li confondono, ma l' etimologia delle parole chiarisce che uno proviene dalla pancia del maiale, l' altro dalla guancia. La ricetta tradizionale vuole il guanciale tagliato a forma di mignolo, metà grasso e metà magro: è vero che in generale è più grasso della pancetta ma è parte integrante del sapore tipico della carbonara». A proposito: per Colonna è un errore arrostire il guanciale che va invece fatto sudare, cioè deve restare morbido.

IL PROGRAMMA. Tante le iniziative programmate dall' Unione Italiana Food in occasione del Carbonara Day 2021 a partire alle 12 dalla colossale seppure virtuale spaghettata social sui canali WeLovePasta. Una maratona non stop che già ieri contava 1,4 milioni di contenuti caricati su Instagram con l' hashtag #Carbonara. Ideato dai pastai dell' Unione Italiana Food, nelle passate cinque edizioni il CarbonaraDay ha toccato una platea di oltre 1 miliardo di persone. Il tema di quest' anno saranno proprio le ricette sbagliate. «Ognuno di noi è passato attraverso svariati tentativi spesso anche fallimentari», commenta invece lo chef romano Luciano Monosilio, che fino a mezzanotte coordinerà gli interventi sui canali WeLovePasta.

LA RICETTA DELLA CARBONARA. Da "il Messaggero" il 6 aprile 2021. Per 4: 400 g spaghettoni, 4 tuorli, 2 fette di guanciale, 4 cucchiai di pecorino stagionato, pepe in grani da macinare. Rendere rovente una padella antiaderente senza olio o burro. Tolta dai fuochi, poggiarvi sopra il guanciale tagliato a forma di mignolo, facendo sfumare un dito di vino bianco. Intanto, in una ciotola unire tuorli, pecorino romano, pepe e, se piace, parmigiano reggiano. Mantecare il tutto con una frusta e alla fine aggiungere il guanciale sudato. Scolare la pasta al dente, non troppo asciutta, versandola nella ciotola con il condimento. Continuare a mantecare a bagnomaria, cioè ponendo la ciotola su una pentola con acqua calda. Questo è il segreto per mantenere la carbonara cremosa e ben calda. Antonello Colonna 1 Stella Michelin

Alessandro Vinci per corriere.it il 23 febbraio 2021. Carbonara con pomodoro. Tre parole e venti lettere per descrivere una ricetta che farebbe accapponare la pelle a ogni italiano che si rispetti. Con tanto di effetto sorpresa, perché a concepire una tale eresia culinaria non è stato un improvvisato creator in vena di esperimenti, ma addirittura il New York Times. O meglio, la sua collaboratrice per la sezione «Cooking» Kay Chun. E le reazioni dei lettori di casa nostra non si sono fatte attendere.

«Gusto brillante». «Smoky tomato carbonara» («Carbonara affumicata al pomodoro»): questo il nome della pasta della discordia, condivisa dalla prestigiosa testata Usa anche sui suoi profili social. «I pomodori non saranno tradizionali nella carbonara – premette la didascalia che accompagna il link – ma danno un gusto brillante a questo piatto». Effettivamente è proprio quanto recita il testo della ricetta, tra i cui ingredienti figurano non solo «due cucchiai di concentrato di pomodoro» per arricchire (o rovinare, a seconda dei punti di vista) il classico sugo all’uovo, ma anche «8 once (poco più di 200 grammi, ndr) di pomodorini tagliati a metà» da aggiungere nelle ultime fasi della cottura. Non bastasse, Chun impiega il parmigiano al posto del pecorino e la pancetta al posto del guanciale «poiché è facilmente reperibile e fornisce una bella nota affumicata»: altri due sgarbi in piena regola ai puristi della pietanza.

Pioggia di commenti. Apriti cielo: pubblicato giovedì sera, il post non ha impiegato molto a incassare centinaia di commenti simpaticamente antiamericani. Su Twitter si legge per esempio: «Non toccate il nostro patrimonio culturale, limitatevi agli hamburger», «Siete appena atterrati su Marte… ma non riuscite a capire una ricetta così semplice», «Ok, questo è davvero troppo» e «Lo state facendo solo per fare un dispetto a noi italiani, non è vero?». Qualcuno fa anche il verso alla già citata didascalia: «Coste ghiacciate e abbondanti banchise non saranno tradizionali su una spiaggia tropicale, ma danno un freddo brillante a questa vacanza ai Caraibi». Geniale. Il popolo di Facebook non si dimostra da meno: «La verità è che non ve la meritate la carbonara», «La carbonara non è un’opinione», «No, no, ve prego. Questo è un peccato capitale» e «Sarebbe come giocare a calcio con un pallone quadrato».

Un utente analizza poi: «Il pomodoro non ha senso anche se qualcuno volesse “decostruire” il piatto. È troppo acquoso, non si mischia assolutamente col genere e la cottura dell’uovo, rovinerebbe il gusto del guanciale (o pancetta, o speck o zucchine nella variante vegetariana) il cui punto è essere croccante». Impossibile dargli torto. Eppure diverse lettrici hanno raccontato, commentando la ricetta sul sito, di essere rimaste piacevolmente sorprese dalla sua riuscita.

Un piatto «americano»? Curiosamente, le origini stesse della carbonara potrebbero essere legate proprio agli Stati Uniti. Secondo la cosiddetta «ipotesi alleata», infatti, il piatto sarebbe nato nel periodo immediatamente successivo alla liberazione di Roma del 1944, quando qualcuno ebbe l’idea di condire la pasta con la pancetta e le uova (in polvere) che le truppe americane distribuivano alla popolazione. In particolare, a diffondere la ricetta nella Capitale sarebbe stato il cuoco bolognese Renato Gualandi, all’epoca al seguito dei vertici militari alleati. Tuttavia c’è chi sostiene si tratti dell’evoluzione di un piatto di origini abruzzesi che anticamente si chiamava «cacio e ova». Alla misteriosa questione il giornalista del Corriere Alessandro Trocino ha perfino dedicato un libro: «La carbonara non esiste», edito da Giunti nel 2019. Una cosa è però certa: questa del pomodoro non si era davvero mai sentita.

·        Il Tortellino.

Carlo Ottaviano per "il Messaggero" il 25 dicembre 2021. Se esistesse un San Tortellino, oggi sarebbe la sua festa (secondo l'International Food Day, che ha decretato il 14 dicembre la Giornata internazionale del tortellino in brodo). Ma come per i nomi propri, anche in altre date si celebra uno dei piatti più amati nelle fredde giornate d'inverno. Del resto, non c'è certezza neanche sull'origine, sugli ingredienti, sullo stesso nome (cappelletti, altrove). Un punto fermo poche settimane fa hanno provato a metterlo a Bologna dichiarando il tortellino bolognese De.Co. (Denominazione comunale), a condizione d'esser fatto con prosciutto, mortadella, lombo di maiale, parmigiano, uova e noce moscata. Ma stiamone certi dalle vicine città emiliane la contestazione non tarderà ad arrivare. L'unica certezza è che i tortellini devono avere la forma del perfetto ombelico di Venere (ma chi l'ha visto mai?) e il ripieno di carne. C'è chi giura sintetizziamo da Storia della pasta in 10 piatti di Luca Cesari, edito da ilSaggiatore - che sia frutto di un'ispirazione divina: lo avrebbe inventato un oste guercio e bolognese di Castelfranco Emilia affascinato dalla vista dell'ombelico della dea Venere: «Preda di una bramosia creativa, si precipita in cucina dove afferra un dischetto di sfoglia e, a forza di rigirarlo sulle dita, riesce a riprodurre le forme del divin bellico». In realtà i ricettari spiega Cesari nel volume premio Bancarella Cucina 2021 - raccontano una storia diversa da quando un anonimo cuoco ne scrive nel 1501 a quando a fine Ottocento Pellegrino Artusi tramanda la ricetta odierna (salvo la sostituzione del midollo di bue col lombo di maiale). Innumerevoli le varianti. C'è chi mette tutte le carni a crudo, chi utilizza al posto del vitello il petto di tacchino; chi dosa in modo diverso i vari ingredienti e chi taglia i tortellini, invece che a quadrati, a dischi. La disputa su quale sia la ricetta originale rimane insanabile. Il ripieno, più che la forma, caratterizza la provenienza geografica. La sfoglia, preparata in precedenza con uova e farina, deve essere comunque sottile e tagliata in quadretti della dimensione di pochi centimetri. I quadretti vengono poi ripiegati con il ripieno. Si procede quindi alla piegatura formando un triangolo le cui estremità si uniscono facendole ruotare attorno al dito indice. Tante versioni anche nel resto d'Italia. I parenti fuori regione più stretti sono i piemontesi agnolott del plin. Il nome deriverebbe da un cuoco di nome Angelòt e dal dialettale plin, cioè pizzicotto, il gesto per chiudere il rettangolino di pasta. Ovviamente, i grandi chef non sono rimasti a guardare. Il più noto Massimo Bottura che è di Modena li ha trasformati in minuscola Arca di Noè (il nome che gli ha dato). «Le nostre nonne -racconta dicevano che per fare un grande brodo serve il piccione; per un brodo raffinato la faraona; che non va mai buttato il brodo ricavato dalla testa del maiale (quando lo sgrassi bene, nelle notti fredde della pianura, esce il suo lato più buono e gustoso). Sentiti questi racconti, il mio sous chef Yoji Tokuyoshi, dopo aver scoperto lungo il Po altre ricette di brodo con rane e anguille, ha voluto contaminare la tradizione con la cultura del suo Giappone, ritrovando l'umami perfetto con l'alga kombu al posto del Parmigiano Reggiano. A questo punto è nato un brodo poliglotta». L'unico limite di questi e di tutti i tortellini? Che il piatto ne accoglie sempre troppo pochi.

·        Il Pane.

Quanto pane si consuma in Italia, tutti i dati. Vittorio Ferla su Il Riformista il 20 Marzo 2021. La pandemia cambia i comportamenti di acquisto dei consumatori italiani. Che hanno frequentato meno i supermercati, in parte dirottando le proprie preferenze verso prodotti con un periodo di vita più lungo. I timori di contagio hanno condizionato le scelte di consumo e le principali categorie che ne hanno risentito sono state quelle dei prodotti freschi serviti al banco. Lo confermano i dati emersi dal sondaggio che, a febbraio, l’Istituto Piepoli ha condotto sul settore del bakery salato su un campione di 500 casi rappresentativo della popolazione italiana. Dall’indagine emerge che otto italiani su 10 consumano pane fresco o pane sfuso, sia di panetteria sia del supermercato. Una percentuale che sale fino all’87% nel sud Italia. «Il consumo di pane fresco cambia a seconda delle aree regionali», avverte Tommaso Pinna, direttore commerciale dei supermercati Crai, un’azienda in grande espansione, che dalla Sardegna si sta diffondendo nel centro Italia con una crescita di fatturato e di negozi sorprendente. «Il nord consuma meno pane fresco rispetto al centro sud, forse perché – spiega Pinna – l’offerta si rivolge molto verso il mondo del take away, cosa che non accade al centro sud, dove si è mantenuto un rapporto con il pane prodotto nel proprio territorio». È invece pari al 10% della popolazione la quota di coloro che non mangiano pane fresco, ma consumano dei sostitutivi come il pane confezionato lunga conservazione, i crackers, i taralli, e altri prodotti simili. La ricerca mette in luce un piccolo calo del consumo di pane “tradizionale” (-2%): sono in particolare le donne ad aver ridotto l’utilizzo del pane nell’ultimo anno (-6%). All’opposto, in base a quanto dichiarato dagli intervistati, il consumo di pane confezionato e dei prodotti sostitutivi è in crescita di 4 punti percentuali. Il 42% degli intervistati afferma di porre sempre attenzione alla tipologia di farina utilizzata nella lavorazione dei prodotti: si tratta principalmente di donne (48 su cento), mentre il 41% lo fa qualche volta oppure raramente. Un altro aspetto molto importante è la provenienza delle materie prime utilizzate: le metà degli italiani interpellati ritiene fondamentale l’origine 100% italiana. Per i consumatori è inoltre rilevante che pane e sostitutivi siano “biologici” (32%) e realizzati con farine integrali (27%). Il “senza glutine” è di interesse per il 14% del campione. Ma come sono andate le vendite della grande distribuzione all’interno delle varie categorie della prima colazione nel 2020, l’anno del cambio dei consumi? I dati relativi all’acquisto di panificati nei supermercati ci dicono che i consumatori hanno diminuito gli acquisti verso il banco servito (pane e pasticceria) ed incrementato quelli secchi o freschi da frigo. Fino al febbraio del 2020, il settore “freschissimi” del pane e della pasticceria produceva il 67% del fatturato a fronte dei sostitutivi del pane che producevano il 33%. Dal lockdown in poi c’è stato invece un crollo, proseguito fino a maggio e seguito da una ripresa costante sino al mese di gennaio 2021. Interessante, infine, la performance del comparto della prima colazione che, nel 2020, nel complesso delle sue categorie, fattura oltre 10 miliardi di euro e cresce del 6%. 

La guerra del pane tra mafia, ebrei e fronte sindacale. La tradizionale ciambella americana diventò un tale affare che spinse i clan Lucchese e Genovese a entrarvi con la forza. La resistenza dei panificatori. Roberto Pellegrino, Domenica 20/12/2020 su Il Giornale. Tonda con un buco in mezzo, da non confondere con la donut, la ciambellina fritta e spruzzata di zucchero, perché il suo impasto è simile a quello del pane, ma più denso. Le bagel sono alla base dell'alimentazione statunitense, esportate con successo ovunque. La pagnotta yankee, però, dietro le sue numerose farciture, nasconde un secolo di lotta violenta per il suo lucroso mercato, orchestrata dalla mafia italoamericana, sindacati e panificatori ebrei fuggiti dai nazisti. Ogni mattino negli Stati Uniti tre miliardi di bagel sono sfornate dai panificatori e un altro miliardo è prodotto dall'industria alimentare. Create negli anni Venti da un ebreo ashkenazita, emigrato in America dall'Europa dell'Est, per la mancanza di sale, nell'impasto originale, le bagel divennero subito il pane quotidiano della popolosa comunità ebraica della costa orientale. Questo ignoto panificatore, non arrostiva, ma bolliva in acqua le ciambelle, completandole in forni a vapore. Dagli anni Venti ai Sessanta le bagel invasero gli Stati Uniti, prodotte esclusivamente dai forni artigianali ebrei di New York. I cinque milioni di dollari annui di fatturato del 1929 divennero cinquanta milioni nel 1960. Poi le bagel, col boom economico degli anni Sessanta, inondarono anche l'Europa, diventando una moda alimentare. Produrle era più proficuo che comprare titoli petroliferi e gli artigiani panificatori ebrei, morti di fame in Europa, adesso si compravano ville milionarie negli Hamptons. Un flusso simile di denaro non poteva sfuggire alla mafia italoamericana, che, nella seconda metà degli anni Cinquanta, minacciando fornitori, panificatori e sindacati ebrei, iniziò la sua scalata alle bagel. Erano gli anni delle due potenti famiglie, i Lucchese e i Genovese, boss del gioco d'azzardo ad Atlantic City e Las Vegas, magnati della prostituzione, delle armi e del nascente traffico di stupefacenti. Mollarono il mitra e si allearono per quelle pepite d'oro di farina. Un solo ostacolo disturbava i mafiosi: a non volersi piegare alle loro pretese era il potente sindacato creato ad hoc dai panificatori ebrei di bagel, il Local 338. Dettava legge su un mercato da ottanta milioni di dollari con margini di guadagno altissimi e un milione d'iscritti. Jason Turbow, nipote di uno dei fondatori ebrei ha raccontato la guerra delle ciambelle. «Gestire il mercato delle bagel per i Lucchese e Genovese era un gioco da ragazzi, a parte il sindacato che dopo avere subito intimidazioni, incendi dolosi e gambizzazioni, si era ricompattato. Le bagel fruttavano tanto e non c'erano i rischi del mercato dell'eroina». Quando nel 1927 i panificatori di bagel fondarono l'Union Local 338, i pesanti turni da dieci ore e le condizioni di lavoro a sessanta gradi, furono regolamentati e i salari aumentati. Un dipendente panificatore di bagel negli anni Sessanta guadagnava più di un elettricista e aveva l'assicurazione medica. Gli iscritti erano gli unici in grado di cuocere le «ciambelle ebree col rigor mortis», come erano chiamate con disprezzo dai puristi del pane, per la loro inconfondibile durezza. Chiunque avesse voluto produrle, doveva assumere uno dei suoi iscritti. E chi non seguiva le regole, subiva i picchetti fuori dal forno. Il Local 338 era un'organizzazione chiusa e potente, dove erano ammessi solo figli e parenti dei fondatori. Impenetrabile perché tutti parlavano in consiglio solo in yiddish, mentre le mani della mafia si allungavano sui forni grazie a Giovanni Ignazio Dioguardi, detto Johnny Dio, il potente uomo della famiglia Lucchese. Il boss aveva portato nelle mani della mafia italoamericana quasi tutti i sindacati dell'East coast. Johnny era amico intimo di Jimmy Hoffa, il controverso sindacalista. A lui nel 1957, Dioguardi aveva fatto vincere le elezioni dell'International Brotherhood of Teamsters, il potentissimo sindacato degli autotrasportatori, truccando le elezioni. Nel 1963 Dioguardi, dopo una condanna a tre anni di carcere per evasione fiscale, entrò alla Consumer Kosher Provisions, produttrice di carne kosher. Consumer era in competizione commerciale con American Kosher Provisions del gangster Max Block che imponeva i suoi prodotti a fucilate ai supermercati. Dioguardi trasformò la Consumer in First National Kosher Provisions per mangiarsi l'intero settore alimentare ebreo. Era nata «Kosher Nostra» che voleva anche le bagel. Dioguardi con la W&S Baking Corporation, un'industria del Bronx che usava manodopera non specializzata e sindacalizzata e una macchina da mezzo milione di ciambelle a settimana. Johnny Dio impose ai panificatori ebrei di spegnere i forni e rivendere le sue bagel industriali, dichiarando guerra al Local 338 che accettavano solo prodotti fatti a mano. Allora il sindacato chiamò i Bagel Boys, i pretoriani della ciambella doc del boss Thomas Eboli, temutissimo capo dei Genovese. Dopo un paio di sparatorie, Eboli e Dioguardi s'incontrarono e la W&S fu scaricata perché Johnny si alleò con i Boys. La Local 338, accerchiata dalle due più potenti famiglie mafiose d'America, però riuscì a far approvare ai mafiosi un nuovo contratto per i panificatori che stavano fuggendo dal sindacato indebolito e che, a breve, sarebbe stato spazzato via dalla Lender's, un colosso industriale da cento milioni di bagel al mese. Impiegava tre operai non specializzati che lavoravano come otto abili artigiani. Nel 1965 Lender's era la più grande azienda al mondo di bagel. Nel 1967 il consiglio degli anziani rabbini era debole e poco influente, mentre gli iscritti erano quasi scomparsi e le bagel erano congelate e cotte in qualsiasi bar. L'era d'oro della ciambella era finita. Mafia e sindacati erano stati piegati dall'industria.

Michetta milanese, il pane nato durante l'occupazione austro-ungarica. Monica Cresci il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. La michetta, emblema meneghino della cucina e della tradizione di un tempo, vanta una storia antica e una lavorazione unica al mondo. Croccante, leggera e fragrante: la michetta è il simbolo incontrastato di Milano, in grado di insidiare il podio della tradizione anche al risotto giallo e al panettone. Eppure questo pane così particolare, lavorato con cura e passione, è legato indissolubilmente alla città meneghina e alla sua storia, anche se le sue origini giungono da lontano. Scopriamo insieme il suo percorso attraverso il tempo e la cultura.

Michetta, le origini

La michetta è un pane con natali antichi: la sua genesi è una conseguenza diretta della presenza nel 1700 dell'impero austro-ungarico sul territorio lombardo e, in particolare, di alcuni funzionari austriaci che importarono alcune prelibatezze alimentari. Tra queste il kaisersemmel, o kaiser, un panino tipico dell'Austria dalla forma tonda, dalla consistenza soda e croccante. Un alimento della tradizione caratterizzato da una serie di incisioni, presenti sulla parte superiore, che rimandano all'immagine di una corona. Gli austriaci non erano grandi appassionati del pane locale, una particolare pagnotta ruvida, impastata a mano e in grado di produrre molte briciole se tagliata o spezzata. Da qui il nome in dialetto milanese micca, ovvero briciola. Per non soffrire la nostalgia di casa imposero la produzione del kaiser, ma i primi tentativi di panificazione si scontrarono con la tipica umidità milanese, in grado di incidere sul pane stesso rendendolo più molle e gommoso. Lontano dall'effetto fragrante e croccante del panino tanto amato dagli austriaci.

Preparazione e lavorazione 

La necessità di replicare l'aspetto leggero e friabile del kaiser spinse i panificatori locali ad effettuare innumerevoli tentativi, fino a giungere alla perfezione finale. Un pane croccane all'esterno ma vuoto e leggero internamente, fortemente digeribile e in grado di durare più a lungo. Un prodotto più elegante della micca ma che i panificatori milanesi ribattezzarono michetta, così da prendere le distanze dai dominatori, evitando di omaggiare l'imperatore con la nuova creazione culinaria.

Questa prima versione della michetta dovette attendere ben due secoli per assumere le sembianze definitive, quelle che ancora oggi la elevano a simbolo della città. Infatti la più diffusa rosetta continuò a sopravvivere fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Furono gli americani a dare una svolta alla storia della michetta, non solo portando tutti gli aiuti necessari ma anche una particolare farina, nata da un grano forte e resistente al freddo proveniente da Manitoba, una provincia del Canada Occidentale. Un prodotto che i panettieri, noti dialettalmente come prestinai, impiegarono e lavorano con successo e cura, ottenendo così la leggerissima e duratura michetta definitiva.

Un simbolo senza tempo 

La michetta, pane friabile e fragrante, è caratterizzata dalla quasi assenza di mollica che la rende leggera, letteralmente "soffiata". La parte superiore è il vero marchio di fabbrica, una sorta di struttura a stella con un cappello centrale. Non a caso nella zona bergamasca è nota anche come stellina. Da sempre pane semplice e molto amato, la michetta è legata al mondo operaio e all'infanzia, perché facile da tagliare e farcire con salumi, formaggi, marmellate e anche con i classici cubetti di cioccolato. È stata celebrata grazie a svariati omaggi come la poltrona creata dal designer Gaetano Pesce, mentre nel 2007 il Comune di Milano le ha dedicato il riconoscimento De.Co. (Denominazione Comunale), assegnato ai prodotti gastronomici tradizionali milanesi. Caduta nel dimenticatoio per un lungo periodo, la vera michetta milanese, negli ultimi anni, ha ritrovato splendore grazie alla passione di alcuni panificatori di zona e alcuni negozi tematici. Piccola, leggera e fragrante, la michetta rimane un evergreen senza tempo, in grado di cavalcare la memoria personale portando a galla i ricordi più dolci del passato. Monica Cresci

·        La Pizza.

“Chicago capitale della pizza”, anche se è solo un evento scatena le polemiche dei napoletani. Rossella Grasso su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Di prima mattina il comune di Chicago, metropoli dello stato del New Jersey, twitta orgoglioso: “Orgogliosi di essere la capitale mondiale della pizza”. Misteriosamente, improvvisamente, la città si autoproclama capitale della pizza? Niente affatto, semplicemente il 9 febbraio hanno deciso di festeggiare il “National Pizza Day”, come spiega l’hashtag che segue il lieto annuncio: #nationalpizzaday. E così la città ha diffuso l’iniziativa sui social. Nessuna prevaricazione nei confronti di Napoli o dell’Italia insomma, si tratta solo di una trovata commerciale. “Un americanata” direbbe qualcuno, visto che quel dichiararsi di essere “capitale del mondo della pizza” è forse un po’ eccessivo. Di vero c’è che l’Italia potrebbe imparare dalla megalomania americana per valorizzare meglio la pizza, patrimonio Unesco.

LA REAZIONE DEI NAPOLETANI – I napoletani, popolo orgoglioso per antonomasia non l’ha presa affatto bene e in pochi minuti è partita a raffica la pioggia di commenti. Il più illustre quello di Salvatore Esposito, il Genny Savastano di Gomorra che ha commentato ironico: “Dopo Napoli, miei amici americani”. Gli insulti sono partiti a raffica ma anche l’ironia: “È come se dicessi che il sushi è portoghese, fly down”, “Proclamiamo Milano capitale del Sushi nel mondo”, “E il festival di Sanremo lo faremo nel Mississippi”, “Ah sì, la tipica pizza di Chicago mangiata nderr merg coi frat fidat”, “Chicago ti piacerebbe…” e infine “fratè, se voi siete capitale mondiale della pizza, Napoli è capitale mondiale dell’intero sistema solare”.

DAGONEWS il 21 gennaio 2021. Sapete qual è il cibo da asporto più popolare al mondo? Ovviamente la pizza! Se in Europa, e ovviamente in Italia, la scelta è quasi ovvia, la Gran Bretagna, gli Usa e l’Australia amano il cibo cinese mentre in Russia si opta per il kebab take-away. La mappa è stata generata utilizzando i dati sulla cucina da asporto nelle ricerca di Google. La pizza è al primo posto in 44 paesi, tra cui anche l’India e la Germania, mentre il cibo cinese è il secondo, arrivando al primo posto in 29 paesi. Il sushi è al terzo posto, essendo il cibo da asporto più ricercato in 10 paesi, tra cui la Svezia e, ovviamente, il Giappone.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 17 gennaio 2021. How do you say pizza? Come dite pizza voi? Potrebbe essere questa una delle frasi più usate oggi sui social. In tutto il mondo si celebra infatti il Vera Pizza Day: fino a mezzanotte, in diretta streaming, pizzaiuoli, cuochi, appassionati celebreranno uno dei piatti più consumati in tutti i continenti. Un calcolo esatto è impossibile, ma per approssimazione si ritiene che ogni anno si producano tra 5 e 6 miliardi di pizze per un giro d' affari di almeno 70 miliardi di dollari. La maratona di oggi organizzata dall' Associazione Vera Pizza Napoletana vedrà alternarsi su Facebook esperti nelle più svariate lingue, dall' arabo al coreano, al thailandese per chiudere a notte fonda rigorosamente in napoletano. Agli spettatori si chiede solo di munirsi di mezzo litro d' acqua, un chilo di farina 00, lievito di birra fresco, sale, pomodoro pelato, fiordilatte o mozzarella di bufala, olio extravergine e basilico e prepararsi a seguire i consigli in diretta per sfornare un prodotto a regola d' arte. Alla vigilia del Pizza Day, Coldiretti ha condotto una ricerca secondo cui la forzata chiusura causa Covid delle 60 mila pizzerie italiane spinge quattro italiani su 10 a prepararsela da soli. «Sarà una non stop senza precedenti afferma Antonio Pace, presidente dell' associazione che è il risultato di anni di lavoro. Soltanto qualche tempo fa sarebbe stato impensabile ipotizzare un evento coinvolgendo colleghi di Los Angeles, Istanbul, Il Cairo, Marsiglia, Tokyo e Melbourne e altre città in tutti i continenti in un fil rouge che unisce popoli, storie e culture diverse tra loro nel nome della vera pizza napoletana». Il via è stato dato allo scoccare della domenica con l' accensione del fuoco di Sant' Antuono a Capodimonte. Il Vera Pizza Day cade infatti proprio nel giorno in cui si celebra sant' Antonio Abate, generoso protettore non solo di panettieri e pizzaioli ma di una caterva di altri lavoratori: macellai e salumai, contadini, canestrai, norcini, allevatori di animali domestici e, in collaborazione con Santa Barbara, dei pompieri. L'eremita egiziano (e non è un caso che gli egiziani siano tra i migliori fornai al mondo) è famoso nella lotta contro il diavolo come recita la famosa filastrocca «Sant' Antonio, Sant' Antonio, lu nemico de lu demonio». Da santo capace di strappare le anime dei dannati alle fiamme dell' inferno, a patrono di chi deve governare il fuoco per la pizza perfetta, il passo non è brevissimo, ma logico. In effetti a lui dovrebbero rivolgersi anche i consumatori a tutela della vera arte della pizza napoletana, dichiarata dall' Unesco patrimonio immateriale dell' Umanità nel 2017. Non esiste, invece, un atto di nascita della pizza. «Come tutte le invenzioni che hanno inciso nella vita quotidiana di ciascuno di noi scrive il giornalista e storico della pizza Luciano Pignataro in La Pizza, una storia contemporanea (Hoepli) resta un mistero che nessuno potrà mai risolvere. Le similitudini e le affinità con cibi mediterranei a base di cereali lasciano il tempo che trovano, sono una curiosità spesso solo letteraria o antropologica perché il punto è che la pizza napoletana si distingue in maniera netta e precisa da ogni altra forma di lievitato cotto in un forno. Si tratta sicuramente di un' evoluzione, ma anche di una specializzazione: nella manipolazione dell' impasto come nella cottura». Diversamente, un padre certo c' è per la pizza Margherita con i colori d' Italia rosso pomodoro, bianco mozzarella, verde basilico che fu offerta da Raffaele Esposito alla Regina Margherita di Savoia, per la prima volta in visita a Napoli nel 1889. Negli anni recenti la pizza è diventata piatto gourmet ma sempre a prezzo accessibile. Però alla fine gli stili preferiti della Napoletana restano i classici: a ruota di carro soffice ed elastica, più panosa per i benestanti, col cornicione a canotto. In ogni caso, come cantava nel 1993 Pino Daniele, «Fatte na pizza c' a pummarola ncoppa, vedrai che il mondo poi ti sorriderà».

·        Il Sale.

Cinquanta sfumature di sale. Report Rai PUNTATA DEL 28/10/2019 di Chiara De Luca. Rosa, viola, nero, grigio: sono i colori dei nuovi tipi di sale che negli ultimi anni si sono diffusi sul mercato. Nell'immaginario collettivo hanno fama di essere salubri. Alcuni produttori e importatori infatti li pubblicizzano come ottimi per la salute e ricchissimi di oligoelementi. Report proverà a capire se sia giusto dare questo tipo di informazione, dal momento che l’Organizzazione Mondiale della Sanità consiglia un uso moderato del sale. Effettivamente le etichette che dovrebbero informare il consumatore non danno le giuste specifiche: qual è il punto di vista di chimici e nutrizionisti e quello di chi questi sali li immette sul mercato? 

CINQUANTA SFUMATURE DI SALE Di Chiara De Luca

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Nel 2018 l’Italia ha prodotto 261mila tonnellate di sale, ma ne ha vendute circa 300mila per un valore di 35 milioni di euro. Nonostante ci siano 6 siti marini e 4 siti minerari attivi, solo nei primi mesi del 2019 l’Italia ha importato 34 milioni di euro di sale. Questo perché negli ultimi anni vanno di moda nuovi tipi di sale. Sono di vario colore, rosa, rosso, grigio, nero e a leggere alcune etichette farebbero anche bene alla salute. C’è chi li presenta come ricchissimi di oligoelementi zolfo, ferro, calcio potassio, zinco, rame o chi li consiglia perché naturalmente iposodici. Ma è davvero così?

DANIELA MAURIZI - CONSIGLIERE ORDINE NAZIONALE CHIMICI Dal punto di vista chimico sono tutti sali identici questi sono dei sali con delle impurezze, chiaramente se lei mi dice se c’è un valore vero qua dentro perché debba costare, a volte anche 100 volte di più di un sale normale, da chimico rispondo chiaramente di no.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eppure siamo disposti a pagarle di più, queste 50 sfumature di sale, semplicemente perché ci hanno sedotto. Buonasera. Insomma, ecco: attribuiscono una provenienza esotica e dei colori suadenti. Ma da dove viene effettivamente il sale? Cos’è che dà il colore? Ecco, è tutta una questione di marketing. Questo nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia raccomandato di limitare l’uso del sale. Sarebbe anche vietata la pubblicità del sale, a meno che non si tratti di quello iposodico o asodico. E se poi vuoi raccomandare un elemento, la ricchezza di un elemento rispetto ad altri, questo deve soddisfare almeno il 30% del fabbisogno medio giornaliero. E invece c’è il far west in salamoia. La nostra Chiara De Luca.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Da una parte c’è l’Organizzazione Mondiale della Sanità che raccomanda di non superare i 5 grammi al giorno, dall’altra chi li produce o chi li importa pubblicizza i sali colorati addirittura come benefici vendendoli, di conseguenza, a prezzi maggiorati.

DONNA Ad alta quota mi dicono che sia un sale migliore.

CHIARA DE LUCA Migliore per cosa?

DONNA Non glielo so dire.

DONNA Ogni tanto compro il sale rosa dell’Himalaya perché mi piace di più.

DONNA Anche il sale integrale lo preferisco.

CHIARA DE LUCA Quindi anche per una questione salutistica lei sceglie magari un sale rosa piuttosto che… DONNA Soprattutto per una questione di salute.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A convincere i consumatori ci si mettono anche le commesse che si improvvisano nutrizioniste.

COMMESSA Fa un po’ meno male del sale quello che trovi al supermercato proprio perché all’interno del fegato fa una reazione diversa.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma questo qui dell’Himalaya?

COMMESSA Sì, questo rosa. Per questo ti dicevo, se lo stavi prendendo per una questione medica quello.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Perché “per una questione medica?”

COMMESSA Perché in genere viene consigliato alle persone che fanno dialisi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per verificare l’attendibilità delle informazioni che ci ha dato la commessa, abbiamo fatto analizzare dei campioni di sale.

DANIELA MAURIZI - CONSIGLIERE ORDINE NAZIONALE DEI CHIMICI Effettivamente non si hanno differenze con il sale da cucina normale. Possiamo vedere che la normativa di riferimento ci dice che al giorno noi dobbiamo assumere 14mg di ferro. Il sale grigio di Bretagna ha 36 mg su 100 g quindi vuoi dire che io al giorno sto assumendo tramite questi sali 1,8 mg di ferro. Quindi me ne servono circa 10 volte di più.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per coprire il fabbisogno di ferro, dovremmo perciò ingurgitare 50 grammi di sale invece dei 5 consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. E infatti il ferro noi dovremmo ricercarlo in altri alimenti, non nel sale. E la colorazione non è indice di salubrità.

DANIELA MAURIZI- CONSIGLIERE ORDINE NAZIONALE DEI CHIMICI Questo colore rosa è perché c’è dell’ossido di ferro che in chimica è la ruggine. Mentre il sale grigio di Bretagna è un sale sporco. Il sale nero delle Hawaii è nero, perché viene aggiunto del carbone vegetale.

CHIARA DE LUCA Eppure si è diffuso questo benessere legato all’etichetta sale rosa, sale colorato.

ENZO SPISNI - DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE - UNIVERSITA DI BOLOGNA É chiaro che il sale è un alimento che costa così poco, se io trovo il modo di vendere il sale 30/50 volte il prezzo che in realtà è il valore di questo sale, faccio un bel business, no?

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma non tutto è come appare: il sale rosa è definito dell’Himalaya ma in realtà viene estratto nella miniera di Khewra nel Punjab in Pakistan, un sistema di montagne che dista qualche centinaio di km dalla nota catena montuosa.

ENZO SPISNI - DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE - UNIVERSITA DI BOLOGNA Ci sarebbe un obbligo di indicare la reale provenienza degli alimenti quindi il fatto di scrivere che questo sale viene dall’Himalaya se viene dal Pakistan non è proprio la stessa cosa.

CHIARA DE LUCA Sfatiamolo questo mito: il sale rosa non viene dall’Himalaya.

MAURIZIO TIANI - RESPONSABILE COMMERCIA ELIKA SRL Ma viene dal Pakistan. È stato utilizzato il nome Himalaya per dare un valore più importante al prodotto, a livello marketing visto che l’Himalaya è vicina.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Compagnia Italiana Sali, leader nella produzione di sale, in occasione del suo 50esimo compleanno, ha lanciato sul mercato una new entry, un sale indiano, definito anche questo dell’Himalaya il cui colore viola è dato dal solfuro di ferro. E non solo: per pubblicizzare il sale grigio di Bretagna sul sito viene definito naturalmente iposodico.

CHIARA DE LUCA Lei sul suo sito scrive che il sale grigio di Bretagna è naturalmente iposodico, in che modo lo è?

BRUNO FRANCESCHINI - AD COMPAGNIA ITALIANA SALI Si informi quali sono le regole e vedrà che il mio sale ha un certo contenuto di NaCl per cui può essere chiamato iposodico, non vedo perché devo giustificare quello che scrivo sul mio sito.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il manager di Compagnia Italiana Sali ci dice che il suo sale è composto per il 95% da cloruro di sodio, il che a suo dire giustificherebbe la dicitura “naturalmente iposodico”. Dalle nostre analisi risulta invece che è circa al 97%. Il fatto è che comunque per essere definito iposodico, non dovrebbe superare il 35%.

CHIARA DE LUCA Quindi è una pubblicità scorretta?

ENZO SPISNI - DOCENTE FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE - UNIVERSITA DI BOLOGNA Scorretta e pericolosa. Scorretta perché attribuisce delle proprietà nutrizionali ad un alimento che non ha queste proprietà nutrizionali, pericolosa perché tende ad aumentare il consumo di sale nei consumatori che invece dovrebbero essere preoccupati soltanto nel ridurre il consumo di sale.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il ministero della Salute sostiene che il regolamento 1924 del 2006 non prevede i claim nutrizionali o salutistici per promuovere proprietà del sale. Tuttavia nessuno controlla e sanziona.  

CHIARA DE LUCA Secondo voi è corretto indicare la ricchezza di un oligoelemento all’interno del sale?

ELISABETTA ROPOLO - AMMINISTRATORE DELEGATO ELIKA SRL Ho capito dove vuole arrivare, siamo sempre ai limiti del consentito.

CHIARA DE LUCA Qui c’è scritto è ricchissimo di minerali quali il calcio, il potassio, il manganese e il fosforo. Io l’ho fatto analizzare questo sale e sono presenti ma sono presenti in quantità talmente minime che dire “ricchissimo di” non fa altro che ingannare il consumatore.

MAURIZIO TIANI - RESPONSABILE COMMERCIA ELIKA SRL Li non viene dichiarato un falso, viene semplicemente detto che è ricchissimo. Se stiamo parlando che il ferro e, come in questo caso si evince dal colore che contiene ferro o sono dei minerali a base di ferro, è superiore a questo lo evince anche visivamente.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Non è certamente un paragone che giustificherebbe la dicitura “ricchissimo” ma comunque dalle nostre analisi risulta che il loro sale rosa dell’Himalaya contiene 13 mg di ferro, mentre il comune sale da cucina ne contiene ben 69.

CHIARA DE LUCA Nel momento in cui le mi scrive ricchissimo, mi deve indicare le quantità. Concorda con me?

MAURIZIO TIANI RESPONSABILE - COMMERCIA ELIKA SRL No, non ne sono sicuro. Non so le regolamentazioni

CHIARA DE LUCA Se lei mi scrive ricchissimo, mi deve indicare le quantità.

MAURIZIO TIANI RESPONSABILE- COMMERCIA ELIKA SRL Aggiungeremo le quantità se serve.

CHIARA DE LUCA Sul suo sito c’è scritto che il sale rosa, grigio, viola devono essere scelti per la loro valenza salutistica.

BRUNO FRANCESCHINI - AD COMPAGNIA ITALIANA SALI Certo perché è suggerito da fior fior di medici che ha una valenza salutistica; non l’ho detto io, non l’ho detto io.

CHIARA DE LUCA Quindi lei ha degli studi a dimostrazione di quello che afferma.

BRUNO FRANCESCHINI - AD COMPAGNIA ITALIANA SALI Certo è ovvio.

CHIARA DE LUCA Ce li potrebbe inviare?

BRUNO FRANCESCHINI - AD COMPAGNIA ITALIANA SALI No, non li invio, perché non ho voglia di inviarli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Probabilmente neanche li ha. Bene, abbiamo capito che intorno al mondo del sale ruota una serie di imprenditori che non la dicono tutta. Certo ha più appeal parlare di sale rosa dell’Himalaya che di sale arrugginito pakistano. Ci sono cascati tutti, anche io. Ecco, mentre le nostre autorità sono morbidine su questo, la Corte tedesca ha definito nel 2016 ingannevole questa denominazione. I produttori devono dichiarare chiaramente l’origine dove il sale viene prodotto. Questo secondo un regolamento europeo. Poi ci ha scritto Elika. Elika dice, ci ha fatto sapere che già da un po’ di tempo ha ritirato dal mercato quelle confezioni dove sopra c’era scritto “ricchissimo”. Peccato che la nostra Chiara però ne abbia trovata una, anzi più di una, pochi giorni prima di fare l’intervista. Ecco, poi noi gli avevamo detto di metterle le informazioni in più, non di toglierle, perché è un alimento delicate e se ne prendi troppo aumenta la pressione e poi sei costretto a prenderti una pillola, magari contaminata, prodotta in Cina o in India. Report può cominciare.

·        L’Olio.

Carlo Ottaviano per "il Messaggero" il 19 ottobre 2021. Siamo il Paese dai grandi primati nei concorsi internazionali per la miglior qualità dell'olio extravergine d'oliva. Adesso puntiamo a vincere anche con le olive da tavola.  Attualmente per consumo e produzione ci precedono gli spagnoli, ma la passione per le circa 80 varietà made in Italy cresce di anno in anno, tanto che negli ultimi 12 mesi nei soli supermercati sono stati spesi 226 milioni di euro: +18,3% annuo per le olive ripiene, +13% per quelle fresche e +10,4% per le miste. In verità sono sempre piaciute: nel I secolo dopo Cristo l'agronomo romano Columella le aromatizzava con l'aceto, il mosto, il lentisco, i semi di finocchio. Raccolte dall'albero ancora acerbe (quindi verdi) o più mature (nere) hanno però il pungente sapore amaro da eliminare. Come? In salamoia (acqua e sale) per una quarantina di giorni; sott' olio una decina di giorni in meno; venti giorni in tutto se ricoperte completamente di sale (grosso e fino) in barattoli chiusi; al forno, infine, per velocizzare (ma dopo averle tenute dieci giorni in acqua sempre pulita). L'Italia, patria della biodiversità col suo record di 533 cultivar da cui estrarre l'olio (la Spagna, primo produttore mondiale, ne ha solo 70) ha un patrimonio unico anche per le olive da tavola. In L'assaggio delle olive da tavola (OlioOfficina, 12 euro), l'esperto di analisi sensoriale e membro del Consiglio oleicolo internazionale Roberto De Andreis ne descrive le proprietà. Tra le più polpute, ecco l'Ascolana tenera, la grossissima Bella di Cerignola, la calabrese Carolea. Alcune fanno sorridere per i nomi che richiamano le forme: la Giarraffa siciliana è detta anche Cacata di chioccia; la buonissima Cucco abruzzese è nota come Coglioni di gallo. È più Gentile di nome e di fatto invece la Majatica di Ferrandina (Basilicata), adatta per la preparazione di olive essiccate. In Sicilia a Oriente c'è la Nocellara etnea, a Occidente la Nocellara del Belice. Anche se, nell'isola, la giovanissima chef Francesca Barone dichiara di «preferire in cucina la Verdese, che preparo con una salamoia arricchita con peperoncino, sedano, aglio e rametti di finocchietto selvatico. Mi piace perché è un'oliva molto profumata, dai forti sentori di carciofo e mandorla e ha un retrogusto amarognolo che esalta i sapori degli altri ingredienti». Se a Nord spopola sulle tavole la piccola Taggiasca, nel centro Italia la parte del leone la fa l'Itrana, più nota come Oliva di Gaeta Dop. Può essere verde o nera (anzi violacea). Come valutare una buona oliva? Uno dei criteri di De Andreis è che deve essere croccante e fare quasi rumore quando si addenta. Non va bene se vi sembra di aver mangiato una pesca sciroppata; ok invece se v' è sembrato di aver spezzato un gambo di sedano. Il team di OlioOfficina ha anche predisposto delle Schede di assaggio (come si fa per il vino), con i parametri per valutare salato, amaro, acido nonché durezza, fibrosità, croccantezza. Infine, scelta la varietà e selezionata la più buona, per gustarla non serve stupire con gli effetti speciali degli chef: provatene una solitaria col Martini, usatele per arricchire un'insalata o dare gusto a una bruschetta. O anche mangiatele semplicemente nude e crude.

Dagospia il 30 aprile 2021. Comunicato stampa. Il nuovo test del mensile Il Salvagente, in edicola da venerdì 30 aprile, condotto in collaborazione con il laboratorio chimico dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Roma, svela che ben 7 miscele di oli extravergine di oliva comunitari e non sui 15 analizzati al panel test sono risultati essere dei semplici oli di oliva vergine. Nessun danno per la salute del consumatore quanto invece per le tasche: un olio extravergine infatti costa dal 30 al 50% in più rispetto a un olio vergine. L’inchiesta del mensile Il Salvagente arriva a sei anni dalla prima che contribuì a denunciare la scarsa qualità degli extravergini in commercio: anche in quell’occasione la metà dei prodotti analizzati - 9 campioni su 20 - vennero declassati a vergine dal panel test delle Dogane. Dopo la pubblicazione dei nostri risultati la Procura di Torino con l’allora procuratore Guariniello aprì un fascicolo di indagine con l’ipotesi di frode in commercio nei confronti dei marchi coinvolti e l’Autorità Antitrust indagò e multò alcune delle stesse aziende per pratica commerciale scorretta. Un olio per essere definito e venduto come extravergine deve rispettare i parametri chimici previsti dalla normativa e superare la prova del panel test, obbligatoria per legge dal 1991 (Reg. Ue n. 2568/91 e successive modificazioni) e condotta da assaggiatori esperti e allenati, senza presentare difetti organolettici. L’attribuzione anche di una sola nota negativa dagli assaggiatori accreditati ne decreta il declassamento, ad esempio dalla categoria “extravergine” a quella inferiore di “vergine”. Il Comitato di assaggio del Laboratorio chimico dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Roma al quale il Salvagente si è rivolto per sottoporre alla prova organolettica i 15 oli è accreditato Accredia, riconosciuto dal Coi, il Consiglio oleicolo internazionale ed è uno dei pochi accreditati in Italia per le analisi di revisione. Il panel test non è prova soggettiva come spiega Stefano Masini, responsabile Ambiente e territorio della Coldiretti e docente di Diritto alimentare all’Università Tor Vergata di Roma, nel lungo dossier del Salvagente in edicola: “Il Consiglio di Stato con la sentenza del 20 novembre 2020, credo abbia detto una parola definitiva sull’attendibilità e oggettività del panel test ritenendo la prova organolettica ‘essenziale per la corretta classificazione degli oli’ e sancendo che i suoi risultati non si traducono in ‘decisioni arbitrarie’ essendo ‘governata da stringenti parametri normativi predeterminati’. Fatta questa precisazione, è doveroso intensificare i controlli e aumentare le valutazioni organolettiche per evitare che i consumatori possano essere vittime di frodi”. “Ancora nel settore dell’olio sembra replicarsi una vicenda conosciuta, di proposta commerciale - da parte di alcune marche - di prodotti privi delle caratteristiche vantate” è il commento all’inchiesta del Salvagente di Gian Carlo Caselli, presidente dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare.

Olio extra vergine, il successo del made in Italy nel mondo. Ilaria Donatio su Il Riformista il 20 Marzo 2021. L’olio extra vergine di oliva italiano è sempre più di moda. Il consumo dell’extra è più che raddoppiato nel mondo negli ultimi decenni. Nell’ultimo anno poi la pandemia da coronavirus ha dato una spinta ulteriore: le restrizioni provocate dall’emergenza sanitaria hanno spinto le famiglie italiane a cucinare in casa. E a fare scorte di prodotti italiani e salutari: primo tra tutti proprio l’olio evo. Secondo i dati Ismea, nel 2020 i consumi di olio extravergine in Italia sono cresciuti del 7,4%. Lo stesso vale per l’export globale (+15,6%) e intraeuropeo (+24,7%). A farla da padrone le vendite nei supermercati che hanno compensato le perdite dovute alla chiusura del canale della ristorazione. Per esempio, ha funzionato molto bene la campagna della Coldiretti “Io mangio italiano, e tu?”, lanciata durante il lockdown a marzo. I prodotti italiani con prezzo abbordabile sono andati bene. È cresciuto il consumo di prodotti di media e alta fascia. Nel lungo periodo il mercato dell’olio extravergine arriverà a valere oltre 1815 milioni di dollari entro il 2026 (in crescita del 24% rispetto ai 1465 del 2020). «In Italia e all’estero, i consumi dell’olio di oliva crescono, anche grazie all’aumento complessivo degli acquisti nel canale della grande distribuzione», conferma Giampaolo Farchioni, manager del Gruppo Farchioni, azienda leader del settore, con sede a Gualdo Cattaneo in Umbria. Nata nel 1780, è una delle realtà agricole italiane più antiche, da anni impegnata nella ricerca tecnologica, nell’ampliamento delle superfici di coltura e nella ricerca della sostenibilità. L’obiettivo è quello di offrire prodotti naturali di qualità e al giusto prezzo seguendo l’insegnamento dettato dalle radici contadine della famiglia. «Soprattutto nel periodo del lockdown i consumi sono aumentati perché si è verificato l’effetto accaparramento: in queste situazioni l’olio a casa non può mancare». I dati della Nielsen raccontano che il primato dell’azienda Farchioni nella grande distribuzione italiana comincia nel 2017 e dura fino ad oggi. Numeri da record prima di tutto per il numero delle bottiglie vendute: 30milioni in tutto, pari all’11% del volume totale delle vendite di olio evo in Italia. Ciò significa che su 100 bottiglie di olio evo consumate sulle tavole degli italiani almeno 11 vengono dall’azienda Farchioni. «Un risultato che – assicura Giampaolo Farchioni – crediamo di confermare anche quest’anno. L’obiettivo è mantenere la leadership del mercato puntando sempre di più sulle Dop e sul prodotto italiano. D’altra parte, la crescita dei consumi stimola la nostra innovazione. Abbiamo prodotti ad hoc sia per il segmento del “prodotto italiano” che per quello del “prodotto biologico”. E abbiamo risposto con un buon assortimento e un ampliamento della gamma». Nel 2021 l’azienda continuerà a spingere sul prodotto italiano anche se «quest’anno a causa della minore produzione di olive il prezzo sarà un poco più alto. L’olio italiano risentirà di una diminuzione del 30%. Di conseguenza, avremo un aumento del prezzo di listino inversamente proporzionale, anche per corrispondere il giusto prezzo agli agricoltori». L’obiettivo di realizzare prodotti squisitamente italiani e lo stretto radicamento nel territorio fanno inoltre di Farchioni una azienda “multiregionale”, attiva per promuovere lo sviluppo dell’olivicoltura in diverse regioni della nostra penisola. Se la superficie degli uliveti aziendali di proprietà conta oggi 450 ettari ripartiti tra Umbria, Lazio, Puglia e Toscana, nei prossimi anni è previsto un incremento fino a un totale di 1309 ettari. «Nella nostra Umbria – dove gli impianti, condotti in biologico, si affidano ai più moderni sistemi di sfruttamento dell’energia solare – si sperimenta la coltivazione biodinamica che rappresenta il futuro di ogni corretta filiera agricola rispettosa dell’ambiente e della salute», spiega Giampaolo. «Tali sperimentazioni verranno applicate anche all’uliveto nel territorio di Cortona, in Toscana, dove si produce la dop locale. A Tuscania, in provincia di Viterbo, possiamo vantare un parco di circa 200 ettari coltivati seguendo le direttive Demeter, il marchio che certifica il rispetto del disciplinare dell’agricoltura biodinamica. La logica è quella di adottare modalità di coltivazione capaci di restituire alla terra quanto ci ha donato», conclude. In collaborazione con l’Università di Perugia e il Cnr è poi in corso un progetto per selezionare un set di nuovi genotipi di olivo adatti ai nuovi standard di produzione, più sostenibili sul piano ambientale e più resistenti alle avversità climatiche. Ma non finisce qui. «La nostra azienda – continua Farchioni – è impegnata in Puglia per fronteggiare la tragica morìa degli ulivi causata dalla Xylella con un progetto per l’adozione di un clone resistente all’infezione e con la produzione di un olio biologico. A Ruvo di Puglia abbiamo investito su una cultivar – la “Favolosa” – resistente alla malattia, dunque ‘sostenibile’ rispetto a questo territorio, sviluppata in collaborazione con l’Università di Perugia. Già oggi possiamo dire che la resa è buona e che la qualità è fantastica: avremo un olio fruttato e dolce con una distintiva nota erbacea». L’insieme di queste iniziative permetterà all’azienda una raccolta di qualità in diverse regioni italiane: tutto il ricavato sarà impiegato per la produzione del Casolare 100% Italiano Biologico, uno dei prodotti di punta dell’azienda sugli scaffali dei supermercati, ormai da quasi quarant’anni.

·        Il Salame.

Giacomo A. Dente per "il Messaggero" il 26 ottobre 2021. «Ma chi lo ha detto che dare del salame a qualcuno sia un'offesa? Io lo considero un complimento», ride Andrea Pedemonte Cabella, artigiano d'élite del più aristocratico salame d'Italia, il Sant' Olcese, dal nome di un pittoresco borgo dell'entroterra genovese. Nel cuore della Valpolcevera i Cabella producono dal 1911 questa autentica rarità, dove un mix di carne suina e bovina (per consentire una stagionatura perfetta, nonostante l'influenza del mare) viene macinata, legata a mano come in antico, e quindi collocata qualche giorno in un locale dove arde un braciere di legno di rovere, prima di passare circa tre mesi in ambiente asciutto. Il risultato di aromi e di sapore è intenso, esaltato da una consistenza morbida che si presta anche a divertenti ricette: in torta con le patate, oppure a dare grinta a classici involtini di vitello. Ma questo salame non è solo gastronomia, perché a Genova è diventato un vero e proprio fenomeno di costume. È infatti del 2011 la costituzione, ad opera del vulcanico Andrea Pedemonte Cabella, di un Nobile Protettorato per la tutela e valorizzazione di questo salume. Successo incredibile, al punto che la vecchia nobiltà e l'aristocrazia politica e delle professioni a Genova hanno aderito con entusiasmo. Ne fanno parte il sindaco di Genova Marco Bucci e il vescovo ausiliare Nicoló Anselmi, i Garrone-Mondini (Erg), l'Arciduca Martino d'Austria, Giacomo Cattaneo Adorno e Alberto Clavarino, solo per citarne alcuni: col risultato che, al limitare dell'autunno, i gentiluomini con calze e cravatta rossa, le dame con un nastro rosso, si ritrovano a una processione davanti alla chiesetta di Sant' Olcese, con benedizione del salume, Santa messa canti, e cena gourmet finale. L'Italia dei salami parla davvero tante lingue e in Toscana si erge somma la Finocchiona, di origine medioevale, quando il finocchio sostituiva il più costoso pepe come conservante. Amatissimo da Machiavelli, questo salame dalla consistenza morbida e dalla persistenza aromatica si dice fosse anche caro agli osti truffaldini che, servendone una versione più carica di semi di finocchio, nascondevano al palato dei clienti la cattiva qualità del loro vino: insomma li infinocchiavano.  «Un salame aristocratico? Varzi, senza dubbio», dichiara Antonio Santini, dello stellatissimo Il Pescatore a Canneto sull'Oglio. «Basti pensare che, dai Longobardi ai monaci di San Colombano, questo salame soave e raffinato con bassa percentuale di grassi, veniva servito agli ospiti di riguardo già alla corte dei Malaspina». Massimo Spigaroli, per tutti il Re del Culatello nella sua Polesine Parmense, a ridosso del Po, i suoi salumi li tiene addirittura a stagionare nel castello (oggi anche raffinato relais) dei marchesi Pallavicino.  «Io vado pazzo per lo Strolghino, che si ottiene dalla rifilatura delle parti magre del culatello. Si deve mangiare presto, è morbidissimo e lungo al palato. Il nome? La strolga in dialetto parmense è la strega. Probabilmente si dice così perché da come va lo strolghino si può prevedere come andrà la stagionatura dei salumi in preparazione».  Impossibile infine non citare il salame coraggioso, che si produce nell'Abruzzo meridionale: la Ventricina, il dono nobile da portare nelle grandi occasioni. Il coraggio deriva dall'uso di parti nobili tagliate a coltello e condite con peperone rosso e peperoncino in polvere. Il risultato, quando arriva, è una vera bomba di sapore.  

·        Il Lardo.

Gemma Gaetani per "La Verità" il 12 febbraio 2021. La china della grassofobia alimentare, cioè della condanna del grasso animale all'interno dell'alimentazione, è cominciata negli anni Ottanta, quando l'industria dei grassi vegetali idrogenati (le margarine) ha diffuso il messaggio che i grassi animali facessero male e quelli vegetali no. Passati molti decenni da allora, si è potuto appurare che non è esattamente così, ma le cose non sono migliorate. Perché nel frattempo alla persistente grassofobia alimentare si è aggiunta la cosiddetta etica vegana che vede in qualsiasi forma di allevamento e uso delle risorse animali uno sfruttamento, a prescindere dalla salubrità dei prodotti ricavati. La demonizzazione dei grassi e, in generale, di tutti i prodotti animali è così proseguita con «nuovi argomenti» e sempre più al burro si preferiscono grassi idrogenati vegetali, quelle margarine che spopolarono negli anni Ottanta e che oggi tentano di acquisire anche l'appeal filoanimalista chiamandosi burri vegani o strutti vegetali. L'industria del già pronto propone addirittura ricette della tradizione private dei grassi tradizionalmente usati come «pasta sfoglia senza burro» e «piadina senza strutto». Ma è davvero insalubre il grasso suino? Si tratta di un tris di grassi che accompagnano l'uomo da molto tempo: lardo, strutto e sugna. Il lardo è un salume di suino, facendo una battuta potremmo dire che è il più bianco dei suoi salumi. E forse anche per questo motivo, perché si tratta di grasso puro, perciò è di colore bianco candido, raramente al supermercato troviamo il lardo in fettine confezionato: hanno occupato anche il suo posto pancetta e guanciale, un po' meno assolutistici nella quota grassi e quindi più vendibili a mangiatori sempre più condizionati, consapevolmente o no, da grassofobia alimentare. Il lardo si trova, se si è fortunati, al banco dei salumi freschi. Del Sus scrofa domesticus, ovvero del maiale, il lardo è lo strato adiposo posizionato sotto la cute (cotenna) del maiale dalla zona retro-occipitale (dietro la testa) fino alla fine della groppa (regione lombare e natiche) compresa la parte alta dei fianchi. La prima parte si chiama lardo (particolarmente pregiato è il lardo tra gola e scapola, che si chiama lardo della vena), mentre il lardello e il duro di schiena costituiscono il cosiddetto lardo della schiena (con il grasso di guancia e pancia si fanno invece il guanciale e la pancetta). Quel tessuto grasso sottocutaneo viene tagliato, eventualmente scotennato, salato, aromatizzato e stagionato. Si stagiona perché presenta molti grassi saturi, buoni per cuocere perché più stabili nel caso di riscaldamento, ma non molto capaci di conservare e conservarsi, caratteristica che espone il blocco di lardo alla possibilità dell'irrancidimento. Una volta stagionato, è infatti venduto sottovuoto o, se al taglio, i blocchetti (che sono di almeno 3 centimetri di spessore e vanno dai 250 grammi ai 5 chili, eventualmente con cotenna in alto e sale speziato sul lato opposto), dalla parte esposta a luce e calore, sono opportunamente protetti con veline alimentari. Va specificato che la parola «lardo» si dovrebbe usare soltanto per il grasso ormai stagionato, cioè per il salume, mentre il taglio di carne prima della lavorazione si dovrebbe chiamare «grasso fresco».

Le due Dop italiane. Che cosa ci racconta l'etimologia? La parola lardo deriva dal latino lar(i)dum, che potrebbe avere qualcosa a che fare con il greco larinós cioè «ingrassato». In Italia abbiamo due lardi Vip, cioè il lard d'Arnad, prodotto Dop della Valle d'Aosta, e il lardo di Colonnata, prodotto Igp della Toscana, entrambi considerati leccornie. Il lardo di Colonnata ha reso celebre in tutto il mondo il borgo montano a 25 chilometri da Forte dei Marmi, decisamente poco noto prima del riconoscimento Igp. Il gustoso salume viene stagionato in conche, cioè vasche, di marmo, strofinate con aglio, disposto in strati alternati con una salata aromatica di sale marino naturale, pepe nero macinato, rosmarino fresco e aglio (sono facoltativi cannella, chiodi di garofano, anice stellato, coriandolo, noce moscata, cardamomo, salvia, rosmarino e qualsiasi altra erba commestibile che cresca spontanea sulle Alpi Apuane) per almeno 6 mesi. Il suo utilizzo ideale è al naturale, tagliato a fette sottili adagiate su pane caldo. Anche il lardo di Arnad, lardo di spalla ottenuto da maiali di almeno 160 chili e 9 mesi di età, subisce un procedimento di stagionatura solitamente annuale in una salamoia di sale marino, pepe, rosmarino, alloro, salvia, chiodi di garofano, cannella, ginepro, noce moscata e achillea, eventuale vino bianco se si supera l'anno di stagionatura, in passato nei «doil», tipiche vasche di legno di castagno, oggi in contenitori di vetro. Il lardo è stato anche riconosciuto dal ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali come prodotto agroalimentare tipico della Basilicata e del Piemonte e, in generale, ogni regione italiana produce lardo. In passato era considerato un semplice companatico dei poveri, dato il grande apporto calorico. Oggi, come molti cibi modesti di un tempo, il lardo si è sdoppiato: da una parte continua a essere mangiato da chi lo ha sempre mangiato, mantenendosi fuori dalla concezione esistenziale grassofobica e vegana e attenendosi casomai alla consuetudine; dall'altra è stato rivalutato dalla cucina gourmet e da tanti foodies come occasionale concessione al rusticume e alla tradizione. Integrato in un'alimentazione più ricca di quella contadina come è quella contemporanea, il lardo è comunque uscito dall'ambito delle sole preparazioni tradizionali, come l'erbazzone reggiano (abbiamo dato la ricetta nella Verità del 2 novembre scorso scrivendo della bieta).

Alimentazione completa. Questo salume bianco adesso si degusta come prelibato, e non obbligato dalla povertà, piatto a sé o si abbina a ingredienti considerati ancora più elitari per rinforzarne un po' calorie e grassi, per esempio i crostacei. Le proprietà nutrizionali del lardo, infatti, sono quelle: su 100 grammi noi abbiamo solo 4 grammi di acqua, ancor meno proteine (1,76 grammi) e ben 94,16 di grassi, per un totale di 857 calorie. Perciò, seppure sia delizioso tagliato a fettine sottilissime e adagiato su fette di pane appena abbrustolito o arrotolato intorno ai gamberoni, non si può considerare il lardo un companatico abituale, né, meno che mai, un secondo da mangiare due etti alla volta alla stregua di una bistecchina magra di maiale. Il lardo è un salume talmente ricco di grassi che, tagliato a tocchetti e soffritto, rilascia esso stesso i suoi grassi in forma liquida sostituendo perfettamente altri grassi come olio e burro nelle più disparate preparazioni. Questo suo aspetto di metà salume e metà grasso non va dimenticato e perciò non bisogna abusarne: un tempo era davvero l'unico e raro companatico di contadini che mangiavano poco e bruciavano tantissime calorie. Oggi succede il contrario, mangiamo troppo e bruciamo poco. Allo stesso tempo, il lardo non va demonizzato ed escluso dall'alimentazione: abbiamo bisogno di una piccola quota di grassi. La funzione del lardo nell'alimentazione non è mai stata solo quella del salume: dal lardo, infatti, si estraggono anche lo strutto e la sugna. Strutto è il participio passato di struggere che vuol dire sciogliere: lo strutto è, in soldoni, lardo sciolto. Invece il grasso viscerale (cioè interno e non attaccato alla cotenna) perirenale, non adatto a ricavare il lardo perché povero di tessuto fibroso e con scarsa consistenza, è detto sugna. Per colatura a caldo in umido, se ne estrae l'omonimo grasso. Talvolta, la sugna viene anche mescolata allo strutto ottenuto, con il medesimo procedimento di estrazione a caldo in umido, dal lardo, oppure si macina e si usa per la sugnatura, processo di copertura della parte magra del prosciutto esposta all'aria per proteggerlo dall'irrancidimento e da un'eccessiva secchezza. La differenza tra sugna e strutto è sottile: il primo è il grasso viscerale della zona surrenale, molto delicato, e da ogni maiale se ne ricavano circa 2 o 3 chili, mentre lo strutto è il prodotto finito dopo il processo di fusione del restante grasso sottocutaneo. La confusione tra i due termini si deve non solo al fatto che a volte la sugna contribuisce a fare lo strutto, ma anche ad alcuni dialetti meridionali nei quali, per complicare ancora di più la questione già di suo un po' complessa, con la parola «'nzogna» si intende... lo strutto! La produzione dello strutto dimostra che davvero del maiale non si butta via niente. Il grasso del maiale, scotennato ma anche no, si taglia a tocchetti e si cuoce a fuoco lento perché l'acqua evapori, man mano si mette via il grasso che a causa della temperatura si è fuso diventando liquido e quello è lo strutto, ma i tocchetti di carne rimasti ancora interi, e dorati, si pressano: sono i ciccioli e l'olio ottenuto con la pressatura è altro strutto.

Strutto e sugna. Un manifesto pubblicitario del 1916 della John P. Squire & co. di Boston, Massachussets, recitava che lo strutto rende la pasticceria più appetitosa. Naturalmente si riferiva allo strutto Squire, ma questo solo apparente slogan conteneva un'affermazione veritiera e che a cent'anni di distanza di allora, in piena grassofobia alimentare, dobbiamo ricordare. Lo strutto è sempre stato usato per preparare dolci, sia nell'impasto (seadas e pardulas sarde, brioches, cannoli siciliani), sia come grasso nel quale friggere quelli che andavano fritti, in virtù del suo alto punto di fumo, circa 250 gradi. Si usa anche nella panificazione: coppia ferrarese, piadina romagnola, schiacciatina mantovana, erbazzone reggiano, crescentine modenesi, casatiello, taralli 'nzogna e pepe napoletani. Lo strutto rende più friabile la massa glutinica, protegge meglio l'impasto dalla perdita di umidità trattenendo più anidride carbonica e quindi permette di ottenere pani più voluminosi, perché, come spiegano le sorelle Simili nel bel libro Pane e roba dolce, «fermenti e lieviti sono microrganismi che hanno un ciclo vitale completo: respirano, si moltiplicano e si cibano degli zuccheri contenuti nelle farine generando anidride carbonica, che è il responsabile del gonfiarsi e del dilatarsi della pasta».

Conservante naturale. Lo strutto protegge anche il pane dal raffermamento perché i grassi avvolgono le eliche dell'amido. Per queste ragioni, spesso nei pani di produzione anche industriale è presente lo strutto e sempre per questo motivo può essere presente anche nelle margarine che contengono farine di cereali. Raffrontato con il burro, lo strutto mostra interessanti caratteristiche che ci spiegano il senso dell'uso alternato dei due grassi nel passato, un uso che dovremmo recuperare: su 100 grammi di burro abbiamo 81 grammi di grassi, di cui 51 saturi, mentre lo strutto ne ha soltanto 32 grammi. In linea di massima, dovremmo evitare un eccesso di grassi saturi. Lo strutto conferisce una texture finale più croccante e asciutta, rispetto al burro, nel caso dei fritti, e nel caso dei dolci una minore umidità dell'impasto e, insieme, una maggiore morbidezza. Nell'epoca in cui c'era poco, l'economia era veramente circolare, tutto era veramente naturale e davvero non si sprecava nulla, strutto e sugna si usavano anche al di fuori dell'alimentazione: con lo strutto e la cenere (trasformata in lisciva previa bollitura) si faceva il sapone, con la sugna si ingrassavano gli scarponi, i meccanismi delle ruote dei carri per evitarne l'arrugginimento e, pensate, la sugna si usava anche come crema anticontusioni. Molte margarine contengono grassi idrogenati, che fanno ancor più male di un eccesso di grassi saturi, e talvolta contengono anche grassi di origine animale, non solo lo strutto o la sugna di suino, ma anche il sego di bovino, cioè lo strutto di bovino. La Società italiana di nutrizione umana consiglia di assumere il minor apporto possibile di acidi grassi trans, mentre per gli acidi grassi saturi consiglia un apporto inferiore al 10% dell'energia giornaliera introdotta. Si potrebbe pensare che la questione sia risolta dalle margarine senza grassi idrogenati, ma considerato che vengono prodotte con oli che presentano un'alta quantità di grassi saturi, la realizzazione di un grasso creato in laboratorio che sia migliore di burro e strutto ancora non è compiuta e, a nostro avviso, non lo sarà mai. Per tutte queste ragioni, strutto e sugna e lardo non vanno demonizzati, ma reintegrati - a piccole dosi - nell'alimentazione.

·        La Porchetta.

Gemma Gaetani per "la Verità" l'11 luglio 2021. Alcuni, tra cui il candidato sindaco di Roma Carlo Calenda, hanno usato la ormai nota statua Dal panino si va in piazza del giovane artista Amedeo Longo in chiave anti Raggi, ostentandola sui social come esempio di orrore della sua amministrazione. Concordiamo che l'amministrazione pentastellata della capitale sia stata orrida, ma forse il concorso per la statua che celebra un piatto italiano così importante è una delle rarissime cose buone di questo quinquennio politico romano. Stupisce che l'industriale 4.0 Calenda si sia scagliato in maniera così grossolana contro la raffigurazione celebrativa di un'eccellenza del cibo italiano, che non è solo cultura, ma anche giro d'affari. Lo sa bene Matteo Salvini, che seppure accusato in passato da Michela Murgia di avere «il muso unto di porchetta» come se la cosa fosse vergognosa (ma la Murgia si nutre di ambrosia e nettare degli dei?), invece non si vergogna a mangiarla e difenderla come patrimonio tricolore: nel 2018 il Messaggero raccontò che il leader leghista aveva organizzato una festa nella sua residenza romana a base di porchetta di Ariccia, nel 2019 twittò, con una bella pagnottella ripiena in mano: «Spero nessuno abbia qualcosa da ridire se mangio un panino con la porchetta offerto dagli amici di Campli!». Dopo le proteste e i danni degli attivisti animalisti, la statua della porchetta a Trastevere è stata rimossa per essere restaurata. La presidente del Municipio Roma Centro, Sabrina Alfonsi, ha pronunciato parole che non possiamo non condividere: «La violenza con cui una minoranza di persone hanno manifestato la loro contrarietà è inaccettabile». E ci auguriamo che rimetta la statua al suo posto e non assecondi l'Oipa (della quale apprezziamo le attività di protezione degli animali, ma non amiamo la lotta per l'imposizione del vegetarismo) la cui delegata romana Rita Corboli ha dichiarato: «La "statua della discordia" rende chiara la sofferenza degli animali, declassati a meri oggetti e a cibo per gli uomini. Il sangue innocente versato per tradizioni insensate e anacronistiche non potrà mai essere arte». Ma la statua eccome se è arte, perché imita perfettamente la vera preparazione, e la porchetta, oltre che arte di Amedeo Longo, è cibo. La porchetta è una preparazione tipicamente italiana, in particolar modo diffusa in alcune regioni dell'Italia centrale e qualcuna settentrionale. Si trova dove ci sono vigne e si fa il vino, essendo il tipico cibo delle «merende in cantina», ma è anche un classico dei venditori ambulanti che offrono i panini in sagre, mercati, feste oppure, stabilmente, sul territorio. Non si conosce con certezza l'origine del busto di maiale (rigorosamente femmina ad Ariccia) intero, svuotato, disossato e condito, anche perché, come spesso avviene, molti ne reclamano l'ideazione. In primo luogo gli abitanti di Ariccia, comune in provincia di Roma, nella zona - vinicola, appunto - dei Castelli. Ma la tradizione è antichissima in molti altri siti: a Norcia, dove già i Romani allevavano maiali (tanto che «norcino» è sinonimo di «salumiere»); nel Lazio centrale (secondo alcuni sarebbe nata a Poggio Bustone in provincia di Rieti, dove è nato anche Lucio Battisti); a Campli in provincia di Teramo; nelle Marche, in Romagna e nel Ferrarese, mentre la diffusione in Veneto, dove è molto amata a Treviso e Padova, risalirebbe al secolo scorso. Qui si tengono anche sagre a essa dedicate, in quasi ogni momento dell'anno. La società americana Reservation ha ideato un giro del mondo in 365 giorni per inseguire la primavera, costo tra i 24.000 e i 47.000 euro. Spendendo molto meno, si potrebbe girare quasi tutta l'Italia per quasi un anno semplicemente partecipando a tutte le sagre della porchetta. C'è a gennaio a Sant' Antonio Abate, alle pendici del Vesuvio; a San Terenziano-Gualdo Cattaneo in Umbria e a Monterado nelle Marche a maggio; a Campli, in Abruzzo, a Costano, in Umbria e a Selci, nel Lazio, in agosto; a Monte San Savino, in Toscana, e ad Ariccia, nel Lazio, a settembre; a Poggio Bustone, ancora nel Lazio, in ottobre. Pur essendo una preparazione diffusa quasi in tutta Italia, solo la porchetta di Ariccia ha ottenuto il riconoscimento europeo di Igp (Indicazione geografica protetta) un decennio fa, il 14 giugno 2011. Il legame tra porchetta e Ariccia pare avere età millenaria, precedente la conquista romana dei territori occupati dai Latini. Provenivano da Ariccia i sacerdoti che preparavano le carni suine da offrire in sacrificio nel tempio di Giove Laziare sul vicino Monte Cavo. E, successivamente, la maestria artigiana e l'uso presso molte famiglie ariccine di preparare le tipiche porchette sono state affinate dall'abitudine dei nobili romani di trasferirsi ad Ariccia per la stagione estiva o per effettuare battute di caccia. Maestria e abitudine sono state tramandate di generazione in generazione fino a noi, come testimonia Giulio Cesare Gerlini nel libro del 1974 Ariccia Storia-Arte-Folclore: «L'arte di preparare i porcellini destinati a diventare "porchetta" si può dire che è una esclusività di poche famiglie ariccine i cui componenti si tramandano di padre in figlio». Egli spiega anche che «l'idea della sagra venne perché si desiderava far conoscere che il prodotto ariccino si era affermato a tal punto che persino all'estero viene spedita a imbandire tavoli di conosciuti ristoranti e locali alla moda»: dal 1950, infatti, il piatto è protagonista della Sagra della porchetta di Ariccia, ideata dall'allora sindaco Domenico Ovidio Cioli, che ancora prosegue, ogni anno a settembre, nella suggestiva Piazza di Corte, progettata dal Bernini su commissione di papa Alessandro VII. Nella rivista I Castelli romani - Vicende, uomini, folclore, Vincenzo Misserville nel 1958 scrive che «tra le numerose sagre dei Castelli, quella ariccina "della Porchetta e del Pane casareccio" è forse l'unica che, per il suo carattere di semplicità paesana, giustifica il suo appellativo: persino nella denominazione essa ha un sapore schiettamente casalingo». Casalingo e musicale. Nel 1962, infatti, il duo artistico e sentimentale Rita Pavone e Teddy Reno ideò la rassegna canora Festival degli sconosciuti, anche detto Talentiere, fondendo gastronomia e musica (sul palco ariccino si sono esibiti da Domenico Modugno a Marcella Bella, da Claudio Baglioni a Ivan Cattaneo). Nel 1957, Carlo Emilio Gadda nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana descrive la vendita della porchetta di Ariccia a Roma facendo dire al venditore: «La porca, la porca! Ciavemo la porchetta signori! La bella porca del'Ariccia co' un bosco de rosmarino in de la panza! Co' le patatine de staggione!... Carne fina e delicata, pe' li signori proprio! Assaggiatela e proverete, v' oo dico io, sore spose: carne fina e saporita!... Porchetta arrosto cor rosmarino! e co' le patate de stagione...». Il rosmarino è una delle caratteristiche della porchetta aricciana e in generale laziale. Ciò che caratterizza la porchetta è anche il modo di condire, aromatizzare, legare e predisporre per la cottura. I porchettari ariccini, così si chiamavano e vengono ancora chiamate le famiglie che sono storiche produttrici, secondo tradizione usano soltanto animali femmine. Quindi la porca, cioè la femmina del porco, nome popolare del maiale, perché ha carne più magra e saporita rispetto a quella del maschio, che diventa «porchetta» perché è piccola: si scelgono infatti suini di 1 anno, del peso massimo inferiore al quintale. Dopo essere stati uccisi e dissanguati, si immergono in una caldaia d'acqua bollente per procedere alla depilazione e al lavaggio. Poi si apre, si eviscera, disossa e condisce con sale da cucina, pepe, teste d'aglio vestito e, a seconda della tradizione, fegato e milza tagliati a tocchetti e manciate di rosmarino o di finocchio selvatico. Qui si profila un'importante differenza tra le varie porchette italiane, oltre al fatto che l'uso della femmina sia tassativo, per disciplinare, solo ad Ariccia. Nella Toscana meridionale, nei Castelli Romani del Sud, in Sabina e in altre aree del Centro Italia, si aromatizza con il rosmarino (ramerino in toscano). Nell'Alto Lazio, in Umbria, nelle Marche e in Romagna si aromatizza con il finocchio selvatico. La porchetta di Campli si differenzia ancora: non si usa il finocchio selvatico. Dopo il condimento, la porchetta viene infilzata con un bastone che fuoriesce dalla bocca e dall'altra estremità, utile anche per trasportarla post cottura, e si lega bene con lo spago. Alle fasi della disossatura e speziatura segue quindi la legatura, che serve a mantenere compatte le carni perché non si slabbrino troppo durante la delicata fase del taglio che avviene durante la vendita sui banchi (l'animale all'interno è cavo). Infine, c'è il processo di cottura al forno, con vasche di raccolta dei grassi liquefatti, per un tempo che può andare dalle 5 alle 8 ore, a seconda del peso. Secondo tradizione, la porchetta andrebbe cotta nel forno a legna, proprio come la pizza. Tuttavia, giusto come avviene per la pizza, oggi si usa cucinarla anche nei forni elettrici senza alcuno scandalo. In alcune località si preferiscono maiali più giovani, di 6 o 7 mesi. In ogni caso, il peso della carcassa intera e disossata con zampe e testa è solitamente compreso tra 60 e 90 chili e quello del tronchetto, cioè la porzione della mezzena (mezzo suino senza testa) tra 14 e 25, mentre il peso post cottura deve essere, rispettivamente, tra 27 e 45 chili e tra 7 e 13 chili. Sono questi i due tagli tipicamente prodotti per la vendita. È molto difficile risalire alle calorie per 100 grammi di porchetta, perché la quantità di grasso residuo dopo la cottura varia in funzione dell'effettiva zona alla quale appartengono le fette. Per 100 grammi di pietanza molto grassa, come nel caso della pancia, possiamo avere tra le 400 e le 500 calorie, per 100 di quella semigrassa del coscio, del lombo, della spalla e del collo dalle 300 alle 400 calorie, per quella molto magra da 180 a 200 calorie. Di media, abbiamo comunque questi valori: 240 calorie per 100 grammi, 18 grammi di grassi di cui 7,1 saturi, 0,7 grammi di carboidrati, 19 grammi di proteine, 1,8 grammi di sale, 0,416 grammi di potassio. In sostanza, la porchetta è un arrosto e infatti è tipicamente consumato a fette. La loro collocazione ideale è tra due fette di pagnotta o all'interno di un panino sempre rustico, come la rosetta (michetta fuori Lazio) o la ciriola, preferibilmente caldo. Il pane si può anche non scaldare, ma la porchetta dovrebbe essere calda, appena sfornata o anche riscaldata. Se si vuol stare più leggeri, senza pane, si può consumare direttamente in piatto proprio come l'arrosto, accompagnata da verdure o legumi di contorno, che grazie alle fibre possono diminuire l'impatto dei grassi modulandone l'assorbimento - parte del grasso è assorbito dalla fibra che soprattutto se insolubile non assimiliamo, non da noi. Se da una parte abbiamo le proteine nobili della carne di maiale, dette ad alto valore biologico perché di facile assorbimento e comprensive di amminoacidi che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare da solo, che aiutano a riparare i tessuti, generare energia e mantenere pelle e capelli sani, dall'altra parte abbiamo anche una quota di grassi. Diversamente da quanto pensano in molti, la cotenna della porchetta, che grazie alla lunga cottura diventa particolarmente croccante e saporita, non contiene molti grassi, apporta soprattutto proteine (è ricca di collagene, la principale proteina del tessuto connettivo negli animali). Il grasso è sotto, nel tessuto adiposo. Ma anche in questo caso, non si tratta di grassi preoccupanti. Dovremmo togliere questa parte solo se stiamo seguendo una dieta dimagrante o soffriamo di ipercolesterolemia o di ipertrigliceridemia. In un'alimentazione normale, i grassi devono fornire dal 20 al 40% delle calorie totali quotidiane, e dovrebbero essere per il 55% grassi monoinsaturi, 20% polinsaturi e 25% grassi saturi e idrogenati: la carne di maiale è l'unica che contiene più grassi monoinsaturi e polinsaturi che saturi, quindi il suo rapporto lipidico è in linea con questa regola (eccedere con i grassi saturi può condurre a un maggior rischio di sviluppare patologie cardiovascolari e tumorali). Abbiamo poi anche vitamine come la PP (la Pellagra Preventive, anche detta niacina), utile al sistema nervoso, alla pelle e alla digestione, la vitamina A (che aiuta la vista e il sistema immunitario e nella carne troviamo in forma definitiva di retinolo, nei vegetali, invece, in quella dei carotenoidi che sono precursori di vitamina A) e le vitamine del gruppo B (che favoriscono il funzionamento del sistema nervoso e il tono muscolare, oltre a trasformare i carboidrati in glucosio, perciò sono considerate vitamine antistanchezza). Per i minerali, abbiamo il ferro, che nella carne è presente sia come ferro eme - maggiormente assorbibile - che come ferro non eme, mentre negli alimenti di origine vegetale troviamo solo ferro non eme, poi potassio e sodio, molto utili durante la calura estiva. La porchetta, volente o nolente l'attivista animalista che pretende di eliminare la tradizione perché infastidisce il suo sguardo, appartiene alla cultura italiana pop e non soltanto, oltre che a quella gastronomica. Nel 2010 siamo entrati nel Guinness dei primati con il record di porchetta più lunga del mondo (44,93 metri), ottenuto legando più maiali a Monte San Savino. E nel disegno di Leonardo da Vinci RL12397, della collezione di suoi disegni conservati nel Castello di Windsor a Londra e proprietà della regina Elisabetta, che apparentemente raffigura un paesaggio di rocce, lo studioso di pittura rinascimentale Antonio Zambetta ha rintracciato una composizione nascosta di figure di altro senso, tra le quali una porchetta, con tanto di segni di legatura e capi dello spago. La tesi è esposta nel libro I mille volti di Leonardo - Leonardo oltre il visibile. Nel libro di Alessandro Vezzosi, Agnese Sabat e lo chef Enrico Panero del ristorante Leonardo da Vinci di Eataly Firenze, Leonardo non era vegetariano. Dalla lista della spesa di Leonardo alle ricette di Panero (Maschietto editore), si spiega come Leonardo acquistasse e cucinasse anche carne, nonostante venga spacciato da molti vegetariani come vegetariano.

·        Il Formaggio.

Il Parmigiano Reggiano. IL BENESSERE ANIMALE È L'INGREDIENTE SEGRETO. Da lab.gedidigital.it. La qualità del Parmigiano Reggiano comincia nella stalla: qui lo star bene delle mucche diventa bontà e qualità per il consumatore. Il frutto di investimenti e regole precise

Perché le stalle sono un luogo chiave

Il consorzio Parmigiano Reggiano sta investendo oltre 11 milioni di euro per innalzare gli standard di benessere delle bovine. I primi 8 milioni saranno destinati a circa 1400 stalle della filiera, mentre gli ultimi saranno stanziati entro il 2023. È in corso una vera e propria transizione che vuole fare bene agli animali e anche al formaggio, perché la salute delle bovine si ripercuote sul latte con cui viene prodotto. 

“Prima di questo investimento, tra il 2019 e il 2020, abbiamo fatto una mappatura dei circa 2500 produttori del consorzio, che hanno in totale 270mila bovine da latte – dice Riccardo Deserti, direttore generale del consorzio Parmigiano Reggiano -. Uno staff di professionisti è andato nelle stalle a misurare il livello del benessere animale, trovando le porte aperte degli allevatori”. 

Basandosi sulla check list messa a punto dal CReNBA - un sistema di valutazione elaborato dall'Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell'Emilia Romagna – lo studio ha rivelato che “la maggior parte degli allevatori è ampiamente al di sopra della sufficienza (60 punti su 100), con una media generale di circa 70 punti. Ma una percentuale più piccola di loro è in ritardo, e il nostro obiettivo adesso è non solo quello di limitare ed eliminare anche i pochi casi di non benessere animale – continua Deserti – ma portare i produttori alla sufficienza piena, e al raggiungimento di livelli complessivi sempre più alti”. 

Il benessere animale dovrà quindi diventare un valore e un pilastro da comunicare al consumatore del Parmigiano Reggiano, che è sempre più consapevole. Delle 1500 stalle che hanno partecipato al bando, 1400 riceveranno il contributo che le aiuterà a crescere da molti punti di vista. In alcuni casi i produttori amplieranno gli spazi, in altri investiranno sul rifacimento di tettoie, lettiere, sui sistemi di aerazione. Oppure miglioreranno la gestione, la cura degli animali con patologie, l’informatizzazione. 

“Quando parliamo di benessere, la prima regola è portare al minimo tutto quello che può provocare stress alle bovine – continua Deserti – perché altrimenti di riflesso producono meno latte, e di qualità peggiore”. È poi importante garantire spazi non affollati, un'alimentazione di qualità basata su fieno ed erba medica, “e bisogna uscire dal luogo comune che il pascolo è bene mentre la stalla è male, perché nella nostra pianura padana dove il clima in estate è caldo e afoso, non è indicato che le bovine stiano troppo tempo sotto al sole, dato che per i ruminanti il caldo è il principale stress.”. Poi prosegue: “La strada che stiamo percorrendo è al momento unica in Italia, e speriamo di poter essere una ‘best practice’ per altre filiere, perché il futuro guarda verso il benessere degli animali e del pianeta”. 

"Abbiamo sempre contato sulla qualità dei nostri foraggi"

"Parte tutto da qui, da quello che mangiano. Alle nostre vacche diamo foraggi coltivati da noi, nei nostri campi. Mio padre ha iniziato negli anni '50 con 4 mucche e già allora ci diceva di puntare alla qualità". Franca Carburi Folezzani, insieme ai figli Carlo e Roberto, porta avanti l'azienda agricola La Villa di Urzano (Parma) dove ogni giorno, alle 4,45 del mattino, si inzia a produrre Parmigiano Reggiano. "Sono più di 20 anni, da quando siamo diventati biologici, che non diamo antibiotici agli animali. E le nostre mucche diventano mamme senza ricorrere alla fecondazione artificiale". 

Stefano Fresi e l'avventura del Parmigiano

"Per uno come me che è eternamente a dieta, il Parmigiano è la salvezza: è così magro e dietetico che ne posso mangiare 80 grammi a pasto. Che sono un bel tocco di formaggio".

Di quello che definisce "il miglior formaggio al mondo", Stefano Fresi, protagonista di "Gli Amigos" il mediometraggio prodotto dal Consorzio Parmigiano Reggiano e diretto da Paolo Genovese, è sempre stato un fan. Ma come tutti, ammette, "allungavo la mano nello scaffale dei formaggi del supermercato o lo comperavo in salumeria, senza sapere cosa ci fosse dietro come preparazione, varietà o invecchiamento". 

Il film on the road per le terre dove viene prodotto, dalla Pianura all'Appennino, gli ha dato l'occasione di saperne i più. E ancora di più apprezzarlo. "Il Parmigiano non è un semplice prodotto, un brand, è una eccellenza riconosciuta in tutto il mondo. Se a una cena - chessò - a Londra ti presenti non un cuneo di Parmigiano, vieni accolto come se portassi due bottiglie di Dom Perignon: un'ovazione". 

Cosa ha scoperto nei giorni delle riprese?

"Che dietro la sua preparazione c'è un mondo e c'è la Storia, il ritmo della vita, la passione dei casari, la cura che mettono nel prepararlo, dalla scelta dei foraggi a come vengono tenute le mucche. Assistere alla preparazione di una forma di Parmigiano è come vedere Enzo Ferrari in persona che monta, un pezzo dopo l'altro, una delle sue monoposto. Ho scoperto che, come per un buon vino, conta il luogo di provenienza, la terra, l'invecchiamento, la cantina. C'è della poesia dietro...". 

La sorpresa maggiore?

"Che una forma può avere anche 180 mesi di invecchiamento. E che più invecchia più gli enzimi dei batteri lattici si ‘mangiano’ la caseina e ne facilitano la digestione. È un fatto unico. Per uno che è sempre a dieta come me (e che fa un mestiere dove mangiare fuori è quindi una tortura), il Parmigiano è stato una svolta: posso mangiarne fino a 80 grammi a pasto. 80 grammi di delizia e di energia, che posso portarmi da casa senza ricorrere alla triste schiscetta di un riso in bianco o di una porzione di verdura. Il parmigiano la rallegra, l'insalata. E anche l'umore". 

Chissà come la invidiano?"No, perché sono un generoso e mi porto sempre una dose maggiorata da offrire... Dopo il film il Consorzio mi ha dotato di una bella "dote" di Parmigiani gourmet di varie stagionature e provenienze: ho fatto alcune cene di degustazione, a casa e anche sul set dei "Delitti del BarLume" all'Elba". 

Il film si avvale della partecipazione straordinaria di Massimo Bottura. Vi ha svelato qualche ricetta speciale per gustare il Parmigiano?"Semplicissima, quella che nel film vince il contest per giovani chef: un pezzo di Parmigiano con la crosta cotto nel brodo. È arrivato e ha detto "però lo preparo io". A fine cottura lo ha diviso in tocchetti. Squisiti, morbidi, saporiti". E mentre lo dice si sente che gli viene (ancora) l'acquolina in bocca.

Gorgonzola, storie e leggende di un formaggio nato per caso. Monica Cresci il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. Il gorgonzola rappresenta uno dei formaggi più amati, ma non tutti sanno come sia nato per caso: la storia e le leggende su questa prelibatezza italiana. Non tutti sanno che il gorgonzola è nato per caso. O, meglio, così narrano le leggende legate all'origine di questo formaggio cremoso, impreziosito da venature verdognole. Quella che in apparenza sembra una decorazione marmorea, in realtà caratterizza uno dei formaggi più noti e amati in tutto il mondo, che deve la sua bontà alla presenza di una muffa. Una peculiarità che deriva da anni di perfezionamento, iconica sia dal punto di vista estetico che da quello alimentare. La storia di questo formaggio è antica, ricca di aneddoti e di tantissime leggende, ma rimane indissolubilmente legata all’omonima cittadina lombarda che gli ha donato il nome e, ovviamente, anche i natali. La tecnologia e le ricerche moderne hanno migliorato il procedimento produttivo, dislocandolo anche verso la zona di Novara e Pavia, ma la fama ne ha permesso l'esportazione in tutto il mondo.

Gorgonzola, tra storia e leggenda 

L'origine di questo formaggio così particolare è incerta, ma sicuramente legata all’omonima cittadina lombarda, dalla quale prende il nome: Gorgonzola. Un tempo noto come stracchino di Gorgonzola, è un prodotto particolare che può vantare un sapore dolce e, al contempo, leggermente piccante. Si pensa sia nato intorno al 879 d.C. anche se secondo alcuni studiosi la vera zona di origine risulterebbe Pasturo nella Valsassina, luogo noto per le grotte naturali dove la temperatura media costante tra i 6°C ed i 12°C garatirebbe la perfetta stagionatura dei formaggi, gorgonzola compreso. Secondi i racconti tramandati di famiglia in famiglia, il gorgonzola sarebbe nato per caso, per via della sbadataggine di un casaro. Secondo la leggenda, l'uomo lasciò incustodito del latte cagliato per una notte intera e, distratto dal pensiero della sua amata, il giorno successivo lo mescolò con dell’altro latte cagliato. Creando così un formaggio a pasta morbida con venature particolari, ma dal sapore e dal profumo intenso. C'è invece chi sostiene provenga dalla dimenticanza sempre di un casaro, che lasciò il fagotto con la cagliata tutta la notte appeso e che, per recuperarlo, lo unì a un'altra cagliata fresca. A stagionatura avvenuta ricavò proprio il gorgonzola, un impasto saporitissimo e davvero gustoso.

Gorgonzola, caratteristiche e produzione 

Il gorgonzola vanta una genesi particolare e non definita, come già accennato, ma c'è anche chi azzarda si tratti di uno "stracchino uscito male". Di sicuro la produzione iniziale è legata all'omonima cittadina, ma anche alle aree limitrofe dove la lavorazione risultò di successo. I caseifici locali cominciarono a creare con costanza questo formaggio dalla profumazione forte e dal gusto intenso, ottenendo un grande favore commerciale sia in madre patria che all'estero. Agli inizi del 1900 la richiesta aumentò a dismisura, in particolare in Inghilterra, Francia e in Germania, fino a ricevere nel 1996 la nomina di prodotto DOP dalla Comunità Europea. La particolare lavorazione nel tempo ne ha dislocato la produzione verso aziende ben attrezzate, in grado di agevolare una stagionatura a norma di legge. Oggi sono circa trenta le aziende che producono il gorgonzola e tutte nella zona del pavese, di Novara e con una piccola percentuale nell'area di Milano. Il formaggio è noto per il colore bianco paglierino della sua pasta cruda sottoposta a un processo di erborinatura, cioè alla formazione di muffe verdognole grazie alle di spore di Penicillium, aggiunte al latte pastorizzato e proveniente da mucche esclusivamente locali. Morbido e cremoso, può risultare più delicato o maggiormente piccante, in base proprio all'intensità delle muffe. La stagionatura varia tra i 50 e i 150 giorni per il gorgonzola dolce, e tra gli 80 e i 270 per quello piccante.

Proprietà e fiere del gorgonzola 

Nonostante le credenze popolari, il gorgonzola non è un formaggio così calorico come viene dipinto, ma possiede proprietà importanti perché ricco di vitamine e minerali. È privo di glutine e fortemente digeribile, proprio grazie alla profumazione intensa, che attiva la secrezione di bile e del succo pancreatico. È inoltre un alimento benefico perché contrasta l'ansia e la depressione ed è ricco di spermidina, molto utile nella prevenzione di malattie quali il cancro, il morbo di Parkinson e l'Alzheimer. Nonostante la produzione da tempo sia stata dislocata nei 30 caseifici collocati tra Lombardia e Piemonte, ancora oggi la cittadina di gorgonzola ne conserva l'origine e la tradizione. Che ben rappresenta attraverso l'omonima fiera, nota come Sagra Nazionale annuale del Gorgonzola, e che si tiene a settembre. Un momento di incontro e di scambio culturale, in grado di attirare turisti da ogni parte del mondo. Non solo proposte alimentari e rivisitazioni in chiave moderna ma anche canti, balli, storie e culture locali, per un evento che da secoli cattura l'attenzione e la curiosità degli appassionati di questo formaggio così unico e davvero inimitabile. Monica Cresci

·        L’Acqua.

Acqua del rubinetto, ecco che cosa beviamo davvero: lo studio, tutto ciò che non sapevamo. Libero Quotidiano il 10 marzo 2021. Quanti di noi bevono acqua del rubinetto? Molti, moltissimi. Ma sappiamo cosa beviamo? Non sempre. E a questo importante argomento dedica un lungo approfondimento ilfattoalimentare.it, che premette: "Norme, regolamenti e misure legislative adottate in Italia, come in molti altri Paesi, hanno l’obiettivo di garantire che in ogni casa, scuola, comunità e in ogni ambiente produttivo sia disponibile acqua sicura in adeguata quantità, con continuità nell’erogazione e costi sostenibili per i consumatori". Dunque, le caratteristiche che deve avere un'acqua affinché possa essere definita potabile: deve essere incolore, insapore, inodore e  priva di particelle sospese (limpida e trasparente). Queste caratteristiche sono definite organolettiche. E ancora, l'acqua potabile non deve contenere microrganismi, parassiti e sostanze chimiche in quantità tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute. L'acqua è fondamentale per l'essere umano, perché contiene elementi essenziali che l'organismo non è in grado di produrre autonomamente, quali il boro, il selenio, il fluoro, il cromo e il rame. Importante bere almeno 2 litri al giorno d'acqua in età adulta, soprattutto in periodi caldi e dopo aver svolto intensa attività fisica. E ancora, dati sorprendenti riportati da ilfattoalimentare.it: "Secondo i più recenti dati dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) il volume d’acqua prelevato per uso potabile dalle fonti di approvvigionamento presenti in Italia è pari ad una quantità giornaliera per persona di 428 litri, il più alto nell’Unione europea. Oltre il 40% del volume di acqua prelevata non raggiunge il rubinetto, a causa delle dispersioni della rete dovute a tubature vecchie e a scarsa manutenzione", insomma il cronico problema della dispersione idrica. Poi il quadro normativo. Le leggi in vigore prevedono che igiene e purezza dell'acqua devono essere assicurate fino al punto finale di consumo, in genere il rubinetto domestico, o il punto di rifornimento industriale. I metodi per l’analisi dei parametri sono fissati dall’Istituto superiore di sanità (Iss). Nel caso in cui una Asl riscontri delle non conformità nell’acqua, comunica i risultati al fornitore e può proporre al sindaco, se necessario, eventuali provvedimenti cautelativi a tutela della salute pubblica.

 Chiare, fresche e dolci acque. Report Rai PUNTATA DEL 05/06/2017 di Claudia Di Pasquale. Sgorgano in aree incontaminate, vengono imbottigliate direttamente alla sorgente e sono batteriologicamente pure. Quello delle acque minerali è un mercato in crescita. Siamo il paese, in Europa, che consuma più acqua minerale imbottigliata: oltre 12 miliardi di litri l'anno, con un fatturato di tre miliardi e mezzo di euro. Ma quali sono le normative che regolano questo settore? E quali sono le differenze con l'acqua potabile?

Sgorgano in aree incontaminate, vengono imbottigliate direttamente alla sorgente e sono batteriologicamente pure. Quello delle acque minerali è un mercato in crescita. Siamo il paese, in Europa, che consuma più acqua minerale imbottigliata: oltre 12 miliardi di litri l'anno, con un fatturato di tre miliardi e mezzo di euro. Ma quali sono le normative che regolano questo settore? E quali sono le differenze con l'acqua potabile? Dalla Basilicata al Lazio fino al Trentino Alto Adige, scopriremo quanto pagano le aziende per la concessione delle sorgenti, e se hanno o meno partecipato a una gara a evidenza pubblica per averne la disponibilità. Ma cosa beviamo? Report ha fatto analizzare da un prestigioso istituto inglese trentadue tra i più famosi marchi di acqua che sono presenti sulle nostre tavole.  

CHIARE, FRESCHE E DOLCI ACQUE Di Claudia Di Pasquale Collaborazione Michela Mancini

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Buonasera, puntata dedicata alle nostre acque minerali. Dal 1980 sono un mercato sempre in crescita. Ogni anno spendiamo mediamente 3,5 miliardi di euro, e nel nostro paese si imbottigliano ogni anno 14 miliardi di litri, siamo quelli dopo il Messico che consumiamo più acqua minerale, 200 litri a testa. Piano piano sta soppiantando l’acqua potabile del rubinetto. E nonostante ci siano delle acque minerali che hanno delle caratteristiche simili a quelle dell’acqua di casa, devono sottostare a un’apposita legge che ne fissa, ne limita la presenza di alcuni elementi che contengono: e ci sono delle acque minerali che addirittura non potrebbero essere bevute tutti i giorni, questo lo consiglia anche il ministero dello sviluppo economico nel manuale per l’etichettatura, dove dice di “rivolgersi ad un medico prima di consumarle soprattutto se si è in presenza di patologie”. Ora, non c’è un’acqua minerale uguale all’altra. La differenza la fanno i componenti del terreno dove sgorga la sorgente. Se vuoi sapere cosa contiene devi leggere le etichette, ma la legge non obbliga le aziende a scrivere proprio tutto. Nel 2010 un’equipe delle università di Napoli, Bologna, Cagliari e Benevento, ha analizzato 186 campioni di acque minerali tra le più famose d’Italia e ha trovato delle cose che le aziende non avevano indicato nelle etichette. Report a distanza di 7 anni ha replicato quegli studi. Ha portato 32 campioni di acque minerali tra le più famosi ad analizzarle presso il prestigioso British Geological Survey, un istituto inglese prestigioso. I risultati ve li daremo nel corso dell’inchiesta. Prima però la nostra Claudia di Pasquale ha cercato di districarsi tra le norme che regolamentano l’acqua potabile e le acque minerali e la cosa non è proprio semplicissima.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sgorgano nel cuore delle Alpi, in aree incontaminate, vicino a parchi naturali e laghi di origine vulcanica. Vengono imbottigliate direttamente alla sorgente, e sono batteriologicamente pure. Sono le acque minerali che ogni giorno finiscono sulle nostre tavole. Ma sono così trasparenti come sembrano?

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Il nostro scopo quindi non è stato quello di fare le pulci alle acque minerali. Assolutamente no. Partiva da tutto un altro presupposto.

CLAUDIA DI PASQUALE Il presupposto era conoscere…?

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Era la conoscenza del territorio per sapere la composizione delle acque sotterranee. Le acque minerali sono acque di sorgente e quindi sono acque sotterranee.

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO Analizzando le acque minerali abbiamo un quadro di quelle che sono le concentrazioni degli elementi della tavola periodica nelle acque sotterranee in Europa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2010 un gruppo internazionale di scienziati ha realizzato il grande atlante europeo delle acque in bottiglia, campionando più di 1700 acque minerali di tutta Europa. Quelle italiane erano 186, tutte le principali marche. Le hanno studiate le università di Bologna, Benevento, Cagliari e Napoli.

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Tengo a precisare che questa attività è stata fatta a costo zero.

CLAUDIA DI PASQUALE Gratis.

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Gratis et amore Dei. E naturalmente operare senza soldi significa che poi non si hanno obblighi verso nessuno e quindi si ha un grado di libertà, o più gradi di libertà in più nel poter dire poi le cose come stanno. Non ci sono padroni da servire.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I geologi hanno studiato anche le acque minerali che sgorgano in alcune aree vulcaniche, come per esempio quella del lago di Vico, nel viterbese. A una ventina di chilometri si trova l'antica città di Nepi, il cui nome di origine etrusca significa proprio acqua. Tutt'intorno ci sono cascate e ruscelli, che scorrono tra lave e rocce di origine vulcanica.

BIAGIO GIACCIO - GEOLOGO CNR Quella grigia è la pasta vetrosa di fondo della lava vera e propria. Questi qua sono cristalli di leucite, questi bianchi. Cioè molto ricchi in alluminio e silice. Qui in particolare possiamo osservare la sovrapposizione di due tufi derivanti da due grandi esplosioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Che tipo di elementi possono contenere questo tipo di rocce.

BIAGIO GIACCIO - GEOLOGO CNR C’è un elevatissimo contenuto di berillio, un elemento che in natura nei suoli e in generale sulla superficie terrestre si trova in concentrazioni di 2–3 parti per milione, mentre in queste va da 9 fino a 80 parti per milione. I tufi sono estremamente porosi e questo chiaramente favorisce lo scambio di elementi tra roccia e acqua.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il berillio è un metallo leggero presente in zone vulcaniche. Viene usato anche dall’industria spaziale. Vicino a queste rocce scorre un torrente, intorno c'è un forte odore di zolfo e a tratti l'acqua appare addirittura bianca perché sulfurea. A poche centinaia di metri da qui c’è lo stabilimento dell’acqua di Nepi, un’acqua effervescente naturale prodotta dal gruppo San Benedetto.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi avete analizzato quest’acqua, cosa avete trovato dentro?

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO In quest’acqua abbiamo trovato, rispetto alla media delle acque minerali nazionali, dei livelli più elevati, mediamente più elevati di berillio.

CLAUDIA DI PASQUALE Che quantità di berillio avete trovato?

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO Abbiamo trovato una quantità superiore di poco ai 4 microgrammi per litro.

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Quindi lei può assumere tranquillamente, bere un’acqua che contiene berillio, e chi la produce non è assolutamente fuori legge perché non c’è la legge.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sul berillio ognuno dice la sua. In Italia non ci sono limiti per acque minerali e del rubinetto. L’Agenzia internazionale della ricerca sul cancro lo considera un cancerogeno, se inalato. L’organizzazione mondiale della sanità suggerisce una soglia di 12 microgrammi/litro per un adulto ma alla fine non stabilisce un limite perché giudica la sua presenza rara nell’acqua da bere.

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO L’Organizzazione mondiale della sanità lo considera un elemento raro. Questo lavoro che abbiamo fatto dimostra il contrario. Quindi va considerato e va stabilita una soglia, una soglia che tra l’altro c’è negli Stati Uniti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Negli Stati Uniti la soglia per il berillio è di 4 microgrammi per litro. Secondo le autorità americane bere per molti anni un’acqua che ne contiene di più potrebbe causare a qualcuno lesioni intestinali. In Italia questo stesso limite di 4 microgrammi lo abbiamo per le falde acquifere.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, l’acqua di falda prevede un limite per il berillio…

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Sì, ma non quella potabile, ma non l’acqua minerale che beviamo. Il paradosso è proprio questo. Se io lo trovo nell’acqua sotterranea, il sito lo considero potenzialmente inquinato, lo devo bonificare per presenza anomala di berillio, però me la posso bere quell’acqua…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è invece il comune di Anguillara Sabazia che si affaccia su un altro lago di origine vulcanica, quello di Bracciano. Qui c'è lo stabilimento dell'acqua effervescente naturale Claudia che è ricca di manganese. Vicino lo stabilimento dietro questo cancello, c’è anche una fonte di acqua pubblica del comune. Tutti la chiamano le cannelle.

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Lì sono chiuse per una non potabilità delle acque.

CLAUDIA DI PASQUALE Da quanto tempo?

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Moltissimi anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Quali erano i valori che erano fuori norma per questa fontana pubblica?

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Risultò con la presenza di manganese, quindi fu dichiarata non potabile.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi il limite del manganese è di 50 microgrammi per l’acqua potabile e di 500 per le acque minerali. Voi che ne pensate di questa cosa?

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Che è assurdo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il problema della presenza del manganese non riguarda la salute ma l’estetica, perché l’acqua può assumere una colorazione gialla. Il paradosso normativo è che di fatto l’acqua Claudia ha una quantità di manganese di circa 300 microgrammi per litro e se fosse l'acqua del comune non rispetterebbe i limiti. Invece è minerale ed è a norma. Ma le differenze tra acqua minerale e acqua del rubinetto non sono finite qui.

CLAUDIA DI PASQUALE L’alluminio che limite ha per le acque potabili?

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO Allora per le acque potabili ha 200 microgrammi per litro.

CLAUDIA DI PASQUALE E per le acque minerali?

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO Per le acque minerali non ha il limite.

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO E un altro parametro che ha limiti diversi è il fluoruro, che per le acque potabili è 1,50 e per le acque minerali è consentito fino a 5.

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Se per l’acqua di rubinetto il limite è 1,5 ma perché per l’acqua minerale deve essere 5? Visto che poi beviamo più acqua minerale che acqua di rubinetto ormai?

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè se un’acqua supera il limite di 1,5 di fluoro…

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO Ci deve essere scritto nell’etichetta che è un’acqua non consigliata per l’infanzia.

CLAUDIA DI PASQUALE Ah sì?

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE No, perché non l’ho mai trovata questa scritta.

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO E no, neanche io.

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI La difformità che si registra di limiti per acque potabili di rubinetto e acque minerali, secondo noi non è giustificata.

CLAUDIA DI PASQUALE Secondo voi è corretto che ci siano tutte queste differenze tra le acque minerali e le acque potabili?

ETTORE FORTUNA – VICEPRESIDENTE MINERACQUA Sì, certo, certo. È corretto e lo fa il legislatore non è che le facciamo noi le leggi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il legislatore ha fatto due normative diverse, una nel 2001 per l’acqua potabile del rubinetto destinata al consumo umano quotidiano e un’altra nel 2015 per le acque minerali. Come vediamo i limiti di vari elementi sono diversi. Per fare qualche esempio la soglia dei nitriti è più alta per l’acqua del rubinetto, mentre quella del boro è più alta nelle acque minerali, il benzene è tollerato fino a un microgrammo litro nell’acqua di casa, ma non in quella imbottigliata, per il bario c’è un limite per l’acqua minerale e nessuno per quella del rubinetto, per ferro e alluminio è prevista una soglia per l’acqua del rubinetto e non per quella minerale.

CLAUDIA DI PASQUALE Per alcune sostanze nello specifico i limiti sono più elevati nelle acque minerali rispetto che nelle acque potabili. Anzi in alcuni casi il limite c’è nelle acque potabili e non c’è proprio in quelle minerali.

ETTORE FORTUNA – VICEPRESIDENTE MINERACQUA Ma questo perché qual è la denominazione dell’acqua minerale? C’è un terzo aggettivo. Acqua minerale, naturale. Quel naturale implica che tu devi imbottigliare l’acqua così come scaturisce dalla sorgente.

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO Una cosa assolutamente non consentita nell’acqua minerale è il trattamento di potabilizzazione dal punto di vista microbiologico. L’acqua potabile può essere sottoposta a trattamento, col cloro può formare dei trialometani, clomoformio, bromoformio.

CLAUDIA DI PASQUALE Anche l’acqua potabile ha dei limiti più stringenti per altri parametri.

LUCA ARCANGELI - DIRETTORE SANITARIO ARPA LAZIO Sì. sì. Certamente forse andrebbero più armonizzate, sono sempre limiti previsti comunque che derivano dalla normativa… vengono tratti dalla normativa europea.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tutte queste differenze normative sono infatti lo specchio di direttive europee. Una sostanza che invece ha lo stesso limite sia nell’acqua in bottiglia che in quella del rubinetto, è l’arsenico.

PAOLA MICHELOZZI –DIRIGENTE DIPARTIMENTO EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE LAZIO L’arsenico è una sostanza che ha effetto su tutto, su tutti i sistemi dell’organismo, a partire dal sistema cardiovascolare, polmonare, ha effetti genotossici ed effetti cancerogeni accertati. Per il tumore del polmone, della cute e della vescica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per questo motivo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito come limite dell’arsenico nell’acqua da bere 10 microgrammi per litro. Poche settimane fa, proprio l’acqua del rubinetto del comune di Anguillara Sabazia ha superato questo limite e così è stata emessa un’ordinanza di non potabilità.

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA La cosa più preoccupante è che questi pozzi portano acqua anche all’interno degli edifici scolastici.

CLAUDIA DI PASQUALE Che livelli di arsenico si possono raggiungere in questi pozzi?

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Anche 40 microgrammi.

CLAUDIA DI PASQUALE Nel 2013 mi risulta che sono stati installati dei filtri per poter rimuovere l’arsenico. Funzionano questi filtri?

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Purtroppo si è verificato che abbiamo dovuto emettere ordinanze di non potabilità. Lì si parla di filtri che sono un po’ esausti in questo momento quindi bisogna procedere al cambio e al ripristino.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto sono costati questi dearsenificatori?

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Quasi 500.000 euro. Più la manutenzione costante che viene fatta.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanto costa la manutenzione?

SABRINA ANSELMO – SINDACO ANGUILLARA SABAZIA Molto. Siamo su cifre importanti: sui 120.000 euro all’anno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fino a pochi anni fa, grazie a più deroghe, in alcuni comuni a nord di Roma e nel viterbese il limite dell'arsenico è stato alzato fino a 50 microgrammi per litro. Ma quali sono stati gli effetti sulla salute dei cittadini? Lo ha studiato proprio il dipartimento di epidemiologia del Lazio, che ha condotto un'analisi su oltre 160mila persone.

PAOLA MICHELOZZI –DIRIGENTE DIPARTIMENTO EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE LAZIO Lo studio è durato circa vent’anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi avete studiato l’esposizione di 160.000 persone dal 1990 al 2010?

PAOLA MICHELOZZI –DIRIGENTE DIPARTIMENTO EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE LAZIO Esattamente, esattamente sì. E abbiamo trovato un effetto di incremento della mortalità per il tumore del polmone, per le cause cardiovascolari, per le cause respiratorie, per il diabete, per le patologie respiratorie, cioè per la maggior parte delle cause che in letteratura sono state associate agli effetti dell’arsenico.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo studio è una delle 12 ricerche realizzate nel mondo finita in un’importante meta analisi internazionale sugli effetti dell’arsenico nell’acqua potabile a basse dosi, in questo caso da 10 a 50 microgrammi. Ma sotto il limite di 10, che succede?

PAOLA MICHELOZZI –DIRIGENTE DIPARTIMENTO EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE LAZIO C’è un’incertezza per quanto riguarda i livelli inferiori a 10. Sembra non esserci da questa curva una dose soglia sicura.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè sotto i 10 microgrammi io posso stare assolutamente certo che non mi può capitare niente?

PAOLA MICHELOZZI –DIRIGENTE DIPARTIMENTO EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE LAZIO Penso che nessuno può dare una risposta! Penso che nessuno possa dare una risposta affermativa, sicura, a questo. Alcuni ricercatori degli Stati Uniti hanno proposto l’abbassamento del livello soglia a valori inferiori a 10 microgrammi litro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tanto è vero che l'agenzia americana per la protezione ambientale pur lasciando il limite di 10, ha sottolineato che l'obiettivo ideale sarebbe arsenico zero.

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO Se l’obiettivo è arsenico zero nelle acque, io voglio conoscere se bevo un’acqua minerale, qual è la concentrazione di arsenico. Anche se non supera la soglia di legge.

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Se lei guarda l’etichetta di un’acqua minerale, non trova… mica c’è scritto quanto cadmio c’è. Mica c’è scritto quanto rame c’è.

CLAUDIA DI PASQUALE Secondo voi le etichette andrebbero cambiate?

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Secondo me sì.

CLAUDIA DI PASQUALE L’arsenico non c’è scritto …

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO Ad esempio l’arsenico non c’è scritto.

BENEDETTO DE VIVO – PROF. GEOCHIMICA UNIVERSITÀ FEDERICO II NAPOLI Non c’è il cadmio, non c’è l’uranio.

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO Fa meno impressione vedere che…

CLAUDIA DI PASQUALE C’è il magnesio…

DOMENICO CICCHELLA – DOCENTE GEOCHIMICA AMBIENTALE UNIVERSITÀ DEL SANNIO Che l’acqua contiene magnesio. Calcio, ione bicarbonato piuttosto che vedere arsenico. Il consumatore probabilmente viene inibito ad acquistare un’acqua… però l’acqua contiene tutti gli elementi presenti nella tavola periodica. Questo deve essere chiaro.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi sareste disposti a mettere in etichetta: quanto alluminio c’è, quanto arsenico c’è …

ETTORE FORTUNA – VICEPRESIDENTE MINERACQUA Ma dove la mettiamo, lei ha mai visto un’etichetta di un’acqua minerale? Non c’è spazio per scrivere più nulla perché abbiamo le menzioni obbligatorie che dobbiamo mettere. Poi c’è il simbolo del riciclo, la possibilità di riciclare… l’etichetta è quello che è.

CLAUDIA DI PASQUALE Non siete disposti a mettere in etichetta quanto arsenico c’è nelle diverse acque minerali.

ETTORE FORTUNA – PRESIDENTE MINERACQUA Non è che non siamo disposti a metterlo. Noi applichiamo la legge. Cioè che al di sotto di 10 non c’è nessun obbligo di scriverlo e per altro capisco il legislatore che non ti ha posto l’obbligo di scriverlo, perché non ha senso scriverlo. Non è un’indicazione che dà al consumatore utile. Assolutamente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Invece noi molto più umilmente pensiamo che sia giusto che sia il consumatore a decidere e a scegliere anche in base a quelle informazioni che non c’è l’obbligo mettere in etichetta, anche perché poi quell’acqua finisci col berla tutti i giorni. Bene, Report ha deciso di iniziativa, a preso l’iniziativa di selezionare 32 marche di acque minerali e di farle analizzare presso il British Geological Survey, una delle istituzioni più prestigiose abbiamo detto e la lista delle analisi la troverete pubblicata sul nostro sito già a partire da questa sera. Innanzitutto la bella notizia è che abbiamo delle acque minerali tutte a norma e anche che sono tra le migliori in Europa. Detto questo però ci sono informazioni che vale la pena conoscere.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Abbiamo analizzato 32 acque minerali, tra le più note e tra quelle che si erano distinte nello studio dell’università di Napoli per la presenza di alcuni valori. Come detto i risultati sono tutti nella norma. Ci sono quelle povere di sodio e quelle ricche di solfati, che in alcuni casi possono superare anche di gran lunga il limite di 250 milligrammi/litro previsto per l’acqua del rubinetto. Abbiamo ritrovato il berillio nell’acqua di Nepi, 3,95 microgrammi/litro ma meno di quanto ne avevano trovato gli studiosi napoletani. C’è anche un po’ di arsenico, 3,27 microgrammi, mentre l’acqua San Benedetto dello stesso gruppo ne ha meno di 0,40. Monitorando l’arsenico ne troviamo un po’ anche nella Santagata: 3,67; Ferrarelle: 4,47; Egeria liscia: 5,65; mentre quella effervescente ne ha la metà. Levissima poi quasi 6.

ETTORE FORTUNA – PRESIDENTE MINERACQUA Non ce l’ha 6 Levissima. Avrà meno di 6, sicuramente. Non ce l’ha.

CLAUDIA DI PASQUALE 5,99.

ETTORE FORTUNA – PRESIDENTE MINERACQUA Comunque non è questo il punto. Se il limite è 10, la legge ti dice che sei nei limiti di legge.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È vero che sono tutte abbondantemente sotto il limite di 10 microgrammi/litro. Ci chiediamo allora se le aziende sarebbero disposte a scrivere queste informazioni sulle loro etichette. Perché se è vero che non c’è l’obbligo di metterle come dice la legge, non c’è neppure l’obbligo del contrario. L’acqua Egeria si trova a Roma nel cuore del parco dell'Appia antica.

CLAUDIA DI PASQUALE Si è evidenziato che per esempio l’Egeria ha dei valori mediamente più alti di arsenico per quanto comunque nei limiti di legge, volevamo confrontarci con voi su questi dati.

UOMO EGERIA Mandateci una mail con la vostra richiesta specifica e noi vi risponderemo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche il gruppo San Benedetto ha preferito non rilasciare interviste. Mentre la San pellegrino ha ribadito per iscritto di rispettare i limiti di legge e l’origine naturale dell’arsenico. Lo stesso ha fatto la Ferrarelle, che ha confermato la correttezza dei risultati delle nostre analisi ma non ha accettato l’intervista né di farci filmare l’azienda e il suo parco circostante.

CLAUDIA DI PASQUALE Ferrarelle ci ha scritto che non era interessata a diventare oggetto di un servizio giornalistico. E che era già abbastanza trasparente nei confronti dei suoi consumatori e quindi non era necessario farsi intervistare.

ETTORE FORTUNA - VICE PRESIDENTE MINERACQUA Sì ma vi ha scritto anche di più Ferrarelle visto che la cita. Vi ha scritto, se volete venire a vedere il parco venite, noi vi organizziamo una visita.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma io sono una giornalista, non è che vado a fare la gita con la famiglia, mi scusi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questi sono i laghi di Monticchio, nel territorio del Vulture in Basilicata. Qui c'è il 30% delle riserve idriche italiane e di stabilimenti di acque minerali ce ne sono un bel po’. Uno di questi è quello della Toka, dalle nostre analisi è risultato che ha un contenuto di boro di circa 1300 microgrammi per litro, nel rispetto del limite di legge che è 5000, ma se fosse un’acqua di rubinetto sarebbe fuori norma.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè non si potrebbe erogare quell’acqua?

BRUNO BOVE – RESPONSABILE LABORATORIO CHIMICO ARPA BASILICATA Difatti no, difatti bisognerebbe fare… è un superamento, è un’acqua non potabile, cioè un’acqua che non ha più le caratteristiche della potabilità previste dalla normativa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo stabilimento dell'acqua Toka si trova a Monticchio Bagni. Fino allo scorso anno era del gruppo della Coca Cola, oggi fa parte del gruppo Norda che fa capo alla famiglia Pessina.

UOMO Guardi non lo so se siete autorizzati a riprendere e a fare foto.

CLAUDIA DI PASQUALE Se vuole parlarci siamo felici anche perché vorremmo capire un po’ la storia di questo investimento.

UOMO Io non sono autorizzato a parlare di questo, chiamo il mio direttore, lo devo informare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Subito dopo chiudono i cancelli e anche questo autotrasportatore resta fuori.

UOMO Mo’ come si deve fare qua non c’è un campanello non c’è niente. Il cancello è chiuso!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A soli tre chilometri il gruppo Norda ha un altro stabilimento di acqua minerale, quello della Gaudianello. Ha appena sottoscritto uno dei contratti di sviluppo promossi dal ministero. Su un investimento complessivo di 32,9 milioni si prevede un finanziamento agevolato di 17,6, più altri 7,1 milioni a fondo perduto per riqualificare gli impianti e realizzare un acquedotto di collegamento tra i due stabilimenti.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi vorremmo parlare con qualcuno della Gaudianello.

UOMO Non c’è nessuno. Vi hanno già avvertito, non c’è nessuno.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì però noi vorremmo capire meglio questo investimento che sta facendo la Gaudianello sullo stabilimento della Toka. UOMO Ho capito ma questo dovreste chiederlo a Milano. Qua ormai gli uffici sono spariti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Da Milano ci hanno negato qualsiasi intervista.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti stabilimenti di acqua minerale ci sono qua in Basilicata?

VITO MARSICO – DIRETTORE GENERALE PRESIDENZA REGIONE BASILICATA Ci sono tredici concessioni di acque minerali, si concentrano attorno a quattro operatori fondamentalmente: uno locale e tre di rilievo nazionale e internazionale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oltre al gruppo Norda ci sono infatti il gruppo San Benedetto, che pochi anni fa ha ottenuto un contributo regionale di 3 milioni e 4, pari al 25% di un investimento realizzato nel Pollino, e la Coca Cola Hbc Italia che a Rionero in Vulture produce le acque Lilia e Sveva.

CLAUDIA DI PASQUALE C’è stata una gara di evidenza pubblica per dare queste concessioni?

VITO MARSICO – DIRETTORE GENERALE PRESIDENZA REGIONE BASILICATA No, in questo senso le dicevo dovremmo ammodernare il sistema.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti litri imbottigliano ogni anno?

VITO MARSICO – DIRETTORE GENERALE PRESIDENZA REGIONE BASILICATA All’incirca 800 milioni di litri.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto ci guadagna la regione Basilicata?

VITO MARSICO – DIRETTORE GENERALE PRESIDENZA REGIONE BASILICATA La royalty che viene versata è di un euro per ogni metro cubo. Tenga in conto che…

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi per ogni mille litri sostanzialmente?

VITO MARSICO – DIRETTORE GENERALE PRESIDENZA REGIONE BASILICATA Per ogni mille litri, un decimo di centesimo a litro.

CLAUDIA DI PASQUALE Non è comunque poco secondo lei?

VITO MARSICO – DIRETTORE GENERALE PRESIDENZA REGIONE BASILICATA Stiamo proprio in questo periodo valutando la possibilità di un ulteriore incremento.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In media le regioni fanno pagare da 1 a 2 euro per ogni mille litri imbottigliati, più un canone fisso di poche migliaia di euro, ma ci sono anche regioni come la Puglia e la Sardegna…

STEFANO CIAFANI – DIRETTORE GENERALE LEGAMBIENTE Fanno pagare le aziende che imbottigliano le acque minerali non in base ai volumi di acqua che imbottigliano, ma in base alla superficie della concessione che viene data loro. Alcune decine di euro per ettaro di concessione rilasciata, questo che si imbottigli un litro, mille litri o un miliardo di litri. Questo è un regalo francamente insostenibile.

ETTORE FORTUNA – VICEPRESIDENTE MINERACQUA Secondo me quello che noi paghiamo è giusto. È più che giusto. CLAUDIA DI PASQUALE Cioè non è poco secondo lei?

ETTORE FORTUNA – VICEPRESIDENTE MINERACQUA No, non è poco. Eh, ma quanto può valere l’acqua senza il contributo del privato concessionario che la scopre, che la riconosce e che ci fa lo stabilimento, investe e poi la va a vendere. Quanto può valere quell’acqua là?

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto dovrebbero pagare le aziende per l’acqua?

STEFANO CIAFANI – DIRETTORE GENERALE LEGAMBIENTE Abbiamo chiesto al governo e al parlamento di approvare una norma che definisca un canone di concessione unico a livello nazionale di almeno 20 euro a metro cubo. Insomma si tratterebbe di due centesimi di euro per ciascun litro di acqua in bottiglia e francamente è un costo che le aziende si possono permettere e il consumatore non se ne accorgerebbe.

CLAUDIA DI PASQUALE Lo Stato quanto ci potrebbe guadagnare?

STEFANO CIAFANI – DIRETTORE GENERALE LEGAMBIENTE Con una tassa di concessione a 20 euro a metro cubo gli introiti per lo Stato sarebbero di 250 milioni di euro all’anno.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei cosa ne pensa di questa cosa?

ETTORE FORTUNA - VICEPRESIDENTE MINERACQUA Beh, non lo posso dire perché mi viene una parola indicibile, ma comunque…

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè?

ETTORE FORTUNA - VICEPRESIDENTE MINERACQUA È una cretinata, è una cavolata perché è una cosa da Legambiente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qua siamo invece nell'Alto Adige, e questa è la cittadina di Merano, nota per il suo stabilimento termale, che è gestito da una società della provincia di Bolzano. Tutto il territorio è ricco di fiumi, torrenti e sorgenti di acqua minerale, che in questo caso sono in mano ai privati.

ALESSANDRO URZÌ – CONSIGLIERE PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO Noi siamo seduti su una miniera, è una miniera liquida quella dell’acqua. Beh allora ci si aspetterebbe che ci sia un bel rientro in termini di utilità economica per chi ci vive su questo territorio.

CLAUDIA DI PASQUALE Che canone fate pagare per l’acqua?

ALESSANDRO URZÌ – CONSIGLIERE PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO Che canone fanno pagare per l’esattezza! Settemila centoquattordici euro e 20 centesimi, questo è il canone che viene applicato per la quasi totalità delle aziende.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché pagano così poco questi stabilimenti?

FLAVIO RUFFINI – CAPO DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PROVINCIA DI BOLZANO Perché l’attuale regolamento prevede questo, infatti stiamo lavorando sul nuovo regolamento con nuovi fattori che aumentano e mettono molto più equi questi canoni che sono da pagare.

ALESSANDRO URZÌ– CONSIGLIERE PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO Non tutte pagano settemila euro perché ce n’è una che invece risulta, in comune di Lana, essere esentata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo stabilimento che non paga neanche un euro per la concessione dell'acqua minerale è quello dell'Aquaeforst, che imbottiglia l’acqua di Merano. Questa storia l'ha scoperta il consigliere Urzì facendo un'interrogazione.

CLAUDIA DI PASQUALE In sostanza loro hanno giustificato il fatto che quest’azienda non paga il canone di concessione dell’acqua minerale scrivendole cosa?

ALESSANDRO URZÌ – CONSIGLIERE PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO Esentata in base a una legge regionale. Me la sono letta…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma questa legge di quando è?

ALESSANDRO URZÌ – CONSIGLIERE PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO Questa legge è dell’età della pietra, 1954, esisteva un altro statuto di autonomia, esisteva un quadro giuridico completamente diverso.

CLAUDIA DI PASQUALE Questa legge esattamente cosa dice?

ALESSANDRO URZÌ – CONSIGLIERE PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO Me la sono riletta più volte. Io francamente non ho capito la ragione per cui questa esenzione dovrebbe essere applicata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In sostanza ad un certo punto l’Aquaeforst si ritrova ad avere il diritto di concessione di tutte le principali sorgenti di acqua minerale della zona. Queste poche case sparse in cima ai monti intanto erano rimaste senza acqua potabile. E così il giorno in cui la provincia di Bolzano decide di portargliela deve scendere a patti con l'azienda che dice io ti do alcune sorgenti, ma la mia concessione non la pago.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè in sostanza quest’azienda in base all’accordo che è stato raggiunto non pagherà l’acqua fino a che anno?

FLAVIO RUFFINI – CAPO DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PROVINCIA DI BOLZANO Fino al 2038.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi la nuova legge che voi farete a luglio per cambiare, adeguare i canoni, potrà far sì che quest’azienda almeno l’Aquaeforst paghi finalmente un canone di concessione per l’acqua minerale?

FLAVIO RUFFINI – CAPO DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PROVINCIA DI BOLZANO Lì sarà difficile.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè in sostanza l’Aquaeforst potrebbe continuare a pagare zero fino al 2038?

FLAVIO RUFFINI – CAPO DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PROVINCIA DI BOLZANO Giusto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, non è proprio vero abbiamo fatto una visura, abbiamo scoperto che uno dei due soci di Aquaeforst è proprio la provincia di Bolzano, attraverso la sua società “Terme di Merano”, che detiene lo 0,005%, insomma in base a questa quota avrebbe diritto a circa 50 euro di utili dalla vendita di acque minerali.

·        Il Vino. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 dicembre 2021. Vuoi frenare alcuni dei terribili postumi di una sbornia, soprattutto durante le celebrazioni festive?  I postumi di una sbornia differiscono non solo a seconda di quanto bevi, ma anche del tipo di bevanda che decidi di optare per quella sera. Il vin brulé è uno dei preferiti delle feste annuali, ma purtroppo ti fa sentire peggio rispetto ad altre bevande perché è una scelta dolce che può causare affaticamento e vertigini il giorno successivo a causa delle fluttuazioni di zucchero nel sangue. Mentre la tequila apparentemente non provoca i postumi della sbornia a causa del processo che sta dietro alla preparazione della bevanda messicana. Ecco le informazioni di cui hai bisogno per sapere quale bevanda ti causerà quali sintomi della tua sbornia il giorno successivo.

Il dottor Zenon Andreou, un medico di base, dice che bevendo un distillato più leggero come vodka, gin e birre leggere, si consumano meno congeneri per ogni bicchiere. 

I congeneri sono un sottoprodotto del processo di fermentazione che serve a produrre bevande più scure come rum e whisky, vino rosso e brandy. 

Con 15 anni di esperienza nell'approvvigionamento, nel commercio e nell'apprendimento di vino e liquori, Steve King, amministratore delegato di Bottled and Boxed, un rivenditore di alcolici online, ha detto che questi liquori più scuri possono prolungare i sintomi di una sbornia perché il tuo corpo deve abbattere sia l'alcol che i congeneri. 

È noto che i congeneri rendono più gravi sintomi come mal di testa, dolori muscolari e nausea. Il dottor Andreou ha aggiunto che possono essere tossici, il che significa che interferiscono con le funzioni delle cellule del corpo, ostacolando la capacità del corpo di ripararsi la mattina successiva.

Il mal di testa da vino rosso è un tipo di sbornia specifico, e alcune persone avvertono nausea ed emicrania dopo soli 15 minuti dal primo bicchiere. Il vino più scuro ha sostanze naturali chiamate tiramina e istamina che possono causare la restrizione dei vasi sanguigni nel corpo, lasciandoti mal di testa al mattino, afferma il dott. Andreou. 

Ha aggiunto: «Queste sostanze a volte sono fino al 200 per cento più alte nel vino rosso rispetto al vino bianco, motivo per cui potresti sentirti peggio dopo una notte passata a bere rosso». Kerry Beeson, terapista nutrizionale di Optibac Probiotics, ha spiegato che il vino rosso biologico potrebbe essere un'alternativa migliore.

Sebbene il vin brulé abbia un contenuto alcolico inferiore rispetto ad altri vini, gli zuccheri naturali e aggiunti possono aumentare rapidamente i livelli di zucchero nel sangue, il che può causare mal di testa il giorno successivo. 

Ciò è dovuto all'iperglicemia, o ipoglicemia reattiva, una sovra o sottocompensazione del glucosio nel sangue. E, di conseguenza, il vin brulé può portare a spiacevoli effetti collaterali come vertigini, tremori e stanchezza. 

La nutrizionista delle celebrità Yalda Alaoui ha affermato che le calorie variano enormemente a seconda del tipo di alcolico scelto. Mentre un bicchiere di vino da 125 ml contiene circa 125 kcal, lo champagne secco ha una media di circa 95 kcal, un bicchiere di vin brulé zuccherato ha una media di 235 calorie.  

«Consiglio di stare alla larga dalle bevande alcoliche zuccherate e di optare per vino secco o champagne per ridurre al minimo l'interruzione dei livelli di zucchero nel sangue e ridurre il desiderio dopo il consumo. Il vantaggio dei vini d'annata è che contengono batteri che potrebbero essere benefici per la salute gastrointestinale».

La dottoressa Kathryn Basford ha spiegato come si si sbronza e perché. «Quando bevi, l'alcol entra nel flusso sanguigno e inibisce la produzione del corpo di vasopressina, un ormone della ghiandola pituitaria che dice al corpo di trattenere l'acqua nei reni. Senza quest’ormone, l'acqua va direttamente alla vescica (motivo per cui i bevitori fanno molte visite al gabinetto) e lascia il corpo disidratato». 

«Il mal di testa che spesso segnala i postumi di una sbornia è la reazione del cervello a questa perdita di liquidi, mentre la nausea e la mancanza di energia che accompagnano il mal di testa sono la risposta del corpo ai bassi livelli di zucchero nel sangue e alla perdita di minerali ed elettroliti che aiutano il corpo a funzionare correttamente». 

«Più bevi, più è probabile che sentirai questi effetti e più tempo potresti impiegare per riprenderti».

La tequila è spesso considerata la bevanda ideale per le persone che escono la sera, dice il dott. Andreou. 

La tequila pura e di qualità, prodotta al 100% con agave, passa attraverso un diverso tipo di processo di fermentazione, il che significa che all'interno della bevanda ci sono meno zuccheri e congeneri. «Se consumato con moderazione e insieme all'acqua per mantenerti idratato, potresti essere in grado di svegliarti il giorno successivo quasi senza effetti collaterali».  

Effervescenti. Istruzioni pratiche per l’uso. Samuel Cogliati su L'Inkiesta il 14 Dicembre 2021. In questo periodo dell’anno il mercato dei vini spumanti, da sempre considerati “vini da festeggiamento”, vede un notevole aumento delle vendite. Non sempre si tratta però di un’accezione positiva. Ecco una mini guida per conoscere, conservare, stappare e servire le migliori bollicine.  

Il destino dei vini che hanno il dono dell’effervescenza e incarnano una tipologia connessa con le occasioni speciali, le celebrazioni, i momenti d’eccezione è da sempre un’impennata delle vendite a fine anno. Questa stagionalità è una croce e delizia della categoria: i produttori sanno infatti di poter contare su una garanzia commerciale sotto le feste (quest’anno si registrano transazioni da capogiro, con interi magazzini “saccheggiati”), ma rimanere relegati in questa fascia temporale può essere rischioso, oltre che un handicap organizzativo e di comunicazione. Le aziende lavorano perciò da tempo per provare a destagionalizzare la vendita, ma i vini mossi sono per natura percepiti come speciali, e come tali vanno trattati.

Ecco, dunque, un libretto delle istruzioni per maneggiare (con cura) questi vini particolari.

Nomen omen

Iniziamo chiamando le cose per nome. Da anni i vini che contengono anidride carbonica rispondono all’appellativo, brillante e auto-evidente, di bollicine; per gli amici bolle. Una facile e funzionale metonimia, che indica la parte (il gas) per designare il tutto (il vino gassoso), ma che non rende giustizia alla complessità né alla qualità del vino stesso. Non è certo il diossido di carbonio a fare la bontà della bevanda.

Paladino di una battaglia persa, accarezzo da tempo il sogno proibito di veder scomparire tutte le bollicine e bolle dalle carte dei vini d’Italia. Ma con che cosa sostituire questi vocaboli trendy-hype-easy? A me non dispiace una semplice operazione filologica: vini spumanti è, a pensarci bene, locuzione assai più poetica: dà conto della movimentata leggiadria e dell’eleganza della spuma, intima fusione del gas e del liquido, degli aromi e del sapore del vino.

Spumante è però una stantia parola novecentesca, che paga il prezzo di una calamitosa banalizzazione industriale ed evoca dozzinali bottiglie da 3,99 € al discount. Moltissimi produttori non ne vogliono neanche sentir parlare. Peccato: se accordassimo più importanza ai suoni e alla semantica – mai notato quanto sia eufonico il participio presente sostantivato spumante e quanto cacofonico bolla? – non ci scandalizzeremmo di ricordarci che lo champagne è uno spumante.

Qualche alternativa? Visto che in materia di vino l’Italia si ispira quasi sempre alla Francia, perché non mutuare la dicitura transalpina vin effervescenti? O perché non legittimare appieno la duttile e icastica espressione vino mosso?

In cantina

Veniamo alla pratica. Tornate felici a casa con il vostro champagne o franciacorta preferito e avete ansia di stapparlo. È una buona idea? Probabilmente no. Contrariamente a quel che spesso si crede, gli spumanti, specie metodo classico, hanno bisogno di invecchiare un po’. Quanto? Una risposta generica è impossibile, perché varia caso per caso, ma qualche anno di bottiglia fa bene a qualunque Oltrepò pavese, Trentodoc o Crémant. Sia esso demi-sec o pas dosé, millesimato o brut sans année, rosato o blanc de blancs. A patto però di avere una buona cantina dove custodirlo (fresca, abbastanza umida, buia).

Quanto conservare la vostra bottiglia? Se l’etichetta (o la retro-etichetta) riporta una data di sboccatura, non sbaglierete attendendo almeno un anno / un anno e mezzo. Se invece non potete basarvi su alcun riferimento temporale, semplificatevi la vita: considerate la data d’acquisto come il punto di partenza. Ma che cosa accade se la bottiglia era già stagionata a nostra insaputa al momento della vendita? Se nei vostri desideri c’è uno spumante profondo, complesso e armonico correte comunque più rischi a stapparlo troppo presto che un po’ troppo tardi.

Come va conservata la bottiglia? Non a testa in giù (come vedo ancora fare in qualche caso): questa folkloristica soluzione scimmiotta la posizione in cui il metodo classico subisce il remuage, una delle operazioni del processo di spumantizzazione, ma in una bottiglia già in commercio non fa che accrescere la pressione verso il tappo. A lungo si è ritenuto che le bottiglie vadano conservate coricate. Lo scopo sarebbe bagnare il sughero con il vino, aiutandolo così a mantenere una sana elasticità. Alcuni studi dimostrerebbero tuttavia che l’intercapedine tra vino e tappo mantiene da sé un’umidità ideale. Dunque tenere la bottiglia in piedi risulterebbe indifferente o quasi. Nel dubbio, se potete coricarla non le farà male.

Ricordate però soprattutto che più la vostra cantina è calda, prima (e peggio, probabilmente) invecchierà il vino. Se supera i 20-22 °C, cercate un’alternativa.

Temperatura e raffreddamento

Gli spumanti vanno bevuti freschi o freddi. Ma attenzione agli equivoci: nessuno di essi va servito ghiacciato, a meno che non sia così cattivo da volere annichilirne il sapore. In tal caso, preferite il lavandino.

In linea di massima, gli spumanti giovani si servono a 8-10 °C, quelli maturi ed evoluti a 11-12 gradi. Tenete però sempre presente un parametro che si sottovaluta spesso, la temperatura ambientale: se lo bevete in un locale molto caldo, servitelo più freddo (comunque mai sotto 6-7 °C), oppure abbassate il riscaldamento (opzione più sagace, economica ed ecologica).

Come raffreddare la bottiglia? Il cestello con acqua e ghiaccio è scenografico e raffinato; di solito bastano 20-30 minuti di completa immersione per arrivare a una temperatura idonea. Ricordate di tenere a portata di mano un “frangino” (tovagliolo o canovaccio) pulito per asciugare il flacone ogni volta che l’estrarrete dal cestello. (E non capovolgete la bottiglia vuota a testa in giù nel cestello: è un’usanza degna dei peggiori night club degli anni Settanta… «Mario, portacene un’altra!»).

E se non avete un cestello? Se lo spumante era conservato a temperatura di cantina, in frigo basterà un paio d’ore. Ma il freezer? Si sostiene spesso che una “botta di freddo” intenso danneggi il liquido; alcuni studi del professore di enologia émile Peynaud dimostrerebbero invece che non c’è differenza rispetto al frigo. A patto tuttavia di rispettare la medesima temperatura di arrivo.

Stappatura

È il momento temuto da molti, perché può essere disagevole, talora anche rischioso. In realtà non è troppo complicato, se osserviamo qualche accorgimento. Ecco come procedere.

Primo: scartate la capsula (il foglio metallico che ricopre il tappo).

Secondo: stringete bene il tappo e il collo della bottiglia con la vostra mano “debole” (per i destri la sinistra e viceversa) e posizionate il pollice saldamente sopra il tappo. Mano e pollice non dovranno più spostarsi di lì.

Terzo: con l’altra mano allentate la gabbietta (meglio non rimuoverla, perché da questo momento in poi il sughero potrebbe saltare via in qualunque momento).

Quarto: portate la mano “forte” sotto il fondo della bottiglia.

Quinto: ruotate la bottiglia (non il tappo!) lentamente e sempre nello stesso senso, come per se doveste svitarla. Contemporaneamente, con la mano debole e il pollice dovete capire se la chiusura oppone resistenza (allora cercate di smuoverla con cautela) oppure se si libera facilmente (in quel caso dovrete cercare di governarne la spinta).

Sesto: quando il tappo è quasi espulso del tutto, rallentatene ulteriormente la fuoriuscita: il rumore che si deve sentire è un soffio gentile e quasi impercettibile. Il “botto” è triviale ed esibizionista.

Per analoghi motivi di sobrietà, va da sé che la circense ma ormai celebre pratica della “sciabolatura” – la decapitazione della bottiglia con un colpo di spada (o di qualunque altro oggetto) sul collo – è una pratica da bandire dall’universo. 

Servizio e calici

In alcuni ambienti è divenuto di moda scaraffare lo spumante in decanter, parificandolo a molti altri vini, per permettergli di “respirare” e di sprigionare prima e meglio il proprio bouquet. Questa operazione disperde però tanta anidride carbonica molto in fretta, mortificando lo spumante. Meglio attendere con un poco di pazienza che dia il meglio di sé direttamente nei calici.

Quale bicchiere scegliere?

Le cosiddette flûtes sono da tempo l’opzione più quotata, dato che mettono in evidenza il perlage, ossia le catenelle di bollicine che risalgono nel calice. Grazie alla loro forma alta e stretta non sono però ideali per apprezzare gli aromi del vino. Oggi molte di esse hanno perciò assunto una forma più ampia e panciuta, conservando di fatto della flûte solo l’altezza e la sottigliezza dello stelo. Tanto vale allora impiegare un normale buon calice, lo stesso che scegliereste per un ottimo vino bianco fermo.

E la coppa? Dopo un secolo di incontrastata primazia, tra metà Ottocento e metà Novecento, è stata messa all’indice dai puristi della degustazione, perché troppo svasata per gratificare il profumo del vino. È vero. Però è così raffinata e peculiare che io amo ancora usarla per servire un vino raffinato e peculiare.

La coppa, specie se piccola, può essere quasi colmata, altrimenti sembra semivuota. Noblesse oblige, flûtes e calici a tulipano vanno invece riempiti non oltre la metà, meglio ancora un terzo.

Bulla in fundo

Visto che abbiamo iniziato dalla CO2, concludiamo con la CO2. Molti intenditori argomentano che la finezza e la velocità di risalita delle bollicine nel calice siano direttamente proporzionali alla qualità dello spumante. In verità il professor Gérard Liger-Belair, fisico dell’università di Reims (in Champagne!), ha dimostrato che l’aspetto delle bollicine è legato a fattori indipendenti dalla qualità del vino (o solo in parte e indirettamente connessi): il volume di anidride carbonica contenuta nella bottiglia, la temperatura di servizio, solo marginalmente la densità del liquido, ma soprattutto le condizioni del calice. Sono infatti le “impurità” quali le particelle di polvere depositate nel bicchiere, oppure i piccoli intagli o le imperfezioni del vetro a creare i cosiddetti “centri di nucleazione” da cui si sprigionano le bollicine.

Guida Slow Wine 2022, i migliori vini d’Italia regione per regione secondo Slow Food. Marco Vassallo su Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2021. La guida Slow Wine, che tra le sue pagine raccoglie e racconta il meglio del vino italiano (quest’anno 1.958 aziende e oltre 8 mila etichette), è alla dodicesima edizione. Tra le 218 chiocciole, riconoscimento assegnato alle realtà più virtuose, ci sono 23 nuovi ingressi.

La nuova guida

Un viaggio tra i filari, le botti e le cantine. Dal nord al sud. Alla ricerca delle eccellenze del nostro Paese. La guida Slow Wine, che tra le sue pagine raccoglie e racconta il meglio del vino italiano (quest’anno 1.958 aziende e oltre 8 mila etichette), è giunta alla sua dodicesima edizione. E, dopo le limitazioni causa covid, si riappropria di due elementi. Il primo sono le visite in cantina dei suoi collaboratori: se nel 2020 ci si è dovuti arrangiare con video e interviste telematiche ai produttori, nel 2021 i redattori sono tornati in vigna ad assaggiare vini e toccare con mano le realtà da recensire. L’altro elemento è il ritorno delle chiocciole, non assegnate nell’ultima edizione proprio per l’impossibilità dei tour. Rappresentano il certificato di eccellenza destinato alle cantine virtuose che meglio interpretano «i valori organolettici, territoriali e ambientali in sintonia con la filosofia di Slow Food». Secondo la guida, sono 218 le aziende meritevoli di tale riconoscimento, con 23 nuovi ingressi. In questo articolo vi raccontiamo tutte le new entry regione per regione. Senza dimenticare i tre Premi Slow Wine consegnati durante la Milano Wine week.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Alto Adige

Partiamo dall’Alto Adige. Sono due le nuove cantine premiate in questo territorio. Fra le colline ricche di vigneti dell'Oltradige, sul pendio soleggiato che sovrasta San Michele ad Appiano (BZ), una stradina ghiaiosa conduce ai poderi della tenuta Hof Gandberg, del giovane viticoltore classe 1986, Thomas Niedermayr. Qui i Piwi (vitigni resistenti agli attacchi fungini e quindi meno esposti alle malattie dell’oidio e della peronospora) sono i protagonisti della coltivazione. Allora, dai circa due ettari di vigna, ecco i bianchi Solaris, Bronner, Souvignier gris e Muscaris, mentre la produzione di rossi si concentra su Cabernet Cantor e il Cabernet Cortis. La scelta di Niedermayr, che prevede la coltura di varietà ottenute dall’incrocio di diverse specie, consente di rinunciare ai trattamenti chimici, permettendo di fatto una filosofia aziendale sostenibile. L’altro nuovo ingresso della regione è la tenuta Dornach- Patrick Uccelli (Salorno, BZ) un maso antichissimo (proprietà fondiaria tipica del Tirolo), citato ufficialmente per la prima volta nel 1288. Ora è la casa di Patrick e Karoline: lui vignaiolo ed enologo che accompagna l’uva in tutte le sue fasi di trasformazione. Lei biologa che si occupa di preservare la biodiversità all’interno della tenuta. In questa proprietà si osservano i principi di coltivazione biodinamica e si producono «4 profili» di vino, bianchi rossi e rosé: vini da sete (vini facili da bere che hanno come finalità quella di accompagnare un pasto o un momento conviviali) vini da vitigni Piwi, i «selezioni» (con la cartina catastale storica), e i «differenti» (etichette varie).

Guida Slow Wine, le chiocciole – Piemonte

Con sette novità, il Piemonte è la regione/territorio che nella guida conta più nuovi ingressi. Fra queste ci sono i vini del Roero di Alberto Oggero (bianchi e rossi), viticoltore artigiano che ha fondato la sua azienda nel 2009. L’amore per la vigna gli fu trasmesso dal nonno a cui ha dedicato il Sandro d’Pindeta’, un rosso delicato e succoso. Poi c’è il Roero Arneis, bianco autoctono e biologico: secondo il suo produttore, questo vino– quello del 2019 ha ricevuto nella Guida il riconoscimento di Top Wine– deve essere aspettato e si può bere anche dopo 3-4 anni. Infine troviamo il Roero rosso, un Nebbiolo protagonista dei primi esperimenti della gioventù, a cui Oggero oggi vuole dare un carattere più agile e beverino rispetto ad altre interpretazioni. Con la Cantina Favaro, invece, ci spostiamo a Piverone, provincia di Torino. Dal 1992 c’è una realtà a conduzione familiare, dove Benito prima e Camillo poi si sono dedicati all’Erbaluce, vitigno autoctono piemontese a bacca bianca. Nei quasi quattro ettari vitati troviamo anche una produzione destinata all’F2, vino rosso ricavato da uve Freisa, altro vitigno locale. La Cascina San Michele è una giovane realtà di Castigliole d’Asti inaugurata nel 2015 con vitigni che vanno dalle Langhe al Monferrato: varie linee di Barbera, ma la cantina ha anche un Monferrato Rosso, un bianco, l’Eteronimo, un rosato con uva Bonarda piemontese e il passito, il Dolcenera. Se ci spostiamo al nord della regione, ecco l’azienda Antoniotti. Questa realtà ha ormai 160 anni. Nasce infatti sulle colline del biellese nel 1861, con l’acquisto dei primi vigneti. Dopo sette generazioni e l’estensione della vigna su quasi 5 ettari di terreno situati nelle DOC Bramaterra e Coste della Sesia, oggi è Odilio, con il figlio Mattia, ad occuparsi della coltivazione di Nebbiolo, Croatina, Vespolina e Uva Rara. La cantina in questione rimane una delle poche ad imbottigliare ancora il Bramaterra, una Doc dell’Alto Piemonte consentita nelle province di Biella e Vercelli e ricavata da uve Nebbiolo. Le vigne di Oltretorrente, invece, si trovano a Paderna, nello splendido areale delle colline tortonesi. Sono distribuite su sette ettari, suddivise in altrettante parcelle e 20 ambienti diversi. Qui ci sono alcuni esemplari piantati un secolo fa. I vini prodotti? Barbera superiore, e Rosso Colli tortonesi tra i rossi, mentre Timorasso dei Colli tortonesi (Derthona) e Bianco Colli tortonesi per i bianchi. Infine ecco Trediberri di La Morra (CN) che coltiva su un totale di 8 ettari: la sua principale produzione è riservata al vino re del territorio: il Barolo. Entra tra le chiocciole anche Cascina delle Rose, una piccola azienda in provincia di Cuneo acquisita dalla famiglia Rizzolio nel 1948 . Oggi ha 5 ettari di terreno di cui 4,5 a vigneto e circa 0,3 a noccioleto, più un piccolo bosco. Sono territori, quelli aziendali, vocati al Barbaresco, con una produzione vinicola che si aggira attorno le 25/27.000 bottiglie l’anno.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Veneto

La new entry veneta si chiama Mongarda, e si trova a Col San Martino (TV). Quella che era una vecchia casa in centro paese nella zona del ConeglianoValdobbiadene Docg si è trasformata negli anni in una cantina più strutturata con vasche di cemento e acciaio e soffitti di legno. Dove vengono prodotti 3 declinazioni Prosecco (Un extra dry, un brut e un dosaggio zero) e un Colli Trevigiani.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Emilia Romagna

La Bergianti Vino- Terre Vive è la cantina di un’azienda agricola nata nel 2008 a Gargallo di Carpi, provincia di Modena, grazie a Gianluca Bergianti e sua moglie Simona. Fin dall’inizio questa realtà ha adottato le tecniche agronomiche biodinamiche. La cantina apre i battenti nel 2013 con l’annata di produzione inaugurale e il primo vino: un rosso 100% Salamino, uve della famiglia del Lambrusco, salvato da una grandinata che aveva compromesso gran parte della vendemmia. Su un terreno sabbioso-limoso come questo, le uve lambrusche trovano una grande espressione e varie declinazioni. Orsi- Vigneto San Vito si trova, invece, sui Colli bolognesi, nella frazione di Oliveto, ad un’altitudine di 200 metri. Su questa collina esistono antiche testimonianze della presenza di vini di qualità, risalenti a carteggi medievali con l’Abbazia di Nonantola. San Vito, fedele ai principi biodinamici, produce vino da una cinquantina d’anni: bottiglie come Posca rosso, o Posca bianco, con uve autoctone. E c’è anche il Pignoletto frizzante.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Liguria

Terre bianche. Questa cantina, fondata nel 1871, si chiama così proprio per il terreno argilloso che caratterizza la collina nella Val Nervia, dove sorgono i vigneti aziendali. La produzione vinicola di questa realtà è un misto tra tradizione e innovazione e riguarda sia rossi che bianchi. Ecco allora il Rossese di Dolceacqua Bricco Arcagna (Tre bicchieri Gambero rosso 2022), ricavato da un vitigno ad uva rossa di questo territorio (il Rossese), o il Vermentino e il Pigato, vini da uva bianca tipici del Ponente ligure.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Slovenia

Anche Slovenia nella Guida di Slow Wine. Che recensisce le dei territori di confine «perché c’è una continuità tra le denominazioni slovene del Kras e Brda e quelle italiane del Carso e del Collio». Il nuovo ingresso si trova in Istria, in una vallata ad imbuto nel golfo di Trieste e la cantina si chiama Klabjan. Gli ettari di questa famiglia sono dislocati in punti diversi su suoli argillosi-marnosi e sono gestiti in biodinamica; in fase di vinificazione nessuna manipolazione e solforosa bassa o nulla. I vini prodotti sono i Malvasija (Black label e White label) e il Refošk (White label e Red Label).

Guida Slow Wine, le chiocciole – Toscana

Tre novità in Toscana. Una è la Fornacina, realtà alle porte di Montalcino (SI) immersa nei vigneti di Sangiovese. In questa suggestiva cornice la famiglia Bilorsi produce dal 1981 (anno della prima vendemmia) il Brunello di Montalcino, come tradizione comanda e secondo i principi dell’agricoltura biologica. Tre i vini imbottigliati due Brunello (di cui uno riserva) e il Rosso di Montalcino. E c’è pure la grappa, ricavata sempre da uve Sangiovese. Anche la produzione vitivinicola della cantina Petrolo è cominciata negli anni ’80, nel territorio di Valdarno di Sopra. La filosofia aziendale è chiara come si legge sul sito: «A Petrolo non esiste un vino base, esistono solo grandi vini». Questa idea è alla base di etichette come Boggina, Torrione, Galatrona, San Petrolo, Campo lusso che nascono da vitigni Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon e Trebbiano. La terza azienda toscana a ricevere la chiocciola si chiama Pian dell'Orino e si trova nel territorio di Montalcino. Si sviluppa su 1,5 ettari di cui 5,8 a vigneto. L’unico vitigno coltivato è il Sangiovese, con 22 diversi cloni. A seconda dell'annata, si imbottigliano dai due ai cinque vini: Brunello di Montalcino Bassolino; Brunello di Montalcino Vigneti del Versante Docg, Rosso di Montalcino Bassolino Doc, Rosso di Montalcino Doc e Piandorino Igt.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Campania

Tre sono le new entry campane. Dietro la prima, Cantine dell’Angelo, c’è la famiglia Muto, che lavora le uve di solo Greco coltivate sopra le antiche miniere di zolfo a Tufo (Irpinia). Dai cinque ettari vitati, seguiti personalmente dal titolare Angelo, vengono fuori varie declinazioni di Greco di Tufo, un bianco con forti note di zolfo, determinate dal territorio. Dall’Irpinia a Boscotrecase, provincia di Napoli. Qui, nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio, ci sono le terre della cantina Matrone, famiglia che da sempre vive in questi territori e che dal XVIII secolo si dedica alla produzione di vino. Quale? Il Lacryma Christi, bianco e rosso, vino rappresentativo della zona realizzato con un mix di varie tipologie di uve. La terza chiocciola campana viene dal Sannio, per la precisione da Guardia Sanframondi: su circa 2 ettari tra le colline del beneventano, Giovanni Iannucci (che è anche il nome dell’azienda) produce Falanghina e Barbera del Sannio. Anno di fondazione di questa realtà: 2012.

Vino, classifiche e consigli

Guida Slow Wine, le chiocciole – Basilicata

L’azienda agricola Elena Fucci nasce nel 2000 quando la famiglia di questa produttrice decise di mantenere gli splendidi vigneti comprati da nonno Generoso negli anni ‘60, ai piedi del Monte Vulture. A quel tempo e in quel posto, il vino si faceva già, ma le bottiglie erano destinate all’autoconsumo. Recentemente è stata completata la nuova cantina, sorta in adiacenza al corpo storico aziendale e collegata da un tunnel scavato nella roccia vulcanica. La nuova struttura è stata concepita secondo i principi della bioarchitettura, con materiali di recupero e riciclo e tecnologie per ridurre a zero gli impatti e i consumi energetici. Il vino prodotto? Chiaramente l’Aglianico del Vulture, celebre espressione vinicola del territorio.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Puglia

Archetipo è un’azienda nata a Castellaneta, ai piedi della Murgia barese, non lontano da Altamura. Fondata da Francesco Valentino Dibenedetto, contadino e agronomo, dagli anni ’80 comincia la sua conversione all’agricoltura biologica passando poi, nel 2000, alle pratiche biodinamiche. Poi c’è l’ultimo step: l’approdo all’agricoltura sinergica e alle pratiche non interventiste. Da quando si è adottata questa filosofia, non si fa più l’aratura. Questa realtà ha ad oggi circa trenta ettari di vigneto, coltivati senza ricorso alla chimica. L’attività va avanti anche grazie al coinvolgimento della moglie Anna Maria e dei quattro figli. In questo terreno, sussistono le condizioni ideali per tanti vitigni. Ci sono Primitivo, Aglianico, Negroamaro, Fiano e Greco, ma sono state riscoperte anche varietà e come Maresco, Marchione e Susumaniello. L’obiettivo è di lasciare, una volta portate le uve in cantina, invariati gusto, aroma, e profumi. Ecco perché le fermentazioni avvengono solo con lieviti indigeni e non ci sono filtrazioni.

Guida Slow Wine, le chiocciole – Sicilia

Grillo, Catarratto, Nero D’Avola, Trebbiano. Dietro questi vini dell’Alto Belice corleonese, c’è molto di più, oltre a vendemmia, imbottigliamento, e distribuzioni. La cantina che li produce, Centopassi, è l’anima vitivinicola delle cooperative Libera Terra, i cui territori sono proprio quelli confiscati alla mafia. Oltre al fattore etico, c’è un altro dato da considerare: queste zone, bellissime paesaggisticamente, sono pure vocate alle produzioni di alta qualità.

Vino, classifiche e consigli

I tre Premi Slow Wine

Sono tre i riconoscimenti speciali assegnati. Il Premio al Giovane vignaiolo va a Federico Stroppolatini della cantina Stroppolatini di Cividale del Friuli. L’imprenditore, oggi ventottenne, nel 2015 abbandonò gli studi di ingegneria per portare avanti l’attività di famiglia, dopo la malattia del padre. Ora è uno dei personaggi più interessanti del mondo vinicolo friulano: valorizza vitigni poco conosciuti come il Tocai giallo e porta avanti l’azienda secondo principi della sostenibilità. Il Premio per la viticoltura sostenibile va invece all’azienda Ceretto di Alba. Dal 2010 la famiglia Ceretto, ha assunto con il cambio generazionale un preciso impegno volto al radicale mutamento delle tecniche agronomiche, convertendo gli oltre 100 ettari di vigneti di proprietà in regime biologico certificato, e dal 2018 in conduzione biodinamica. Vino ma anche cultura: l’azienda è infatti protagonista di varie iniziative che sottolineano l’importanza di ritrovare l’equilibrio con la natura. Il Premio alla Carriera è stato consegnato ad Elisabetta Fagiuoli della cantina Montenidoli di San Gimignano (SI) che quest’anno festeggia le cinquanta vendemmie. Premiata perché ha segnato un prima e un dopo per la Vernaccia di San Gimignano e per la Toscana più in generale. Con il suo lavoro, è riuscita, infatti, a trasformare i suoi vini in grandissimi classici. Il tutto praticando un’agricoltura biologica certificata.

Cavallo di battaglia della qualità. Montalcino, il distretto che conquista il mondo. Vittorio Ferla su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Nel 1992 un ettaro di terreno vitato di Brunello di Montalcino valeva 40 milioni di vecchie lire (36.380 euro attuali secondo il coefficiente Istat per l’attualizzazione dei valori). Oggi il prezzo è circa 20 volte superiore, pari a 750 mila euro. Una rivalutazione record del +1.962%. Stando alle stime 2020 del Consorzio, il “vigneto Brunello” vale oggi circa 2 miliardi di euro complessivi, e continua ad attrarre investimenti. Il che dimostra quanto possa essere importante per l’Italia l’asset dell’agroalimentare (e, all’interno di questo, il settore vitivinicolo). Il trentennale di Benvenuto Brunello – evento in corso in questi giorni che ha inventato le “anteprime” dei vini italiani nel 1992 – è l’occasione per fare il punto sull’esplosione di un vero e proprio distretto economico del vino che oggi miete successi in tutto il mondo. A partire dai primi anni ’90, la produzione di Brunello porta a Montalcino professionalità da 70 paesi diversi. Nel corso degli anni – spiega al ricostruzione di WineNews realizzata con il supporto del Consorzio – il miracolo economico e culturale dell’area diventa evidente. Basti pensare che il 15,8% della popolazione di Montalcino è fatta da stranieri: il doppio della media italiana con una grande capacità attrattiva. E che il tasso di disoccupazione non arriva al 2%, con grandi opportunità di lavoro anche per i comuni limitrofi. Il peso dell’agroalimentare è decisivo. Non solo vino, ma tartufo bianco, olio, miele, zafferano, formaggio, prugne, pasta e farro: tanti prodotti che vedono l’impegno di quasi la metà delle imprese locali. Gli effetti a cascata per il benessere e le opportunità del territorio sono importanti. Basti pensare alla grossa spinta che ha ricevuto il turismo enogastronomico con la moltiplicazione di esercizi nel campo della ristorazione e dell’ospitalità. Ogni anno oltre 1 milione di enoturisti e “big spender” arrivano a Montalcino: in 7 casi su 10 si tratta di stranieri provenienti da più di 60 Paesi. “Il concetto di qualità – ha detto il presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, Fabrizio Bindocci – oggi non si limita al solo vino ma abbraccia una sfera più ampia. A un aumento della qualità del Brunello corrisponde in maniera direttamente proporzionale un incremento del benessere socioeconomico della comunità sul territorio”. Il cavallo di battaglia della qualità e del prestigio internazionale resta il vino: con un impatto incredibile se si pensa che gli ettari vitati sono pari soltanto al 15% delle superfici agricole. Oggi in commercio si trovano 14 milioni di bottiglie (9 milioni di Brunello di Montalcino e 4 milioni di Rosso) prodotte da 218 aziende. Il 70% del prodotto va in 90 paesi di tutto il mondo. Infine, gli stock conservati in botte nei caveau delle cantine, secondo l’analisi di WineNews, valgono già 400 milioni di euro e addirittura 1,2 miliardi una volta che il Brunello sarà imbottigliato e pronto alla vendita. Vittorio Ferla

Vino, chi comanda in Italia? Le (106) grandi aziende e le cantine al top. Anna Di Martino su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2021.

Le grandi aziende hanno contenuto le perdite del 2020. Il primo semestre 2021 ha riportato fiducia tra le vigne: ci sono segnali di ripresa ovunque e c’è anche un futuro verde all’orizzonte: l’Italia è la prima nazione in Europa a imboccare la strada della sostenibilità, grazie alla recente approvazione del decreto ad hoc da parte del governo. Una boccata di aria fresca che aiuta a lasciarsi alle spalle un anno da dimenticare. Il mercato del vino ha chiuso i conti 2020 con 3 miliardi di ricavi in meno, pari a un decremento del giro d’affari del 24%. In flessione anche l’export: dopo anni di crescita ininterrotta, le esportazioni hanno invertito la marcia con vendite pari a 6,3 miliardi, il 2,4% in meno del 2019. Naturalmente ogni cantina ha la sua storia e in funzione di molti fattori, primo tra tutti l’organizzazione commerciale, è stata in grado di fronteggiare in modo più o meno efficace la congiuntura sfavorevole. A pagare di più sono state le cantine piccole e medie legate principalmente al canale horeca (hotel, ristoranti, bar) messo in ginocchio dai lockdown. Mentre le aziende maggiori, e in particolare quelle dotate di una strategia distributiva multicanale, sono riuscite a contenere le perdite e anche a mettere a segno ottimi risultati. È il caso di molte aziende che compongono l’esclusiva classifica delle 106 maggiori realtà vitivinicole nazionali. Un campione significativo dell’industria nazionale del vino che rappresenta il 61,8% del giro d’affari totale del settore, il 62,2% delle esportazioni e il 61,3% del fatturato domestico.

Grandi numeri: giro d’affari di 6,7 miliardi. Complessivamente le 106 cantine hanno registrato un giro d’affari di 6,7 miliardi, un export di 3,9 miliardi e 2,7 di incassi sul mercato domestico. A conferma della difficile annata, anche questo campione dai grandi numeri ha chiuso il 2020 con un decremento del fatturato del 3,22%, sintesi di un incremento dell’export del 2,4% e di una flessione del 10,2% del lavoro in Italia. Molto meno del resto del mercato. Protagoniste della classifica sono 65 aziende private e 41 cooperative. Nel segmento privati ci sono forti differenze. Molti brand, soprattutto nella fascia alta della graduatoria, hanno un taglio industriale che esclude proprietà viticole. Ed è proprio questa tipologia di aziende che oggi si sta muovendo con decisione per aumentare di taglia. È il caso dell’Italian Wine Brands (Iwb), quotato all’Aim, che ha appena definito l’acquisto di Enoitalia. Ed è il caso di Botter e Mondodelvino che sono confluiti in un nuovo nuovo polo vinicolo con forti ambizioni sotto l’egida di Clessidra (vedere L’Economia del Corriere della Sera n.°22).

Le aziende di lunga tradizione. Completamente diverso è il modello di business delle tante realtà produttive, per lo più a proprietà familiare, da generazioni alla guida della loro maison. È questa una delle caratteristiche distintive del mercato italiano, cui danno vita tante griffe del made in Italy enologico: Marchesi Antinori, Marchesi Frescobaldi, Marchesi Mazzei, Barone Ricasoli, Tenuta San Guido, Planeta, Donnafugata, Umani Ronchi, Tommasi, Bortolomiol, Argiolas, Montelvini, Mastroberardino, Folonari, Argiolas per citarne alcune. Famiglie che curano le vigne come fossero figlioli, sventolando alta la bandiera della sostenibilità: come dimostra il riconoscimento appena ricevuto da Tasca d’Almerita e Alois Lageder: due delle 24 aziende in tutto il mondo a ricevere il Robert Parker green emblem 2021, prima edizione di un premio riservato alle cantine che «hanno dimostrato sforzi straordinari nella ricerca di pratiche ecologiche». E l’impegno per l’ambiente e temi sociali si moltiplica: Feudi di San Gregorio è diventata azienda Benefit, Cielo e Terra vanta la Certificazione BCorp, la famiglia Ziliani ha fondato l’Academia Berlucchi in Franciacorta a protezione del territorio, per portare tre esempi.

Il fattore cooperativo...C’è poi il mondo della cooperazione, sempre più consapevole del suo ruolo legato alla terra e ai viticoltori. Le coop pesano per il 44,5% sul fatturato totale del campione, per il 35,9% sull’export, per il 57% sul fatturato Italia, tenendo sempre la testa della graduatoria con Cantine Riunite e Caviro. Il podio al vertice della cooperazione si completa con il consorzio trentino Cavit, che ha cambiato taglia dopo l’acquisto delle controllate dell’ex gruppo La Vis. Da notare la grande estensione di vigneti di proprietà dei viticoltori-soci della cooperativa. Il gruppo Caviro, da solo, dispone di 36.272 ettari in produzione, quasi un quinto delle vigne dell’intero campione. La Marca vini e spumanti ha dalla sua 15 mila ettari, 2 mila in più rispetto allo scorso anno, al gruppo Ermes fanno capo 10.453 ettari. Mentre Colomba bianca ne conta 7 mila ettari, Terre Cevico 6.920, Cantina di Soave, Vivo, Cavit, Collis Veneto wine group oltre 6 mila ettari ciascuno.

... e quello privato. E i privati? Sono 5 (una più del 2019) le aziende che possono vantare un fatturato superiore ai 200 milioni. Botter, la maggiore azienda privata del mercato, Marchesi Antinori, Fratelli Martini, Iwb ed Enoitalia. Sono 21 in totale, con la new entry Contri spumanti, le aziende con più di 100 milioni di fatturato: il famoso club over 100, fotografato su L’Economia n.° 22. Entra a quota 56 con 34,6 milioni la Losito e Guarini: è leader nella produzione della Bonarda dell’Oltrepò Pavese, ma vanta anche una collezione di vini pugliesi, terra d’origine della famiglia. Suoi i marchi Le Cascine, Lebollè, C’era una volta e Guarini . Fondata nel 1910 da Domenico Losito, negli anni Sessanta i Losito si uniscono alla famiglia Guarini che ne guida tuttora la crescita: al comando ci sono oggi i fratelli Davide e Renato Guarini, a fianco della madre Luisa Losito. New entry 2020 anche la Fdb-Famiglia Dal Bianco al 61° posto. Tre aziende, Masottina, Terre di Oglieno e Santa Caterina, sono le tre colonne su cui è costruito il suo gruppo. Punto di forza è la Masottina, che da sola rappresenta più di 26 milioni sul totale di 30,6. Cuore a Conegliano Valdobbiadene, 280 ettari vitati, i Dal Bianco sfoggiano bollicine top come il Prosecco superiore docg e le Rive di Ogliano, ma producono anche vini fermi raccolti sotto il brand Ai Palazzi Masottina. Al comando la seconda generazione: Adriano Dal Bianco, con i figli Federico, Filippo, Edoardo e la moglie Franca.

Il podio ha il sangue blu. Un podio dal sangue blu domina la classifica 2020 che fotografa le cantine che vantano la maggiore redditività. Questa speciale graduatoria, che riguarda solo le imprese private, è costruita tenendo conto del rapporto tra il margine operativo lordo (ebitda) e il fatturato. Ebbene il vertice 2020 di questa ambita classifica è interamente occupato da tre cantine blasonate. Il primo e il secondo gradino è appannaggio di due illustri cugini: gli Incisa della Rocchetta, proprietari della Tenuta San Guido, e gli Antinori, da secoli alla testa della Marchesi Antinori. I primi, Nicolò e Priscilla Incisa della Rocchetta, padre e figlia, con la loro celebre maison di Bolgheri, produttrice del rosso Sassicaia, guardano tutti dall’alto del loro stratosferico indice del 59,60%. Ma che dire della Marchesi Antinori, sei volte più grande della Tenuta San Guido, capace di realizzare un ebitda del 42%? Qui le tre sorelle Albiera (anche presidente della maison) Allegra e Alessia Antinori, coadiuvate dall’amministratore delegato Renzo Cotarella, firmano risultati economici di grande rilievo, a dimostrazione che anche un’azienda che possieda vigne a perdita d’occhio, se ben gestita, può fare utili. Ma ecco al terzo posto la prima novità significativa del 2020: conquista il podio della redditività la Marchesi Frescobaldi, un’altra storica casata Toscana, legata alla vigna e alla terra, che in questi ultimi anni ha realizzato un decisivo miglioramento dei suoi margini operativi, sotto la guida di Lamberto Frescobaldi, presidente operativo e dell’amministratore delegato Giovanni Geddes. Il monopolio della Toscana continua con la Castellani, al quarto posto: l’azienda di Piergiorgio Castellani marcia come un treno ed ha migliorato di quasi 7 punti il suo margine, toccando il 34,57%. Al quinto posto irrompe il Veneto con il Gruppo Santa Margherita della famiglia Marzotto: guidato dall’amministratore delegato Beniamino Garofalo è tra le realtà più performanti del mercato con un ebitda del 33,8%, quattro punti in più rispetto al 2019. Il sesto e settimo posto toccano a due cantine siciliane: Planeta entra nella top ten migliorando il suo indice di ben 13 punti e Donnafugata della famiglia Rallo a quota 24,60%.

Dal gruppo Farnese alla famiglia Cotarella. Novità anche all’ottavo posto e nono posto dove si fanno avanti il gruppo Farnese creato da Valentino Sciotti, vanto d’Abruzzo, e la toscana Carpineto, realtà in crescita costante guidata dalle famiglie Zaccheo e Sacchet. Chiudono due ospiti fissi di questo salotto: la famiglia Cotarella, con il 21,32% e Cusumano, con il 21,19% (quest’ultimo dopo molti anni lontano dal podio). L’annus horribilis ha lasciato infatti il segno anche in questa classifica: escono di scena nel 2020, pur registrando risultati invidiabili, tanti habitué di questa graduatoria come il Gruppo Lunelli (ebitda 20,70%) e Guido Berlucchi (19,75%). L’indice di redditività non riguarda il mondo cooperativo, i cui fini statutari sono l’aiuto ai soci e la migliore remunerazione delle uve che questi conferiscono alla cooperativa.

I primati. L’Enoitalia della famiglia Pizzolo con 114 milioni di pezzi, 4 milioni in più rispetto al 2019, ha potenziato nel 2020 il suo primato di primo imbottigliatore italiano. Ed è ora pronto a trasferirsi sotto l’egida dell’Italian wine brands (Iwb) al quarto posto della classifica stilata in base al numero di bottiglie prodotte, con 65 milioni di pezzi. Al secondo e al quinto posto troviamo Casa vinicola Botter e Mondodelvino group (97 e 62 milioni di bottiglie ciascuno) confluite sotto il fondo Clessidra. In pratica nella cinquina al vertice, l’unica azienda che procede sola soletta è la Contri Spumanti, produttrice di 79 milioni di bottiglie e titolare di un fatturato di 107,3 milioni di euro. Protagonisti di questa top ten anche Schenk Italian Wineries: 59 milioni di bottiglie e una strategia multicanale che si è tradotta in un incremento del giro d’affari. Al settimo posto Zonin 1821 (49 milioni di pezzi): oggi con un top management interamente rinnovato, sotto l’amministratore delegato Pietro Mattioni. All’ottavo posto la new entry Losito e Guarini (Bonarda a gogò tra i 34 milioni di bottiglie), seguita da Cielo e Terra (33 milioni di bottiglie, tra leader nella Gdo) e Latentia Winery.

Le aziende che hanno corso di più nel 2020. Ma quali sono le aziende che hanno corso di più nel 2020? La graduatoria che registra i maggiori incrementi del fatturato totale è dominata da l’Iwb con un incremento che sfiora il 30 per cento. Al secondo posto, con una crescita di oltre il 21% ecco il consorzio veneto Cantine Vitevis, frutto di fusioni completate nel 2019 con la Cantina di Castelnuovo del Garda. Presieduto da Silvano Nicolato e diretto da Alberto Marchisio ha guadagnato 10 posti in classifica piazzandosi al 41° posto. Sfiora il 19 per cento l’incremento messo a segno sul mercato domestico dalla coop trentina Vivallis, mentre Cantine Volpi, proprietà dell’omonima famiglia e punto di riferimento nella produzione dei Colli Tortonesi raggiunge il 17,8%. Contando anche Contri spumanti (+13,4 per cento) e Gruppo Caviro (+10 per cento), sono 7 le aziende che, numeri alla mano, possono registrare una crescita del fatturato a due cifre. Completano la top ten due grandi coop, Cavit e La Marca e l’azienda privata toscana Tenute Piccini. Sotto la regia dell’amministratore delegato Mario Piccini, il gruppo vinicolo di Casole d’Elsa ha un rapporto privilegiato con la grande distribuzione, vanta cinque tenute nel Chianti classico, Maremma, Etna e Vulture in Basilicata ed è pronto ad allargare il perimetro all’occasione. Molte aziende di questa classifica si accomodano anche nella graduatoria che raccoglie le crescite più importanti all’export. Con tre sole eccezioni. La prima è Casa Paladin: conquista il secondo gradino del podio con un incremento del fatturato estero che supera il 29 per cento. Guidata dai fratelli Carlo e Roberto Paladin, Casa Paladin si estende in Veneto, Friuli, Toscana e Franciacorta con un approccio strategico green (hanno appena creato un vigneto didattico). C’è poi al quarto posto la Cantina di Soave, una delle maggiori coop italiane e, infine, al quinto Cantina Vecchia Torre, solida coop pugliese con un ricco medagliere.

Mercati lontani. E chi sono i maggiori esportatori? La top ten è guidata dall’emiliana Cantine Sgarzi di proprietà della famiglia Sgarzi, che si occupa di imbottigliamento e commercializzazione di vino sfuso e confezionato. Guidata da Stefano Sgarzi, opera nel settore della Grande distribuzione organizzata a livello europeo ed extra europeo dove realizza il 99 per cento del suo fatturato. Segue Farnese group, basato in Abruzzo, con il 97,6 per cento, quindi il Gruppo Ruffino con il 95,24 per cento. Sotto il podio altri attori importanti tra cui Pasqua vigneti e Cantine di Verona: firma storica del mercato, dell’omonima famiglia veneta, oggi giunta alla terza generazione, vanta controllate sia negli Stati Uniti che nei promettenti mercati asiatici ed è una delle realtà più social del mercato.

La verità sul vino: i benefici dopo i 60 anni. Rosa Scognamiglio il 18 Agosto 2021 su Il Giornale. Il vino è una bevanda ricca di nutrienti. Quello rosso è ricco di antiossidanti: quali scegliere e quanto berne dopo i 60 anni. Rosso, bianco, rosato, fermo o frizzante: il vino è la bevanda perfetta per tutte le occasioni. Celebrato in tutto il mondo per il suo sapore squisitamente unico, "il nettare degli degli dei" – così com'è noto dai tempi dell'antichità – ben si addice anche alla dieta dei senior. Se consumato con moderazione, servito alla giusta temperatura e in abbinamento con le pietanze adeguate, è in grado di contrastare l'invecchiamento e prevenire l'insorgenza di malattie cardiovascolari. Insomma, il vino è un vero e proprio toccasana per la salute dei 60enni.

Le proprietà del vino. Molto più che una semplice bevanda alcolica da accompagnare ai pasti o per celebrare le grandi occasioni. Ricavato dalla fermentazione dell'uva, il vino è ricchissimo di nutrienti, ovvero, sostanze indispensabili al nostro organismo per garantire la corretta funzionalità degli organi vitali.

Dalle vitamine ai minerali, ecco quali sono i preziosi componenti del vino:

minerali (calcio, ferro, fosforo, fluoro, manganese, magnesio, potassio, sodio, zinco, rame e selenio);

vitamine (A, B1, B2, B3, B4, B6, K, J, betacarotene, luteina e zeaxantina);

polifenoli (molecole di origine organica in grado di contrastare i radicali liberi. Quelle presenti nel vino sono il tirosolo e l'idrossitirosolo).

I benefici del vino per i senior. Gli effetti benefici del vino sono molteplici. Nel corso degli anni, studi condotti da fior fior di ricercatori in tutto il mondo hanno accertato che questa bevanda può impattare positivamente sulla salute. E non solo: per i senior è un vero e proprio toccasana. Se assunto con moderazione può rallentare il processo di invecchiamento e prevenire l'insorgenza di alcune patologie a carico del sistema cardiovascolare.

Il vino rosso, più del bianco, negli over 60 ha la capacità di:

preservare l'attività di reni e cuore;

contrastare l'invecchiamento inibendo l'attività dei radicali liberi mediante il resveratrolo

(un flavonoide);

migliorare la coagulazione del sangue;

prevenire l'insorgenza di malattie reumatiche;

proteggere dalle malattie degenerative a carico del sistema nervoso centrale come

il morbo di Alzheimer;

preservare la memoria;

regolare la pressione sanguigna;

ridurre il colesterolo cattivo e i trigliceridi.

In aggiunta ai benefici elencati, vale la pena ricordare che il vino è dotato di proprietà antinfiammatoria e battericida. Inoltre, riduce i livelli di stress regalando una piacevole sensazione di benessere fisico e mentale.

Quantità e tipologie di vino adatte ai senior. Il vino può essere integrato alla dieta dei senior. Tuttavia, è bene assumerne quantità moderate e possibilmente mai lontano dai pasti. La componente etilica di questa bevanda, presente in proporzioni variabili tra il 4 e il 20%, potrebbe arrecare danni permanenti al fegato e ai reni in caso di abuso.

La quantità consigliata dagli esperti è di una unità alcolica giornaliera, ovvero, un solo bicchiere al giorno a scelta tra pranzo o a cena. La gradazione alcolica non dovrebbe superare quella dei vini medi, pari cioè a circa 12°gradi.

Tra i bianchi e i rossi, meglio preferire i secondi perché più ricchi di polifenoli. Puntate ai vini "a tutto pasto" come, ad esempio, il Lambrusco. Un'alternativa potrebbe essere il Dolceacqua ligure oppure un Bardolino che, peraltro, è adattissimo alla stagione estiva. Serviteli alla temperatura consigliata in etichetta, consumateli in compagnia, e godetevi la serata.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

Leonardo Martinelli per "la Stampa" il 5 luglio 2021. Lo champagne (quello vero, made in France) non potrà più essere venduto in Russia come tale, ma solo come semplice «spumante». Il termine champagne, invece, sarà riservato ai vini effervescenti di provenienza russa. Sembra assurdo, ma è una realtà da venerdì, quando Vladimir Putin in persona ha firmato una legge con le nuove disposizioni. La risposta da Parigi non si è fatta attendere. Anzi, dal magnate del settore, il miliardario Bernard Arnault, proprietario di Lvmh e in assoluto maggiore produttore di champagne: ha subito bloccato le spedizioni di bottiglie verso la Russia. È guerra delle bollicine tra Parigi e Mosca. Il Governo francese non ha ancora preso posizione, ma potrebbe farlo, perché lo champagne corrisponde a una «denominazione di origine controllata» e può essere prodotto solo in un perimetro ben circoscritto nell' omonima regione della Francia nord-orientale. Proprio lì Monsieur Arnault, negli anni, ha fatto incetta di ettari o ha concluso contratti di fornitura esclusiva coi viticoltori locali. È lui a controllare marchi come Moet et Chandon, Veuve Cliquot e Dom Perignon, apprezzati in tutto il mondo, anche da oligarchi e milionari russi. Anna Chernyshova è a Mosca una consulente di vini, che aiuta la clientela più facoltosa a creare cantine con bottiglie eccezionali. «Il telefono non smette di suonare - ha detto alla France Presse -. I miei clienti cercano di capire cosa fare». D' altra parte, aggiunge, «tanti responsabili politici amano lo champagne francese, chissà che non finiscano col fare marcia indietro». Per il momento il blocco delle spedizioni delle bottiglie del gruppo Lvmh è stato deciso solo in maniera temporanea, il tempo «di trovare una soluzione appropriata». Ma come gli è passato per la testa a Putin di fare il «ribaltone»? Lo spiega Sputnik, il sito russo rigorosamente pro Cremlino: «Il termine champagne, scritto in cirillico, è utilizzato in Russia dall' epoca sovietica per una bevanda tipo spumante prodotta a livello industriale. Grazie a una fermentazione accelerata, il ciclo di fabbricazione di questo «champagne sovietico» dura appena tre settimane, in distillerie che non sono associate a regioni vinicole particolari». È per difendere l'erede di questo champagne dell'Urss che Putin avrebbe messo la sua firma alla legge. Forse gli hanno pure spiegato che Arnault è vicinissimo a Emmanuel Macron, non proprio un suo amico I produttori francesi di champagne sono già intervenuti a più riprese per difendere le usurpazioni della loro Doc. Il primo luglio scorso, dopo una battaglia giuridica, durata anni, il tribunale di Monaco di Baviera ha dato loro ragione, proibendo alla catena tedesca dei supermercati Aldi di commercializzare un «sorbetto allo champagne», dove la bevanda è completamente assente (sostituita da un miscuglio di pera, zucchero, acido citrico e un tocco di alcool). Un' altra causa è stata intentata ancora dal Civc, il Comitato interprofessionale dello champagne, contro l'utilizzo in Catalogna della parola «champanillo» per indicare generalmente dei locali dove si beve e si servono le tapas. È in corso un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea. Lì, l'avvocato generale, una figura indipendente, ha reso un parere favorevole all' utilizzo della parola «champanillo», che non corrisponde totalmente a champagne e nemmeno a una bevanda. I giudici della Corte dovranno decidere se confermare il parere oppure no.

Laura Berlinghieri per "la Stampa" il 5 luglio 2021. I vini del Veneto non sembrano avere pace. Dopo la sfida corsa lungo l'asse Treviso-Parigi, a seguito del lancio in pompa magna del francese Chandon Garden Spritz, adesso il rischio consiste in uno scontro diplomatico con la Croazia. Se, leggendo gli ingredienti del cocktail francese, i puristi rabbrividivano all' utilizzo del vino bianco frizzante al posto del Prosecco, ora la questione si fa ancora più seria. Perché la Croazia ha ufficialmente chiesto alla Commissione dell'Unione Europea il riconoscimento del marchio «Prosek», confidando evidentemente nel traino del nome trevigiano. Dal Veneto i timori sono di segno opposto, e cioè che sul mercato i due marchi possano venire confusi dai clienti. La mossa croata non è una novità. Zagabria ci aveva già provato nel 2013 e allora la richiesta era stata rispedita al mittente, proprio in ragione dell'enorme assonanza dei nomi. Ironia della sorte, gli storici rivali delle bollicine, il Prosecco e lo Champagne, si ritrovano così impegnati nella stessa battaglia, anche se su fronti diversi, entrambi a est. Del resto, il vino trevigiano fa gola a molti, come dimostra l'esistenza del Prosecco dell'Australia e del Prosecco della Nuova Zelanda, che certo non hanno nulla a che vedere con il «vero» Prosecco, sostengono da Treviso, dove c' è già chi annuncia lo scontro, per non vedersi scippare uno dei simboli della regione. A guidare il fronte del «No» è Luca Zaia, trevigiano, riuscito a fare ottenere alle colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene il riconoscimento Unesco di patrimonio mondiale dell'umanità. «Ogni tanto ci riprovano, come un vecchio tormentone. Ma il Prosecco ha una sua identità che non può essere assolutamente confusa. È scandaloso che l'Europa consenta di dare corso a simili procedure» ha detto il presidente veneto. Se l'Europa non sarà vigile, Zaia annuncia una battaglia in tutte le sedi: «È una difesa della nostra storia e della nostra identità». Sulla questione è intervenuto anche l' europarlamentare Paolo De Castro, ex ministro dell' agricoltura, che ha inviato una lettera al commissario all' agricoltura della Commissione Ue, Janusz Wojciechowski: «Di fronte alla richiesta di tutela di una menzione, "Prosek", che altro non è se non la traduzione del nome "Prosecco", bisogna ricordare che il regolamento Ue sull' organizzazione comune dei mercati agricoli stabilisce che le denominazioni di origine e indicazioni geografiche protette devono essere tutelate da ogni abuso, imitazione o evocazione, anche quando il nome protetto viene tradotto in un' altra lingua». Paradossalmente, il vino italiano potrebbe trovare un insperato aiuto nel paesino triestino di Prosecco, dal 2009 inserito nell' area Doc. Ai tempi della battaglia Tokaji - Tocai friulano, era stata proprio l'esistenza della storica regione ungherese a fare la differenza, così il vino italiano era stato costretto ad abbandonare il suo storico nome «Tocai». Adesso, con il Prosecco, il Friuli potrebbe prendersi una piccola rivincita.

La frazione di prosecco. Report Rai PUNTATA DEL 14/11/2016 di Bernardo Iovene. AGGIORNAMENTO DEL 10/05/0016. Ritorniamo sul prosecco, il vino spumante più venduto nel mondo. Gli ettari coltivati a prosecco sono arrivati a 30.000, erano circa 10.000 nel 2009. Ormai si parla di monocoltura, ma il rovescio di questo successo sono colture intensive a ridosso di case, scuole e impianti sportivi che nel periodo dei trattamenti con i pesticidi creano problemi agli abitanti delle zone in provincia di Treviso. A un anno dall'inchiesta sul vino e sulla frazione di Prosecco in provincia di Trieste andiamo a vedere quali sono le novità...Di Bernardo Iovene. Nella zona Doc e Docg si producono circa cinquecento milioni di bottiglie di Prosecco, un successo mondiale del vino storicamente prodotto in Veneto, tra Conegliano e Valdobbiadene. Ma lo spumante che oggi viene bevuto nel mondo prende il nome da Prosecco, una piccola frazione che nasce sul costone carsico del comune di Trieste. Dal 2009 un decreto ministeriale ha stabilito che l’uva chiamata prosecco per legge sin dal 1969 dovesse cambiare nome e diventare glera. Il cambio di denominazione venne definito dai produttori locali un’operazione intelligente. Dal giorno dell’entrata in vigore del regolamento, infatti, al di fuori dalle nove province a cavallo tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, nessuna azienda ha mai più potuto produrre spumante da quel vitigno e venderlo con l’etichetta di “prosecco”. L’enorme richiesta di mercato e il business delle bottiglie in crescita hanno inevitabilmente determinato un’espansione delle vigne in tutto il Veneto, e il rovescio della medaglia sono le colture intensive, con trattamenti spinti, che arrivano a ridosso di case, scuole, strade. Quello che si è rivelato un affare per i veneti, per gli abitanti di Prosecco invece si è trasformata in una beffa. Nella frazione triestina che si trova sull’altopiano carsico, coltivare la vite è complicato. Per questo, i viticoltori di Prosecco nel 2009 hanno chiesto dei finanziamenti per avviare i vigneti sul loro territorio. A oggi il protocollo di intesa che hanno firmato in cambio dell’utilizzo del nome con il ministero e la Regione è stato disatteso. Per questo gli abitanti di Prosecco chiedono delle royalty su ogni bottiglia venduta altrimenti sono pronti a fare battaglia per impedire da parte di altri l’utilizzo del nome della loro frazione.

La frazione di Prosecco - Aggiornamento del 20/11/2017. Ritorniamo sul prosecco, il vino spumante più venduto nel mondo. L’uva del prosecco è pagata più del doppio rispetto agli altri vitigni. Tra DOC e DOCG, oggi si vendono 510 milioni di bottiglie, e la richiesta supera l’offerta. Gli ettari coltivati a prosecco sono arrivati a 30.000, erano circa 10.000 nel 2009. Ormai si parla di monocoltura, ma il rovescio di questo successo sono colture intensive a ridosso di case, scuole e impianti sportivi che nel periodo dei trattamenti con i pesticidi creano problemi agli abitanti delle zone in provincia di Treviso. A un anno dall’inchiesta sul vino e sulla frazione di Prosecco in provincia di Trieste andiamo a vedere quali sono le novità, cosa hanno fatto i comitati, i comuni, i consorzi del prosecco DOCG e DOC, le regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia. Questa volta il presidente del Veneto Luca Zaia risponde alle domande di Bernardo Iovene sui trattamenti delle vigne, sul biologico, sul protocollo d’intesa con la frazione di Trieste e sull’operazione del 2009 che ha portato al successo e alla creazione della DOC più grande d’Italia. La governatrice del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani preferisce glissare e delega il suo assessore all’agricoltura a rispondere sul protocollo. Intanto nella frazione di Prosecco gli abitanti, in attesa che vengano rispettati i patti, hanno cominciato a produrre le prime bottiglie del prosekar.

“FRAZIONE DI PROSECCO” Di Bernardo Iovene Collaborazione Carla Falzone

MILENA GABANELLI IN STUDIO Per cominciare: il prosecco. Che vuol dire: - 438.698.000 bottiglie l’anno ovvero nel mondo ogni giorno si stappano più di 1 milione di bottiglie. - 2miliardi e 100 di fatturato l’anno - si contende con lo champagne il primato del vino più venduto Ci lavorano 15.000 aziende e 527 cantine. Si coltiva in 9 province: Treviso, Padova, Vicenza, Belluno, Venezia, Pordenone, Udine, Gorizia, Trieste ovvero in Veneto e Friuli Venezia Giulia. E sulla frazione di Prosecco si gioca la partita che blinda il nome e impedisce agli altri produttori che non sono di quella zona, quella che va dal Veneto fino alla Venezia Giulia, di coltivare e di produrre il prosecco perché non possono scriverci questo nome sulla bottiglia. Intanto l’effetto è che quest’uva tipica di Valdobbiadene e Conegliano, è pagata molto e quindi si piantano vigne ovunque. Ottimo, poi come tutte le medaglie, ha il suo rovescio. Bernardo Iovene. BERNARDO IOVENE È tutto prosecco qua?

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Sì, sono rigorosamente prosecco. È una monocultura. Ecco tutti vigneti, Lei calcoli quattro anni fa non c’erano. Era prato. Cosa succede, vanno a irrorare. Lo hanno lasciato piantare fino a sei metri dal recinto della scuola che è un sito sensibile.

BERNARDO IOVENE E che cosa c’era prima?

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Prato. Spruzzano irrorano e poi c’erano i bambini che giocavano no? Pian pianino i genitori hanno cominciato a toglierli. Ho il biologico però a casa mia non posso quasi mangiare, frutta, verdura, l’olio, le olive, perché sono contaminati dai pesticidi, non c’è niente da fare. Per cui ho fatto degli esami. Io non dovrei avere questi risultati sul mio terreno, no? Cosa devo fare? Mia moglie si sta ammalando perché ha cominciato l’anno scorso a non respirare più. Qui c’è una via, lei può andare, ogni casa che lei indica c’è una patologia legata in qualche maniera all’utilizzo dei pesticidi. BERNARDO IOVENE Cioè ogni pezzetto è sfruttato.

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Sfruttato, perché è l’oro. È l’oro questo qui. Guardi questo è appena piantato. Guardi.

BERNARDO IOVENE Questo qua.

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Sì, 20 giorni, guardi. Questo qui è stato piantato quest’anno. Questo è stato piantato l’anno scorso, nuovo. Questo è il più grande vigneto della zona. Questo è stato autorizzato dal comune di Conegliano, guardi, esattamente in mezzo alle case, vicino a una percorrenza. Qui ci sono tre scuole importanti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo tra Valdobbiadene e Conegliano, nella zona di produzione del Prosecco, il vino spumante oggi tra i più richiesti nel mondo. Tra doc e docg si vendono quasi 500milioni di bottiglie. Solo quest’anno c’è un incremento del 30% rispetto al 2015. Incremento di vendita e anche di vigne.

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Ecco lo vedi.

BERNARDO IOVENE Lo vedo, lo vedo.

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Scusa. Fagli segno che guardi quanto è vicino alla strada. È pazzesco non si può. Diglielo che filmi. Non si può così, non si può. Un macello.

BERNARDO IOVENE Lei dice che non si può…

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Ma a cinque metri dalla strada, hai visto, io ero qua. Cinque metri mi ha preso la nuvola. Senti sono ancora bagnato, guarda. Ce l’ho ancora qui. Insomma dai. Qua la gente passeggia, cammina.

BERNARDO IOVENE Scusi, ma non è troppo vicino alla strada questi spruzzi qua…

UOMO No, vicino alla strada, faccio con le mani. Posso chiedere per chi sta riprendendo?

BERNARDO IOVENE Siamo la Rai. UOMO Ah della Rai? Ma potete venire qua a riprendere?

BERNARDO IOVENE Siamo sulla strada, non siamo mica entrati. UOMO No, no, va bene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con queste irroratrici chiamate atomizzatori i trattamenti sono permessi fino a 20 metri da strade e case nel periodo estivo e a 30 metri in primavera. A questa distanza dalla strada andrebbe eseguito sempre così, manualmente.

BERNARDO IOVENE Cosa fa, prosecco?

PRODUTTORE Prosecco, sì.

BERNARDO IOVENE Quanto ne produce?

PRODUTTORE Ho mezzo ettaro, quindi faccio 60 quintali.

BERNARDO IOVENE Senta, quanti trattamenti fa all’anno?

PRODUTTORE Qui è una bella zona quindi ne faccio intorno ai 10-12, dipende dall’annata. Quest’anno non è una buona annata perché ha piovuto tanto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se una annata è piovosa le nuvolette di pesticidi che spruzzano tra i vigneti e case aumentano. I bollettini fitosanitari dei consorzi consigliano 12 trattamenti all’anno, ma il consiglio chiaramente non è un obbligo.

DONNA Questo signore che è quello che ho davanti casa, ieri ha fatto il 17imo trattamento perché ha iniziato a marzo.

BERNARDO IOVENE Lei li conta.

DONNA Certo, li segno nel calendario. Quando sono venuta ad abitare qua iniziavano con i trattamenti a maggio e finivano a inizio agosto. Adesso iniziano a marzo e finiscono verso fine agosto. Io abito al di là di questo vigneto. Qua ci sono quattro proprietari che trattano in quattro giorni diversi, quindi noi dovremmo tenere dentro i bambini per quattro giorni a settimana, non aprire le finestre per quattro giorni a settimana, non stendere il bucato per quattro giorni a settimana, perché come voi sentite hanno trattato ieri e qua c’è comunque odore.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A ridosso delle strade molto trafficate, irrorano a mano ma in quelle adiacenti, c’è chi non si fa scrupoli. Gli abitanti filmano tutto. Questo signore in bicicletta è stato preso in pieno. E un trattamento come questo, praticamente sulla strada, è vietato.

BERNARDO IOVENE Ogni quanto lo fanno?

ANTONIO DELLA LIBERA - PENSIONATO Ogni tre-quattro giorni, questo qua ogni otto-dieci giorni. Dopo ce n’è un altro, quello dentro là che quello fa un vulcano fino sulla strada, quello viene sempre due-tre volte la settimana. BERNARDO IOVENE Questo è prosecco, questo qua?

ANTONIO DELLA LIBERA - PENSIONATO Sì dicono che è prosecco doc. Una volta non lo mettevano perché non veniva. Adesso viene dappertutto. C’ho anche mia moglie che è allergica a sti prodotti e quando vengono non dicono niente, però deve chiudersi dentro perché sennò fa delle crisi d’asma.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Vicino a Cison di Valmarino i vigneti del prosecco sono arrivati da poco, e non è un bel vivere per chi si ritrova la casa circondata.

BARBARA VIDOTTO Alle 6 di mattina, 6.30. Trattori accesi mezz’ora per caricare l’acqua perché devono miscelare le sostanze e i trattamenti chiaramente dovrebbero avvisare. Non dovrebbero farlo se c’è vento e invece non avvisano, lo fanno quando vogliono.

BERNARDO IOVENE Qua non si può stare. Mi sento proprio mancare l’aria anche io.

BARBARA VIDOTTO Sì, sì, si.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si chiamano atomizzatori e li incontri nelle strade dei paesi mentre vanno da un campo all’altro. BERNARDO IOVENE La puzza si sente quando spruzzate questi pesticidi.

UOMO Appena spruzzati sì, però già in un quarto d’ora non si sente più niente.

BERNARDO IOVENE Quindi esagerano questi, esagerano eh.

UOMO La maggior parte sì. Cioè dopo dipende anche come fai i trattamenti.

BERNARDO IOVENE C’è chi spruzza senza stare attento.

UOMO Sì magari anche vicino alle case a volte. Se in una zona che tante volte sei a bordo strada, a bordo abitazioni. E lì bisogna stare molto più attento.

BERNARDO IOVENE Quindi tu fai solamente questo lavoro qua: spruzzi pesticidi.

UOMO Sì.

BERNARDO IOVENE Sei un dipendente o sei il padrone?

UOMO No, no, no, dipendente.

BERNARDO IOVENE Sei dipendente. Mi raccomando tutelati. Come ti chiami?

UOMO Andrea.

BERNARDO IOVENE Buone cose, ciao.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’uva del prosecco è dappertutto perché è pagata il triplo rispetto agli altri vitigni. Ad esempio, quella del pinot grigio vale 55 centesimi, quella del prosecco va da 1.45 ai 2.50 del Cartizze. Qui siamo a Follina e il vigneto è fra abitazioni e asilo.

BERNARDO IOVENE Qua stanno giocando i bambini.

ALINA UTA TURCANU Sì dalla mattina fino alle sei di sera. Spruzzano le viti ogni tre, quattro giorni. Indifferente se i bambini sono fuori o no. Sabato hanno buttato il diserbante, come vedete l’erba è secca intorno alla vite. Si sentiva un odore molto strano e anche lo sentivi fino alla gola e un fastidio agli occhi. Una cosa molto incredibile. Dobbiamo chiudere i bambini in casa. Ogni volta che spruzzano devo avvisare le maestre che mettano i bambini in asilo. Come vedete là in fondo c’è un altro impianto nuovo.

BERNARDO IOVENE Dove? Ah là dietro.

ALINA UTA TURCANU Là, là.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Li stanno mettendo proprio in tutti gli angoli disponibili. A Bigolino di Valdobbiadene fra la vigna e la scuola non c’è nemmeno una siepe di protezione.

LUCIANO BORTOLAMIOL - INGEGNERE Si vantano sempre anche il Consorzio docg che fattura 240milioni di euro, ecco anziché sprecarli in pubblicità, li impegnino per salvaguardare almeno le scuole. Almeno nel territorio che vuole concorrere per diventare patrimonio dell’umanità, almeno tutelare i più piccoli.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche l’ingegnere, che ha casa nel comune di Vidor, si è trovato circondato. Vive tappato in casa con aria filtrata.

LUCIANO BORTOLAMIOL - INGEGNERE La nebulizzazione arriva, soprattutto la sera quando il vento viene dalla pianura verso la collina, qua si crepa. Questo è l’impianto, qua ci sono tre filtri, due di cartone, altri che sono di carbone. BERNARDO IOVENE Arrivano in tutte le stanze.

LUCIANO BORTOLAMIOL - INGEGNERE Esatto. C’è una ventola e 12 bocche. Tre per quattro, 12. Arrivano alle varie stanze. Quelle sono le 12 bocche che entrano in casa.

BERNARDO IOVENE Queste qua. Cioè voi non aprite le finestre e l’aria entra da qua.

LUCIANO BORTOLAMIOL - INGEGNERE Esatto. E se io le apro, le faccio vedere adesso con la porta di ingresso, tendono a chiudersi perché siamo in sovrapressione. Vede che tende a chiudersi da sola.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Farra di Soligo, le sei famiglie che abitavano in questo borgo sono andate vie tutte, e adesso le case sono disabitate.

DANIELA CASTIGLIONE Su sei famiglie due morti di tumore alle ovaie, due con endometriosi e un Parkinson. E un altro tumore ai bambini.

GABRIELE SOSSELLA Io abitavo esattamente su quella casa là che vedete in mezzo ai vigneti.

BERNARDO IOVENE Quella lì…

GABRIELE SOSSELLA Sì, sì, sì, quella rossa. E in quella casa comunque è morta mia moglie di tumore ovarico che è uno dei tumori indicati per i trattamenti diciamo, dei defoglianti. E naturalmente non sapendo, anche se eravamo fuori a mangiare, ci spruzzavano addosso.

DANIELA CASTIGLIONE Qui sotto è pieno di falde acquifere inquinate. Io ho visto con i miei occhi e tanti altri lavare le taniche dei prodotti nell’acqua. Mentre passano le mamme con i passeggini irrorano. Io l’ho visto miliardi di volte. Ho abitato 15 anni qua. La zona qui dietro era tutto bosco. Piano piano è stata disboscata. Qui c’era biodiversità, qui c’era il gelso. C’era il mais. C’erano i pascoli. C’erano gli alberi da noce.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questa signora ha abitato in un posto dove per anni irroravano anche con l’elicottero.

LIONELLA DOMUZZO Quello che irrora l’elicottero su tutto il paese, su tutti i paesi dove tratta. Che dopo 31 anni mi dicono che è fuori legge ed è annullato. Il contatto con queste cose è peggio che l’ingerire. Perché c’era l’altalena di mio figlio, lì ci si rotolava per terra, e così. Nello stesso paese di 480 abitanti, tre bambini con la leucemia. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Che c’è un problema lo sanno anche i sindaci, tant’è che nel comune di Vidor c’è un percorso tra le colline: “Dal sacro al pro-secco”, vietato però tra aprile e agosto.

LUCIANO BORTOLAMIOL - INGEGNERE A causa dei trattamenti fitosanitari alle coltivazioni. C’è un’ordinanza che praticamente vieta di circolare sulle nostre colline storiche quando ci sono i trattamenti. Quindi vuol dire che l’ambiente è avvelenato. E chi ci abita?

BERNARDO IOVENE Buongiorno, ogni quanto lo fa?

UOMO Ogni 15, 20 giorni.

BERNARDO IOVENE Ogni 15, 20 giorni. Non si mette la mascherina lei?

UOMO Non serve.

BERNARDO IOVENE Non serve? Grazie.

UOMO Chi siete?

BERNARDO IOVENE Siamo della Rai.

UOMO Sì, Rai…

BERNARDO IOVENE Sì, non ci crede?

UOMO Non ci credo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Chi vive nei pressi delle vigne comincia a soffrire di sensibilità chimica multipla e si sono organizzati in comitati, per farsi sentire.

GIOVANNA DAL CIN Si devono evitare i profumi, i detersivi, le colle, i pesticidi. Succede che divento, mi manca l’equilibrio. Mi viene il mal di testa.

VIVIANA ALTOÉ Sembra di essere sbattuti in una lavatrice, dove tutto ti gira attorno. Non puoi muoverti, non puoi spostare la testa di un millimetro altrimenti tutto ti gira. Ti viene un malessere generale che ti dura sette, otto ore. BERNARDO IOVENE Va in giro con la mascherina?

ROSI ZAMPIERI Per forza per esempio io non potevo stare là con voi, perché là è pieno di gente con profumi. Che loro poveri non ne possono niente. Non sanno che c’è qualcuno che sta male.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Regione Veneto ha stabilito delle linee guida per l’utilizzo più restrittivo delle sostanze. Ma poi quando i produttori chiedono le deroghe le concede in 24 ore e autorizza l’aumento dei trattamenti con sostanze molto pericolose come Mancozeb, Folpet, Dithianon, Fluazinam.

CORRADO GIACOMINI - CONFCOOPERATIVE VENETO - PRESIDENTE SETTORE VITIVINICOLO Noi abbiamo chiesto le due deroghe che valgono solo per questi proprio perché avevamo degli attacchi di peronospora, dovuti in febbraio a una piovosità forte e dovuti a giugno per quest’altra piovosità. D’accordo? È all’interno della norma quindi non è un problema perché come le ho detto prima le linee tecniche di difesa integrata…

BERNARDO IOVENE Mica sto dicendo che è fuori norma. Sto dicendo, siccome noi siamo andati dalle persone che vivono in quella zona… sono chiusi in casa, non possono far giocare i bambini. Esagerano?

CORRADO GIACOMINI - CONFCOOPERATIVE VENETO - PRESIDENTE SETTORE VITIVINICOLO Ma no… ma guardi, queste sono puttanate, chiaro? Perché guardi io sono presidente di una cantina che ha duemila soci. 4mila ettari di superfice. Non è assolutamente vero quello che stanno dicendo.

BERNARDO IOVENE Cioè dopo i trattamenti la gente può far giocare i bambini?

CORRADO GIACOMINI - CONFCOOPERATIVE VENETO - PRESIDENTE SETTORE VITIVINICOLO Ma anche durante i trattamenti, ma anche durante i trattamenti. Io non ho mai visto nella mia zona, 4mila ettari che vanno da Treviso fino in provincia di Venezia, che comprende diversi comuni, io le posso assicurare che non ho mai avuto un sindaco… BERNARDO IOVENE Che si è lamentato dei trattamenti?

CORRADO GIACOMINI - CONFCOOPERATIVE VENETO - PRESIDENTE SETTORE VITIVINICOLO Che si è lamentato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Conegliano è il cuore dei vigneti e all’ULSS ci dicono che in quella zona non c’è proprio nessun problema. Anzi…

SANDRO CINQUETTI - DIRETTORE PREVENZIONE ULSS 7 CONEGLIANO L’incidenza, in questo territorio, dei tumori è significativamente inferiore, specie per alcuni tumori, rispetto alla media veneta e alla media nazionale. È un dato importante questo che ci lascia tranquilli.

GIOVANNI MORO - DIRETTORE SICUREZZA SUL LAVORO ULSS 7 CONEGLIANO I numeri ci dicono che il notevole uso di prodotti fitosanitari in questa Ulss comunque non ha comportato un aumento delle patologie da tumore, sia nei bambini che negli adulti.

BERNARDO IOVENE Non fa male insomma. Questi pesticidi non fanno male…

GIOVANNI MORO - DIRETTORE SICUREZZA SUL LAVORO ULSS 7 CONEGLIANO Non fa male come non fa male l’aspirina.

BERNARDO IOVENE Lei ci sta dicendo che se ci arriva la nuvola di pesticidi che spruzza l’agricoltore non dobbiamo drammatizzare, non è successo niente. Non c’è pericolo.

GIOVANNI MORO - DIRETTORE SICUREZZA SUL LAVORO ULSS 7 CONEGLIANO Sulla base della nostra esperienza non ci sono conseguenze acute. Nel senso di dover ricorrere al pronto soccorso per qualche problematica.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il medico del lavoro e il medico dell’Ulss si sono assunti una bella responsabilità. Mentre Comuni, consorzi e Regione non è che se ne sono lavati le mani, si sono dati delle linee guida per rendere la produzione del prosecco più sostenibile.

GIUSEPPE PAN - ASSESSORE ALL’AGRICOLTURA REGIONE VENETO Noi abbiamo mandato a tutti i Comuni la possibilità di fare un regolamento di polizia rurale che metta i confini, metta le distanze ad esempio 30 metri dalle scuole, 30 metri dagli ospedali. Io l’ho spedito a tutti i Comuni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Lo ha scritto però il primo agosto di quest’anno! Mentre i 15 Comuni dall’area docg che abbiamo visto, un regolamento di polizia rurale sui trattamenti ce l’hanno dal 2011, e sono previste anche le sanzioni.

BERNARDO IOVENE Quante multe avete fatto? Quante trasgressioni?

FLORIANO ZAMBON - SINDACO COMUNE CONEGLIANO Allora mi sono informato poco fa presso il comando dei vigili, ultimamente ne abbiamo elevate tre.

BERNARDO IOVENE Io ho incontrato i cittadini che vivono questo disagio, voi dite che non esiste proprio questo disagio?

BENEDETTO DE PIZZOL – COORDINATORE 15 COMUNI DOCG POLIZIA RURALE No attenzione, il disagio esiste, però diciamo che il disagio è anche un po’ fomentato. Nel senso che ci sono questi gruppi che continuano, continuano, continuano, però dopo bisogna andare a vedere anche la realtà delle cose.

BERNARDO IOVENE È innegabile però che c’è stato un aumento di queste vigne dovuto al fatto che il prosecco…

BENEDETTO DE PIZZOL – COORDINATORE 15 COMUNI DOCG POLIZIA RURALE Assolutamente.

BERNARDO IOVENE Quindi aumentano le vigne, aumentano i trattamenti, uno si sente circondato.

BENEDETTO DE PIZZOL – COORDINATORE 15 COMUNI DOCG POLIZIA RURALE Ma lei sa che contrasti abbiamo con alcuni produttori che non vogliono sentire di questo che bisogna fare la cose in una certa maniera.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La “certa maniera” è proprio quello che denunciano i cosiddetti fomentatori. Intanto nella zona doc il Consorzio ha chiesto e ottenuto dalla Regione di incrementare la superficie coltivabile a prosecco di altri 3mila ettari.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Ma, allora, la richiesta è data da quello che è l’andamento dei mercati.

BERNARDO IOVENE Si vende, si vende tutto.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Si vende, dopo vendere tutto lo dice in modo...colgo una.

BERNARDO IOVENE Cosa coglie? Mi dica cosa coglie?

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Si coglie, perché sembrerebbe di dire… si vende tutto. Si vende perché c’è una produzione che in questo momento qui da un certo punto di vista è deficitaria rispetto alla richiesta di mercati.

BERNARDO IOVENE C’è più richiesta che produzione.

STEFANO ZANETTE PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC In questo momento, sì.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Allora. Per provare almeno a tappare almeno la bocca o a sedare i “fomentatori”, mi sentirei di chiedere al medico del lavoro e dell’Asl di Conegliano: andate ad abitare in una di quelle casette in mezzo ai vigneti che abbiamo visto, anche per dimostrare che non c’è problema e che al massimo i danni causati sono quelli dell’aspirina e così si smentisce anche l’idea che pure l’aspirina se uno ne prende 4 o 5 al giorno alla lunga magari qualcosa di sgradevole succede. Allora. Bisogna coltivare ovunque per produrre, la richiesta è fortissima e questo perché in tutta Europa soltanto loro possono utilizzare il nome “prosecco”. Un po’ come il lardo di colonnata: tutti possono farlo il lardo, ma il mercato chiede il colonnata, esattamente come il mercato chiede il prosecco e non il Valdobbiadene. Per fare questo però dobbiamo trovare un luogo che abbia proprio il nome di Prosecco e i veneti lo hanno trovato. Però non è in Veneto. Dopo la pubblicità. PUBBLICITÀ Rieccoci. Stiamo parlando di prosecco che è un vitigno e cresce dove ci sono le condizioni come il Sangiovese o il Lambrusco. Poi è famoso, è tipico quello di una certa zona, ma nessuno impedisce di coltivarlo o produrlo in Puglia oppure in Lombardia. Il fatto è che da qualche anno nessuno può utilizzare il nome “prosecco” perché i veneti lo hanno legato al nome di una località. Questa località sta in provincia di Trieste. E il problema è che, in questa località in provincia di Trieste, il loro vitigno si chiama Glera. E qui entra in azione il grande genio di Zaia, oggi governatore del Veneto, nel 2009 quando era ministro dell’Agricoltura, ha stabilito per decreto che Glera è sinonimo di prosecco, prosecco non è più il nome di una vite, ma di un posto e quindi questo posto bisogna tirarlo dentro, estendendo la produzione dalle colline di Treviso su fino alla Venezia Giulia passando dalle lagune e riempirle di vigne. Bene. Questa operazione produce un fatturato annuo di oltre 2 miliardi di euro. E a questo punto gli abitanti di Prosecco, che il prosecco non sanno neanche che cos’è, dicono: “o ce ne è anche per noi o fine dei giochi. Però questo non sarà facile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Prosecco è una frazione di Trieste a ridosso dell’altopiano carsico che si affaccia sul Golfo. Ha dato il nome al famoso spumante, ma qui il prosecco quello che noi tutti conosciamo non lo hanno mai prodotto, nelle cantine bevono l’uvaggio carsolino.

BERNARDO IOVENE Quindi è questo il vino. È fermo pure.

UOMO Sì, fermo, sì.

BERNARDO IOVENE Niente bollicine.

UOMO No, niente bollicine.

UOMO Nessuno fa bollicine da queste parti. Il prosecco lo fanno più in là.

BERNARDO IOVENE In Veneto?

UOMO Ha il nome di qua ma lo fanno di là, qua nessuno fa le bollicine...è difficile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In città nello storico caffè San Marco se chiedi un prosecco…

ENRICO SEFFINO - BARISTA È il classico Valdobbiadene. A Prosecco non fanno prosecco.

BERNARDO IOVENE Insomma, da quando beve, ha mai sentito il prosecco tipico di questa zona? UOMO A dire il vero, no. Conoscevo, conosco la località di Prosecco, mi sono sempre chiesto l’addentellato tra prosecco vino e Prosecco città.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La relazione viene da un vino antico, si parla del 1600, andato in disuso e che oggi qualcuno sta rifacendo con il nome di Prosekar. Ma non ha niente a che vedere con il prosecco doc veneto che viene prodotto con una resa di 215 quintali di uva a ettaro.

FRANC FABEC - KMEČKA ZVEZA - ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI Basti pensare che i nostri produttori producono su ettaro dai 40 ai 60, agli 80 quintali. Parliamo di uva che da un punto di vista qualitativo è tutta un’altra cosa.

BENJAMIN ZIRADICH - VITICOLTORE Produciamo soprattutto Vitoska che è una varietà autoctona del carso, la Malvasia e il Terrano.

BERNARDO IOVENE Investirebbe in prosecco?

BENJAMIN ZIRADICH - VITICOLTORE Assolutamente no, perché è un vino che proprio… insomma, non voglio neanche sapere ecco.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Fino al 2009 esisteva solo il prosecco doc Conegliano Valdobbiadene, il presidente Saragat, ottimo intenditore di vini, aveva concesso la denominazione nel 1969 e nel decreto specificava: “Il vino prosecco di Conegliano Valdobbiadene deve essere ottenuto dalle uve provenienti dal vitigno Prosecco”. Nel 2008 l’Europa dice che la doc è una denominazione di luogo, non di vitigno, e allora qualcuno scopre che c’è una frazione di Trieste che si chiama Prosecco.

ROBERTO PINTON - CONSULENTE ALIMENTARE IFOAM Questa è stata una operazione, diciamo, da furbi... Si sono inventati un’origine del vino, ma l’hanno costruita. Prima hanno detto il vino non deriva dalle uve prosecco, deriva dalle uve glera, sconosciute ai più e hanno avuto la gran fortuna di trovare un paese che si chiamava Prosecco.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOCG Certo, ma abbiamo colto una opportunità con grandissima, credo, intelligenza. Non mi piace il termine furbizia, ma con intelligenza, sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Gli abitanti di Prosecco però si rivoltano: voi ci prendete il nostro nome, cosa ci date in cambio? Fecero ricorso e per tenerli buoni il Ministero e la Regione firmarono un protocollo di intesa con le associazioni degli agricoltori che in sostanza prevedeva la bonifica del costone carsico per renderlo accessibile all’agricoltura viticola.

FRANC FABEC - KMEČKA ZVEZA - ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI Noi in questi anni non siamo riusciti a piantare un ettaro di prosecco, di glera. E noi stiamo qui a guardare, stiamo qui da spettatori invece di essere partecipi di questo show, di questo spettacolo, perché parliamo di uno spettacolo. Per cui noi, ripeto, noi vogliamo che quel protocollo venga rispettato e abbiamo tutti i diritti anche.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con questa operazione si è promossa la zona collinare di Valdobbiadene -Conegliano e quella di Asolo a docg e per arrivare fino a Trieste la zona di 9 province a cavallo di Veneto e Friuli Venezia Giulia, zona doc.

ROBERTO PINTON - CONSULENTE ALIMENTARE IFOAM In questo modo hanno reso possibile il divieto per chiunque altro nell’Unione Europea di coltivare il prosecco chiamandolo prosecco.

BERNARDO IOVENE Quindi hanno difeso il prosecco.

ROBERTO PINTON - CONSULENTE ALIMENTARE IFOAM Diciamo, volendola vedere così hanno difeso il prosecco, nei fatti però hanno impedito a chiunque altro in Europa o anche in Trentino Alto Adige o in Lombardia al confine con il Veneto, di coltivare il prosecco e di chiamare quel vino prosecco. Il che è una cosa, francamente sarebbe come se in Lombardia si inventassero che il mais è il nome… granturco è una frazione di Cremona e solo loro lo possono chiamare granturco e quindi nelle altre Regioni non si può fare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In tutta questa area quindi si sono sviluppati i vigneti. Sono stati concessi 20mila ettari in Veneto e 4mila in Friuli. Ma a Trieste e a Prosecco non è arrivato nulla.

EDI BUKAVEC - KMEČKA ZVEZA - ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI Inserendo la provincia di Trieste chiaramente per creare tutta una zona, il Friuli è rientrato dentro. Noi siamo tutti insoddisfatti di questa… lei ha capito che c’è un grosso affare qui, il Friuli non ha dato niente e ha tutto. BERNARDO IOVENE Perché lei quando parla di Friuli, Trieste non è Friuli.

EDI BUKAVEC - KMEČKA ZVEZA ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI No, no, no è un blasfemia questa!

BERNARDO IOVENE Nel senso che si chiama Friuli Venezia Giulia, no. Cioè diciamo…

EDI BUKAVEC - KMEČKA ZVEZA ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI Friuli è Friuli proprio perché c’ha la propria lingua, la propria cultura e così avanti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il problema è che Trieste è in Venezia Giulia e si considerano staccati dal Friuli, come tutti gli abitanti della frazione di Prosecco, che sono arrabbiatissimi e fanno delle gran riunioni. L’ultima volta c’eravamo anche noi, ma abbiamo capito poco, perché qui si parla sloveno.

 ZARKO BUKAVEC - ABITANTE PROSECCO VITICOLTORE Noi discutiamo e critichiamo il fatto che: “Bene avete fatto quello che avete fatto, perché usate il nostro nome senza offrirci niente in cambio?” Potremmo anche restare per assurdo, nel prosecco doc, ma per una contropartita, se ci lasciano lavorare il costone, se ce lo bonificano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il costone è un bosco impraticabile per l’agricoltura e i produttori che hanno ristrutturato i terrazzamenti sono pochissimi. L’intesa era risistemare i 100 ettari ma ci vorrebbero circa 25milioni di euro. La Regione dice di aver fatto la sua parte. Si aspetta quella del ministero.

CRISTIANO SHAURLI - ASSESSORE AGRICOLTURA REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Mancano alcuni passaggi, secondo me, di natura, se vogliamo, nazionale. Io credo che però ci sia una possibilità importantissima e su questo sto lavorando molto anche con il Ministero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il ministro Martina a richiesta ci risponde. “Non abbiamo voluto firmare un protocollo generico senza risorse certe che, anche per questo, con i governi precedenti è rimasto sulla carta”. Quindi niente ristrutturazione del costone, ma gli abitanti di Prosecco sono pronti alle vie legali.

EDI BUKAVEC - KMEČKA ZVEZA - ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI La cosa che faremo è un’azione unitaria per chiedere una royalties. Date un centesimo a bottiglia visto che la politica, la Regione, il Ministero, nessuno vuole pagare niente. Facciamo tutti un sacrificio e diamo per lo sviluppo dell’agricoltura, della viticoltura in provincia di Trieste una auto tassazione. Se anche questa non dovesse andare, allora muoia Sansone con tutti i filistei, no?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La minaccia è quella di riprendersi il nome di prosecco con un nuovo ricorso complicatissimo, e a quel punto, persa la denominazione di origine geografica, potrebbero coltivarlo dappertutto. BERNARDO IOVENE Voi che state facendo tanti affari e noi ne siamo contenti, no? Su questo nome, sareste disponibili a dare delle royalties al paese di Prosecco?

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC No. Se è questo che chiedono assolutamente no. Perché non abbiamo usurpato niente. È stata data l’opportunità anche ai carsolini di poter coltivare il prosecco. Quello che volevano e che non hanno ottenuto sono lei ha detto schei loro le hanno chiamate royalties. Questa è una cosa inammissibile che non accetteremo mai e non gli verrà mai data. Ecco, questo che sia perfettamente chiaro.

INNOCENTE NARDI - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOCG I produttori del Conegliano Valdobbiadene hanno creato il successo di questo prodotto. La royalties o il nome o il lavoro è condiviso con chi lo ha fatto diffondere. STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Questo è stato un errore.

BERNARDO IOVENE Cosa è un errore?

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Probabilmente la bottiglia che si è agitata durante l’intervista.

BERNARDO IOVENE Ah ecco. Questo è doc.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Questo è il prosecco doc.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La ricaduta del grande affare è che in tutto il Veneto è esplosa la richiesta di terreni agricoli, che sono saliti di prezzo.

BERNARDO IOVENE Il docg… ROBERTO MARTINUZZO - AGENTE IMMOBILIARE Il docg ha avuto un aumento circa del 30%. Mentre invece nella zona doc abbiamo un aumento circa del 40%, medio, come valori, sì.

BERNARDO IOVENE Negli ultimi 5 anni è cominciata la crescita.

ROBERTO MARTINUZZO - AGENTE IMMOBILIARE Negli ultimi 5, 6 anni è cominciato a crescere. BERNARDO IOVENE Cioè in totale controtendenza.

ROBERTO MARTINUZZO - AGENTE IMMOBILIARE A tutto il resto, certo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questa specie di monocoltura ha creato la situazione che lamentano gli abitanti nel Trevigiano. Le vigne si sovrappongono e chi fa il prosecco biologico deve sopportare una difficile convivenza.

BERNARDO IOVENE Cioè questo qui è biologico e questo è convenzionale.

MASSIMO COLLAVO – VITICOLTORE BIO Esatto.

BERNARDO IOVENE Cioè, quante file vi contamina?

MASSIMO COLLAVO – VITICOLTORE BIO Ma almeno due sicuramente.

BERNARDO IOVENE Almeno due.

MASSIMO COLLAVO – VITICOLTORE BIO Almeno due. Noi faremo i prelievi di questi per vedere la contaminazione. Poi con l’ente certificatore dovremo decidere quanto di questo vigneto sarà declassato a convenzionato.

BERNARDO IOVENE Lei che rapporti ha con il vicino convenzionale?

MASSIMO COLLAVO – VITICOLTORE BIO Rapporti cordiali, diciamo non ci diamo le pacche sulle spalle, ecco. BERNARDO IOVENE Ho capito.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche questa signora fa il biologico, ma dice che i suoi vicini che fanno prosecco convenzionale si comportano meglio.

ANNALISA MARTINELLI – VITICOLTORE Loro non fanno i trattamenti con il cannone, quello ad alta… in genere li fanno a mano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non passano 2 minuti che il vicino laterale sinistro la smentisce in pieno. La cosa strana è che su tremila viticoltori nell’area docg solo una decina fanno il biologico, nonostante la resa sia la stessa del convenzionale.

BERNARDO IOVENE C’è una convenienza a fare il biologico dal punto di vista economico?

IVO NARDI – VITICOLTORE BIO Noi insomma da 30 anni facciamo utili, no? Come azienda.

BERNARDO IOVENE Quindi non è che lavorate…

IVO NARDI – VITICOLTORE BIO No, no. Ripeto, l’aspetto fondamentale è portare a casa l’uva.

BERNARDO IOVENE È una questione di mentalità probabilmente.

IVO NARDI - VITICOLTORE BIO Richiede sicuramente più presenza in campo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Cioè tagliare l’erba con i mezzi meccanici e non usare il glifosate. Per questo i comitati insistono: bisogna convertire la produzione e dar vita al biodistretto del prosecco.

LISA TRINCA - COMITATO MAMME STOP AI PESTICIDI REVINE LAGO Ben vengano i viticoltori però con un metodo biologico.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infine abbiamo portato ai laboratori specializzati del professor Giusto 4 bottiglie di prosecco convenzionale, e 4 bottiglie di prosecco bio. In quelle convenzionali ci sono residui di pesticidi: il Metalaxil, il Dimetomorf, il Fenhexamid, il Pyrimethanil.

ANNA MASUTTI - LABORATORIO GIUSTO Ma tutti al di sotto del limite di legge.

ALBERTO GIUSTO - LABORATORIO GIUSTO Il punto è che durante la lavorazione il vino fa miracoli da solo. Per cui le molecole che sono state usate durante la vegetazione della pianta, non si trovano più.

BERNARDO IOVENE Non è che ha vigneti anche lei professore?

ALBERTO GIUSTO - LABORATORIO GIUSTO No, zero vigneti!

BERNARDO IOVENE Sicuro?

ALBERTO GIUSTO - LABORATORIO GIUSTO No! Zero vigneti!

BERNARDO IOVENE In quelle bio, su quattro bottiglie, in tre non ci sono residui, ma in una purtroppo sì. Si tratta di un prosecco docg, e ci sono tracce di Metalaxil, Dimetomorf e Fenhexamid.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Ce l’abbiamo proprio messa tutta per provare risarcire un settore che aveva un po’ risentito della nostra puntata sul biologico, ma non c’è niente da fare: un truffatore c’è sempre. Su 4 bottiglie una, nel convenzionale però 4 su 4 (tutto nella norma, però i residui ci sono). Allora. Convertire al biologico converrebbe a tutti a sentire proprio loro; sta convertendo infatti Ferrari e il 50% dei produttori del Franciacorta. Sta di fatto che ad oggi la situazione è questa: da una parte gli abitanti di Prosecco vorrebbero riprendersi il nome, sviluppare la loro industria e esportare il loro vino con questo nome, ma dovranno passare dalla lunga strada dell’autorizzazione europea, che è come dire, prima abbiamo fatto un imbroglio. Dall’altra ci sono i produttori e i proprietari dei terreni che da tutta l’operazione ci stanno guadagnano molto. In mezzo quelli che ci perdono, cioè coloro che abitano vicino alle zone dove ci sono i vigneti che abbiamo visto. Adesso la regione Veneto ha candidato le colline di Valdobbiadene e Conegliano a patrimonio dell’Unesco; possiamo parlare di patrimonio dell’umanità quando non si inquina la terra, le falde, le persone. Proposta: perché non trasformarlo in un biodistretto? Tra l’altro a differenza delle altre colture qui chi truffa lo vedi subito, perché c’è il vicino che controlla, come vedi quello che va a diserbare con l’atomizzatore.

Com’è andata a finire?

LA FRAZIONE DI PROSECCO di Bernardo Iovene SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cambiamo decisamente argomento, passiamo alla guerra del prosecco. Ne avevamo parlato un anno fa. Si stappano 1 milione e 400 mila bottiglie ogni giorno nel mondo. Ma qual è il prezzo da pagare?

Da Report del 14/11/2016

UOMO Ecco lo vedi?

BERNARDO IOVENE Vedo, vedo. UOMO Scusa fagli il segno che guardi quanto vicino è alla strada. È pazzesco, non si può. Diglielo che filmi. Ma non si può, non si può. E’ un macello.

BERNARDO IOVENE Lei dice che non si può? UOMO A cinque metri dalla strada? Cioè, hai visto? Cioè… io ero qua, a 5 metri mi ha preso una nuvola… senti sono ancora bagnato. Guarda. Ce l’ho ancora qui, insomma dai! Qua la gente passeggia, cammina.

BERNARDO IOVENE Scusi? Ma non è troppo vicino alla strada questi spruzzi qua?

AGRICOLTORE No, quelli vicino alla strada li faccio con le mani.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con queste irroratrici chiamate atomizzatori, i trattamenti sono permessi fino a 20 metri da strade e case nel periodo estivo e a 30 metri in primavera. A questa distanza dalla strada andrebbe eseguito sempre così, manualmente.

DONNA Questo signore, che è quello che ho davanti casa, ieri ha fatto il diciassettesimo trattamento perché ha iniziato a marzo.

BERNARDO IOVENE Lei li conta?

DONNA Certo, li segno nel calendario.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 2 A ridosso delle strade molto trafficate irrorano a mano, ma in quelle adiacenti c’è chi non si fa scrupoli. Gli abitanti filmano tutto. Questo signore in bicicletta è stato preso in pieno. Un trattamento come questo, praticamente sulla strada, è vietato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui siamo a Follina e il vigneto è fra abitazioni e asilo.

BERNARDO IOVENE Qua stanno giocando i bambini?

DONNA Sì, dalla mattina fino alle 6 di sera. Indifferente se i bambini sono fuori o no. Hanno buttato il diserbante e come vedete l’erba è secca intorno alla vite. Si sentiva un odore molto strano e anche lo sentivi fino alla gola e un fastidio agli occhi.

UOMO Quelle sono le 12 bocche che entrano in casa.

BERNARDO IOVENE Questo qua? Cioè voi non aprite le finestre e l’aria entra da qua?

UOMO Esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Farra di Soligo le sei famiglie che abitavano in questo borgo sono andate via tutte e adesso le case sono disabitate.

VIVIANA ALTOÈ Sembra di essere sbattuti in una lavatrice, dove tutto ti gira attorno, non puoi muoverti, non puoi spostare la testa di un millimetro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La regione Veneto ha stabilito delle linee guida per l’utilizzo più restrittivo delle sostanze, ma poi quando i produttori chiedono le deroghe le concede in 24 ore e autorizza l’aumento dei trattamenti con sostanze molto pericolose come Mancozeb, Folpet, Dithianon, Fluazinam.

SANDRO CINQUETTI - DIRETTORE PREVENZIONE ULSS 7 CONEGLIANO L’incidenza in questo territorio dei tumori è significativamente inferiore, specie per alcuni tumori, rispetto alla media veneta e alla media nazionale.

BERNARDO IOVENE Non fa male, questi pesticidi non fanno male.

GIOVANNI MORO - DIRETTORE SICUREZZA SUL LAVORO ULSS 7 CONEGLIANO Non fa male come non fa male l’aspirina.

BERNARDO IOVENE Lei ci sta dicendo che se ci arriva la nuvola di pesticidi che spruzza l’agricoltore non dobbiamo drammatizzare, non è successo niente, non c’è pericolo. 

GIOVANNI MORO - DIRETTORE SICUREZZA SUL LAVORO ULSS 7 CONEGLIANO Sulla base della nostra esperienza non ci sono conseguenze acute.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto nella zona DOC il consorzio ha chiesto e ottenuto dalla regione di incrementare la superficie coltivabile a Prosecco per altri 3.000 ettari.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC La richiesta è data da quello che è l’andamento dei mercati.

BERNARDO IOVENE C’è più richiesta che produzione.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC In questo momento sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per fortuna l’elicottero con lo spruzzo l’hanno vietato. Però continuano però ad allargarsi a terra. Quelli dell’indotto sono contentissimi, un po’ meno quelli a cui spruzzano il pesticida in faccia. Il nostro Bernardo Iovene dopo la puntata dell’anno scorso, però, qualche risultato l’ha portato a casa.

UOMO Stasera dobbiamo consegnare 10 richieste al sindaco di Conegliano, bisogna toglierli i pesticidi velenosi.

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Dopo la puntata di Report del novembre dell’anno scorso è cambiata la musica. È cambiata non c’è niente da fare e indietro non si torna. Stiamo scrivendo la storia. Una storia nuova, finalmente una storia di speranza. Una persona mi ha detto prima della trasmissione di Report l’anno scorso: adesso arrivan su i romani a sputtanare i veneti. I veneti sono stanchi, sì sputtanati, ma da altri veneti e soprattutto dal loro governatore che ha creato questa situazione ambientale insostenibile, che ha prelevato i soldi delle imposte per darli ai miliardari del prosecco. Quindi lasciatelo dire a uno che sono 30 anni che combatte contro Roma ladrona. Questa volta devo ringraziarli i romani. E voglio ringraziare Bernardo Iovene e la Gabanelli, Carla Falzone.

BERNARDO IOVENE Senta, ogni volta che giro per queste terre c’è sempre qualcuno che mi viene alle orecchie e mi dice: lo sai che Zaia investe nel prosecco? Smentiamo questa cosa, perché gira questa voce, che lei.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Diamo un premio a chi riesce a dimostrare queste cose.

BERNARDO IOVENE Perché dice che usa dei prestanome per fare il prosecco.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Se lei mi dicesse anche i nomi di questi cialtroni.

BERNARDO IOVENE No, sono dei cittadini.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO No, non sono dei cittadini…

BERNARDO IOVENE Lo smentisca così…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Guardi, io glielo smentisco ma le dico di più. Io non ho un metro quadro di terra e non l’ho mai avuto.

BERNARDO IOVENE Diciamo sta cosa: Zaia non ha vigne a Prosecco.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Non ne ho, ma zero. Sa un’altra puttanata che dicono? Io non sono figlio di agricoltori. Mio papà fa il meccanico e mia madre fa la casalinga. Quindi la finiscano con ste puttanate.

LARA CASAGRANDE - COMITATO RIVE SANE COLLE UMBERTO Noi non siamo contro il prosecco in sé. Noi siamo contro un’intensificazione e un utilizzo smodato e questa modalità che non è lungimirante e non guarda al futuro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo nella zona DOCG del prosecco superiore, la zona dei vigneti candidata a patrimonio UNESCO dell’umanità. Sono 7.100 ettari rispetto ai 23.000 della zona DOC, ma anche qui, nonostante i regolamenti vietino le sostanze più pericolose, gli abitanti continuano a denunciare anche quest’anno violazioni e mancanza di controllo. BERNARDO IOVENE Siccome io quando vado in giro dicono: queste sostanze non sono vietate ma il Consorzio consiglia… cioè come fate a consigliare se c’è un divieto.

INNOCENTE NARDI - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOCG Allora dobbiamo tener presente che sono tutte sostanze permesse dal ministero della Sanità…

BERNARDO IOVENE Quello lo sappiamo.

INNOCENTE NARDI - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOCG Noi siamo a un livello prossimo al riconoscimento biologico, cioè siamo a un livello tra quello che consiglia la regione e quella che è la certificazione biologica.

BERNARDO IOVENE Sulla carta.

INNOCENTE NARDI - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOCG No, anche sulla sostanza.

BERNARDO IOVENE No, ci sono questi divieti: sarebbe vietato il Mancozeb, sarebbe vietato il Folpet, il glifosate no, si può utilizzare ancora, no?

INNOCENTE NARDI - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOCG Il glifosate non è ancora vietato, però noi lo sconsigliamo. BERNARDO IOVENE Qui questo qua è stato trattato con degli erbicidi sotto.

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Certamente.

BERNARDO IOVENE Si vede, no?

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Eh bè…

BERNARDO IOVENE È glifosate questo?

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Eh certo. Sì ma è normale, no.

BERNARDO IOVENE È normale?

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Sì. È normale anche che si tratti quando ci sono le persone che camminano per il percorso.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo proprio a due passi dal Consorzio del prosecco superiore a Pieve di Soligo e il signor Luciano, anche lui viticoltore, quest’estate è stato investito dalla nuvola dei trattamenti, così come succede a quelli che passeggiano su questo percorso ciclopedonale e agli abitanti che si devono barricare in casa. Luciano ha fatto denuncia.

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Sono andato al pronto soccorso e mi ha detto: vada dal vicino e chieda che cosa ha buttato via. Voglio sapere che tipo di molecole, che tipo di sostanze ha buttato perché mi sono trovato infiammato il naso, la bocca e tutto. Quindi lui deve obbligatoriamente scriverlo sul registro dei trattamenti. BERNARDO IOVENE Qual è stata la risposta?

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Nessuna.

BERNARDO IOVENE Nessuna?

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO No, nessuna risposta.

BERNARDO IOVENE Né dal comune...?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In più questa vigna dall’altro lato termina sul fiume Soligo, e l’ultimo filare è proprio sulla sponda che dovrebbe essere demaniale.

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Questo è glifosate.

BERNARDO IOVENE Questo qua?

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Si, questo è il glifosate.

BERNARDO IOVENE Va direttamente nell’acqua qua, no?

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Lui arriva con l’atomizzatore qui e butta di là. Secondo il regolamento questo penso che non sia molto…vorrei vedere se riescono a espiantare sto benedetto vigneto no, sto benedetto filare? Questa è la lettera relativa a questo vigneto che ho scritto al sindaco, alla polizia locale, all’assessore all’Ambiente, all’assessore ai Lavori Pubblici per capire il discorso dell’argine, all’ufficio legale, al Corpo forestale dello Stato. Nessuna risposta, come sempre.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Luciano è viticoltore, fa prosecco biodinamico, ma nell’analisi delle sue uve si ritrova i pesticidi dei vicini.

LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO La mia uva non è conforme, ci sono cinque tipi di pesticidi diversi.

BERNARDO IOVENE Che lei non ha mai usato? LUCIANO DE BIASI - VITICOLTORE PIEVE DI SOLIGO Chiaramente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E non è un caso poi se più a valle, nel comune di Conegliano, in un pozzo pubblico sono state trovate tracce di glifosate e la vena sotterranea coinvolge cinque comuni.

SANDRO CINQUETTI - DIRETTORE PREVENZIONE ULSS CONEGLIANO Di glifosato si sta parlando ogni giorno in Unione Europea. Glifosato sì, glifosato no. Noi in questo territorio siamo riusciti ad ottenere questo: cinque comuni di questo territorio hanno abolito il glifosato.

CLAUDIO TOPPAN - ASSESSORE ALL’AMBIENTE COMUNE DI CONEGLIANO Tutti i 5 comuni interessati hanno vietato l’uso del glifosato.

BERNARDO IOVENE Posso avere l’ordinanza?

CLAUDIO TOPPAN - ASSESSORE ALL’AMBIENTE COMUNE DI CONEGLIANO Sì, ma adesso non saprei come fare a…

BERNARDO IOVENE Me la può spedire via mail?

CLAUDIO TOPPAN - ASSESSORE ALL’AMBIENTE COMUNE DI CONEGLIANO Sì, gliela faccio girare…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si parla di abolizione ma quando poi arriva l’ordinanza scopriamo che si tratta di un divieto temporaneo fino a 31 dicembre 2017. Faranno una proroga?

LARA CASAGRANDE - COMITATO RIVE SANE COLLE UMBERTO Continuano a esserci nuovi impianti, continuano a trattare, a non rispettare i regolamenti. UOMO Adesso noi andiamo in Municipio a consegnare le nostre proposte.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le proposte dirette al sindaco di Conegliano sono sostanzialmente un Referendum per abolire i pesticidi, un nuovo regolamento di polizia rurale, finanziamenti all’agricoltura biologica, quantificazione dei costi sociali, tutela dei lavoratori agricoli.

CLAUDIO TOPPAN - ASSESSORE ALL’AMBIENTE COMUNE DI CONEGLIANO Arriviamo in un momento… ne è appena stato fatto uno quindi penso sia un po’ difficile chiedere di fare un ulteriore referendum.

BERNARDO IOVENE Rifacimento completo del regolamento di polizia rurale.

CLAUDIO TOPPAN - ASSESSORE ALL’AMBIENTE COMUNE DI CONEGLIANO È chiaro che se io devo rifare il regolamento di polizia rurale come lo propone qualcuno la risposta è no. So che sono un po’ la bestia nera per il comitato ma non so cosa farci.

BERNARDO IOVENE Loro dicono che voi non fate niente, che non fate i controlli, che non mettete i cartelli, insomma ve ne dicono di ogni…

CLAUDIO TOPPAN - ASSESSORE ALL’AMBIENTE COMUNE DI CONEGLIANO Sì, sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche che il comune autorizza nuovi vigneti vicino alle zone sensibili. Qui si allenano per il rugby e d’estate ci sono i campi solari dalle 7:30 del mattino fino alle 6 del pomeriggio. A due passi è nato un vigneto che non c’era.

RICCARDO PICCOLI - PRESIDENTE RUGBY CONEGLIANO Noi facciamo attività su un campo dove i ragazzi si rotolano, giocano e sono sempre per terra quindi la parte volatile ha un’incidenza.

BERNARDO IOVENE E questi nuovi impianti di vigna, è proprio necessario?

CLAUDIO TOPPAN - ASSESSORE ALL’AMBIENTE COMUNE DI CONEGLIANO Nel caso che ha citato lei del rugby abbiamo trovato un accordo in modo che gli orari dei trattamenti non combacino con gli orari degli allenamenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E se combaciano, come è il caso di questa mattina, si comincia ad irrorare dal lato opposto e i bambini vengono spostati da quest’altra parte del campo. Poi, però nelle zone irrorate bisognerebbe aspettare 48 ore prima di accedervi. L’impianto sportivo dovrebbe chiudere e vietare ai bambini di toccare il terreno nelle vicinanze. Ma come si fa?

FABIO PADOVAN - COMITATO COLLI PURI CONEGLIANO Le ricadute dei pesticidi che sono nell’aria, di queste molecole che sono state create per togliere la vita, per uccidere, sono di centinaia di metri, per cui oggi questi bambini stanno respirando pesticidi. È immorale che le autorità comunali non facciano assolutamente nulla. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche Mirko e sua moglie Leitao nel 2007 si sono trasferiti appena fuori dal centro del paese di Follina. In pochi anni, però, si sono ritrovati la casa circondata di vigneti. La loro vita si è trasformata in un inferno, la figlia più piccola poi si è ammalata.

MIRCO BON Siamo venuti nel 2007…

BERNARDO IOVENE E non c’erano i vigneti?

MIRCO BON Qua era dismesso, era abbandonato. Questi spruzzano veleno, possono chiamare fitofarmaci, li possono chiamare fito qua, fito là. Questo è veleno. Qua è dove gioca la Lucia, questa è la casetta, eccetera, eccetera. BERNARDO IOVENE E come arrivano qua? Arrivano a mano a trattare?

MIRCO BON No, no, no, col trattore. Arrivano, passano, servono 48 ore no? Allora loro spruzzano e io dovrei stare chiuso in casa tutto il giorno e il giorno seguente. Qua diventa difficile fare il bucato. Alla bambina hanno riscontrato con l’esame istologico che ha un tumore un po’ particolare, la dobbiamo tenere sotto controllo ogni 4 mesi. Metà rene gli è già stato tolto. Non sappiamo come andrà a finire perché non c’è un medico che mi dice è colpa di questo, ma non c’è neanche un medico che mi può sostenere che sia il contrario. Io ho la bimba…. Può essere mia moglie che quando era incinta si è sniffata sta merda qua, questo veleno. Cioè voglio dire, chi è che mi può dire il contrario, chi è che mi può dire no, non è colpa del veleno che vi siete respirati? Tutto là.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Problemi di salute hanno investito anche tutta la famiglia della signora Viviana compreso il vicinato. Qui siamo a Cappella Maggiore.

VIVIANA ALTOÉ Mia figlia con il linfoma non Hodgkin. Mio marito ha avuto il tumore alla prostata, io sono in attesa di togliermi la tiroide. Prima eravamo tutti sani e felici, poi abbiamo scoperto che c’è un linfoma follicolare qui all’angolo. Nella casa attaccata alla sua c’era stato un decesso un po’ prima, sempre per un linfoma follicolare. E un altro alla mia compagna di banco delle medie, anche lei ha finito la chemioterapia per un tumore intestinale. C’è il vigneto proprio dietro casa che era incavolata nera lei e il marito. In questa zona c’è il disastro, l’ho segnalato dappertutto, Arpav, sindaco non se ne parli, al sindaco di prima, all’aArpav, all’ufficio igiene e prevenzione dell’USL, ai vari ministeri, allo Iarc.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All’USL di Conegliano ci dicono che conoscono bene il caso ma le relazioni con le malattie si valutano sui grandi numeri. BERNARDO IOVENE Qui ci sono meno tumori che dalle altre parti.

SANDRO CINQUETTI - DIRETTORE PREVENZIONE ULSS 7 CONEGLIANO Che nel resto del Veneto.

BERNARDO IOVENE Anche quest’anno.

SANDRO CINQUETTI - DIRETTORE PREVENZIONE ULSS 7 CONEGLIANO Anche quest’anno. Soprattutto nel sesso femminile.

BERNARDO IOVENE Si assume questa responsabilità perché dice che è così.

SANDRO CINQUETTI - DIRETTORE PREVENZIONE ULSS 7 CONEGLIANO Io lavoro sui numeri.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il prosecco prima del 2009 era un vitigno come lo chardonnay o il merlot si poteva coltivare in tutta Europa. Si comprava la barbatella e si piantava ovunque. Zaia da ministro ha scovato a Trieste una frazione che si chiamava Prosecco e per legge ha detto che il vitigno si chiamava glera. Ha concesso qualche migliaia di ettari al Friuli ma è nel Veneto che continua a concedere, da presidente di Regione, ettari di prosecco.

BERNARDO IOVENE Non è nato a Trieste il prosecco? Lei lo sa. Ha fatto un po’ sto gioco delle tre carte.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO No, nessun gioco delle tre carte. Prima del mio decreto, la pianta che si piantava si chiamava prosecco. Dopo il mio decreto la pianta che si pianta si chiama glera.

BERNARDO IOVENE Ha cambiato il nome lei.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Ho cambiato il nome legandolo al toponimo. Ma per legarlo al toponimo voglio dire che abbiamo dato 4 DOC alle 4 province del Friuli Venezia Giulia.

BERNARDO IOVENE Quindi prima io, non so in Umbria…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Poteva piantare prosecco. Oggi pianta glera e non è prosecco.

BERNARDO IOVENE Ah, ho capito, ha fregato un po’ tutto il mondo dicendo lo possiamo fare solo noi veneti.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Fregato, mi permetta di dire è una brutta parola. Perché se lei va a vedere le mani e le schiene dei nostri produttori penso possa riconoscere il merito di chi ci ha creduto.

BERNARDO IOVENE Vabbè questo è un po’ di retorica, perché lei adesso ha allargato a 10 province… adesso sotto il livello del mare si può fare il prosecco che non è certamente quello di Valdobbiadene… hanno bisogno di tanti trattamenti perché non è una zona...

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma guardi, anche sui trattamenti, parliamone. Io ho scritto un libro che si chiama “Adottare la terra” per cui mi lasci dire una cosa. Leggo un sacco di considerazioni sui trattamenti, sugli insetticidi, che condivido, ma di certo sono miei discepoli questi signori perché se andassero a leggere il mio libro… BERNARDO IOVENE Ha scritto un libro?

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Sì, “Adottare la terra”, è un libro contro le multinazionali…

BERNARDO IOVENE No, dico, già è una notizia, ha scritto un libro…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO È contro le multinazionali, io sono il ministro che ha bloccato i neonicotinoidi che facevano morire tutte le api e io l’ho sempre detto, cioè alla fine il vigneto ideale è il vigneto biologico. Però dite una cosa ai cittadini, posso dirlo? Non è che perché si chiama prosecco si tratta di più. Lo si fa dallo champagne fino a qui, passando per l’Ungheria alla Napa Valley e quant’altro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Agli ambientalisti, discepoli inconsapevoli di Zaia, diciamo che qui si fanno trattamenti come nel resto del mondo, anche se il vigneto ideale è il biologico. Sulla stessa linea il consorzio DOCG.

INNOCENTE NARDI - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOCG Il Consorzio è a sostegno del biologico. Infatti i numeri che ci sono, ad esempio nel territorio Conegliano - Valdobbiadene, testimoniano che c’è una attenzione, una crescita significativa in questo territorio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La crescita significativa è del 5%. Dal prosecco superiore DOCG passiamo a quello DOC che produce l’80% di 510 milioni di bottiglie vendute e siccome Zaia ogni anno concede più ettari, nelle gare per le nuove assegnazioni ci comunicano che hanno messo un punteggio superiore per chi fa il biologico.

BERNARDO IOVENE Al di là delle chiacchiere, quanto biologico avete in percentuale voi?

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Noi abbiamo un 4 o 5% di biologico che sono pari a 20 milioni di bottiglie che vengono consumate dal cittadino italiano o straniero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi, il presidente DOC annuncia una novità nel disciplinare.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Il divieto d’uso dell’utilizzo del glifosate, del mancozeb e del folpet.

BERNARDO IOVENE I vostri sono sempre consigli, non è che sono obblighi…

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Ma perché lei dice che non sono obblighi?

BERNARDO IOVENE Quanti ne avete esclusi fino a oggi? Nessuno…Fino ad oggi non ne avete escluso nessuno.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC No, ma perché, ma scusi…se vuole buttarla...

BERNARDO IOVENE No, non la voglio buttare…perché viene usato ancora, no?

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Io le sto dicendo che è stato approvato il percorso delle assemblee di arrivare attraverso il riconoscimento a livello ministeriale dell’esclusione dell’utilizzo del glifosate, del mancozeb e del folpet in modo obbligatorio per tutti i produttori. L’obiettivo è di arrivare da qui a tre anni a dare una certificazione di sostenibilità territoriale. È un iter che è in essere…

BERNARDO IOVENE Da cui non si torna indietro? La possiamo dare come notizia…

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Assolutamente no.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella scheda di sicurezza del mancozeb, ancora usato come fungicida, leggiamo: “sospettato di nuocere al feto, di reazioni allergiche cutanee, grave irritazione oculare, molto tossico per gli organismi acquatici, i pesci, e secondo molti ricercatori sarebbe cancerogeno a livello tiroideo. Il Folpet, usato sempre contro la peronospera della vite, può provocare, oltre alle irritazioni, anche il cancro, se inalato.

BERNARDO IOVENE Anche i cittadini saranno contenti perché fino a poco fa tutte queste cose che sta dicendo lei si negavano. Adesso ammettete che sono sostanze che fanno male.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Io non ammetto niente, io non ammetto che le sostanze fanno male perché questo lei non può farmelo dire. BERNARDO IOVENE Per lei non fanno male queste sostanze?

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Io non ho la competenza per dire che fanno bene o male. BERNARDO IOVENE Perché le state vietando allora?

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Sono sostanze che sono autorizzate dai ministeri, della Salute, eccetera, allora la scelta che facciamo noi è: siccome creano una tensione sociale perché ci sono dei cittadini che sono dei consumatori che ritengono che queste sostanze facciano male, noi facciamo la scelta…abbiamo fatto una scelta…

BERNARDO IOVENE Un equilibrista…

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Se a lei piace fare le interviste prendendo in giro la gente…

BERNARDO IOVENE No, io non voglio prenderla in giro.

STEFANO ZANETTE - PRESIDENTE CONSORZIO PROSECCO DOC Perché se non c’è riconoscimento non si va avanti, si torna indietro…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi è grazie alla tensione sociale e alle due grandi manifestazioni del 2017 che si sta cambiando direzione, ma ai comitati non basta.

LISA TRINCA - GRUPPO MAMME DI REVINE LAGO Non è sufficiente togliere qualche fitofarmaco su tantissimi. È ovvio che come mamme non siamo soddisfatte finché non abbiamo la sicurezza della tutela dei nostri figli al 100%.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 13 Si chiede il referendum e la conversione in bio-distretto, qui siamo a Follina, la sera del 3 novembre in una sala strapiena, il dottor Beghini parla dei pericoli dei pesticidi per la salute.

GIOVANNI BEGHINI - ISDE MEDICI PER L’AMBIENTE PAN ITALIA Si usano in tutto il Veneto un milione e mezzo di tonnellate di sostanze in deroga, cioè di sostanze che sono già state riconosciute cancerogene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E sono i giovani viticoltori a dare un segnale, in tanti si stanno convertendo al biologico, è un percorso che dura in media tre anni. Qui siamo nella vigna di Sarah.

SARAH DEI TOS - VITICOLTRICE La molla finale sicuramente è che adesso ho due bambini piccoli e voglio che stiano liberamente fuori tutto il giorno senza nessun tipo di preoccupazione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche la cantina Sant’Andrea nella zona di Asolo è in conversione da quest’anno.

SIMONE MORLIN - VITICOLTORE Noi lo facciamo per noi stessi. È nato mio figlio l’anno scorso, quindi c’è tanta gioventù in vigneto. BERNARDO IOVENE Quindi quest’anno avete provato?

SIMONE MORLIN - VITICOLTORE Quest’anno abbiamo provato.

BERNARDO IOVENE Com’è venuto?

SIMONE MORLIN - VITICOLTORE Sarà stato l’anno facile, sarà stato fortuna comunque è venuto bene.

PIERO DE CONTI - VITICOLTORE Questo qui è Santo Stefano di Valdobbiadene. Qui abbiamo Guia, e dietro la collina c’è San Pietro di Barbozza, qui siamo proprio nel cuore del Cartizze.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Pietro De Conti sta trasformando questi vigneti che hanno più di cent’anni in biologico. BERNARDO IOVENE Quindi tu sei in conversione, non ancora sei biologico?

PIERO DE CONTI - VITICOLTORE No, tra due anni ci sarà la certificazione biologica. Passando al biologico ci si trova con diverse problematiche. Ci sono gli insetti che vanno ad incidere sulla pianta, quindi provocano queste piccole punture.

BERNARDO IOVENE Prima venivi qua, spruzzavi e stavi apposto.

PIERO DE CONTI - VITICOLTORE Esattamente.

BERNARDO IOVENE Adesso questi qua che cosa ti comportano?

PIERO DE CONTI - VITICOLTORE Questo assolutamente niente, non con quest’intensità. Bisogna fare una scelta, bisogna investire più tempo nel vigneto e si ottiene un prodotto leggermente diverso. Un prodotto che si piazza sul mercato in una posizione diversa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E così altri come Bianca Vigna.

DONNA Una buona quantità.

BERNARDO IOVENE E avete già cominciato?

DONNA Siamo in conversione.

BERNARDO IOVENE Ah siete in conversione?

DONNA Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si potrebbe innestare lo stesso meccanismo della più piccola e vicina Franciacorta dove 30 anni fa Barone Pizzini è stato pioniere del biologico e oggi i due terzi dei produttori di tutta la Franciacorta l’hanno seguito.

BERNARDO IOVENE Quindi è partita dai produttori, non è partita dai comuni.

PIERLUIGI DONNA - AGRONOMO È partita assolutamente dai produttori. È stato promosso e proposto da loro, poi noi l’abbiamo accettato di buon grado perché chi fa bio deve dimostrare maggiori competenze, più monitoraggio, più attenzione.

BERNARDO IOVENE Cioè quindi qua non c’è foltep, mancozeb.

PAOLO DI FRANCESCO - AGRONOMO No, assolutamente no.

BERNARDO IOVENE Lo dite come se fosse una cosa…

PAOLO DI FRANCESCO - AGRONOMO Sono brutte cose.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E infatti puntano sul vigneto bio, ma lì la situazione, per chi fa il bio, è complicata, perché sono talmente appiccicati che rischiano di essere contaminati da chi non è bio. Insomma, però, la direzione ormai è quella: di puntare al distretto biologico. Ma la guerra vera, la partita vera si gioca sul nome “prosecco”. Nel 2009, l’allora ministro dell’Agricoltura, Zaia, ebbe un’idea, quella di sfilare il nome alla frazione di Trieste e di consegnarlo al vino italiano più famoso al mondo per facilitarne la commercializzazione. Ne nacque una guerra intorno a quella vicenda, Zaia nel 2009 piantò anche una barbatella per favorire un segno di pace. Che fine ha fatto quella piantina? E soprattutto chi vince e chi perde in questa guerra? Lo vedremo dopo la pubblicità. Pubblicità

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, parliamo del vino italiano più venduto al mondo, il più famoso: il prosecco. Hanno sfilato il nome alla frazione di Trieste. E poi lo coltivano altrove. Hanno riempito di vigneti le colline di Treviso, bacino elettorale di Zaia, fino alla Venezia Giulia, occupando gran parte del Veneto. Zaia ha stabilito per decreto, ha legato l’uva Glera al nome “prosecco”. Ha blindato il nome e ha impedito ad altri produttori di entrare nell’affare. Un affare cospicuo di due miliardi e mezzo ogni anno. E che è in crescita del 20%. Solo che, chi è rimasto a secco – scusate il gioco di parole – sono stati gli abitanti di Prosecco che un anno fa hanno annunciato guerra. Hanno detto:” o ce n’è anche per noi o fi ne dei giochi”. E ad infiammare la guerra era stato proprio il nostro Bernando Iovene.

Da Report del 14/11/2016

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Prosecco è una frazione di Trieste a ridosso dell’altopiano Carsico che si affaccia sul golfo. Ha dato il nome al famoso spumante, ma qui, il prosecco, quello che noi tutti conosciamo, non lo hanno mai prodotto. Nelle cantine bevono l’Uvaggio Carsolino.

BERNARDO IOVENE È questo il vino? È fermo?

UOMO Sì. BERNARDO IOVENE Niente bollicine?

UOMO A Prosecco non fanno prosecco.

BERNARDO IOVENE Da quando beve ha mai sentito il prosecco, tipico di questa zona?

UOMO A dire il vero no.

UOMO Produciamo soprattutto vitoska, varietà autoctona del Carso, la malvasia e il terrano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nel 2008 l’Europa dice che la DOC è una denominazione di luogo, non di vitigno. E allora qualcuno scopre che c’è una frazione di Trieste che si chiama Prosecco.

ROBERTO PINTON - CONSULENTE ALIMENTARE Questa è stata un’operazione da furbi. Si sono inventati una origine del vino, ma l’han costruita. Prima hanno detto il vino non deriva dalle uve prosecco, deriva dalle uve glera, sconosciute ai più e hanno avuto la gran fortuna di trovare un paese che si chiamava Prosecco.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Gli abitanti di Prosecco però si rivoltano. Voi ci prendete il nostro nome, cosa ci date in cambio? Fecero ricorso e per tenerli buoni il Ministero e la Regione firmarono un protocollo d’intesa con le associazioni degli agricoltori che in sostanza prevedeva la bonifica del costone carsico per renderlo accessibile all’agricoltura viticola.

FRANC FABEC KMEČKA ZVEZA - ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI Noi in questi anni non siamo riusciti a piantare un ettaro di prosecco, di glera. Noi stiamo qui a guardare, stiamo qui da spettatori, invece di essere partecipi di questo show, di questo spetatcolo, perché parliamo di uno spettacolo.

ZARKO BUKAVEC - VITICOLTORE Perché usate il nostro nome senza offrirci niente in cambio? Potremmo anche restare, per assurdo, nel prosecco DOC, ma per una contropartita, se ci lasciano lavorare il costone, se ce lo bonificano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il costone è un bosco impraticabile per l’agricoltura e i produttori che hanno ristrutturato i terrazzamenti sono pochissimi. L’intesa era di sistemare i 100 ettari ma ci vorrebbero circa 25 milioni di euro. La Regione dice di aver fatto la sua parte e si aspetta quella del Ministero.

FRANC FABEC KMEČKA ZVEZA - ASSOCIAZIONE AGRICOLTORI Noi vogliamo che quel protocollo venga rispettato e abbiamo tutti i diritti anche.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il ministro Martina ci aveva risposto di non avere risorse. Ma veniamo a oggi.

UOMO Qui c’è stato nel 2009 l’evento simbolico, quando Zaia è venuto qui in questo posto a piantare la barbatella di prosecco come buon auspicio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La barbatella che aveva piantato Zaia non c’è più e non sono arrivati nemmeno i soldi promessi.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Ci sono 314 milioni di euro a disposizione a livello nazionale e vi posso garantire che per il prosecco e per questi territori ci saranno questi fondi.

BERNARDO IOVENE Senta, si ricorda la barbatella che è andato a mettere…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Si, l’han fatta morire… ma come si fa?

BERNARDO IOVENE E’ morta?

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Sì, ma è la dimostrazione che il prosecco…

BERNARDO IOVENE Lì non c’è il prosecco…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Lì loro hanno una grande opportunità che è il costone carsico… BERNARDO IOVENE Che lei aveva preso l’impegno…eccolo qua.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Certo.

BERNARDO IOVENE Eccolo qua, il protocollo.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma lo faccia vedere bene.

BERNARDO IOVENE Mannaggia, mannaggia, che fine ha fatto sto protocollo?

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma guardi bene le date.

BERNARDO IOVENE È scaduto ormai.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Io sono andato via poi perché sono venuto a fare il presidente della Regione ma il Ministero resta. E i ministri ci sono, dove sono gli altri ministri?

BERNARDO IOVENE Ho capito, però lei ha preso degli impegni…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Sì ho capito ma se vado a fare il presidente della Regione. Ma guardi che è un impegno sostenibile questo. Al costone carsico va data una mano ma sono convinto di questo.

BERNARDO IOVENE Lei quando è andato a fare la campagna elettorale, ultimamente là…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Guardi che io non vado in giro a fare campagna elettorale a promettere. Io ho detto: ragazzi, io vi do una mano, ma sono Presidente della regione del Veneto, non sono più il ministero.

BERNARDO IOVENE E non gliel’ha più data, perché non gliela può dare?

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Non riesco a dargliela, è questo il problema.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Al contrario loro avevano creduto nelle istituzioni.

ZARKO BUKAVEC - VITICOLTORE Il protocollo per noi è stato una promessa fatta dalle istituzioni. Perché quando viene a mancare la parola data dalle istituzioni a quel punto ti chiedi: ma con chi ho parlato? Con chi abbiamo firmato?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella frazione di Prosecco si moltiplicano le iniziative per quello che per loro, è il vero prosecco, il prosekar, la regione ha finanziato la casa del prosekar, e aggiunge che hanno chiesto al Ministero hanno chiesto una priorità per il Carso sulle nuove assegnazioni vitivinicole.

CRISTIANO SHAURLI - ASSESSORE AGRICOLTURA REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Il ministero ad oggi ci ha dato una risposta positiva però ovviamente attendiamo l’atto ufficiale che dovrebbe partire con la prossima vendemmia con il prossimo anno agricolo in cui venga sancita questa priorità che viene data per le autorizzazioni per il Carso.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Resta il problema su come accedere alle terrazze del costone oggi impraticabili.

ALESSIO STOKKA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PROSEKAR Come puoi pensare di scendere con il trattore qua è impossibile, qui ci vorrebbero monorotaie, infrastrutture, un ingente intervento pubblico. Le terrazze costruite qua dai nostri avi avranno almeno 2000 anni. Questo è un vero patrimonio dell’umanità che sta crollando nell’abbandono più totale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per il momento resta lettera morta. La frazione di Prosecco è solo servita alla causa e alla bolla del prosecco veneto e friulano ma non alla sua e alla Venezia Giulia. Alla fine ci resta questa pulce nell’orecchio, Zaia prima da ministro dell’Agricoltura e oggi da presidente di Regione avrà avuto qualche interesse personale in tutta questa operazione? La pulce l’hanno soffiata anche nelle sue orecchie.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Sti venticelli che girano a me fanno male perché è difficile vivere con onestà. Sono dei lazzaroni.

BERNARDO IOVENE 19 Che mestiere faceva prima?

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Io mi sono laureato in scienze della produzione animale, ho fatto tutti i lavori del mondo. Ho lavorato in discoteca, ho fatto il muratore, ho lavorato in azienda agricola, non mia, dopodiché è ovvio questo lavoro mi porta via a tempo pieno. Altra contraddizione italiana: il politico non deve vivere di politica però se il politico fa qualcos’altro ha il conflitto di interessi.

BERNARDO IOVENE Un po’ avete contribuito anche voi…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Mi potrei comprare un vigneto. Ma chi è sto testa di cazzo che ti dice ste cose?

BERNARDO IOVENE Ogni tanto viene qualcuno…

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Me ne registri uno? Ma va filmami, registramene uno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però è simpatico il governatore. Ci manca solo che ci mettiamo a fare i delatori. Comunque il prosecco nel tempo ha ottenuto grandi riconoscimenti, prima l’indicazione geografica tipica, l’igt, poi la denominazione d’origine controllata, poi quella controllata e garantita. Ecco per i 15 comuni che hanno ottenuto anche la garantita, Zaia ha chiesto il riconoscimento all’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Ora hanno dei paesaggi bellissimi, è vero, hanno dei paesaggi di valore. Ed è vero. Ma che patrimonio lasci all’umanità se comprometti terreni e acque con l’uso dei pesticidi senza controllo? Non vogliamo colpevolizzare il prosecco, che è un’eccellenza del mondo, un’eccellenza italiana. Però abbiamo visto che si può coltivare in un altro modo.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” l'8 maggio 2021. Il trigolo - spiega il dizionario - è l'incontro di tre piazze e tre vie.

Nei palazzi dell'Unione europea è il momento di confronto tra Parlamento, Commissione e Consiglio. Il prossimo trigolo sulla politica agricola - fissato per il 23 maggio - potrebbe portare l'Europa enologica su una strada estremamente tortuosa permettendo di definire vino una bevanda senza alcol. Un miracolo di Cana all' incontrario col nettare di Dio che diventa acqua. Il tema è in discussione dal 2018, ma in Italia - come spesso capita - si scopre la minaccia solo all' ultimo minuto. A sostenere la proposta è la Presidenza portoghese del Consiglio all' interno del Piano d' azione per la salute e nell'ambito dei negoziati sull' Organizzazione comune dei mercati agricoli che entreranno in vigore nel 2023. Finora il Parlamento Europeo si è espresso nettamente contro, «pur comprendendo le opportunità commerciali dei vini a basso tenore alcolico e alcol-free», ha precisato ieri l'eurodeputato Pd Paolo De Castro. Salvatore De Meo, di Forza Italia, parla di «ennesimo accanimento verso un'eccellenza del made in Italy», mentre Luisa Regimenti della Lega si augura «che la proposta venga subito archiviata». «L' annacquamento del vino - denuncia Ettore Prandini, presidente di Coldiretti - va ad aggiungersi ad altre insidie decise a Bruxelles, dove è stata già legalizzata l'aggiunta dello zucchero per aumentare la gradazione del vino prodotto nei paesi del Nord Europa, nonostante lo zuccheraggio sia sempre stato vietato nei paesi del Mediterraneo».  In tema di bevande più o meno alcoliche, l'Ue aveva dato il via libera lo scorso anno anche al vino senza uva ottenuto dalla fermentazione di frutta. La preoccupazione è che con la scusa (legittima) della tutela della salute e dell'apertura a mercati in cui l'alcol è vietato, il vino annacquato diventi una truffa e che si perda il fascino della millenaria tradizionale del fare e gustare vino. O meglio, vini al plurale perché il piacere cambia secondo i vitigni, la cultura del territorio (il famoso terroir, per dirla alla francese), la sapienza e l'esperienza dell' enologo, l' invecchiamento. Il vino senza alcol non sarebbe più il prodotto naturale che conosciamo ma frutto di trattamenti e i consumatori potrebbero cadere nel tranello di pagare a caro prezzo un bicchiere d' acqua. Quindi - se proprio si vuole permettere la produzione di vino senza o con meno alcol - si usi un altro nome. «Bevanda a base di vino», suggerisce Luca Rigotti, coordinatore del settore per Alleanza Cooperative (circa il 50% della produzione italiana). Pur nella distinzione delle posizioni, la levata di scudi contro il vino dealcolato è stata ieri pressochè unanime a partire da Coldiretti secondo cui siamo di fronte all' ennesima «mina comunitaria che rischia di compromettere la principale voce dell'export agroalimentare nazionale che vale oltre 11 miliardi di euro». L' ipotesi di autorizzare l'aggiunta di acqua vuol dire «legalizzare una pratica che oggi costituisce il reato di frode in commercio», afferma Dario Stèfano, presidente della Commissione politiche dell' Unione europea del Senato. In Italia è perfino vietato anche solo tenere in cantina contenitori di acqua. Il produttore rischia pesanti sanzioni perché nel Testo unico del vino l' acqua è considerata sostanza idonea alla sofisticazione. Articolata la posizione dell' Unione italiana vini, una sorta di Confindustria del settore. «Dobbiamo evitare afferma il segretario generale Paolo Castelletti - che i vini a basso tasso alcolico possano divenire business di altre industrie estranee al mondo vino e fare invece sì che siano le imprese italiane a rispondere alle richieste di mercato (specialmente di alcuni Paesi asiatici)». Pronti a salire tutti sulle barricate, invece, per vietare la pratica con le denominazioni protette Doc e Igp, frutto di rigorosissimi disciplinari a tutela della qualità e unicità dei vini.

10 luoghi comuni sul vino da sfatare. Maurizio Bertera il 20 aprile 2021 su Vaniy Fair. I gusti sono gusti, si può bere tutto e il contrario di tutto. Ma è venuto il momento di fare un passo oltre alle classiche scelte e abbinamenti. Abbiamo chiesto consiglio a tre grandi sommelier italiani: Beppe Palmieri, Vincenzo Donatiello e Gianni Sinesi. «Un pasto senza vino è come un giorno senza sole». Lo diceva 230 anni fa (!) Anthelme Brillat-Savarin, politico ma soprattutto gastronomo francese, entrato nella storia per “La fisiologia del gusto” , opera, che fonda la figura dell’intellettuale gastronomo e che eserciterà una straordinaria influenza sulla letteratura culinaria successiva. Con tutto il rispetto (oddio…) per gli astemi e ricordando la provocazione di Gualtiero Marchesi («La bevanda perfetta da abbinare al cibo è l’acqua e non il vino» ripeteva a giorni alterni, tra l’altro guidando l’Albereta in Franciacorta...). Detto questo, il piacere di unire il vino a un piatto o a un cibo resta notevole e coinvolge – secondo le ultime ricerche – sei italiani su dieci. Sanno bere? Questo è un altro discorso. Perchè, a parte la libertà di pensiero e gusto (che peraltro a volte, porta a risultati demenziali), è evidente che gran parte degli appassionati da un lato non va oltre gli abbinamenti tradizionali, che non sono sbagliati in partenza ma spesso limitano il godimento. E dall’altro sono un po’ schiavi delle tendenze del momento: un anno si beve solo l’Etna Rosso, l’anno seguente il vino anforato, quello dopo ancora il Verdicchio. Anche qui niente di condannabile, le mode sono sempre esistite. Ma a noi è venuta voglia di divertirci, uscendo dalle rotte abituali per andare oltre o paradossalmente tornare indietro. Perchè non per forza le novità sono meglio della classicità. Abbiamo chiesto aiuto, non a caso, a tre fra i più bravi sommelier della ristorazione italiana: Beppe Palmieri (Osteria Francescana, Modena), Vincenzo Donatiello (Piazza Duomo, Alba) e Gianni Sinesi (Reale, Castel di Sangro). Giovani di età – solo Palmieri ha più di 40 anni, gli altri sono under 40 – ma di grande esperienza sul campo, soprattutto con una visione innovativa che parte dal rispetto della storia del vino, senza però esserne bloccati. Le persone giuste per smontare prevenzioni, abitudini sbagliate, ripetizioni nell’abbinamento con il cibo. A loro la parola (nella gallery), a noi solo l’aggiunta di una della frasi più belle dell’immenso Gino Veronelli, l’intellettuale che ha inventato la critica enogastronomica in Italia e insegnato ai vignaioli un sacco di cose: «La vita è troppo breve per bere vini cattivi». Ecco Nella gallery i 10 luoghi comuni da sfatare

1 Il "regista" della Francescana. Nato a Matera nel 1975, Beppe Palmieri è sommelier e direttore di sala dell'Osteria Francescana dove è arrivato 25 anni fa. Ha all’attivo un blog dal nome evocativo Glocal, manifesto della sua visione del cibo e della ristorazione. Da sempre si autodefinisce «basso profilo, altissime prestazioni». 

2 Per armonia o per contrasto. «Inutile fare retorica: ci sono sempre due soluzioni possibili. tra cibo e vino. La prima è un accostamento per armonia, come insegnano i sacri testi, e che per fare un esempio pratico significa un culatello stagionato cinque anni con un Lambrusco. Ma si può procedere anche per contrasto, che ci ha portato ad accostarlo a un Sauternes» spiega Palmieri.

3 La (finta) cultura del vino. «Premesso che il cliente ha sempre ragione anche quando ha torto, è giusto affidarsi a chi ha fatto del vino un lavoro senza per questo sacralizzarlo. Ma va detto che se non si è realmente competenti di vino, meglio affidarsi a un esperto per questa o quella bottiglia, meglio ancora a un percorso di degustazione» sottolinea Palmieri.

4 Viva il Lambrusco. «Non è questione di campanilismo o di amore per questo vino: il Lambrusco è uno dei vini più sottovalutati e non lo merita. Bisogna assaggiarlo, senza prevenzione alcuna». Il maitre della Francescana è andato oltre abbinando un piatto di Bottura all’Artemio, un cocktail a base di Lambrusco di Sorbara, con ghiaccio, succo di amarena e amarena candita. Fenomenale.

5 E' anche scrittore. Nell'anno del primo lockdown ha messo in un libro ("Io servo") storie ed emozioni del suo lavoro. Vincenzo Donatiello, lucano di 36 anni, ha iniziato come sommelier nel team di Piazza Duomo nel 2013 ma due anni dopo era già direttore di sala del tristellato di Alba, La sua grande passione è il Pinot Nero. 

6 Il Moscato: perchè solo sul dolce? «Non ho mai capito perchè Il Moscato d'Asti - uno dei fiori allì'occhiello della nostra viticoltura - debba essere limitato ad accompagnare i dolci. Va bene anche con salami e formaggi freschi, persino con ostriche e molluschi. A Piazza Duomo l'ho abbinato al Risotto al limone bruciato di Enrico Crippa» spiega Donatiello.

7 Il Barolo: non per forza invecchiato. Nessuno discute le grandi annate di Barolo. Ma Donatiello lancia una (giusta) provocazione: «Spesso si considera un vino rosso importante, solo se invecchiato e intenso, ma non è obbligatorio. Per esempio, se il Barolo è annata 2011, caratterizzata da un alto tasso di bevibilità, può anche essere servito come aperitivo alla temperatura di 15°. Bisogna ragionarci, ovviamente» 

8 Basta esagerare con il "non vino". Andiamo contro la tendenza di inserire nel percorso di abbinamento la birra artigianale, il vermouth, il mini-drink? Uno basta e avanza. Commenta Donatiello: « Li proponevo oltre 10 anni fa quando erano visti come avanguardia pura. Oggi però sto tornando a privilegiare il vino, difatti alla riapertura il degustazione di Crippa sarà accompagnato solo da una serie di calici»

9 Un italianista in cantina. Gianni Sinesi, 37 anni, barlettano, lavora da 16 anni con i fratelli Romito in Abruzzo. Attualmente è head sommelier del tristellato Reale e cura le carte dei vari Spazio, con grande attenzione all'Italia. Il suo motto in sala? «Sorridere, sorridere, sorridere. Anche quando non si è in perfetta forma per qualche motivo». 

10 Non c'è solo il Prosecco. Per Gianni Sinesi, è tempo di creare una maggiore cultura sulle bollicine italiane, con l'onore che si deve allo Champagne e il rispetto per il Prosecco, prodotto in milioni di bottiglie. «Troppi pensano ancora che 'bollicina' significa una di queste due cose. Invece, l'Italia è la terra del Franciacorta, del Trento DOC e di tante altre etichette interessanti che meritano attenzione». 

I vini pugliesi sono un vero e proprio affare. Tarantinitime.it il 12 Marzo 2021. Siete alla ricerca di un vino rosso corposo e fruttato ed a un buon prezzo? Allora i vini pugliesi sono quello che fa per voi. Alcune delle migliori etichette d’Italia per rapporto qualità/prezzo provengono proprio da questa soleggiata regione. Sebbene per diversi decenni i vini pugliesi siano stati apprezzati solo a livello locale, oggi la loro qualità li ha portati ad affermarsi sul mercato italiano e straniero. I vignaioli pugliesi producono anche vini rosati e bianchi, ma sono i vini rossi prodotti con vitigni autoctoni come Negroamaro, Primitivo, Nero di Troia e Bombino Nero che regalano le migliori soddisfazioni. Il miglioramento della qualità media e l’apprezzamento giunto da un pubblico sempre più ampio ha fatto che sì che oggi i vini pugliesi vengano distribuiti in abbondanza anche online. L’enoteca DiemmeVini propone un catalogo di oltre cento vini pugliesi per andare alla scoperta di tutte le sfumature di questa regione. La maggior parte del vino pugliese è rosso, corposo e si abbina bene con un’ampia varietà di pietanze. I vini di Puglia sono figli di un paesaggio variegato che è la culla anche di circa la metà della produzione totale di olio d’oliva italiano. Il clima caldo e il terreno fertile rendono facile coltivare quasi tutto ed essendo la Puglia una penisola circondata dal mare su tre lati le fresche brezze del Mediterraneo si incaricano di mitigare le temperature in vigna per garantire un’ottima maturazione delle uve. All’inizio di questo secolo solo una piccola percentuale di vino pugliese era di qualità DOC; ora questa cifra è in costante aumento e vengono introdotte nuove DOC ogni anno. Nel 2010 la regione ha persino ottenuto la sua prima DOCG per il Primitivo di Manduria Dolce Naturale, riservata ai vini rossi passiti elaborati con le uve del vitigno Primitivo coltivate nei dintorni di Taranto, seguita un anno dopo dalla creazione dalle DOCG Castel del Monte che comprende le sotto-denominazioni Bombino Nero, Rosso Riserva e Uva di Troia Riserva. Per un assaggio, Ronco di Sassi e Feudi Salentini sono due dei principali produttori di vini Primitivo di Manduria. Assieme al Primitivo e al Nero di Troia (coltivato soprattutto in provincia di Foggia), il Negroamaro è un altro dei vitigni simbolo della regione ed in particolare del Salento. Per il suo vigore ed il sapore pieno e rotondo è stato a lungo utilizzato come vino da taglio ma oggi è una delle stelle dell’enologia pugliese ed alcune delle migliori etichette sono il Negroamaro Salento IGP di Masseria Borgo dei Trulli ed il Negramaro Rosato Calafuria di Tormaresca, che mostra tutta la predisposizione di quest’uva per la vinificazione rosé. Chiudiamo la carrellata con il Salice Salentino, vino prodotto nell’estremo sud della Puglia tra spiagge che ricordano i caraibi ed i tradizionalissimi suoni della tarantella. La cantina Masseria Borgo dei Trulli propone un Salice Salentino Riserva affinato per 12 mesi in botti tonneaux che possiede aromi intensi di frutta nera ed un gusto corposo e strutturato, con tannini morbidi ed un finale amarognolo che lo rendono il vino ideale da abbinare a primi piatti a base di carne e formaggi stagionati. Altro produttore salentino molto rinomato è Leone de Castris che a sua volta vinifica un notevole Salice Salentino Riserva DOC a base di uve Negroamaro e Malvasia Nera di Lecce.

I migliori vini del Meridione premiati nel concorso di Radici del Sud. su Il Quotidiano del Sud l'8 marzo 2021. Sono 60 le etichette vincitrici del Concorso dei vini del Sud Italia di Radici del Sud, che si è svolto al Castello di Sannicandro di Bari, nel pieno rispetto delle norme anti Covid. Le due giurie, composte interamente da giornalisti e addetti ai lavori italiani o da stranieri che vivono nel nostro Paese, hanno degustato più di 300 vini che erano stati inviati da oltre 125 aziende provenienti da Sardegna, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia.

Hanno decretato un unico premio con un primo, secondo e terzo classificato per ogni batteria di vino e in aggiunta i migliori tre vini biologici del Sud. I giudici hanno inoltre evidenziato come dalle degustazioni sia emersa la grande attitudine di questi vini all’invecchiamento.

I VINI VINCITORI PER CATEGORIE

SPUMANTI BIANCHI

1° – CENTOCAMERE BIANCO, BARONE G.R. MACRÌ, CALABRIA

2° – ISOTTEO, COPPI CASA VINICOLA, PUGLIA, 2018

3° – SPUMANTE BRUT, COPPOLA1971, SICILIA

SPUMANTI ROSE

1° – NEROVENTUNO SPUMANTE BRUT, COPPOLA1971, SICILIA, 2019

2° – ROSÉ SPUMANTE BRUT, CAIAFFA VINI, PUGLIA, 2019, BIO

3° – ANIMANERA, ROSSOVERMIGLIO, CAMPANIA

FALANGHINA

1° – FALERNO DEL MASSICO DOP BIANCO, VILLA MATILDE AVALLONE, CAMPANIA, 2019

2° – GRANDE FARNIA, IOVINO AZIENDA AGRICOLA-VITIVINICOLA, CAMPANIA, 2019

3° EX AEQUO – NOBILES, L’ANTICA CANTINA, PUGLIA, 2019

3° EX AEQUO – ROSSOVERMIGLIO FALANGHINA DEL SANNIO, ROSSOVERMIGLIO, CAMPANIA, 2018

GRECO

1° – CALPAZIO, SAN SALVATORE 1988, CAMPANIA, 2019, BIO

2° – RÈFULU, CASA COMERCI, CALABRIA, 2019, BIO

3° – GRECO DI TUFO CLAUDIO QUARTA, SANPAOLO DI CLAUDIO QUARTA VIGNAIOLO, CAMPANIA, 2019

VERMENTINO

1° EX AEQUO – CONTISSA, CANTINA TREXENTA, SARDEGNA, 2019

1° EX AEQUO – TERRA E MARE 2019, UNMAREDIVINO DI SINI GIOACCHINO, SARDEGNA, 2019

2° – CAPICHERA, CAPICHERA, SARDEGNA, 2018

3° – CALA SILENTE, CANTINA SANTADI, SARDEGNA, 2019

FIANO

1° – FIANO DI AVELLINO DOCG, SANPAOLO DI CLAUDIO QUARTA VIGNAIOLO, CAMPANIA, 2019

2° – TORRE DEL FALCO FIANO PUGLIA IGT, TORREVENTO, PUGLIA, 2019

3° – ZIOPÌ, TENUTA MASSANOVA, CAMPANIA, 2019

GRUPPO MISTO VINI BIANCHI

1° – FUNTANAFRISCA, FRADILES VITIVINICOLA, SARDEGNA, 2019

2° EX AEQUO – VERBO MALVASIA, CANTINA DI VENOSA, BASILICATA, 2019, BIO

2° EX AEQUO – MINUTOLO ALTURE, CANTINE PAOLOLEO, PUGLIA, 2018

2° EX AEQUO – ADÈNZIA BIANCO, BAGLIO DEL CRISTO DI CAMPOBELLO, SICILIA, 2019

3° EX AEQUO – COSTA DEL MULINO ABRUZZO COCOCCIOLA DOC, CANTINA FRENTANA, ABRUZZO, 2019

3° EX AEQUO – PECORINO PASETTI, PASETTI, ABRUZZO, 2019

ROSATI DEL SUD

1° – LAMEZIA DOC ROSATO, STATTI, CALABRIA, 2019

2° – TERRE DI ORAZIO, CANTINE DI VENOSA, BASILICATA, 2014

3° – VERITAS CASTEL DEL MONTE BOMBINO NERO DOCG, TORREVENTO, PUGLIA, 2019

GRUPPO MISTO VINI ROSSI

1° – BENANTI CONTRADA CAVALIERE, ETNA DOC ROSSO, BENANTI, SICILIA, 2018

2° – ETNA ROSSO DOC, NERI AGRICOLTURA DELL’ETNA, SICILIA, 2018

3° – FERVORE, TERRE DI BALBIA-VITICOLTORI IN ALTOMONTE, CALABRIA, 2016, BIO

MONTEPULCIANO

1° EX AEQUO – RITORNA – MONTEPULCIANO D’ABRUZZO DOC, AZIENDA AGRICOLA GIOVENZO, ABRUZZO, 2018

1° EX AEQUO – MONTEPULCIANO D’ABRUZZO DOC MALANDRINO, CATALDI MADONNA, ABRUZZO, 2018

2° – MONTEPULCIANO D’ABRUZZO, TENUTA TRE GEMME, ABRUZZO, 2017

3° – FOSSO CANCELLI, CIAVOLICH, ABRUZZO, 2015

NEGROAMARO

1°  – ANIMA DI NEGROAMARO LIZZANO NEGROAMARO DOP SUPERIORE, TENUTE EMÉRA DI CLAUDIO QUARTA VIGNAIOLO, PUGLIA, 2018

2° – MASSERIA BORGO DEI TRULLI LIALA NEGROAMARO IGP SALENTO 2019, MASSERIA BORGO DEI TRULLI, PUGLIA

3° – ORFEO, CANTINE PAOLOLEO, PUGLIA, 2018

PRIMITIVO

1° – COLLEZIONE PRIVATA COSIMO VARVAGLIONE, VARVAGLIONE 1921, PUGLIA, 2016

2° – PATRUNALE COLLEZIONE PRIVATA, VINICOLA PALAMÀ, PUGLIA, 2016

3° – BUSA, MADRI LEONE, PUGLIA, 2019

NERO DI TROIA

1° – DONNA CLELIA SAN SEVERO NERO DI TROIA, PALLOTTA LEONARDO, PUGLIA, 2015

2° EX AEQUO – KALINERO, DOMUS HORTAE VIGNAIOLI DAL 1788, PUGLIA, 2017

2° EX AEQUO – VERSURE 105, CANTINA VIGNAIOLI PUGLIESI, PUGLIA, 2017

3° EX AEQUO – F.D.NERO DI TROIA, BOTROMAGNO/PODERI D’AGOSTINO, PUGLIA, 2018, BIO

3° EX AEQUO – ANIMA DI NERO, MICHELE BIANCARDI – CANTINE E VIGNE DAUNE, PUGLIA, 2017, BIO

3° EX AEQUO – AUGUSTALE, CRIFO, PUGLIA, 2015

CANNONAU

1° – MAMUTHONE, GIUSEPPE SEDILESU, SARDEGNA, 2017, BIO

2° – NURULE, CANTINA DORGALI, SARDEGNA, 2015

3° EX AEQUO – JANKARA CANNONAU DI SARDEGNA DOC, JANKARA, SARDEGNA, 2018

3° EX AEQUO – CANNONAU DI SARDEGNA NERO SMERALDO, UNMAREDIVINO DI SINI GIOACCHINO, SARDEGNA, 2018

AGLIANICO

1° – TERRA ASPRA AGLIANICO IGP BASILICATA, TENUTA MARINO, BASILICATA, 2013, BIO

2° – ARAGONA, CANTINE KANDEA, PUGLIA, 2013

3° – FORENTUM D.O.C.G., VITIS IN VULTURE, BASILICATA, 2016

TAURASI (AGLIANICO)

1° – TAURASI, BOCCELLA ROSA, CAMPANIA, 2015

2° – HORUS TAURASI RISERVA DOCG, CANONICO & SANTOLI, CAMPANIA, 2015

3° – PENTAMERONE, CANTINE DELITE, CAMPANIA, 2015, BIO

VINO BIO

1° – MAMUTHONE, GIUSEPPE SEDILESU, SARDEGNA, 2017, BIO

2° – FERVORE, TERRE DI BALBIA-VITICOLTORI IN ALTOMONTE, CALABRIA, 2016, BIO

3° – TERRA ASPRA AGLIANICO IGP BASILICATA, TENUTA MARINO, BASILICATA, 2013, BIO

LE GIURIE

Giuria 1: Antonio Tomacelli, giornalista – Presidente di giuria; Genny Van Gomez, giornalista; Franco Santini – giornalista; Maurizio Gily – agronomo e divulgatore scientifico; Paolo Frugoni – buyer; Leonardo Palumbo – enologo.

Giuria 2: Maurizio Valeriani – giornalista – Presidente di giuria; Marco Sciarrini – giornalista; Maurizio Gabriele – giornalista; Katarina Andersson – giornalista; Carlotta Salvini – Sommelier Fisar; Lino Carparelli – enologo.

“La considerazione principale risultata da questi due giorni di confronto è la splendida forma in cui i giudici hanno trovato i vini degustati, considerando che erano stati inviati ancora nel 2020 per l’edizione che doveva svolgersi a giugno – dichiara Nicola Campanile, organizzatore della manifestazione – L’ottima conservazione e un tempo di affinamento più lungo ha fatto emergere un’evoluzione inaspettata sia sotto il profilo aromatico ma anche di struttura in tutti i vini. Questo a dimostrazione del fatto che sia i bianchi che i rosati del Sud hanno grandi potenzialità per un mercato sempre più pronto al consumo di vini invecchiati”. L’appuntamento con la prossima edizione di Radici del Sud sarà dal 9 al 14 giugno, dove emergenza permettendo, la manifestazione riprenderà le attività in calendario e si svolgerà come negli anni passati.

Francesco Basso per il "Corriere della Sera" il 5 febbraio 2021. «L'Ue non ha intenzione di proibire il vino, né di etichettarlo come una sostanza tossica, perché fa parte dello stile di vita europeo», ha detto ieri il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas presentando il Piano europeo di lotta contro il cancro. Ma la commissaria alla Salute, Stella Kyriakides, ha aggiunto che la Commissione presenterà «una proposta di etichettatura obbligatoria per l'elenco degli ingredienti e dichiarazione nutrizionale sull'etichetta delle bevande alcoliche nel 2022 e una sulle avvertenze sulla salute nel 2023». Iniziative «che saranno costruite sulle esperienze già compiute dai produttori - ha precisato - per dare ai consumatori più strumenti per scegliere con più consapevolezza». Le etichette sono una delle misure insieme alla tassazione che andranno a contribuire alla prevenzione, una delle quattro aree di intervento del piano che mette a disposizione degli Stati membri 4 miliardi di euro. Gli altri tre ambiti di azione sono lo screening precoce, il miglioramento dell'accesso a diagnosi e trattamenti innovativi, il miglioramento della qualità di vita dei pazienti e di chi è guarito. L'anno scorso si sono ammalati di tumore 2,7 milioni di europei e 1,3 milioni hanno perso la vita a causa della malattia: la Commissione stima che senza un intervento tempestivo i casi aumenteranno quasi del 25% entro il 2035, facendo del cancro la prima causa di morte nell'Ue. Uno degli obiettivi è quello di proteggere i cittadini dai «tumori evitabili», ha spiegato Kyriakides. Per questo la prevenzione ha un ruolo centrale nel piano, che «mira a sensibilizzare e affrontare i principali fattori di rischio - si legge nel documento - come i tumori causati dal fumo, il consumo dannoso di alcol, l'obesità e la mancanza di attività fisica, l'esposizione all'inquinamento, alle sostanze cancerogene e alle radiazioni, nonché i tumori innescati da agenti infettivi». La Commissione proporrà quindi «un'etichettatura nutrizionale obbligatoria e armonizzata nella parte anteriore della confezione per consentire ai consumatori di fare scelte alimentari informate, sane e sostenibili» e sosterrà gli Stati membri e le parti interessate «nei loro sforzi sulla riformulazione e sull'attuazione di politiche efficaci per ridurre la commercializzazione di prodotti alimentari malsani». Inoltre, si legge nel documento, «la Commissione sta intraprendendo una revisione della politica di promozione dei prodotti agricoli, nell'ottica di potenziare il proprio contributo alla produzione e al consumo sostenibili, e in linea con il passaggio a una dieta con più verdura, meno carni rosse e lavorate e altri alimenti legati al rischio di cancro, più frutta e verdura». La proposta è stata duramente criticata dall'Associazione industriali delle carni e dei salumi aderente a Confindustria (Assica). Per il presidente Nicola Levoni «anche la scienza è unanime nel dire che non è il prodotto in sé a essere pericoloso, ma la quantità che se ne assume». Nei giorni scorsi preoccupazioni erano emerse anche nel mondo del vino. Le parole di Schinas sono state accolte con sollievo da Coldiretti e dalla filiera vitivinicola di Confagricoltura, Cia-Agricoltori Italiani, Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, Copagri, Federvini, Federdoc, Assoenologi e dall'Unione Italiana Vini per la quale sarebbe «inaccettabile» l'inserimento del vino in una black list che assimili il consumo di vino al fumo. L'obiettivo del piano è «ridurre il consumo di alcol nocivo» perché «il danno correlato all'alcol è una delle principali preoccupazioni per la salute pubblica nell'Ue».

Cristiana Lauro per Dagospia il 28 gennaio 2021. Capita spesso che l’apertura di una bottiglia di vino venga presa per un gesto figo e manchi di rispetto al valore sacrosanto di quel bendidio. Mi rendo conto che ristoranti, wine bar, mescite e via dicendo, siano un lontano ricordo (porca paletta, il settore è davvero alla canna del gas), ma quanta maleducazione avete visto in giro - anche a casa di amici o in  altre situazioni conviviali - rispetto all’apertura e al servizio del vino? Basti pensare alla quantità di luoghi comuni e sciocchezze che dilagano sul vino raccontato. Volan di bocca in bocca ed è un attimo che si traducano in gesti che sedimentano, calcificano e incancreniscono. Dopodiché ci vogliono generazioni per levarseli dai piedi! Signore e signori, la maleducazione è servita! Buttate un occhio a questa carrellata di orrori del vino.

- Servire vini spumanti col pollice infilato nel fondo concavo della bottiglia è tremendo! Quel culo di bottiglia serve ad altro e lo sanno bene i produttori.

- Stappare spumanti e champagne facendo il botto è da burini, sciabolando da truzzoni, con la carta di credito è da arresto in gatta buia! (Giuro che qualcuno lo fa, divertitevi su internet!)

- Infilarsi nel naso l’intero tappo del vino, al fine di verificare che non presenti difetti, fa schifo quanto fare il baciamano a una signora appiccicando le labbra e lasciando una striscia da lumaca.

- La bottiglia di vino finita al ristorante non si ribalta nel secchiello, è una cafonata tremenda. I camerieri si accorgono da soli quando è il momento di chiedervi se ne gradite un’altra. Altrimenti fanno bene a cambiare mestiere.

- Roteare il vino nel bicchiere è utile per farlo ossigenare. Non ho detto frullare, ma semplicemente roteare. Nel frattempo abbiate cura delle camicie dei commensali.

- La Flûte è passata di moda, ma bere Prosecco nel calice da Borgogna è ridicolo.

- Non giocate a mosca cieca col vino perché in assaggio coperto anche i grandi esperti prendono toppe clamorose.

Potrei andare avanti per ore, ma mi fermo su un’ultima raccomandazione:

- non tutti i vini con le bolle sono dei Prosecco. E, comunque sia, smettete di chiamarlo prosecchino!

Carlo Ottaviano per "Il Messaggero" il 27 dicembre 2020. C'è un'Italia che anche nel terribile 2020 ha corso più degli altri raccogliendo successi in tutto il mondo e ottenendo risultati economici impensabili fino a pochi anni fa. È quella dei fine wine, i vini di lusso. In gennaio sarà resa nota la classifica dei Power 100 del mercato secondario Liv-Ex, ma già alla vigilia di Natale sono state rivelate alcune anticipazioni da Winenews. Gli italiani in classifica saranno 17 (nove in più del 2019), a dimostrazione di un anno d'oro per l'enologia italiana con alcuni vini che scalano il benchmark londinese: Gaja conquista la posizione numero 3 (dalla 34 del 2019), Sassicaia si piazza alla quarta (dalla settima), Ornellaia alla sesta (dalla 91), Masseto alla nona (dalla 72), il Solaia al gradino numero 13 (dal 72). Il Bordeaux resta comunque il territorio più presente nella classifica (con 37 presenze, in calo di 5), seguito dalla Borgogna a 24, con 10 brand in meno. Altri report dello stesso Liv-Ex dimostrano l'ottimo stato di salute di alcuni supercostosi vini toscani, piemontesi e pochi altri veneti. L'indice Italy 100 da inizio 2020 è cresciuto del 6,7%, molto più della media dell'1,6% nel totale delle contrattazioni dei vini di lusso e ha quasi raddoppiato la sua quota di presenza nel listino, dall'8,8% del 2019 al 15,3%.

LA CLASSIFICA. «Un mercato evidenzia Alessandro Regoli, direttore di Winenews - che è cresciuto nonostante un 2020 durissimo, e che ha mosso il valore record di 83 milioni di sterline, in crescita di ben 33 milioni sul 2019». Il Barolo Monfortino 2013, in particolare, è il vino che in assoluto ha mosso più valori nel 2020, con un prezzo attuale di 8.933 euro per una cassa da 12 bottiglie, in una top 10 che vede anche il Sassicaia 2017 (1.696 euro a cassa) e il Tignanello 2016 (1.061 euro). «Ed ancora meglio afferma Regoli - l'Italia fa nella classifica della crescita delle quotazioni, aspetto di primaria importanza per chi investe in vino». Per esempio, il Sassicaia 2013 della Tenuta San Guido, tra dicembre 2019 e novembre 2020, ha visto la propria quotazione a cassa crescere del 30,7% (a 2.236 euro) e il Solaia 2013 di Antinori del +24,1% (2.177 euro a cassa). L'Italia del vino è così riuscita a entrare in un mercato che sembrava riservato solo ai grandi vini francesi. È insomma lontano il 2008, quando fece scalpore la coraggiosa decisione della famiglia toscana Frescobaldi di portare a La Place de Bordeaux il Masseto, che fu così il primo vino italiano quotato alla Borsa dei vini di lusso francesi. Sulla scia del Masseto altri italiani fecero poi il salto. «Il punto di forza racconta Giovanni Geddes da Filicaja, amministratore delegato della Masseto di Bolgheri è la super eccellenza del vino creato da un enologo russo che era scappato dal regime comunista, e che dopo le esperienze in Francia e Usa era arrivato in Toscana, trovando il duro terreno di argilla blu ideale per il Merlot».

LA QUALITÀ. Geddes prima di Masseto, ha diretto Remy Cointreau Italia, Marchesi Antinori (la più importante azienda vinicola privata italiana) e Marchesi de' Frescobaldi. «L'estrema qualità del prodotto spiega - non è una banale nota a margine a proposito di prezzi di vini da collezione. Perché si tratta di grandi bottiglie che un giorno verranno aperte. A differenza dei francesi di Borgogna o Bordeaux, grazie al clima mediterraneo, al sole in cui maturano le vigne, alle temperature mai estreme, i nostri grandi vini hanno capacità di invecchiamento eccezionali, facendone quindi crescere il valore». «A determinare i prezzi continua Geddes ci sono poi altri meccanismi, anche mentali: il suo status, come viene comunicato, dove viene venduto, la scarsità». Masseto, per esempio, non va oltre le 30mila bottiglia circa. Oggi una singola bottiglia nel mondo è mediamente venduta a 900 euro. Ma alcune annate sono quasi introvabili, perfino a volerle pagare 2200 euro, come indicano le ultime quotazioni del 2001.

·        L’Alcool.

Fabio Di Todaro per “la Stampa” il 7 febbraio 2021. Birra, vino, cocktail, superalcolici. Uno tsunami alcolico che, in apparenza, «accende» il cervello. Ma che in realtà lo colpisce. Senza pietà. L' ubriacatura coinvolge sempre più persone, a cominciare dai giovani, e ci fa ammalare. E spesso uccide. «E' l' alcol a generare i rischi per la salute, non la bevanda che lo contiene», spiega Emanuele Scafato, direttore dell' Osservatorio alcol dell' Istituto Superiore di Sanità. Sono proprio gli «under 18», assieme ad anziani e donne, il «target» più vulnerabile. Noi italiani siamo tra i maggiori bevitori d' Europa: il 42,3% delle ragazze e il 52,5% dei ragazzi (dagli 11 ai 25 anni) ha consumato almeno una bevanda alcolica in un anno. «L'alcol è una delle sostanze psicoattive più utilizzate dai nostri figli - commenta Scafato -. La maggior parte vi si avvicina troppo presto, spesso prima dei 12 anni, in genere lontano dalla famiglia».

Sos sballo. I giovani prediligono il «binge drinking», l' ubriacatura veloce, mirata allo «sballo», che li porta a consumare cinque-sei drink in successione. Eppure - ammoniscono gli specialisti - l' alcol non dovrebbe essere toccato prima dei 18 anni e con cautela prima dei 21. L' incapacità fisiologica dell' organismo di metabolizzarlo lo rende un rischio immediato: per lo sviluppo del cervello prima ancora che per il fegato. E l' invito alla prudenza dovrebbe essere ancora più esteso. «E' dimostrato un pericolo di danno cerebrale fino a 25 anni: si manifesta con deficit di memoria e orientamento», dice l' esperto. Motivo per cui «non bisognerebbe mai mettersi alla guida dopo aver bevuto».

I meccanismi del danno. A essere tossici per il cervello sono l' etanolo e il metabolita acetaldeide, in grado di provocare danni permanenti, strutturali e funzionali. Le due molecole, agendo come un detergente, possono sciogliere i grassi che danno stabilità alle membrane dei neuroni. La conseguenza è il danno irreversibile, fino alla morte, delle cellule cerebrali. Non solo. L' abuso di alcol è anche associato alla carenza di tiamina, portando alla sindrome di Wernicke-Korsakoff: è una forma di demenza che si manifesta come conseguenza del deficit di alcuni micronutrienti. Il troppo alcol, poi, è associato alla demenza vascolare, visto il legame con fattori di rischio come ipertensione, ictus cerebrale, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco. Se si smette di bere, comunque, il processo di degenerazione è parzialmente reversibile, anche se la «ricostruzione» non si instaura subito. A svelare questo aspetto è stato uno studio sulla rivista «Jama Psychiatry», svelando come le lesioni cerebrali possano verificarsi fino a un mese e mezzo dopo aver bevuto l' ultimo bicchiere. Dal confronto tra ex bevitori e non è emerso, infatti, che le modificazioni della sostanza bianca si perpetuano dopo aver smesso di consumare alcolici. La maggiore vulnerabilità si riscontra a livello del corpo calloso e della fimbria, strutture deputate alla connessione tra aree del cervello coinvolte nella formazione dei ricordi, nel sistema di ricompensa (è qui che si innesca il meccanismo del bere compulsivo) e nella maturazione delle decisioni. Aspetti che riguardano tanto i giovani (il cui cervello è in formazione) quanto gli anziani (per età già esposti a un rischio più alto di sviluppare disturbi psichiatrici e malattie neurodegenerative).

Il problema delle soglie. Meno alcol si beve, meglio è: ecco la regola d' oro. A tutte le età. Di certo la quantità di alcol nel sangue da non superare per non influenzare lo stato di vigilanza necessario per guidare in modo sicuro cambia in funzione di fattori come sesso, peso, altezza, età, stato di salute e condizioni di riposo. Se il limite per i conducenti con meno di 21 anni, per i neopatentati (per i primi tre anni) e per chi lavora al volante è pari a zero, quello che riguarda gli adulti viene raggiunto con due «unità alcoliche» per le donne e tre per gli uomini. Ovvero ingollando circa 12 grammi di etanolo: il contenuto di un bicchiere di vino (125 millilitri, a 12 gradi) o di una lattina di birra (330 millilitri, a quattro gradi) o di una dose di superalcolico (40 millilitri, 40 gradi). Il concetto-chiave, però, è ancora più stringente: non esistono soglie di consumo sicure. Né è possibile parlare di benefici reali, determinati da un consumo moderato, come dimostra uno studio su «The Lancet»: anche cinque-sei bicchieri di vino o birra a settimana possono accorciare la vita. A questo Sos occorre aggiungere che le bevande alcoliche sono considerate il primo fattore di rischio per le demenze.

Sos tumori. E non basta. Purtroppo. L' etanolo - assieme al metabolita acetaldeide - è una sostanza cancerogena. Sono gli organi dell' apparato digerente i più vulnerabili: a partire dal colon-retto (nei consumatori moderati), fino all' esofago, allo stomaco, al fegato e al pancreas (nei forti bevitori). «Ma esiste anche una relazione tra l' incremento delle quantità di alcol e le probabilità di ammalarsi di tumore al seno - conclude Scafato -. Nelle ragazze e nelle donne il rischio che corre chi beve rispetto a chi non beve cresce del 7% per ogni bicchiere in più rispetto alla soglia di 10 grammi di etanolo al giorno e aumenta fino al 27%, se il tessuto presenta i recettori agli estrogeni». La probabilità, così come per gli altri cancerogeni, è proporzionale all' esposizione. Ma il monito vale anche per i consumatori occasionali: non esistono livelli di consumo sicuri correlati al rischio oncologico. Conclusione: l' alcol è un nemico insidioso.

·        Il Bitter.

Valerio Varesi per “il Venerdì di Repubblica” il 21 ottobre 2021. Prima dei prosecchi, degli spritz e degli apericena, c'era lui: il «biondo che fa impazzire il mondo». Era l'era dei bitter che si contendevano i banconi dei bar di tutt'Italia con le loro bollicine colorate e l'effervescenza degli anni Sessanta. Il Crodino, assieme al suo rivale concorrente San Pellegrino, con cui ingaggerà una battaglia commerciale durata a lungo, è stato uno dei protagonisti di quella stagione in cui l'Italia neo industriale scopre l'analcolico coi suoi colori accattivanti nel crepuscolo del mondo rurale incentrato sul vino. Una delle figure centrali di questa trasformazione delle abitudini nel bere fu Pietro Ginocchi, un signore nato a Parma centoventi anni fa, nel 1901, da una famiglia di origini pavesi che, a partire da una semplice fonte di acque ricche di sali minerali, fonda un'industria alimentare destinata a colonizzare le tavole di tutto il mondo e a trasformare il piccolo comune di Crodo, centro un tempo quasi sconosciuto di una valle piemontese vicino al confine svizzero, in una piccola città ricca e con piena occupazione. In occasione della sua elezione a Città della cultura, Parma ha dedicato a questo figlio adottivo una mostra (aperta fino a Natale nei locali dell'Archivio storico comunale). Perché se il Crodino, il cui marchio è oggi posseduto dalla Campari, è un prodotto industrialmente trainante sul mercato degli analcolici, lo si deve a Ginocchi emigrato a Milano a trent'anni dopo una sfortunata vicenda industriale proprio a Parma. Come in tutte le avventure, caso e fortuna intervengono a deviare la traiettoria esistenziale e lavorativa. Nella città emiliana, Ginocchi era già un manager di rilievo alla fine degli anni Venti. Dirigeva lo scatolificio Musi e Polon che produceva barattoli di latta per l'industria del pomodoro la quale, nel 1927, fatturava già 100 mila lire all'anno, quattro volte più della Barilla di allora. Tuttavia, in quello stesso anno un incendio distrugge la fabbrica e dà inizio alla sua (temporanea) rovina. La proprietà passa alla Sirma di Firenze, ma le cose continuano ad andar male al punto che Ginocchi chiede il passaporto per emigrare in Sudamerica. Cambia però idea e, invece di passare l'Atlantico, resta in Italia dove nel '33, diventa presidente delle terme di Crodo. In breve, quelle che erano due semplici fonti, la Cristella e la Valledoro, vedono nascere intorno l'albergo, i bagni e un parco. Ma Ginocchi ha in mente qualcos'altro. Capisce che se tutto resta in quella valle non ci potrà essere un'evoluzione, così decide di spostare in viale Brianza a Milano, la capitale economica, tutta la produzione delle acque minerali. Un bombardamento nel giorno di San Valentino del '43 rade al suolo i capannoni, Ginocchi non si perde d'animo e nel giugno dello stesso anno chiede al Reale Genio Civile di Novara di costruire un nuovo stabilimento a Crodo, località meno bersagliata dagli aerei alleati. Nel dopoguerra è così già pronta la struttura per la produzione industriale. Ma non basta l'attività di imbottigliamento, il mercato degli analcolici è maturo per lanciare un bitter. Cosciente che la battaglia sarà soprattutto combattuta sul marketing, crea una bottiglia molto simile a quella dell'analogo prodotto Campari. Ne nasce una disputa legale da cui Ginocchi esce sconfitto. Ma le schermaglie legali s'innescano anche con la San Pellegrino per via del marchio: stella rossa a cinque punte per quest'ultima e stella verde a sette punte per Crodo. Il tutto finisce con un accordo ma quello tra Ginocchi e Giuseppe Mentasti, responsabile delle fonti lombarde, è duello che dura decenni. Tuttavia, il bitter di Crodo è un flop e nel '63 viene ritirato dal commercio. È per ripensare il prodotto che Ginocchi contatta Maurizio Gozzelino, enologo torinese esperto di essenze aromatiche, vincitore della selezione per la fornitura della miglior ricetta relativa a una bevanda analcolica. In primo luogo si decide di creare un prodotto di colore diverso dall'amaranto della San Pellegrino. «Quando si beve e si mangia» spiega l'enologo oggi ultra ottantenne «contano anche gli occhi e immediatamente dopo l'aroma. Studiammo l'Aperol decidendo di differenziarci da quell'idea di bitter per realizzare un aperitivo più moderno. Ginocchi mi illustrava le sue idee e io cercavo di realizzarle in laboratorio». Nel '64 il Crodino è pronto e una platea di degustatori lo approva. «A mio parere» riprende Gozzelino, «oltre alla novità, fu determinante una legge che proibì il colorante rosso 123 che usava la San Pellegrino. Cosicché il suo bitter dovette essere ritirato lasciando al Crodino il via libera». Il successo è immediato e il piccolo centro prospera. Su 1.600 residenti, 450 lavorano alla produzione di bevande. Si lavora su tre turni e i camion fanno la fila per caricare le casse di bitter. La fortuna del prodotto è spinta anche da un'altra intuizione di Ginocchi: la pubblicità sui giornali e sui canali televisivi. Il primo lotto produttivo, il 28 luglio del 1965, sforna 53.855 mila bottiglie. Ma in seguito, con una testimonial come Brigitte Bardot, coperta d'oro per lo spot, la produzione si moltiplica. Sex symbol degli anni Sessanta, è la bionda più celebre del pianeta, niente di meglio per pubblicizzare un altro biondo. «Ginocchi non si avvaleva di un'agenzia di pubblicità, pensava tutto lui e poi chiedeva a registi e attori di realizzare le sue idee» spiega Marco Mantovani, il presidente del Museo nazionale delle acque minerali, fondato a Crodo proprio da Ginocchi. Così sono nate le avventure dell'elefantino Billo e del bimbo Tappo, la pubblicità con Raffaele Pisu e gli slogan rimasti famosi nell'immaginario collettivo. L'avventura industriale di Ginocchi finisce nell'83 mentre ha in testa di costruire un nuovo stabilimento. Gli occhi lo tradiscono così decide di cedere l'impresa agli olandesi della Bols. Firma un accordo dove lui resta amministratore, ma qualche giorno dopo trova la porta del suo ufficio con la serratura cambiata, estromesso senza un grazie. Gli olandesi realizzano un altro stabilimento a Sulmona dove il nuovo proprietario, l'italiana Campari, in un primo tempo progetta di trasferire la produzione poi realizzata a Novi Ligure e in piccola parte ancora nella vecchia sede di Crodo. Ormai fuori, Ginocchi dimostra d'essere un industriale di stampo olivettiano. Finanzia il Centro studi e ricerche sulle acque minerali, pone le basi del museo che include un ricchissimo archivio e un teatro, aderendo alla passione coltivata per l'intera vita. Si deve a un suo contributo anche la creazione del parco regionale delle valli Veglia e Devero. 

·        Il Caffè.

Maurizio Stefanini per "Libero quotidiano" il 21 novembre 2021. L'espresso fa ufficialmente 120 anni. Il 19 novembre 1901 fu infatti brevettata dal milanese Luigi Bezzera la macchina «tipo gigante con doppio rubinetto» per fare il caffè istantaneo, secondo un procedimento di percolazione sotto alta pressione di acqua calda che è poi diventato in Italia una icona identitaria. Ripetiamo: "ufficialmente". In realtà, infatti, era stato il torinese Angelo Moriondo a lanciare per l'Esposizione Universale di Torino del 1884 il procedimento che permetteva di abbreviare i parecchi minuti richiesti dal modo di fare il caffè tradizionale per aspettare che i fondi si depositassero nella tazza. Come spiegava un giornale dell'epoca: «è una curiosissima macchina a spostamento con cui si fanno trecento tazze di caffè a vapore in un'ora (proprio a vapore). Si compone in un cilindro o caldaia verticale che contiene 150 litri d'acqua, la quale viene messa a ebollizione da fiammelle di gas sotto il cilindro, e per mezzo del vapore con una complicazione curiosissima di congegni si fanno in pochi minuti dieci tazze di caffè in una sola volta o una sola tazza se volete». Il successo era stato grande, tant' è che gli era valso la medaglia di bronzo della Esposizione. Ma Moriondo non si era preoccupato di brevettare, pago di attrarre clienti nei suoi due locali: l'American bar nella Galleria Nazionale e l'Albergo Ligure nella centrale piazza Carlo Felice. «Venite al Ligure, vi daremo il caffè in un minuto», era lo slogan. Fu dunque Bezzera a brevettare «innovazione negli apparecchi per preparare e servire istantaneamente il caffè in bevanda»: la locuzione ammette che qualcosa c'era già ma, appunto, per la legge l'espresso inizia a esistere da questo momento. Ci volle comunque che Desiderio Pavoni nel settembre 1905 compresse il brevetto perché partisse una fabbrica di macchine per espresso nella milanese Via Parini, che si mise subito a venderne al ritmo di una al giorno. E già nel 1905 la macchina di Bezzera fu presentata alla prima Fiera Internazionale di Milano. Questa ripartizione di compiti quasi da stereotipo tra genio commerciale milanese e genio industriale torinese continua con il torinese Teresio Arduino, che dopo aver fatto il militare nel Genio Ferrovieri ha l'idea di rivedere il sistema in base a quel che aveva imparato sulle caldaie delle locomotive. Nasce così nel 1910 la Victoria Arduino, che continuerà a servire espressi agli italiani per mezzo secolo. Un modello a colonna spesso impreziosito con decorazioni di elementi floreali in smalti e bronzi che ne farà anche un gioiello di Art Nouveau, déco e razionalista esportato in tutto il mondo. Anche il manifesto pubblicitario disegnato nel 1922 dal grafico livornese e artista futurista Leonetto Cappiello è considerata una delle massime espressioni di grafica del Novecento italiano. L'espresso così prodotto ha però l'inconveniente di essere spesso troppo amaro. Finché qualcuno non ha l'idea di sostituire al vapore un pistone, in modo da ottenere un infuso unicamente di polvere di caffè e acqua bollente. Nasce così la crema-caffè, offerta la prima volta nel 1948 con la Gaggia modello Classica da Achille Gaggia e Carlo Ernesto Valente, dopo dieci anni di lavoro su un brevetto che lo stesso Gaggia aveva comprato 10 anni prima. Per la cronaca, il suo bar era l'Achille di via Premuda a Milano, e la Classica fu poi battezzata Faema. In realtà prima ancora, nel 1935, un sistema per sostituire il vapore con aria compressa era stato già creato da un soldato ungherese rimasto a Trieste per amore dopo la Grande Guerra, di nome Francesco Illy. Ma non ebbe successo, anche se in compenso lo ebbe la ditta da lui lasciata ai discendenti. Pure nel 1948 Desiderio Pavoni torna in campo, chiedendo al designer Giò Ponti di fargli una caldaia non più orizzontale ma verticale. Infine, nel 1961 la Faema lancia la E61, che non utilizza più una cisterna, ma preleva l'acqua direttamente dalle tubature. Inoltre prima di essere attraversata da acqua a alta pressione la polvere di caffè è toccata da un minimo di acqua a bassa pressione, in modo da estrarre le sostanze aromatiche al massimo. Ed è questo l'espresso definitivo, sia pure con macchinari sempre aggiornati. Intanto anche il caffè in casa aveva avuto la sua rivoluzione da quando nel 1933 a un fonditore di alluminio era venuta l'idea di fare il caffè col sistema che sua moglie usava per il bucato. Si chiamava Alfonso Bialetti, ma questa è già un'altra storia.

Morettino: dalla Sicilia arriva il primo caffè 100% italiano. Fabiana Salsi su Vatityfair.it il 5 ottobre 2021. Dalle piantagioni di Morettino, storica torrefazione palermitana, è appena nato un caffè sorprendente: è il primo prodotto a nord dei Tropici, ma potrebbe essere un'ottima notizia. Il pianeta si è talmente tanto surriscaldato che ora il caffè si produce con risultati eccellenti anche più a nord dei Tropici: in Sicilia, per la precisione, dove la storica torrefazione palermitana Morettino ha appena raccolto i frutti della sua piccola piantagione avviata trent’anni fa a scopo sperimentale che, per la prima volta, hanno donato un caffè non si deve solo studiare ma si può anche bere. Così è nato il primo caffè coltivato e lavorato in Italia. È un caffè dolce, con un’acidità equilibrata e un sapore mai provato: «un caffè nativo in Sicilia di altissima qualità, con sentori particolari e unici, tipici della terra siciliana, quali note di uva zibibbo e carruba e dolci sentori di fiori di pomelia bianca e zucchero panela», dicono gli esperti degustatori dell’azienda.

LA STORIA

Tutti ci speravano, ma nessuno forse credeva che le 60 piante di Coffea Arabica nate dai semi donati negli anni Novanta dall’Orto botanico di Palermo, e piantate a circa 350 metri sul livello del mare nella borgata di San Lorenzo ai Colli (nel giardino dell’azienda), potessero dare un caffè così. Questa, che è una piantagioni più a Nord rispetto alle tipiche terre tropicali, nata dalla passione del fondatore Arturo Morettino, doveva servire solo a scopi accademici.

LE COLTIVAZIONI NATURALI

In più, tutto è successo senza l’aiuto della chimica: le piantagioni Morettino non sono in serra ma all’aria aperta e le piante crescono con metodi di coltivazione e cura delle piante esclusivamente naturali (tecnicamente non ancora bio per questioni di certificazione) anche per combattere insetti pericolosi come le cocciniglie. Una volta pronte le drupe (frutto della pianta del caffè) vengono raccolte manualmente tra luglio e settembre, spolpate a mano per estrarre i chicchi, poi fatti fermentare per 48 ore ed essiccare al sole prima di essere tostati e finire in tazzina. Un rito che si ripete così da trent’anni ma per il piccolo raccolto di appena 30 chili del 2021 la natura ha deciso di dare un segnale.

I CAMBIAMENTI CLIMATICI

«Siamo rimasti sorpresi. Le caratteristiche sensoriali di questo caffè nativo di Sicilia sono un risultato unico» commenta Arturo Morettino, quarta generazione della famiglia di torrefattori di Palermo che proprio quest’anno festeggia un secolo di storia. «Stiamo assistendo a forti cambiamenti climatici che devono farci riflettere sul presente e sul futuro della nostra terra, che ha mostrato segnali di insofferenza e rischi per le tradizionali colture quali gli agrumi, ma anche inaspettate potenzialità come dimostrano il successo delle coltivazioni di frutta tropicale in Sicilia quali mango, papaya, avocado, kiwi o litchi siciliani».

UN’OPPORTUNITÀ PER IL FUTURO

Ora Morettino vuole trasformare tutto questo in opportunità per replicare un modello già diffuso per alcuni frutti tropicali prodotti nel profondo sud, spesso biologicamente. Vuole capire se e come il caffè si può produrre su scala più ampia anche in altre terre della Sicilia, per offrire tazzine Made in Italy e sostenibili non solo perché prodotte naturalmente, ma anche perché non dovrebbero viaggiare chilometri prima di arrivare nelle nostre case: per questo l’azienda sta conducendo sperimentazioni su altri terroir in collaborazione con l’Università degli studi di Palermo, l’Orto botanico e specialisti dei processi di lavorazione, e nel suo Museo del caffè (che è poi il primo nel mondo) ha appena inaugurato il corso di laurea magistrale «Mediterranean Food Science and Technology».

«Il nostro piccolo appezzamento – prosegue Arturo Morettino – non cambierà gli equilibri del mondo del caffè, ma per noi questo raccolto è stato un segnale che vogliamo trasformare in opportunità, dando il nostro contributo. Crediamo nel ritorno alla terra, vorrebbe dire dare un futuro anche a tanti giovani». Nella gallery sopra alcune foto delle piantagioni di Morettino

Il caffè spiegato dalla A alla Z. Claudia Saracco il 2 Ottobre 2021 su L'Inkiesta.it. Sai distinguere un flat white da un cappuccino? E un chicco di Arabica da uno di Robusta? Oggi è la giornata internazionale del caffè e noi lo celebriamo svelando tante curiosità sulla tazzina più amata. 

A come Americano, il caffè di Hollywood: nel dopoguerra, i baristi italiani iniziarono a diluire il caffè con acqua calda per gli stranieri che chiedevano una bevanda a base di caffè meno concentrata dell’espresso. Era nato il caffè “per gli americani”. Molto diverso da un semplice espresso allungato con l’acqua calda, dall’altra parte dell’oceano l’americano – quello che beve Robert Redford in “Tutti gli uomini del presidente” e che viene servito nei diner non appena ti siedi al tavolino – viene chiamato anche filter coffee. Si prepara con una caraffa elettrica, generalmente di vetro, nella cui parte superiore c’è il filtro per la miscela. L’acqua bollente, riscaldata dalla macchina a una temperatura che varia fra i 93 e i 95 gradi, gocciola lentamente sulla polvere depositandosi nella caraffa.

B come Brasiliano: è una via di mezzo tra un caffè corretto, un cocktail e un long drink da servire a fine pasto per concludere in bellezza una cena. La sequenza di montaggio è rigorosa: sul fondo del bicchiere si versa lo zucchero, un’ombra di crema al whiskey, schiuma finissima di latte e per ultimo il caffè che va fatto scivolare dentro la schiuma. Tocco finale, una spolverata di cacao. Si serve stratificato, senza mescolare, in un semplice bicchiere di vetro (versione giorno) o nella classica coppa del Martini (versione sera).

C come Cappuccino: il caffè con latte preferito da noi italiani, con cinque porzioni di latte schiumato per una di caffè. Una bevanda in cui il sapore del latte si fonde con quello del caffè, senza coprirlo eccessivamente. Se sei in Francia, ti verrà servito un café au lait, un cappuccino più scuro in cui la quantità di latte è decisamente inferiore.

D come Decaffeinato: l’invenzione ha più di un secolo e si deve a Ludwig Roselius, figlio di un assaggiatore di caffè che nel 1905, a Brema, in Germania, riuscì a estrarre la caffeina dal chicco. Si calcola che una tazzina su dieci sia decaffeinata.

E come Espresso, cioè fatto al momento, espresso: trenta secondi di estrazione a una temperatura di circa 90° C, ovvero il simbolo dell’Italia nel mondo. Quello fatto a regola d’arte ha un perfetto equilibrio tra acidità e amarezza, al palato è denso e aromatico, ricoperto da una densa crema naturale color nocciola. Detto in polvere, sette grammi di felicità, l’equivalente di cinquanta chicchi. Secondo i puristi, andrebbe bevuto in purezza perché l’aggiunta di zucchero cambia il suo profilo aromatico.

F come Flat white: popolarissimo nel mondo anglosassone è il cappuccino che puoi ordinare a Londra, New York e Melbourne: una doppia dose di espresso e una di latte montato con una crema molto liquida e sottile.

G come Gaggia Magenta Prestige e le sue dodici declinazioni di bevande della tradizione a base di caffè, da scegliere premendo un semplice pulsante: ristretto, espresso, espresso lungo, caffè, cortado, flat white, americano, cappuccino, café au lait, latte macchiato, latte emulsionato e acqua calda. La funzione Memo consente di personalizzare le bevande (ad esempio regolando l’intensità della bevanda, attraverso la quantità di caffè macinato per tazza, la lunghezza del caffè e/o del latte emulsionato e la temperatura del caffè), salvare le impostazioni per le volte successive e scegliere tra caffè in grani o macinato. Per le bevande a base di latte, Gaggia Magenta Prestige ha in dotazione una caraffa integrata che emulsiona il latte e restituisce direttamente in tazza un crema perfetta, senza bolle d’aria e alla giusta temperatura. Il ciclo di pulizia è automatico e, dopo l’utilizzo, è possibile riporre la caraffa direttamente in frigorifero per un successivo utilizzo. L’esclusivo espresso tray in acciaio inox, consente di appoggiare le tazzine da espresso all’altezza corretta per garantire un’erogazione perfetta, senza schizzi, mantenendo uno strato di crema uniforme e vellutata. Una volta riposto, favorisce l’utilizzo di bicchieri e tazze alti, adatti ad altri tipi di bevande. Il ciclo di pulizia è automatico e dopo l’utilizzo si può riporre la caraffa direttamente nel frigorifero. Gaggia Magenta permette di avere il bar a casa con un semplice click. 

H come Hawai: questo angolo di paradiso viene associato a frutta tropicale, fiori e bellezze naturali, non certo al chicco di caffè. Eppure il Kona, così si chiama dal nome della zona dove cresce, è una delle prelibatezze più ricercate, al punto da essere uno dei caffè più costosi al mondo. Il distretto di Kona, che in lingua locale significa “battuto dal vento”, ha le condizioni climatiche e il suolo perfetto per le coltivazioni di arabica.

K come Kaffeost: letteralmente, “caffè e formaggio”. L’abbinamento può sembrare decisamente azzardato, ma nella penisola scandinava è abbastanza normale accompagnare intingere nel caffè bollente dadini di Leipäjuusto, anche detto “formaggio da pane” o Finnish squeaky cheese.

I come Iced latte, il caffè con ghiaccio che bevono gli australiani: se sei a Sydney e ordini un iced latte riceverai un bicchiere di caffè espresso freddo, con latte e cubetti di ghiaccio. Se chiedi un iced coffee, il barista potrebbe aggiungere una pallina di gelato.

L come latte emulsionato, la base perfetta per le ricette della tradizione italiana più bevute al mondo: è caratterizzato da una crema compatta, senza bolle, dalla consistenza vellutata. Oltre a quello vaccino ci si può sbizzarrire provando le versioni vegetali – soia, avena, riso, mandorla – per risultati sempre diversi.

M come Mocaccino o Mocha: più sfizioso di un cappuccino o di un caffè macchiato, è un mix goloso di caffè, panna e cioccolato che viene servito di solito al vetro, cioè nel bicchiere e non nella classica tazza. Da non confondere con il marocchino, la variante più light, fatto con caffè, crema di latte e polvere di cacao.

N come napoletano: più che una bevanda, un modo di essere, una magia fatta all’ombra del Vesuvio. Nei vicoli si racconta una storia presa in prestito dai monaci Zen: se il saggio indica la tazzina di caffè che ha preparato, lo sciocco guarda il caffè invece di guardare il dito e vedere dove porta. Il dito porta al napoletano, ed è questo il segreto. Perché va bene l’acqua, il clima mite del Golfo, la tazzina calda e il caratteristico colore “a manto di monaco” ma se chi te lo prepara non ci mette anche un pezzetto di anima verrà sempre fuori una ciofeca (cit. Totò).

O come origini del vero espresso all’italiana, quello con la crema naturale: il “caffè all’italiana” nasce dall’ingegno di Achille Gaggia, un barista italiano che nel 1938 registra il brevetto che da quel momento in poi rivoluzionerà il modo di estrarre l’aroma dal caffè. Achille inizia a costruire le sue innovative macchine da caffè professionali e le diffonde nei bar e nei ristoranti di tutto il mondo. È grazie a lui se oggi possiamo gustare il vero espresso con la crema naturale di caffè: un piacere inconfondibile.

P come Portogallo: a Lisbona, d’estate, si può entrare in un bar e chiedere un mazagran, cioè un espresso con tanto ghiaccio e una spruzzata di succo di limone. Il suo nome esotico deriva da una fortezza in Algeria dove attorno alla metà dell’Ottocento si consumò una delle tante battaglie che portarono alla colonizzazione del paese da parte della Francia. I legionari francesi, al rientro in patria, presero a consumare la bevanda e a farla conoscere al resto d’Europa. E proprio in Portogallo il mazagran ebbe la fortuna maggiore, tanto da essere servito ancora oggi abitualmente nei locali.

Q come qualità: i sommelier dell’espresso sanno riconoscere un buon caffè prima di assaggiarlo. Tutto parte dal chicco, che dev’essere intero, bello grande e gonfio, non troppo scuro né tendente al giallo. Quelli della qualità Arabica, considerata la più pregiata, sono allungati, grandi e con un solco centrale ondulato mentre quelli di Robusta sono più piccoli, rotondi e con il solco dritto. Una buona miscela invece si riconosce dal profumo intenso, dal colore bruno e dalla granulosità omogenea. Al palato il sapore cambia in base alla miscela: può essere floreale, fruttato, con note che ricordano quelle del cioccolato, del pane tostato, della vaniglia o delle spezie.

R come Ristretto: è un espresso ridotto, un caffè dal gusto molto deciso che si ottiene facendo fluire pochissimo liquido nella tazzina (15-20 ml rispetto ai 50-60 di un espresso). Al contrario di quello che si potrebbe pensare, non contiene più caffeina di un espresso perché il tempo di estrazione è molto ridotto: meno tempo dura il contatto tra acqua e polvere di caffè, minore è la quantità di caffeina nella bevanda.

S come Sospeso, ovvero la tradizione tutta napoletana di offrire un caffè a chi non può permetterselo. Diceva Luciano De Crescenzo che «quando un napoletano è felice per qualche ragione, invece di pagare un solo caffè, quello che berrebbe lui, ne paga due, uno per sé e uno per il cliente che viene dopo. È come offrire un caffè al resto del mondo».

T come Thermos, il modo più ecologico per bere un buon caffè lontani da casa. Fu inventato nel 1892 da Sir James Dewar uno scienziato britannico della Oxford University, che in realtà stava cercando un modo per conservare a temperatura costante le sostanze chimiche. E a proposito di invenzioni che iniziano con la T, un posto d’onore spetta a lei, la tazzina. Il pittore Luigi Tazzini, direttore artistico della Società di Ceramica Richard-Ginori, all’inizio del 900 disegnò una famiglia di tazzine dalle forme simili a quelle che conosciamo oggi e di grandezze diverse in base all’uso: “el tazzinin” per il caffè, “el tazzin” per il vino, la “tazzinetta” per il caffelatte e la “tazzina” per la pasta e fagioli.

U come umidità, il peggior nemico dell’aroma: il caffè reagisce immediatamente al freddo, al calore, alle variazioni di temperatura, umidità e ossigeno perdendo al contempo un po’ del suo profumo caratteristico. Gli esperti consigliano di evitare il frigo e tenere la polvere tra i 15° e i 20° C. L’ideale è la dispensa, fresca e asciutta al punto giusto.

V come Vienna e i suoi leggendari caffè: nel lontano 1683, durante l’assedio di Vienna, gli invasori turchi, nella concitazione della ritirata, abbandonarono sul campo di battaglia numerosi sacchi ricolmi delle loro scorte di caffè ma i viennesi ignoravano cosa fossero quei chicchi e come utilizzarli. Fu un ufficiale polacco, tale Kolschitzky, a introdurre il rito del caffè e a inaugurare la prima Kaffeehaus di Vienna nel 1685. Nel 2011 le Kaffeehaus sono state considerate patrimonio culturale immateriale, in quanto luogo “dove si consumano il tempo e lo spazio ma solo il caffè compare sul conto”. Seduti al tavolino, potete chiedere un Kleiner Schwarzer, l’equivalente del nostro espresso classico o un Kapuziner melange, caffè con panna montata, oppure un semplice mélange, caffè con latte caldo.

Z come generazione Z, cioè i ragazzi under 25: una ricerca condotta da Survey Mokey ha indagato  i loro gusti in fatto di caffè. Dal sondaggio è emerso che sono degli autentici coffee-lovers, leggono le etichette e sono interessati a conoscere l’origine delle miscele che acquistano. Il 95% lo beve sia a casa che al bar, in media due tazzine al giorno, soprattutto la mattina e il pomeriggio. Da sempre la scusa più classica per concedersi una dolce pausa.

Daniela Mastromattei per "Libero quotidiano" il 22 Agosto 2021. «Ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè», rivelò durante una conferenza all'università di Harvard il Nobel della Letteratura Thomas Stearns Eliot. «La scoperta del caffè fu importante quanto l'invenzione del telescopio o del microscopio; ha inaspettatamente intensificato e modificato le capacità e la vivacità del cervello umano», per dirla con le parole dello scrittore tedesco Heinrich Eduard Jacob. Ottenuta dalla macinazione dei semi di alcune specie di piccoli alberi tropicali, quella miscela di colore marrone scuro ha determinato grandi cambiamenti nell'umanità e stravolto i ritmi naturali di veglia e sonno legati alla luce diurna. E reso possibili nuovi tipi di lavoro (notturni) e, probabilmente, anche nuovi tipi di pensiero. Ne è convinto Michael Pollan, giornalista scientifico statunitense, che ha più volte affrontato il tema della caffeina («aiuta a sopportare il mondo che ha aiutato a creare») nei suoi libri intrecciando storia, antropologia e medicina, nutrizione e politica. Ma il mondo sarebbe lo stesso senza quella tazzina di caffè, «balsamo del cuore e dello spirito» per Giuseppe Verdi? E il capitalismo sarebbe lo stesso senza la 1,3,7-trimetilxantina, quell'alcaloide che tiene svegli (e talvolta rovina il sonno), che aiuta la mente (e non solo) anche quando il sole è calato consentendoci quei tour de force richiesti dalla società moderna? E la rivoluzione industriale? Un processo storico «difficile da immaginare senza gli effetti della caffeina». Che ha permesso alla classe operaia di sopportare i lunghi turni di lavoro, le pessime condizioni di lavoro e una fame più o meno costante (il caffè blocca l'appetito). Già all'epoca della sua prima diffusione nell'Africa orientale e nella penisola arabica, intorno al XV secolo, veniva utilizzato da alcune popolazioni e dai sufi nello Yemen come una bevanda utile a favorire la concentrazione e a impedire di appisolarsi durante le pratiche religiose. Nel giro di un secolo, migliaia di caffetterie furono aperte in tutto il mondo arabo (la propagazione della religione islamica proibiva di bere vino, sostituito dal caffè): nella sola Costantinopoli, nel 1570, ce n'erano oltre 600. Nel Settecento, il consumo di caffè divenne una moda in Inghilterra e in Europa da bere nelle coffe house, dove gli aristocratici si riunivano non solo per degustarlo ma anche per consultare giornali, libri e riviste. Ma le conversazioni nei locali londinesi si concentravano troppo sulla politica, tanto da suscitare l'insofferenza del governo e della monarchia restaurata nel 1660. Carlo d'Inghilterra infatti temendo fossero ritrovi di fomentatori di rivolte fece chiudere i caffè nel 1675 per «disturbo della pace del Regno», per riaprirli 11 giorni dopo «per compassione reale». In realtà si rese conto subito dell'inosservanza del divieto. E come non ricordare Il Caffè, rivista dei fratelli Pietro e Alessandro Verri nata a Milano e pubblicata dal 1764 al 1766. Oggi a differenza di altre molecole come la morfina (ricavata dal papavero da oppio) o la mescalina (dal peyote), la caffeina (dalle piante della famiglia delle Rubiacee) è legale praticamente dappertutto. In pochi la considerano una droga, né il suo consumo viene inquadrato nei termini clinici di una dipendenza. Pollan si è occupato molto dell'impatto psicosociale delle piante che alterano la mente nel suo libro This is your mind on plants: opium-caffeine-mescaline (appena pubblicato dall'editore americano Penguin), dove descrive la caffeina come una sostanza in grado di migliorare le prestazioni psicomotorie e cognitive. E cita un esperimento del 2014: i soggetti che bevevano caffè apprendevano nuove informazioni meglio dei soggetti a cui era stato somministrato un placebo. Ma se la caffeina sia uno stimolante per la creatività è un tema ancora in discussione. Il 90 per cento della popolazione adulta americana assume regolarmente caffeina, circa 200 mg di media al giorno. Mentre l'Ue ha uno dei consumi medi annui pro capite più alti al mondo (poco più di 5 chilogrammi di caffè a persona). Questi dati, fa notare Pollan, «rendono la caffeina la droga psicoattiva più usata al mondo». Per scrivere il libro, l'esperto americano per tre mesi ha smesso di consumare caffè, in modo da ottenere impressioni personali e dirette sui sintomi dell'astinenza da caffeina. Senza na tazzulella 'e cafè, direbbero a Napoli, si avvertono mal di testa, affaticamento, letargia, difficoltà di concentrazione, diminuzione della motivazione e irritabilità. La prima "dose", la mattina appena svegli, spiega Pollan, è un'esperienza con effetti particolarmente evidenti, non tanto per le proprietà stimolanti della bevanda quanto perché arriva a sopprimere i sintomi emergenti dell'astinenza. Insomma, il meccanismo d'azione della caffeina è talmente sincronizzato con i ritmi del corpo umano che la prima tazzina arriva in tempo per neutralizzare il disagio mentale messo in moto dall'ultima tazzina del giorno precedente. Pollan racconta: «Senza il caffè mi sentivo come una matita non temperata», avvolto in un torpore «come se nello spazio tra me e la realtà fosse calato un velo». Voltaire sosteneva: «Bevo quaranta caffè al giorno, per essere ben sveglio e pensare, pensare a come combattere i tiranni e gli imbecilli». Chissà se gli sarebbero sufficienti oggi con le due "nobili" categorie sensibilmente in crescita... Il caffè ha scritto pagine di storia, da vino d'Arabia a bevanda del diavolo, da carica del rivoluzionario alla cuccuma e alla moka, fino alle capsule e cialde... 

Massimo Tonelli per “la Repubblica” il 14 agosto 2021. L'Italia ha una questione irrisolta col caffè. Ma come in ogni psicodramma, non lo ammetterà mai a se stessa. Comunicazione errata, superficialità, retorica, nazionalismo fuori luogo ci hanno persuasi di bere il miglior caffè del mondo. Niente di più falso! Anzi, proprio a causa di questa spocchia cavalcata volentieri dalle industrie, in Italia si beve attualmente il peggior caffè possibile. Il caffè oggi è il più grande equivoco gastronomico italiano. Qualche esempio? Zuccheriamo a volontà, ma una bevanda che per esser bevibile ha bisogno di edulcoranti è una bevanda che ha dei problemi (e che ci crea dei problemi spingendoci ad assimilare dannoso saccarosio). Siamo convinti che il colore del chicco sia nero, ma in realtà la tostatura ottimale è marroncina tenue. Quasi sempre è nero perché carbonizzandolo si eliminano tutti i difetti (ma pure i pregi, e i profumi) appiattendo il sapore all'aroma carbone. Tostando in quel modo i torrefattori possono comprare partite di prodotto scadente o acerbo spuntando prezzi bassi e massimizzando gli utili. Ancora falsi miti? Siamo certi che debba costare al massimo un euro. Se il prezzo sale, gridiamo al furto. In realtà facciamo finta di non capire che ogni tazzina sottopagata (a meno di 2 euro è sempre sottoprezzo, infatti solo in Italia costa così poco) genera sfruttamento, lavoro nero, sofferenza in tutta la filiera. Dalle piantagioni nei paesi tropicali al bar sotto casa. Altri paradossi? Pensiamo che vada bevuto bollente, idem la tazzina. Ma è un altro trucco per coprirne i difetti: un caffè ottimo lo riconosci se è piacevole anche freddo! Siamo convinti faccia male. Ma come può far male un semplice frutto tropicale? Certo, la caffeina agisce sul sistema nervoso, ma il suo tenore è alto se il caffè proviene da una filiera agricola non idonea. E poi c'è il gusto. Abbiamo la inscalfibile certezza che la tazzina debba avere quel sapore lì. Proprio quello lì: di carbone. Ma il gusto del vero caffè è altra cosa. A volte profuma di succo di frutti rossi, ha sentore pungente degli agrumi, profumi fermentati del vino o di certe tipologie di the. Quella bevanda che abbiamo banalizzato, rendendola una medicina da trangugiare velocemente, non è più caffè: è una spremuta di chicchi carbonizzati. Ovvio che poi "fa male" e provoca gastriti. Ingiusto fare di tutta l'erba un fascio. Ci sono tanti bar che lavorano meticolosamente; tostatori attenti che selezionano la materia prima migliore e la lavorano senza violentarla; perfino grandi torrefazioni industriali stanno puntando sul caffè sostenibile e di ricerca. La prima resistenza viene quindi da noi! Dalla clientela che negli anni si è assuefatta alla mediocrità in cambio di un prezzo bassissimo: un compromesso al ribasso che ha conseguenze gravi, gastronomiche e etiche. Ma dopo avervi fatto aprire gli occhi, finiamo in ottimismo: in altri settori un tempo ridotti perfino peggio, l'evoluzione c'è stata. È avvenuto col vino dagli anni Ottanta, poi con la birra, infine col pane. Anche l'olio ci sta provando. E pensate alla pizza: fino a vent' anni fa una pizza era una pizza, ovvero la cosa più banale da mangiare fuori casa. Ora sappiamo tutto del lievito e ogni dettaglio sul mugnaio e la sua farina. Il caffè riuscirà a prendere lo stesso andazzo di ricerca e sostenibilità? Riuscirà a coinvolgere i consumatori? Il movimento dello specialty coffee riporterà consapevolezza e attenzione su un prodotto che quasi tutti - dall'ultimo bar di paese al ristorante gourmet - danno per scontato?  Alcune risposte a queste domande giungono da esperti del settore come Andrej Godina, Dario Fociani, Francesco Sanapo, Gianni Tratzi, Massimo Bonini, Chiara Pavan e Pasquale Polito. Hanno sottolineato la scarsa formazione dei baristi, il dannoso atteggiamento della ristorazione che continua a servire caffè banali e infiniti altri spunti che troverete nel prosieguo di questa lunga inchiesta, su Il Gusto. Da leggere sorseggiando un caffè di qualità, mica il solito di sempre. 

Mi faccio un caffè smart. Vito De Ceglia su lab.gedidigital.it. Non è più solo una questione di gusto o di tendenze. Dalla moka, alle capsule, alla tecnologia il consumo della bevanda più amata dagli italiani è cambiato. E l'interazione con la tecnologia, grazie alle app sempre più innovative, promette anche il caffè a comando, da remoto. L'era della Moka è al tramonto? Non ancora, e forse non lo sarà mai, certo è che i grandi produttori di capsule, complice anche il Covid-19, hanno messo a segno un duro colpo al simbolo indiscusso dell'espresso da bere a casa, superandolo di slancio in cima alle preferenze dei consumatori italiani come elemento di gratificazione. Lo dicono i numeri di Nielsen che fotografano una crescita a due cifre delle capsule, a valore (+15,9%) e a volume (+22,6). Crescita che ha permesso al mercato di settore di raggiungere la quota simbolica di 551 milioni di euro complessivi di fatturato a giugno 2021, rispetto ad un anno fa, nei canali di vendita della Grande distribuzione - iper, supermercati e liberi servizi - discount e commercio online. Per contro, la moka ha perso terreno, a valore (-3,9%) e a volume (-3,3), registrando tuttavia ricavi per oltre 698 milioni di euro. Segno, osserva Nielsen, che il mercato della moka ha tenuto botta nonostante la flessione e che il contributo delle capsule, in particolare, è stato fondamentale sia per aumentare i consumi di caffè tra le mura domestiche nell'anno del cigno nero, sia di aggiungere valore all'industria di settore.

Capsule anticicliche. In realtà, la stima del giro di affari delle capsule risulta addirittura superiore, e non di poco, perché i dati di Nielsen non considerano i canali di vendita specializzati, sia offline che online, che rappresentano una fetta importante del mercato. "Le capsule sono cresciute anno su anno rivitalizzando l'industria del caffè senza mai accusare un momento di stanca. In più, le capsule hanno aumentato il valore della categoria rispetto al caffè macinato", premette Cristina Farina, sales manager di Nielsen. Non si tratta, quindi, di un fenomeno estemporaneo ma strutturale, consolidatosi anno su anno, e concentrato nel Nord Italia: "Chi consuma capsule è soprattutto un consumatore del Nord, con un reddito al di sopra della media - spiega Farina -. Non abbiamo registrato cambiamenti negli ultimi anni, ma notiamo che oggi i grandi player del settore stanno tentando di allargare la base delle famiglie acquirenti, anche nel Sud Italia dove le capsule sono meno ramificate. In sostanza, la loro strategia è quella di trasformare un mercato elitario in uno mainstream con una capacità di spesa più bassa, raggiungendo categorie di consumatori più giovani grazie al supporto della tecnologia".

Hi-tech, il caso Lavazza. L'innovazione è la chiave per intercettare, a volte anticipare, le esigenze dei consumatori. Dalle macchine connesse agli smartphone ai servizi digitali ai nuovi format retail: i grandi marchi del settore - che generano quasi la metà del giro di affari totale delle capsule (fonte: Iri) -, si sfidano a colpi di novità tecnologiche per conquistare nuove quote di mercato. Emblematico il caso di Lavazza e della sua App, "Piacere Lavazza", l'applicazione omnicanale nata per fidelizzare gli amanti di prodotti originali dell'azienda torinese con un programma a punti che premia i clienti che consumano capsule Lavazza utilizzando, ad esempio, "Lavazza A Modo Mio Voicy", la prima macchina per il caffè al mondo dotata di Alexa, la piattaforma per Internet delle cose (IoT) di Amazon. Con l'App Piacere Lavazza è possibile controllare lo stato della macchina, monitorare i consumi, ordinare le capsule e soprattutto preparare il proprio espresso tramite semplici comandi vocali. Infatti, ogni singolo cliente che utilizza Lavazza A Modo Mio Voicy ha la possibilità di memorizzare nell'app gusti e preferenze sul caffè.

Macchine super smart. "La tecnologia IoT è ormai diventata pervasiva, come testimonia la Lavazza a Modo Mio Voicy per il caffè espresso che ha la possibilità di interagire con altri dispositivi Echo migliorando la user experience del consumatore: il quale deve comunque alzarsi, mettere la capsula e la tazzina ma i comandi della macchina sono solo vocali", spiega Alessandro Cocco, Italy Training Center Manager di Lavazza sottolineando che "la tecnologia, utilizzata oggi, permette di offrire il miglior prodotto possibile perché si avvale di sistemi che controllano la pressione e la temperatura dell'acqua, rendendo sempre più performanti le estrazioni in tazza". Cocco però avverte: "Questa tecnologia è solo il punto di partenza di ciò che accadrà in futuro quando arriveranno sul mercato macchine super automatizzate".

Cliente al centro. Qual è il punto di atterraggio? "Permettere al consumatore un'interazione efficace con la macchina, senza tuttavia soffocare la sua creatività", risponde Cocco. In che senso? "Se è vero che la tecnologia sarà sempre più invasiva nei prossimi anni, è altrettanto vero che chi possiede o compra una macchina del caffè è attratto soprattutto dalla possibilità di creare a suo piacimento ricettazioni che possono essere molto più elaborate di un espresso tradizionale o di un cappuccino", spiega l'esperto. La moka scomparirà? "Penso di no, perché resta una tradizione italiana, a cui molti non rinunceranno ma la tecnologia ha certamente i suoi vantaggi e il Covid-19 non ha fatto altro che amplificarli", conclude Cocco.

Vivere il caffè con l'app. Piacere Lavazza è un'applicazione, disponibile su Google Play Store e su Apple Store, che permette di partecipare alla collection Piacere Lavazza e di conoscere le ultime novità sul mondo del caffè. Come ottenere "chicchi"? Ci sono tanti modi diversi: acquistando le capsule Lavazza A Modo Mio (ogni capsula 1 chicco/punto), registrando la propria macchina Lavazza a Modo Mio Voicy e, da oggi, acquistando le capsule Lavazza in alluminio compatibili con macchine ad uso domestico Nespresso Original o semplicemente consumando il caffè presso uno dei bar aderenti all'iniziativa. Accumulando punti, si potrà partecipare - fino al 31 maggio 2022 - alla Collection Piacere Lavazza e accedere a diverse tipologie di premi: macchine del caffè, premi con partner (Virgin o Eataly), esperienze al Training Center Lavazza o al flagship store dell'azienda. L'app permette inoltre al consumatore di essere sempre aggiornato su tutte le novità, le news e le ricette di cocktail, la storia e l'origine del vero espresso italiano con l'obiettivo di instaurare con lui un filo diretto e renderlo un vero coffee lover.

Ma cosa hai messo nel caffè? Report Rai PUNTATA DEL 21/10/2019 di Bernardo Iovene. Le capsule del caffè ormai sono una realtà nelle nostre case, tra i vari sistemi soltanto Nespresso è arrivata a un accordo con il Cial, Consorzio italiano alluminio, per riciclare tonnellate di capsule, tutte le altre vanno in discarica (o in inceneritori). Abbiamo sottoposto dieci capsule, tra le più vendute, ad analisi sensoriale del trainer Andrej Godina e a nove professionisti dell’Istituto Internazionale assaggiatori. Abbiamo poi chiesto alle case coinvolte di avere un confronto diretto sull’assaggio con Godina, ha accettato soltanto una. Le capsule sono state inoltre analizzate da tre laboratori diversi per la ricerca di metalli eventualmente rilasciati e poi sono stati esaminati separatamente acqua e caffè macinato. I risultati sono stati commentati dalle maggiori case coinvolte e da esperti dell’Istituto Ramazzini, dell’Università di Padova e dell’Arpa Roma-Lazio.

Le osservazioni del Gruppo Gimoka, a cui abbiamo sottoposto le analisi realizzate da Bernardo Iovene e quelle dei laboratori di Arpa Lazio a cui abbiamo sottoposto gli esiti delle indagini interne all’azienda: Come anticipatovi in occasione della nostra comunicazione del 14/10/2019, siamo a condividere con voi le risultanze delle analisi commissionate allo scopo di verificare ed approfondire il tema da voi evidenziato con la vostra @mail del 9 Ottobre 2019. Premettiamo che le analisi sono state condotte da un laboratorio accreditato (Mérieux NutriSciences), al quale affidiamo buona parte delle analisi annualmente previste dall’azienda. Sono stati dunque analizzati alcuni campioni di caffè prelevati in corrispondenza delle differenti fasi maggiormente caratterizzanti il nostro processo produttivo, al fine di determinarne il contenuto di alluminio, con lo scopo di rilevarne la concentrazione sia nel del caffè macinato, sia nel prodotto finito confezionato. Nella tabella sottostante vengono riportati i valori di alluminio rilevati all’interno del caffè macinato (Nome campione: Caffè macinato_Gran Bar_ L08U), all’interno del caffè confezionato (Nome campione: Prodotto finito_Gran Bar_L08U) e all’interno della bevanda erogata (Nome campione: Caffè erogato_ Gran Bar_ L08U), riferiti al prodotto Gran Bar, risultato il secondo più critico dalle vostre analisi. Come sottolineato nella nostra comunicazione precedente, la descrizione “caffè in polvere a marchio Gimoka (sacchetto alluminio)” con la quale viene marcata la prima referenza all’interno del rapporto di analisi fornito, risulta talmente generica da non poterci permettere una chiara identificazione del prodotto oggetto di analisi. ID Prova Parametro di analisi Nome campione Valore/Incertezza (mg/kg) Quantità di campione analizzata Metodo utilizzato 1 Alluminio – caffè macinato Caffè macinato_Gran Bar_ L08U 25,3±5,0 100 g MP 1288 rev. 16 2019 2 Alluminio – caffè macinato Prodotto finito_Gran Bar_L08U 26,2±5,1 100 g MP 1288 rev. 16 2019 3 Alluminio – caffè erogato Caffè erogato_ Gran Bar_ L08U < xx, 00 mg/kg 100 g MP 1288 rev. 16 2019 I risultati ottenuti, oltre ad evidenziare dei valori ben al di sotto di quelli da voi rilevati, indicano una concentrazione di alluminio nel caffè erogato inferiore rispetto al limite di rilevabilità dello strumento: nulla di quanto presente all’interno della matrice originaria migra in tazza a seguito del processo di erogazione, evitando dunque qualsiasi tipo di esposizione al consumatore finale. Questo elemento, rafforza la validità dell’analisi che vi abbiamo sottoposto in occasione della nostra precedente comunicazione del 14 ottobre, comprese tutte le considerazioni, metodologiche e non, che ne derivano. Ci teniamo inoltre a sottolineare che il laboratorio che si è occupato di effettuare le analisi, non solo è accreditato per la prova di determinazione dell’alluminio all’interno del caffè (requisito non garantito invece per i laboratori Arpa), ma partecipa anche a prove di Proficiency Test. Questi, in particolare, sono strumenti utili per garantire qualità e affidabilità dei metodi analitici e, di conseguenza, dei risultati delle prove condotte in laboratorio. Sinteticamente ciò significa che in ogni circuito interlaboratorio i partecipanti effettuano una o più prove sul medesimo campione. Ciascun laboratorio raffronta i propri risultati analitici con quelli ottenuti dagli altri, provvedendo così ad una costante autoverifica delle proprie capacità di prova e, allo stesso tempo, ad una verifica ad ampio spettro della performance e dell'affidabilità del laboratorio stesso. Tramite i Proficiency Test, infatti, si verifica la gestione e l’applicazione nell’esecuzione di una prova sotto tutti gli aspetti di sistema previsti e, pertanto, rappresentano un mezzo per garantire il corretto svolgimento delle analisi, l’affidabilità degli operatori e la qualità dei laboratori nel tempo. A valle di tutte le considerazioni esposte in precedenza e delle relative risultanze analitiche fornite a supporto, certi di avere contribuito ad una valida, completa e trasparente informazione, confidiamo nella divulgazione di informazioni corrette, obiettive e non fuorvianti. Di seguito alcune utili precisazioni a supporto dell’attività analitica svolta dai laboratori dell’Agenzia e in particolare dal laboratorio sanitario di Roma che ha determinato il tenore dei metalli sui campioni di “caffè in polvere” che ci avete consegnato. Il laboratorio sanitario ARPA nella sede territoriale di Roma è il laboratorio ufficiale nell'ambito del controllo sugli alimenti nella Regione Lazio ed è accreditato secondo la norma UNI CEI EN ISO/IEC 17025 che definisce i "Requisiti generali per la competenza dei laboratori di prova e di taratura". L’accreditamento, rilasciato da un Ente terzo, in Italia ACCREDIA, attesta che il laboratorio soddisfa sia i requisiti tecnici che quelli relativi al sistema di gestione della qualità, necessari per garantire dati e risultati accurati e tecnicamente validi. Il mantenimento della competenza tecnica del laboratorio è inoltre assicurata dalle attività di sorveglianza periodica svolte dagli ispettori ACCREDIA. Il laboratorio utilizza metodi ufficiali e accreditati per la determinazione dei metalli nei prodotti alimentari e per assicurare la validità dei risultati partecipa a circuiti interlaboratorio, Proficiency Testing Providers (PTP) gestiti da organizzatori accreditati ai sensi della norma ISO/IEC 17043. Entrando nel dettaglio delle analisi eseguite, si vuole precisare che i campioni di caffè consegnati presso la nostra sede, a marchio GIMOKA, non corrispondono a quelli denominati “Gran Bar” cui fa riferimento la ditta GIMOKA, rendendo quindi non corretto un confronto dei risultati analitici ottenuti dai due laboratori. A supporto di quanto detto, si vuole inoltre evidenziar che il tenore dei metalli nei campioni di “caffè in polvere” analizzati presso il nostro laboratorio era in generale molto variabile soprattutto per quanto riguarda il contenuto in mg/kg di Alluminio. Tali differenze si riscontravano tra caffè di diverse denominazioni commerciali, ma anche tra tipologie diverse di caffè aventi stessa denominazione commerciale, probabilmente riconducibili a differenti miscele di caffè utilizzate.

“MA COSA HAI MESSO NEL CAFFÈ” di Bernardo Iovene collaborazione di Alessia Marzi immagini di Cristiano Forti - Alfredo Farina – Davide Fonda

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, il nostro Bernardo Iovene, nella scorsa stagione aveva fatto infuriare i napoletani perché aveva messo in discussione una loro ritualità, il caffè. Questa volta riuscirà a recuperare? Vediamo, la prendiamo un po’ dalla fine.

UOMO Laggiù non ci deve andare.

BERNARDO IOVENE No, no. Sto vedendo le capsule che già stanno là.

UOMO Lo so, però adesso facciamo finire di caricare. Poi dopo semmai fai la ripresa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comune di Capannori è all’88 per cento di raccolta differenziata. Quello che resta – il 12 per cento – viene caricato su questi camion e va in discarica.

ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO CAPANNORI Questo qui è un ufficio, questo è un ufficio. Guarda la roba. BERNARDO IOVENE Questa è una roba che non si smaltisce.

ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO CAPANNORI Eh no. Eccoli qua, Dolce Gusto. Questa era roba… andrebbero sanzionati però, eh. Questo non va bene. Questo è un caffeinomane.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Fanno eccezione le capsule Nespresso, che attraverso accordi con le aziende di raccolta dei rifiuti e il Consorzio Imballaggi Alluminio e grazie alla sensibilità dei consumatori che le riportano esauste nei punti vendita, vengono trasformate in grani di alluminio riutilizzabile. La polvere del caffè invece serve da compost per fare il riso…

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA L’abbiamo proprio chiamato “Da chicco a chicco”, proprio per il fatto che un chicco di caffè si trasforma in un chicco di riso. E sappiamo che il riso poi va al banco alimentare della Lombardia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tutte le altre capsule, che utilizzano ancora la vaschetta di plastica, vanno invece in discarica o negli inceneritori.

ROSSANO ERCOLINI - RIFIUTI ZERO - CAPANNORI Si stima che siano un miliardo all’anno le capsule che vanno o in discarica o negli inceneritori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però, bravi quelli di Nespresso, con la cialda riciclata fanno, coltivano il riso. Ma sono svizzeri. Noi siamo italiani, ci crediamo intenditori, ma avevamo visto nella scorsa puntata che non è così. Il nostro assaggiatore, Andrej Godina, una laurea in scienza del caffè e un dottorato nell’analisi sensoriale, aveva girato l’Italia e aveva bocciato gran parte dei caffè fatti nei nostri bar, ma soprattutto aveva distrutto un rito: il caffè napoletano che molti vogliono candidare a patrimonio dell’Unesco. Secondo lui invece aveva un sapore di rancido e bruciacchiato. Quando avevamo denunciato, eravamo stati sommersi dalle critiche. Questa volta il nostro Bernardo invece che cosa ha fatto? Ha analizzato, ha messo sotto inchiesta il caffè delle cialde e anche il caffè fatto con la moka. E per tutelarsi dagli attacchi l’ha portato ad assaggiare a 9 professionisti, gli assaggiatori ufficiali dell’istituto internazionale, che hanno assaggiato il caffè senza conoscere la marca, senza sapere. Quindi il loro parere è inappellabile. Il caffè è il seme di un frutto esotico, dovrebbe avere un retrogusto di arancia, mandarino, limone, bergamotto, di nocciola tostata o di fava di cacao. E invece qui che cosa hanno trovato i nostri assaggiatori? Hanno trovato un retrogusto di cartone da imballaggio, straccio bagnato, cicoria bollita, gomma bruciata e addirittura l’empireumatico. Ma che cos’è l’empireumatico? Ma cosa ci mettono dentro il caffè?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se non è moka, ormai è espresso. In casa nostra arriva con le capsule di alluminio o in plastica. Il massimo per la sostenibilità ambientale sarebbero quelle di carta, ma il caffè se prende aria, diventa rancido.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Quel caffè prende aria.

BERNARDO IOVENE Non è il massimo.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Infatti è necessario… ti faccio vedere qui, è necessario un altro imballo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono le compostabili, ancora poche, le fa anche Lavazza, costano 42 centesimi per capsula. E ci sono anche quelle che possono essere utilizzate con il metodo Nespresso.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Qui viene utilizzato un materiale che viene derivato da composti organici: funghi, mais, vegetali sostanzialmente, e si può gettare insieme al caffè esausto nel compostabile. Bene questi sono i vari format: ogni format necessita di una macchina di erogazione differente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Cominciamo con il sistema Lavazza, analizziamo l’originale e qualche compatibile più diffusa. Partiamo proprio con la Passionale.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Il corpo è morbido, è leggermente dolce, è amaro. Sostanzialmente non è acido, forse un pochino. E il retrogusto è sostanzialmente di pan dolce, caramello e legno. Legnoso. Retrogusto abbastanza intenso. Quindi a questo caffè io darei cinque.

BERNARDO IOVENE Cinque?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Va bene, andiamo a inserire quindi il prossimo, il compatibile. Fa più bolle, potrebbe essere dovuto al fatto di una percentuale maggiore di robusta. Il corpo è molto intenso, il gusto amaro è molto intenso. E ha un aroma molto molto intenso e persistente di terra. Leggermente si, di sottobosco, di muschio, forse un pochino di gomma, di gomma bruciacchiata. Sì, questo caffè… la cosa positiva – se proprio si vuole dire di questa tazza – è un corpo molto morbido. Però, con i sentori che ho descritto precedentemente, gli darei tre.

BERNARDO IOVENE Tre?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Tre. Perché la terra, la gomma…non sono considerate positive.

BERNARDO IOVENE Quindi abbiamo la Lavazza cinque e abbiamo la compatibile tre.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, che è questo colore blu, Borbone. Abbiamo tre, adesso passiamo alla rossa, sempre una compatibile.

BERNARDO IOVENE Di che marca è?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Rossa Borbone.

BERNARDO IOVENE Sempre Borbone.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Un po’ di carta o cartone, cartone da imballo. Molto amaro: sa di un retrogusto di cicoria, cicoria bollita, bruciacchiato, fumo, un pochino anche qui di gomma, misto a una liquirizia e una fava di cacao fondente. È leggermente astringente al palato. Astringente è quando si passa la lingua sul palato e si sente il ruvido. Ed è anche leggermente rancido, il retrogusto. Due e mezzo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 4 Abbiamo proposto un confronto diretto tra Godina e Borbone, ma l’azienda non ha accettato. Ci siamo rivolti allora all’Istituto Internazionale Assaggiatori dove nove professionisti hanno valutato gli stessi caffè.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ È ignoto ai giudici come sono ignoti i tipi di caffè che noi assaggiamo.

BERNARDO IOVENE Loro non lo sanno che cosa assaggiano…

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Non sanno neanche se si tratta di cialde, di capsule.

BERNARDO IOVENE Quindi al buio assaggiate?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sempre.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I caffè vengono preparati in questa stanza e serviti nell’aula adiacente. Ogni assaggiatore ha una scheda, che compila sul tablet. Indica il punteggio per la percezione visiva, olfattiva, gustativa e retro olfattiva. Una centrale elabora i dati e dà un’unica valutazione per ogni caffè. Cominciamo con i primi tre, Sistema Lavazza.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Vediamo che ha un’intensità di colore abbastanza elevato, una buona tessitura, una buona intensità olfattiva, un buon corpo, scende sull’acido logicamente.

BERNARDO IOVENE È poco acido?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ È poco acido. È più amaro che acido e abbiamo un che di fiori e frutta fresca e un che di vegetale per poi esprimersi tutto sul tostato.

BERNARDO IOVENE Quindi che giudizio diamo? Sufficiente…

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Visto così, vorrei dire che è un giudizio standard. Uno si beve un caffè…

BERNARDO IOVENE Standard.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ 5 Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passiamo ai risultati della capsula Borbone rossa.

BERNARDO IOVENE Borbone rossa.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Borbone rossa: ancora più amaro del precedente.

BERNARDO IOVENE Molto amaro.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ E praticamente con un’acidità quasi assente. Più vegetale.

BERNARDO IOVENE Vegetale che significa?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sentore di paglia.

BERNARDO IOVENE Paglia? Legno?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Potrebbe essere. Poi abbiamo Don Carlo miscela blu, sempre caffè Borbone. L’amaro aumenta ancora. Fiori e frutta fresca proprio non ne troviamo più la presenza. Abbiamo già un qualcosa sull’empireumatico. Cos’è l’empireumatico? Fumo e di bruciato.

BERNARDO IOVENE Ah… fumo e bruciato.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Quindi questo scendiamo ancora leggermente. Poi andiamo a vedere se abbiamo ragione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La valutazione dell’Istituto Assaggiatori si esprime in centesimi. Tecnicamente è complicatissima, per noi terreni è più comprensibile il grafico: se Lavazza è standard e – diciamo – vale 6, i due Borbone sono meno della metà. BERNARDO IOVENE Se standard vale sei, abbiamo detto, no, standard… 

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sì…

BERNARDO IOVENE Questi valgono tre?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sì, è un modo di comunicare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Torniamo a Pistoia da Godina e passiamo al sistema Nespresso, con un originale Colombia.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al gusto è particolarmente acido, leggermente dolce, poco amaro, il corpo è molto leggero, le note sono agrumate: limone, lime, un pochino di mandarino, leggermente fiorito. In laboratorio questa è una buona tazza di caffè. Otto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche Illy ha fatto le sue capsule compatibili con le macchine Nespresso.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al palato ha un’acidità abbastanza intensa, piacevole, dolce, mi ricorda in retrogusto un po’ il bergamotto, il pan tostato, un po’ di caramello, leggermente floreale. Questa invece è una buona tazza, non ho riscontrato difetti. Sette e mezzo. Forse anche otto. Molto piacevole anche il retrogusto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Passiamo a Kimbo. Atra capsula compatibile con il sistema Nespresso.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Al palato è molto corposo, è denso. Leggermente astringente. Un aroma di legno piuttosto importante, muschio, carta, un pochino di cartone che ha degli aromi che abbiamo già sentito in altre capsule, soprattutto amaro e leggermente dolce. Sì… è terroso.

BERNARDO IOVENE Terroso?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì, nel retrogusto lungo, un voto da quattro. E poi terminiamo…

BERNARDO IOVENE Con Napoli non ce la facciamo proprio?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA 7 A Napoli non ce la facciamo. Se vogliamo provare un’altra torrefazione partenopea.

BERNARDO IOVENE Che cosa è questo?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Borbone. Anche loro fanno la capsula alluminio, e vedi, plastica, un pochino… Al gusto è molto corposo, è molto astringente. Ha un retrogusto di terra, di muschio, forse leggermente muffa, fungo. Hai presente il sottobosco quando si va a camminare e ha appena piovuto?

BERNARDO IOVENE Ce l’ho proprio qua. ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Appunto, è intenso nel retrogusto. Io direi tre.

BERNARDO IOVENE Tre?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Tre. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Riepilogando: Nespresso e Illy otto. Lavazza cinque. Kimbo ed Esselunga quattro. Borbone miscela blu, Borbone Respresso ed Aneri 3. Borbone miscela rossa 2 e mezzo. Sembra un giudizio severo. Sentiamo allora i nove assaggiatori dell’Istituto internazionale, prima che uscissero i risultati e quando ancora non sapevano i nomi delle marche dei caffè assaggiati.

BERNARDO IOVENE Allora che caffè ha bevuto?

ASSAGGIATORE 1 Direi tra il mediocre e il pessimo.

ASSAGGIATORE 2 Decisa presenza di robusta.

BERNARDO IOVENE Quindi negativo?

ASSAGGIATORE 2 Per il nostro gusto, sì.

ASSAGGIATRICE Sì, son d’accordo sul mediocre, livello non molto alto.

BERNARDO IOVENE Non molto alto? Conferma lei?

ASSAGGIATORE 3 Le dirò soltanto una cosa: è stato un purgatorio, mi son guadagnato delle indulgenze. ASSAGGIATORE 4 Molto tostati, sensazione di cenere, di gomma bruciata e pochissimo – anzi non son riuscito a trovare – l’aspetto floreale che solitamente è quello che ricerco in un caffè.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed ecco i risultati finali.

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Come primo Nespresso Colombia. Come secondo abbiamo un Lavazza.

BERNARDO IOVENE Lavazza è secondo?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Secondo la scala in centesimi Nespresso è primo con un voto che potrebbe corrispondere a un sette, segue Lavazza con sei, poi Illy con cinque e mezzo, e poi Esselunga con quattro. Tre Aneri e Borbone Nero, e poi sotto il tre gli altri Borbone e per ultimo Kimbo.

BERNARDO IOVENE L’ultimo?

LUIGI ODELLO - PRESIDENTE ISTITUTO INTERNAZIONALE ASSAGGIATORI CAFFÈ Dispiace per te che sei napoletano, che vuoi che ti dica?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ci spiace sì, i caffè napoletani Borbone e Kimbo risultano ultimi della scala ed è la stessa valutazione – a parte invertite – che ha dato anche il nostro assaggiatore. E, d’accordo con Godina abbiamo proposto un confronto diretto sia a Kimbo che a Borbone, ma non hanno accettato. Lavazza invece che è stato giudicato con un sei dai nove assaggiatori e un cinque da Godina ha accettato la sfida.

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Ecco qua. Assolutamente.

BERNARDO IOVENE Quindi cominciamo l’assaggio?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Sì. Ha una nota intensa di amaro, è leggermente dolce, una nota acida molto molto bassa. Forse un po’ bruciacchiato. 

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Assolutamente. Mi ritrovo anche assolutamente nella descrizione della tazza.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Il voto non sarà molto alto, ma perché l’intensità di amaro per me in questa tazza – considerando che è arabica – è abbastanza elevato.

BERNARDO IOVENE Il legno?

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA No, legno qui non l’ho sentito.

BERNARDO IOVENE Qui non c’è… Perché nella capsula che hai assaggiato l’altra volta sentivi legno.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Eh un pochino sì infatti.

BERNARDO IOVENE Quindi è differente, ci hanno imbrogliato, hanno messo nella capsula…

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA No. Non credo proprio, perché poi i lotti dovrebbero essere…

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI No, assolutamente. Diciamo che sicuramente un amaro è presente. Sicuramente è ben bilanciato dall’acidità bassa, da una buona dolcezza.

ANDREJ GODINA – DOTTORE IN SCIENZA DEL CAFFÈ - ASSAGGIATORE PROFESSIONISTA Io direi che – almeno per quanto mi riguarda – un sei lo prende.

FABRIZIO CRESTO - ASSAGGIATORE LAVAZZA - SVILUPPO PRODOTTI Concordo assolutamente su moltissime di queste valutazioni. Non mi permetto di andare sul voto, diciamo che parlo chiaramente di un buon bilanciamento, di questo bel finale di caramello. Questo è un gusto che incontra moltissimo i nostri consumatori.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla fine Lavazza ha recuperato un punto. È un dato di fatto comunque che sulla qualità del caffè c’è confusione: a noi italiani piace la robusta, che è considerata mediocre ma fa tanta schiuma, bella, alta. L’arabica invece ha uno strato inferiore ma non è schiuma, è crema, che sviluppa – se buona – solo aromi.

BERNARDO IOVENE Arabica vediamo, questa qua è crema?

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Sì. Vedi come è, subito lo spessore è molto più basso. Però è ben specifico.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sandalj a Trieste importa caffè verde di qualità da oltre settant’anni. Eddy Bieker ci spiega la differenza tra crema e schiuma, con un caffè arabica che costa otto euro al chilo all’ingrosso e un caffè robusta di due euro.

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Guarda lo spessore di questa… ovviamente il consumatore medio italiano…

BERNARDO IOVENE Gli piace questo?

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Ahh, questa qui sì che una bella crema…

BERNARDO IOVENE Questa fa impazzire gli italiani?

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La crema dell’arabica persiste, mentre la schiuma della robusta, dopo un po’ sparisce.

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Vedi quanto è già calata la crema? B

ERNARDO IOVENE Un fuoco di paglia questa crema? Quindi la robusta poi dopo cala, perché è tutta schiuma e non è crema.

EDY BIEKER- SANDALJ TRIESTE Sì, sì, esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E non è un caso che i caffè premiati dai nostri assaggiatori sono tutti arabica, come Illy, che utilizza anche nelle capsule - sia compatibili Nespresso, che quelle dedicate alle proprie macchine - lo stesso caffè.

BERNARDO IOVENE Voi non utilizzate robusta?

MORENO FAINA - DIRETTORE UNIVERSITÀ DEL CAFFÈ- ILLY Non utilizziamo robusta.

BERNARDO IOVENE Solo arabica?

MORENO FAINA- DIRETTORE UNIVERSITÀ DEL CAFFÈ - ILLY Una scelta strategica originale, che ci ha portato a fare queste selezioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In casa Illy la robusta è considerata un difetto. In questo laboratorio vengono campionati i chicchi difettosi. E tra quelli rotti, tarlati e immaturi ci sono anche della qualità robusta.

BERNARDO IOVENE Anche robusta è un difetto?

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Per noi che siamo 100 per cento arabica, se troviamo un solo chicco è come se fosse presente un difetto grave. Quindi quando quel chicco passerà tra le due telecamere, automaticamente il chicco sarà scartato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il cento per cento arabica è la qualità del caffè primo classificato unanimemente tra tutti gli assaggiatori. Siamo andati a provarlo anche noi. È un colombiano che ha una maturazione particolare.

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Le ciliegie vengono fatte maturare più a lungo rispetto agli altri caffè, fino a quando raggiungono il colore e le caratteristiche adeguate. Addirittura i coltivatori le controllano ogni due giorni per cogliere il momento migliore per la maturazione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che più ci brucia come italiani è lasciare lo scettro agli svizzeri di Nespresso. Chi esce invece ancora con le ossa rotte è il povero Bernardo: il caffè napoletano proprio non ce la fa. È una questione anche di mancanza di cultura del gusto. I produttori, anche per risparmiare, preferiscono la miscela con il caffè robusta, invece della più nobile arabica. Ma chi non ha il palato fine di Godina, come fa ad accorgersi se un caffè è arabica o robusta? Basta fare il caffè, lasciarlo riposare per 10 minuti, se è robusta all’inizio fa una bella cremina poi si sgonfia perché per lo più è schiuma. Mentre se è arabica la crema iniziale è minore, ma poi rimane e dovrebbe essere anche aromatica. Invece qui i sapori che sono stati ascoltati, sentiti, percepiti, sono quello di straccio bagnato, cicoria bollita e anche di gomma bruciata. “Ci avete costretto a un purgatorio” questo ha detto uno degli assaggiatori. Ma cosa c’è nel caffè? A Bernardo è venuto in mente di andarlo a verificare, per la prima volta. Ha scelto dei campioni di caffè, lo diciamo subito, tra quelli più diffusi e anche quelli meno diffusi, però a campione. Quello che ha trovato, lo diciamo, non è pericoloso, tuttavia è importante saperlo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo prelevato tre campioni di caffè da capsule Nespresso, Lavazza e da una compostabile. Abbiamo usato la stessa acqua. Imbottigliati e sigillati, li abbiamo portati in laboratori diversi per la ricerca dei metalli. Da Gesteco, vicino Udine, ai laboratori Giusto di Oderzo e gli stessi campioni all’Arpa di Roma Lazio. Dai risultati abbiamo subito notato che l’acqua utilizzata contiene 73 microgrammi litro di bario.

BERNARDO IOVENE Quindi non abbiamo utilizzato un’acqua pura, noi?

ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Abbiamo utilizzato un’acqua che contiene bario. Molte acque contengono bario. Molte acque contengono bario, in concentrazioni significative. Sono 70 microgrammi per litro. Il bario è uno dei metalli che si accumula, quindi si accumula nell’organismo. È tossico 12 per alcuni animali, attualmente viene ancora adoperato come tossico per i topi. Quindi veleno per i topi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Perfetto. Il bario nell’acqua è il primo metallo che ritroveremo in tutti i caffè. Vediamo adesso se c’è presenza di altri metalli.

ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Abbiamo osservato che c’è presenza significativa di alcuni metalli: ferro, manganese, rame, zinco, e alluminio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I risultati dei tre laboratori sostanzialmente coincidono. Abbiamo però qualche sorpresa: avevamo usato una capsula compostabile non ancora in commercio e pensavamo di trovare zero metalli. Invece il bario è a 230 microgrammi, il valore più alto. L’alluminio 107 microgrammi litro, rispetto a 89 di Nespresso e 70 di Lavazza e ha il doppio del manganese e del rame. Seconda sorpresa: questi metalli non vengono né dalle capsule, né dalle macchine, perché l’acqua che abbiamo estratto senza il caffè è priva di metalli, c’è solo il bario originale.

LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Arriviamo alla conclusione che la presenza di metalli che poi ritroviamo nel caffè vero e proprio è data dal caffè che c’è all’interno della capsula.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E alla stessa conclusione sono arrivati anche all’Arpa di Roma.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Il caffè ha una concentrazione più o meno costante di questi metalli. Questi sono stati ritrovati in concentrazioni significative: quindi rilevabili…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi i metalli sono contenuti nel caffè. A questo punto abbiamo pensato di analizzare anche il caffè della moka, sia di alluminio che di acciaio. Ma prima anche qui abbiamo estratto l’acqua senza la polvere di caffè, e ci arriva la brutta sorpresa.

LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Per cui la moka in alluminio ha una cessione dell’alluminio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La nostra moka ha rilasciato 346 microgrammi litro di alluminio, siamo al di sotto di un milligrammo/chilo. La soglia consigliata è 5: ma è una linea-guida europea, non è una norma.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Per l’alluminio la normativa non prevede delle prove di migrazione, ma soltanto una verifica della composizione del materiale alluminio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella moka d’acciaio invece c’è solo il bario dell’acqua. Non ci sono migrazioni di altri metalli. Ma attenzione. C’è acciaio e acciaio. Noi l’abbiamo fatta su questa caffettiera.

BERNARDO IOVENE 13 Se io consumatore voglio capire che è un acciaio che non rilascia…

GIULIO COLPANI - DIRETTORE TECNICO GIANNINI Noi lo marchiamo dicendo che è acciaio inox 18.10, praticamente implica una determinata classe di acciai che non hanno alcun problema nel contatto con gli alimenti, col caffè innanzitutto.

LUCA POLLESEL - RESPONSABILE LABORATORI GIUSTO Poi vediamo l’acqua invece con la polvere di caffè e vediamo che l’alluminio aumenta, 811.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All’alluminio della moka si aggiunge quello del caffè e arriviamo a 811 microgrammi, dieci volte l’alluminio contenuto nel caffè delle capsule. Con la moka d’acciaio però scende a 312 ed è lo stesso caffè: anche il valore del piombo è più del doppio delle capsule e il rame è tre volte tanto. Il ferro arriva fino a 955, il manganese parte da 1161 della capsula Nespresso ai 1675 della Lavazza. Il nichel invece è presente nelle capsule, ma è assente nella moka.

ADRIANO GIUSTO - DIRETTORE LABORATORI GIUSTO Un po’ di preoccupazione c’è: abbiamo verificato che la coltivazione del caffè è sottoposta a uno stress particolare per avere prodotto in quantità elevate, quindi antiparassitari a tutta botta e concimi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La preoccupazione del professor Giusto è condivisa anche dalla direttrice dell’area ricerca sul cancro dell’Istituto Ramazzini di Bologna, alla quale abbiamo inviato tutte le analisi dei vari laboratori.

BERNARDO IOVENE Sono state mai fatte analisi sui caffè?

FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI Io credo proprio di no. Il primo sentimento che provo è quello di meraviglia, rimango abbastanza sorpresa dal fatto che ci siano dei livelli di questo genere nelle analisi che sono state fatte. Direi che questi sono quelli che mi preoccupano di più perché queste sostanze hanno degli effetti. Se vuole le faccio un esempio. Alluminio: un aumento di cancro nell’uomo della vescica e anche del polmone. Anche l’arsenico c’è presente, ma in piccolissime quantità. Quando eccede quei livelli, tumori della vescica, della pelle e dei polmoni. Il ferro a certe quantità…

BERNARDO IOVENE Fa bene.

FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI È un beneficio. Se l’abbiamo in maniera esagerata può portare a un aumento di tumori del polmone. Il manganese è un agente neurotossico anche a basse dosi.

BERNARDO IOVENE Ad esempio?

FIORELLA BELPOGGI - DIRETTORE AREA RICERCA ISTITUTO RAMAZZINI Il Parkinson per esempio. Da tossicologo le dico, io se vedo dei livelli così alti di manganese, mi vengono subito in mente i carbammati perché noi abbiamo fatto uno studio sul Mancozeb che contiene appunto Man, come manganese, contiene il manganese e abbiamo visto un aumento di tumori della tiroide veramente esagerato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma, la presenza di metalli nel caffè – anche se in dosi minime – preoccupa i tossicologi, ma non è così per gli esperti dei produttori. Qui siamo da Lavazza.

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Consideri che i metalli sono dei naturali costituenti del caffè. E in questo senso peraltro contribuiscono assolutamente alla crescita delle piante.

BERNARDO IOVENE Lei li considera elementi nutrienti questi qua?

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Contribuiscono proprio alla crescita della pianta del caffè così come della maggior parte delle specie vegetali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sulla stessa linea si trova Nespresso.

BERNARDO IOVENE Lo sapevate già, immagino.

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Sì. Noi non siamo meravigliati, perché questi metalli si trovano in natura e nell’acqua e il caffè derivando da una pianta, sicuramente il suolo ne è una fonte.

BERNARDO IOVENE Noi sappiamo che questi metalli si accumulano, no?

MARTA SCHIRALDI – DIRETTORE TECNICO E QUALITÀ NESPRESSO ITALIA Certo, ma guardi per ogni metallo abbiamo immaginato di consumare cinque tazze di caffè. Se io bevessi solo caffè Nespresso dovrei bere più di 2800 tazzine al giorno per raggiungere la dose tollerabile giornaliera.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo ribadiamo i quantitativi di metalli che abbiamo riscontrato sono abbondantemente sotto la soglia di rischio. Tuttavia vale un principio, un regolamento europeo: negli alimenti devono essere mantenuti quanto più bassi possibile. Solo per piombo, cadmio, mercurio e stagno sono fissati dei limiti. Mentre invece per l’alluminio, il manganese, ferro, zinco, nichel, l’Efsa, l'Agenzia per la Sicurezza Alimentare, fissa delle dosi di tolleranza. Però per la prima volta quello che sappiamo è che ci sono dei metalli dentro il caffè che è la seconda bevanda più diffusa dopo l’acqua. È importante saperlo per chi come me beve 6 -7 caffè ogni giorno. E poi c’è anche un fatto, che tutti gli studiosi a cui abbiamo portato le analisi, che hanno contribuito anche alle analisi, quelli dei laboratori indipendenti, quelli dell’Arpa Lazio-Roma che si sono appassionati nella ricerca e li ringraziamo, e anche la dottoressa Belpoggi, del prestigioso Istituto Ramazzini, si sono meravigliati e poi la Belpoggi anche un po’ preoccupata. Il nostro Bernardo Iovene che cosa ha fatto? Si è intestardito ed è andato a vedere anche che 15 cosa c’è nel caffè che facciamo con la moka, la vecchia moka. È andato a vedere anche quello biologico, anche qui i campioni sono stati scelti tra i caffè più diffusi, e anche qui le sorprese non sono mancate.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dal caffè liquido a quello in polvere: in collaborazione con l’Arpa Lazio di Roma abbiamo analizzato una dozzina di caffè, dai più cari ai più economici, compresi alcuni biologici. Alla fine tiriamo le somme avendo un quadro generale.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Ci sono stati dei caffè che abbiamo analizzato che presentavano questa concentrazione che erano significativamente maggiori rispetto alla media analizzata. Ora ci dobbiamo chiedere da dove provengano questi metalli nel caffè.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio abbiamo confrontato due caffè della stessa marca: Lavazza qualità oro e Tierra biologico. Quello biologico ha una concentrazione inferiore di metalli: meno alluminio, meno manganese e zinco.

BERNARDO IOVENE Da dove viene? Se nel biologico ce ne è la metà, vuol dire che nello standard… cioè non è contenuto nella pianta, ma che la pianta è trattata diversamente?

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA I numeri che stava leggendo prima sono numeri che hanno un’unità di misura assolutamente infinitesima rispetto a quelle che sono soglie significative.

BERNARDO IOVENE Però non mi ha spiegato come mai il biologico ha la metà dei metalli rispetto a quello standard.

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Come dicevo prima, parliamo di ordini di grandezza assolutamente infinitesimi…

BERNARDO IOVENE Quello che non mi è chiaro… è che io trovo un dato: 7,1 milligrammi di alluminio. In quello biologico c’è 2,8. C’è una bella differenza.

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA Intanto l’importante è sempre l’unità di misura…

BERNARDO IOVENE Quindi vuol dire che questo alluminio non viene dalla terra.

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA I valori sono comunque assolutamente inferiori alla soglia.

BERNARDO IOVENE E l’abbiamo detto già dieci volte questo. Quello che non abbiamo detto è da dove vengono, perché il manganese è probabile che possa venire da trattamenti di Mancozeb per esempio, no?

FILIPPO FERRARI - DIRETTORE FOOD SYSTEM LAVAZZA 16 Ribadisco il concetto che parlando di questi ordini di grandezza, la differenza che si può cogliere è una differenza che giudichiamo non significativa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra le decine di caffè che abbiamo analizzato c’è anche Illy. Abbiamo mostrato le analisi agli esperti dell’azienda.

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Vedendo questi dati di queste analisi Illy si posiziona o più basso degli altri, o in linea con gli altri. Il caffè contiene già il metallo di suo. Poi ci sono anche delle altre fonti esogene.

BERNARDO IOVENE Noi abbiamo trovato dei valori altissimi di alluminio o di manganese…

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY È molto probabile che sia fertilizzanti sia erbicidi possano contenere metalli, diciamo, ulteriori…

BERNARDO IOVENE Questo ci dice che se noi mettiamo fuori legge il Mancozeb, nel caffè non possiamo, non possiamo controllarlo perché viene da altre parti?

DAVID BRUSSA - DIRETTORE QUALITÀ ILLY Esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per capirne di più siamo andati da una delle aziende simbolo del biologico. Alce Nero vende un caffè biologico prodotto in Perù e Nicaragua. Ma se confrontiamo le analisi dei metalli non sono differenti da Illy, che non è biologico. Anzi, ha un valore leggermente superiore di alluminio e di bario. I valori di ferro e manganese invece sono gli stessi.

BERNARDO IOVENE Il biologico Lavazza ha meno alluminio del vostro, però voi avete addirittura più alluminio dell’Illy che non è biologico. Voi avete mai fatto analisi di metalli?

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì, noi le facciamo ma non per i metalli, perché i metalli normalmente non sono… andiamo a vedere i prodotti chimici e non i metalli che sono in natura nel terreno. Quindi qui, secondo me, la differenza la fa proprio dal tipo di terreno; ci sono terreni che sono ricchissimi di metalli perché ad esempio sono vulcanici.

BERNARDO IOVENE Il manganese potrebbe venire dal Mancozeb…

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Potrebbe. Poi rispetto alla certificazione “biologico”, la presenza di inquinanti, diciamo così, di chimica, non è sempre una discriminante.

BERNARDO IOVENE C’è un certificatore sul posto che dice: “Questo caffè è biologico”. No?

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì.

BERNARDO IOVENE Quando entra, entra come già biologico?

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì, un certificatore non può mettere in discussione il lavoro di chi lo ha preceduto.

BERNARDO IOVENE Di un altro certificatore. Quindi è certificato là, quindi è biologico e basta, finisce là.

MASSIMO MONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono caffè che costano la metà o meno della metà. Ad esempio, nel Gimoka Tiago, la concentrazione di alluminio è di 142,9 milligrammi chilo. Se pensiamo che Illy ne ha solo 3,6 Lavazza 7, siamo a valori fino a 40 volte superiori. Gimoka Gran Gusto ha 96,8 milligrammi e così per il ferro, il caffè Tiago arriva a 191. Ci sono anche tracce di nichel, 1,6.

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO In questi caffè dove avevamo riscontrato una presenza di metalli più alta, hanno poi anche una concentrazione di ocratossina più alta rispetto alla media. BERNARDO IOVENE Proprio siamo al limite?

ALESSANDRA GIULIANI - DIRIGENTE CHIMICO SANITARIO ARPA LAZIO Siamo in prossimità del limite e sotto il limite.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo stati anche a Padova, dal professor Carlo Foresta, direttore di Endocrinologia. Nel 2017 ha scoperto che nelle capsule del caffè si libera una sostanza chimica – lo ftalato – dannosa per il sistema riproduttivo dell’uomo. Attenzione: anche in questo caso siamo al di sotto della soglia consentita, che è lo 0,1.

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA L’Europa ha dato questo limite e quindi dobbiamo attenerci a questo. Io sono un po’ scettico su questa faccenda, perché a dire il vero son presenti in tante altre condizioni: nei rivestimenti alimentari, negli abiti, nelle sostanze di plastica, quindi gli ftalati sono in giro dappertutto. La sommatoria di tutte quante queste contaminazioni, potrebbe essere –stiamo attenti – essere superiore al limite consentito.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il professore, con il suo staff, ci spiega che lo ftalato è una sostanza chimica che si sviluppa nella filiera e si libera ad alte temperature.

BERNARDO IOVENE Quindi attraverso queste capsule.

LUCA DE TONI - RICERCATORE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA 18 Esattamente queste capsule, le abbiamo provate di diverse tipologie.

BERNARDO IOVENE Quindi avete analizzato il liquido?

LUCA DE TONI - RICERCATORE UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Abbiamo analizzato il caffè, quello che poi alla fine noi beviamo. Vedete in questo campo, le celluline che vedete muoversi sono proprio gli spermatozoi. Sono tutta una serie di prove secondo le quali l’esposizione a questi interferenti endocrini inficia e quindi peggiora in modo estremamente rilevante le caratteristiche del liquido seminale dei pazienti.

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA La ricaduta è che ci sono – soprattutto negli uomini – un aumento del rischio di infertilità, di tumori del testicolo, di criptorchidismo, di ipospadia. Criptorchidismo è quando non scendono i testicoli, l’ipospadia determina un’alterazione della emissione delle urine.

BERNARDO IOVENE Lei beve il caffè?

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Io bevo il caffè sì, ma per fortuna però sono già nato e non ho più bisogno di far figli.

BERNARDO IOVENE Come lo beve il caffè?

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Purtroppo qui ho la capsula.

BERNARDO IOVENE E ma vabbè, allora…

CARLO FORESTA – PROFESSORE ENDOCRINOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Eh, ma non lo diciamo. E che cosa faccio?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Simpatico il prof. Foresta. Ha scoperto che le cialde di plastica rilasciano degli ftalati, in dosi sotto la soglia di rischio, che lui stesso peraltro critica, tuttavia continua a berlo con il sorriso sulle labbra, con la consapevolezza. Cosa che vorremmo fare anche noi, ma in mancanza di etichette, continuiamo a farlo al buio. E anche se scegliamo un prodotto, un caffè bio, rischiamo di tirare giù più metalli di un caffè come quello Illy, che bio non è. Questo perché poi dobbiamo affidarci ai certificatori anche se vengono da paesi stranieri, i nostri certificatori non possono metter in dubbio la certificazione bio, dobbiamo fidarci. I controlli vengono fatti in dogana, su 600 milioni di chili di caffè che importiamo, in dogana controllano il 3%, a caso, a campione, solo il 3%. Insomma. Chiudiamo però con una buona notizia, arriva dal prof. Ghiselli, del centro ricerche del Crea, studia i rapporti tra la nutrizione e gli alimenti e secondo lui, bere dalle 2 alle 4 tazzine di caffè al giorno fa bene, aiuta a combattere delle malattie croniche, 19 cardiovascolari e il diabete, questo perché il caffè contiene degli antiossidanti e degli antinfiammatori naturali. Poi chiudiamo con un consiglio: per chi vuole fare il caffè con la moka scelga l’acciaio almeno vi lascia meno metalli e poi quando mette l’acqua, mi raccomando, sotto la valvoletta. Non fate come me, a me vengono delle ciofeche.

·        La Coca Cola.

Antonio Dipollina per "la Repubblica" il 16 giugno 2021. Inaudito crash mediatico-pubblicitario, protagonista Cristiano Ronaldo. Ieri è arrivato in conferenza stampa, si è seduto, ha visto che davanti a sé c'erano due bottigliette di Coca Cola, le ha fatte spostare e sostituire con due bottigliette d'acqua. CR7 è da sempre contrario alle bibite gassate per gli sportivi. Però la Coca Cola è sponsor degli Europei. E, già che c'è, anche la Juventus ha come sponsor la Coca Cola, definita ai tempi dell'accordo "l'iconica bevanda". Ops.

Cristiano Ronaldo fa crollare la Coca Cola in borsa, perdite per 4 miliardi di dollari. La Prese.it il 16 giugno 2021. Le conseguenze del gesto di Cristiano Ronaldo, che in conferenza stampa ha allontanato due bottigliette della Coca Cola, sponsor di Euro 2020. Il gesto di Cristiano Ronaldo, che ha spostato due bottigliette di Coca Cola durante la conferenza stampa prima della partita di Euro 2020 del Portogallo contro l’Ungheria, non è soltanto diventato virale, ma ha anche avuto conseguenze sul colosso statunitense, leader mondiale nel mercato delle bevande analcoliche. Secondo quanto riportato dal quotidiano spagnolo “Marca”, al termine della conferenza stampa di CR7, le azioni di Coca Cola sono crollate a picco. Un calo dell’1,6% in pochi minuti, con il valore dell’azienda in borsa che è sceso da 242 miliardi di dollari a 238, dunque con perdite di circa 4 miliardi di dollari. Un gesto, quello del calciatore portoghese, che ha fatto molto scalpore. Il giocatore, appena entrato in conferenza stampa, ha allontanato le due bottigliette di Coca Cola (sponsor dell’Europeo) sostituendole con una bottiglietta d’acqua. “Bevete acqua”, ha sottolineato il calciatore portoghese. Coca-Cola Company è sponsor ufficiale di Euro 2020, nell’ambito di una partnership con l’Uefa che dura ormai da 32 anni. In passato CR7 aveva rimproverato anche il figlio Cristiano junior, per le sue abitudini: “Mangia patatine e beve Coca Cola. Una cosa che a me non piace e lui sa che quando lo vedo mi innervosisco”. Sui social il video di Ronaldo è diventato virale in poche ore. E nei commenti non manca chi gli ricorda il suo passato: nel 2009, infatti, il calciatore portoghese girò uno spot proprio della Coca cola, solo per il mercato asiatico.

Cristiano Ronaldo non beve Coca Cola? Dal fritto al poker, ecco tutti i "vizi proibiti" del campione. Fabrizio Biasin per “Libero Quotidiano” il 16 giugno 2021. Il nuovo Greto Thumberg è Cristiano Ronaldo, 36 anni, portoghese, non gli piace la Coca-Cola, o forse gli piace, non si sa, ma fa male, e questo è vero, perché ha tanti zuccheri, ma c'è anche la Coca Zero, che però è zero solo sulla carta, "perché chissà cosa ci mettono dentro per renderla succulenta", e comunque Ronaldo è il nuovo Greto Thumberg, solo che lei guarda al pianeta e lui alle transaminasi, è diventato una sorta di paladino del "mente sana in corpo sano", forse lo è sempre stato, uno che non si piegherebbe mai alle regole del mercato, quelle per cui se tu sei Ronaldo è facile che ti offrano un battello di soldi per fare lo spot del pollo fritto, lui non lo farebbe mai, perché il pollo fritto ti occlude le arterie tipo colata di cemento, fa un male da cani, ma non così male come la Coca-Cola, che quella, la Coca-Cola, se ci butti dentro una Mentos esplode, lo sanno tutti, ah no quella era la Pepsi, ma fa niente.  La Coca-Cola fa malissimo, e pazienza se per colpa di Ronaldo noi e tutti gli altri le stiamo regalando una pubblicità gratuita mai vista, che poi è la stessa che Ronaldo fece per la stessa Coca-Cola molti anni fa, addirittura gliela versavano in testa, la coca -Cola, e quella non era pubblicità gratuita, lo riempivano di palanche, beato lui  dev' essere che poi si è pentito, o forse è solo che poi non gli hanno più dato il grano, ma comunque la Coca-Cola ora fa male, prima evidentemente no, "bevete acqua", dice, e magari non giocate al poker online, che è un'altra delle grandi passioni di Ronaldo, almeno a giudicare dalle sue recenti sponsorizzazioni, probabilmente un giorno dirà "non giocate al poker online, andate in chiesa", lo farà quando il poker online non caccerà più il grano e la chiesa sì, ma questo è un cattivo pensiero che respingiamo. Ronaldo ha detto quello che ha detto per il bene di tutti noi, e quindi anche noi seguiamo l'esempio, e infatti abbiamo scritto questo pezzo senza neanche lo straccio di un punto, perché anche noi combattiamo la nostra battaglia per il bene del pianeta, basta punti, i punti inquinano e sono definitivi, da oggi solo punti e virgola e un bel ruttone, che con la Coca-Cola è la morte sua.

Da Fanpage.it il 16 giugno 2021. Ormai è la moda degli Europei: presentarsi in conferenza stampa e spostare le bottiglie degli sponsor davanti a sé. Lo aveva fatto Cristiano Ronaldo alla vigilia del match vinto dal Portogallo contro l'Ungheria, mettendo via in maniera ostentata due bottiglie di Coca-Cola e aggiungendo uno spot salutista a favore dell'acqua, lo ha ripetuto ieri sera Paul Pogba al termine del match d'esordio della Francia con la Germania. Il centrocampista del Manchester United, protagonista di una prova strepitosa e nominato a fine gara "Man of the Match", al momento di rispondere in conferenza – quindi ben sapendo che l'attenzione in quel momento era focalizzata tutta su di lui – ha tolto dalla vista dei presenti la bottiglia di birra che era davanti a sé, lasciando invece quelle di Coca-Cola. Il motivo del gesto di Pogba è nella sua fede religiosa: per i musulmani l'alcol è assolutamente proibito e vedere accostare la propria immagine alla birra ha fatto corrucciare lo sguardo dell'ex juventino, che ha pensato bene di risolvere la questione nella stessa maniera di Ronaldo il giorno prima. Curiosamente il premio di migliore in campo, che era stato consegnato al campione francese al fischio finale, era sponsorizzato proprio dalla Heineken, ovvero la marca della birra tolta dal tavolo da Pogba. Sia Coca-Cola che Heineken sono peraltro sponsor ufficiali dei campionati Europei: il posizionamento di quelle bottiglie nelle conferenze stampa prima e dopo le partite rientra nei ricchi contratti sottoscritti con l'UEFA. Dire che non siano contenti di assistere a queste scene è un eufemismo, ma non viene alzata nessuna protesta per non dare ulteriore risonanza ad un ritorno di immagine negativo. Il crollo delle azioni della Coca-Cola appena mezzora dopo il gesto di Ronaldo spiega bene come la strategia migliore sia sperare che la vicenda venga rapidamente dimenticata.

Se il campione "gassato" s'inventa la guerra a bibite, birre e bollicine. Matteo Basile il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Dopo CR7, Pogba contro l'alcol, ma l'ingaggio allo United è pagato anche da vini e whisky. Che c'è di meglio di una frizzantissima polemica per far parlare un po' di sé. Il pallone non basta, gol e assist non sono sufficienti. Ma sì, beviamoci su, a costo di dar vita a un piccolo cortocircuito. E così Cristiano Ronaldo rifiuta di comparire dietro a una Coca Cola perché contraria al suo stile di vita salutista. Paul Pogba, scosta da davanti a sé una bottiglia di birra, seppure analcolica, perché musulmano. E daje con il caos da «lei è favorevole o contrario» di Sordiana memoria. Ronaldo è una multinazionale. Il portoghese promuove o ha promosso tra le altre cose automobili, orologi, valigie, compagne aerei, prodotti farmaceutici, shampoo, biancheria intima, abbigliamento sportivo, ovviamente, e tanto altro ancora. Beato lui che incassa dagli sponsor qualcosa tipo 50 milioni di euro l'anno. Tanto che il suo gesto anti Coca Cola è costato all'azienda una perdita di 4 miliardi di euro di capitalizzazione in borsa. Il Ronaldo salutista poi incontra i gusti di chi promuove uno stile di vita sano e apprezza le prese di posizioni controcorrente (o contro sponsor) di chi ha tale seguito. Ma risulta un po' ipocrita appena si scopre che nel 2008 promuoveva proprio l'adesso odiata bevanda in una pubblicità per il mercato asiatico e che nel 2012 fu ritratto in uno spot in cui addentava con voracità una coscia di pollo fritta di una nota catena di fast food. Altro che insalatina scondita. Pecunia non olet, dicevano gli antichi, ok. E lui, come tutti, è libero di cambiare idea e dire ciò che vuole. Ma un moralismo, anche no grazie. E il Pogba anti birra? Guadagna su per giù 15 milioni di euro l'anno per giocare nel Manchester United. Che ha tra i suoi main sponsor, che quindi contribuiscono a pagarlo, anche un marchio di vini e uno di scotch whisky. Ma non risultano finora rimostranze o levate di scudi del buon Paul contro la politica societaria dello United, al netto che presto potrebbe lasciare il club inglese. Ma altrove, cambierebbe poco o nulla. I partner commerciali possono essere differenti e quando staccano assegni nessuno bada al grado alcolico. Come lui non bada all'essere morso in campo, tanto da assolvere per il gesto il tedesco Rudiger. Il più saggio di tutti alla fine, per una volta, è stato Radja Nainggolan. Spesso criticato per il suo stile di vita un po' sregolato, ha postato un buffo fotomontaggio di lui in conferenza stampa con davanti al bancone una lunga fila di bottiglie di superalcolici. «E dai, facciamoci una risata», ha scritto. Giusto. Quindi Ronaldo e Pogba, dite e pensate quello che volete e quando volete, chiaro. E mangiate-bevete-sponsorizzate chi e cosa più vi aggrada. Affari vostri. Ma ricordate che per fare i moralisti senza finire in fuorigioco bisogna essere fuoriclasse della coerenza. Non solo del pallone.

Simone Bernabei per tuttomercatoweb.it il 16 giugno 2021. Nelle ultime ore ha fatto discutere, soprattutto sui social, il gesto di Cristiano Ronaldo che durante la conferenza stampa del Portogallo ha nascosto due bottiglie di Coca Cola invitando tutti a bere acqua. A CR7 ha fatto seguito Paul Pogba che ieri dopo Francia-Germania ha tolto dalla scrivania una bottiglia di birra Heineken alcool free. Tramite il suo profilo Instagram, Radja Nainggolan ha voluto scherzare sulla vicenda, facendosi ritrarre in conferenza stampa con svariate bottiglie davanti a sé. Fra queste Coca Cola, Rum, Vodka, Whisky e pure alcool etilico, con tanto di commento "E dai, facciamoci una risata".

Dal Corriere.it il 17 giugno 2021. Manuel Locatelli, centrocampista della Nazionale, segue l'esempio di Cristiano Ronaldo e rimpiazza le bottigliette di Coca Cola con una di acqua. Il man of the match della partita contro la Svizzera ha accolto il gesto del campione portoghese intraprendendo una battaglia salutista, che è già costata al colosso statunitense un calo di 4 miliardi di dollari in borsa. Anche il centrocampista Paul Pogba, in conferenza stampa, ha deciso di spostare una bottiglia di birra, sponsor degli Europei, in ottemperanza alla sua fede musulmana, che vieta l'assunzione di alcol.

Marco Letizia per il "Corriere della Sera" il 17 giugno 2021. «Io la Coca-Cola me la porto a scuola» cantava Vasco Rossi negli anni 80. Oggi invece c'è chi non sopporta di vederne neanche un paio di bottiglie sopra il tavolo. Si tratta di Cristiano Ronaldo che, con un gesto clamoroso, alla vigilia della partita poi vinta dal suo Portogallo contro l'Ungheria, ha tolto di mezzo il gentile omaggio di uno degli sponsor di Euro 2020 invitando tutti a bere acqua. Un gesto che ha avuto delle immediate e clamorose conseguenze. Non a Budapest, sede della conferenza stampa, ma a New York. Dove il prezzo delle azioni della società di Atlanta è sceso immediatamente da 56,1 dollari a 55,22 dollari, un calo dell'1,6%. Significa che il valore di mercato di Coca-Cola è passato da 242 miliardi di dollari a 238 miliardi di dollari, in calo quindi di 4 miliardi di dollari. Una scelta quella di Ronaldo che ha avuto conseguenze non solo sull'immagine, ma anche sul titolo della bevanda gassata più famosa al mondo. Così che l'Uefa, pur limitandosi a ricordare che «ognuno ha le proprie preferenze in fatto di bevande» non ha fatto sforzi per celare la propria irritazione. Tanto più che, neppure placatosi l'«uragano» Ronaldo, arrivava il «ciclone» Pogba. Con l'asso della Francia che nella conferenza stampa post partita con la Germania, rimuoveva dal tavolo una bottiglia di birra Heineken, altro sponsor di Euro 2020, sostenendo che avere un alcolico davanti fosse un'offesa per lui in quanto musulmano. Peccato però che la bottiglia fosse sì di birra, ma alcool free. I due gesti diventati in breve virali, aprivano la discussione sul paradosso di due campioni diventati ricchissimi anche grazie agli sponsor (da cui, secondo Forbes, il solo CR7 ha ricevuto più di 41 milioni nel 2020) che rovinano l'immagine di marchi che però, guarda caso, non hanno rapporti commerciali con loro. Sapendo di rischiare poco o nulla. «Alle aziende colpite potrebbe non convenire iniziare una causa per diritti d'immagine - spiega Francesca Gesualdi, avvocata e Counsel di Cleary Gottlieb - a volte un'azione legale può portare solo altra pubblicità negativa. Ci potrebbe però essere un accordo tra l'Uefa e le società interessate per sconti sulla sponsorizzazione dei prossimi tornei. In futuro però si potrebbe pensare anche ad accorgimenti contrattuali che evitino questi gesti». Prima però Uefa e Fifa dovranno pensare a regolamentare il comportamento di squadre e atleti nelle conferenze stampa ufficiali. I calciatori in alcuni casi sono ormai delle grandi aziende, basti pensare che un post di CR7 con i suoi 538 milioni di follower sui social, conta ormai molto di più di una campagna pubblicitaria.

Da "liberoquotidiano.it" il 18 giugno 2021. Cristiano Ronaldo non beve Coca-Cola? CI pensa l'allenatore della Russia, Stanislav Cherchesov. Il ct durante la conferenza stampa di Euro 2020 ha preso una bottiglietta per stapparne un'altra e bersela. Un gesto che ha immediatamente scatenato i giornalisti in sala, scoppiati in applausi e risate. Un brindisi, quello di Cherchesov, dopo la vittoria con la Finlandia nonché uno sberleffo al calciatore portoghese. Ronaldo qualche giorno fa si era mostrato visibilmente infastidito dalla presenza non richiesta di due bottigliette di Coca-Cola messe davanti alla sua postazione in conferenza. Tanto che a un certo punto ha chiuso gli occhi, si è guardato intorno e fregandosene del fatto che la bibita sia uno degli sponsor degli Europei, ha preso le due e le ha spostate con tanto di messaggio: "Acqua! Ecco cosa bisogna bere… acqua!". Un gesto seguito da quello del francese Paul Pogba, anche se rivolto in questa occasione alla birra Heinekeen. Motivi del suo gesto sono ancora sconosciuti ma presumibilmente sono legati alla religione islamica che vieta il consumo dell'alcol. Peccato però che quella birra fosse analcolica. Alcuni si sono schierati con il calciatore: "Mettere una bevanda alcolica davanti a un musulmano è una mancanza di rispetto, non si può biasimare Pogba per quello che ha fatto". E ancora: "È musulmano, bisogna rispettare la sua scelta". Altri hanno invece ricordato che la bottiglietta in questione era una Heineken 00, ovvero alcol-free, il che significa che l’azione di Pogba non poteva avere una motivazione religiosa. "A questo punto dovrebbe rimuovere anche il logo della Heineken dietro di lui", ha subito precisato un altro attento telespettatore. Mentre l'azienda ha deciso di non entrare nel merito.

Matteo Basile per "il Giornale" il 17 giugno 2021. Che c'è di meglio di una frizzantissima polemica per far parlare un po' di sé. Il pallone non basta, gol e assist non sono sufficienti. Ma sì, beviamoci su, a costo di dar vita a un piccolo cortocircuito. E così Cristiano Ronaldo rifiuta di comparire dietro a una Coca Cola perché contraria al suo stile di vita salutista. Paul Pogba, scosta da davanti a sé una bottiglia di birra, seppure analcolica, perché musulmano. E daje con il caos da «lei è favorevole o contrario» di Sordiana memoria. Ronaldo è una multinazionale. Il portoghese promuove o ha promosso tra le altre cose automobili, orologi, valigie, compagne aerei, prodotti farmaceutici, shampoo, biancheria intima, abbigliamento sportivo, ovviamente, e tanto altro ancora. Beato lui che incassa dagli sponsor qualcosa tipo 50 milioni di euro l'anno. Tanto che il suo gesto anti Coca Cola è costato all'azienda una perdita di 4 miliardi di euro di capitalizzazione in borsa. Il Ronaldo salutista poi incontra i gusti di chi promuove uno stile di vita sano e apprezza le prese di posizioni controcorrente (o contro sponsor) di chi ha tale seguito. Ma risulta un po' ipocrita appena si scopre che nel 2008 promuoveva proprio l'adesso odiata bevanda in una pubblicità per il mercato asiatico e che nel 2012 fu ritratto in uno spot in cui addentava con voracità una coscia di pollo fritta di una nota catena di fast food. Altro che insalatina scondita. Pecunia non olet, dicevano gli antichi, ok. E lui, come tutti, è libero di cambiare idea e dire ciò che vuole. Ma un moralismo, anche no grazie. E il Pogba anti birra? Guadagna su per giù 15 milioni di euro l'anno per giocare nel Manchester United. Che ha tra i suoi main sponsor, che quindi contribuiscono a pagarlo, anche un marchio di vini e uno di scotch whisky. Ma non risultano finora rimostranze o levate di scudi del buon Paul contro la politica societaria dello United, al netto che presto potrebbe lasciare il club inglese. Ma altrove, cambierebbe poco o nulla. I partner commerciali possono essere differenti e quando staccano assegni nessuno bada al grado alcolico. Come lui non bada all'essere morso in campo, tanto da assolvere per il gesto il tedesco Rudiger. Il più saggio di tutti alla fine, per una volta, è stato Radja Nainggolan. Spesso criticato per il suo stile di vita un po' sregolato, ha postato un buffo fotomontaggio di lui in conferenza stampa con davanti al bancone una lunga fila di bottiglie di superalcolici. «E dai, facciamoci una risata», ha scritto. Giusto. Quindi Ronaldo e Pogba, dite e pensate quello che volete e quando volete, chiaro. E mangiate-bevete-sponsorizzate chi e cosa più vi aggrada. Affari vostri. Ma ricordate che per fare i moralisti senza finire in fuorigioco bisogna essere fuoriclasse della coerenza. Non solo del pallone.

Ronaldo-Coca Cola diventa un caso, la Uefa: “Rispettate gli obblighi con gli sponsor”. Maurizio De Santis  su Fanpage il 17 giugno 2021. Il gesto di Cristiano Ronaldo che mette da parte le bottiglie di Coca Cola in conferenza ha dato il via a una serie di azioni simili da parte di altri calciatori. La Uefa è intervenuta per richiamare le nazionali degli Europei a rispettare gli obblighi con gli sponsor ricordando come “i ricavi sono fondamentali per il torneo e per il calcio europeo”. Rispetto per gli sponsor e per gli investimenti fatti a sostegno della manifestazione e del calcio europeo. La Uefa ha estratto il cartellino giallo e ammonito (metaforicamente) i calciatori che – a partire da Cristiano Ronaldo – hanno iniziato a rimuovere, girare, spostare le bottiglie delle bevande per – da contratto – devono essere sistemate sui tavoli delle conferenze stampa. Sono lì, messe a posta. Piazzate strategicamente nei pressi dei calciatori e degli allenatori perché il business funziona (anche) così. Lo stesso business che permette alle squadre di club di alimentare contratti importanti e onerosi, il grande carrozzone dello spettacolo itinerante che caratterizza questa edizione degli Europei. Tutto è cominciato dalla smorfia e dal gesto di ribellione di CR7 alla vigilia dell'incontro del Portogallo contro l'Ungheria. Dall'alto dei suoi cinque Palloni d'Oro, della sua posizione di uomo brand che non deve chiedere mai, il campione lusitano ebbe un moto di stizza alla vista delle due confezioni di Coca Cola. Le mise in disparte e poi prese dell'acqua arringando i giornalisti: "Questo dovete bere, acqua". Il sasso nello stagno è stato gettato, il resto (da Pogba fino a Locatelli, sia pure con motivazioni differenti) è la diretta conseguenza – compreso il crollo in Borsa delle azioni della Coca Cola – di quell'atto di ribellione da parte dell'ex stella del Real Madrid. Non è solo questione salutista e di dieta ferrea, che non comprende – almeno nel suo caso – né cibo né bevande gassate, dolci e quant'altro collida con la sua tabella alimentare molto rigida. Né è materia di confessione religiosa: è il caso della birra per un calciatore di fede musulmana sul quale la Federazione nulla obietta. Cristiano Ronaldo sa quanto vale un marchio e, più ancora, quanto possa essere moltiplicato se in associazione alla notorietà del singolo atleta. La Uefa, però, ha preso posizione considerata la piega presa dalla situazione da quando CR7 ha dato il via all'effetto domino. Il direttore del torneo Martin Kallen ha spiegato ad Ap News che la UEFA ha parlato direttamente alle 24 nazionali di Euro 2021 chiarendo come "i ricavi degli sponsor sono fondamentali per il torneo e per il calcio europeo" e le regole stesse del torneo richiedano il rispetto degli obblighi con gli sponsor.

Caso Ronaldo-Coca Cola, UEFA minaccia: "Non escludiamo multe, sponsor importanti". "I calciatori sono obbligati a lasciare là le bottigliette? "Sono obbligati a rispettare le regole del torneo attraverso le federazioni". (ANSA 17 giugno 2021) Dopo gli episodi delle bevande rimosse durante alcune conferenze stampa post partita degli Europei, la Uefa ha "ricordato alle federazioni coinvolte che ci sono degli obblighi". Lo ha spiegato Martin Kallen, ceo di Uefa Events SA e direttore del torneo di Euro 2020, chiarendo che in questi casi la multa "è una possibilità". "Per primo lo ha fatto Ronaldo, poi Pogba per motivi religiosi. Noi abbiamo comunicato con le federazioni coinvolte: abbiamo ricordato che i ricavi degli sponsor sono importanti per il torneo e il calcio europeo" ha aggiunto Kallen durante un briefing con alcuni media internazionali. I calciatori sono obbligati a lasciare là le bottigliette? "Sono obbligati a rispettare le regole del torneo attraverso le federazioni", ha risposto il dirigente, chiarendo che la Uefa "non punirà mai un giocatore direttamente: lo faremo sempre attraverso le federazioni. Abbiamo un regolamento firmato dai partecipanti, che sono le federazioni". (ANSA).

Salvatore Riggio per Corriere.it il 18 giugno 2021. Prima Cristiano Ronaldo con la Coca Cola, poi Paul Pogba con la birra (l’Heineken), poi Manuel Locatelli che dopo la doppietta rifilata alla Svizzera ha spostato la Coca Cola (senza, però, togliere la bottiglietta) e ha messo l’acqua davanti al suo microfono. E poi, e poi basta (forse). Perché l’Uefa ha alzato la voce. Per la felicità degli sponsor. Il massimo organismo continentale ha chiesto ai giocatori delle 24 squadre di smettere di rimuovere le bevande. «È importante perché i ricavi degli sponsor sono fondamentali per il torneo e per il calcio europeo», ha detto il direttore di Euro 2020, Martin Kallen, in una conferenza. È stato sottolineato che le regole del torneo richiedono il rispetto degli accordi della Uefa con gli sponsor, anche se i giocatori con precetti religiosi da rispettare (come è capitato a Pogba, di fede musulmana) «non avranno una bottiglia di alcolici davanti». Da ricordare che la Coca Cola e l’Heineken sono tra i 12 sponsor di alto livello e contribuiscono alle entrate totali del torneo per quasi due miliardi di euro. Una cifra importante. Tra l’altro, anche i giocatori ottengono, in maniera indiretta, dei soldi dalle entrate commerciali di Euro 2020 attraverso le loro federazioni e club nazionali. Conti alla mano, le 24 federazioni nazionali, partecipanti al torneo, divideranno 371 milioni di euro di premi in denaro. Inoltre, in caso di successo in tutte e tre le partite del girone è previsto un bonus di 34 milioni di euro. L’Uefa è corsa ai ripari, dopo il gesto di Cristiano Ronaldo che ha fatto infuriare la Coca Cola. È bastato il gesto dell’attaccante della Juventus e del Portogallo (campione in carica) per far crollare le azioni dell’azienda di Atlanta. Calate da 56,10 a 55,22 dollari. Una diminuzione pari all’1,6%. Ciò significa che il complessivo della nota azienda è passato da 242 a 238 miliardi di dollari. In sostanza, quattro miliardi di euro andati in fumo.

Dio Coca-Cola. Report Rai. PUNTATA DEL 03/04/2017 di Claudia Di Pasquale. Collaborazione di Valeria Fraschetti, Michela Mancini e Silvia Scognamiglio. Due settimane fa avevamo parlato della Coca Cola. È la più venduta al mondo: due miliardi di bottiglie ogni giorno. Avevamo parlato di come si comporta la multinazionale quando il governo di ogni paese cerca di introdurre la soda tax, cioè la tassa sulle bevande zuccherate. Il governo messicano dove sono grandi consumatori c’era riuscito. Invece da noi, che cosa era successo? La Coca Cola è la più venduta al mondo: circa due miliardi di bottiglie al giorno, cinquecento marchi distribuiti in duecento paesi. Per capire come è diventata la numero uno abbiamo fatto un viaggio negli Stati Uniti, nella sede storica di Atlanta, dove c’è la cassaforte che conserva la sua formula magica, il primo segreto del suo successo. L’inviata di Report ha viaggiato tra Canada, Messico, Colombia, Mauritania e poi negli stabilimenti italiani di Nogara (VR), Oricola (AQ), Marcianise (CE) e nella Sibeg di Catania. L’uso delle concessioni delle falde, il braccio di ferro con le autorità sanitarie che tentano di limitare i danni dello zucchero introducendo la tassa sulle bevande gasate e zuccherate, i finanziamenti e le sponsorizzazioni, le spy stories: sotto la lente di Report sono passate tutte quelle strategie che hanno consentito alla Coca Cola di mantenere il primato per centotrenta lunghi anni. Report ha poi fatto analizzare il contenuto della Coca Cola, e di alcuni degli altri duecento prodotti di punta dell’azienda di Atlanta. I risultati nell’inchiesta. 

NOTA DEL 03/04/2017. Questa è la nota che ci ha inviato Coca-Cola Hbc Italia in merito alle proteste di Adl Cobas, dopo aver preso visione della nostra anticipazione.  

NOTA DEL 05/06/2017. Nella puntata di Report del 3 aprile 2017 abbiamo dato conto delle analisi che abbiamo effettuato su alcune bevande analcoliche presenti sul mercato, in cui abbiamo trovato delle tracce di titanio, nella misura di pochi microgrammi per litro. A proposito delle tracce di titanio riscontrate, abbiamo chiesto ufficialmente alle aziende di indicarci quale poteva essere l'eventuale fonte. Abbiamo inoltre chiesto se in base alle loro analisi, il titanio risulta presente nelle bevande. Ci hanno risposto la San Pellegrino e la San Benedetto. Nello specifico la San Pellegrino ci ha scritto che: “Nella preparazione delle bibite San Pellegrino non viene utilizzato il Biossido di Titanio, che viene impiegato esclusivamente nel tappo come colorante, in conformità alla normativa europea vigente in materia. Evidenze scientifiche ed analisi condotte dimostrano che il Biossido di Titanio utilizzato negli imballaggi come il tappo, non essendo solubile in acqua, non migra nella bevanda. Il Titanio, chiamato in causa dalle vostre analisi, è un elemento chimico comunemente presente in natura e nell'ambiente che ci circonda. Peraltro, i valori da voi indicati non trovano riscontro nelle analisi periodiche che effettuiamo sulle nostre bibite, che rilevano livelli sensibilmente inferiori.” Anche la San Benedetto ci ha scritto sottolineando che nelle bevande da loro prodotte, il biossido di titanio in quanto colorante alimentare "non viene mai aggiunto intenzionalmente in nessuna fase del processo". Ci hanno anche scritto di avere fatto analizzare tutte le loro bevande analcoliche nel loro contenitore originale prelevandole casualmente dal mercato, e di avere ritrovato tracce di titanio venti volte inferiori a quelle comunicate nel corso della trasmissione.

DIO COCA-COLA di Claudia Di Pasquale Collaborazione di Michela Mancini e Silvia Scognamiglio

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’inchiesta di questa sera è dedicata, ed è straordinaria, alla Coca-Cola. Possiede 500 marchi di prodotti che distribuisce in 200 Paesi in tutto il mondo. Abbiamo fatto analizzare il contenuto della bevanda, ma prima di darvi i risultati andiamo a fare una capatina nel fantastico mondo…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è il mondo della Coca-Cola, ad Atlanta, un museo che ripercorre la storia della bibita americana. Appena entriamo ci offrono subito una bottiglia.

MICHAEL BLANDING – SCRITTORE E GIORNALISTA La Coca-Cola è stata inventata a fine ‘800 ad Atlanta da un farmacista di nome John Pemberton, inizialmente era una sorta di medicina.

CLAUDIA DI PASQUALE Era una medicina?

MICHAEL BLANDING – SCRITTORE E GIORNALISTA Sì, in origine la Coca-Cola conteneva cocaina, le persone ne bevevano un sorso e si sentivamo meglio euforiche.

CLAUDIA DI PASQUALE E oggi?

MICHAEL BLANDING – SCRITTORE E GIORNALISTA No, no oggi no, non contiene più cocaina dagli inizi del XX secolo ma c’era nella formula originale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il brand è cresciuto anche grazie all’aura di mistero che circonda la sua formula segreta che sta qui, dentro questa cassaforte.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, la formula magica è stata inventata nel 1886, e la custodiscono gelosamente in quella cassaforte e fanno bene, perché la suggestione di impenetrabilità ha avuto il suo ruolo nel contribuire al successo di questa multinazionale che è rimasta ai vertici per 130 anni. E oggi è la più venduta al mondo. Due miliardi di bottiglie ogni giorno. Nel 2016 ha venduto 166 miliardi di litri di bevande e, come tutte le aziende che producono bevande, ha bisogno di un bene comune: tanta, tanta acqua. La nostra straordinaria inchiesta parte dal Messico, dove si trova la società di imbottigliamento di Coca-Cola più grande del pianeta. La nostra Claudia Di Pasquale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Siamo nel cuore del Chiapas, in Messico e questo è il centro di San Juan de Chamula, una piccola comunità indigena a oltre 2200 metri sopra il livello del mare. Oggi è domenica e la gente va a pregare nella chiesa di San Juan Bautista.

UOMO Mi raccomando, niente foto all’interno della chiesa, gli indigeni credono che gli puoi rubare l’anima.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La religione cattolica si mescola con antichi rituali di purificazione e guarigione. Al centro di questi riti candele, sacrifici di polli e Coca-Cola.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché le persone utilizzano la Coca-Cola? DONNA Perché fa guarire. Bevi la Coca-Cola e torni in salute.

MARCOS ARANA CEDEÑO – DIRETTORE CENTRO DE CAPACITACIÓN EN ECOLOGÍA Y SALUD Un valore simbolico, la presenza del gas nella bibita permette di ruttare e questo viene interpretato come un momento di purificazione. CLAUDIA DI PASQUALE Del corpo, dell’anima…

MARCOS ARANA CEDEÑO – DIRETTORE CENTRO DE CAPACITACIÓN EN ECOLOGÍA Y SALUD Del corpo e dell’anima. Qui si beve Coca-Cola quando si festeggia una nascita, un diploma, un matrimonio. Abbiamo visto funerali dove tutti bevevano Coca-Cola per commemorare la persona defunta.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Marcos ci accompagna a visitare una comunità indigena. In tutte le case che incontriamo lungo la strada si vende la Coca-Cola.

MARCOS ARANA CEDEÑO – DIRETTORE CENTRO DE CAPACITACIÓN EN ECOLOGÍA Y SALUD È un po' come la vendita della droga, gli indigeni non ne vendono molta, guadagnano poco, ma così ce l'hanno sempre a disposizione e possono soddisfare la loro dipendenza dalla Coca-Cola.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Arriviamo a Cruztón e anche nell’ultima casa del paese si vende Coca-Cola.

CLAUDIA DI PASQUALE Questa quanto costa?

SIGNORA Questa da 2 litri e mezzo 1 dollaro.

CLAUDIA DI PASQUALE Un dollaro? E quante ne vendete?

SIGNORA Ne vendiamo tre, quattro al giorno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lei si chiama Dolores e questi sono i suoi genitori.

CLAUDIA DI PASQUALE Come sta? SIGNORE Io bene, ma mia moglie a dicembre ha scoperto di avere il diabete.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche sua cognata, Maria Beatriz si è ammalata.

MARIA BEATRIZ L’ho scoperto quando ero incinta.

CLAUDIA DI PASQUALE E ora?

MARIA BEATRIZ Ora sto meglio. Due anni fa il dottore mi ha detto di non bere più Coca-Cola.

CLAUDIA DI PASQUALE Ah sì? Quanta ne beveva prima?

MARIA BEATRIZ Una bottiglia da mezzo litro al giorno.

SIGNORA Dai noi le madri danno la Coca-Cola ai figli già da quando hanno sette mesi.

CLAUDIA DI PASQUALE Come avete cominciato a vendere Coca-Cola in casa? SIGNORA È venuto un signore con la moto, ci ha detto: “Io vendo Coca-Cola, se volete vendere Coca-Cola anche voi datemi il vostro nome e domani ve la porto”.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanto ci guadagnate? SIGNORA Circa uno, due pesos a bottiglia.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè solo cinque centesimi…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A pochi chilometri c’è la città di San Cristóbal de Las Casas, ogni 50 metri c’è un negozio che vende i prodotti con il marchio Coca-Cola. Questo è invece un centro per le malattie croniche, come il diabete.

ADRIANA PASCACIO ROJAS – NUTRIZIONISTA UNITÀ MEDICA MALATTIE CRONICHE L’alimentazione delle comunità indigene è sana, è a base di verdure e legumi, il problema è che fanno un consumo eccessivo di bevande zuccherate. Considerate poi che proprio qui c'è una fabbrica della Coca-Cola.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo stabilimento della Coca-Cola si trova ai piedi del Monte Huitepec, la montagna sacra ai Maya. La chiamano la montagna d’acqua.

JAVIER FRANCISCO VIDAL DÍAZ – SINDACATO NAZIONALE DEI LAVORATORI DELL’EDUCAZIONE Lo stabilimento si trova sopra una falda, che è la principale riserva d'acqua della città. Ci risulta che estraggano circa 600mila litri d'acqua al giorno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Guadalupe abita a San Cristobal, questa è la sua casa.

GUADALUPE C'è una grande sofferenza di acqua, quando apriamo il rubinetto non esce niente. Ti faccio vedere la cisterna che abbiamo in terrazza. Guarda, c'è poca acqua ed è pure sporca.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tutti a San Cristobal de Las Casas hanno le cisterne. E da anni Octavio lotta per il diritto all'acqua dei cittadini.

OCTAVIO ZUNÚN- ASOCIACIÓN INTERDISCIPLINARIA DE CHIAPAS L’acqua c'è un giorno sì e uno no. Fino a vent’anni fa potevamo berla, oggi no, non è potabile. Siamo costretti a comprare questi bottiglioni, mentre la Coca-Cola consuma tantissima acqua. E noi siamo contrari alla privatizzazione delle risorse idriche.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Octavio poi, ci mostra il negozio di famiglia. CLAUDIA DI PASQUALE Ma tu vendi Coca-Cola?

OCTAVIO ZUNÚN- ASOCIACIÓN INTERDISCIPLINARIA DE CHIAPAS Non sono io a venderla, è la mia famiglia! Sembra una contraddizione, ma io ho lottato perché non la vendessero.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Da una parte le istituzioni lasciano i cittadini a secco, dall’altra hanno autorizzato la Coca-Cola a sfruttare la falda. E questo grazie anche all’ex presidente messicano Vincente Fox, che in passato è stato direttore di Coca-Cola Messico.

MARCOS ARANA CEDEÑO – DIRETTORE CENTRO DE CAPACITACIÓN EN ECOLOGÍA Y SALUD Pagano solo pochi centesimi per ogni metro cubo di acqua. Per noi questo è un regalo che sta causando un danno alla popolazione. CLAUDIA DI PASQUALE Noi abbiamo la possibilità di leggere questa concessione? Esiste il testo?

MARCOS ARANA CEDEÑO – DIRETTORE CENTRO DE CAPACITACIÓN EN ECOLOGÍA Y SALUD Esiste ma non è stato mai reso pubblico.

JAVIER FRANCISCO VIDAL DÍAZ – SINDACATO NAZIONALE DEI LAVORATORI DELL’EDUCAZIONE Alcuni anni fa era saltato fuori che la Coca-Cola pagava una cifra insignificante, circa 15mila dollari l'anno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Altre fonti parlano di un canone di 29mila dollari l'anno. Abbiamo chiesto conferma alla Commissione nazionale dell'acqua e anche alla Coca-Cola FEMSA, che è la proprietaria dello stabilimento. Non hanno fornito dati. Ci hanno solo informato che restituiscono all’ambiente e alla comunità ogni goccia d’acqua che usano tramite vari progetti.

REYNA GUADALUPE MEIDEZ PORRAS - DIRETTRICE SCUOLA JOSÉ CASTILLO TIELEMAN Abbiamo 520 alunni e purtroppo di acqua ne arriva poca e solo ogni due giorni. Dobbiamo comprarla dalle autobotti. Queste sono le fontanelle installate dalla CocaCola Foundation, filtrano l'acqua e la rendono potabile per i bambini. Piccolo dettaglio: se l'acqua manca, non possono funzionare.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti anni fa sono state installate?

REYNA GUADALUPE MEIDEZ PORRAS - DIRETTRICE SCUOLA ELEMENTARE JOSÉ CASTILLO TIELEMAN Due anni fa. CLAUDIA DI PASQUALE In questo periodo è stata mai fatta la manutenzione?

REYNA GUADALUPE MEIDEZ PORRAS - DIRETTRICE SCUOLA ELEMENTARE JOSÉ CASTILLO TIELEMAN No. Fino ad oggi non è stata mai fatta la manutenzione dei filtri. Come contropartita, per le fontanelle, ci hanno chiesto di appendere questo telone, perché i bambini e i genitori potessero leggere il nome della loro fondazione. In pratica dobbiamo fargli pubblicità.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma non è vietato fare pubblicità nelle scuole?

REYNA GUADALUPE MEIDEZ PORRAS - DIRETTRICE SCUOLA ELEMENTARE JOSÉ CASTILLO TIELEMAN Sì, lo sappiamo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche in questa scuola troviamo la fontanella della Coca-Cola. È stata installata tre anni fa. E anche qui non hanno fatto la manutenzione.

FEDERICO ALBERTO DIAZ CALDERON - SCUOLA MIGUEL UTRILLA TRUJILLO Abbiamo provato a farla noi la manutenzione, ma non ci siamo riusciti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO All'interno della scuola c'è anche un piccolo chiosco dove viene venduto il succo di frutta prodotto da Coca-Cola.

JAVIER FRANCISCO VIDAL DÍAZ – SINDACATO NAZIONALE DEI LAVORATORI DELL’EDUCAZIONE A noi maestri non piace la presenza del marchio all'interno delle scuole. I bambini lo vedono e vengono, come dire, educati a diventare dei futuri consumatori di Coca-Cola. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche in Italia ci sono quattro stabilimenti che imbottigliano i prodotti della Coca-Cola. Questo è quello di Nogara. È appena fuori dal centro abitato e si trova in un territorio ricco di acqua. Ma c'è un problema: la falda può contenere, per sua natura, alti livelli di arsenico.

FLAVIO PASINI – SINDACO DI NOGARA (VR) La Coca-Cola, naturalmente, anche lei ha dei pozzi che poi fanno una depurazione praticamente perfetta dell’acqua che estraggono.

CLAUDIA DI PASQUALE Qui in comune l’acqua ce l’ha l’arsenico o no?

FLAVIO PASINI – SINDACO DI NOGARA (VR) Mmh… beh, diciamo così, nei parametri anche qui non è potabile.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi qui dentro questo palazzo, dentro il municipio, l’acqua non è potabile?

FLAVIO PASINI – SINDACO DI NOGARA (VR) No, beviamo con le bottigliette.

PAOLO ANDREOLI – EX SINDACO DI NOGARA (VR) Praticamente Coca-Cola consuma come un comune di 13mila abitanti.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanto pagano per questo… per tutta quest’acqua?

PAOLO ANDREOLI – EX SINDACO DI NOGARA (VR) Circa 13.400 euro alla Regione. Fatto sta che costa zero, praticamente. Se si considera che un metro cubo è un centesimo.

CLAUDIA DI PASQUALE Sono mille litri.

PAOLO ANDREOLI – EX SINDACO DI NOGARA (VR) Sono mille litri.

CLAUDIA DI PASQUALE Qui, a Nogara, avete invece problemi di acqua o funziona tutto bene?

PAOLO ANDREOLI – EX SINDACO DI NOGARA (VR) Ma, funziona coi pozzi. Ogni famiglia ha il pozzo privato.

CLAUDIA DI PASQUALE E l’acquedotto non c’è?

PAOLO ANDREOLI – EX SINDACO DI NOGARA (VR) L’acquedotto è sotto terra da 47 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'acquedotto c'è ma non è mai entrato in funzione.

CLAUDIA DI PASQUALE A suo avviso, non è veramente poco pagare 13mila euro per estrarre milioni di litri d’acqua all’anno?

FLAVIO PASINI – SINDACO DI NOGARA (VR) Nel nostro territorio, comunque, la Coca-Cola ha investito molto ed è comunque presente a livello sociale con tutte le varie iniziative che noi proponiamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma che progetti fa la Coca-Cola?

FLAVIO PASINI – SINDACO DI NOGARA (VR) Beh, tipo le giornate ecologiche, tipo la cura dei parchi.

CLAUDIA DI PASQUALE Non sarebbe meglio se pagasse quest’acqua?

FLAVIO PASINI – SINDACO DI NOGARA (VR) Eh, questo non dipende da noi.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, al di là della giornata ecologica, se la vuole fare ben venga, ma non sarebbe il caso che intanto paghi l’acqua che utilizza, visto che guadagna non so quanti soldi?

FLAVIO PASINI – SINDACO DI NOGARA (VR) Lei di fatto paga quello che viene richiesto in questo caso dalla Regione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2013, un consigliere regionale aveva presentato un’interrogazione sulla concessione rilasciata alla Coca-Cola per estrarre fino a 1,37 miliardi di litri di acqua l'anno. Ma a oggi è cambiato poco o nulla. Nelle altre regioni non va meglio. A Oricola in Abruzzo la Coca-Cola paga un canone annuo di 17.200 euro ed estrae in media 400 milioni di litri. Questo è invece lo stabilimento di Marcianise, in provincia di Caserta.

GENNARO SPASIANO – DIRIGENTE PROVINCIA DI CASERTA Coca-Cola Italia ha nel proprio stabilimento tre pozzi e paga per questi tre pozzi 6.100 euro all’anno. Ed estrae dal terreno, mediamente, oltre 210mila metri cubi di acqua. Nell’ultimo anno è arrivato anche 300mila per la verità e questa concessione dura 30 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Siamo nel messinese, a Barcellona Pozzo di Gotto e questa è la Agrumi-Gel, un’industria di trasformazione delle arance. Qui arrivano i camion carichi di agrumi. Le arance vengono quindi lavate e spremute, dalla spremuta viene poi tolta l’acqua e così il succo viene concentrato.

CLAUDIA DI PASQUALE Per fare un chilo di concentrato, un litro di concentrato...

SALVATORE IMBESI – AGRUMI-GEL SRL Ci vogliono 5 litri di succo naturale, perciò 15 chili di arancia.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto costa a un’azienda produrre una bevanda a base di succo d’arancia, che sia un succo d’arancia o un’aranciata?

SALVATORE IMBESI – AGRUMI-GEL SRL Diciamo che da un chilo di concentrato, noi possiamo fare una bevanda al 12 per cento, 40 litri di bevanda. L’incidenza del succo in questa bevanda è 0,05. Cinque centesimi per ogni litro di bevanda.

CLAUDIA DI PASQUALE Quali sono i suoi clienti principali? SALVATORE IMBESI – AGRUMI-GEL SRL Sono Coca-Cola, Pepsi Cola…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La più nota è la Fanta e anche questo è un marchio della Coca-Cola. Nel 2012 una rivista inglese denunciò che dietro l’aranciata c'era il possibile sfruttamento dei migranti di Rosarno. Per cancellare questo episodio, la Cola-Cola ha finanziato dei progetti sociali, come questi corsi e seminari per l'inserimento di giovani, donne e migranti nella filiera siciliana degli agrumi.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi ha finanziato questo progetto?

FEDERICA ARGENTATI – PRESIDENTE DISTRETTO AGRUMI SICILIA La Coca-Cola Foundation.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto ci ha messo?

FEDERICA ARGENTATI – PRESIDENTE DISTRETTO AGRUMI SICILIA Circa 270, glielo dico in euro, 270mila euro, circa. Questi soldi sono andati all’Arces che poi ha finanziato attraverso il distretto una parte delle attività.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’Arces è un ente di alta formazione vicino all’Opus Dei.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho letto, sul vostro sito il vostro codice etico che dice di ispirarsi ai valori dell’Opus Dei. Mi spiega esattamente qual è il legame con l’Opus Dei.

GIUSEPPE RALLO - DIRETTORE SCUOLA ALTA FORMAZIONE ARCES Sì, no, senz’altro. Diciamo, legato bisogna capire cosa vuol dire perché il tutto viene gestito con grande libertà, io lo sono per esempio.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei è dell’Opus Dei?

GIUSEPPE RALLO - DIRETTORE SCUOLA ALTA FORMAZIONE ARCES Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Coca-Cola è entrata anche nella biografia del fondatore dell’Opus Dei, Josemaría Escrivá. Si narra che durante un suo viaggio a Miami bevve Coca-Cola per recuperare la vivacità perduta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, la Coca-Cola è stata indubbiamente molto brava nel promuovere la sua immagine di bevanda fresca abbinandola a messaggi di pace e di solidarietà. Però grattando dietro questa vernice emerge che poi tutta la partita si gioca intorno al reperimento dell’acqua. Secondo uno studio dell’Università di Twente, se si considera tutto il ciclo produttivo, cioè dalla fabbricazione della bottiglia di plastica, alla coltivazione della canna da zucchero, fino alla realizzazione della bevanda, si possono consumare da 340 a 620 litri di acqua per un solo litro di bevanda prodotta. Secondo invece uno studio promosso dalla Coca-Cola, 70. Comunque, tornando agli imbottigliatori di casa nostra, il dirigente della provincia di Caserta, subito dopo la nostra intervista, ha scritto al ministro Padoan, chiedendo di aggiornare i criteri per le tariffe dei canoni di concessione per l’utilizzo dell’acqua. Bene, insomma, Ministro, lo ascolti perché questi criteri, a Caserta, risalgono addirittura al Decreto Regio del 1933. A Nogara, invece nel veronese, dove i cittadini per bere acqua potabile sono costretti a bere acqua dalla bottiglietta, un po’ come in Messico, la Coca-Cola paga di canone 13.406 euro l’anno. A Marcianise, come abbiamo visto, oltre 6mila euro, lo stabilimento di Oricola, a L’Aquila 17.225, lo stabilimento di Rionero, vicino a Potenza, 30.370, ma qui, fanno solo acqua. Ma insomma, la Coca-Cola poi dice: “Ma noi spendiamo tanto per depurarla questa acqua” e probabilmente è vero e le crediamo anche, però facendo un paragone una famiglia mediamente in Italia spende dai 300 ai 600 euro l’anno di consumo di acqua. Bene, visto che la Coca-Cola, però, vende, fattura un miliardo di euro l’anno nel nostro Paese vendendo bevande, un po’ di tasse, ce le lascerà?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO Sì, sì, in Italia le tasse si pagano sugli utili. Dipende se ci sono gli utili. La Coca-Cola Italia non fa utili. A fronte di un miliardo di euro l’anno di fatturato, nel 2013 ha perso 12 milioni e mezzo, nel 2014 ha perso 20 milioni di euro, nel 2015 ne ha guadagnati 34, che vanno a coprire le precedenti perdite, e quindi fanno consuntivare un paio di milioni in tre anni. Su tre miliardi di fatturato, è lo zero virgola… CLAUDIA DI PASQUALE E come è possibile?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO Ma, sono dinamiche delle multinazionali. L’utile lo fanno qua, lo fanno in Svizzera.

CLAUDIA DI PASQUALE Però in Svizzera noi non sappiamo in realtà quante tasse pagano?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO Comunque credo siano sotto al 5 per cento. A Zug che è famoso per non far pagare niente pagheranno il 3.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La società Coca-Cola HBC Italia è, infatti, controllata da una società olandese che è controllata da un’altra olandese, a sua volta controllata da una holding svizzera, che opera in una trentina di Paesi, in pratica tutta l’Europa più la Nigeria. Nel 2015, gli utili netti sono stati 280 milioni di euro. Ma non è finita qui, perché la capogruppo svizzera è per il 52,7 per cento quotata in borsa, il 24 per cento è della Coca-Cola Company americana, mentre il restante 23,3 per cento…

GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO Il restante 23 per cento ce l’ha una catena di società offshore, come vede, British Virgin Islands, Lussemburgo, Cipro, Bahamas e Svizzera, in giurisdizioni che garantiscono un perfetto anonimato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Coca-Cola Company americana ha sede invece nel Delaware, un paradiso fiscale dentro gli Stati Uniti. Nel 2016 ha avuto ricavi per circa 42 miliardi di dollari.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ANALISTA FINANZIARIO E guadagna, diciamo sei o sette miliardi di dollari l’anno. E’ una cifra pazzesca. Questo lo ottengono ottimizzando la fiscalità. Son bravi! Cosa vendono? L’acqua colorata!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E brava Coca-Cola. Ma di chi è la Coca-Cola? Dal 1919 è quotata in borsa. Dal 2008, il top manager è lui, Muhtar Kent e da quando c’è lui, nonostante siano diminuiti i ricavi e diminuiti gli utili e aumentati i debiti, vengono distribuiti, elargiti ricchi dividendi agli azionisti. Tra questi ci sono le grandi società di investimento come BlackRock con il 3,7 per cento, poi le azioni ovviamente oscillano a seconda del mercato, Vanguard con il 6,4 per cento, ma l’azionista principale è, con il 9,3 per cento, Berkshire di Warren Buffett, considerato il genio degli investimenti, il secondo uomo più ricco al mondo dopo Bill Gates, ed è anche un grande benefattore. Anche la Coca-Cola, per esempio, finanzia con la sua fondazione molteplici progetti per finalità filantropiche in tutto il mondo; le finanzia per un centinaio di milioni di dollari l’anno, questo grazie anche al fatto che con la filantropia, scorre meglio l’ “acqua colorata”.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Coca-Cola è un’icona dell’America, come la Statua della Libertà. I negozi per i turisti sono pieni di gadget della multinazionale; ovunque poi ci sono stabilimenti e distributori. Questo è l’impianto di Lancaster in Pennsylvania. Qui vive una grande comunità religiosa Amish, che rifiuta la modernità. E anche qui troviamo la Coca-Cola. Pochi mesi fa, però, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha manifestato la sua preoccupazione.

FABIO DA SILVA GOMES - CONSIGLIERE REGIONALE SULL’ALIMENTAZIONE OMS Oggi è molto chiaro che le bevande zuccherate possano causare aumento di peso e obesità. L’obesità è ormai una vera e propria epidemia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Negli Stati Uniti quasi il 70 per cento degli adulti è in sovrappeso o obeso, mentre il 9 per cento ha il diabete. Sovrappeso e obesità colpiscono anche il 30 per cento dei bambini. A Boston, all’università di Harvard, sono stati condotti numerosi studi sugli effetti delle bevande zuccherate sulla salute.

FRANK HU – PROFESSORE SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE HARVARD Abbiamo scoperto che chi beve anche solo una o due bibite zuccherate al giorno ha il 25 per cento in più di probabilità di sviluppare il diabete di tipo due, è una percentuale molto alta.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha anche studiato qual è la relazione tra il consumo di bevande zuccherate e i problemi cardiaci.

FRANK HU – PROFESSORE SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE HARVARD Il consumo anche di una soda al giorno può aumentare del 20-30 per cento il rischio di avere problemi al cuore. Mentre la possibilità di avere un ictus aumenta del 16 per cento.

FABIO DA SILVA GOMES - CONSIGLIERE REGIONALE SULL’ALIMENTAZIONE OMS L’Organizzazione Mondiale della Sanità è a favore di una tassa sulle bevande zuccherate. Raccomandiamo a tutti i Paesi di introdurla. Per avere effetto dovrebbe oscillare tra il 20 e il 50 per cento.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è la città americana di Philadelphia. Da pochi mesi è entrata in vigore una tassa sulle bevande zuccherate, una bibita da poco più di mezzo litro costa circa 30 centesimi in più.

THOMAS FARLEY – COMMISSIONE SANITÀ CITTÀ DI PHILADELPHIA Solo a Philadelphia il 19 per cento della popolazione ha il diabete. E stimiamo che grazie a questa tassa il consumo di bevande zuccherate si ridurrà dal 15 al 25 per cento circa, e che in un arco di dieci anni si sarà evitato l’insorgere del diabete in almeno mille persone all’anno.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti soldi pensate di recuperare da questa tassa?

THOMAS FARLEY – COMMISSIONE SANITÀ CITTÀ DI PHILADELPHIA Circa 70/80 milioni l’anno da investire negli asili nido per le famiglie meno abbienti e nella ristrutturazione di parchi e centri ricreativi.

CLAUDIA DI PASQUALE A Philadelphia c’è chi si è opposto a questa tassa, mi sa dire chi ha guidato la protesta?

THOMAS FARLEY – COMMISSIONE SANITÀ CITTÀ DI PHILADELPHIA La tassa non è piaciuta all’industria delle bevande zuccherate, la loro associazione, l’American Beverage Association, ci ha denunciato. Sostenevano che la città di Philadelphia non aveva l’autorità per imporre la soda tax. Ma il tribunale per ora ci ha dato ragione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Chi si è schierata a favore della soda tax a Philadelphia è stata Hillary Clinton. La notizia, però, ha sconvolto i dirigenti della Coca-Cola che hanno scritto questa e-mail.

MANAGER COCA-COLA Davvero?! Dopo tutto quello che abbiamo fatto? Spero si tratti di un errore giornalistico. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il destinatario dell’e-mail era Capricia Marshall, una consulente per la comunicazione della Coca-Cola che in passato era stata anche consulente della Clinton.

MARION NESTLE – PROFESSORESSA DI SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE N.Y. UNIVERSITY Io amo queste e-mail. La Coca-Cola è un grande sostenitore della Clinton Foundation, negli scorsi anni le ha donato dai cinque ai dieci milioni di dollari.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Mario Nestle è una docente dell’università di New York. Ha pubblicato un libro sulle strategie dell’industria delle bibite gasate.

MARION NESTLE – PROFESSORESSA DI SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE N.Y. UNIVERSITY Anche il mio nome è spuntato in cinque di queste e-mail hackerate. Coca-Cola aveva mandato un rappresentante a una mia lezione in Australia per tenermi d’occhio. Mi ha divertito che la Coca-Cola mi tenesse così in considerazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Clinton Foundation si trova proprio a New York, in uno dei piani di questo grattacielo. Anche a New York, il comune ha tentato di regolamentare il settore delle bevande zuccherate, ma senza successo.

MARION NESTLE – PROFESSORESSA SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE N.Y. UNIVERSITY Nel 2012 il sindaco Michael Bloomberg ebbe l'idea di vietare la vendita di bibite zuccherate in formati più grandi di 16 once, che equivalgono a circa mezzo litro. L'industria si oppose, il comune fu trascinato in tribunale e qui a differenza di Philadelphia ha perso. CLAUDIA DI PASQUALE In che modo l'industria è riuscita a vincere?

MARION NESTLE – PROFESSORESSA SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE N.Y. UNIVERSITY In quel caso l'industria è stata supportata da due associazioni di afroamericani e ispano americani, che da anni ricevevano soldi da Coca-Cola. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tutte le principali sponsorizzazioni finanziate da Coca-Cola e da Pepsi sono finite sotto la lente d’ingrandimento dell'università di Boston.

DANIEL AARON - BOSTON UNIVERSITY SCHOOL OF MEDICINE Abbiamo trovato un centinaio di organizzazioni mediche, scientifiche e sanitarie finanziate da Coca-Cola e Pepsi dal 2010 al 2015.

CLAUDIA DI PASQUALE Sembra una cosa positiva…

DANIEL AARON - BOSTON UNIVERSITY SCHOOL OF MEDICINE Io non credo che sia filantropia. Per me è marketing. Grazie a queste sponsorizzazioni, l'industria dà infatti un'immagine migliore di sé. Nello stesso periodo facevano attività di lobby per opporsi e bloccare 28 proposte di legge sulla salute pubblica e sulla riduzione del consumo di zuccheri.

CLAUDIA DI PASQUALE E qual è stato il ruolo di queste organizzazioni mediche e scientifiche finanziate dall’industria?

DANIEL AARON BOSTON UNIVERSITY SCHOOL OF MEDICINE Le faccio un esempio, Save the Children era molto favorevole alla soda tax, la riteneva un beneficio per la salute dei bambini. Ma poi ha ricevuto circa cinque milioni di dollari da Pepsi e da Coca-Cola e ha smesso di supportarla.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'elenco degli enti finanziati o sponsorizzati da Cola-Cola in questi anni è davvero lungo: questo ospedale di Boston, l'American College of Cardiology, l'associazione nazionale dei dentisti, le associazioni dei nutrizionisti come l'Academy of Nutrition and Dietetics o l'American Society for Nutrition. C’è l'Harvard Medical School di Boston e poi ancora l'accademia americana dei pediatri, l'associazione nazionale dei medici, l'associazione americana dei diabetici, quella sul cancro e anche la comunità ebraica e quella dei cattolici.

MARION NESTLE – PROFESSORESSA SCIENZE DELL’ALIMENTAZIONE N.Y. UNIVERSITY La Coca-Cola finanzia anche studi di ricerca e, per una incredibile coincidenza, i risultati affermano che le bibite gassate non sono nocive. Se vuoi far sì che gli esperti siano dalla tua parte, allora finanzi le loro organizzazioni, e compri il loro silenzio.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il quartiere generale della Coca-Cola è ad Atlanta.

RAGAZZA 1 Noi siamo davvero orgogliose di vivere nella città della Coca-Cola.

RAGAZZA 2 La Coca-Cola è la bevanda della gioia.

RAGAZZA 3 Io personalmente preferisco la Sprite.

CLAUDIA DI PASQUALE Che è sempre prodotta da Coca-Cola, quanta ne bevi?

RAGAZZA 3 Quattro litri la settimana.

RAGAZZA 4 Qui tutti amano la Coca-Cola.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è la manifestazione sportiva “Triple Play”: coinvolge bambini e giovani. Viene organizzata dall'associazione Boys and Girls Clubs of America, che è finanziata anche dalla Coca-Cola per centinaia di migliaia di dollari l'anno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dall'altra parte della strada c'è questo museo; lo sponsor, neanche a dirlo, è CocaCola, che qui finanzia l’ospedale per i bambini, il museo per i bambini, il distretto del parco delle Olimpiadi, le università, come la Emory University. Qui i nomi dei principali edifici sono quelli dei capi storici della Coca-Cola. CLAUDIA DI PASQUALE Si vende Coca-Cola qui?

STUDENTE EMORY UNIVERSITY Sì tutti i tipi di Coca-Cola, Coca Diet, Coca-Cola zero, quello che tu vuoi.

CLAUDIA DI PASQUALE So che qui Coca-Cola finanzia anche ricerche sul diabete, voi cosa ne pensate?

STUDENTE EMORY UNIVERSITY Penso sia una ottima cosa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Abbiamo provato a intervistare alcuni docenti dei centri di ricerca che hanno ricevuto soldi da Coca-Cola per fare studi sul diabete, ma senza successo. Andiamo quindi direttamente dalla Coca-Cola. All'ingresso ci riceve l'ufficio stampa. CLAUDIA DI PASQUALE Salve, vi abbiamo inviato almeno due volte una richiesta di intervista ma non abbiamo ricevuto risposta. Ci risulta che finanziate organizzazioni mediche, università, eventi sportivi. C'è chi vi accusa di conflitto di interessi. Vorremmo quindi conoscere il vostro punto di vista.

UFFICIO STAMPA COCA-COLA COMPANY ATLANTA Io non ho una posizione! Deve scriverci. Mandi un'e-mail e le risponderemo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto in America l'associazione di Michael Jacobson ha preso la situazione di petto.

MICHAEL F. JACOBSON – PRESIDENTE CENTER FOR SCIENCE IN THE PUBLIC INTEREST L'industria delle bevande zuccherate e la Coca-Cola fanno campagne pubblicitarie ingannevoli. Sostengono che non c'è una relazione tra soft drinks e obesità. Pensiamo che questo sia illegale. Per questo abbiamo deciso di denunciare la Coca-Cola e anche l'American Beverage Association.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra gli avvocati che si sono uniti alla causa c’è Richard Daynard, che ha già vinto una battaglia legale contro l'industria del tabacco.

RICHARD DAYNARD – PRESIDENTE PHAI, PUBLIC HEALTH ADVOCACY INSTITUTE L’industria delle bevande zuccherate si comporta come in passato ha fatto quella del tabacco, finanziando la ricerca. Noi vogliamo che la smettano di dire bugie, sostenendo che il problema non è la bevanda zuccherata, ma la mancanza di esercizio fisico. È ora che dicano la verità.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche in Italia, nel 2012, l'allora governo Monti propose di tassare le industrie delle bevande zuccherate. R

ENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Sì, dovevano pagare secondo la nostra proposta sette euro ogni 100 litri immessi sul mercato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La soda tax all’italiana sarebbe stata meno di tre centesimi a lattina, ma sufficienti a scatenare le polemiche. In prima fila l'associazione dei produttori di bevande analcoliche, che disse: “Gli italiani bevono già poche bibite”.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, un’eventuale tassazione delle bevande zuccherate è senza senso, lei mi ha detto.

DAVID DABIANKOV LORINI – DIRETTORE ASSOBIBE Non è collegata a motivi di salute.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho visto la struttura di Assobibe; ho visto che il presidente è di Coca-Cola. Il vicepresidente è della Sibeg, che produce Coca-Cola. E poi diciamo che, in questo grande elenco, ben 12 persone sono legate a Coca-Cola. È dominata da Coca-Cola questa associazione.

DAVID DABIANKOV LORINI – DIRETTORE ASSOBIBE Non ci trovo niente di particolare.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi, invece, come Assobibe, avete mai finanziato università, studi di ricerca, eventi sportivi… DAVID DABIANKOV LORINI – DIRETTORE ASSOBIBE Nelle nostre attività di comunicazione, di ricerca, sicuramente degli approfondimenti che ci servono, sicuramente li finanziamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Possiamo avere un elenco di tutti i vostri finanziamenti?

DAVID DABIANKOV LORINI – DIRETTORE ASSOBIBE Non credo che sia pubblico.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Allora, tra i contrari alla tassa c'era il professore Michele Carruba che disse: “L'obesità è un problema culturale che non si può pensare di arginare con una tassa sulle bevande”.

MICHELE CARRUBA – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ MILANO Lo ribadisco, l’obesità è un problema grosso. È un problema che dipende dalla nostra alimentazione, dalla nostra psicologia, dalla nostra educazione. Dipende da tanti fattori, è difficile individuarne uno solo che in qualche modo la possa combattere.

CLAUDIA DI PASQUALE Tra le persone che risultano essere state finanziate dalla Coca-Cola c’è anche lei.

MICHELE CARRUBA – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ MILANO Sì infatti io sono stato…

CLAUDIA DI PASQUALE Se posso chiederglielo…

MICHELE CARRUBA – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ MILANO No, no, certo, sono stato… ho partecipato a questa campagna, giustamente, che è stata fatta sull’educazione alimentare…

CLAUDIA DI PASQUALE Posso chiederle quanto l’hanno pagata?

MICHELE CARRUBA – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ MILANO Non ricordo, era tantissimi anni fa…

CLAUDIA DI PASQUALE Risulta nei finanziamenti del 2015, questa cosa… Non si ricorda quanto le hanno dato? MICHELE CARRUBA – PROFESSORE FARMACOLOGIA UNIVERSITÀ MILANO Non mi ricordo…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dopo l'intervista ci ha fatto scrivere dal suo avvocato per ribadire la sua totale indipendenza intellettuale dalla Coca-Cola. Anche il diabetologo Giuseppe Fatati si schierò contro l’introduzione della tassa. Dichiarò che “dare la colpa dell’obesità dilagante alle bevande analcoliche è fuorviante”.

GIUSEPPE FATATI – PRESIDENTE FONDAZIONE ADI Se io creo un proibizionismo selettivo, do un aumento di valore a quello che proibisco. E quindi c’è un aumento dei consumi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fatati è anche il presidente della Fondazione ADI che nel 2015 ha organizzato la manifestazione sportiva “Beat the Street”. Finanziatore: Coca-Cola Foundation.

GIUSEPPE FATATI – PRESIDENTE FONDAZIONE ADI Abbiamo ricevuto un “grant” per fare questa manifestazione…

CLAUDIA DI PASQUALE Grant sarebbe?

GIUSEPPE FATATI – PRESIDENTE FONDAZIONE ADI Grant? Soldi…

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti soldi vi ha dato per realizzare questo progetto?

GIUSEPPE FATATI – PRESIDENTE FONDAZIONE ADI Intorno ai 130.000 euro, 134, 138.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Coca-Cola versa poi ogni anno una quota associativa alla Nutrition Foundation of Italy. Il presidente è Andrea Poli. Anche lui nel 2012 si schierò contro la soda tax del governo Monti.

ANDREA POLI – DIRETTORE SCIENTIFICO NUTRITION FOUNDATION OF ITALY Guardi, secondo me è comunque coercitiva.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi il segreto qual è secondo lei?

ANDREA POLI – DIRETTORE SCIENTIFICO NUTRITION FOUNDATION OF ITALY Io credo che quello che sottovalutiamo è che ci muoviamo tutti molto di meno di quanto capitasse un po’ di tempo fa.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto ha versato a voi la Coca-Cola come quota associativa?

ANDREA POLI – DIRETTORE SCIENTIFICO NUTRITION FOUNDATION OF ITALY Beh, è rilevante ai fini dell’argomento di cui stiamo parlando?

CLAUDIA DI PASQUALE Secondo me sì.

ANDREA POLI – DIRETTORE SCIENTIFICO NUTRITION FOUNDATION OF ITALY La quota associativa è una quota assolutamente semi-simbolica. Ma non vedo perché glielo dovrei dire.

CLAUDIA DI PASQUALE Centomila euro dal 2010 al 2015. 102.500, c’è scritto. E poi c’era scritto 9mila nel 2015, altri 10mila nel 2014, 9.720 nel 2013 e altri 51.323 nel 2012. Più altri media tutorial sul tema degli zuccheri, che non so cosa sia esattamente.

ANDREA POLI – DIRETTORE SCIENTIFICO NUTRITION FOUNDATION OF ITALY Sono incontri con la stampa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dopo tutte quelle polemiche la proposta di Balduzzi di tassare le bevande zuccherate fu ritirata dal Consiglio dei Ministri.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, non si capisce alla fine chi è che comanda, se i produttori di bibite o i politici.

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Beh, non sempre si ha la forza per fare tutto quello che si vorrebbe fare.

CLAUDIA DI PASQUALE Siccome abbiamo potuto verificare che l’allora Presidente del Consiglio Mario Monti era stato consulente della Coca-Cola; secondo lei non c’entra niente questo col fatto che poi questo provvedimento è stato ritirato?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Ma guardi, immaginare, per uno come me che conosce bene Mario Monti, che in una sua decisione possa contare aver fatto non lo so, il consulente per… significa non conoscerlo.

CLAUDIA DI PASQUALE Però lei si ricorda queste polemiche che ci furono allora?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Mi ricordo quelle polemiche, posso dire che non entrarono al Ministero della Salute né al Consiglio dei Ministri.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Chi invece entrò al Ministero della Salute fu il numero due di Coca-Cola, come ci rivela lo stesso Balduzzi una volta finita l'intervista.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi era il numero due di Coca-Cola in quel momento? O non si ricorda?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Non mi ricordo.

CLAUDIA DI PASQUALE Andarono direttamente da lei al Ministero?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Chiesero di essere ricevuti. Cioè non… non vedo … è abbastanza normale, no? Tutti i giorni i gruppi di pressione chiedono di essere ricevuti rispetto ad un… questo io… ma li ho fatti aspettare un po’, ecco.

CLAUDIA DI PASQUALE E cosa le disse in quel momento? Cioè cosa le rappresentò?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Le ragioni appunto a favore… contrarie alla tassa e a favore invece del mantenimento della situazione esistente.

CLAUDIA DI PASQUALE Non si ricorda il nome di questa persona di Coca-Cola? Che venne da lei?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE È brava ‘sta donna proprio!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quello che non è riuscita a fare il governo italiano, l'ha fatto il Messico, dove c'è CocaCola FEMSA, il più grande imbottigliatore del mondo di prodotti con marchio CocaCola. Nel 2013 il Paese risultava essere il primo nel mondo per consumo di bevande zuccherate: 163 litri all'anno per persona.

JUAN RIVERA DOMMARCO – DIRETTORE ISTITUTO NAZIONALE DI SALUTE PUBBLICA Il 70 per cento di tutti gli zuccheri aggiunti consumati in Messico viene dalle bevande zuccherate. Per questa ragione nel 2014 il governo messicano ha deciso di introdurre la cosiddetta soda tax.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il Messico ha il più alto numero di obesi al mondo: il 70 per cento degli adulti è in sovrappeso o è obeso. Mentre il 14 per cento ha il diabete. Nel 2015 ben 90mila persone sono morte per le conseguenze di questa malattia. Quali sono stati i primi risultati della soda tax?

JUAN RIVERA DOMMARCO – DIRETTORE ISTITUTO NAZIONALE DI SALUTE PUBBLICA Nel 2014 il consumo di bevande zuccherate è diminuito del 6 per cento, nel secondo anno del 9,7 per cento. I risultati ci dicono che la tassa funziona.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Neanche ha iniziato a funzionare che il loro presidente ha dichiarato in pubblico.

ENRIQUE PEÑA NIETO – PRESIDENTE DEL MESSICO Si può dire che il presidente della Repubblica beve Coca-Cola tutti i giorni. Coca-Cola Light. Spero che questa sia una buona pubblicità per i vostri prodotti. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La soda tax messicana ammonta circa al 10 per cento sul prezzo di vendita, ma secondo Simón Barquera è ancora troppo bassa.

SIMÓN BARQUERA – DIRETTORE PROGRAMMI DI NUTRIZIONE E SALUTE INSP Il problema di una tassa del 10 per cento è che il suo effetto potrebbe essere in parte annullato dalle strategie di marketing dell'industria, attraverso la pubblicità o un cambio dei prezzi. Quindi noi chiediamo che la tassa sia raddoppiata.

CLAUDIA DI PASQUALE Il doppio?

SIMÓN BARQUERA – DIRETTORE PROGRAMMI DI NUTRIZIONE E SALUTE INSP Per lo meno. I maggiori benefici si avrebbero se fosse del 30-40 per cento.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alcuni mesi fa Barquera è stato al centro di un spy story cominciata con degli strani messaggi sul cellulare.

SIMÓN BARQUERA – DIRETTORE PROGRAMMI DI NUTRIZIONE E SALUTE INSP Un messaggio diceva che mia figlia aveva avuto un incidente e che era in ospedale, altri che c'erano delle denunce contro di me. In un altro addirittura c’era un link che rimandava a un’agenzia funebre.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma secondo lei chi le ha inviato questi messaggi?

SIMÓN BARQUERA – DIRETTORE PROGRAMMI DI NUTRIZIONE E SALUTE INSP Non lo so, so solo che altre persone che come me stavano lavorando alla possibilità di raddoppiare la tassa sulle bevande zuccherate hanno ricevuto dei messaggi simili…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A riceverli sono stati anche Luis Manuel Encarnación, e Alejandro Calvillo che da oltre dieci anni lotta per ridurre il consumo di bevande zuccherate.

ALEJANDRO CALVILLO - DIRETTORE EL PODER DEL CONSUMIDOR Anche io ho ricevuto un messaggio con un link che rimandava alla principale agenzia funebre del paese. Li abbiamo fatti analizzati da un laboratorio di Toronto e ora abbiamo la prova che nei nostri cellulari era stato introdotto uno “spyware”. Un sistema di spionaggio prodotto da un'azienda israeliana, che però dice di venderlo solo ai governi, ma con l’impegno di usarlo solo contro i criminali e i terroristi. CLAUDIA DI PASQUALE Secondo voi, chi voleva spiarvi?

ALEJANDRO CALVILLO - DIRETTORE EL PODER DEL CONSUMIDOR Sembrerebbe che siano stati dei personaggi legati al governo, forse per fare un favore alle grandi imprese a cui abbiamo dato fastidio con le nostre campagne. Senza fare nomi! Mi hanno già spiato, e non ho voglia di essere anche denunciato per diffamazione!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO C’è un brutto caso in cui a spiare è stata la Coca-Cola. E’ accaduto in Italia. Lo spiato era un suo manager, che ci ha chiesto di tutelare la sua identità.

EX MANAGER COCA-COLA ITALIA Ho visto che davanti casa c’erano delle persone. Allora ho tirato fuori la telecamera e da quel momento ho iniziato a filmare. Vedevo che queste persone erano insistentemente davanti alla finestra della mia sala. Non si muovevano da lì, continuavano a fissare la sala come se volessero cercare di vedere attraverso le finestre del balcone. Ma quando questo guardava la mia finestra aveva un atteggiamento molto truce. E in modo molto ostentato, a volte con le mani anche sui fianchi, la persona coi baffi si metteva a guardare continuamente nella direzione delle mie finestre e rimaneva fisso.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma lei cosa pensava? Cioè, che spiegazioni si dava?

EX MANAGER COCA-COLA ITALIA Io pensavo che mi volessero aspettare per malmenarmi. E portarmi via tutta la documentazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il manager era coinvolto in una complessa causa di lavoro, era stato licenziato e demansionato.

NICOLA BRIGIDA - AVVOCATO Il manager ha scoperto una sorta di scheletro nell’armadio, possiamo chiamarlo così. Ha scoperto che un alto dirigente apicale della Coca-Cola Italia si era assegnato, a se stesso, una commessa milionaria di rilevazione dei dati di merchandising.

CLAUDIA DI PASQUALE Una scoperta che avrebbe dovuto in qualche modo premiare questo…

NICOLA BRIGIDA - AVVOCATO Anziché premiarlo incomincia quest’opera di sopraffazione e di persecuzione senza fine.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Coca-Cola ha ingaggiato un’agenzia privata. Gli investigatori erano eccellenti: Emanuele Cipriani e Marco Bernardini, gli stessi che hanno realizzato dossier illegali pagati dalla Telecom. I vertici di Coca-Cola di allora erano Roberto Farina e Fabio Albanese, che oggi ha un’agenzia di marketing con Roberto Capua, fratello del presidente di Coca-Cola HBC Italia.

AL TELEFONO FABIO ALBANESE – EX DIRETTORE COCA-COLA ITALIA No, non mi ricordo nulla di quella cosa lì, mi spiace. Forse le conviene chiamare magari Coca-Cola…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Scrive il magistrato: “Lascia esterrefatti che i vertici di tale grande azienda possano raggiungere tale grado di violenza e perfidia”. E il manager di cui abbiamo tutelato l’identità, ha subito dai vertici della Coca-Cola, scrivono i magistrati, un’intensa campagna ostile, che è arrivata, addirittura, alla diffusione di false accuse di pedofilia. Ora, a dicembre, Marco Bernardini ed Emanuele Cipriani, lo spione che è stato ingaggiato dalla Coca-Cola proprio per spiare il manager, sono stati condannati a risarcire i danni non patrimoniali. E ora, vediamo che cosa sta accadendo proprio in queste ore nello stabilimento della Coca-Cola nel veronese. MANIFESTANTE Allora, noi oggi iniziamo la campagna di boicottaggio della Coca-Cola…

CORI MANIFESTANTI Tocca a uno, tocca a tutti!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso marzo, 14 operai dello stabilimento della Coca-Cola di Nogara vengono dichiarati in esubero. CLAUDIA DI PASQUALE Voi siete tra le persone che sono state licenziate, che vogliono licenziare?

MANIFESTANTE 1 Io sono nella lista di esuberi che…

CLAUDIA DI PASQUALE Tu?

MANIFESTANTI Noi tre.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi tre. E da quanto lavorate?

MANIFESTANTE 2 2005.

CLAUDIA DI PASQUALE Dal 2005. E lei?

MANIFESTANTE 3 Dal 2007.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo sciopero è anche davanti ai cancelli dello stabilimento; qui ci sono anche le famiglie dei lavoratori.

EX OPERAIA COCA-COLA Nessuno ha una lettera di licenziamento da nessuna parte, neanche una comunicazione che dica, magari, tu hai sbagliato, qual è il motivo… non abbiamo niente.

EX OPERAIO COCA-COLA Mi son trovato fuori dai cancelli. Ma bloccato dalla sera alla mattina… senza motivo…

SINDACALISTA C’è una lista di proscrizione per 12 lavoratori perché sono iscritti all’ADL Cobas. Da questo momento c’è il blocco totale delle merci Coca-Cola.

 

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In breve tempo si crea una lunga fila di camion, nessuno può più entrare né uscire.

ROBERTO MALESANI – SINDACATO ADL COBAS La Coca-Cola, sfruttando un cambio di appalto, ha dato direttive alle cooperative subentranti di lasciare a casa 14 lavoratori di cui 12 iscritte al sindacato ADL Cobas.

CLAUDIA DI PASQUALE Queste persone però non lavorano direttamente per Coca-Cola.

ROBERTO MALESANI – SINDACATO ADL COBAS No, lavorano nella filiera di appalto di cui Coca-Cola è il capo filiera.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi, il cambio di cooperative è funzionale in realtà.

ROBERTO MALESANI – SINDACATO ADL COBAS Spesso è funzionale o a questo, o a eliminare lavoratori scomodi, o a togliere diritti, in caso non ci sia una rappresentanza sindacale forte.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il sindacato dei Cobas arriva in Coca-Cola nel 2012, e scopre che le buste paga rilasciate dalla cooperativa di allora non erano proprio a posto.

ROBERTO MALESANI – SINDACATO ADL COBAS Non erano in regola, per il semplice motivo che non pagavano tutti i contributi, non pagavano tutte le tasse, e, soprattutto, non venivano calcolati gli straordinari, le maggiorazioni per lavoro notturno, per lavoro festivo che sono previste dal contratto. Quindi qua c’era il “far west” dei diritti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La tensione sale, si arriva allo scontro, intervengono le forze dell’ordine. E la security, che avrebbe utilizzato delle pistole elettriche contro i manifestanti. L’azienda dichiara di non averne autorizzato l’uso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dall’altra parte del mondo, in Colombia a Bucaramanga, anche il sindacato del Sinaltrainal ha organizzato uno sciopero della fame.

JAVIER CORREA – SEGRETARIO SINALTRAINAL DIRITTI UMANI Ci sono lavoratori minacciati, lavoratori che sono stati costretti a cambiare città, e molti altri malati, ai quali secondo noi non si garantisce la giusta assistenza medica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dagli anni ‘90 una decina di sindacalisti che lavoravano all'interno di stabilimenti della Coca-Cola, sono stati uccisi dai gruppi paramilitari. Questa brutta storia ce la raccontano Javier, Juan Carlos, William ed Hernan.

LUIS HERNÁN MANCO - EX PRESIDENTE SINDACATO SINALTRAINAL Sentii degli spari, mi voltai. Due uomini in moto avevano ucciso Isidro Segundo Gil. Una volta caduto a terra, gli spararono ancora, ta-ta-ta-ta. Era il ‘96, allora ero il presidente del sindacato. I paramilitari mi minacciarono, mi dissero: “Hai 24 ore per andartene”. E così me ne andai a Bogotá. Mi toccò lasciare il lavoro, la famiglia, tutte le mie cose.

CLAUDIA DI PASQUALE L’azienda in quel momento cosa ha fatto?

LUIS HERNÁN MANCO - EX PRESIDENTE SINDACATO SINALTRAINAL Niente! Non ci ha neanche pagato la liquidazione. Ci regalarono il biglietto dell’autobus, dicendo che era meglio se ce ne andavamo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per questi omicidi, nel 2001, il sindacato del Sinaltrainal ha chiamato in causa la multinazionale della Coca-Cola.

JAVIER CORREA - SEGRETARIO SINALTRAINAL DIRITTI UMANI La cosa fece scalpore. Si aprì un processo a Miami, ma il caso è stato archiviato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Coca-Cola ha sempre dichiarato la sua estraneità. Gli imbottigliatori appartenevano a società indipendenti. Alla fine la Corte di Miami non ha trovato i colpevoli. Ma le violenze e le minacce sono continuate nel tempo.

JAVIER CORREA - SEGRETARIO SINALTRAINAL DIRITTI UMANI Nel 2013 hanno tentato di sequestrare mio figlio. Tentarono con la forza di farlo salire su un’auto, ma lui riuscì a scappare. L’anno dopo hanno minacciato di morte mia figlia. Credo di aver ricevuto oltre 40 minacce di morte. L’ultima lo scorso 27 gennaio, da parte di un gruppo paramilitare.

WILLIAM MENDOZA - DIRIGENTE SINDACATO SINALTRAINAL Nel 2002 un gruppo di paramilitari ha tentato di sequestrare mia figlia. Da allora vivo sotto scorta. L'anno scorso sono stato fermato da un uomo che mi ha detto: “I paramilitari stanno per uscire dal carcere, vogliono uccidere te e Juan Carlos”.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche Juan Carlos Galvis vive sotto scorta e la sua casa è tutta video-sorvegliata.

JUAN CARLOS GALVIS – DIRIGENTE SINDACATO SINALTRAINAL Nel 2011 sono entrati nella nostra casa, hanno picchiato mia moglie. Le hanno messo del nastro adesivo sulla bocca e spruzzato della vernice in faccia. Le hanno chiesto: “Dove è quel figlio di troia di tuo marito”, poi hanno puntato una pistola alla testa di mia figlia, perché mia moglie non si mettesse a gridare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, da alcune sentenze, emesse recentemente dal tribunale di Bogotá, in Colombia, sono emersi i rapporti tra i paramilitari e alcuni dipendenti delle aziende che imbottigliavano Coca-Cola. Sarebbero emersi anche, anzi, alcuni di questi dipendenti sarebbero confluiti nei gruppi armati. Sarebbero emersi anche dei rapporti con le società che distribuivano le bottiglie della multinazionale. Addirittura queste società avrebbero pagato i gruppi paramilitari in cambio di protezione e sicurezza e per mantenere il monopolio della distribuzione in tutto il Paese. Su questi fatti proprio i magistrati colombiani stanno ancora indagando, a distanza di venti anni. Bene, adesso, come promesso, i risultati delle analisi, la nostra Claudia Di Pasquale si è svenata: ovunque è andata, ha comprato bottiglie.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Prepariamo tutti i campioni in modo da renderli anonimi. Seguiamo le istruzioni dateci dai chimici e versiamo le bevande in queste bottiglie forniteci dallo stesso laboratorio. Una volta pronti tutti i campioni, li portiamo al centro di analisi. Dopo alcuni giorni, ecco i risultati.

DANIELA MAURIZI – SEGRETARIO CONSIGLIO NAZIONALE DEI CHIMICI Abbiamo cercato i principali contaminanti: per cui abbiamo ricercato pesticidi, abbiamo ricercato IPA, cioè idrocarburi policiclici aromatici, quindi tutti i parenti del benzene, per dirla in parole semplici, e abbiamo ricercato i PCB, quindi policlorobifenili tanto vituperati. Di questi contaminanti non è stato trovato nulla. Tutti i risultati che abbiamo sono al di sotto dei limiti di sensibilità dei nostri strumenti. Dopodiché abbiamo visto quali erano i metalli ancora presenti nelle bibite. È saltato all’occhio il dato del titanio.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Cioè? DANIELA MAURIZI – SEGRETARIO CONSIGLIO NAZIONALE CHIMICI Il titanio che non troviamo mai nelle acque, nelle acque minerali eccetera. Non viene neanche ricercato, non è neanche normato. E invece lo abbiamo trovato in delle concentrazioni, molto basse comunque, in un range dai tre ai 30 PPB, cioè microgrammi per litro. Quello che ci ha colpito, è che fosse presente in tutte le bevande. E quindi deve essere qualcosa assolutamente legato al processo produttivo, legato alle bevande gassate.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, prima di tutto, complimenti alla Coca-Cola, ha degli impianti di depurazione straordinari. Noi però un metallo lo abbiamo trovato ed è il titanio. Come sia finito lì dentro, non lo sappiamo, abbiamo fatto analizzare vari campioni di bevande, non solo la Coca-Cola, per avere un’idea e l’abbiamo trovato ovunque, in differenti dosi, a seconda del luogo dove è stato imbottigliato e dove è stata comprata la bevanda. Si passa dai 3,27 microgrammi della Coca-Cola comprata a New York, ai 27,89 di quella messicana. Ma la bibita che ne contiene di più non è della Coca-Cola, ma è l’aranciata San Benedetto con 31,71. Ora, tutto l’elenco che avete qui visto lo troverete sul nostro sito, pubblicato già stasera. Rimane il mistero del titanio. Come è finito lì dentro? Quello che sappiamo è che l’industria alimentare sta usando sempre di più come additivo il biossido di titanio, l’E171, che viene usato come colorante o anche per depurare le acque. L’Efsa, secondo l’Efsa, che è l’Agenzia per la sicurezza alimentare europea, si tratta di un elemento sicuro, anche se consiglia di approfondire gli studi, ma recentemente l’Istituto nazionale per la ricerca agricola francese, è un leader in Europa, ha realizzato un approfondimento e ha fatto una ricerca sui topi alimentandoli con il biossido di titanio. Il risultato è che somministrando una dose che loro presumono essere quella che l’uomo ingerisce in totale durante la giornata, c’è il rischio di insorgenza di tumore al colon e invitano i ricercatori francesi ad approfondire la questione.

Dio Coca-Cola - Aggiornamento del 17/04/2017. Due settimane fa avevamo parlato della Coca Cola. È la più venduta al mondo: due miliardi di bottiglie ogni giorno. Avevamo parlato di come si comporta la multinazionale quando il governo di ogni paese cerca di introdurre la soda tax, cioè la tassa sulle bevande zuccherate. Il governo messicano dove sono grandi consumatori cera riuscito. Invece da noi, che cosa era successo? 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Due settimane fa avevamo parlato della Coca Cola. È la più venduta al mondo: due miliardi di bottiglie ogni giorno. Avevamo parlato di come si comporta la multinazionale quando il governo di ogni paese cerca di introdurre la soda tax, cioè la tassa sulle bevande zuccherate. Il governo messicano dove sono grandi consumatori c’era riuscito. Invece da noi, che cosa era successo?

DA REPORT DEL 03/04/2017

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche in Italia, nel 2012, l'allora governo Monti propose di tassare le industrie delle bevande zuccherate.

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Sì, dovevano pagare secondo la nostra proposta sette euro ogni 100 litri immessi sul mercato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La soda tax all’italiana sarebbe stata meno di tre centesimi a lattina, ma sufficienti a scatenare le polemiche. In prima fila l'associazione dei produttori di bevande analcoliche, che disse: “Gli italiani bevono già poche bibite”.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, un’eventuale tassazione delle bevande zuccherate è senza senso, lei mi ha detto.

DAVID DABIANKOV LORINI – DIRETTORE ASSOBIBE Non è collegata a motivi di salute.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho visto la struttura di Assobibe; ho visto che il presidente è di Coca-Cola. Il vicepresidente è della Sibeg, che produce Coca-Cola. E poi diciamo che, in questo grande elenco, ben 12 persone sono legate a Coca-Cola. È dominata da Coca-Cola questa associazione.

DAVID DABIANKOV LORINI – DIRETTORE ASSOBIBE Non ci trovo niente di particolare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dopo tutte quelle polemiche la proposta di Balduzzi di tassare le bevande zuccherate fu ritirata dal Consiglio dei Ministri.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, non si capisce alla fine chi è che comanda, se i produttori di bibite o i politici.

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Beh, non sempre si ha la forza per fare tutto quello che si vorrebbe fare.

CLAUDIA DI PASQUALE Siccome abbiamo potuto verificare che l’allora Presidente del Consiglio Mario Monti era stato consulente della Coca-Cola; secondo lei non c’entra niente questo col fatto che poi questo provvedimento è stato ritirato?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Ma guardi, immaginare, per uno come me che conosce bene Mario Monti, che in una sua decisione possa contare aver fatto non lo so, il consulente per… significa non conoscerlo.

CLAUDIA DI PASQUALE Però lei si ricorda queste polemiche che ci furono allora?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Mi ricordo quelle polemiche, posso dire che non entrarono al Ministero della Salute né al Consiglio dei Ministri. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Chi invece entrò al Ministero della Salute fu il numero due di Coca-Cola, come ci rivela lo stesso Balduzzi una volta finita l'intervista.

CLAUDIA DI PASQUALE E cosa le disse in quel momento? Cioè cosa le rappresentò?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE Le ragioni appunto a favore… contrarie alla tassa e a favore invece del mantenimento della situazione esistente.

CLAUDIA DI PASQUALE Non si ricorda il nome di questa persona di Coca-Cola? Che venne da lei?

RENATO BALDUZZI - EX MINISTRO DELLA SALUTE È brava ‘sta donna proprio!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nei giorni successivi alla nostra inchiesta era rispuntata l'idea di mettere la tassa sulla Coca Cola, sulle bevande zuccherate. Poi si è scagliata subito contro l'Associazione dei produttori di bevande e la tassa, neppure a dirlo, è risparita. Forse perché poi non siamo così grandi consumatori di bevande zuccherate.

·        Le Uova.

Breve storia del cartone delle uova. Claudia Saracco su L'Inkiesta il 5/5/2021. Il 2020 sarà ricordato come l’anno della pandemia e della riscoperta delle uova: l’ultimo report Ismea le colloca tra i prodotti più apprezzati dagli italiani, con un incremento di fatturato per l’intero comparto (Iper, Super, liberi servizi e Discount) del 13,6% rispetto al 2019. Ma se arrivano a casa nostra perfettamente integre, condizione necessaria affinché possano essere rotte come si deve al momento giusto e non lungo la strada di casa, il merito è di quella scatoletta a forma di scrigno che finisce quasi sempre nella raccolta differenziata. La prossima volta facciamoci caso perché quella che abbiamo tra le mani è una delle più grandi invenzioni del secolo scorso. Nonostante l’aspetto grezzo ed essenziale, il pack delle uova è frutto di un processo industriale complesso che deve superare una serie di stress test specifici. Immaginate come sarebbe il mondo senza questi involucri sagomati? Il cartone usa e getta delle uova ha più di un secolo di vita e la sua storia si intreccia curiosamente con il mondo dell’editoria. A inventarlo, nel 1911, è Joseph Coyle, un editore di Smithers, British Columbia, nel tentativo di risolvere una controversia legale tra un contadino e un albergatore stanco di ricevere la fornitura giornaliera di uova decimata durante il percorso. Prima di allora le uova venivano trasportate in ceste e rompere le uova nel paniere, come recita il famoso detto, era piuttosto facile. Coyle per primo ha l’idea di proteggere i gusci uno a uno usando qualcosa a lui molto familiare, la carta di giornale. Può sembrare l’invenzione dell’acqua calda ma nessuno prima di allora ci aveva pensato. Dopo i primi prototipi realizzati a mano Coyle trova una soluzione talmente popolare da richiedere la produzione in serie delle scatole per far fronte alle richieste sempre più numerose. Nel 1918 brevetta il primo contenitore sagomato facendone lo standard adottato nei decenni successivi e abbandona l’editoria per dedicarsi al più redditizio business delle uova. Quando muore, nel 1972, i suoi cartoni sono diffusi in tutto il mondo, prodotti in centinaia di milioni di esemplari. Negli anni Cinquanta, il britannico H. G. Bennett perfeziona ulteriormente il packaging, ingrandendo le scatole e facendole più robuste per poter essere trasportate su diversi mezzi. Nonostante piccole modifiche e l’utilizzo di materiali diversi, il cartone che troviamo al supermercato non è molto diverso dai primi prototipi. Oggi come ai primi del Novecento il suo compito è identico: assorbire gli urti e proteggere il contenuto da luce e umidità. Di più: la sua forma è così standardizzata da diventare un simbolo: non è necessario aprirlo per vedere cosa contiene. La domanda a questo punto è se, dopo cent’anni, si può fare qualcosa di meglio. I tentativi di redesign puntano a minimizzare l’uso della materia prima come ha fatto la designer ungherese Otília Erdélyi piegando un semplice foglio di cartone come fosse un origami giapponese o direttamente all’impatto zero come il designer greco George Bosnas con BioEggs, un cofanetto leggero che vive dopo l’uso. È realizzato con una pasta composta di polpa di carta, farina, amido e semi di leguminose; una volta esaurito, lo si può piantare in un vaso e aspettare poche settimane per veder nascere i germogli. Spiega Bosnas: «Il riciclaggio è un processo in più fasi, che coinvolge il trasporto, lo smistamento, la lavorazione e la trasformazione dei materiali in nuovi beni. È difficile valutare il suo consumo energetico complessivo. L’economia non sta esattamente prosperando grazie a tutti i suoi sforzi di riciclaggio, perché diventa più costoso che mai elaborare tutta la nostra spazzatura rimanente. BioEggs è una confezione pensata per essere ecologica a tutti i livelli». Anche la designer polacca Maja Szczypek si è fatta ispirata dalla natura: il suo Happy Eggs è un contenitore in fieno pressato a caldo che mantiene l’odore naturale dell’erba, un sorta di nido artificiale che riproduce l’habitat naturale delle uova. Un design sostenibile perché il fieno è un materiale naturale, a crescita veloce, rinnovabile. Rivoluzionando la forma classica a bauletto, Anita Vaskó ha ideato un pack salvaspazio che utilizza un unico pezzo di cartone piagato su se stesso, senza impiego di colla. E qualcosa di simile ha fatto anche Cowberry Crossing Farm, una piccola impresa di Claverack (New York) specializzata nella produzione di prodotti biologici e organici a chilometro zero. Per differenziare le loro uova d’anatra dalla concorrenza ha ideato una soluzione componibile in cartone riciclato che ricorda un comune rotolo di carta. L’imballaggio è realizzato con un unico pezzo di cartone piatto; ogni sezione è indipendente e consente di estrarre il singolo uovo strappando la perforazione. Mohsen Darvish, designer di Tehran, ha pensato a un modo per facilitare il trasporto quando le mani sono già impegnate con altri oggetti. Questa confezione pret à porter realizzata con spago e cartone ondulato può essere riutilizzata più volte in alternativa alle buste di plastica, specialmente in paesi come l’Iran, spiega Darvish, dove le persone spesso acquistano le uova singolarmente e tendono a utilizzare sacchetti aggiuntivi per trasportarle. Insomma, anche se non è poi così vero che l’uovo rappresenta la forma più perfetta in natura e soltanto funzioni matematiche molto complesse riescono a descriverne le caratteristiche geometriche, la sua incolumità dipende dall’estro degli uomini e passa attraverso del semplice cartone pressato.

Uova, la guida definitiva per conservarle (attenzione al frigo), cuocerle e i test sulla freschezza. Martina Barbero su Il Corriere della Sera l'8 febbraio 2021.

Da come sceglierle, decifrando i codici stampati sui gusci, a come cucinarle: ecco tutto quel che dovete sapere sulle uova. L’ingrediente che in casa non può mancare perché, tra una frittata e una torta, spesso c’è bisogno delle sue strepitose qualità. Versatile e quasi sempre irrinunciabile l’uovo addensa, lega, conferisce morbidezza, riveste e aggiunge sapore a moltissimi piatti. E, se da un lato è vero che si impara a cucinare iniziando proprio a preparare un uovo, dall’altro non bisogna sottovalutarlo, perché, certo, è protagonista di ricette semplici ed essenziali, ma darlo per scontato è un rischio. Basta pensare ai dubbi che sorgono nel cucinare un uovo sodo — «Quanto deve cuocere? L’acqua deve bollire?» — o strapazzato – «Olio o burro in padella? Quando e come sbattere le uova?» —. Proprio su quest’ultimo piatto Anthony Bourdain aveva un codice ben preciso di preparazione. La sua regola principale? Mai aggiungere latte o panna perché «le uova strapazzate sono principalmente uova. Nulla più. Ma molto spesso le persone trovano il modo di complicare anche le cose più facili». Dai dettagli da sapere per leggere il codice stampato sul guscio e scegliere le uova giuste al modo più efficace di conservarle, dai test sulla freschezza per individuarne l’età alla tecnica «5:10» per cuocere il tuorlo a puntino, abbiamo messo insieme una guida definitiva per orientarsi nel mondo delle uova. Non mancano di certo anche tanti spunti e ricette per portare in tavola piatti veloci ma creativi.

Come scegliere le uova. Quando si tratta di uova, è molto importante essere in grado di valutare la tipologia che si ha davanti prima di acquistare o consumare. Sono almeno 6 le cose da sapere per scegliere le uova e il primo passaggio da conoscere per orientarsi riguarda l’etichetta, con le sue categorie di classificazione («A»; «A extra»; «B» e «C», clicca qui per sapere a cosa corrispondono). Il codice stampato sul guscio delle uova è una vera e propria carta identità, uno strumento studiato per permettere al consumatore di fare acquisti consapevoli e informati. È fondamentale, quindi, conoscere il significato che corrisponde a ogni cifra: dal primo numero, che indica dove è stata allevata la gallina che ha deposto l’uovo, ai caratteri seguenti che segnalano il Paese di produzione, il comune, la provincia, il nome dell’allevamento e la scadenza.

Dove conservare le uova. Pensateci: al supermercato dove vengono tenute le uova? Esatto, non nei banchi frigo. L'uovo si mantiene a lungo grazie a una naturale pellicola sulla superficie esterna del guscio che funge da barriera «impermeabile» contro i batteri patogeni. In questo modo si conserva sano per settimane anche a temperatura ambiente. L'unica accortezza da tenere a mente è che, se lo si mette in frigo una volta, non si dovrebbe poi interrompere la catena del freddo: l'uovo soffrirebbe lo shock termico e perderebbe le sue capacità di conservazione. Lasciate quindi al fresco la vostra confezione di uova, ma dal prossimo acquisto ricordatevi che potete anche sistemarla comodamente in dispensa a temperatura ambiente.

Il metodo sicuro per separare albumi e tuorli. Il rosso che si rompe nel bianco — tranquilli, c’è una soluzione anche per questo —, pezzetti di guscio che finiscono nella ciotola o, peggio ancora, una contaminazione degli ingredienti, perché ricordiamo che le uova dal punto di vista batterico sono un alimento delicatissimo e, in alcuni casi, portatore di salmonella. Quando si tratta di separare albumi da tuorli l’imprevisto è sempre dietro l’angolo ma esiste una tecnica veloce e senza rischi che permette di evitare gli errori più comuni, eccola spiegata step by step.

La tecnica «5:10» per cuocere le uova. Non è facile ottenere un uovo dalla consistenza giusta, basta un secondo di cottura in più o in meno per trovarsi davanti un ingrediente completamente diverso da quello che ci eravamo immaginati. Ma una tecnica infallibile l’ha scovata Alessandra Avallone, food stylist e autrice della rubrica Il piatto geniale su Cook: «Amo le uova in camicia, ma spesso non vengono bene come si vorrebbe e non sono comunque molto invitanti da vedere. La cottura «5:10», invece, permette di mantenere intatta la forma dell’uovo e di avere un albume fondente con un tuorlo ancora liquido». Il trucco, come spiega Avallone, proviene dal libro di cucina Momofuku dello chef americano di origine coreana David Chang e prevede una cottura in acqua di 5 minuti e 10 secondi. Leggete questo articolo per seguire passo a passo tutti i passaggi della food stylist e delle sue uova sempre morbidissime.

Come si prepara un uovo sodo. Quanto deve cuocere un uovo per diventare sodo? Si mette in acqua quando il liquido bolle o prima? Come lo si deve lasciar raffreddare? È sorprendente come una preparazione così essenziale possa suscitare tanti dubbi, si tratta in effetti di una ricetta molto semplice che necessita però alcune accortezze. Quali? Eccole riassunte in questo articolo.

I test sulla freschezza per capire l’età di un uovo. A chi non è capitato di scovare delle uova nell’ultimo ripiano del frigo o nell’antina, nascoste dalla passata di pomodoro, sulle quali magari la data di scadenza non è più leggibile? Una costante per i distratti in cucina. La soluzione, però, non sempre è buttarle e per decifrare l’età di questi relitti esistono alcuni metodi: l’odore, la spuma dei bianchi, ma anche tre test infallibili: quello dell’acqua, dell’aria e della rottura, utili in realtà anche se la scadenza si legge perché da quanto l’uovo è vecchio capirete come cucinarlo.

Le ricette veloci e creative con le uova. Se siete alla ricerca di qualche spunto per pranzi e cene veloci, ecco alcune ricette che potrebbero fare al caso vostro. Semplicissimo e perfetto in ogni situazione, il primo consiglio è quello di cimentarvi in un piatto della tradizione partenopea: le uova in purgatorio, cotte in padella con pomodori pelati, aglio e basilico. Oppure le uova in camicia con funghi Cardoncelli; la ricetta classica della maionese; i fusilli conditi con zucchine e uova; i porcini, tuorlo d’uovo e pane al timo; l’uovo in camicia con i porri. Insomma ce n’è davvero per tutti i gusti.

·        La Carne.

La Carne Coltivata. Dagotraduzione dal Guardian il 9 dicembre 2021. La società israeliana MeaTech 3D ha presentato la più grande bistecca coltivata in laboratorio mai prodotta, con un peso di quasi 110 grammi. La bistecca è composta da vere cellule muscolari e adipose, derivate da campioni di tessuto prelevati da una mucca. Le cellule staminali bovine viventi sono state incorporate in "bio-inchiostri" che sono stati poi inseriti nella stampante 3D dell'azienda per produrre la bistecca. È stata poi fatta maturare in un incubatore, in cui le cellule staminali si sono differenziate in cellule adipose e muscolari. Le aziende di tutto il mondo stanno cercando di produrre carne da coltura cellulare, sostenendo che creare carne senza allevare e macellare il bestiame è migliore per l'ambiente, il benessere degli animali e potenzialmente per la salute. Sharon Fima, CEO di MeaTech, ha dichiarato: «La svolta è il culmine di oltre un anno di sforzi nella nostra biologia cellulare e nei processi di ingegneria dei tessuti ad alta produttività, nonché nella nostra tecnologia di bioprinting di precisione. Riteniamo di esserci posti in prima linea nella corsa allo sviluppo di prodotti a base di carne di fascia alta a base cellulare». Ha detto che sono in fase di sviluppo anche linee cellulari per maiale e pollo. La società ha affermato che mirava a produrre carne coltivata allo stesso costo della carne convenzionale. Ma le bistecche non appariranno presto sui piatti dei commensali. La prima avventura dell'azienda nel mercato sarà quella di vendere il grasso coltivato come ingrediente per altri prodotti, con un impianto pilota previsto per il 2022. «L'annuncio di MeaTech segna un entusiasmante passo avanti in termini di complessità e dimensioni di una bistecca coltivata», ha affermato Seren Kell del Good Food Institute (GFI) Europe. «La stampa 3D consente alle aziende di creare prodotti “a taglio intero” più sofisticati che possono ricreare autenticamente il gusto, la consistenza e la sensazione in bocca della carne convenzionale». Tuttavia, un osservatore del settore ha dichiarato al Guardian che la stampa 3D è ormai diffusa e che MeaTech deve ancora dimostrare che la sua tecnologia potrebbe essere ampliata e produrre bistecche a un costo ragionevole. La prima bistecca coltivata da cellule è stata prodotta nel dicembre 2018 da un'altra azienda israeliana, Aleph Farms, anche se l'azienda ha affermato all'epoca che il gusto aveva bisogno di ulteriore lavoro. La carne coltivata da cellule richiede l'approvazione normativa prima di essere venduta al pubblico, e questo è successo per la prima volta alla fine del 2020, quando le crocchette di pollo prodotte dalla società statunitense Eat Just sono state servite ai clienti di Singapore. Altre aziende che perseguono la carne di laboratorio sono Mosa Meats nei Paesi Bassi, fondata dal Prof Mark Post, che ha prodotto il primo beefburger da laboratorio nel 2013, e Memphis Meats, ora di proprietà di Tyson e Cargill, due delle più grandi aziende di carne del mondo. Un'altra azienda, Meatable, mira a eliminare la necessità di ripetute estrazioni di cellule starter dagli animali creando linee che si moltiplicano continuamente. Questa settimana, gli scienziati dell'Università di Lisbona in Portogallo hanno annunciato un piano finanziato dal GFI per produrre filetti di branzino da cellule stampate in 3D utilizzando ingredienti di alghe per creare impalcature commestibili su cui far crescere le cellule. Frederico Ferreira, dell'Università di Lisbona, ha detto: «Amo il pesce e voglio continuare a mangiarlo. C'è un ruolo da svolgere per la pesca sostenibile su piccola scala, ma non possiamo continuare la pesca d'altura che causa così tanti danni agli ecosistemi oceanici». Kell ha dichiarato: «È iniziata la corsa alla produzione di bistecche intere, filetti di pesce e altre carni utilizzando l'agricoltura cellulare. Ma per rendere accessibili queste innovazioni e ottenere gli enormi benefici ambientali, di salute pubblica e di sicurezza alimentare della carne coltivata il più rapidamente possibile, abbiamo bisogno che i governi investano miliardi nella ricerca e nella commercializzazione». Le aziende stanno anche producendo bistecche con ingredienti vegetali, come Novameat in Spagna che ha consegnato la bistecca "più realistica" fino ad oggi all'inizio del 2020. Tra i suoi ingredienti: piselli, alghe e succo di barbabietola, estratti in fibre fini per ricreare il tessuto muscolare. A novembre, Redefine Meat ha presentato a Londra la sua bistecca a base vegetale stampata in 3D. L'assaggiatore del Guardian ha descritto il modo in cui simula la vera carne “straordinario”. Un‘altra azienda che lavora sulla carne a base vegetale è Atlast Food, che utilizza fibre di funghi per creare trame simili alla carne. Per ridurre le emissioni di gas serra dal bestiame ed evitare pericolosi cambiamenti climatici sono essenziali enormi riduzioni di consumo di carne, soprattutto nei paesi ricchi. Uno studio ha scoperto che evitare carne e latticini era il modo migliore per ridurre l'impatto ambientale di un individuo. I prodotti vegetali hanno emissioni molto basse, ma la carne in coltura cellulare può richiedere grandi quantità di energia per essere prodotta, causando potenzialmente emissioni significative a meno che non utilizzi fonti a basse emissioni di carbonio.

Il Bollito. Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 20 novembre 2021. Bisogna aspettare il secondo giovedì che precede il Natale e varcare le porte nebbiose della Langa per vivere un evento gastronomico arcaico e imperdibile. La festa del Bue Grasso di Carrù, che origina da antichi mercati del bestiame (il primo documentato risale al 1473) è infatti l'occasione per avvicinare i riti e le meraviglie del Gran Bollito Misto Piemontese. «È dal 1910 che a Carrù si fa la Fiera intorno al bue grasso: bianco, maestoso, fantastico esemplare della razza piemontese», spiega Umberto Chiodi Latini, esperto di Barolo e patron del Vintage, autentico salotto di cucina tradizionale nel cuore di Torino. «Il cuore dell'evento», spiega Chiodi Latini, «è il rito del Gran Bollito alla Piemontese, una vera e propria cerimonia che ha perfino prodotto una Confraternita con sede a Guarene nel Roero, e con appassionati affiliati - con tanto di Gran Priori e mantelli rossi - che si impegnano da quasi quarant' anni a tutelare un piatto icona del Piemonte più antico». In effetti il gran bollito è una meravigliosa bouffe: ci si arriva come ad un rito dionisiaco, che prevede sette tagli di manzo (tenerone, stinco, scaramella, culatta o scamone, cappello da prete, punta col suo fiocco, noce) e ben sette ammennicoli - lingua, testina col musetto, coda, zampino, gallina, cotechino, rollata - che cuociono separati. Il tutto servito di nuovo, all'insegna del cabalistico sette, con il potenziamento di altrettante salse e di sette contorni: verde rustica, verde ricca, rubra, cren, al miele, mostarda, côgna (frutta secca, cannella, chiodi di garofano) e, accanto, cipolline, finocchi, zucchini, foglie di verza al burro, e cipolle rosse, patate, rape, carote lesse. Ma il bollito attraversa tutto il Nord Italia con piccole variazioni sui tagli di carne e sulle salse: basti pensare, nel Veneto veronese, alla pervasiva presenza del cren e della pearà, una salsa medioevale a base di midollo di bue, mollica di pane e pepe. Inutile dire che, nel paese dei campanili, anche sul nome di questo piatto straordinario non manca un poco di confusione, visto che in alcune regioni come la Toscana o l'Emilia, si usa spesso il termine lesso al posto di bollito, Artusi compreso, salvo che il grande gastronomo aveva ben chiara la distinzione: se si vuole puntare tutto sul brodo si mette la carne in acqua fredda, e allora parliamo di lesso; se il cuore del nostro discorso è la carne, si parte invece dall'acqua bollente, che sigilla i succhi e ne evita la dispersione, ed eccoci al bollito. «Da noi a Roma il lesso non è serie B, ma intelligenza e sciccheria», spiega Annibale Mastroddi, guru dei macellai romani e gastronomo finissimo. «Pensate al picchiapò, uno stufato di lesso sfilacciato con pomodoro e cipolle che è una vera squisitezza».  Gli fanno eco Roberto e Loretta Mancinelli dell'omonima, storica trattoria dietro piazza Epiro a Roma: «Da noi un piatto irrinunciabile sono le polpette di lesso fritte, accompagnata da cicoria ripassata in aglio, olio e peperoncino per raccontare la Roma vera di Pasquino». Nella diversità dei bolliti, una spinta all'unità si può trovare in un oste toscano vissuto nella prima metà dell'800, Luigi Bicchierai, detto Pennino con locanda a Ponte a Signa, autore di un immaginifico brogliaccio dove, in un pensiero del 1849, si legge: Con tutti questi moti di ribellioni e voglia di accorpare l'Italia io che sono oste me la figuro come un bel pentolone di bollito: zampa, lingua, carne varie, odori». 

 La Trippa. Giacomo A. Dente per "il Messaggero" il 23 novembre 2021. «Oggi tutti vogliono il filetto o la fettina», esordisce con fare rassegnato Annibale Mastroddi, guru dei macellai romani con bottega storica in via di Ripetta «ecco perché quando un cliente mi ordina della buona trippa, viro subito sul buon umore. Un tempo il giorno della trippa, ma anche di tutto il quinto quarto, come chiamiamo noi romani le interiora, era il sabato, che poi coincideva con quello della macellazione, ma oggi si è perso il nesso col calendario. L'importante è fare bene attenzione ai nomi, perché lo stomaco dei bovini è fatto a scomparti e quindi bisogna sapere di cosa stiamo parlando. In pratica, ci sono il rumine, detto panzone, spesso e grasso, il delicato reticolo, che tutti chiamano cuffia, l'omaso, detto anche centopelli, foiolo e infine l'abomaso, poco diffuso qui a Roma, ma felice cibo di strada a Firenze». Non esagera Annibale Mastroddi, quando parla del culto dei fiorentini per il lampredotto: basti guardare la coda che si forma ogni giorno al Mercato Centrale di via dell'Ariento, dove già il panino, bene imbevuto nel sugo del brodo, è una autentica delizia, oppure fare una puntata fino al mercato di Sant' Ambrogio per godersi i panini dello storico trippaio. La trippa al mercato si trova anche a Roma: ci pensa, a Testaccio, Sergio Esposito - il suo slogan è «non facciamo semplici panini creiamo emozioni» - nel gettonatissimo Mordi e Vai, dove le specialità povere della cucina romana diventano un goloso atto di devozione alla migliore tradizione dello street food. Il quinto quarto riporta d'altronde in vita immagini del vecchio Mattatoio di Testaccio, popolato da figure ormai scomparse, bene descritte in un frammento del poeta romanesco Luigi Zanazzo «i tripparoli con il loro schifetto in testa ripieno di trippe, zampi, pezzi di testa». Ed è in questo storico quartiere che non si può mancare una sosta da Checchino, verace osteria fondata nel 1887, autentico tempio delle tradizioni più rigorose del Mattatoio. «Per fare la vera trippa alla romana ci vuole pazienza», spiegano i fratelli Mariani, ultima generazione dei titolari. «Non basta selezionare al meglio la carne, bisogna anche che la trippa riposi una notte nel suo brodo, per non parlare del vero sugo di pomodoro di accompagnamento, dove agli odori della base, vanno aggiunte ossa, carne grassa e magra e una cotica sbollentata. È infatti in questa salsa densa che si passano le strisce di trippa». A Milano, patria della busecca, piatto festivo profumato con bacche di ginepro, salvia, chiodi di garofano, non devono mancare i fagioli di Spagna per accompagnamento. A Genova, dove nel cuore dei carruggi del centro storico medioevale, la Tripperia di Vico Casana, coi suoi pentoloni di rame e le frattaglie esposte sui banchi di marmo, è meta imperdibile dei tour turistici, va ricordata la sbira. E se Andy Warhol ha voluto dissacrare la mercificazione dell'arte con le scatolette Campbell di Pepper Pot Soup (minestra di trippa), a Oporto si può vedere il Monumento aos Tripeiros, come vennero chiamati gli abitanti, ridotti a consumare trippa, avendo donato le carni a Enrico il Navigatore e alla sua flotta alla conquista di Ceuta. 

Stretta su carne rossa e salumi. "Così l'Ue aiuta le multinazionali". Allevatori italiani in rivolta contro il piano della Commissione europea per la lotta al cancro che associa carne rossa e insaccati al rischio di tumore. E la campagna dell'Ue per promuovere una dieta più vegetale ora rischia di penalizzare un settore già provato dalla pandemia. Alessandra Benignetti - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Carne rossa e insaccati finiscono nel mirino dell’Unione Europea come prodotti potenzialmente cancerogeni, con buona pace delle eccellenze del Made in Italy. L’ultimo attacco alla dieta mediterranea arriva dal piano europeo per sconfiggere il cancro. Un documento elaborato dalla Commissione Ue e presentato ad inizio febbraio, che punta ad abbattere l’incidenza dei tumori in Europa dichiarando guerra a tabacco, vino e carni rosse, considerate pericolose per la salute. Il teorema della Commissione si basa su un paper redatto dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Oms, che mette in relazione l’alimentazione a base di carne e insaccati con l’incidenza di diversi tipi di tumori. È sulla base di questo principio, quindi, che verrà intrapresa una "revisione della politica di promozione dei prodotti agricoli", "in linea con il passaggio ad una dieta più vegetale, con meno carne rossa e lavorata ed altri alimenti legati al rischio di cancro", con la proposta di "un’etichettatura nutrizionale armonizzata e obbligatoria sulla parte anteriore della confezione per permettere ai consumatori di fare scelte alimentari informate, sane e sostenibili".

Ecco chi vuole dichiarare guerra alle bistecche. Una strategia che, però, secondo la Coldiretti rischia di mettere in crisi "interi comparti agroalimentari italiani, che fanno della qualità e della distintività la loro bandiera di sostenibilità". "Prima la Farm to Fork, poi il Nutriscore, ora il Cancer Plan, la strategia dell’Ue è chiara e rappresenta un attacco generico al nostro modo di fare agricoltura e alimentazione", dice senza mezzi termini Paolo Di Stefano, direttore dell'ufficio di Bruxelles della stessa associazione. "Sullo sfondo – attacca – ci sono gli interessi delle grandi multinazionali contrapposti a quelli dei piccoli produttori". L’Ue, in effetti, non è la sola ad aver dichiarato guerra alla "fiorentina". L’ultimo appello a passare completamente alla carne sintetica "per combattere la crisi climatica", ad esempio, è arrivato da Bill Gates. Un concetto che però non entra in testa a Luca Panichi, che alleva una cinquantina di vacche chianine bianche come la neve sulle colline vicino ad Umbertide, oasi rurale sull’Appennino umbro, in provincia di Perugia. "La biodiversità è il nostro tratto distintivo - ribatte – queste mucche rappresentano una delle cinque razze autoctone della loro specie e vengono allevate a ciclo chiuso: noi produciamo tutto in azienda e quindi inquiniamo zero".

La protesta di produttori e allevatori. Un modello all’insegna della sostenibilità che, ci assicura, sta prendendo piede in molte zone d’Italia. "Non possono metterci in un unico calderone – protesta - e accomunarci ad altri Paesi che non rispettano regole stringenti come le nostre, ad esempio sugli antibiotici e sui farmaci da somministrare agli animali: noi siamo l’unica nazione dove, per capirci, i controlli veterinari dipendono dal ministero della Salute". "E poi – va avanti – dire che la carne è cancerogena tout-court è sbagliato, bisogna vedere in che quantità e come viene mangiata". "Sono disgustato da queste notizie", esordisce al telefono Gianenrico Spoldi, vice presidente di Coldiretti Cremona, allevatore di suini e produttore del tipico salame cremonese. "I nostri prodotti sono alla base di una dieta, quella mediterranea, conosciuta in tutto il mondo, e poi – assicura - sono controllati e hanno una quantità minima di conservanti". "Vederli paragonati alle sigarette – si sfoga – mi disturba e mi offende".

L'impatto potenziale della campagna dell'Ue. Secondo le associazioni di categoria, con una campagna europea diretta a scoraggiare il consumo di carne rossa e insaccati in favore di una dieta basata sui prodotti vegetali, si andrebbe a colpire l’unico settore del Made in Italy che continua a crescere all’estero e che nel 2020 ha fatto segnare il massimo storico di sempre con un valore di 46,1 miliardi e un incremento dell’1,8 per cento, nonostante le limitazioni della pandemia. Con i lockdown, la chiusura dei ristoranti e del canale Horeca in generale, in Italia e all’estero, però, non sono mancati i problemi. Il settore zootecnico nazionale, secondo i dati della Coldiretti, ha perso 1,710 miliardi di euro. "Con il Covid e le chiusure il consumo è cambiato e le macellazioni sono calate del 30 per cento", ci spiega Claudio Canali, Presidente FNP Suini di Confagricoltura.

"Chiudendo una stalla si perde un patrimonio". "Gli allevatori sono sotto attacco da anni, ora ci manca solo che sulle vaschette take away scrivano che il prosciutto fa venire il cancro - protesta - ormai facciamo veramente fatica a difendere il nostro lavoro". Anche lui è convinto che dietro iniziative come questa e come il Nutriscore ci siano "grandi industrie che stanno investendo tantissimo sulla carne sintetica". "È ovvio che facciano lobby in questo senso", conclude. I produttori, insomma, si sentono schiacciati e sono preoccupati del fatto che la nuova strategia dell’Ue possa rappresentare un duro colpo per il settore, per di più in un periodo di crisi nera. "La scelta della Commissione di tagliare i fondi per la promozione colpisce l’Italia che è il Paese più ricco di piccole tipicità tradizionali che hanno bisogno di sostegni per farsi conoscere sul mercato e che rischiano invece di essere condannate all’estinzione", è il commento di Di Stefano. Per capire cosa c’è in gioco basta pensare che soltanto la norcineria, in Italia, vale 20 miliardi di euro. E poi, ricordano i produttori, come Panichi, chiudere una stalla vuol dire "perdere un patrimonio". "Il danno – ci spiega - non è soltanto economico, ma anche ambientale, visto che è con gli allevamenti e i pascoli che viene disegnato il paesaggio italiano".

"Ora l'Italia alzi la voce in Europa". L’appello, quindi, è alla delegazione italiana a Bruxelles. "Devono alzare la voce e difendere il Made in Italy, opponendosi all’operazione di etichettatura che penalizzerebbe i nostri prodotti indicandoli come dannosi per la salute", incalza Pietro Fiocchi, europarlamentare di Fratelli d’Italia, membro della commissione BECA sulla lotta al cancro. "Purtroppo – aggiunge - su tanti argomenti l’Italia in Europa si è allineata agli altri, spero che con il nuovo governo le cose cambino e che si possa esprimere una posizione forte in questo senso, visto che il nostro Paese pesa quasi quanto la Francia e la Germania". A promettere battaglia è anche il capo delegazione di FdI al Parlamento Ue, Carlo Fidanza. "Con la scusa della salute la Commissione Europea continua a colpire le nostre produzioni di eccellenza per spianare la strada a un cibo standardizzato utile alle multinazionali per accrescere i loro profitti", attacca. "Ci opporremo in ogni modo", fa sapere l’eurodeputato. Anche per Vincenzo Sofo, parlamentare europeo eletto con la Lega e di recente passato al gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, membro della Commissione Envi per l’Ambiente, la Sanità pubblica e la Sicurezza alimentare, il piano dell’Ue per la lotta al cancro "pur avendo un obiettivo assolutamente condivisibile, prevede la promozione di misure che sono fuori da ogni logica". "Nonostante il programma nasca con le migliori intenzioni, ovvero la tutela della salute dei cittadini europei, - continua Sofo - è la dimostrazione di come la Commissione UE agisca ciecamente, condannando il consumo di singoli prodotti che sono fondamentali per una dieta equilibrata". Insomma, non c’è dubbio che rappresenti "un vero e proprio attacco al Made in Italy, in quanto colpisce i prodotti simbolo della nostra cultura, mettendo a rischio interi settori già fortemente provati a causa della pandemia".

·        Il Pesce.

Salmone d'allevamento: ecco come riconoscerne uno buono. Le Iene News l'11 maggio 2021. Il consumo di salmone è aumentato negli ultimi anni, e per far fronte a questa richiesta sono nati molti allevamenti. Nonostante le severe norme che regolano i controlli, sono stati lanciati allarmi sulla qualità della carne di salmoni provenienti da alcuni allevamenti intensivi: Matteo Viviani ci parla della qualità di questi pesci e, con l’aiuto del professor Ballerini, ci spiega come distinguere un salmone proveniente da un buon allevamento da uno meno buono. Salmone: quanti di noi lo consumano spesso? Parliamo di un tipo di pesce molto diffuso. Per far fronte a questa richiesta sono nati molti allevamenti, perché pescarlo non bastava più: di questo ci parla Matteo Viviani, della qualità del pesce che arriva sulle nostre tavole anche da quegli allevamenti. Nonostante le severe e restrittive norme che regolano i controlli sul cibo, ultimamente sono stati lanciati diversi allarmi sulla qualità della carne di salmoni provenienti da alcuni allevamenti intensivi, come potete ascoltare nel servizio di Matteo Viviani in testa a questo articolo. Oggi vi insegneremo a distinguere un salmone che arriva da un allevamento intensivo da un salmone che arriva da un allevamento distensivo. Don Staniford, attivista e presidente di Salmon Watch, ci racconta come sarebbero alcuni allevamenti intensivi: “Sono ambienti completamente alienanti”, ci dice.  “Ci sono anche allevamenti dove le gabbie dei pesci sono controllate con camere subacquee”, ci spiega Giovanni Ballerini, professore universitario esperto di qualità alimentari. Secondo Don Staniford, I salmoni dentro alcuni allevamenti intensivi non sarebbero in ottime condizioni: “Essendo ammassati in un ambiente così stretto, si ammalano, vengono attaccati da parassiti”, ci dice. “I parassiti poi si insinuano nella carne sopra la testa: le chiamano ’corone della morte’”. E come vengono affrontati questi problemi? “Utilizzano ogni tipo di sostanza chimica, coloranti artificiali nella carne di salmone, usano organofosfati, medicine per uccidere i parassiti”, ci dice Don Staniford. Una recente indagine condotta da Animal Equality mostra immagini veramente scioccanti, registrate in un allevamento nel nord della Scozia: i pesci vengono presi a manganellate in testa e poi gli vengono tagliate le branchie mentre sono ancora coscienti. Immagini crude che hanno suscitato parecchio scalpore nel Regno Unito. “Trovi anche coloranti artificiali nella carne”, sostiene Don Staniford. Ma perché colorare la carne del salmone? Perché anche questo influirebbe sulle vendite: esiste persino una cartella di colori per misurare e correggere la colorazione del salmone. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che i consumatori sono disposti a pagare di più per salmone più tendenti al rosso. Questo è quello che ci hanno raccontato gli attivisti: com’è ovvio, non si può generalizzare e puntare il dito contro tutti gli allevamenti di salmone. Ce ne sono moltissimi infatti dove tutto questo non avviene. Una domanda però ci è venuta: qui in Italia cosa mangiamo quando compriamo un salmone? Abbiamo deciso di fare un test personalmente: abbiamo comprato del salmone affumicato a caso, in una serie di supermercati scelti a caso, per farli analizzare da un laboratorio specializzato. Prima ancora di ricevere le analisi, però, abbiamo ricevuto una sorpresa: il primo laboratorio a cui ci siamo rivolti, una volta capito di cosa ci trattava, ci ha respinto per “disposizioni aziendali”. Una cosa curiosa, perché anche un secondo laboratorio dopo aver fatto le analisi si è rifiutato di mostrarcele. E anche da un terzo specialista abbiamo trovato le stesse difficoltà. L’unica cosa che abbiamo in mano è una email dell’ultimo laboratorio a cui ci siamo rivolti, in cui si legge che sono stati trovati idrocarburi policiclici aromatici. Dei cinque campioni che abbiamo consegnato, uno è risultato pulito, uno meno pulito ma sempre a norma, due non a norma ma commercializzatili grazie alla legge europea dello scorso anno che ha alzato i limiti richiesti, e uno fuori norma e non commercializzabile. A questo punto è il momento per i consigli su come scegliere un salmone proveniente da un buon allevamento, da uno proveniente da un allevamento meno buono: li trovate nel servizio di Matteo Viviani in testa a questo articolo. Come ci ha detto il professor Ballerini, “c’è salmone e salmone”!

·        Il frutto proibito: i Datteri di mare.

Il frutto proibito. Report Rai. PUNTATA DEL 04/11/2019 di Emanuele Bellano. Sono considerati talmente prelibati che vengono serviti sottobanco da molti ristoranti di lusso nelle cene più esclusive. Un piatto di spaghetti ai datteri di mare può costare fino a 70 euro. Raccoglierli, venderli e mangiarli è illegale dagli anni '90 perché estrarli dalle rocce comporta gravi danni all’ambiente e alla fauna marina. Il più grande traffico di datteri di mare oggi è gestito da un'organizzazione criminale che ne raccoglie tonnellate dalle coste della Campania e del Lazio e rifornisce ristoranti di tutta Italia. Report ha seguito e ricostruito l'attività e gli spostamenti di questa organizzazione e ha filmato le modalità di occultamento, di spaccio e di distribuzione che sono del tutto analoghe a quelle usate dai narcotrafficanti. 

IL FRUTTO PROIBITO Di Emanuele Bellano SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, va sempre più di moda, quando si va al ristorante, fotografare il cibo, postarlo sui propri profilo social o su quello del ristorante e provochi così l’invidia dei tuoi amici e fai pubblicità indiretta allo chef stellato. Ma se vi impediscono di fotografare un meraviglioso piatto di cruditè di mare allora sospettate che quel piatto potrebbe averlo riempito un’organizzazione criminale.

CASTELLAMMARE DI STABIA – ORE 5.00 VOCE Okay, allora, Ghost, noi siamo all’imboccatura del porto pronti a muovere per qualsiasi tipo di attività e attendiamo disposizioni.

GUARDIA COSTIERA Questo l’hanno acceso per scaldarsi, vedi?

EMANUELE BELLANO Ti seguo?

ORE 6.20 LA GUARDIA COSTIERA MONITORA I DATTERARI GUARDIA COSTIERA Eccoli. Allora Misha, ascoltami bene: siamo fuori senza canarino e senza squalo. Non ci possono dare supporto, quindi siamo soli. Allora, tu mo’ esci, passa dietro lo scoglio e li prendi alle spalle. In modo che se loro devono scappare vengono verso di me a terra. Capito? Perfetto! Alle sei e mezzo preciso molla!

ORE 6.30 INIZIA IL BLITZ GUARDIA COSTIERA Buongiorno! La Capitaneria. Chi c’è sotto?

DATTERARO I ragazzi stanno facendo i frutti di mare.

GUARDIA COSTIERA Che avete a bordo? Fatemi vedere!

GUARDIA COSTIERA 2 Aspettate un momento qua. Preparate i documenti.

GUARDIA COSTIERA Chi c’è sotto? Sotto chi c’è?

DATTERARO Qua niente.

GUARDIA COSTIERA Avete un subacqueo sotto?

DATTERARO Laggiù.

GUARDIA COSTIERA Là lo avete. Recuperatelo. Che state facendo qua?

DATTERARO Io non lo so. Mo chiediamo a lui.

GUARDIA COSTIERA Okay, recuperatelo.

DATTERARI Dobbiamo andare a rubare la notte. I datteri non li possiamo fare, le vongole non le possiamo fare. Ma che ca… dobbiamo fare? Ma io non lo so! Mo’ li faccio venire io i giornalisti. Mettiti col pesce di fuori, voglio vedere se ti riprende.

DATTERARO Mo’ mi ci metto io col pesce di fuori.

SEQUESTRO DI 20 KG DI DATTERI DI MARE

EMANUELE BELLANO Volevamo provare un po’ le vostre prelibatezze.

CAMERIERE Sì, allora noi abbiamo un po’ di crudo. Un po’ di ostriche vi piacciono?

EMANUELE BELLANO Sì, sì.

CAMERIERE Noi facciamo i “percebes”. È un frutto di mare portoghese molto particolare e buono.

EMANUELE BELLANO Faccia lei.

CAMERIERE Poi mi dite voi come volete proseguire, se volete assaggiare qualche tartarina, qualcosa che facciamo noi. Mo’ inizio a preparare un po’ di crudo, va bene?

EMANUELE BELLANO Benissimo, grazie.

CAMERIERE Questa qua è un’ostrica irlandese della famiglia “Boutrais”. Questa qua è una francese. È una “David Herve” che si chiama royale come ostrica. Fa tre mesi e mezzo in mare e due mesi di laguna.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Piatti di lusso con ingredienti di prima qualità. Ma quando proviamo a fotografarli…

CAMERIERE L’unica cosa che vi chiedo è di non fare nessuna foto a questo qua. Perché ci sono i datteri.

EMANUELE BELLANO I datteri di mare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Un ristorante che serve datteri di mare rischia la chiusura. Eppure, considerati una prelibatezza, vengono venduti sul mercato nero a prezzi altissimi e serviti sotto banco in ristoranti gourmet di tutta Italia.

EMANUELE BELLANO Come consiglia di mangiarli i datteri?

CAMERIERE Con un po’ di tabasco se per caso vi piace un po’ piccante. Potete assaggiarli con una goccia per provare. Perché dà quell’acidità e piccantezza allo stesso tempo. Però qui si parla di sentire il mare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Senti, sì, il sapore di mare, ma per raccogliere un dattero basta una martellata di pochi secondi e distruggi un ecosistema che la natura ha impiegato 100 anni per costruirlo. Per questo dagli anni ‘90 è vietata la raccolta, la vendita e il consumo del dattero di mare. Lo trovi solo al mercato nero, puoi pagarlo anche fino a 200 euro al kg e lo vende. Si chiama per questo la cocaina del mare, perché lo vende un’organizzazione criminale che si è strutturata in maniera militare, come i narcos. Capace anche di reazioni violente contro chi tenta di contrastarla. Come gli uomini della Guardia Costiera di Castellammare di Stabia, sono personaggi che sembrano usciti da un romanzo di Maurizio De Giovanni, i Bastardi di Pizzofalcone. Perché devono arrestare quei malviventi che abitano alla casa a fianco, con cui sono cresciuti e magari hanno giocato da ragazzi. Per questo sentirete dare loro del tu, durante gli arresti. Ma non illudetevi, perché poi non fanno sconti. E questo, visto che rimangono sul territorio rende più nobile il loro impegno per lo Stato, un impegno teso a limitare la distruzione di un ecosistema ed evitare che un frutto proibito e magari anche tossico finisca sulle tavole dei nostri ristoranti, finanche quello frequentato dall’uomo più ricco del mondo, il patron di Amazon, Jeff Bezos. Il nostro Emanuele Bellano.

ANTONINO MICCIO – DIRETTORE AREA MARINA PROTETTA DI PUNTA CAMPANELLA Siamo nell’area marina protetta di Punta Campanella, la punta della Penisola Sorrentina, quella che divide di fatto il Golfo di Napoli dal Golfo di Salerno. Quindi da questa parte Sorrento, Napoli, dall’altra parte Positano, Amalfi, fino a Salerno.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Di fronte c’è Capri e alle spalle il Vesuvio. È una delle aree d’Italia più ricercate da turisti e appassionati di immersioni. Qui sul fondale si estende un delicato manto di posidonie.

ANTONINO MICCIO – DIRETTORE AREA MARINA PROTETTA DI PUNTA CAMPANELLA È un habitat così importante che lo Stato ha voluto creare un’area marina protetta vietata all’ancoraggio e anche all’ingresso a motore.

EMANUELE BELLANO Che tipo di rocce sono quelle che vediamo qui in questa zona?

ANTONINO MICCIO – DIRETTORE AREA MARINA PROTETTA DI PUNTA CAMPANELLA Sono rocce calcaree e all’interno di queste rocce calcaree si sviluppano anche i datteri di mare, vivono i datteri di mare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Simili ai datteri per colore e forma, i datteri di mare sono molluschi che creano le loro tane in queste rocce, tra due metri e trenta metri sott’acqua.

ANTONINO MICCIO – DIRETTORE AREA MARINA PROTETTA DI PUNTA CAMPANELLA Per estrarre il dattero di mare è necessario rimuovere la roccia che si trova al di fuori. E questa roccia ospita una serie di organismi animali e vegetali che per colonizzare questa roccia verticale nel mare a volte ci hanno messo decine se non centinaia di anni. Quegli organismi fanno la nostra biodiversità.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Noi abbiamo pochissimi secondi. Se sbagliamo un secondo, noi perdiamo 40 chili di datteri stasera. Perdiamo il riscontro più importante. Chi scende a terra per portarli via, i datteri sono questi due. Questi due. Questa è la squadra più pericolosa. Ne avete qualcun altro per vedere? Ecco perché gli dobbiamo andare addosso. Gli dovete andare sui motorini. Loro l’unica cosa che possono fare è buttare i datteri a mare. E a noi non ce ne fotte perché a mare li andiamo a prendere.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I pescatori di frodo si attrezzano per la battuta di pesca. Non sanno di essere ripresi dalle telecamere di sorveglianza.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Otto e 55: stanno caricando il gommone e stanno ultimando le operazioni di carico e quindi pronti alla partenza.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I pescatori di frodo lasciano il porto per raggiungere le scogliere più vicine dove immergersi. I militari della guardia costiera si muovono per intercettarli. Seguono le tracce che hanno lasciato lungo il percorso.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Potrebbero stare là potrebbero stare, perché c’è la sbarra che è, stranamente era aperta. Perché quella è un’altra zona dove nessuno li può trovare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La scogliera è protetta e l’accesso è comodo. I pescatori di datteri arrivano qui via mare o via terra portando bombole e scalpelli.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Guarda qua, quella è una pietra che hanno portato su. Le vedi come sono bucate? Le vedi?

EMANUELE BELLANO Cioè, le staccano e le portano su?

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Sì. Guarda questa. Quella lì. Questa bianca qui. Questa è tutta roccia tutta bucata. Questa praticamente è una delle pietre dove originariamente c’erano i datteri all’interno.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I fori nelle pietre sono stati scavati dai datteri di mare. La spiaggia è piena di rocce staccate dai pescatori di frodo e portate a terra per estrarre i molluschi.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Il dattero di mare può arrivare al massimo a 10-15 centimetri. Produce un acido debole con cui scava la roccia calcarea; questo dattero cresce molto, molto lentamente. Ci mette a raggiungere dieci centimetri oltre dieci anni e può vivere forse alcuni decenni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ecco come appare la scogliera sottomarina dopo l’attacco dei pescatori di datteri. La roccia è bianca e brulla, senza più vegetazione. Le aree rigogliose, invece, sono quelle ancora intatte. Tutto questo fondale, prima del passaggio dei datterari, era popolato da alghe e coralli. Come lavorano i pescatori di frodo lo vediamo in questo filmato della Guardia Costiera. Il sub, armato di martello, spacca la roccia, estrae i datteri e li mette nella retina che ha legato intorno alla vita.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Quello che noi abbiamo e troviamo – i colori sono ancora più belli sott’acqua – è questo. Il datteraro per prendere i datteri comincia a scalpellare, molti di questi pezzi rotolano e distruggono tutto e vanno sul fondo, questi muoiono e sul fondo rimangono questi scheletri

EMANUELE BELLANO Qual è il livello di impatto di questo tipo di pesca di frodo dal punto di vista ambientale.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN È drammatico perché sta crescendo nel tempo. Il punto vero che preoccupa la comunità scientifica è che sembra che non esista nessun danno più irreversibile e grave di quello della pesca del dattero. Perché è l’unico danno che non recupera. Una volta che viene scarnificata la roccia rimane un deserto biologico. Per sempre. Tanto è vero che adesso si vedono i danni del ‘92.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Fermare sott’acqua i pescatori di frodo al buio e con le bombole è quasi impossibile. È meglio seguire i loro movimenti e bloccarli appena usciti dall’acqua.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Io e lui camminiamo così, davanti, uno e uno. Voi, tutti e due, dietro a uno e dietro a l’altro, perché così vi teniamo coperti da dietro e riusciamo noi a guardare davanti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’operazione richiede cautela, perché i datterari potrebbero essere armati.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Mi raccomando eh. Cerca… concentrati, perché qua troviamo di tutto. (in dialetto sottotitolato). Mettiti dentro a questo cancello, il primo arco. Muso avanti per piacere. Ti metti qua vedi. GUARDIA COSTIERA Io sto dietro a te, eh. Sì. Io e te di là.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I datterari lavorano a una decina di metri di profondità sotto questi scogli. E sono organizzati come una struttura militare. Pali e sentinelle pronte a lanciare l’allarme sono solitamente posizionati sulla banchina. Una sedia e alcuni oggetti testimoniano che sono stati lì di recente.

GUARDIA COSTIERA Una bottiglia vedi. Controlliamo qua dietro qua, vedi? Controlliamo qua dietro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A ridosso della riva i militari trovano una struttura in mattoni che potrebbe ospitare le vedette dei datterari.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Vedi? Vedi? Questo è il punto dove li aspettano, vedi?

EMANUELE BELLANO Questo è il punto?

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Il punto dove loro si mettono, questo qua è, il punto dove una volta che sono usciti a mare, loro si mettono ad aspettarli, poi arriva la telefonata, escono e da qui controllano fuori la strada e arrivano le macchine e se li portano. Guarda qua, questo qui dà direttamente da dove noi siamo scesi e guardano da qui e osservano e possono quindi avvisare la staffetta, il palo che è sugli scogli.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La ricerca dei pescatori di frodo continua dal comando. In piena notte viene avvistata un’imbarcazione sospetta.

CAPITANERIA DI PORTO Barchino a luci spente in ambito portuale. Sono entrati adesso in mezzo ai pontili. Io vedo la schiuma, dovresti vederlo pure tu.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La barca entra in porto e si avvicina alla banchina. È in quel momento che parte l’assalto ai datterari. VOCI Vai, vai Lucì… vai Carlo, vai vai.

UOMINI IN BARCA Vai, vai… ve ne dovete andare… (in dialetto, sottotitolato) Luciano non creare problemi. Ve ne dovete andare. Urla in dialetto…. Ve ne dovete andare. Ve ne dovete andare. Mi fate diventare pazzo. Andatevene. Vai Elpidio, vai vai. Esci fuori. Esci, esci, vallo a prendere.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I datterari minacciano i militari della Guardia Costiera, girano l’imbarcazione e fuggono verso la bocca del porto. Alla fine tutti i pescatori di frodo vengono fermati e portati in caserma.

DATTERARI Però questa telecamera le deve posare. Dobbiamo fare un casino? Facciamo un casino. Riprendi, riprendi come vuoi tu. Poi ce la vediamo io e te. Riprendi come vuoi tu. Scrivi minacce, ha avuto le minacce, scrivi quello che vuoi tu. Scrivi quello che vuoi tu.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Mentre i pescatori di datteri vengono identificati, i militari recuperano i datteri, li pesano, e li preparano per la distruzione.

PESCATORE Io ci campo, io ci porto avanti la famiglia. Quindi voi oggi vi prendete la roba, ma domani un’altra volta al mare noi dobbiamo andare. Ma non lo facciamo perché lo vogliamo fare, lo facciamo perché la forza maggiore nostra lo sapete qual è? La fame dei figli nostri. Comunque voi oggi sequestrate la roba, ma domani mattina noi comunque dobbiamo andare un’altra volta.

EMANUELE BELLANO C’è una contiguità anche con quelle che sono le strutture camorristiche del territorio?

IVAN SAVARESE – COMANDANTE GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Noi non lo escludiamo, anzi ci sono segnali che confermano la cosa che lei ha appena detto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il contrasto della pesca di frodo innesca delle reazioni violente. In questo video un membro dell’organizzazione aggredisce un militare della Guardia costiera proprio davanti al cancello della caserma, colpendolo ripetutamente al volto.

IVAN SAVARESE – COMANDANTE GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Noi ci troviamo di fronte a una vera e propria organizzazione criminale che è molto simile a quella dello spaccio di sostanze stupefacenti.

EMANUELE BELLANO Questa similitudine in che cosa consiste?

IVAN SAVARESE – COMANDANTE GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA È una organizzazione che molto spesso ha caratteristiche verticistiche, dove c’è una persona o più persone che gestiscono le attività, alle loro dipendenze poi ci sono coloro che distribuiscono. E anche il modo in cui i pescatori di frodo tra di loro in codice chiamano il prodotto illecito: fagiolino, confetto, addirittura qualcuno lo chiama babà.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se poi il babà è caldo, significa in codice che l’hanno appena colto e costa anche di più sul mercato nero. Solo i ristoranti più ricchi, più lussuosi se lo possono permettere. Il nostro Emanuele Bellano ha ricostruito tutta la rete di pescherie e ristoranti, si è anche seduto al tavolo per assaggiare questo frutto di mare proibito e così ambito. Ma prima ha raccolto la testimonianza di chi per una vita ha raccolto datteri di mare e li ha portati sulle tavole di personaggi che hanno anche un ruolo importante. TESTIMONE Io ho lavorato con i datteri che devo fare? C’ho lavorato con questi qua. Ci sta il malavitoso che va con l’amante, con la ragazzina, che vuole mettere il chilo di datteri a tavola, ci sta il giudice che esce con la puttanella, con la escort e vuole il chilo di datteri. Io ho visto i giudici che si mangiano i datteri. Mo’ tu che sei giudice e poi puoi condannare a me? Allora bisogna fermare questi qua per fermare i datteri.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Clienti facoltosi secondo il confidente, che sarebbero in tutta Italia. La rete di distribuzione coinvolgerebbe ristoranti e negozi del centro nord. TESTIMONE È come la droga. La cocaina è illegale, l’eroina è illegale, ma la cocaina chi se la tira? Mica quelli che guadagnano 50 euro al giorno. Si prendono la cocaina quando finiscono di lavorare. Chi se la piglia? La gente con i denari. E il dattero pure se lo mangia la gente con i soldi. Mo’ un operaio si può mai permettere di fare una cena e mettere un chilo di datteri? Lo sapete quanto paga una cena uno scemo di questi? 1.500-2.000 euro. Un chilo, due chili, tre chili, per un tavolo importante con il separé. I datteri se li mangiano tutta gente, medici, avvocati, ministri, sindaci. In Campania tutti i ristoranti importanti. Diego Coco Loco.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Diego Coco Loco è Diego Nuzzo, chef dell’esclusivo ristorante in centro a Napoli “L’altro Coco Loco”.

EMANUELE BELLANO L’Altro Cocoloco è uno dei più rinomati ristoranti di Napoli.

DIEGO NUZZO – CHEF “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Grazie. Così dicono. Ce la mettiamo tutta per fare qualcosa di…

EMANUELE BELLANO Ho visto che avete ospitato anche l’uomo più ricco del mondo.

DIEGO NUZZO – CHEF “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Sì, Jeff Bezos.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il fondatore e proprietario di Amazon Jeff Bezos in viaggio per l’Italia con la famiglia, a giugno dell’anno scorso ha scelto proprio questo ristorante per gustare una cena a base di pesce. L’Altro Coco Loco è recensito dalla Guida Michelin e annovera nel suo menù le migliori qualità di pesce.

EMANUELE BELLANO Trattate datteri di mare in questo ristorante?

DIEGO NUZZO – CHEF “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI No, è proibito. A parte che è difficile che li pescano qui, ma poi comunque è proibito.

EMANUELE BELLANO Sa, glielo chiedo perché a me risultava che lei avesse acquistato delle partite di datteri di mare.

DIEGO NUZZO – CHEF “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Mai. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Secondo la testimonianza che abbiamo raccolto i datterari si appoggerebbero per la distribuzione a una serie di intermediari. TESTIMONE Questi hanno distribuito 50 chili. I datteri che gli hanno sequestrato l’altro ieri, questi 50 chili li hanno distribuiti loro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Proprio questi intermediari avrebbe rifornito il ristorante L’Altro Coco Loco.

DIEGO NUZZO – CHEF “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Mai acquistati.

EMANUELE BELLANO Contatti anche indiretti con datterari?

DIEGO NUZZO – CHEF “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Ma non li conosco proprio.

EMANUELE BELLANO A me diciamo risulta che voi, in questa pescheria, trattate questo tipo di prodotto, il dattero di mare.

MARCO VOLPE - PESCHERIA “GIUSEPPE VOLPE” – VIAREGGIO (LU) No, è impossibile. Anche perché ti fanno dei verbali, ti farebbero chiudere.

EMANUELE BELLANO Però io sto ricostruendo la catena di distribuzione e mi risulta che la sua pescheria sia una di quelle che l’abbia trattata.

MARCO VOLPE - PESCHERIA “GIUSEPPE VOLPE” – VIAREGGIO (LU) Da quando mi fecero il verbale, che me ne sequestrarono 15 chili…

EMANUELE BELLANO No no, io parlo di adesso.

MARCO VOLPE - PESCHERIA “GIUSEPPE VOLPE” – VIAREGGIO (LU) No no, io basta, chiuso. Tutti mi possono anche chiama’, tante volte, “me li trovi?” e io faccio “no”.

EMANUELE BELLANO Lo chiedono il dattero?

MARCO VOLPE - PESCHERIA “GIUSEPPE VOLPE” – VIAREGGIO (LU) Tutti.

EMANUELE BELLANO Ma sono buoni?

MARCO VOLPE - PESCHERIA “GIUSEPPE VOLPE” – VIAREGGIO (LU) Per quello che mi ricordo sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli ordini il signor Volpe li avrebbe fatti attraverso un intermediario.

EMANUELE BELLANO Ma mi faccia capire, lei che è un po’ nel settore, quanto sta al chilo al dettaglio il dattero di mare?

MARCO VOLPE - PESCHERIA “GIUSEPPE VOLPE” – VIAREGGIO (LU) Non lo puoi pagare meno di 100 euro.

EMANUELE BELLANO 100 euro al chilo?

MARCO VOLPE - PESCHERIA “GIUSEPPE VOLPE” – VIAREGGIO (LU) Poi ci sta che tu sotto Natale lo possa pagare anche di più.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nei periodi di festa, quando il dattero è particolarmente richiesto da ristoranti e privati, il prezzo al mercato nero può arrivare fino a 200 euro al chilo.

IVAN SAVARESE – COMANDANTE GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA L’attività è molto redditizia e noi non escludiamo che questo tipo di attività sia anche uno dei canali con cui poi vengono finanziate altre attività illecite.

EMANUELE BELLANO Su che cifra si aggira più o meno?

IVAN SAVARESE – COMANDANTE GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Fino a 80 mila euro al mese.

EMANUELE BELLANO Quindi una singola organizzazione in un anno si può quantificare intorno al milione di euro il guadagno.

IVAN SAVARESE – COMANDANTE GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Facendo un po’ i calcoli sì.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grande guadagno per pochi, a cui corrisponde un enorme danno per la collettività.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Tra i mille e cinquemila per euro per metro quadrato.

EMANUELE BELLANO In cosa consiste questo danno?

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Uno, è quanto io perdo in capacità di questo ambiente di produrre bene ricchezza, di produrre corallo rosso, pesce, turismo. Il secondo metodo di calcolo e le cifre sono abbastanza convergenti è quello di pagare dei biologi marini che vadano a restaurare e ricoprano queste rocce nude di organismi per farle rivivere.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tutto per servire alla fine un piatto di datteri come questo, fotografato da un cliente in questo ristorante di Legnano nell’hinterland milanese.

DAVIDE ACQUAVIVA – RISTORANTE “BEL SIT” – LEGNANO (MI) È successo un cliente, che li ha portati e glieli abbiamo serviti, cucinati.

EMANUELE BELLANO Li ha portati direttamente il cliente qui?

DAVIDE ACQUAVIVA – RISTORANTE “BEL SIT” – LEGNANO (MI) Sì.

EMANUELE BELLANO E voi glieli avete cucinati.

DAVIDE ACQUAVIVA – RISTORANTE “BEL SIT” – LEGNANO (MI) Sì. Era un cliente e gliel’abbiamo fatto. Poi questo qui ha fatto la fotografia e l’ha postata sul mio Google Business. Allorché io mi sono incazzato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Certo, perché per una cosa del genere oltre alla denuncia penale e alla multa è prevista anche la chiusura del ristorante.

EMANUELE BELLANO Come mai gliel’avete cucinata, sapendo che comunque è illegale?

DAVIDE ACQUAVIVA – RISTORANTE “BEL SIT” – LEGNANO (MI) E cosa gli faccio? Arriva un ospite mi dice “me li fai?”, cosa gli dico? “No, non te li faccio perché è vietato”? Uno può dire “è sbagliato”, eh lo so, però cosa devo fare?

EMANUELE BELLANO No, più che sbagliato è anche illegale questa cosa qui.

DAVIDE ACQUAVIVA – RISTORANTE “BEL SIT” – LEGNANO (MI) Cucinarli?

EMANUELE BELLANO Quant’era più o meno il quantitativo?

DAVIDE ACQUAVIVA – RISTORANTE “BEL SIT” – LEGNANO (MI) Saranno stati un tre-quattro porzioni di roba.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il Bel Sit di Legnano è un dei tanti ristoranti che in realtà avrebbe contatti con i pescatori di frodo come altri importanti locali in tutta Italia. Mangiare datteri di mare, oltre che procurare un danno irreversibile all’ambiente marino, può essere pericoloso anche per la salute.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Questa specie, crescendo lentamente, continuando a filtrare, catturano dall’acqua e trattengono nella loro carne, nei loro tessuti, metalli pesanti.

EMANUELE BELLANO C’è un rischio di questo tipo generalmente per le vongole, per le cozze, proprio perché svolgono questo ruolo.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Ma è più basso.

EMANUELE BELLANO In questo caso il rischio è maggiore?

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Almeno dieci volte maggiore e stiamo parlando di piombo, rame, sostanze per cui è certa una tossicità grave. Quindi oltre al danno ambientale, il rischio è per la salute perché chi lo mangia non sa che si sta avvelenando.

AGENTE GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA Vorremmo fare un controllo oggi, è possibile? Grazie. Qui non c’è niente. Devono stare per forza in cucina. Eccoli qua. Questo è quello che è rimasto in cucina.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA E posso chiedervi quanto gli avete dato? Quanto gli avete pagato?

RISTORATORE 20 euro.

MARCELLO MANFREDI – CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMMARE DI STABIA 20 euro? Per 200 grammi? 20 euro, 200 grammi è 100 euro al chilo. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli è rimasta una voglia, perché quelli della Capitaneria di Porto gli hanno sfilato il piatto sotto il naso. Tuttavia è stato un bene perché i ricercatori turchi della università dell’Ege University di Izmir, facoltà di Scienze ittiche, hanno analizzato i tessuti del dattero di mare e hanno trovato quantitativi di metalli pesanti ben superiori ai limiti fissati dall’Unione Europea e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ci ha scritto anche il signor Diego Nuzzo del ristorane L'Altro Coco Loco, lui dice: “io col traffico di dattero di mare non c’entro nulla”. Gli crediamo fino a prova contraria. Quello che invece è provato è che per raccogliere un dattero di mare distruggi un ecosistema, impoverendo anche la costa rendendola meno attraente dal punto di vista del turismo subacqueo, poi lo paghi un’enormità, alimenti l’organizzazione criminale e infine ti intossichi anche. C’è migliore sintesi della stupidità umana?

Il frutto proibito 2. Report Rai. PUNTATA DEL 12/11/2021 di Emanuele Bellano collaborazione di Greta Orsi. Dopo un'indagine durata oltre tre anni la procura di Torre Annunziata ha arrestato 18 persone e denunciato proprietari di pescherie, ristoranti e centri di distribuzione ittica in tutta Italia con l'accusa di disastro ambientale, ricettazione e associazione per delinquere, reati commessi in relazione alla pesca illegale dei datteri di mare. Report ha seguito la genesi e l'evoluzione dell'indagine ed è in grado di mostrare documenti inediti: filmati da telecamere di sorveglianza che registrano lo spaccio di datteri di mare nelle strade di Castellammare di Stabia, intercettazioni telefoniche che svelano le richieste di datteri di mare da parte di ristoratori della Lombardia e della Campania, interviste esclusive a persone ritenute dagli inquirenti membri della rete di distribuzione in Lombardia e a ristoratori accusati di vendere datteri di mare nei loro locali, tra cui il ristorante stellato in centro a Napoli in cui ha cenato anche Jeff Bezos. 

IL FRUTTO PROIBITO 2. Report Rai. Di Emanuele Bellano Collaborazione: Greta Orsi Videomaker: Giovanni De Faveri, Tommaso Javidi Montaggio: Igor Ceselli

ORE 6.30 INIZIA IL BLITZ GUARDIA COSTIERA Buongiorno! La Capitaneria. Chi c’è sotto? DATTERARO I ragazzi stanno facendo i frutti di mare.

GUARDIA COSTIERA Che avete a bordo? Fatemi vedere!

GUARDIA COSTIERA 2 Aspettate un momento qua. Preparate i documenti.

GUARDIA COSTIERA Chi c’è sotto? Sotto chi c’è?

DATTERARO Qua niente.

GUARDIA COSTIERA Avete un subacqueo sotto?

DATTERARO Laggiù.

GUARDIA COSTIERA Là lo avete. Recuperatelo. Che state facendo qua?

DATTERARO Io non lo so. Mo chiediamo a lui.

GUARDIA COSTIERA Okay, recuperatelo.

DATTERARI Dobbiamo andare a rubare la notte. I datteri non li possiamo fare, le vongole non le possiamo fare. Ma che ca… dobbiamo fare? Ma io non lo so! Mo’ li faccio venire io i giornalisti. Mettiti col pesce di fuori, voglio vedere se ti riprende.

DATTERARO Mo’ mi ci metto io col pesce di fuori.

GUARDIA COSTIERA Salvatore ti devi calmare, Salvatore, Salvatore non conviene, non farlo

DATTERARI Se volete i documenti stiamo a posto. Mo finisce male, finisce

ACHILLE SELLERI – COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) È un’organizzazione verticistica, simile a quelle organizzazioni che si occupano di commercializzare sostanze stupefacenti.

EMANUELE BELLANO Avete riscontrato una contiguità tra gli ambienti, cioè tra le persone che insomma gestiscono questo tipo di pesca di frodo e la camorra?

ACHILLE SELLERI – COMANDANTE CAPITANERIA DI PORTO CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Non è escluso che si sia riversata alle attività della pesca del dattero di mare.

CAMERIERE Buonasera.

EMANUELE BELLANO Buonasera. Volevamo provare un po’ le vostre prelibatezze. CAMERIERE Sì, allora noi abbiamo un po’ di crudo. Un po’ di ostriche vi piacciono?

EMANUELE BELLANO Benissimo, grazie.

CAMERIERE Questa qua è un’ostrica irlandese della famiglia “Boutrais”. Questa qua è una francese. È una “David Herve” che si chiama “royale” come ostrica. Fa tre mesi e mezzo al mare e due mesi di laguna.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Piatti di lusso con ingredienti di prima qualità. Ma quando proviamo a fotografarli…

CAMERIERE L’unica cosa che vi chiedo è di non fare nessuna foto a questo qua. Perché ci sono i datteri.

EMANUELE BELLANO I datteri di mare. CAMERIERE I datteri di mare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Un ristorante che serve datteri di mare rischia la chiusura. Considerati una prelibatezza, vengono venduti sul mercato nero a prezzi altissimi e serviti sottobanco in ristoranti gourmet di tutta Italia.

EMANUELE BELLANO Come consiglia di mangiarli i datteri?

CAMERIERE Con un po’ di tabasco se per caso vi piace un po’ piccante. Potete assaggiarli uno con una goccia per provare. Perché dà quell’acidità e piccantezza allo stesso tempo. Però qui si parla di sentire il mare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sentire il mare ecco si potrebbe anche intendere nel senso di rispettarlo il mare e intenderlo come un bene dell’umanità. Non certo mangiando il frutto di mare proibito. Ecco lo sa bene quel ristoratore che impedisce al nostro inviato Emanuele Bellano di fotografarlo il dattero di mare perché sa che è vietato servirlo, sa che vietato anche raccoglierlo. Vengono raccolti lungo la scogliera sorrentina, una delle più belle del mondo, in Campania, poi portati al nord in Liguria, in Toscana, in Lombardia e siccome sanno che è, si tratta di un frutto illegale, quando lo ordinano i ristoratori, usano la parola in codice limone. Poi lo infilano in menù nascosti, paralleli, e li offrono a quei clienti facoltosi, anche magistrati, politici, imprenditori. Ecco uno di questi limoni sarebbe finito anche in quel ristorante che è stato scelto dall’uomo più ricco del mondo, Jeff Bezos.

COMANDANTE ACHILLE SELLERI - CAPITANERIA DI PORTO CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Si allontanano, tornano con una busta di datteri. Eccolo qua, vedi? Apre subito lo scooter. Scambio fatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati allora torniamo sulla vicenda di cui avevamo parlato un paio di anni fa. C’è un’organizzazione criminale che ha sostanzialmente distrutto per raccogliere datteri di mare, illegalmente ovviamente, sei chilometri di costa. Una delle più belle coste al mondo, quella sorrentina. Ora, i biologi hanno anche quantificato il danno per la collettività di questa attività criminale: 5.000 euro a metro quadrato di roccia. Questo perché i datterari, per staccare il frutto, colpiscono a martellate la roccia e in pochi secondi distruggono quello che invece il mare, la vita marina, ha impiegato decenni o anche secoli per formare, cioè la capacità di creare corallo rosso, di alimentare flora e fauna, di essere un’attrazione per il turismo. Inoltre, le istituzioni devono ripristinare la vita su quelle rocce. Ecco, dopo tre anni di indagini la Guardia Costiera di Castellammare di Stabia, coordinata dalla Procura di Torre Annunziata, ha ricostruito tutta la rete criminale. Il nostro Emanuele Bellano.

NUNZIO FRAGLIASSO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI TORRE ANNUNZIATA (NA) Tutti questi soggetti sono gravemente indiziati, innanzitutto del reato di disastro ambientale, del reato di ricettazione e del reato di associazione per delinquere finalizzato alla commissione di una priorità di reati concernenti la pesca illegale dei datteri di mare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’organizzazione di datterari ha operato lungo tutta la penisola sorrentina, devastando irrimediabilmente uno dei fondali più belli al mondo. Simile ai datteri per colore e forma, il dattero di mare è un mollusco che vive in queste rocce tra i due metri e i trenta metri di profondità. La raccolta è vietata dagli anni ‘90. Come lavorano i pescatori di frodo lo vediamo in questo filmato della Guardia Costiera. Il sub con un pesante martello frantuma la roccia ed estrae i datteri, distruggendo allo stesso tempo la vegetazione.

ROBERTO DANOVARO – PRESIDENTE STAZIONE ZOOLOGICA ANTON DOHRN Quello che noi abbiamo e troviamo, adesso i colori sono ancora più belli sottacqua, è questo. Il datteraro per togliere diciamo, per prendere i datteri, comincia a scalpellare. Molti di questi pezzi rotolano e distruggono tutto e vanno sul fondo. Questi muoiono, sul fondo rimangono questi scheletri e questo diventa il deserto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo video girato in una pescheria nella zona di Napoli mostra il boss dell'organizzazione con giacca nera e il casco in mano che consegna in un sacchetto bianco una partita di datteri di mare al proprietario. Alla fine dell'operazione la Guardia Costiera sequestrerà decine di barche e oltre due tonnellate di datteri di mare.

MARCELLO MANFREDI - CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMARE DI STABIA (NA) L’imbarcazione viene sequestrata, il pm ci ha autorizzato anche questo. Nel contempo ha anche autorizzato che una parte di questo prodotto sequestrato venisse immediatamente inoltrato all’istituto zooprofilattico di Napoli per le analisi di competenza e di…

MARCELLO MANFREDI - CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMARE DI STABIA (NA) Barchino a luci spente in ambito portuale.

GUARDIA COSTIERA Sono entrati adesso in mezzo ai pontili, stanno entrando

MARCELLO MANFREDI - CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMARE DI STABIA (NA) Sono entrati adesso in mezzo ai pontili. Dove io vedo la schiuma, dovresti vederlo pure tu.

GUARDIA COSTIERA Una, due… sto cercando di capire quante sagome vedo. Quattro di loro sono a bordo. Sono loro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La barca entra in porto e si avvicina alla banchina. È in quel momento che parte l’assalto ai datterari.

GUARDIA COSTIERA Vai, vai, vai, vai, vai

MARCELLO MANFREDI - CAPO NUCLEO P.G. GUARDIA COSTIERA CASTELLAMARE DI STABIA (NA) Tutti quanti là! Vai, vai!

DATTERARO Ve ne dovete andare, ve ne dovete andare

GUARDIA COSTIERA Luciano, non creare problemi

DATTERARO Non mi interessa, ve ne dovete andare. Ve ne dovete andare. Mi fate diventare pazzo. Andatevene! Vai vai, Elpidio, vai, vai

GUARDIA COSTIERA Esci fuori, esci, esci, vallo a prendere

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I datterari minacciano i militari della Guardia Costiera. Girano l’imbarcazione e fuggono verso la bocca del porto. Alla fine, tutti i pescatori di frodo vengono fermati e portati in caserma.

DATTERARO Però questa telecamera la deve posare. Dobbiamo fare casino? Facciamo casino. Riprendi, riprendi come vuoi. Poi ce la vediamo io e te. Riprendi come vuoi. Scrivi minacce, ha avuto le minacce. Scrivi quello che vuoi tu.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per chi gestisce lo spaccio, l'attività è molto redditizia. I guadagni annui superano il milione di euro.

MILITARE Ventisei, ventisette, ventotto, ventinove, trenta, trentuno...

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A casa di uno dei trafficanti durante il blitz i militari hanno trovato nascosti 18 mila euro in contanti.

DATTERARO Quando tu quindici giorni, venti giorni, non porti soldi e succede che tua moglie si lamenta, i tuoi figli non si possono comprare niente. Voi quando andate a casa non ci pensate a chi ha tre figli, a chi ha quattro figli. Non vi sto facendo una morale, cioè, pensate ogni tanto o no? Solo per capire. Io non mi voglio arricchire, io voglio solo il diritto di vivere.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Piazza Spartaco, nel centro di Castellammare di Stabia. Gli uomini della Guardia Costiera installano telecamere nascoste per osservare quello che succede davanti a questo bar.

COMANDANTE ACHILLE SELLERI - CAPITANERIA DI PORTO CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Sono questi i due soggetti. Si allontanano, tornano con una busta di datteri. Eccolo qua, vedi? Apre subito lo scooter. Il boss, il capo, vedi? Ora si avvicina, quello con la maglia nera che sta al telefono e con un altro telefono in mano. Vedi? Si avvicina. Scambio fatto. Quindi l’organizzazione qual era? Lui dedito alla vendita, l’altro dedito alla conservazione. Quindi fondamentalmente questo qui avrà avuto la richiesta, lo ha chiamato, avrà detto preparami 3 chili, te li porto, lui se li è presi e adesso li stanno andando a consegnare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’selleri ha una struttura piramidale e funziona un po’ come l’organizzazione che spaccia la droga tant’è vero che per il prezzo e anche per il tipo di guadagno che genera il dattero di mare è chiamato anche la cocaina del mare. Lo sanno bene i ristoratori che la offrono proprio ai clienti più facoltosi. Ecco, e vengono offerti in alcuni ristoranti, sono capitati anche ad alcuni magistrati, politici, a imprenditori. Fino a quando c’è stato un cliente che, ingolosito dalla crudité, ha scattato la fotografia al piatto con il dattero e ha inguaiato quel ristoratore. Ma è solo uno dei tanti perché, proprio per accontentare il palato di alcuni clienti facoltosi, i corrieri partono dalla Campania, vanno in Lombardia, in Toscana, in Liguria e i ristoranti, i ristoratori che sanno bene che si tratta di un frutto illegale, secondo almeno quello che sospettano i magistrati, ordinano i datteri definendoli, in codice, “limoni”. E qualche limone è stato anche servito sul tavolo di uno dei ristoranti preferiti da Jeff Besoz.

CONFIDENTE Io ho lavorato con i datteri, che devo fare? Io ho lavorato con questi qua. Ci sta il malavitoso che va con l’amante, con la ragazzina, che vuole mettere il chilo di datteri a tavola. Ci sta il giudice che esce con la puttanella, con l’escort, e vuole il chilo di datteri. Io ho visto i giudici che si mangiano i datteri. Mo, tu che sei giudice… poi vuoi condannare a me? Allora bisogna fermare questi qua per fermare i datteri.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Clienti facoltosi, secondo il confidente, che sarebbero in tutta Italia. La rete di distribuzione coinvolgerebbe ristoranti e negozi del Centro Nord.

TESTIMONE È come la droga. La cocaina è illegale, l’eroina è illegale. Ma la cocaina chi se la tira? Mica quelli che guadagnano 50 euro al giorno. Si prendono la cocaina quando finiscono di lavorare. Chi se la piglia? La gente coi denari. E il dattero pure se lo mangia lo stesso la gente coi soldi. Lo sapete quanto paga una cena uno scemo di questi? 1.500, 2.000 euro. Un chilo, due chili, tre chili. Per un tavolo importante con un séparé. I datteri se li mangiano tutta gente… medici, avvocati, ministri, sindaci. In Campania, tutti ristoranti importanti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Da piazza Spartaco a Castellammare di Stabia vengono organizzati traffici su tutto il territorio nazionale. Il 16 aprile 2019 da questa pescheria di Torre Annunziata nell’hinterland di Napoli parte un furgone con 30 chili di datteri di mare. Entra in autostrada e percorre 600 chilometri. L’uscita è vicino a Milano. Il furgone appartiene alla società Crostacei di Angela Rana che secondo gli inquirenti gestisce lo spaccio sul territorio lombardo di datteri di mare.

EMANUELE BELLANO A me risulta che lei ha acquistato datteri tra Torre Annunziata e Castellamare di Stabia.

ANGELA RANA – TITOLARE “CROSTACEI DI ANGELA RANA” No. Mai, mai.

EMANUELE BELLANO Il signor Luca Visco lo conosce?

ANGELA RANA – TITOLARE “CROSTACEI DI ANGELA RANA” No. Ma io sono sempre andata a vendere frutti di mare e le noci, ma mai i datteri. Ma si figuri. Ma quando mai. Io ho sentito che lui che, però io non c’entro niente.

 EMANUELE BELLANO Ha sentito, scusi, che?

 ANGELA RANA – TITOLARE “CROSTACEI DI ANGELA RANA” Ho sentito che qualcuno li vende di là ma cosa c’entro io? Mi perdoni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli investigatori invece documentano con foto e riprese il suo acquisto di datteri da Luca Visco e Gaetano Guarro, due componenti dell’organizzazione campana che provvede alla raccolta e spaccio di datteri di mare.

EMANUELE BELLANO A me risulta che lei ad aprile scorso abbia acquistato circa una trentina di chili di datteri proprio dalla ditta del signor Guarro Gaetano.

ANGELA RANA – TITOLARE “CROSTACEI DI ANGELA RANA” Ma no. Senta mi perdoni ora mi faccia andare via per cortesia. Il mio, mi interessa…

 EMANUELE BELLANO A me l’unica cosa che interessa capire in realtà è a chi poi sono stati venduti questi datteri.

ANGELA RANA – TITOLARE “CROSTACEI DI ANGELA RANA” Io non ho mai preso queste cose qua.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Secondo gli inquirenti, distributori come Angela Rana acquistano a Castellammare di Stabia grandi partite di datteri di mare e le rivendono in tutta la Lombardia a pescherie e ristoranti.

CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) A Milano è pieno.

EMANUELE BELLANO A Milano è pieno?

CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) Il mercato di Milano è pieno.

EMANUELE BELLANO E chi li vende?

CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) Ma li vendono fuori mercato, fuori mercato di Milano.

EMANUELE BELLANO Ma li vendono alle pescherie o anche nei ristoranti?

CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) Li vendono solo ai privati.

EMANUELE BELLANO I privati, cioè…

CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) Io ti dico oggi attualmente un ristoratore non rischia proprio.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Invece, secondo gli investigatori, sarebbe stato proprio lui a rischiare.

EMANUELE BELLANO Lei avrebbe avuto una spedizione di tre chili di datteri a novembre 2017 poi subito dopo un’altra da tre chili e poi a dicembre due chili e due chili. Due spedizioni.

CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) Qua alla Colombina?

EMANUELE BELLANO Qua alla Colombina.

CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) Neanche ti rispondo.

EMANUELE BELLANO No? CATELLO CESARANO “LA COLOMBINA” - BRISSAGO VALTRAVAGLIA (VA) Mi sembra strano.

 EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’organizzazione di datterari di Castellammare ha consegnato datteri di mare anche in questo ristorante di Legnano, nell’hinterland di Milano. Ad aprile di due anni fa eravamo andati a trovarli. EMANUELE BELLANO Le mie informazioni mi dicono che a gennaio del 2018, tre chili spediti all’inizio di, a metà gennaio, arrivati il 13 gennaio diciamo, poco prima della metà di gennaio e altri tre chili e tre chili tra il 15 e il 16 di gennaio da Castellamare di Stabia.

MARIO ACQUAVIVA – TITOLARE RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) Io non conosco nessuno lì.

MARIO ACQUAVIVA – TITOLARE RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) Ciro.

CIRO AMODIO Dimmi Mario.

MARIO ACQUAVIVA – TITOLARE RISTORANTE “BEL SIT” DI LEGNANO (MI) Me ne mandi tre chili domani? Ce la fai?

CIRO AMODIO Domani mattina. Mario, sempre se vado a mare perché qua è cattivo tempo, eh. Ci dobbiamo aggiornare a domani mattina.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È il 16 gennaio del 2018. I tre chili di datteri di cui il ristoratore di Legnano parla con Ciro Amodio sono solo una parte di quelli che saranno ordinati nei giorni seguenti.

DAVIDE ACQUAVIVA - RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) Cioè secondo te io ho venduto datteri tutto l’anno 2018?

EMANUELE BELLANO Eh, non lo so.

DAVIDE ACQUAVIVA - RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) Cioè noi siamo il più vecchio ristorante di Legnano. Siamo dei professionisti. Puoi guardare tutte le recensioni di the Fork, di Google, e tutto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In realtà uno dei clienti che ha mangiato datteri di mare al ristorante Bel Sit di Legnano li ha anche fotografati e ha postato la foto sul profilo Google del ristorante.

DAVIDE ACQUAVIVA - RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) Non me la tolgono la fotografia perché la foto l’ha fatta lui. Mi sono anche arrabbiato. Questo qua non sono riuscito neanche a contattarlo perché comunque non mi piaceva perché non era una buona pubblicità per parte mia.

EMANUELE BELLANO Perché chiaramente sono illegali no?

DAVIDE ACQUAVIVA - RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) E no, io non lavoro con quella roba lì. E certo che è roba illegale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tra il 2016 e il 2020 la Guardia Costiera ha documentato acquisti da parte dei titolari del ristorante Bel Sit di Legnano per un totale di oltre 300 chili di datteri di mare.

DAVIDE ACQUAVIVA - RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) No, minchia, mi stai dicendo delle cose così, eh. Che noi acquistiamo, abbiamo acquistato non è vero. Uno che fa il ristoratore da 50 anni in una città piccola come Legnano con 70 mila abitanti, se io mi metto, se metto una troia qua dentro stasera, tu pensi che domani non lo sa la città? Una troia. O no? Figurati se mi mettevo a vendere datteri.

CIRO AMODIO Sì Mario, buongiorno, io sto in agenzia. Mo, tanto possono arrivare venerdì che sarebbe domani e tanto possono arrivare lunedì.

MARIO ACQUAVIVA – TITOLARE RISTORANTE “BEL SIT” - LEGNANO (MI) E no, lunedì no, io ch’io una tavolata per sabato Ciro. Questi qui vengono se ci sono, sennò altrimenti non ci vengono, hai capito?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I furgoni pieni di datteri partono dalla piazza dello spaccio di Castellamare diretti in Lombardia, in Liguria e in Toscana. Damiano Colonnacchi ha a bordo 30 chili di datteri quando viene fermato a un controllo di polizia. Era diretto a La Spezia, dove distribuisce i datteri di mare tra la Liguria e la vicina Viareggio.

EMANUELE BELLANO Mi faccia capire, lei che è un po’ nel settore, se io lo trovo a comprare da qualche parte, quanto me lo fanno?

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) Io non avrei idea ma se te lo trovi io penso che non lo puoi pagare meno di 100 euro.

EMANUELE BELLANO 100 euro al chilo? Cioè se io trovo una pescheria che me lo vende, sottobanco ovviamente, il prezzo che devo pagare è sui 100 euro al chilo?

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) Credo di sì, ora come ora… ma poi sai, poi ci sta che tu sotto Natale lo possa pagare anche di più.

EMANUELE BELLANO Ma lei Damiano Colonnacchi lo conosce?

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) Ma lo conosco di vista così perché veniva con suo padre che a quei tempi lì che era un bimbetto. Ora se ti dovessi di’, mi si dovesse presentare anche davanti non so neanche se lo conosco, cioè…

EMANUELE BELLANO Che a me invece risulta che in quest’ultimo periodo, insomma, e in quest’ultimo anno e poco dietro abbiate avuto un po' di contatti su questa questione dei datteri di mare. L’abbia un po' rifornito di datteri di mare.

 MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) No, vai tranquillo, è impossibile. E anche perché ti fanno dei verbali, ti farebbero chiudere.

DAMIANO COLONNACCHI Marco, ascoltami, tu hai detto che ti servono per quando?

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) No, a me mi servono per domenica, comunque prima ce l’hai e meglio è, me li metto su.

DAMIANO COLONNACCHI Te li posso portare venerdì sera ma come anche sabato mattina, no? È uguale?

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE DI VIAREGGIO Sabato mattina va benissimo.

DAMIANO COLONNACCHI Sono inorridito. Mi han detto che c’è la possibilità che non ci riescano.

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) A far che?

DAMIANO COLONNACCHI A pescare.

 MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) Vabbè, se ce ne avessimo meno io ne prendo anche meno. Ne prendo anche tre chili per quel cliente che ho buono.

DAMIANO COLONNACCHI Marco, mi hai chiamato?

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) Ti ho chiamato. Ne potresti aggiungere due chili belli?

DAMIANO COLONNACCHI Te ne aggiungo sì due chili, dai.

 MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) Va bene. Allora sono sette chili in totale. Va bene.

DAMIANO COLONNACCHI Mi pare otto, allora.

MARCO VOLPE – TITOLARE PESCHERIA VOLPE – VIAREGGIO (LU) Va bene. Otto, otto. No, no, otto, otto. Va bene.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I datteri di mare arrivano anche nel cuore di Napoli. Il ristorante si chiama L’Altro Coco Loco. È tra i 17 locali di Napoli recensiti dalla guida Michelin, che gli assegna due forchette. Il proprietario è lo chef Diego Nuzzo.

EMANUELE BELLANO Trattate datteri di mare in questo ristorante?

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI No, è proibito.

EMANUELE BELLANO Trattate datteri di mare?

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI A parte che è difficile che li pescano qui e poi comunque è proibito. Vendere un dattero di mare per, rompere una roccia è proprio veramente impensabile, no?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Secondo la testimonianza che abbiamo raccolto, i datterari si appoggerebbero per la distribuzione a una serie di intermediari.

TESTIMONE Questi hanno distribuito 50 chili. I datteri che sono stati sequestrati l’altro ieri, i 50 chili li hanno distribuiti loro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Proprio questi intermediari avrebbero rifornito il ristorante L’Altro Coco Loco.

EMANUELE BELLANO Te lo chiedo perché a me risultava che lei avesse acquistato delle partite di datteri di mare.

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Mai.

EMANUELE BELLANO Diego Visone lo conosce?

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI No, io mi chiamo Diego Nuzzo.

EMANUELE BELLANO No, Diego Visone è l’intermediario che in qualche maniera gli avrebbe venduto questi datteri di mare.

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Mai, mai acquistati.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In base ai riscontri della Guardia Costiera, il fornitore dello chef Diego Nuzzo sarebbe Diego Visone, un intermediario che si rifornisce dai datterari di Castellammare di Stabia. E per non farsi scoprire lo chef ordina i datteri chiamandoli in codice “limoni”.

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Dieguccio, buongiorno.

DIEGO VISONE Buongiorno Diego, dimmi.

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Senti ti volevo dire per il 23 mi servirebbero 5-6 kg di “limoni” DIEGO VISONE Eh, non ti preoccupare, non ti preoccupare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il titolare del ristorante L’Altro Coco Loco, Diego Nuzzo, è indagato per ricettazione perché in base ai riscontri avrebbe acquistato da Diego Visone datteri di mare per oltre 600 euro e li avrebbe serviti ai tavoli del suo ristorante. EMANUELE BELLANO E quindi secondo lei? Il fatto che insomma io ho dei riscontri che mi dicono invece anche attraverso chi lei sarebbe stato contattato per…

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Ma riscontri di che cosa?

EMANUELE BELLANO Per l’acquisto di datteri di mare da Castellamare di Stabia.

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Ma mi sta prendendo in giro forse? Ma mi stai prendendo in giro? È uno scherzo? Riscontri in base a che cosa? Cioè, uno si sveglia una mattina e dice il Coco Loco ha comprato i datteri. Ma in base a che cosa? Ci sono telefonate? Ci sono foto?

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Diego, mi serve un chilo di “limoni” Diego. DIEGO VISONE Eh, non c’è problema ok.

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI Senti Diegù, tu quanto devi avere?

DIEGO VISONE Sono 670 euro.

DIEGO NUZZO – TITOLARE RISTORANTE “L’ALTRO COCO LOCO” - NAPOLI 670. Domani te li vieni a prendere DIEGO VISONE Eh, non ti preoccupare

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non ce la dice giusta Diego Nuzzo, insomma, come tutti gli altri ristoratori, del resto, quando dice di non sapere nulla dei datteri. È anche cauto quando li ordina, parla di limoni che in codice, almeno secondo la Guardia Costiera di Castellammare di Stabia, si tratterebbe proprio di datteri. Avrebbero le prove certe. Ora, Diego Nuzzo, insomma, come tutti gli altri ristoratori sa che si tratterebbe di frutti illegali, insomma. Ha difficoltà, ovviamente, a parlarne. Il suo ristorante è un’eccellenza, è recensito dalla Guida Michelin che dice che proprio i suoi crudi sono tra i più richiesti. Li avrebbe anche richiesti chi a Napoli, in un viaggio del 2018, ha preferito proprio quel ristorante: Jeff Bezos, l’uomo più ricco al mondo che ha anche deciso di immortalare l’occasione con una foto proprio vicino allo chef. Il frutto proibito 2

·        La Dieta Mediterranea.

Isabella Fantigrossi per corriere.it il 18 settembre 2021. Arriva il caffè sul tavolo e, prima di sorseggiarlo, apre una bustina di zucchero, bianco. Ne versa un po’ nella tazzina. Osservato, spiega: «Ma non ho mai detto che non si può mangiare. Se è per questo sono appena stato in Calabria e ho anche mangiato del salame, non è facile resistere. Pensi che l’altro giorno ero in un bar a Genova, una persona mi riconosce e mi dice: “Ma professor Longo, l’ho vista, ha messo la sambuca nel caffè!”. Beh ma certo, si può. Inutile mangiare mezzo chilo di pane, pasta, pizza e patate al giorno e poi stare a levare quattro grammi di zucchero. Non ha senso». Il punto, insomma, è seguire abitualmente una dieta diversa. Ma, soprattutto – spiega Valter Longo, direttore del Laboratorio Longevità e Cancro di IFOM (l’Istituto Firc di Oncologia Molecolare di Milano) e dell’Istituto di Longevità della University of Southern California di Los Angeles – capire che il digiuno e un certo tipo di dieta possono aiutare a combattere il cancro. O, detto meglio, che la combinazione studiata di dieta per la longevità e di dieta mima digiuno può ottenere importanti effetti anti-tumorali: mangiare poco, insomma, ma bene può ritardare la progressione della malattia nei pazienti oncologici. Valter Longo, biochimico di formazione, nato a Genova nel 1967, quest’anno definito dalla rivista scientifica americana Science come un pioniere nel campo della nutrizione, lo racconta nel suo nuovo libro, Il cancro a digiuno, in libreria per Vallardi dal 20 settembre. È così convinto della sua teoria, Longo, da azzardare una previsione importante: «Oggi sappiamo che quasi una persona su due si ammalerà di tumore. Ma, grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, io credo che in meno di 20 anni sconfiggeremo il cancro. Se ci mettessimo di più, sarebbe davvero sconvolgente. Certo, non è una cosa di domani ma la ricerca scientifica è davvero a buon punto. Ora si tratta di capire quanto anche l’alimentazione possa dare il suo contributo».

La dieta della longevità. Il segreto sta nell’integrazione, dunque, di dieta della longevità e dieta mima digiuno. La prima è un regime pesco-vegetariano che prevede l’assunzione di poche proteine (negli adulti circa 0,8 grammi per chilo di peso corporeo ideale), zuccheri e carboidrati raffinati limitati (in modo da fornire nutrimento senza provocare alti livelli di insulina) e la decisione di mangiare solo nell’arco concentrato di 12 ore al giorno, in modo da digiunare per le altre 12 (nelle persone sane, mentre nella terapia di vari tipi di tumore è consigliabile spingersi fino a 13-14 ore giornaliere di digiuno). «La dieta della longevità andrebbe seguita sempre nell’arco della vita, seppur con differenze di quantità a seconda dell’età, perché ideale per massimizzare la longevità e minimizzare la progressione tumorale».

La dieta mima digiuno. A questo tipo di alimentazione — «in momenti precisi stabiliti dal medico, evitando rigorosamente il fai da te» — , si abbinano poi cicli di dieta mima digiuno, un programma alimentare della durata di 5 giorni chiamato così perché consente di mangiare, anche se poco, e di avere allo stesso tempo gli effetti benefici del digiuno: si tratta di una dieta ipocalorica, ipoproteica (con proteine di origine esclusivamente vegetale), a basso contenuto di zuccheri semplici e che prevede uno studiatissimo bilanciamento tra macro-nutrienti (proteine, grassi, carboidrati, fibre) e micro-nutrienti (vitamine e minerali). Un esempio di menu giornaliero? Caffè decaffeinato o tè deteinato, un bicchiere di latte vegetale, del pane integrale o di segale e un cucchiaio di marmellata senza zuccheri a colazione; a pranzo una zuppa e dell’insalata; come spuntino di metà pomeriggio un frutto fresco e 15 grammi di frutta secca; e a cena del filetto di pesce e della macedonia di stagione con semi misti.

«Jolly terapeutici». «Queste due diete – è convinto Longo – non solo sono in grado di ritardare l’invecchiamento e allungare la gioventù ma possono davvero rendere difficile la vita alle cellule tumorali». Tanto da essere considerate dei veri propri «jolly terapeutici» a rinforzo delle tradizionali terapie anti-cancro come la chemio, l’immunoterapia o le terapie ormonali. Ma qual è il meccanismo con cui agiscono secondo Longo? «Semplificando, è come se il digiuno aiutasse a separare le cellule sane dalle cellule tumorali: mentre le prime sanno come comportarsi perché il digiuno fa parte della storia dell’uomo, le seconde, nel momento in cui vengono affamate, sono in difficoltà. In questo modo è come se le cellule sane fossero silenti, mentre le terapie anti-cancro fanno il loro dovere colpendo solo quelle malate». Questa dinamica, racconta, era già stata dimostrata sui lieviti e sui topi. E ora sembrano andare nella stessa direzione i diversi studi clinici randomizzati sugli esseri umani citati nel libro. Nel frattempo stanno per partire due studi randomizzati, coordinati da Longo, assieme all’università della Calabria per scoprire gli effetti della dieta della longevità sugli abitanti di Molochio e Varapodio e per capire se, dopo tre cicli di dieta mima digiuno e studiando i marcatori della giovinezza, è possibile riportare indietro l’età biologica delle persone. 

L’equipe: oncologo, nutrizionista e biologo. Il cambio di prospettiva è evidente. Si è sempre pensato di dover rimettere in forza il paziente. Ora bisogna mettersi a stecchetto. «Ma non è così. L’obiettivo resta sempre quello di rimettersi in forza ma mangiando diversamente, per mettere il tumore in condizione di fermarsi. Senza mangiare di più ma nemmeno senza la restrizione calorica, una dieta poco sofisticata ideata negli anni passati che conduceva all’anoressia. Io, per esempio, seguo questa alimentazione da quando ho 30 anni, dopo aver scoperto di avere il colesterolo e la pressione molto alta come tutti i miei famigliari. Oggi ho valori nella norma, non prendo farmaci e non sono affatto sottopeso: sono alto 186 centimetri e peso 78 chili». Dunque, le terapie tradizionali guidano la strategia di cura, la dieta si affianca per massimizzarne gli effetti. «L’oncologo, dunque, non basta più. Per guarire dalla malattia o fermarne la progressione è necessaria un’equipe, un team composto dall’oncologo e poi anche da nutrizionista, biologo molecolare e psicologo che possono costruire assieme una strategia più efficace». Realtà o utopia? «Noi ci siamo già. Lavoriamo così nelle nostre cliniche non profit di Milano e Los Angeles che speriamo diventino sempre più grandi. E chiunque può contattare i nutrizionisti della Fondazione Valter Longo Onlus, dove per altro il servizio è gratis per chi non se lo può permettere e per gli altri a basso costo».

La comunità scientifica. Dopo di che, però, c’è ancora scetticismo da parte della comunità scientifica su questa strategia. «Purtroppo è così, dieta della longevità e dieta mima digiuno non sono ancora accettate dalla maggior parte degli oncologi come aiuti alle terapie tradizionali. Non si tratta però di cure alternative, quello che raccontiamo è frutto di ricerca scientifica e di anni di lavoro continuo all’Ifom di Milano e a Los Angeles in collaborazione con oncologi di tutto il mondo. Ora dobbiamo solo andare avanti con la ricerca e gli studi per dimostrare definitivamente la bontà dell’idea». Convinti, intanto, lo sono senz’altro i genitori di Longo: «Vivono a Genova, mio papà ha 96 anni e mia mamma 86. E da tempo seguono le mie indicazioni. Ma non è difficile: in fondo la dieta della longevità è ciò che loro mangiavano durante la guerra: verdure, molti legumi e un po’ di pasta. Con loro sono uno stratega – sorride -. Parlo con il geriatra, il neurologo, il cardiologo, ascolto tutti e poi li metto in collegamento. Certo, il sogno sarebbe riuscire a fare così con tutti, non solo con i miei genitori».

Valter Longo: «Ecco come il digiuno può aiutare a combattere il cancro». Alice Politi il 12 settembre 2021 su Vanityfair.it. A distanza di 5 anni da La dieta della Longevità, esce Il Cancro a digiuno, nuovo saggio firmato da Valter Longo, pioniere nella ricerca su nutrizione e tumori. Dal modo in cui il digiuno agisce sulle cellule tumorali a ciò che potremmo aspettarci da qui a dieci anni, ecco cosa ci ha spiegato in questa intervista esclusiva. Quanto il digiuno possa essere importante nel rallentare il processo di invecchiamento, favorendo il rinnovamento cellulare lo aveva già ampiamente spiegato con il libro La dieta della Longevità, uscito nel 2018 e subito diventato un bestseller mondiale. Come invece la dieta mima digiuno (lo schema alimentare che consente di mangiare e, contemporaneamente, di avere sul proprio corpo gli stessi identici effetti del digiuno) possa aiutare a prevenire e curare molti tipi di tumore, anche negli stadi avanzati, Valter Longo lo dimostra adesso con Il cancro a digiuno, nuovo saggio edito da Vallardi – in libreria dal 20 settembre – destinato ad ampliare la prospettiva sul ruolo che la nutrizione può rivestire non soltanto nel preservare la salute ma anche nel riconquistarla. Professore ordinario di Gerontologia e Scienze Biologiche, direttore dell’Istituto di Longevità presso la School of Gerontology alla University of Southern California di Los Angeles e del Laboratorio di Longevità e Cancro all’Istituto di Oncologia Molecolare IFOM di Milano, in questa sua nuova pubblicazione il biochimico Longo spiega i dati raccolti in decenni di ricerca di base e clinica, che dimostrano come un uso controllato di dieta mima-digiuno e dieta della longevità possa aiutare a prevenire, ma anche a sconfiggere, le patologie tumorali, togliendo nutrimento solo alle cellule malate. Lo abbiamo intervistato per comprendere meglio la portata dei suoi studi e ipotizzare dove tutte queste importanti evidenze potrebbero condurci da qui ai prossimi dieci anni.

Professor Longo, Il cancro a digiuno esce a distanza di cinque anni da La dieta della longevità. Che cosa è successo di importante nel frattempo?

«Sono successe sostanzialmente due cose, una nell’ambito della prevenzione e una riguardo agli studi clinici. Da una parte, è diventato sempre più chiaro che il cancro si può prevenire – o almeno lo si può fare per una grossa fetta di tumori – e questo grazie a studi genetici, e relative pubblicazioni, sugli effetti di chi mangia poche proteine e chi invece ne mangia tante. 5 anni fa, inoltre, mancavano tutti gli studi clinici e il nostro era l’unico laboratorio che pubblicava studi sul digiuno dei topi, mentre adesso i laboratori che lo fanno sono molto più numerosi e con tutti con pubblicazioni positive. Infine, ci sono ora studi clinici, ovvero studi relativamente ampi – tra cui uno con 125 pazienti, citato nel libro – che mostrano gli effetti potenti della mima-digiuno su donne malate di cancro al seno».

Nel libro, si evidenzia la preziosità di un approccio medico di “squadra” (che comprenda cioè l’oncologo ma anche un dietista, un nutrizionista, etc.) nell’affrontare la cura di un tumore. Perché è importante farlo?

«All’interno degli ospedali ci si ostina a dire che il paziente nutrito con la carne vive e reagisce meglio alle cure. C’è molta insistenza in tal senso, perché non si sapeva ancora nulla della relazione tra alimentazione e cancro. L’assunto del nutrizionista e del dietologo è da sempre proprio quello di dar da mangiare il più possibile al paziente. Adesso però si cominciano ad avere una cinquantina di relazioni che dimostrano che non importa che tumore è, non importa che tipo di terapia è, ma mettendo il tumore a digiuno qualsiasi terapia funziona molto meglio. Chiaramente, al momento, questo team con multiapproccio al tumore è raro, noi lo abbiamo a Los Angeles e a Milano grazie all’intervento dei nutrizionisti della Fondazione, ma è ancora difficile vederlo nella pratica quotidiana delle cure oncologiche di tutto il mondo».

Soffermiamoci sul focus del suo libro: che ruolo può svolgere l’alimentazione nella gestione e nella cura di un paziente con tumore?

«L’alimentazione può essere centrale ma è ovvio che si deve guardare, da un lato, alle cellule tumorali e, dall’altro, al paziente. Si è sempre alla ricerca di una pallottola magica che vada a uccidere il tumore e prima o poi arriverà, ma l’alimentazione, nel frattempo, ci permette di operare un’eccezionale distinzione fra cellule normali e cellule del cancro: le cellule normali sanno esattamente cosa fare quando noi non mangiamo, perché il digiuno è parte della nostra storia; le cellule tumorali, invece, si trovano in grande difficoltà e si rifiutano di fermarsi, nonostante il digiuno le renda “affamate”: questo dà un potere notevole alla terapia antitumorale in atto, che si tratti di chemioterapia, immunoterapia o terapia ormonale. Stiamo vedendo dai primi studi clinici che questa strategia funziona: la rivoluzione messa in atto attraverso la dieta mima digiuno rende il tumore meno resistente e più sensibile alle terapie. La scoperta più nuova, in tal senso, è legata all’immunoterapia: stiamo notando che, nei topi, quando il digiuno è unito all’immunoterapia risulta molto più potente e rende più visibile il tumore al sistema immunitario».

In modo specifico, come agisce il digiuno sulle cellule tumorali? 

«Uso una metafora: se mettessimo un miliardo di persone nel deserto per 15 giorni e avessero ombra e avessero acqua, dopo un paio di settimane quelle persone sarebbero probabilmente tutte vive. Se invece quel miliardo di persone (le cellule tumorali) fossero obbligate a correre per due settimane (l’atteggiamento di tali cellule) ma fossero private dell’acqua (che nel caso del paziente con tumore sarebbe il cibo) e costrette a stare sotto il sole (che sarebbe la chemioterapia o altre forme di terapia), quante persone sopravviverebbero dopo due settimane? Forse nessuna».

In quali tipi di tumori, in particolare, si sono riscontrati miglioramenti inserendo nella terapia il digiuno o la dieta mima digiuno? 

«Negli studi condotti su animali, in tutti i tipi di tumore. Quelli clinici, al momento, si sono invece focalizzati sul cancro alla mammella, su quello alle ovaie e ultimamente sul cancro alla prostata. Su cancro alla mammella e chemioterapia iniziano a esserci già dati molto positivi, diciamo che mancherebbe uno studio condotto su 300 o 400 pazienti per far sì che questa possa diventare una terapia standard».

Sulla base di ciò che ha scoperto fino a questo momento, che cosa si può fare per prevenire lo sviluppo di tumori e mantenersi in salute?

«Si possono fare varie cose: seguire una dieta pescetariana, ovvero mangiare pesce (a basso contenuto di mercurio) una o due volte la settimana così da limitare l’eccesso di proteine. Perché, lo abbiamo dimostrato noi e l’hanno confermato altri: troppe proteine di origine animale sono associate con l’aumento del rischio di tumori e quindi una dieta pescetariana, associata a un po’ di pasta, tante verdure e tanti legumi, rappresenta il pranzo o la cena ideale. Il tutto rispettando la regola delle 12 ore al giorno in cui concentrare tutti i pasti: dalle 8 del mattino alle 8 di sera o dalle 9 del mattino alle 9 di sera, permettendo al corpo un successivo digiuno di 12 ore. Se si è in sovrappeso, inoltre, può aiutare mangiare due volte al giorno limitandosi a un pranzo di sole 100 calorie. Personalmente, quando prendo peso, salto il pranzo e mangio 100 calorie di noci o una piccola insalata con un po’ d’olio. Lo faccio per 5 giorni alla settimana e questo mi permette di controllare il peso senza cambiare dieta. Infine, adottare la dieta mima digiuno, due o tre volte all’anno, può essere d’aiuto per la maggior parte delle persone che non sono sovrappeso ma tendono ad avere più peso di quanto vorrebbero».

Lei ha coniato il termine “iuventologia”; di cosa si occupa esattamente?

«Con il termine iuventologia si intende il periodo della vita in cui rimaniamo giovani e in salute, il cosiddetto Health Life Span. Si tratta di un periodo che non è mai stato studiato e del resto non esisteva neanche una parola che lo definisse. Prende origine dalla domanda: “Fino a quanto si resta giovani?” Oggi diremmo che la iuventologia arriva fino ai 40 anni, ma è possibile spostare questo periodo di gioventù dai 40 ai 60? Ovviamente è possibile, ma come lo spostiamo? Perché una volta spostato l’health life span (la durata della vita in salute), tutto viene spostato, anche la durata della vita stessa. Essendo tutto interconnesso, il punto è studiare pertanto come mantenere le persone giovani e non solo sane».

Ci sono evidenze legate al fatto che il modo in cui ci alimentiamo può essere uno dei fattori chiave che accelerano il processo di invecchiamento?

«In effetti, il cibo è al centro della vita e dell’evoluzione, controlla ogni cosa: se una donna può rimanere incinta o meno, la crescita di un bambino, tutto. Basterebbe non mangiare per un paio di giorni e il metabolismo verrebbe subito influenzato come in nessun altro modo. Il cibo è molto di più di come noi lo vediamo, controlla anche i programmi di longevità. Se guardiamo agli ultimi 1000 anni, notiamo che l’allungamento della vita è stato possibile grazie a una maggiore assunzione di calorie. La restrizione calorica, però, può avere anche effetti positivi. All’interno del nostro laboratorio, focalizziamo il lavoro proprio sull’ottimizzazione della parte positiva del cibo, a proposito di digiuni, di quante ore al giorno si mangia, di dieta, di tipi di dieta».

Esiste una relazione anche tra cibo e sviluppo dei tumori?

«Al momento, esistono varie pubblicazioni negli Stati Uniti sulla relazione tra proteine animali e cancro, dalle quali emerge che gli americani che mangiano molte proteine animali hanno un rischio di sviluppare malattie da tumore da tre a quattro volte più alte rispetto a chi ne mangia meno. Il cibo è chiaramente centrale anche in tal senso, un esempio sono le persone che vivono sulle montagne dell’Ecuador con la Sindrome di Laron, a cui manca il gene che viene attivato dalle proteine e che al tempo stesso non sviluppano quasi mai tumori. Lo stesso si verifica in aree del medioriente e chiaramente i tumori sono controllati da questi geni. In definitiva, palesemente la dieta, sia dal punto di vista dell’assunzione di proteine sia per lo sviluppo dell’obesità, può avere un’influenza. C’è anche il tema del biologico: chi mangia cibo bio abbassa di un quarto il rischio di sviluppare tumori rispetto a chi mangia cibo normale e questo vuol dire che chi ingerisce cibo ricco di tossine corre un rischio più elevato di tumori. Si tratta ovviamente di studi di correlazione, nessuno lo ha mai dimostrato clinicamente ma sappiamo che certe tossine sono cancerogene, come dimostra una recente causa americana vinta contro alcuni pesticidi, colpevoli di aver favorito la formazione di linfomi».

Le sue ricerche e i suoi studi hanno come obiettivo generale quello di scoprire i meccanismi che possono ritardare l’invecchiamento cellulare. Sulla base di ciò che si sta scoprendo, da qui a dieci anni che cosa potrebbe cambiare?

«Possiamo aspettarci, nel nostro caso, le dimostrazioni pratiche di ciò che sosteniamo. Allo stato attuale abbiamo tre studi in atto sul diabete che completeremo entro il prossimo anno. È da tanti anni che parliamo degli effetti cardiometabolici e usciremo con 4 studi sul diabete e sulle malattie cardiovascolari. Penso che da qui ai prossimi dieci anni passeremo da una realtà in cui i farmaci hanno sempre dominato in esclusiva a una realtà dove la nutrizione sarà al pari protagonista delle terapie, al punto, come nel caso del diabete, da arrivare addirittura a sostituire i farmaci. Il cibo verrà usato come farmaco e non per “mettere una pezza al problema” ma per riportare indietro il paziente a uno stato di piena salute.  Già oggi, tramite la nostra Fondazione, abbiamo portato centinaia di persone diabetiche e prediabetiche a uno stadio antecedente la malattia. E vedo proprio questo nei prossimi 10 anni quando, soprattutto medici giovani o più illuminati, diranno basta all’escalation di 60-70enni imbottiti di farmaci che non hanno neanche una funzione curativa».

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'8 settembre 2021. "7 chili in 7 giorni", il famoso film degli anni' 80 con Carlo Verdone e Renato Pozzetto, ambientato in una clinica per dimagrire, con risultati surreali e fumettistici per i pazienti in cura, era una commedia esilarante, come commedie esilaranti sono le previsioni dei cali ponderali immediati promessi soprattutto in questi ultimi mesi da migliaia di regimi dietetici pubblicati su riviste e lanciati sui media, che si dichiarano scientificamente provati ed approvati, perché 7 chili in 7 giorni sono clinicamente impossibili da perdere in una settimana, nonostante quasi tutti lo promettano ingannando migliaia di persone in sovrappeso, dal momento che la perdita di "peso" non è veritiera ma soltanto illusoria. La più famosa è chiamata "la dieta del cardiologo" che nulla ha a che fare con i chili di troppo, poiché si tratta di un regime ospedaliero applicato ai pazienti che si devono operare con urgenza al cuore, i quali in 5/7 giorni devono scendere rapidamente di peso per non compromettere l'esito dell'intervento chirurgico, e consiste in una blanda restrizione calorica aggiunta alla somministrazione massiccia di potenti diuretici per eliminare i liquidi trattenuti in eccesso, quelli che nei cardiopatici sulla bilancia appaiono come chili di grasso, mentre i realtà ad essere eliminati sono solo i litri di acqua che ristagnano nell'organismo appesantendolo dalle caviglie ai polmoni, per gravi insufficienze cardiache e renali di smaltimento.  In queste settimane, dopo il lungo periodo di lockdown e varie quarantene imposte dal Coronavirus, e soprattutto dopo le sospirate vacanze in cui ci si è potuti sedere al tavolo dei ristoranti a pranzo e cena gratificando il palato e l'umore, sulle riviste e sui media impazzano regimi alimentari che promettono di eliminare in breve tempo i chili di troppo accumulati, elencando diete miracolose che di miracoloso hanno solo il nome, in grado comunque di essere attrattive e provocare forte impatto psicologico sulle persone che intraprendono ignare tali percorsi dietetici descritti "di comprovata efficacia scientifica", con restrizioni caloriche più dannose che utili allo scopo, che innescano processi metabolici che nessun medico consiglierebbe. Nell'elenco dei benefici associati a tali regimi si legge di tutto, dalla detossicazione endogena al miglioramento dell'assorbimento dei nutrienti, all'influenza sull'assetto infiammatorio e immunitario sull'energia fisica, lucidità mentale e sul rafforzamento della memoria, alla liquefazione della massa grassa viscerale con protezione di quella magra muscolare e di quella ossea, con modulazione del profilo lipidico, supporto all'equilibrio metabolico, contrasto all'invecchiamento e conseguente prolungamento della longevità e finanche al rinnovamento cellulare a base di cellule staminali che come per incanto, grazie alla dieta e al digiuno prolungato, inizierebbero a produrre cellule nuove, neonate e vitali che invadono l'intero organismo e la sua superficie cutanea, con l'agognato effetto antiage, splendido e ringiovanente. Se si è in buona salute dimagrire è difficile, si fa fatica a seguire un piano dietetico per il tempo necessario a produrre risultati, e spesso ci si arrende ai piaceri della tavola, ma il tempo è un elemento essenziale e necessario, perché non si perde peso drasticamente in due/tre settimane e non esistono formule magiche, regimi alimentari drastici, integratori che bruciano lipidi, che ne impediscano l'assorbimento, cure miracolose o pasticche ad azione rapida, specialmente se si è impazienti di veder scendere l'ago della bilancia di oltre 1 kg a settimana, che è il massimo che si può ottenere durante le prime fasi di una dieta, per poi perdere sempre meno chili e lentamente quelli reali di grasso di deposito. Tra tutte le diete che circolano in giro non ce n'è una che funzioni per tutti e per tutta la vita, come è naturale che sia, per cui il "mercato" delle diete generiche e personalizzate prolifera incontrastato, senza dare alcuna importanza al valore della nutrizione a lungo termine o all'educazione alimentare intesa come prevenzione di gravi malattie correlate al sovrappeso e all'obesità, molte delle quali letali, ma solo con il miraggio di perdere peso, alleggerirsi e snellirsi in poche settimane a fini estetici, per ridurre la pancetta, i fianchi o le cosce, con lo specchio che diventa un amico insidioso e infedele in grado di alimentare ossessioni pericolose fino ai serissimi disturbi alimentari che ormai compaiono in ogni età. In realtà i tempi e le modalità con cui si perde peso non sono mai così lineari come ci si aspetta, influenzati come sono da molteplici fattori, soprattutto metabolici ed ormonali, individuali e differenti da persona a persona, determinati dai vari stati clinici e medici, che non hanno una metrica applicabile a chiunque e quasi mai si adattano a brevi e ristrette finestre di tempo. All'inizio di ogni dieta che si rispetti è accertato che si perdono di norma più litri che grassi, per eliminare i quali diventa complicato senza un'attenta osservazione medica, senza una guida clinica, senza maggiori sacrifici per cambiare i comportamenti abituali e sociali, e senza far diventare il cibo un nemico della linea, perché esso, è bene ricordarlo, è l'unica fonte primaria di energia per tutte le cellule del nostro corpo, oltre che una fonte di benessere fisica e mentale, quella che ci consente di restare attivi e soprattutto vivi e in buona salute.

Marino Niola per “la Repubblica” il 22 agosto 2021. A voi sono vietati gli animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato altro nome che quello di Allah. Così comanda la Sura quinta del Corano, soprannominata al-mâ'ida, cioè La tavola imbandita. Che divide i cibi in due grandi categorie. Quelli consentiti, detti all, e quelli proibiti, detti arm, cioè impuri. Sono all le carni ovine e bovine, purché macellate ritualmente per eliminare il sangue. Permessi anche i pesci con spina e squame. Mentre sono vietati molluschi e crostacei. La lista delle carni interdette si apre con il maiale, ma il cane e il coniglio sono egualmente arm. Anche il vino e le bevande inebrianti sono off limits per i devoti di Allah. In realtà, molte delle prescrizioni e delle interdizioni coraniche somigliano a quelle ebraiche. Forse perché, come dicono eminenti studiosi, risalgono alle culture che abitavano il Medio Oriente preislamico e in parte sono dettate da ragioni che sono insieme etiche e dietetiche, ritualiste e salutiste. Fatto sta che questi precetti sono alla base di molti piatti della gastronomia globale come il kebab, il cuscus, lo zimino, l'hummus, i dolma, il falafel o la moussaka. E di molte specialità della pasticceria italiana e spagnola, dove l'influenza islamica è passata attraverso la penetrazione arabo- berbera. Da questa mescolanza di preparazioni e di devozioni sono nati gli alfajores e i fardelejos ispanici, gli sfinci siciliani, dall'arabo isfang, i cannoli, le cubbaite, cioè i mandorlati, che è il significato letterale dell'arabo qubbiat. Dolci che nascono dal divieto di usare grassi animali nella preparazione, sostituendoli con miele e ricotta. Ma perfino l'uso mediterraneo di condire il pane con i semi di sesamo è dovuto all'egemonia moresca. Così come la diffusione della farina di ceci, con cui si preparano le popolarissime panelle palermitane, la celebre fainâ genovese, la fainè sarda, la cecina toscana, la bélecauda tortonese, la padellata ferrarese, la soccaprovenzale, la cade tolonese, la calentita andalusa. Si può dire che il meglio delle nostre cucine derivi dall'incontro e dallo scontro tra i tre grandi monoteismi. Passioni, ossessioni, somiglianze e differenze. E anche se oggi balza agli occhi soprattutto quel che separa le due sponde, le genti mediterranee restano parenti-differenti. Basti pensare all'onnipresenza di alimenti come cereali, olio d'oliva e vino, sacri a tutti i culti e le culture del bacino. Dall'ebraismo, che consacra con l'unzione i re, i sacerdoti e i profeti. Al cristianesimo che trasforma il pane nel corpo del dio incarnato e l'olio nella materia della segnatura divina di Cristo, letteralmente "l'unto". Fino all'Islam, dove la ventiquattresima Sura del Corano, nel cosiddetto Versetto della Luce, paragona Allah all'ulivo. E se adesso il vino segna una frontiera fra i due mediterranei, a lungo non è stato così, tant' è che i protagonisti delle Mille e una notte, brindano spesso e volentieri. Perché in realtà nelle sure meccane, quelle che precedono l'Egira, il trasferimento di Maometto dalla Mecca a Medina che nel 622 d.C. dà inizio all'era musulmana, non c'è traccia della proibizione del vino. La Sura 16, detta an-nahl (le api) dice addirittura: «Pure dai frutti dei palmeti e delle vigne ricavate bevanda inebriante e cibo eccellente». L'interdizione compare invece nelle sure medinesi, quando l'Islam è diventato religione di Stato caricandosi di valenze politiche e identitarie. «In verità col vino e il gioco d'azzardo - dice la Sura quinta - Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordo di Allah». È allora che la rinuncia al vino diventa un comportamento che fa la differenza tra i credenti della Mezzaluna e tutti gli altri popoli. In realtà le cucine, proprio come le religioni, del Mediterraneo e poi dell'Europa, si sono costruite l'una sull'altra, l'una dopo l'altra, l'una contro l'altra. Ecco perché se la religione di Mosè e quella di Maometto sono caratterizzate da un alto numero di tabù alimentari, quella di Cristo è praticamente onnivora. E anche questo è scritto nei testi sacri, a cominciare dai Vangeli, dove non c'è traccia di cibi proibiti. Fino alla Lettera di san Paolo ai Corinzi, dove si dice che ogni specie animale o vegetale che si trova sui banchi del mercato può essere consumata senza problemi. Perché «del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene». L'unico precetto cristiano è la temperanza. Con le parole di oggi, l'abbondanza frugale come antidoto contro l'egoismo bulimico. Una disciplina del corpo e dell'anima che nelle diverse confessioni si riflette nei digiuni e nelle astinenze che costellano la pratica devota. Dallo Yom Kippur ebraico al Ramadan islamico, da quello interminabile dei cristiani copti d'Egitto, cui L'Espresso ha dedicato di recente un bellissimo servizio di Angiola Codacci Pisanelli, alle continue rinunce che punteggiano l'anno induista. Nonché quello ortodosso, che prevede oltre a quello quaresimale, il digiuno per la Dormizione di Maria, dall'1 al 14 agosto, quello per la decollazione di san Giovanni e quello della Vigilia dell'Epifania. Fino alla disciplina cristiana della Quaresima e dei giorni di magro. Questa millenaria stratificazione di usi e consumi, di precetti e ricette, di tradizioni e devozioni vive ancora nelle nostre abitudini alimentari. Anche se ce ne siamo dimenticati. Il venerdì mangiamo ceci e baccalà perché una volta era giorno di magro. E la cascata di branzini, ostriche e salmone, cotechini e capponi, agnelli e primizie che trasforma le feste comandate in orge proteiche è quel che resta dei banchetti sacri in onore del dio che nasce, del dio che muore, del dio che rinasce. Siamo quel che mangiamo o siamo quel che mangiano i nostri dei? E anche se non c'è più religione, oggi fioretti e penitenze, ascetismi e astinenze tornano nel rigore precettistico delle mille diete cui ci sottoponiamo. Prima di tutto perché siamo in cerca di regole e decaloghi. Non più per essere puri ma per essere depurati. Non più per la salvezza dell'anima ma per la salute del corpo. Non più per il timore del giudizio divino ma del verdetto inesorabile della bilancia. Che ormai ha sostituito la coscienza. Riducendo la vita a girovita.

·        Eataly.

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2021. Farinetti, 66 anni non sono pochi per scrivere un'autobiografia da 585 pagine? «Non l'ho scritta io, ma la scimmietta che da sempre mi porto sulla spalla». 

Negli ambienti editoriali si mormora che gliel'abbia scritta Baricco, o qualcun altro degli scrittori amici suoi.

«Ho sentito anch' io questa storia. Ne sarei felice: Alessandro è la persona più intelligente che abbia mai conosciuto. Ma le assicuro che l'unica responsabile è la scimmietta». 

La prenderanno in giro.

«Ognuno di noi è due persone. Essere uno solo sarebbe noioso. Oscar ad esempio è sereno, un po' pigro, preferisce leggere piuttosto che scrivere. Ma la scimmietta che si porta sulla spalla è inquieta, non è mai contenta, mai stanca. E preferisce scrivere che leggere».

Lei nel libro si apre molto. Racconta pure la sua prima polluzione.

«Avevo dodici anni. Stavo correndo per andare a servire messa da chierichetto per don Valentino, ero in affanno, agitato, e a un certo punto mi sono sentito bagnare i pantaloni. Ci ero arrivato vicino già qualche giorno prima, quando dovevo consegnare un compito in classe ed ero in ritardo. Quel giorno ho capito che l'inquietudine per me era piacere». 

A don Valentino lei disse che non credeva più in Dio.

«Era arrivato il Sessantotto e non ero più tanto sicuro che Dio esistesse. Lui mi rispose: "Esiste, esiste. Ma, nel dubbio, tu continua a comportarti bene". Don Valentino la pensava come Pascal». 

Lei sta da tutta la vita con la stessa donna.

«Senza di lei non avrei fatto niente. Graziella aveva 19 anni e vendeva latte alla fiera del Tartufo di Alba. Passai davanti al suo stand cantando "Bevete più latte, il latte fa bene". Ci sposammo quasi subito. Prima notte di nozze in tenda, sotto il Monte Rosa». 

Romantico.

«Mica tanto. Nel mio egotismo, anziché "ti amo", le dicevo: sei contenta che mi piaci? Poi la portai a Venezia, in una pensione a una stella». 

Qual è il suo primo ricordo?

«Mio papà al lavoro da mattina a sera nel pastificio di famiglia, in pieno centro ad Alba, dove ora c'è una libreria. Impazziva per fare i tajarin arricciati a nido: li inventò lui, e li chiamò langaroli. Allora non sapevo che quell'uomo infarinato dalla testa ai piedi era un eroe». 

Un eroe?

«Ogni volta che camminavo con lui per strada, qualcuno lo fermava per ringraziarlo. Erano i parenti dei condannati a morte che aveva liberato, durante la Resistenza». 

Come andò?

«Una scena da film. Papà si era vestito da contadinaccio ed era arrivato davanti al carcere con un pacco troppo grande per passare dalla porta. Con quello stratagemma si fece aprire, poi puntò la rivoltella alla tempia del secondino, fece entrare due compagni, a mitra spianato liberarono diciassette prigionieri; poi fuggirono a piedi evitando i colpi dei fascisti che sparavano dalle finestre».

Lei in realtà si chiama Natale.

«Sì, come il nonno. Ma mio padre volle che fossi Oscar, come un suo uomo caduto in combattimento». 

Si mormora anche del tesoro della Quarta Armata, diviso tra la Curia di Alba e i capi dei partigiani rossi, tra cui suo padre

«In casa ne ridevamo: dove avremo nascosto questo tesoro, visto che siamo pieni di debiti? Quando aprimmo il primo negozio di elettrodomestici, che papà volle chiamare Unieuro perché sognava l'Europa unita, i tassi passarono dal 6 al 24%. 

Amavo il week-end; perché dal lunedì mattina al venerdì sera le banche ci telefonavano per chiederci di rientrare». Poi lei ha puntato su Eataly . L'orgoglio italiano. «Non mi piacciono quelli che si proclamano orgogliosi di essere italiani. Mica hanno fatto loro il Colosseo. Io sono riconoscente di essere italiano». 

Perché ha aperto a Torino?

«Perché da Torino è iniziato tutto. L'unità d'Italia, l'automobile, il partito liberale, il partito comunista, la penna a sfera Bic, i pelati Cirio, la televisione. Pensano che la moda sia nata a Milano, le cooperative a Bologna, il cinema a Roma. Non è vero, sono tre primati torinesi». 

Poi a Tokyo. E ha fallito.

«Bagno di sangue. I giapponesi mangiano italiano una volta al mese e ordinano uno spaghetto in due». 

L'ha salvata l'America.

«Con Joe Bastianich andiamo a trattare l'affitto del palazzo più strategico di New York, all'incrocio tra la Quinta e Broadway. 

La mia scimmietta mi suggerisce di offrire due milioni e mezzo di dollari. Joe mi dice: sei matto, il proprietario chiede più del doppio. Ma la scimmietta aveva intuito che era disperato: nel febbraio 2019 la crisi era nera. Infatti cedette. Il giorno dell'inaugurazione c'era una coda di tre isolati. Venne Bloomberg, che allora era sindaco, ma chiuse la cerimonia prima che potesse parlare il mio amico Carlin Petrini, venuto apposta da Bra. Ci rimasi male più io di lui». 

Lei scrive che deve molto al Sud: «Se anziché pizza e pasta avessi venduto solo polenta, non avrei avuto tanto successo». Ma l'unico Eataly che ha aperto al Sud, quello di Bari, ha chiuso.

«Perché davanti vendevano il caffè a 60 centesimi e il panino con la birretta a due euro; al confronto i nostri prezzi apparivano esagerati». 

È per questo che non investe al Sud?

«Io ho investito al Sud! Ho appena comprato un'azienda vinicola sull'Etna. Il Mezzogiorno è meraviglioso, e ce la farà. Ma non ne posso più di sentirmi dire che la colpa dei loro guai è tutta dei piemontesi. 

Con le colpe degli altri non si va da nessuna parte. In Sicilia ci sono più di 1.600 chilometri di costa, tra le più belle del mondo. Quella, Garibaldi non l'ha portata via. In Romagna la costa è lunga meno di cento chilometri e non è la più bella del mondo. Ebbene, in Sicilia ci sono cinque milioni di turisti, in Romagna venti. È colpa dei romagnoli?». 

Mancano le infrastrutture.

 «Che infrastrutture hanno più di noi in Thailandia? Eppure hanno più turisti che in Italia. E l'86% del turismo internazionale si concentra da Roma in su. A proposito: l'altro giorno ho incontrato Virginia Raggi. È una donna molto intelligente».

Nel libro si racconta l'incontro con Matteo Renzi.

«Ottobre 2009. Era appena diventato sindaco di Firenze, se la menava un po' da Magnifico. Me lo trovai di fronte a Torino. Lo portai in giro per Eataly . Era veloce, anzi velocissimo. Capiva al volo le dinamiche di un'azienda. Divorò un piatto di carne cruda da gran goloso. Lo confesso: me ne innamorai». 

Dicono che ora sia un uomo d'affari.

«A me non ha mai chiesto un euro. E quando venne a Expo da presidente del Consiglio a mangiare la carne cruda, pretese di pagare. Detto questo, forse ha sbagliato a personalizzare il referendum». 

È vero che le chiese di fare il ministro?

«Entrato a Palazzo Chigi, mi spiegò che aveva bisogno degli amici per governare il Paese. Ma io faccio politica con il mio mestiere di imprenditore italiano nel mondo».

Dopo la vittoria del No, lei disse al Corriere che Renzi doveva sparire.

«Sarebbe stato richiamato e portato in trionfo. Invece ha continuato a sbagliare: da ultimo creando il suo partitino, anziché restare nel Pd. Ma è stato uno dei migliori premier che l'Italia abbia avuto. Non rinnego l'amicizia. 

Anche se, quando mangiamo insieme un piatto di carne cruda, non riusciamo più a sentire il meraviglioso sapore di quel giorno d'ottobre del 2009». 

Come è stata la botta del Covid?

«Durissima. Meno 60% in America, che è il posto dove guadagniamo di più; anche se la sede è ad Alba, e io sono un contribuente italiano». 

Angelo Gaja, il genio del vino, disse che per la prima volta in vita sua aveva trovato Farinetti di cattivo umore.

«Ero avvilito perché avevo appena lasciato ai figli: Francesco capo di Green Pea, il primo retail "verde"; Nicola di Eataly ; Andrea delle nostre 19 aziende agricole. Soffrivo nel vederli in difficoltà. Ma ne stiamo uscendo. In piena pandemia abbiamo aperto Dallas, Londra, il secondo Eataly di Seul. Quindici giorni fa abbiamo riaperto Tokyo. Stiamo cercando un socio in Cina. E abbiamo trovato il modo di esportare la razza piemontese in America».

Esportare carne europea in America è vietato.

«Sì. Ma esportare lo sperma è consentito. Così abbiamo aperto un allevamento di vitelli piemontesi nel Montana. Ho un solo cruccio». 

Quale?

«Non si trovano dipendenti. Ora vorrei assumere i profughi afghani. Trovare italiani è durissima». 

Basterebbe pagarli meglio.

«Sono d'accordo. Salario minimo a 1.500 euro netti». 

Lei non paga tutti i suoi dipendenti 1.500 euro netti.

«Perché lo Stato tassa troppo il lavoro. Dovremmo mantenere un sussidio per i veri poveri, e con gli altri soldi del reddito di cittadinanza abbattere il cuneo fiscale». 

Vede che lei vorrebbe fare politica?

«Una volta ho riunito soci e familiari e per scherzo ho annunciato di voler fondare un partito: INV, Io Non Voto. Partiamo dal 30%. Prima mossa: anziché stare sempre in campagna elettorale, si vota una volta sola, ogni cinque anni, per nazione, regione, comune. Doppio turno, come per i sindaci. Chi vince governa; mica si può sempre delegare ai tecnici. E l'INV cambierà nome in Italia Nuova e Verde».

·        Slow Food.

Elisabetta Pagani per “la Stampa” il 19 settembre 2021. Il pianeta «è quasi a un punto di non ritorno»: il «disastro ambientale» è sotto gli occhi di tutti e le «disuguaglianze crescono come mai prima». Carlo Petrini, però, si mantiene «parzialmente ottimista», assicura intervistato dal direttore della Stampa Massimo Giannini nello spazio del Gusto a Cheese, la manifestazione di Slow Food in corso a Bra. E se ci riesce, sottolinea, «è grazie ai giovani, in cui vedo un'energia, una coscienza e una capacità creativa che, quando occuperanno i posti di comando, li porteranno a essere molto più sensibili di noi, che abbiamo fatto troppi danni». Nel frattempo, incalza il fondatore di Slow Food, «tutti siamo chiamati a contribuire a un cambio di paradigma epocale, che non va vissuto come una quaresima di mortificazione ma come un processo di liberazione. La realtà», sintetizza, «si cambia con gioia, non con il magone». L'attualità è fatta di crisi climatica, ambientale, migratoria, sanitaria. Sul tema Petrini promuove Green Pass e vaccini, prendendo le distanze da Massimo Cacciari e dall'appello firmato da Alessandro Barbero e altri 300 professori, e rimarca la necessità di un'economia che sia cura del territorio e relazione umana: «Quand'è nato Slow Food il nostro antagonista era McDonald's», premette, «oggi sarebbe Amazon. E non parlo di scontro inutile ma di sostanza. Se infatti la grande distribuzione ha messo in crisi i piccoli negozi, oggi Amazon mette in crisi la grande distribuzione. Il risultato? I nostri borghi si sono desertificati». E ora che si parla di ripartenza dopo la pandemia, Petrini si augura qualcosa di più ampio, «una rigenerazione». Sul Green Pass c'è molto scontro. 

Il governo ne estende l'uso per far ripartire il Paese ma c'è chi parla di dittatura sanitaria. Cosa ne pensa?

«Penso che la dittatura sanitaria sia subire il Covid e vedere i nostri ospedali al collasso, non il Green Pass. Penso che il governo abbia fatto bene a tenere il punto e non mi trovo in sintonia con persone che pure stimo come Barbero o Cacciari. Questa malattia ha messo in ginocchio l'economia e la socialità mondiali, un nuovo lockdown sarebbe una ferita anche solo psicologicamente non risanabile».

Un altro capitolo doloroso è quello della crisi climatica. Draghi al Forum mondiale ha lanciato un allarme che suona come una sveglia all'Occidente. A che punto è la notte?

«Siamo a un punto quasi di non ritorno. È un momento storico. La transizione ecologica di oggi è come la rivoluzione industriale: permeerà il nostro modo di vivere per secoli. È una questione che non si può ridurre in maniera tecnocratica come pensa il ministro, bisogna coinvolgere l'intero Paese, le comunità locali. Il messaggio che deve passare è questo: cambiare stili di vita non significa imporsi una quaresima di mortificazione ma vivere un processo di liberazione. Noi italiani pensiamo che la parola "sostenibilità" derivi da sostenere, che significhi questo: "Se tu azienda sei virtuosa, aumenti anche il tuo profitto, ti sostieni meglio". Invece no, deriva da "sustain", il pedale del pianoforte che permette di allungare la nota. I cugini francesi infatti parlano di durabilità, non sostenibilità». 

I politici fanno abbastanza da questo punto di vista?

«Biden sventola la bandiera della sostenibilità, ma poi si fa interprete di una nuova alleanza politico-militare con maxi investimenti per sottomarini nucleari. Insieme a Gran Bretagna e Australia».

Macron si è arrabbiato ma per questioni di affari.

«Processi virtuosi di questa natura hanno bisogno di una governance internazionale, che però non c'è. Se avessimo applicato anche solo una parte di quanto previsto dall'accordo di Parigi non saremmo in questa situazione. I fenomeni Trump e Bolsonaro sono nati dopo Parigi. E hanno deriso una giovane come Greta Thunberg senza capire che dietro di lei c'erano anche i giovani dei loro Paesi. L'Ue si sta muovendo bene ma non basta». 

La decrescita felice non è una pia illusione?

«Penso che non si tratti solo di un atteggiamento deflattivo, la decrescita, ma di un cambio di paradigma. L'analisi del greenwashing indica che siamo sulla strada giusta. Anche Amazon, che oggi sarebbe il nostro antagonista come agli esordi lo fu McDonald's, fa pubblicità puntando su sostenibilità e inclusione. Questo tipo di economia mette in crisi i piccoli negozi, che se spariscono fanno morire anche i borghi». 

Come si affrontano multinazionali che hanno un fatturato maggiore del Pil di interi Paesi?

«Noi le abbiamo anche aiutate, eh. Penso al regime fiscale di Paesi come l'Irlanda e il Lussemburgo, o anche a realtà che abbiamo in casa nostra. E comunque io penso che possano esistere multinazionali che non si muovono in maniera distruttiva, che pagano il dovuto e realizzano benessere per tutti e non per una persona sola. Agire si può. Una volta l'allora ad di McDonald's Italia mi disse che quando faceva la spesa seguiva le indicazioni di Slow Food. Alla fine, la pratica è meglio della grammatica!».

Perdiamo 23 ettari di terreno al minuto a livello mondiale, il 75% delle terre emerse è alterato dall'azione umana, un milione di specie animali e vegetali è a rischio. L'agroalimentare, fondamentale per il nostro Paese, ha un impatto importante da questo punto di vista. Come deve agire la politica?

«Il nostro patrimonio merita di essere accudito. La società civile lo ha capito e sta facendo passi avanti, non ancora sufficientemente riconosciuti dalla politica. Dobbiamo muoverci pensando che il dazio che ci toccherà pagare sarà enormemente grande. L'obiettivo, per uscire dalla pandemia e non solo, è puntare a una rigenerazione».

A proposito di tutela, cosa pensa della polemica Prosek-Prosecco?

«Non farei battaglia perché il Prosek esisteva prima del Prosecco ed è un'altra cosa, non una copiatura. Sarei più preoccupato, parlando di Prosecco, per la monocoltura che sta dilagando in Italia e l'uso di pesticidi. Un tema di cui, come avete scritto recentemente, le comunità locali si stanno interessando. Quando un prodotto funziona bisogna stare attenti e avere il governo del limite. Se lo superi, perdi in identità e biodiversità».

·        La dieta alternativa: Gli insetti commestibili.

Carlotta Lombardo per il "Corriere della Sera" il 5 dicembre 2021. Milioni di persone nel mondo sgranocchiano insetti. In Messico, le chapulines, le cavallette condite con peperoncino e lime, sono un popolare snack ma anche gli escamoles, le larve e le pupe delle formiche del genere Mayr Liometopum apiculatum sono una prelibatezza, tanto da essersi guadagnate l'appellativo di «caviale messicano». Stessa sorte per la hormiga culona colombiana, la formica «culona» (ha l'addome particolarmente prominente): fritta o tostata è considerata una vera delizia, merito dell'acido formico di cui è ricca e che le regala un sapore piccante e intenso. Roba dell'altro mondo? Mica tanto, i novel food, gli alimenti «nuovi» (rispetto ai tradizionali), insetti compresi, compaiono già nei menu degli chef più coraggiosi, in Gran Bretagna, Olanda o Belgio, e il Financial Times ha dedicato loro un editoriale, ieri, auspicando che conquistino più spazio nell'alimentazione degli animali e degli esseri umani: piatti a base di formiche, cavallette, scorpioni e altre pietanze del genere, buoni per la salute - dicono gli sperti - perché ricchissimi di proteine e privi di grassi. In Italia, il loro uso a fini alimentari era vietato, ma nel giro di qualche anno potrebbero essere serviti nei ristoranti sotto casa: l'Unione europea, dopo la valutazione dell'Efsa, l'Autorità per la sicurezza alimentare, a novembre ha dato il via libera alla commercializzazione della locusta per l'alimentazione umana. Il secondo insetto, dopo la tarma della farina, un vermetto che può essere consumato essiccato o macinato sotto forma di farina da addizionare ai prodotti da forno o da usare nei mangimi, a finire sulle tavole degli europei. E se l'idea può disgustare i più, il quotidiano della City suggerisce di utilizzare la stessa tecnica usata dai genitori per i bambini schizzinosi a tavola: mascherare il cibo «schifoso». «Io li cucinerei ma non credo che gli italiani siano pronti - avverte la chef stellata Cristina Bowerman -. Non fa parte della nostra cultura e poi non ne abbiamo bisogno perché siamo ricchi di alimenti proteici alternativi, come i legumi. Però aprire la mente sul fenomeno può aiutare a creare prodotti altamente proteici per i Paesi poveri e costituire una valida soluzione per l'ambiente». L'industria di produttori di insetti, secondo Rabobank, banca specializzata nell'investimento agricolo, stima già di passare dalle 10 mila tonnellate consumate ogni anno nel mondo a 500 mila nel 2030 (con 11 domande di altri insetti già all'esame dell'Efsa come «Novel Food»). Di certo, a promuoverne il consumo sono gli ambientalisti. Il piano d'azione Ue 2020-30 per i sistemi alimentari sostenibili identifica gli insetti come una fonte di proteine animali a basso impatto ambientale. Un esempio? Un chilo di grilli ha bisogno di 15 mila litri di acqua in meno di ogni chilo di carne prodotta e il loro allevamento genera 100 volte meno gas a effetto serra. Inoltre, il mondo è pieno di insetti: 1,4 miliardi per ognuno dei 7 miliardi di abitanti della terra, secondo la Royal Entomological Society britannica. «Il riscaldamento globale non potrà arrestarsi senza modificare il sistema alimentare, da cui dipende un terzo delle emissioni di gas serra, responsabili dell'aumento delle temperature - conferma il professor Massimo Tavoni del Politecnico di Milano, direttore dell'Istituto europeo per l'economia e l'ambiente (Eiee) -. La Fao stima che le quantità di gas serra che derivano dal bestiame sono pari alle emissioni di tutti i camion, le auto, i velivoli e le navi del mondo messi insieme e l'allevamento di mucche, pecore e capre è il responsabile principale delle emissioni di metano, gas prodotto durante la digestione dei ruminanti, con un effetto serra superiore all'anidride carbonica prodotta dai trasporti e dalle industrie. Inoltre, si devastano immense aree di foreste per lasciare spazio agli allevamenti intensivi e ai terreni agricoli destinati alla produzione di soia come mangime per animali. Di certo, sostituire le proteine dei grandi animali con quelle degli insetti ha un impatto ambientale positivo». Una food revolution da approcciare, a tavola, con cautela. Una nota sul sito della Commissione europea avverte che il consumo degli insetti può potenzialmente portare a reazioni allergiche. «Tutti i novel food vanno introdotti con cautela - conferma la giornalista e scrittrice Eliana Liotta che, nel suo ultimo libro Il cibo che ci salverà (La nave di Teseo) parla della necessità di una svolta ecologica a tavola -. Sono cibi che non abbiamo mai mangiato e la cautela è d'obbligo».

Supplì, cavallette e altre leccornie: in un ricettario il gusto perduto dell’Andalusìa. Un’enciclopedia della cucina della Spagna araba. Scritta da un letterato fuggito subito dopo la Reconquista cristiana. Pubblicata per la prima volta da una grande studiosa. Dalla newsletter de L'Espresso dedicata alla galassia araba. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 28 settembre 2021. Si chiama “Fiḍālat al-Khiwān fī Ṭayyibāt al-Ṭaʿām wa-l-Alwān”, cioè, nella traduzione inglese appena pubblicata da Brill, “Best of Delect­able Foods and Dishes from al-Andalus and al-Maghrib”. Ma questa raccolta dei “migliori cibi e ricette dal Maghreb e dall'Andalusia” non è opera di uno chef alla moda: è un manoscritto del tredicesimo secolo importante per gli arabisti quanto Apicio lo è per gli amanti dell'antica cucina romana. L'autore, l'andaluso Ibn Razīn al-Tujībī, ha scritto poesie, prose e una storia delle Crociate che sono andate perdute: è rimasto solo questo monumento alla cucina perduta dell'Andalusia, che ora arriva ad un'edizione degna della sua importanza grazie a Nawal Nasrallah. Nata a Baghdad ma americana da molti anni, Nasrallah traduce dall'arabo, insegna letteratura inglese ed è tra i massimi esperti di cucina araba antica e moderna. Non per niente questo dotto volume di 900 pagine, arricchito da magnifiche illustrazioni trovate in manoscritti sparsi per le biblioteche del mondo, si chiude con ventiquattro ricette adattate alla cucina moderna. Che permettono di finire la lettura gustando "Isfanākh Maṭbūkh" (spinaci alle mandorle) e "Aqrāṣ Samak" (polpette di pesce), "Tharīda Tuzīd fī l-Bāh" (pollo afrodisiaco) e biscotti ripieni chiamati “zampe di gazzella”. Un modo per imparare mangiando quanto il mondo arabo sia stato, e sia ancora oggi, vicino a noi. Il libro, come ha sottolineato la rivista Arablit, è davvero una chicca: perché si basa, oltre che su due manoscritti incompleti già noti conservati a Madrid e Berlino, su uno nuovo, integro, scoperto dalla curatrice alla British Library. È la prima traduzione in inglese ma non la prima in Europa: segnalato all'inizio del Novecento, e pubblicato in arabo nel 1981, era già stato tradotto in francese nel 1992 e in spagnolo nel 2007. È facile prevedere però che questa traduzione in inglese, curata da una studiosa molto nota tra i foodblogger americani e accurata al punto da farne una enciclopedia della cucina araba, servirà a dare al “Fidalat” il posto che merita nella storia della cultura e nelle cucine più alla moda. Le appendici contengono un'elenco ragionato e illlustrato di spezie, piante, conserve, metodi di cottura, utensili, forni e fornelli (simili a molte preparazioni di altre epoche storiche e di altre zone del Mediterraneo) che ne fanno un'enciclopedia indispensabile non solo per chi si occupa di cucina, per studio o per passione. Non per niente il volume esce nella prestigiosa collana di Islamic History and Civilization. Nato in Spagna, nella Murcia andalusa, Ibn Razīn al-Tujībī, fuggì in Africa a vent'anni, appena i cattolici vincitori si rimangiarono, dopo soli cinque anni, la promessa di tolleranza religiosa fatta dopo la vittoria del 1242. Molti anni dopo, a Tunisi, compone questa sua opera che, scrive Nasrallah, nasce perché «una cucina che amava rischiava di essere dimenticata, a causa delle migliaia di concittadini che, come lui, fuggivano dall'Andalusia». E in Spagna, mantenere la tradizione culinaria significava rischiare la morte. Il cibo era una spia della provenienza: mangiare seduti per terra e condividere il cuscus era un pericoloso segno di origini musulmane, e una donna rischiò la forca solo perché preferiva cucinare con l'olio invece che con il grasso di maiale. Anche se si basa su testi precedenti, scrive al-Tujībī, il libro «include molte ricette che ho approvato e diverse che ho creato io stesso. La maggioranza sono andaluse: solo poche vengono dal Magreb, e solo le migliori tra loro». In tutto sono 475, divise per capitoli in base all'ingrediente principale: carne di quadrupedi e di polli e volatili, pesce e uova, latticini, e un lungo capitolo sulle verdure (melanzane, carciofi, tartufi del deserto, “orecchie d'elefante”...), dolci, conserve trucchi per cuochi abituati a fronteggiare emergenze: «Come fare l'olio se non ci sono olive» o «Rimedi per il cibo troppo salato e per carne che ha cattivo odore». Alcuni piatti ricordano ricette che conosciamo bene, altri fanno venire l'acquolina in bocca per accostamenti o metodi di cottura, altri fanno francamente orrore. C'è l'antenato del supplì (le “muḥammaṣ”, polpettine di pasta cotti al sole), ci sono salsicce chiamate laqāniq (che ricordano la luganega), ci sono 27 versioni del "Tharīd", una zuppa di pane con brodo verdure e carne che ricorda la ribollita, e poi antenati medievali di pilastri della world-cuisine come cuscus, harissa, quba. Nasrallah nota che «solo in questo libro si trovano ricette per cuocere il tonno al sale chiamato mushammaʿ che è oggi la deliziosa “mojama” spagnola», e il mitico Ṣinhājī, antentato berbero della “olla podrida”. I “raʾs maymūn” , dolci a forma di testa umana decorati con pinoli mandorle e pistacchi , ricordano i biscotti a forma di teschio che deliziano ancora oggi i patiti di Halloween...Forse dovremmo dire che gli arabi avevano precorso i tempi nel cercare alimenti di vario genere in vista della scarsità di cibo che ci minaccia per la sovrappopolazione mondiale (per non parlare dell'arte di lavarsi le mani imposta dalla pandemia: l'ultimo capitolo elenca otto metodi per lavarle alla fine del pasto, usando prodotti costosi e raffinati fino all'umile farina di ceci). La necessità di mangiare insetti era meno lontana per chi abitava ai bordi del deserto o nelle oasi: ecco quindi un capitolo che mette sullo stesso piano gamberi d'acqua dolce, lumache e cavallette (al-Tujībī, le consiglia bollite o fritte) oltre ai qunilyāt, topi selvatici europei. Una curiosità è che questa cucina è tutta, per forza di cose, “in bianco”. Anni fa un libro di ricette cercò di ricostruire com'era la cucina napoletana prima che dall'America arrivasse l'ormai onnipresente pomodoro. Lo stesso vale per questa raccolta del tredicesimo secolo. E del resto, quando si parla di cucina di Al Andalus non potrebbe essere diversamente: il dominio arabo finì nel 1492, lo stesso anno della scoperta dell'America (e della cacciata degli ebrei dalla Spagna, e della morte di Lorenzo il Magnifico). Quindi di pomodoro non poteva essercene nemmeno l'ombra.

Maria Rita Montebelli per “Il Messaggero” il 22 agosto 2021. Sdoganata da cappotti e maglioni oversize, la pancia è la protagonista suo malgrado della bella stagione. Ammiccante dalle magliette corte delle giovanissime, dalle tuniche morbide delle signore e dalle camicie degli uomini, potrà anche far simpatia, ma certo non contribuisce all'estetica, né all'eleganza. Né tanto meno alla salute. La pancia, intesa come grasso viscerale, dà infatti tanti problemi, anche in persone che hanno il resto del corpo nella norma. Perché si associa ad un aumento del colesterolo cattivo (Ldl) e dei trigliceridi, altera la risposta all'insulina, contribuendo alla comparsa del diabete. È un fattore di rischio noto per ipertensione, infarto, ictus, fegato grasso, artrosi, tumori e depressione. Se si vuole conoscere con precisione il rischio di incappare in questa pletora di problemi, la bilancia non basta. A determinare l'entità del rischio infatti non sono tanto il peso, o l'indice di massa corporea, quanto la distribuzione del grasso. Gambe e braccia magre, non compensano in termini di rischio cardio-metabolico un girovita abbondante, che è spia dell'accumulo del grasso più pericoloso, quello viscerale. Annidato tra gli organi addominali, fegato, intestino, stomaco. È lui il grasso cattivo per antonomasia, che fa impennare i valori di pressione arteriosa e di glicemia. E che non va confuso con il grasso sottocutaneo che, pur contribuendo alle rotondità (anche sulla pancia), non fa danni cardio-metabolici. Il grasso viscerale è diverso: è tossico in quanto rilascia gli acidi grassi liberi nella circolazione del fegato, da dove si vanno ad accumulare in una serie di organi (cuore, pancreas, ecc.), ostacolandone il funzionamento ottimale. Questo tipo di grasso produce anche la RBP4 (retinol binding protein 4), una proteina che aumenta la resistenza all'insulina e vari biomarcatori dell'infiammazione che contribuiscono ad aumentare il rischio di malattie croniche. Il grasso all'interno dell'addome insomma, lungi dall'essere solo un di più, un'innocente imbottitura, è un grasso cosiddetto attivo dal punto di vista metabolico, e può fare danni seri. Una valutazione sulla condizione della nostra pancia consiste nel misurare la sola circonferenza vita con un metro da sarta non elastico. In posizione eretta con i piedi uniti, si espira tutta l'aria e, senza tirare in dentro la pancia, si misura il punto vita a livello dell'ombelico, con il metro parallelo al pavimento. Le misure del rischio variano anche in questo caso a seconda del genere: nell'uomo il rischio aumenta sopra i 94 cm, mentre per la donna compare al di sopra di 80 cm di circonferenza vita. Quindi, prima di tutto, controllare le misure. Le linee guida prevedono, dunque, quattro differenti misure: 1) peso moderato, 80 cm per le donne e 90 cm per gli uomini; 2) sovrappeso, 90 cm per le donne e 100 cm per gli uomini; 3) obesità di primo grado, 105 cm per le donne e 110 cm per gli uomini; 4) obesità di secondo grado, 115 cm per le donne e 125 cm per gli uomini. La valutazione spannometrica del grasso addominale è dunque molto facile. Decisamente meno semplice è invece la terapia per questa condizione che richiede grande determinazione, restrizione calorica ed esercizio fisico. Mezz' ora al giorno di esercizi cardio (corsetta, bicicletta, circuit training, nuoto), alternati a esercizi di resistenza (pesetti, bande elastiche) almeno 5 giorni alla settimana sono una buona base di partenza. Yoga, pilates e meditazione sono valide strategie anche per tenere a bada lo stress, nemico assoluto della dieta. Ma la protagonista della perdita di peso, anche per il grasso viscerale, è proprio la dieta che dev' essere ben bilanciata, povera di zuccheri e condimenti, ricca di carboidrati complessi (sono quelli contenenti amido ovvero pane, pasta, pizza), proteine magre e tanta verdura.

Dagotraduzione da Study Finds il 21 agosto 2021. Uno studio ha scoperto che una dieta a digiuno intermittente potrebbe aiutare a proteggere le persone anziane da cadute e altre lesioni rafforzando i loro muscoli. Il digiuno intermittente, noto anche come alimentazione limitata nel tempo­, potrebbe anche essere un intervento efficiente in termini di costi per prevenire il diabete di tipo 2, la malattia del fegato grasso e il cancro al fegato, afferma un team del Salk Institute for Biological Studies in California. Il digiuno per un­­ periodo più lungo potrebbe anche proteggere meglio dalle malattie infettive come il COVID-19 e persino salvare le persone dalla morte di sepsi. Il digiuno intermittente è un regime alimentare che sta diventando sempre più popolare. La dieta consiste nel mangiare ogni otto ore e potrebbe avere molteplici benefici per la salute oltre alla perdita di peso. I ricercatori hanno somministrato una dieta ricca di grassi e zuccheri a topi di due diverse fasce di età, equivalenti a umani di 20 e 42 anni. Il team ha eseguito test e ha confrontato i risultati dell'alimentazione in tempo limitato (TRE) su steatosi epatica, regolazione del glucosio, massa muscolare, prestazioni e resistenza e tassi di sopravvivenza alla sepsi. I ricercatori hanno anche lavorato di notte per abbinare gli orologi circadiani degli animali, lavorando con occhiali per la visione notturna e illuminazione specializzata. Indipendentemente dall'età, dal sesso o dalla perdita di peso, la dieta protegge fortemente dalla malattia del fegato grasso. Le stime mostrano che fino al 20% degli adulti statunitensi ha una steatosi epatica non alcolica, in cui ci sono piccole quantità di grasso nel fegato. Questo può portare a gravi danni al fegato, inclusa la cirrosi, nel corso del tempo. 

Il digiuno intermittente può prevenire gravi complicazioni ospedaliere?

I test di tolleranza al glucosio orale somministrati ai topi dopo 16 ore di digiuno hanno indicato che il digiuno intermittente era associato a un minor aumento della glicemia e a un più rapido ritorno ai normali livelli di zucchero nel sangue sia nei maschi giovani che in quelli di mezza età, con un significativo miglioramento della tolleranza al glucosio nelle femmine giovani e di mezza età. Allo stesso modo, i topi di mezza età su TRE sono stati in grado di ripristinare i normali livelli di zucchero nel sangue in modo più efficiente rispetto ai topi di controllo, che avevano cibo a disposizione in ogni momento. I ricercatori hanno anche scoperto che il digiuno intermittente può proteggere sia i maschi che le femmine dalla morte indotta dalla sepsi. Questo è un pericolo particolare nelle unità di terapia intensiva, specialmente durante la pandemia di COVID-19. Dopo aver somministrato una tossina che ha indotto una condizione simile alla sepsi nei topi, i ricercatori hanno monitorato i tassi di sopravvivenza per 13 giorni e hanno scoperto che il TRE proteggeva i topi maschi e femmine dalla morte di sepsi. 

Una spinta muscolare per gli anziani. Il professor Satchidananda Panda afferma che la dieta a digiuno intermittente ha persino consentito ai topi maschi di preservare e aggiungere massa muscolare e migliorare le prestazioni muscolari. Gli autori dello studio non hanno osservato lo stesso effetto nelle femmine. Il team afferma che questa è una scoperta importante per gli anziani, che sono a più alto rischio di lesioni da caduta. "Per molti interventi clinici TRE, l'esito primario è la perdita di peso, ma abbiamo scoperto che TRE è buono non solo per le malattie metaboliche ma anche per una maggiore resilienza contro le malattie infettive e la resistenza all'insulina", afferma Panda in un comunicato universitario. "Questa era la nostra prima volta che studiavamo topi femmina e non eravamo sicuri di cosa aspettarci", aggiunge la dott.ssa Amandine Chaix, assistente professore presso l'Università dello Utah. "Siamo rimasti sorpresi nello scoprire che, sebbene le donne su TRE non fossero protette dall'aumento di peso, mostravano comunque benefici metabolici, inclusi fegati meno grassi e glicemia meglio controllata".

Giulia Masoero Regis per repubblica.it il 2 settembre 2021. Il pranzo è servito. A base di insetti, meduse, cactus e microalghe. Sono i 'novel food', nuovi alimenti che presto potremmo ritrovarci in tavola, con grande orrore dei tradizionalisti e di chi, in natura, questi animali e vegetali non li ama nemmeno un po'. Alcuni sono già stati approvati dall’Unione europea, come il tenebrione mugnaio, un verme da mangiare sotto forma di farina, e l’opuntia, una varietà di cactus consumata tradizionalmente in Messico. Per le meduse, invece, l’iter deve ancora iniziare. E anche se le troviamo nei ristoranti orientali, in Europa non si potrebbero cucinare. Nell’attesa di capire se zampette e tentacoli solleticheranno il nostro appetito, chi studia la nutrizione e il futuro dell’approvvigionamento alimentare ha già dato il suo benestare. Secondo uno studio pubblicato quest’anno sulla rivista Nature Food, alimenti come l’alga clorella e le larve di insetti non sono solo alternative nutrienti e sostenibili ai cibi tradizionali, ma un domani potrebbero essere anche un’arma per combattere la malnutrizione nei Paesi poveri e fronteggiare i disagi causati dai cambiamenti climatici. Contestualizzati nella dieta italiana sembrano novità prive di scopo, se non quello di rendere più curioso il menù di un ristorante, ma per quelle persone – in costante aumento – che seguono una dieta prevalentemente vegetale, per motivi etici o salutistici, e sono alla ricerca di proteine nutrienti più sostenibili di quelle di carne, pesce o uova, possono rappresentare una valida alternativa. "La componente proteica degli insetti è elevata e nobile, perché contiene tutti gli aminoacidi essenziali di cui l’organismo ha bisogno, proprio come quella di carne e uova", spiega Francesco Gai, che studia gli insetti commestibili presso l’Istituto di Scienze delle Produzioni alimentari del Cnr a Torino: "In natura ce ne sono migliaia, ma per ipotizzare una filiera vanno individuate le specie più facilmente allevabili. In Italia sarebbero il verme della farina, il grillo e il baco da seta". C’è tuttavia un nodo culturale: quanti consumatori storcerebbero il naso al pensiero di ritrovarsi un insetto nel piatto? Parecchi. Perciò si parla più di un utilizzo come ingredienti. "La barriera psicologica nei confronti degli insetti è ancora forte – concorda il ricercatore, – perciò mangeremo grilli e vermicelli soprattutto sotto forma di farine per la produzione di biscotti, paste, prodotti da forno e sostituti della carne". 

Prodotti dietetici. Si offrono come alternative proteiche anche le microalghe. Che, specifica la biochimica Paola Palestini, presidente del master di Alimentazione e dietetica applicata all’Università Milano-Bicocca, "possiedono un elevato potenziale nutrizionale e dietetico, studiato in particolare per lo sviluppo di alimenti funzionali perché ricche di proteine, sali minerali, omega 3, vitamine e fitocomposti. Al pari delle farine di insetti, sono ottimi ingredienti per arricchire biscotti, yogurt, panificati e per realizzare prodotti plant based, come gli hamburger. Una varietà di alga clorella, ad esempio, è stata utilizzata in combinazione con la soia per ottenere un sostitutivo della carne con interessanti caratteristiche nutrizionali". Se insetti e piccole alghe non finiranno interi nel piatto, meduse e cactus potrebbero diventarne i gustosi protagonisti. Gli esperti del Consiglio nazionale delle ricerche hanno già ideato un ricettario stellato a base di meduse del Mediterraneo, dove tra le specie commestibili troviamo le cosiddette polmone di mare e cassiopea mediterranea. Nell’attesa che l’Europa ne autorizzi il commercio, al Cnr hanno brevettato un trattamento per portarle in tavola in sicurezza, fritte, marinate o in carpaccio. "A differenza dell’Asia, dove per prepararle essiccate o in salamoia si utilizzano sali di alluminio, i cui residui potrebbero essere tossici, abbiamo sviluppato un processo con sali organici, ammessi nel settore alimentare. Per eliminare il veleno, invece, è necessario valutare ogni specie, ma per alcune è sufficiente la cottura", spiega la ricercatrice del Cnr Antonella Leone, referente italiana del progetto dedicato alle meduse: "Povere di calorie e grassi (la maggior parte buoni), hanno un sapore simile a quello dei molluschi e sono ricche di collagene, una proteina che abbonda nell’organismo umano, importante per ossa, cartilagine e pelle". 

Quanto fa bene la medusa. Da qui la consuetudine, nei Paesi asiatici, di considerarle benefiche nei confronti di malattie croniche come l’artrite reumatoide. "Non ci sono ancora studi che lo confermino, ma in effetti i nostri esperimenti in vitro hanno rivelato che i peptidi prodotti dal collagene delle meduse possono avere attività antiossidante" specifica l’esperta.  Ammessa in Europa ma poco diffusa nella cucina occidentale, l’opuntia, nota come fico d’India. In Italia ne mangiamo il frutto (ci sono coltivazioni su larga scala in Sardegna e Sicilia), ma potremmo cucinarne anche le pale, cioè il fusto, come si fa in Messico. I messicani raccolgono il cactus da giovane, quando ha le spine ancora morbide, lo fanno a pezzetti e lo preparano in vari modi. Fritto, ad esempio, con uova e jalapeños per colazione. "In Messico ci sono aziende che lo utilizzano anche per produrre marmellate, succhi e bevande funzionali" racconta un’altra ricercatrice del Cnr, Federica Blando, che da anni analizza le proprietà del fico d’India. "È un’alternativa vegetale, fonte di antiossidanti polifenolici e fibre solubili, simili a quelle di avena e orzo, che in esperimenti clinici hanno evidenziato un’azione ipoglicemizzante. Per questo è utilizzata tradizionalmente contro il diabete".

Il cibo del futuro? Vale la pena considerarla un cibo del futuro, perché "in vista di potenziali cambiamenti climatici, è una pianta resistente e resiliente, capace di sopravvivere in condizioni avverse". Ci si chiede se con tutte le varietà di allevamenti e coltivazioni che abbiamo, ci sia realmente la necessità di adottare nuove categorie alimentari. "I “novel food”, come gli insetti, sono da considerarsi un’opportunità per ampliare il portfolio di alimenti, sia per l’uomo che per gli animali. Ciò va visto anche in un’ottica di biodiversità nutrizionale, perché la combinazione di nuovi e vecchi alimenti concorre a una dieta varia, salubre e a minor impatto ambientale" spiega Luciano Pinotti, che all’Università degli Studi di Milano fa ricerca sulla sostenibilità e sul futuro dell’approvvigionamento alimentare. "La biodiversità a tavola e nei sistemi di produzione agro-zootecnica, infatti, è ritenuta indispensabile per garantire un adeguato rifornimento di alimenti e per uno sviluppo attento all’ambiente". Proprio il concetto di biodiversità è alla base della recente riscoperta di varietà antiche e semisconosciute di cereali, legumi e vegetali. Variegare la scelta delle specie, in particolare quelle ittiche, e delle fonti proteiche farà bene alla salute e all’ecosistema in cui viviamo.

Nuove emozioni o vecchie schifezze? I professionisti della cucina si dividono. Ecco come la vedono gli stellati Cristina Bowerman e Pietro Leeman. Le cucine stellate si dividono di fronte ai “novel food”. C’è chi lascerebbe entrare in cucina grilli e meduse per proporre ai clienti piatti audaci (Carlo Cracco è stato uno dei primi a parlarne quasi dieci anni fa), mentre c’è chi di fronte a un verme chiamerebbe la disinfestazione. Tra i fautori dei nuovi alimenti Cristina Bowerman, chef stellata a Roma, vulcanica nello stile e in cucina. "Inserirei i “novel food” nel menù perché penso che le persone vengano nei nostri ristoranti per provare esperienze emozionanti. Tuttavia, gli insetti non possono essere solo un vezzo delle tavole occidentali. Devono diventare anche soluzioni nutritive per i Paesi in cui si soffre la fame" dice la chef. "Sarei entusiasta se mi chiedessero di ideare ricette a base di insetti da portare in Africa o nei paesi che ne hanno bisogno per aiutare la popolazione». Chi invece fa parte del mondo veg con una profonda attenzione all’ambiente, come Pietro Leeman, fondatore del primo ristorante stellato vegetariano in Europa, scarta insetti e meduse nonostante il loro alto potenziale di sostenibilità. "Preferisco cercare le proteine nei legumi – spiega lo chef – piuttosto, sono incuriosito dal cactus perché potrebbe portare in cucina e nel piatto una nuova e interessante consistenza". 

L'Unione Europea dà il via libera ai prodotti alimentari a base di insetti. Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2021. L’Unione Europea apre all’entomofagia e approva la commercializzazione come prodotto alimentare. Così le tarme della farina da insetto infestante diventeranno cibo e faranno parte della dieta quotidiana. Secondo quanto previsto, si potrà scegliere tra queste opzioni: mangiarle essiccate, mangiarle come snack e oppure utilizzarle in cucina come farina. Si tratta del primo insetto ad essere riconosciuto come alimento e l’autorizzazione è arrivata dopo un’attenta valutazione dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) che ha riconosciuto il tenebrone mugnaio, la tipica tarma da cucina, come fonte di proteine a basso impatto ambientale. L’orientamento Ue delineato nel piano d’azione 2020-2030 sembra andare nel senso della sostenibilità degli alimenti, considerato che gli allevamenti di insetti, da utilizzare come mangimi o come alimenti stessi, hanno un impatto infinitamente minore sull’ambiente rispetto a quelli di animali come bovini, suini o pollame. La decisione formale verrà adottata nelle prossime settima dalla Commissione Europea nell’ambito della strategia Farm to Folk. Le tarme faranno da apripista, visto che l’Efsa ha pronta una lista con altri 11 insetti da proporre come prodotti alimentari. Molte le critiche da parte degli imprenditori e delle associazioni del settore agroalimentare che contestano l’Unione Europea rispetto alla tutela dei prodotti tipici.

Francesco Specchia per "Libero quotidiano" il 5 maggio 2021. Che cosa poco romantica, in fondo, è l' "entomofagia", la voracità dell'infinitamente piccolo. Una volta le tarme ispiravano la simpatia dell'antico, apparivano gradite ospiti degli armadi d'antàn e delle farine della nonna; mentre nelle romantiche sere d'estate, noi sentivamo i grilli frinire sotto la luna. D'ora in poi, rumineremo le une e gli altri in pausa pranzo, sotto forma di barretta energetica. Si perde in poesia, ma forse si guadagna in valore nutritivo. Forse. Tarme in padella, con pomodorini ed erbe aromatiche: in molti Paesi asiatici le tarme della farina sono usate come pietanza. Lo chiamano, esoticamente, novel food - cibo novello - ma si tratta di cracker, snack, biscotti a base di insetti: è il nuovo alimento in forma essiccata di cui l'Unione Europea, nel suo ennesimo slancio ecosostenibile, ha autorizzato la commercializzazione. Tra qualche mese, ufficialmente, grazie all'ok dell'Efsa, l'Autorità europea per la sicurezza alimentare, fermo restando gli inevitabili obblighi di etichettatura, nei 27 stati membri del Vecchio continente introdurrà l'abitudine di usare la larva gialla della farina -la cara vecchia tarma - come ingrediente base nei piatti delle nuove generazioni.

BASTA CARNE Mandrie di giovani, passata la buriana gastronomica della carne e degli estrogeni (calati nel consumo del 30%: uno degli effetti collaterali del lockdown), potranno dunque nutrirsi di pasta, piatti pronti, appetizer a base di coleotteri e affini. Prima la Fao e poi la Ue nella strategia nutritiva della Farm to folk, dalla fattoria direttamente ai consumatori, qualificano e sponsorizzano le proteine, le vitamine, le fibre e i grassi degli insetti come il desco del mondo nuovo. Sarà. Ma detto - e visto - così lo spettacolo impressiona. Sentire i propri figli dire: «Papà mi compri la barretta di locusta?» come spuntino, quando ai nostri tempi noi ci ingozzavamo di merendine intinte nei barattoli di Nutella tripudio di grassi saturi e colesterolo, be', è un ardito cambio di paradigma. È uno scatto antropologico. Eppure, quei piatti fumanti di vermi, quelle terrine dense di Tenebrio molitor, di larve avvizzite che si contorcono ai riverberi del sole, non sono il massimo dell'estetica. Eppure, gli scienziati affermano che, vinto il ribrezzo, ci sia del fascino in quella bruttezza. Ricordano che ingollare insetti comporti «benefici ambientali ed economici derivati dalla sostituzione delle proteine animali tradizionali con quelle che richiedono meno nutrimento per masse di popolo sempre più affamate e producono meno rifiuti ed emissioni di gas serra». I grilli, per dire, oltre ad avere un impatto ambientale molto basso (producono meno dello 0.1% di gas serra rispetto ai bovini), hanno un contenuto proteico pari al 70%, 2-3 volte maggiore rispetto alla carne rossa, mi racconta un politico che, da tempo, ha tradito il gulash per la tartare di cavalletta. Mah. D'altronde - mi spiegano amici colti ed escosostenibili - gli insetti sono consumati da millenni in Oriente, Oceania e in Africa; e sono al centro di una rivoluzione culinaria che sta arrivando anche in Europa. La storia ci è maestra, dicono. Erodoto narra di popolazioni libiche che usavano mangiare locuste mescolate con il latte. Aristotele scrive delle cicale ottime in stato di crisalide. Plinio, nella sua Naturalis Historia, discetta di una larva chiamata Cossus (larva di Lucanus cervus o Prionus coriarius) servita in delicatissimi piatti nei banchetti romani; mentre Giovanni il Battista delle sacre scritture sarebbe stato ghiotto di locuste nel miele selvatico.

STORIA ENTOMOFAGA Idem per i lanzichenecchi che ingoiavano derrate di bachi da seta fritti come fossero ciliegie, o gli aztechi che rosolavano prelibatezze da formicaio, o i cinesi dell'anno mille golosi di cicale o comunque di tutto ciò che fosse vivo e si muovesse. In Oriente, il novel food è da millenni una certezza delle diete. Il problema dell'accettazione della formica flambè è sempre stato dell'Occidente. Gli insetti nelle coltivazioni intensive dell'America e dell'Europa sono un moloch culturale. Gli insetti, in Europa o nell'America del Nord, non sono per natura "edibili", commestibili. Perché sono considerati ancora peggio dei maiali: non solo danneggiano l'agricoltura, ma consumano il cibo nelle dispense, pungono e mordono la pelle, danno prurito, succhiano il sangue, creano ematomi ed ecchimosi. Nelle novelle dei grandi scrittori dell'orrore occidentali, vermi e scarafaggi sedimentano in masse purulente e incontrollabili, sono, al colpo d'occhio, il castigo del diavolo. A parte l'ape e il baco da seta - simboli di bellezza, ristoro, pazienza - ogni insetto insuffla, di solito, nell'occidentale medio un'idea di raccapriccio. Guido Ceronetti diceva che schiacciare un insetto aggrava il debito karmico. Figurarsi a mangiarlo. Eppure, a botte d'ecosostenibilità, la Ue prese il coleottero e rese grazia, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli.

Marco Zatterin per “la Stampa” il 29 marzo 2021. Un giorno potrà essere normale mangiare insetti anche in Europa, come del resto avviene già in Asia - dove sono richiestissime le cicale femmine in pastella -, o in Africa - dove invece le larve delle falene del bambù sono considerate una delizia. Tutto questo, precisa però l’Agenzia Ue per l’alimentazione (Efsa), potrà avvenire solo a patto che siano correttamente allevati. Anche perché se i piccoli invertebrati venissero prodotti con criteri sanitari adeguati, i pericoli biologici e chimici legati al loro consumo sarebbero sostanzialmente uguali a quelli che comportano una mucca o un pollo. L’Efsa ha analizzato il caso partendo dalla constatazione che vi è un crescente interesse per i potenziali vantaggi derivanti dall’uso degli insetti per l’alimentazione umana e animale. L’entomologo olandese Dennis Oonincx ha pubblicato nel 2012 uno studio in cui - dopo aver stimato che di qui al 2050 la domanda di proteine animali crescerà del 50-70 per cento senza possibilità che l’offerta “tradizionale” possa seguirla - gli insetti commestibili saranno la fonte di sostentamento alternativa «più sostenibile». E’ una prospettiva perl’avvenire, però sta diventando anche una moda di questi giorni. A Londra (come a Parigi e Bruxelles) fa molto chic un ristorante dove si possono mangiare cavallette, fra le altre cose. Sia chiama Eat Ento. Un nome una garanzia. 

Non è roba da selvaggi . L’entomologo italiano Gianumberto Accinelli ha ricordato che «anche gli antichi romani amavano la cucina a base di questi animali e un loro piatto tipico consisteva in grossi bruchi xilofagi (che si nutrono di legno) cotti su pietre bollenti e quindi conditi con il miele». E’ il passato che ritorna. E se si muove l’Efsa, è un passato che comincia ad assomigliare a un futuro.  

Paura? L’Agenzia Europa osserva che i pericoli dell’insetto a tavola «dipenderebbero dai metodi di produzione, da ciò con cui gli animali vengono nutriti (il cosiddetto “substrato”), dalla fase nel ciclo di vita nella quale gli insetti vengono raccolti, dalle specie di insetti, nonché dai metodi utilizzati per la loro successiva trasformazione». Ne consegue che «quando gli insetti non trasformati vengono nutriti con sostanze per mangimi attualmente autorizzate, la potenziale insorgenza di pericoli microbiologici è prevedibilmente simile a quella associata ad altre fonti di proteine non trasformate». Oltretutto, il rischio ambientale derivante dall’allevamento di insetti si prevede «paragonabile a quello da altri sistemi di produzione animale». Andrebbero comunque applicate «le attuali strategie di gestione dei rifiuti per smaltire le scorie derivanti dall’allevamento di insetti». 

L’Efsa non ha dubbi. «L’uso di insetti come fonte di alimenti e mangimi ha, potenzialmente, importanti benefici per l’ambiente, l’economia e la sicurezza della disponibilità alimentare». E già si segnalano come specie di insetti con maggior potenziale d’uso come alimento o mangime nell’Unione europea mosche, larve della farina, grilli e bachi da seta. La Commissione europea, riassume l’Efsa, sta attualmente cofinanziando un progetto di ricerca per esplorare la fattibilità di impiegare proteine ricavate da insetti per i mangimi. Verrà un giorno in cui ci diranno che possiamo mangiarli, bene o male che sia. Nell’attesa, che forse è meglio sperare sia lunga, ci si può intrattenere con un sorriso sulle labbra su un dibattito inevitabile: il giorno in cui l’hamburger di formiche sarà su tutti i menu, come si comporteranno vegetariani e vegani? 

Vermi gialli, locuste e cavallette: i nuovi "cibi commestibili" dell'Ue. L'Efsa ha dato il via libera: la tarma della farina è commestibile e presto verranno approvati altri "nuovi alimenti", che troveremo sugli scaffali dei nostri supermercati, come mosche, cavallette e altre "prelibatezze". Mariangela Garofano, Lunedì 18/01/2021 su Il Giornale. Via libera da parte dell’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, a locuste, cavallette e grilli. No, non stiamo parlando di una delle Dieci Piaghe d’Egitto, ma dei nuovi alimenti che molto presto troveremo sugli scaffali dei nostri supermercati. Il si arriva proprio dall’Efsa, che ha sede a Parma, capitale del prosciutto crudo, del parmigiano e di eccellenze alimentari italiane, lontane anni luce dagli scrocchianti insetti. Il primo nuovo alimento ad avere ricevuto il via libera è stata la larva gialla essiccata del tenebrione mugnaio, ovvero la tarma della farina. Come si legge su Nutri e Previeni, l’Efsa “sta valutando 10 domande sugli insetti come alimenti, mentre quattro sono in coda, nella fase dei controlli preliminari a carattere amministrativo”. Una grande richiesta quindi, per introdurre sulle nostre tavole (forse non proprio di tutti) snack a base di coleotteri, mosche e locuste. Insomma, un menù da far concorrenza a quello delle Streghe di Salem. Per l’approvazione definitiva servono ancora due passaggi da parte della Ue, ma in capo a sette mesi la commissione europea presenterà una proposta di autorizzazione, che gli Stati Membri dovranno approvare. Lo sdoganamento della tarma della farina apre così la strada alle tante domande per inserire in Europa il consumo di cibi che fino a poco tempo fa eravamo abituati a vedere nei documentari sui cibi più strani in giro per il mondo. Non sarà più necessario andare in Cina o in Thailandia per gustare un piatto di saltellanti grilli, basterà andare al supermercato sotto casa. Gli scienziati poi, ci garantiscono che gli insetti sono ricchi di proteine. “In forma essiccata contengono spesso una quantità doppia di proteine rispetto alla carne o al pesce crudo anche se, generalmente, non superano la quantità di proteine presenti nella carne e nel pesce essiccato o cotto alla griglia. Alcuni insetti, specialmente allo stato larvale, sono ricchi anche di lipidi e contengono importanti vitamine e sali minerali”, fanno sapere dall’agenzia Onu per l'alimentazione e l'agricoltura. Unico problema pare essere quello delle allergie, come spiega il chimico dell’Efsa Ermolaos Ververis. “Un nodo fondamentale della valutazione - spiega - è che molte allergie alimentari sono connesse alle proteine, per cui dobbiamo valutare anche se il consumo di insetti possa scatenare reazioni di questo tipo. È un lavoro impegnativo perché la qualità e la disponibilità dei dati varia, e c'è molta diversità tra una specie e l'altra”. Bene quindi, per i più temerari, amanti di queste nuove prelibatezze, di cui l'Oriente è da sempre ghiotto. Ma i più tradizionalisti potranno stare tranquilli: a ristorante vi serviranno ancora tagliatelle al ragù e pizza margherita.

Da efsa.europa.eu il 14 gennaio 2021. L’EFSA pubblica quest'oggi un insieme di pareri scientifici in esito a richieste di valutazione di nuovi alimenti. Tra i pareri compare la prima valutazione completa di un prodotto proposto come alimento derivato da insetti. Le valutazioni EFSA in termini di sicurezza sono una tappa necessaria per la regolamentazione dei nuovi alimenti in quanto la sua consulenza scientifica affianca il lavoro degli enti europei e nazionali che autorizzano tali prodotti per il mercato europeo. Dall'entrata in vigore del regolamento sui nuovi alimenti il primo gennaio 2018 l'EFSA ha ricevuto un gran numero di richieste di valutazione in merito a un'ampia varietà di fonti di alimenti sia tradizionali che inedite. Le richieste di valutazione includono prodotti erboristici derivati da piante, alimenti a base di alghe e frutti non autoctoni, oltre a diverse varietà di insetti commestibili. La dott.ssa Helle Knutsen, biologa molecolare e tossicologa, è membro del gruppo di esperti dell'EFSA sulla nutrizione umana e presidente del gruppo di lavoro sui nuovi alimenti. Dichiara: "Le richieste di valutazione di nuovi alimenti sono talmente varie che abbiamo bisogno di competenze scientifiche diversificate per valutarle. Tanto per citarne alcune: nutrizione umana, tossicologia, chimica e microbiologia. La composizione del gruppo di lavoro le riflette e, insieme, i nostri scienziati formano un gruppo multidisciplinare di grande esperienza".

Insetti commestibili. Ermolaos Ververis, chimico ed esperto EFSA in scienza degli alimenti che ha coordinato l’elaborazione del primo parere adottato su insetti usati come nuovi alimenti, ha dichiarato: "Gli insetti sono organismi complessi, e ciò rende problematica la caratterizzazione della composizione dei prodotti alimentari da essi derivati. Comprenderne la microbiologia è di fondamentale importanza, considerato anche che si consuma l'insetto intero. Vari cibi derivati da insetti vengono spesso dichiarati fonte di proteine per l’alimentazione. “Le formule a base di insetti possono essere ad elevato contenuto proteico, benché i livelli proteici utili possono risultare sovrastimati quando sia presente la chitina, una delle principali sostanze che compongono l'esoscheletro degli insetti. Un nodo fondamentale della valutazione è che molte allergie alimentari sono connesse alle proteine, per cui dobbiamo valutare anche se il consumo di insetti possa scatenare reazioni allergiche. Tali reazioni possono essere provocate dalla sensibilità individuale alle proteine di insetti, dalla reazione crociata con altri allergeni o da allergeni residuati da mangimi per insetti, ad esempio il glutine. È un lavoro impegnativo perché la qualità e la disponibilità dei dati varia, e c'è molta diversità tra una specie di insetti e l’altra". Ci sono anche ragioni non di natura scientifica che rendono impegnativo lo studio dei nuovi alimenti. "La marea di richieste di valutazione comporta una notevole mole di lavoro e i termini di scadenza delle valutazioni sono talvolta troppo ravvicinati, soprattutto se le richieste mancano di dati scientifici essenziali", ha aggiunto la dott.ssa Helle. "Ma la collaborazione tra esperti è stimolante, ed è gratificante sapere di contribuire a salvaguardare la sicurezza dei nostri cibi".

Al di là della valutazione dei rischi scientifici. La novità di usare insetti nei cibi ha suscitato grande interesse da parte del pubblico e dei media, per cui le valutazioni scientifiche dell'EFSA sono cruciali per i responsabili politici che debbono decidere se autorizzare o meno tali prodotti prima della loro immissione sul mercato dell'UE. Giovanni Sogari, ricercatore in ambito sociale e consumeristico all'Università di Parma, ha commentato: "Ci sono ragioni derivanti dalle nostre esperienze sociali e culturali, il cosiddetto "fattore disgusto", che rendono il pensiero di mangiare insetti repellente per molti Europei. Con il tempo e l'esposizione tali atteggiamenti potranno mutare". Mario Mazzocchi, esperto di statistica economica e docente presso l'Università di Bologna, ha affermato: "Ci sono chiari vantaggi ambientali ed economici nel sostituire le fonti tradizionali di proteine animali con quelle che richiedono meno mangime, producono meno rifiuti e provocano meno emissioni di gas serra. L'abbassamento di costi e prezzi potrebbe migliorare la disponibilità di alimenti, mentre la nuova domanda creerà nuove opportunità economiche, che potrebbero però interferire con i settori esistenti". Gli scienziati EFSA continueranno a inserire le numerose richieste di valutazione di nuovi alimenti nella loro agenda, mentre i responsabili delle decisioni a Bruxelles e nelle capitali nazionali decideranno se tali alimenti debbano essere autorizzati per finire nei piatti europei. In definitiva i consumatori potranno scegliere con fiducia ciò che mangiano, ben sapendo che la relativa sicurezza è stata accuratamente verificata.

·        Il Veganesimo.

Da “il Giorno” il 5 settembre 2021. (…) «Mai» e «per sempre» sono avverbi da usare con prudenza. Soprattutto a tavola, dove il pentimento è il piatto del giorno. Ancora una volta è la vita a fare di testa sua. In questo caso capace, con uno stratagemma banale come l'amore, di trasformare una vegetariana convinta prima in allevatrice e poi in mangiatrice di mucche senza sensi di colpa. Nicolette Hahn Niman è un avvocato ambientalista che a lungo si è battuta contro l'inquinamento causato dalla produzione di carne negli Stati Uniti. Era in pena per gli animali e per il prezzo pagato dal pianeta, ci credeva veramente e per 33 anni è stata alla larga da qualsiasi cosa avesse avuto una mamma. Lavorava a New York per l'organizzazione benefica di Kennedy Jr. Finché un giorno a Central Park ha incontrato un contadino, si è innamorata al primo sguardo, lo ha sposato. Ed è andata a vivere nel suo ranch, un trauma simile a quello patito dal vampiro in un campo di aglio. Per 18 anni ha lavorato con il marito in mezzo ai loro due bambini e a quelle che sarebbero diventate bistecche e si è sinceramente affezionata a loro. Poi due anni fa la svolta: un morso alle amiche quadrupedi, un pezzo di hamburger giudicato meraviglioso come il primo sorso di birra del maratoneta. Non ha più smesso. Si è fatta fare una maglietta con su scritto «It' s not the cow, it' s the how», gioco di parole per dire che il problema non è la mucca morta, ma come viene trattata la mucca viva. Ne ha fatto una questione di metodo. C'è un modo, dice, per evitare l'allevamento diabolicamente dannoso. Se gli animali vengono liberati dalle stalle, se viene permesso loro di vagare e nutrirsi spensieratamente come gli antenati selvatici, loro sono felici e l'ambiente ringrazia. Un alibi per gettarsi sulla fiorentina senza rimorsi dopo anni a lattuga e zucchine? La Hahn è in buona compagnia. Uno dei primi a lanciare la provocazione è stato Simon Fairlie, caporedattore della rivista inglese The Ecologist ed ex vegetariano. In una candida intervista al Time ha spiegato il punto di vista del traditore: «Non ho toccato carne dai 18 ai 24 anni, poi ho cominciato ad allevare capre. Ma dei maschi non sapevo cosa fare: non producevano latte, non facevano figli. Così ho cominciato a mangiarli». Il suo nuovo credo è spiegato nel libro «Meat: a benign extravagance». Il punto è sempre quello: esistono un allevamento etico e un onnivoro ecologista o flexitariano, che accetta con filosofia il ciclo della vita e della morte. Angelina Jolie e Bill Clinton dicono di avere fatto marcia indietro per ragioni di salute, il frontman dei Coldplay Chris Martin per ripicca dopo il divorzio da Gwyneth Paltrow e dalla sua filosofia cruelty free. Massimo rispetto per Beyoncé e Jay-Z campioni di umana impermanenza e nostri fratelli: sono stati vegetariani solo per 22 giorni.

Da "it.businessinsider.com" il 7 febbraio 2021. La sempre crescente popolazione globale pone seri problemi, uno dei quali è l’agricoltura. Nel lungo periodo, la quantità di terreni agricoli attualmente disponibili sulla Terra non sarà abbastanza da approvvigionare tutti con cibo sufficiente. Ed è altrettanto chiaro come ci sia bisogno di cambiare le nostre abitudini alimentari. Se scegliessimo di coltivare cibi che richiedono meno superficie, saremmo capaci di sfamare più persone con meno terra. Ecco perché i ricercatori di sei università statunitensi, tra le quali la Cornell, hanno sviluppato un modello di simulazione biofisica che vede gli Stati Uniti come un sistema alimentare chiuso, in modo da poter determinare il fabbisogno di terreno pro capite per l’alimentazione umana in quel paese e la potenziale popolazione alimentata dai terreni agricoli esistenti. Con la loro ricerca sono riusciti a stabilire quale dieta sia più sostenibile e quale migliorerebbe di più le possibilità di sostenere la vita umana sulla Terra.

10 diete al microscopio. Durante la simulazione, dieci diversi tipi di diete sono state messe a confronto l’una con l’altra, comprese quelle dei vegetariani, dei vegani e dei carnivori. Si potrebbe desumere che la dieta vegana sia la migliore delle tre da tutti i punti di vista ma, mentre vincerebbe quando si considerassero i diritti degli animali, nella realtà non è così sostenibile come si potrebbe pensare. Le diete con piccole quantità di carne, così come il latto-vegetarianesimo e l’ovo-latto-vegetarianesimo possono alimentare più persone, rendendole in questo modo maggiormente sostenibili per l’ambiente. La ragione è semplice: la dieta vegana lascia troppe risorse inutilizzate. Colture diverse hanno bisogno di tipi di terreni diversi per ottenere un rendimento adeguato. Non tutto può essere coltivato su un pascolo qualsiasi, spesso perché il suolo non contiene i nutrienti necessari.

Il vegetarianesimo è più sostenibile per l’ambiente del veganesimo. Anche se il veganesimo potrebbe non essere la scelta più sostenibile in fatto di alimentazione, ciò non significa che ripensare la vostra dieta non possa comunque essere vantaggioso per l’ambiente: un diffuso abbandono dei prodotti animali, infatti, fa aumentare il numero di persone che devono essere alimentate sui terreni agricoli disponibili. Secondo lo studio le diete maggiormente sostenibili sono quelle vegetariane, con le latto-vegetariane al primo posto. Quali sono state le conclusioni finali dei ricercatori? Cambiare le nostre abitudini di consumo come popolazione globale migliorerebbe in modo significativo, da una parte all’altra del pianeta, la possibilità per le generazioni future di ricevere una nutrizione adeguata. Mentre sia il veganesimo sia un consumo regolare e sostanziale di carni porterebbe a gravi carenze di cibo, nel lungo periodo una dieta latto-vegetariana potrebbe essere la maniera più efficiente per mantenere un livello sufficiente di nutrizione in tutto il pianeta.

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Pastorizia.

Punta a favorire lo sviluppo dell’allevamento estensivo. La pastorizia torna di moda: in Italia nasce la prima scuola. Ilaria Donatio su Il Riformista il 18 Aprile 2021. «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, /silenziosa luna? /Sorgi la sera, e vai,/ contemplando i deserti; indi ti posi. /Ancor non sei tu paga / di riandare i sempiterni calli?». Era il 1829 quando, a Recanati, nelle Marche, Giacomo Leopardi componeva il suo Canto notturno, ispirato dalla lettura di un articolo che descriveva l’abitudine dei pastori nomadi kirghisi di intonare malinconici canti mentre contemplano la luna. E proprio alla luna, lo scrittore scriveva: «Somiglia alla tua vita /la vita del pastore. /Sorge in sul primo albore /move la greggia oltre pel campo, e vede /greggi, fontane ed erbe; /poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera». All’epoca la pastorizia aveva un ruolo centrale nell’economia e nella società. Per lo storico francese Fernand Braudel, tutto il Mediterraneo è un “mare di montagna”, attorno al quale – tra coste e monti – si svilupparono, per millenni, mille piste per la transumanza, i “tratturi”: su tutte le coste è sempre stato, d’inverno, un brulicare di animali, che l’estate salivano, lungo i tratturi, a quote tra i mille e i duemila metri. In diverse aree moderne dell’Occidente, la pastorizia è tornata di recente a riacquistare una certa importanza. La nascita della prima Scuola nazionale di Pastorizia (Snap) – oggi, nel 2021 – sorprende dunque solo chi non conosce a fondo la storia (e un po’ anche la geografia) di tutta l’area mediterranea. «In molte realtà italiane, soprattutto nelle aree interne, montane ed insulari», spiega a Il Riformista Michele Nori – ricercatore dell’Istituto Universitario Europeo col progetto Pastres (pastres.org) e responsabile delle attività formative della rete Appia (retepastorizia.it) – «la pastorizia svolge un ruolo di vero e proprio presidio territoriale, contrastando con la sua presenza radicata e diffusa i crescenti fenomeni di abbandono. E contribuisce a tenere vivi e produttivi gli stessi territori, offrendo una forma sostenibile e autonoma di lavoro e reddito». La Scuola nasce – come attività di formazione – da una serie di riflessioni e accordi tra vari enti, tra cui la Rete Appia, il Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’ Economia Agraria (Crea), l’Universitá di Torino, Eurac Research, il Consiglio Nazionale di Ricerca (Cnr), Nuova Economia di Montagna (Nemo) e Agenform. Il modello di riferimento è dato dalle esperienze esistenti e consolidate da decenni in altri paesi europei come la Spagna e la Francia. Gli obiettivi? Favorire la diffusione e lo sviluppo dell’allevamento estensivo degli animali, all’interno di una logica di multifunzionalità, attrarre risorse umane nel settore agro-pastorale e riqualificare quelle esistenti attraverso adeguati strumenti formativi. Ma anche diffondere nella società la cultura legata al pastoralismo, nella salvaguardia della sua identità e con modalità di gestione rispettose dell’ambiente”. La prima edizione della scuola, che integra attività di apprendimento teorico, pratico (con moduli dedicati a macro aree teoriche che vanno dal diritto all’ambiente, dall’alimentazione ai mercati, dallo studio delle reti di pastori alla sicurezza e sostenibilità) e di stage in azienda, è in fase di organizzazione, e prevede una prima esperienza che dovrebbe coinvolgere territori alpini ed appenninici, a partire dal Piemonte, da inizio 2022. Sul sito della SNAP, tutti gli aggiornamenti.

Ilaria Donatio. Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro a +Europa.

·        L’Estinzione.

Dagotraduzione dalla Reuters il 14 novembre 2021. Il picchio dal becco d’avorio, avvistato per l’ultima volta 80 anni fa, è una delle 23 specie protette dal governo federale degli Stati Uniti che sarà dichiarata ufficialmente estinta. È la proposta presenta dal governo degli Stati Uniti e annunciata ieri. Sebbene il picchio e alcune altre specie proposte per la rimozione dall’elenco delle specie in via d’estinzione siano già sparite da decenni, gli scienziati hanno avvisato che il cambiamento climatico e la distruzione dell’habitat possono rendere più facile l’estinzione di altre specie. «Con il cambiamento climatico e la perdita di aree naturali che spingono sempre più specie sull’orlo della crisi, è il momento di aumentare gli sforzi proattivi, collaborativi e innovativi per salvare la fauna selvatica americana» ha detto il segretario gli interni Deb Haaland. Il gruppo di specie da dichiarare estinte è il più grande finora mai affrontato. Fino ad oggi solo 11 specie classificate come in via d’estinzione si sono effettivamente estinte. Le 23 specie ora proposte comprendono il pipistrello della frutta, 11 uccelli, otto cozze d’acqua dolce, due tipi di pesce e una ppianta da fiore della famiglia della menta. Il picchio dal becco d'avorio, noto agli appassionati di birdwatching come il "Lord God Bird", era il picchio più grande d'America, ma il disboscamento delle foreste nel sud degli Stati Uniti ha distrutto il suo habitat. Il suo ultimo avvistamento è stato documentato nel 1944 nel nord-est della Louisiana. Nella lista c'è anche la parula di Bachman, considerato uno degli uccelli canori più rari d'America. Non è stato visto in natura negli Stati Uniti dal 1962. L'ultimo avvistamento documentato dell'uccello migratore è stato a Cuba nel 1981. Sia il picchio che la parula sono stati individuati per la prima volta come in pericolo nel 1967 sotto il precursore dell'ESA, l'Endangered Species Preservation Act. Secondo il servizio della fauna selvatica, dal 1970 le popolazioni di uccelli nel Nord America sono diminuite nel loro insieme di quasi 3 miliardi di uccelli a causa dei rapidi cambiamenti ambientali legati all'attività umana. Undici delle specie proposte per la classificazione come estinte sono originarie delle Hawaii e delle isole del Pacifico, vittime dei più grandi rischi per via della loro area geografica molto limitata. Il servizio per la fauna selvatica accetterà commenti pubblici per i prossimi 60 giorni e un giudizio finale sarà pubblicato il 29 dicembre. 

Corpi più snelli e ali più lunghe: la metamorfosi degli uccelli sotto la spinta del cambiamento climatico. Anna Lisa Bonfranceschi su La Repubblica il 13 Novembre 2021. Alcuni uccelli che vivono nella foresta Amazzonica, in una zona praticamente incontaminata, si sono snelliti negli anni. Parimenti all'aumento delle temperature e a stagioni secche sempre più secche. Corpi più snelli e ali più lunghe, così da fare meglio i conti con le temperature più elevate e climi più secchi. Così alcuni uccelli della foresta Amazzonica rispondono ai cambiamenti climatici. Cambiano aspetto, e così, fisiologia, ottimizzando l'uso delle energie. La notizia, non certo l'unica del genere - che gli animali si stiano adattando, anche nell'aspetto, agli effetti del riscaldamento globale, è noto – arriva dalle pagine di Science Advances, dove un gruppo di ricercatori presenta i risultati estrapolati dall'analisi di oltre quarant'anni, e per migliaia di uccelli. Sono uccelli di sottobosco, che popolano una regione intatta indisturbata, non interessata dalla deforestazione, dell'Amazzonica centrale, scrivono gli autori. E sono uccelli non migratori. Per i quali i ricercatori hanno raccolto dati nel corso di quarant'anni, misurandone la massa per circa 15mila e registrando anche la lunghezza delle ali e il rapporto massa/ali per 11 mila di loro. Settantasette le specie analizzate. Contemporanemante gli scienziati hanno raccolto i dati climatici della regione, che parlano chiaro: dal 1966, scrivono, le precipitazioni sono aumentate del 13% nella stagione umida, e sono diminuite del 16% in quella secca. Ma le temperature sono aumentate in entrambe, rispettivamente di 1°C e 1,65°C. Cosa è successo durante questo tempo agli uccelli che vivevano in quelle zone? Si sono rimpiccioliti, o meglio son dimagriti, ma non solo. “Anche nel mezzo di questa incontaminata foresta pluviale stiamo assistendo agli effetti globali del cambiamento climatico causato dall'uomo”, ha commentato Vitek Jirinec della Louisiana State University, primo autore del paper. Per tutte le specie analizzate, infatti, i ricercatori hanno osservato una riduzione nella massa. Trentasei di queste avevano perso fin quasi il 2% di massa ogni dieci anni dagli anni Ottanta, 61 invece avevano anche aumentato la lunghezza delle loro ali, e come conseguenza di entrambe le variazioni una cinquantina di loro aveva modificato anche il rapporto massa/ali. Secondo i ricercatori questi cambiamenti nella morfologia permetterebbero agli uccelli di mantenere un volo efficiente sia in condizioni di scarsità di cibo che sotto stress termico, si legge nel paper. Infatti, diminuendo la massa e aumentando la lunghezza delle ali, si ha una riduzione del carico alare (dato dal rapporto tra massa e area alare appunto) che abbassa il dispendio calorico e la produzione di calore. Qualcosa di analogo, citano gli autori, a quanto si osserva in alcuni uccelli migratori, dove l'aumento delle ali aiuterebbe il volo con corpi più piccoli.

·        A tutela degli animali.

Da repubblica.it il 23 dicembre 2021. La scoperta di un raro embrione di dinosauro perfettamente conservato all'interno dell'uovo ha rivoluzionato parte di ciò che conoscevamo sull'evoluzione delle specie dopo l'estinzione dei dinosauri. Il fossile di oviraptosauro, ribattezzato 'Baby Yingliang', appartiene ad una specie vissuta circa 70 milioni di anni fa e ha permesso agli scienziati di osservare per la prima volta un fenomeno ignoto fino a oggi: la postura degli embrioni è simile a quella degli uccelli. L'identikit di 'Baby Yingliang' è stato pubblicato sulla rivista iScience da un team internazionale guidato dall'Università di Birmingham e dall'Università cinese di geoscienze a Pechino. Nel video i lavori di studio del fossile e il render che simula l'embrione di dinosauro. 

Da Today.it il 23 dicembre 2021. Una maestra inglese è stata sospesa dal suo incarico dopo la pubblicazione di un video che la ritrae sferrare calci, pugni e schiaffi contro un cavallo. Le immagini, pubblicate da diverse testate britanniche hanno suscitato un’ondata di indignazione, tanto che la donna si è vista costretta a lasciare la sua casa dopo aver ricevuto addirittura minacce di morte. 

L’insegnante sospesa si chiama Sarah Moulds. Oltre alla sanzione disciplinare inflitta dalla scuola, la donna è stata rimossa dall’incarico di volontaria presso il pony club locale. Il video nel quale Moulds maltratta un animale è già stato visualizzato da oltre tre milioni di utenti.

La sequenza sarebbe stata girata presso il Cottesmore Hunt, un club di cacciatori che usano i cavalli per andare in cerca della selvaggina. Fonti del club hanno affermato che la donna si sarebbe innervosita dopo che il suo cavallo aveva smesso di rispondere ai comandi. Le immagini non sono nitide, ma lasciano pochi dubbi sulla volontà di Moulds di maltrattare l’animale. 

La registrazione pubblicata sui social media dai gruppi animalisti mostrano la donna mentre afferra il cavallo per la briglia prima di prenderlo a calci e schiaffeggiarlo sul muso almeno quattro volte per poi condurlo all’interno di un camion. A seguito del video, Moulds è stata sospesa dal suo lavoro di insegnante alla scuola elementare di Somerby, nell’Inghilterra settentrionale. L’amministrazione della scuola ha spiegato di averla sospesa mentre si trova “in attesa di indagini formali”.

Uno dei vicini della donna ha affermato che l’insegnante “è dovuta andare via dopo aver ricevuto minacce di morte e un sacco di vili abusi” e ora “teme per la sua vita”. “Ha dei bambini piccoli ed è preoccupata per loro”, ha aggiunto il vicino. “È molto conosciuta e rispettata nei circoli equestri, ma i suoi profili social sono stati bombardati di commenti”. 

Schiaffi sul muso e calci a un cavallo durante la caccia alla volpe: maestra licenziata. Enrico Franceschini su La Repubblica il 21 dicembre 2021. La responsabile, ripresa in video da un gruppo animalista, ha perso il suo lavoro dopo essere stata travolta dalle critiche per le immagini che la vedono colpire il suo animale. Sullo sfondo, le polemiche nel Regno Unito sulla caccia alla volpe, 'vietata' solo in parte e senza convinzione dal governo. Una maestra di scuola elementare è stata licenziata per avere picchiato un cavallo al termine di una caccia alla volpe in Inghilterra. Il video dell’episodio, girato segretamente da un gruppo animalista e postato online, era diventato virale sui social media, con più di due milioni di visualizzazioni, suscitando ampie proteste in tutto il Paese. In un primo tempo l’insegnante, Sarah Moulds, era stata sospesa dalla scuola, in attesa di un’inchiesta. Ora le autorità hanno reso noto che ha perso il posto. 

“Posso confermare che il contratto con Sarah Moulds è stato revocato”, ha dichiarato Paul Maddox, direttore generale del Mowbray Education Trust, l’equivalente del provveditorato agli studi di Melton Mowbray, cittadina di 25 mila abitanti vicino a Leicester, nell’Inghilterra centrale. “Siamo impegnati a offrire i migliori standard educativi a tutti i nostri giovani alunni e così continueremo a fare”, ha aggiunto il funzionario. È stato egualmente troncato ogni rapporto con lei da parte del Pony Club locale, un’associazione di equitazione per l’infanzia presso la quale serviva come volontaria: “Condanniamo fermamente le azioni illustrate da quel video”, afferma un portavoce. 

Nel filmato si vede Sarah, in divisa da cavallerizza, che al termine di una caccia alla volpe conduce il suo cavallo verso il camioncino su cui cerca di farlo salire. Per ragioni non immediatamente chiare, la donna lo schiaffeggia sul muso e lo prende a calci con gli stivali. Il video è stato girato da Hertfordshire Hunt Saboteurs (Sabotatori della caccia nella contea di Hertford), un gruppo animalista impegnato a denunciare violenze contro i cavalli.

Messa al bando da più di un decennio durante il governo laburista di Tony Blair per “crudeltà contro gli animali”, che venivano sbranati dai cani, la caccia alla volpe in realtà prosegue sfruttando una legislazione opaca: ora è vietato uccidere deliberatamente la volpe con i cani, ma è permesso inseguirla, sopprimerla con altri metodi o anche con i cani, se questi non vengono esplicitamente incitati a farlo. La Cottesmore Hunt, l’associazione che ha organizzato la caccia alla volpe in cui è avvenuto l’incidente, ha fatto sapere alla Bbc che “disapprova completamente ogni azione del genere e prenderà provvedimenti appropriati in merito”, alludendo alla possibile esclusione dell’insegnante da future cacce.

In Inghilterra è tuttora in corso un aspro dibattito fra chi vorrebbe ripristinare del tutto la caccia alla volpe, appoggiata per lo più da agricoltori e residenti in campagna, e chi vorrebbe una legislazione più rigida che la vieti in ogni sua forma. 

Si tratta dunque di un caso ben diverso dalle polemiche scoppiate alle Olimpiadi di Tokio dell’estate scorsa, quando una pentatleta andò in crisi sulla prova di salto ad ostacoli e la sua allenatrice picchiò il cavallo. In seguito a quella controversia, il Comitato Olimpico ha deciso di cambiare il pentathlon, gara articolata su cinque discipline differenti (scherma, nuoto, tiro a segno, corsa ed equitazione), eliminando l’equitazione. Gli appassionati dell’equitazione ritengono che si debba trovare un equilibrio tra la giusta repressione di episodi inaccettabili e la colpevolizzazione di un intero settore che si basa, in grandissima parte, proprio sull’amore per gli animali.

Elena Marisol Brandolini per "il Messaggero" il 22 dicembre 2021. Che gli animali sperimentino emozioni come piacere, paura, stress e felicità è qualcosa che la comunità scientifica ha dimostrato da tempo, aiutando a modificare la percezione umana circa il benessere dei loro amici domestici a quattro zampe. L'assunzione di questo concetto nella legislazione di un paese rappresenta una vera e propria innovazione, perché afferma che la natura degli animali è differente da quella delle cose. È questo il principio cardine cui s' ispira la legge sul regime giuridico degli animali approvata dal Congresso spagnolo, che modifica il codice civile e alcune altre leggi a questo collegate. Un percorso legislativo iniziato nel 2017, interrotto col cambio di legislatura nel 2019 e portato a conclusione all'inizio di questo mese di dicembre. Considerare gli animali come esseri senzienti li rende soggetti titolari di protezione legale nei confronti di pratiche abusive da parte dei loro proprietari, interviene sul loro affidamento in caso di divorzio e non consente più alcuna loro assimilazione con beni da sequestrare. La Spagna si aggiunge così al gruppo di paesi che hanno smesso di considerare gli animali cose. 

LE NUOVE NORME Uno degli aspetti più interessanti della nuova normativa riguarda il diritto alla custodia condivisa in caso di divorzio dei coniugi che ne hanno la proprietà. In questo caso, le parti devono specificare nell'accordo chi si prenderà cura dell'animale, chi si farà carico dei costi per il suo mantenimento e i termini della custodia condivisa. Se l'intesa è impossibile, interviene un giudice per vigilare sul benessere dell'animale. Il giudice non permetterà che l'animale rimanga col coniuge che lo maltratti o lo utilizzi come strumento di vendetta. La legge spagnola introduce quindi per la prima volta nell'ordinamento l'obbligo di concordare la custodia condivisa degli animali domestici e la somiglianza con quanto accade nel caso dei minori è evidente. Il problema sorge nel caso di coppie di fatto senza figli, la cui separazione non è regolata da nessun accordo prescrittivo. 

IN ITALIA L'affidamento condiviso degli animali domestici si va diffondendo poco alla volta anche in Italia, dove non esiste alcuna norma giuridica che lo disciplini come tale, ma dove ultimamente viene applicato come soluzione giuridica al problema della custodia dell'animale in caso di divorzio dei coniugi. In alcuni casi, infatti, si è concordato un affidamento condiviso al 50% delle spese di mantenimento e del tempo di permanenza con ciascuno degli ex-coniugi, individuando anche un punto d'incontro dove prendere e lasciare l'animale. La disponibilità economica di ciascun coniuge determina la ripartizione degli oneri di spesa all'interno della ex-coppia. Si smette dunque di considerare l'animale di compagnia come un bene materiale, assimilandone il trattamento con quello riguardante l'affidamento dei figli. 

L’Italia mette al bando l’allevamento e l’uccisione di animali per ricavarne pellicce. Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. Dal prossimo 1 gennaio scatta in Italia il divieto di allevamento, riproduzione in cattività e uccisione di visoni, volpi, procioni, cincillà e di tutti gli animali, di qualsiasi specie, usati per ricavarne delle pellicce. La decisione arriva con un emendamento approvato dalla Commissione Bilancio del Senato, che consente — come unica deroga agli allevamenti esistenti — di mantenere gli animali già presenti nelle strutture non oltre il 30 giugno 2022. I 7039 visoni riproduttori presenti negli allevamenti in funzione, tra Lombardia, Emilia-Romagna e Abruzzo — saranno salvti. Per indennizzare i 5 allevamenti ancora attivi sono stati stanziati 3 milioni di euro. A favore della chiusura degli allevamenti di animali da pelliccia — oltre a vip e artisti che avevano scritto una lettera a Draghi promossa da Peta — erano stati enti e politici, dalla Lav a Michela Vittoria Brambilla, presidente dell’Intergruppo parlamentare per i Diritti degli animali e della Lega italiana per la Difesa degli Animali e dell’Ambiente. «Oggi inizia una nuova epoca di civiltà nella quale i nostri figli avranno difficoltà a credere che un tempo gli animali venivano allevati per poi strappare loro la pelliccia», ha detto Simone Pavesi, responsabile Area Moda Animal Free. «Sono tre legislature che mi batto per arrivare a questo grande risultato, finalmente la vittoria», afferma Brambilla. «L’Italia è il ventesimo Paese europeo che introduce divieti o severe restrizioni a questa attività: meglio tardi che mai. Con la chiusura degli allevamenti di visoni si realizza un sogno che le associazioni di protezione animale hanno coltivato per decenni nel nostro Paese e che altrove in Europa, da ultimo in Irlanda e Francia, è già diventato realtà». All’emendamento dedicato agli allevamenti di animali da pelliccia si aggiungono alter misure a favore degli animali, elaborate dall’Intergruppo: su randagismo, canili, tutela della fauna selvatica.

Sarà vietato uccidere animali da pelliccia. Valeria Braghieri il 22 Dicembre 2021 su Il Giornale. Agli allevatori 3 milioni di euro, possono tenere esemplari solo fino a giugno. Venere in pelliccia addio. Visone, zibellino, volpe, martora, leopardo (quello a dire il vero era vietato già da parecchio)... stanno per estinguersi dagli armadi delle signore. In linea con un mondo che cambia, coerentemente al rispetto per l'ambiente, alla sostenibilità, al cruelty free, e ad una nuova coscienza che pervade ogni aspetto della vita, sta per finire l'era delle pellicce naturali. Che poi siamo realisti, complice il riscaldamento globale, salvo a determinate latitudini, chi ha ormai davvero bisogno di una «shuba» russa (è lì che è nata e se ne comprendono bene le ragioni) per stare al caldo?

Niente più ostentazioni a dispetto di quelle bestioline ignare. Perché sì, la pelliccia è sempre stata uno dei simboli di ricchezza per eccellenza: lunghe fino ai piedi, a giacca, a stola, rivisitate a gilet, colorate, vaporose, rasate... purché di pelo. Vero. Uno status, come certi orologi, determinate macchine, i diamanti gialli. Negli anni Cinquanta, i mariti che potevano, regalavano alle mogli soffici pellicce: un segno del fatto di essere arrivati più vicini a dove volevano trovarsi. Sessanta-cinquanta pelli. Tante ne servivano per avvolgere una signora fino alle caviglie che sotto sfoggiasse un abito da sera o un negligée. Ma è finita. Basta orrori e basta animali cresciuti in minuscole gabbie con l'unica prospettiva di essere scuoiati. Ci si mette comodi e caldi nell'era dei piumini e dei giubbotti sintetici.

Con la manovra scatta il divieto di allevamento, riproduzione in cattività e uccisione degli animali da pelliccia, come prevede un emendamento, a prima firma della capogruppo di Leu al Senato, Loredana De Petris (nella foto), approvato dalla commissione Bilancio di Palazzo Madama. La misura consente una deroga agli allevamenti per mantenere gli animali già presenti nelle strutture non oltre il 30 giugno 2022. E verranno stanziati 3 milioni di euro per il 2022 per indennizzare gli allevamenti. «Una norma attesa da tempo e che ci pone in linea con altri Paesi europei e del resto del mondo che hanno constatato quanto sia inutilmente crudele allevare in cattività questi animali per farne oggetto di vetusta vanità». Ha commentato la senatrice M5S Gisella Naturale, capogruppo della commissione agricoltura di Palazzo Madama, circa l'emendamento alla manovra che vieta l'allevamento, la riproduzione in cattività, la cattura e l'uccisione di animali da pelliccia, e sulla creazione del fondo di 3 milioni per indennizzare gli allevatori. «La questione assume connotati attualissimi anche per la diffusione di virus anche attraverso gli allevamenti intensivi», ha spiegato sottolineando che «a questa ottima notizia si aggiunge lo stanziamento di ulteriori 2 milioni alla prevenzione del randagismo, frutto di un mio emendamento che, unitamente agli 8 milioni in favore dei rifugi per animali nei comuni in stato di predissesto o dissesto finanziario, rappresentano un ausilio richiesto dai territori per garantire protezione e cure ai cani in attesa di adozione, oltre che incrementare le sterilizzazioni».

Dopo anni di dibattiti, schieramenti, manifestazioni e imbrattamenti con la vernice, si è mossa la politica per dismettere le pellicce. Perché l'Italia perda il pelo e anche il vizio. E perché il glamour può ben fare un passo indietro, in favore della civiltà. Valeria Braghieri.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 18 dicembre 2021. È bello iniziare la giornata con un abbraccio, ma non molti sceglierebbero di condividere la loro dimostrazione di affetto con un leone adulto. Ma Valentin Gruener è molto simile a un padre per Sirga, leone di nove anni. L'ha salvata nel 2012, quando era solo un cucciolo malaticcio abbandonato dalla madre, e da allora la coppia ha sviluppato un legame incredibile. Camminano, giocano a wrestling e nuotano insieme al Modisa Wildlife Project in Botswana, dove Sirga vive con il tedesco Valentin, 34 anni, e la sua compagna Sarah, 33 anni. «Credo che Sirga mi consideri una migliore amica. Lei ama darmi un grande abbraccio. Strofina molto la testa sulla mia, proprio come un gatto domestico», ha detto Valentin. «Sirga non è mai stata aggressiva con me, ma ho un enorme rispetto per il potere che ha. Sono sicuro che lei sa che sono molto diverso». La regina africana della giungla di nove anni è nata dopo che i suoi genitori sono stati catturati e trasferiti in un campo di riabilitazione per aver ucciso del bestiame. Ma la madre di Sirga ha smesso di darle da mangiare e la cucciola avrebbe affrontato una morte certa senza l'aiuto di Valentin. È quasi un decennio che l'uomo e il grande gatto condividono un legame indissolubile. Il Modisa Wildlife Project è stato co-fondato da Valentin con l'obiettivo di conservare 7.500 ettari a beneficio della fauna selvatica e della popolazione locale.  Offre anche alloggio a ospiti provenienti da tutto il mondo per venire a vivere l'incredibile bush africano.

Valentin ha detto: «Immagino che Sirga mi consideri un migliore amico. Dubito che mi veda come un leone, ma semplicemente il suo compagno con cui ha trascorso gli ultimi 10 anni. Sirga ama stare nei suoi 2.000 ettari insieme a me, la caccia è la sua attività preferita, ma non tanto la parte dell'uccisione, quanto l'avvicinarsi silenziosamente agli animali per poi dargli una bella caccia». «Spesso non arriva nemmeno al punto e Sirga si limita a avvicinarsi e ci sediamo a guardare mentre gli animali non hanno idea che siamo lì, penso che sia il suo momento preferito. Ama anche stare in piedi sulle zampe posteriori e darmi un grande abbraccio ogni volta che la vedo».

Valentin ha continuato: «Sirga si aggira nella sua zona e si comporta proprio come un leone selvaggio. Lei caccia e io mi unisco a lei. Certo, non posso inseguire e abbattere un'antilope, ma poiché i leoni cacciano principalmente nei branchi, ha bisogno di un po' di assistenza quando cattura una preda più grande perché non può tenerla ferma da dietro e arrivare alla gola per ucciderla allo stesso tempo volta». «Per porre fine alla sofferenza io semplicemente taglio la gola della sua preda mentre lei la tiene ferma».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 dicembre 2021. Secondo un nuovo studio, gli scarabei oscuri del deserto maschi fanno sesso orale sulle femmine per ottenere il consenso all'accoppiamento. Scienziati dell'Accademia cinese di scienze agrarie hanno osservato per la prima volta il sesso orale precopuloso tra il criptico scarabeo del deserto Platyope mongolica (P. mongolica), un atto in cui i maschi entrano in contatto con i genitali della femmina usando la bocca. 

Il team, che ha condotto lo studio in Mongolia, in Cina, ha identificato quattro fasi del naturale processo di accoppiamento dell'insetto: maschi che inseguono femmine, contatto sessuale orale, monta e copula. 

Tuttavia, se una femmina non è soddisfatta delle prestazioni del maschio, scapperà e lascerà lo scarabeo maschio a continuare a cercare una compagna da montare e accoppiare. 

Lo studio è stato condotto con coleotteri maschi e femmine raccolti dai ricercatori, che li hanno osservati in un ambiente di laboratorio.

Ciò ha permesso loro di osservare da vicino il sesso orale precopuloso, che è stato fatto dai maschi usando i loro palpi mascellari, un organo sensoriale sulla bocca, per strofinare i genitali della femmina. 

Il team ha osservato che le femmine attirano i maschi mostrando il loro terminale addominale verso l'alto per dimostrare interesse per l'attività sessuale. «Le femmine di solito smettono di muoversi e prostrano la testa mentre estendono il loro terminale addominale più in alto per sottoporsi all'accoppiamento», si legge nello studio pubblicato su Ecology and Evolution. 

«I maschi cercano e inseguono le femmine finché le femmine non smettono di muoversi. Il notevole corteggiamento prima dell'accoppiamento è che i maschi strofinano ripetutamente i loro palpi mascellari sui genitali della femmina prima di tentare di accoppiarsi». 

Sono stati condotti un totale di quattro esperimenti per capire meglio se il sesso orale svolge un ruolo importante nella copulazione di successo.

Dagotraduzione dal Sun il 19 giugno 2021. Si chiama Pigasso, e il suo ultimo pezzo d’arte è stato venduto per 20.000 sterline. Ma ad incassarle sarà la sua padrona, Joanne Lefson, che cinque anni fa l’ha salvato da un macello. Da allora il maialino Pigasso ha realizzato oltre 400 dipinti con il suo muso. Il titolo dell’ultima opera è Wild and Free, e se l’è aggiudicato a neanche 72 ore dalla messa in vendita il tedesco Peter Esser, sborsando 20.000 sterline, e battendo così il record di incasso per un’opera d’arte animale, detenuto finora dal dipinto realizzato dallo scimpanzé Congo venduto a 14.400 sterline nel 2005. «Non è solo un dipinto visivamente sorprendente e bello, è un momento profondo per Pigasso e per gli animali della fattoria. Non puoi guardarlo e non dare maggior valore alla loro intelligenza e alla loro creatività» ha detto la proprietaria Joanne Lefson. Pigasso e Lefson vivono nella Franschhoek Valley del Sud Africa alla Farm Sanctuary, dove finiscono i proventi della vendita. Joanne ha notato il talento del maialino per l'arte dopo che i pennelli sono stati lasciati accidentalmente nella sua bancarella. «Volevo che Pigcasso creasse qualcosa che non era mai stato fatto prima. Una tela oversize che potrebbe sfidare il valore intrinseco di un'opera d'arte creata da un animale». 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 18 dicembre 2021. In un distretto indiano, un gruppo di scimmie infuriate a ucciso 250 cani trascinandoli in cima ad alcuni edifici e ad alcuni alberi e facendoli cadere. Anche i residenti, in preda al panico, sono stati attaccati e hanno raccontanto che gli atti di violenza sugli animali sono stati compiuti "per vendetta" dopo che un branco di cani ha ucciso uno dei cuccioli delle scimmie. Gli orribili incidenti sono stati segnalati nei villaggi di Majalgaon, dove si dice che 250 cani siano stati uccisi da primati scatenati, e nella vicina Lavul, nel distretto di Beed, nel Maharashtra. Secondo il sito web indiano News18 , «non è rimasto un solo cucciolo» a Lavul, dove anche i bambini delle scuole vengono inseguiti e attaccati. Gli abitanti del villaggio hanno riferito che le scimmie si attaccano ai cani non appena li vedono prima di portarli con loro in un luogo alto - la cima di un edificio o un albero - e lasciarli cadere fino alla morte. I rapporti dicono che solo nell'ultimo mese, 250 cani sono stati uccisi in questo modo. Le immagini nei media indiani sembravano confermare gli attacchi. In uno, si può vedere una scimmia su un tetto che trasporta un cucciolo sul bordo di un edificio. Filmati separati, forse dell'incidente che ha scatenato gli attacchi di vendetta, mostravano cani che inseguivano scimmie attraverso il villaggio mentre donne e bambini del posto correvano per mettersi in salvo. I cani sembravano proteggere un bambino. I residenti del villaggio hanno contattato i funzionari del dipartimento forestale, chiedendo di radunare le scimmie assassine. Tuttavia, quando gli ufficiali sono stati inviati al villaggio non sono stati in grado di catturare nemmeno uno dei primati, ha detto News18. Dopo che i funzionari non sono riusciti ad affrontare il problema, secondo quanto riferito gli abitanti del villaggio si sono assunti la responsabilità di cercare di salvare i cani. Ma quando lo hanno fatto, le scimmie hanno reagito ai loro sforzi, con la stazione di notizie che ha riportato che alcuni uomini sono persino caduti dall'alto mentre cercavano di salvare i cani che erano stati trascinati lì. Chiaramente non contente dello sterminio dei cani, ora si dice che le scimmie inseguano i bambini piccoli. Secondo quanto riferito, gli scolari vengono attaccati dalle scimmie, creando un ulteriore senso di panico tra gli abitanti del villaggio. In un caso segnalato, un bambino di otto anni è stato afferrato e trascinato via dalle scimmie, costringendo gli abitanti del villaggio a lanciare loro pietre per spaventarli.

India, scimmie che rapiscono e uccidono cuccioli di cani. Cosa c'è di vero? L'esperta: "Più che vendetta, è un forte conflitto". Giacomo Talignani su La Repubblica il 21 dicembre 2021. Alcuni media parlano di 250 cani uccisi, ma le cifre non trovano conferma. Dubbi anche sui motivi delle aggressioni. In India gli hanno persino dato un nome, come fosse un film d'azione: Monkeys vs Dogs, scimmie contro cani. Nelle ultime ore in rete spopola una storia, con molte lacune, che arriva dal villaggio di Lavool nei pressi di Majalgaon, cittadina del distretto di Beed nel Maharashtra indiano: qui alcune scimmie - per "vendetta" scrivono molti giornali online - avrebbero ucciso 250 cani dopo che un piccolo di scimmia femmina era stato ferito a morte da alcuni cani randagi. La notizia viene rilanciata come una azione di "revenge" da parte delle scimmie, descritte come aggressive e letali per i cuccioli di cani della cittadina: ad accompagnare il tutto anche alcuni video - diventati virali anche con l'hashtag #MonkeyvsDog- in cui si vedono scimmie che afferrano cuccioli di cane e li trascinano su tetti, alberi e palazzine. C'è da considerare però che in molte città indiane la diffusione delle scimmie è un problema sentito, che i media rilanciano anche in virtù del fatto che si tratta di una convivenza non sempre pacifica tra animali e uomo.

Strane cifre

Sebbene sia le autorità locali, come la polizia cittadina o gli operatori del dipartimento forestale di Nagpur, abbiano confermato che si è realmente verificato negli ultimi mesi un problema fra scimmie e cani (ma anche residenti) nella zona, la notizia di 250 cuccioli uccisi trova un difficile riscontro. Alcuni giornali locali precisano infatti che in realtà sarebbero 80 i cani attaccati negli ultimi mesi e non tutti feriti a morte. In altri casi viene invece raccontato di quattro o cinque episodi in cui le scimmie, dopo essersi impossessati dei piccoli di cane, li hanno trasportati su tetti, alberi e zone dove gli umani non possono arrivare: lì alcuni cuccioli sarebbero morti o per stenti o per cadute accidentali dall'alto. Tra cifre discordanti e azioni incerte, diversi residenti della zona confermano però che da alcuni mesi esiste un conflitto concreto relativo ad alcune popolazioni di scimmie, che manifestano comportamenti più aggressivi, tanto che in un caso anche un bambino che si stava dirigendo a scuola sarebbe stato assalito. Intanto, dopo la diffusione del video relativo ai cagnolini aggrediti e le proteste di alcuni abitanti, nella città indiana sono intervenuti alcuni operatori del Nagpur Department che hanno catturato tre esemplari particolarmente aggressivi di scimmie, rilasciate in natura lontano da centri abitati.

"Non vendetta ma conflitto"

L'episodio dell'"uccisione di 250 cani" non convince nemmeno Elisabetta Palagi, ricercatrice del dipartimento di Biologia dell'università di Pisa, etologa esperta di primati. "Dovremmo saperne di più per capire davvero cosa è accaduto, con dati certi. Quello che si può dire è che il termine revenge, vendetta, per i primati è già stato usato in letteratura scientifica ma in quel caso si parla di un contesto differente, con un conflitto fra scimmie: dopo una aggressione di un soggetto verso un altro, la vittima può reagire aggredendo un parente dell'aggressore" spiega Palagi. Nel caso indiano però l'esperta sostiene che probabilmente potrebbe trattarsi di "una forte competizione, fra scimmie e cani, per determinati motivi - a volte per esempio il cibo - che non conosciamo". Difficile che si possa pensare a una precisa ritorsione. Nell'ambito della competizione è però possibile che vengano aggrediti i soggetti più deboli del gruppo, appunto i cuccioli, ma resta improbabile che così tanti cani siano stati uccisi da parte delle scimmie. In alcuni episodi già registrati, nei primati le femmine possono prendere per esempio piccoli di altre femmine, o a volte lo fanno anche i maschi per evitare di essere attaccati. Oppure le scimmie potrebbero aver portato sul tetto i cuccioli di cani, trattandoli di fatto "come scimmie, pensando che se la sarebbero poi cavata, cosa che evidentemente non è successa". I motivi reali delle aggressioni restano dunque oscuri, ma laddove le scimmie vivono a stretto contatto con l'uomo, come per esempio in diverse città di Asia e Africa per esempio, possono in generale mostrare una minore paura, sia dell'uomo che di altre specie. "Pensiamo ai babbuini in Sudafrica, che sono un problema serio per i cittadini, oppure alle scimmie che interagiscono con i turisti in Asia, o ancora ai gelada in Etiopia che vivono a stretto contatto con l'uomo. Quando l'uomo invade zone naturali e gli animali si abituano alla nostra presenza non c'è da meravigliarsi che nascano reazioni competitive di questo tipo, che siano con altri animali o esseri umani", conclude l'esperta.

Giordano Tedoldi per "Libero quotidiano" il 21 dicembre 2021. Nel 2017 un articolo di un gruppo di ricercatori, tra i quali tre italiani, pubblicato dalla Royal Society (la più antica associazione scientifica al mondo, fondata nel 1660), sosteneva che alcune scimmie memorizzano certi comportamenti dei membri del branco e, se aggredite, si vendicano. Gli autori dello studio saranno felici di vedere corroborata la loro tesi da quanto è accaduto in India, nel distretto di Beed, e precisamente nel villaggio di Lavool. Tutto ha avuto inizio con l'uccisione di un cucciolo di scimmia da parte di un branco di cani randagi. Un fatto tutt'altro che infrequente nel regno animale. Ma ciò che si è scatenato a partire da quell'evento è a dir poco impressionante. A un certo momento gli abitanti del villaggio hanno cominciato a vedere due scimmie, sempre le stesse, dare letteralmente la caccia a tutti i cuccioli di cani randagi che trovavano. Una volta catturati, i cuccioli venivano portati sopra i tetti delle case, oppure sulle cime degli alberi o in altri punti elevati, e lasciati lì, dove alcuni sono morti di inedia, altri si sono sfracellati al suolo. A un certo punto lo spettacolo era diventato così atroce che alcuni abitanti del villaggio hanno provato a liberare i cuccioli dalle grinfie delle scimmie, ma sono stati attaccati a loro volta e, anche se non sono stati morsi, si sono feriti durante la fuga. Gli abitanti hanno cominciato a temere che le scimmie potessero ulteriormente estendere la loro vendetta e attaccare perfino i loro bambini, così hanno rinunciato a contrastare le due scimmie. Nel giro di tre mesi le scimmie avrebbero direttamente o indirettamente ucciso circa 250 cuccioli di randagi. Il genocidio, o per meglio dire lo specicidio, ha avuto termine soltanto questa domenica, quando una squadra del dipartimento forestale di Nagpur ha intrappolato e catturato le due scimmie killer, liberandole dalle gabbie nel loro habitat naturale, una foresta nei pressi di Nagpur per l'appunto.

TESTIMONI DIRETTI Anche coloro che non credono che le scimmie abbiano agito per consumare una vera e propria vendetta e sono scettici circa la veridicità dell'evento scatenante, l'asserita l'uccisione di un cucciolo di scimmia da parte di un branco di randagi, ammettono di aver visto con i loro occhi i cagnolini cadere dai luoghi elevati in cui le scimmie li avevano trascinati. Tuttavia, secondo loro, le scimmie avrebbero voluto «prendersi cura» dei cagnolini, i quali impauriti sono morti cercando di scappare, cadendo giù dai tetti o dagli alberi. Una versione ancora meno probabile di quella della vendetta di specie (perché mai, improvvisamente, le scimmie avrebbero mostrato tanta micidiale tenerezza verso i cuccioli?), che invece è sostenuta con forza dagli abitanti di Lavool che, del resto, sono i testimoni diretti di quanto è accaduto. Ora che la mattanza dei cuccioli è finita, saranno gli etologi a dover chiarire tutti gli aspetti di questa storia. A noi, che non siamo scienziati, molto semplicemente viene da pensare che le scimmie sono primati, esattamente come l'uomo, il quale con la vendetta ha grande dimestichezza, quando si abbandona alle passioni più cieche, e di certo non reagisce pacificamente se viene toccata la propria prole, come sa chiunque abbia osato criticare un bambino in presenza dei genitori. 

EQUILIBRIO PRECARIO Non ci stupisce affatto dunque che i macachi, come sostiene lo studio pubblicato dalla Royal Society, o altri esemplari di scimmie possano "segnarsi" un torto e mettere in atto una spietata vendetta. Può risultare sconcertante, per noi umani, vedere una specie animale vendicarsi su un'altra, perché siamo inclini a consumare vendette all'interno della nostra specie, e non interspecifiche. Ma chi può dire se dietro l'avversione umana verso molte specie - insetti, rettili, ma anche mammiferi che a volte vengono esposti come trofei -, o se le nostre stesse abitudini alimentari non abbiano, in origine, come lontanissimo, primitivo movente, una qualche vendetta per l'uccisione di un avo di homo sapiens? Ora nel villaggio di Lavool, grazie all'intervento per quanto tardivo della forestale, è tornato l'equilibrio tra le specie. Ma quello che è avvenuto ci ricorda che questo equilibrio è assai precario, e che forse è ancor più pericolante a causa dei mutamenti climatici ed ecologici. L'uomo non è certo una creatura bonaria, ma a quanto pare anche altri inquilini del nostro pianeta seguono le sue pessime abitudini. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 Dicembre 2021. I bulldog francesi affrontano problemi di salute così gravi che la razza non può più essere considerata una "razza tipica" da un punto di vista medico. È il duro avvertimenti che i ricercatori del Royal Veterinary College hanno lanciato dopo aver analizzato le cartelle cliniche di 24.631 cani, inclusi quelle di 2.781 bulldog francesi. Hanno così scoperto che il cane ha un rischio significatimente più elevato di andare incontro a 20 disturbi comuni, tra i quali le narici strette e la sindrome delle vie aeree ostruttive. I risultati, dice il team, evidenziano la necessità di spostare la razza verso caratteristiche più moderate per ridurre il rischio di disturbi respiratori. «Il raggiungimento di cambiamenti significativi all'aspetto tipico dei Bulldog francesi nel tempo richiede l'approvazione da parte di allevatori e club di canili che pubblicano standard di allevamento», ha detto l'autore dell'articolo Dan O'Neill del Royal Veterinary College. «Ma la responsabilità più grande spetta ai proprietari che alla fine possono richiedere cani con caratteristiche più moderate. Il Kennel Club ha recentemente aggiornato lo standard di razza per il Bulldog francese per allontanarsi ulteriormente da elementi di conformazione estrema con evidenza di effetti negativi sulla salute», ha aggiunto l'epidemiologo degli animali da compagnia. «Questo è un passo molto positivo per dare la priorità alla salute dei cani rispetto ai desideri umani per l'aspetto di questi cani e ora dobbiamo continuare questa evoluzione della razza verso una conformazione più moderata». Nel loro studio, il dottor O'Neill e colleghi hanno analizzato le storie mediche - registrate dalle pratiche veterinarie del Regno Unito dal 2016 in poi nel database VetCompass - di 2.781 bulldog francesi e 21.850 cani di altre razze. Nello specifico, i ricercatori hanno confrontato i tassi di diagnosi di 43 disturbi specifici tra bulldog francesi e altre razze. Il team ha scoperto che i bulldog francesi hanno un rischio significativamente maggiore di contrarre 20 dei disturbi studiati. Tra queste, le narici ristrette che possono causare difficoltà respiratorie (42 volte più alte), la sindrome delle vie aeree ostruite (31 volte), la secrezione dall'orecchio (14 volte), la dermatite delle pieghe cutanee (11 volte) e la difficoltà nel parto (9 volte). «Non c'è dubbio che molti umani amano la sensazione di possedere il loro speciale Bulldog francese. Ma purtroppo questo studio ci aiuta a cogliere l'intera portata dei gravi problemi di salute che colpiscono questi cani», ha affermato il dott. O'Neill. «Soprattutto in vista del Natale, dovremmo fare ai cani un regalo speciale mettendo i bisogni del cane prima dei desideri dell'umano: fermati e pensa prima di acquistare un cane dalla faccia piatta».

L’ermellino di Leonardo. Dodici storie di animali fra arte e natura. Il libro pubblicato da Nomos Edizioni. Carlo Franza l'11 dicembre su Il Giornale.  Nomos Edizioni ha pubblicato un libro-strenna che è un ottimo regalo per chi a Natale volesse fare un dono gradito. Il libro ha per titolo “L’ermellino di Leonardo”, ovvero dodici storie di animali fra arte e natura, a cura di Ananda Banerjee  e Martina Corgnati.

Il libro(pp.239, Busto Arsizio-Va, 2021, Euro 29,90) con una veste elegantissima, una scrittura semplice e accattivante,  è un viaggio nell’affascinante territorio in cui arte e natura si incontrano; un vero e proprio giro del mondo in dodici tappe, che corrispondono ad altrettanti animali osservati nella loro rappresentazione artistica dalla collega  Martina Corgnati (storica dell’arte), e nella loro effettiva presenza in natura e in alcuni fondamentali elementi ecologici che li riguardano da Ananda Banerjee (giornalista esperto di ambiente e sostenibilità). Queste storie rivolte a specialisti e non, e soprattutto a chi ama l’arte e la natura, specie in un periodo come l’attuale che mira a un’arte sostenibile e a un ambiente pulito, sono sempre doviziosamente documentate e illustrate con immagini straordinarie. Ecco la giraffa fedelmente rappresentata da Piero di Cosimo nelle Storie di Vulcano e Eolo al Rinoceronte di Albrecht Dürer, dal leone dipinto da Giotto in un angolo della Cappella degli Scrovegni all’ermellino dell’omonima Dama di Leonardo da Vinci ( da qui il titolo del libro), dal dodo di Ustad Mansur ai pappagalli di Frida Kahlo: gli animali esotici abitano i capolavori della storia dell’arte, velati da simbolismi più o meno antichi e consolidati, portatori di significati moraleggianti spesso codificati nei bestiari medievali, risultati di osservazioni dirette che spesso nascondono storie stupefacenti, talora note ma più spesso nascoste nelle cronache delle varie epoche. La selezione ripercorre sinteticamente la storia dell’arte dal Tardo-antico al Novecento, curiosando fra ambienti e problematiche completamente diverse che riguardano anche, in parte, il rapporto uomo-animale e i suoi cambiamenti nel tempo. Dunque gli animali scelti, fra i più iconici nella storia dell’arte, rivestono oggi anche un ruolo cruciale rispetto alle prospettive di conservazione e tutela della natura. E per finire, a chiusura del libro, un testo di Giovanni Castaldi, psicanalista, sulla performance di Joseph Beuys I like America and America likes me; una postfazione   curativa: “la costituzione di un partito degli animali, per Beuys, poteva proprio significare dare voce al sacro , al totem, al mito,  attraverso ciò che rappresenta  la natura, l’animale nella sua veste di pontefice”. Carlo Franza

Cammelli truccati col botox, squalificati a concorso saudita. (ANSA il 10 dicembre 2021) RIAD,.  Nel 2018 ne avevano squalificati oltre una dozzina, quest'anno sono stati cacciati in 43: un record dalla nascita 6 anni fa del Festival saudita dei cammelli del Re Abdulaziz, tra i più importanti concorsi per questi animali al mondo. La truffa dei cammelli 'abbelliti' col botox e vari prodotti cosmetici, riferisce l'agenzia ufficiale Saudi Press Agency, si è ripetuta nonostante i controlli sempre più rigidi. "I trasgressori rischiano severe multe e vengono banditi dalla partecipazioni a competizioni future", ha spiegato uno degli organizzatori. Il festival, che dura 40 giorni e si tiene nel deserto a nordest della capitale Riad, offre premi che arrivano a 66 milioni di dollari per le diverse competizioni, che includono anche corse tra cammelli. Le manomissioni sono emerse attraverso controlli fisici ed esami clinici degli animali anche ai raggi X. L'uso dei cosmetici mira a rendere le labbra più incurvate e le gobbe più armoniose, elementi ritenuti indicativi della bellezza di questi animali. (ANSA).

Pinguino antartico viaggia da solo per 3mila km e arriva in Nuova Zelanda. Riccardo Castrichini il 12/11/2021 su Notizie.it. Pinguino antartico arriva in Nuova Zelanda a 3mila chilometri dal suo habitat naturale. Gli esperti ne studiano i motivi. Un pinguino antartico è arrivato da solo in Nuova Zelanda, vale a dire a circa 3mila chilometri di distanza dal suo habitat naturale. Si tratta di un esemplare Adelia, una specie che da sempre vive solo in Antartide e che, probabilmente, si è perso. Pingu, questo è il nome con il quale il pinguino è stata ribattezzato in Nuova Zelanda, è stato avvistato per la prima volta dal signor Harry Singh che ha ammesso di aver inizialmente scambiato l’esemplare per un peluche, salvo poi aver capito che si trattasse di un animale in carne e ossa vedendolo muoversi. “Non si è mosso per un’ora, sembrava esausto”, ha raccontato Singh alla Bbc parlando del suo primo incontro con il pinguino avvenuto sulla spiaggia di Birdlings Flat, sulla costa orientale del paese, poco a sud di Christchurch. Ci sono anche dei precedenti di situazioni di questo tipo. La stessa specie era stata infatti già avvistata in Nuova Zelanda nel 1962 e nel 1993, ma si tratta di casi rari all’aumentare dei quali si rischierebbe una situazione complicata. Ora Pingu è stato affidato alle cure mediche degli esperti e, probabilmente, verrà portato su una spiaggia più sicura nella penisola di Banks.

Alessandro Sala per il "Corriere della Sera" il 9 novembre 2021. Gli italiani sono decisamente un popolo di amanti degli animali: se nel 2019 era stato raggiunto il rapporto di 1 a 1 tra popolazione e «pet» - circa 60 milioni gli uni e altrettanti gli altri -, nel 2020 il numero dei secondi è ulteriormente cresciuto e oggi nelle nostre case si contano 62,1 milioni animali domestici, di cui circa 8,2 milioni di cani e 7,9 milioni di gatti (il resto è rappresentato dai pesci degli acquari, quasi 30 milioni, e dai volatili, quasi 13). Non è un caso che l'incremento sia stato più marcato proprio nell'anno della pandemia: lockdown e zone rosse hanno da un lato favorito la vita domestica e tante famiglie hanno pensato di completarsi accogliendo un amico a quattro zampe; e dall'altro chi non aveva qualcuno accanto ha trovato nella compagnia di un cane o di un gatto il conforto alle lunghe giornate di isolamento. Sul fronte economico questo si è tradotto in un anno record per le aziende del settore, che hanno fatto registrare una crescita eccezionale dell'8,8% rispetto all'anno precedente. I numeri emergono dal 14esimo rapporto Assalco-Zoomark che, come ogni anno, scatta la fotografia del comparto del pet care in Italia. Le famiglie che possiedono un animale domestico sono 12,2 milioni, circa un milione in più rispetto alla precedente rilevazione e, di fatto, la metà di tutte le famiglie italiane censite dall'Istat, che sono 25 milioni e 700 mila. Questo pone il nostro Paese al di sopra della media europea stimata da Fediaf, che si attesta al 40%. Ma più che le percentuali dicono i numeri assoluti: nel vecchio continente sono censiti più di 300 milioni di animali da compagnia, 228 milioni se si considera solo l'area Ue, con un rapporto per abitante di 1 a 2, la metà rispetto all'Italia. C'è poi un'altra differenza: in Europa il pet più diffuso è il gatto, con circa 110 milioni di esemplari, seguito dal cane con 90 milioni. In Italia fino al 2020 i due animali domestici per eccellenza si equivalevano in numero, ovvero circa 7 milioni gli uni e gli altri; nell'ultimo anno i cani hanno superato i felini ma entrambe le specie sono comunque cresciute fino ai numeri già citati all'inizio, per un totale di oltre 16 milioni. L'aumento del numero di animali domestici è stato determinante nella crescita dei fatturati e dei volumi di acquisti. Solo per il pet food gli italiani hanno speso, da giugno 2020 a giugno 2021, 2 miliardi e 350 milioni di euro, con un incremento del 6,4% rispetto all'anno precedente. Per gli accessori, ovvero tutto quello che non è cibo (prodotti per l'igiene, antiparassitari, giochi, abbigliamento, ciotole, guinzagli, etc), la spesa è stata di 75,1 milioni. Un discorso a parte riguarda le lettiere per gatto, una necessità per tutte le famiglie che ospitano i propri mici in un appartamento, che da sole valgono 78,3 milioni di euro. Il trend positivo, in realtà, era iniziato già prima della pandemia: anche negli anni della crisi economica il pet care era stato uno dei pochi settori a fare registrare variazioni sempre in positivo e dal 2017 ad oggi la progressione è stata rispettivamente del 2,6%, del 3%, del 4,3%. Fino, appunto, al 6,4% dell'ultima rilevazione. Lo studio evidenzia anche come sia sempre maggiore la propensione dei consumatori ad acquistare prodotti di qualità, che si traduce in una variazione maggiore in termini di valore che di volumi e la buona tenuta dei negozi specializzati, sia quelli tradizionali sia quelli delle principali catene tematiche, con una crescita progressiva anche dei cosiddetti «petshop gdo», ovvero i nuovi punti vendita dedicati agli animali legati ai marchi della grande distribuzione organizzata. In aumento sono anche le strutture veterinarie nelle diverse forme, dallo studio gestito da un singolo medico alle cliniche: erano 7.100 nel 2018, sono arrivate a 9.400 nel 2021 (fonte Seat/Iol). Tutto bene dunque? Le cose potrebbero anche andare meglio se le istituzioni dessero un piccolo aiuto. I prodotti per gli animali in Italia sono ancora equiparati ai beni di lusso, con un'aliquota Iva del 22%. Una contraddizione se si pensa al valore sociale degli animali in famiglia, ormai assodato, che la pandemia ha messo ulteriormente in evidenza. Le associazioni di categoria e il mondo animalista da tempo chiedono di abbassarla almeno al 10%. 

Emily Capozucca per il "Corriere della Sera" il 12 novembre 2021. Partiamo dai numeri: in Italia ci sono 62,1 milioni animali domestici, di cui circa 8,2 milioni sono cani e 7,9 milioni gatti (ci sono poi quasi 30 milioni di pesci negli acquari, e 13 milioni di volatili). Significa un giro d'affari che, per la sola alimentazione di cani e gatti, supera i 2.400 milioni di euro. Un'industria che nel tempo si è fatta di alta qualità: maltagliati in salsa, drink al brodo di carne, bacche di goji e alghe, snack vegetariani e sugar-free. Non è il menu di un ristorante stellato ma l'elenco di alcuni nuovi tipi di crocchette e spuntini per animali che sempre di più entrano nelle nostre case, soprattutto dopo il lockdown. Ormai il nostro amico a quattro zampe è diventato membro effettivo delle nostre famiglie, tanto che in molti casi se ne festeggiano i compleanni con torte e dediche personalizzate. E, in fatto di cibo, si presta un'attenzione particolare a prodotti di alto livello che possano apportare alla dieta tutti i nutrimenti necessari per condurre un'esistenza sana e con aspettative più lunghe di vita. E allora ecco croccantini e snack di alta gamma senza coloranti o conservanti, prodotti con materie prime naturali secondo le indicazioni per una dieta equilibrata dei nutrizionisti; e ancora, cibi crudi, freschi e naturali e, soprattutto, cibo (teoricamente) commestibile anche per gli umani. Sono soltanto alcune delle proposte che le aziende del settore hanno presentato agli stand della diciannovesima Zoomark International 2021, la fiera internazionale dedicata a prodotti e attrezzature per gli animali da compagnia visitabile fino a oggi a Bologna Fiere. Con un obiettivo primario: il benessere degli amici a quattro zampe. Significa dieta calibrata alle specifiche esigenze, che può essere integrata con una serie di prodotti collaterali finalizzati a migliorare la salute degli animali. Spuntano così gli integratori alimentari per pet, dai semplici multivitaminici a quelli che migliorano i problemi delle articolazioni, i traumi post-operatori, e prevengono malattie. Per risolvere il problema della somministrazione di un farmaco sono stati poi ideati dei bocconcini forati al centro, in modo da renderlo più appetitoso. Pare che la longevità sia poi inversamente proporzionale alla velocità di masticazione. Si sa che ingurgitare velocemente il cibo porta a deglutire anche aria e a peggiorare la digestione. Per risolvere il problema, ecco le ciotole anti-ingozzamento, fatte con spuntoni o a scacchiere che costringono il cane o il gatto a dover cercare le crocchette tra gli ostacoli in modo da allungare i tempi dei pranzetti. La novità sta nei materiali: la gomma naturale prende il posto della plastica o del silicone perché, se ingerita, a contatto con i succhi gastrici non è nociva. Ciotole che hanno forma di tappetini quadrati dalle piccole punte ruvide che a contatto con la lingua, oltre a pulire il cavo orale, stimolano la produzione di endorfine dando una piacevole sensazione di confort. Un benessere dunque che passa anche da soluzioni innovative e dall'uso di materiali più sostenibili. Gli amici a quattro zampe non possono di certo lamentarsi.

Carlo Ottaviano per il Messaggero il 7 novembre 2021. L'ultima novità è il pasto ordinato via mail e creato su misura dal nutrizionista. In pochi mesi la Petter Food del milanese Giacomo Biagi ha consegnato 120 mila piatti pronti. Altra start up col vento in poppa, la romana Lovbau, fondata da Luigi Bizzarri, che utilizza per il delivery la società Glovo, partner di ristoranti e pizzerie. Ma attenzione non stiamo parlando di pranzi e cene gourmet, ma delle pappe degli amici a quattro zampe. Il cibo per gli animali da compagnia e gli oggetti per la loro cura sono infatti un mercato che durante la pandemia Covid-19 è ulteriormente cresciuto (+8%) raggiungendo un giro d'affari record di 2,41 miliardi di euro l'anno. Un milione sono le famiglie che per la prima volta tra luglio del 2020 e il giugno del 2021 hanno acquistato prodotti per animali domestici, a dimostrazione della voglia di coccole con gli animali durante il lockdown. Euromonitor stima la presenza di oltre 62 milioni di animali nelle case italiane: quasi 30 milioni di pesci, più di 16 milioni di cani e gatti, circa 13 milioni di uccelli e oltre 3 milioni e mezzo tra piccoli mammiferi e rettili. «Ormai sono parte integrante delle famiglie in cui vivono afferma Gianmarco Ferrari, presidente di Assalco, l'associazione degli imprenditori del settore - e questo si riflette anche nell'andamento positivo del mercato». 

LE OPPORTUNITÀ Grande, di conseguenza, l'interesse del mondo della finanza che individua le opportunità di sviluppo. A livello mondiale gli Usa sono i maggiori produttori di cibo per animali, con una sola azienda europea (spagnola) nella top 10 di PetFoodIndustry 2021. La prima italiana è la piemontese Monge, al 23esimo posto in classifica: oltre 350 milioni di dollari di ricavi, +23% rispetto al 2019, da pochi mesi nell'azionariato di Mediobanca con l'1,003%. Italiana potrebbe però essere presto la maggiore catena europea specializzata. È infatti ormai in dirittura d'arrivo la fusione in un'unica azienda del leader italiano Arcaplanet (nata a Genova nel 1995, ricavi per 400 milioni, 380 punti vendita) e di MaxiZoo Italia, proprietà tedesca, terza catena con 130 negozi e 124 milioni di fatturato. Protagonisti dell'operazione sono i fondi private equity internazionali Cinven e gli attuali proprietari di Arcaplanet Permina e Winch Capital Partners. Assieme stanno per acquisire MaxiZoo Italia dalla tedesca Fressnapf, per dare poi vita a un gruppo da un miliardo di euro. Il closing è previsto per la primavera. Insomma, grandissima vivacità del settore che da mercoledì (fino al 12) sarà in mostra a BolognaFiere col salone b2b Zoomark International. Il rapporto annuale elaborato da IRI Information Resources indica la presenza in Italia di 4.857 negozi specializzati che fatturano 653,6 milioni di euro, a fronte dei 312 milioni delle catene petshop cresciute del 19,7%. La performance migliore spinta dall'emergenza sanitaria come in tutti gli altri campi è stata dell'e-commerce (49 milioni, +104%). Il canale Grocery (i prodotti confezionati nella distribuzione) assorbe il 56,5% del fatturato complessivo per 1.373 milioni di euro. Per l'alimentazione degli amici a quattro zampe, gli italiani spendono un po' di più (circa il 7%) per i gatti che per i cani. Le due voci assieme valgono secondo i dati Iri - 1,37 miliardi e coprono il 75,9% della spesa totale. Solo 12 milioni di euro (+1,9% nell'anno) per i piccoli animali da compagnia: il segmento principale è quello dei prodotti per gli uccelli ornamentali, che copre il 42,9% di questo mercato. Seguono gli alimenti per roditori (31,4% del fatturato), dei pesci e delle tartarughe (rispettivamente il 12,6% e l'11,8%).

GLI ACCESSORI In crescita, anche i prodotti pet cure (collari, guinzagli, gabbie, lettiere, toletta). Iri calcola un giro d'affari di 75,1 milioni di euro (+4,1%). Nella categoria i segmenti più dinamici sono stati i prodotti per l'igiene (tappetini assorbenti igienici, salviette, shampoo, spazzole, deodoranti), in crescita del 7,1%, e i giochi (+14,6%). Le lettiere per gatto, rilevate separatamente, hanno sviluppato nel solo canale della grande distribuzione un fatturato di oltre 78,3 milioni di euro, in aumento del 4,6% a valore.

Remo Sabatini per ilmessaggero.it il 24 ottobre 2021. «Quello che è avvenuto ieri, rappresenta una svolta storica del nostro Paese». Queste, in sintesi, le parole ed i commenti più cliccati che da ieri, si rincorrono sul web dopo l'approvazione del Parlamento francese del nuovo testo dedicato al benessere animale. Un disegno di legge che, come vedremo, presenta molte novità, a partire dall'inasprimento della pena per chi si macchia di reati contro gli animali, quali maltrattamento, abbandono e soppressione e che prevede sanzioni fino a 75mila euro e 5 anni di carcere. Inizialmente, è stato precisato, le nuove misure entreranno in vigore gradualmente ma, come illustrato dalla grafica diffusa da La Ligue des Animaux, una delle associazioni ambientaliste più note del Paese transalpino, i punti chiave sono già stati espressi chiaramente. Tra questi, il divieto di vendere cani e gatti nei negozi che, così come l'esposizione in vetrina, partirà dal primo di gennaio del 2024, il divieto di allevare animali per la produzione di pellicce, come ad esempio i visoni, per arrivare presto allo stop degli animali selvatici nel circo così come a quello di delfini e altri cetacei negli acquari e parchi marini. “Inasprire le sanzioni nei casi di maltrattamento, fermare il traffico di animali selvatici e vietare la vendita di cani e gatti nei negozi - ha dichiarato l'ex ministro Christophe Castaner, è necessario per meglio proteggere gli animali - Con la nostra legge, ha concluso, è stato fatto».

Il coccodrillo minaccia il cucciolo di elefante, interviene la madre che lo calpesta a morte. Il video è stato girato da un turista durante un safari in Zambia, E.B. / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 23 ottobre 2021. Per difendere il proprio cucciolo questa elefantessa africana ha calpestato un coccodrillo fino ad ucciderlo. Il predatore di circa 3 metri, infatti, aveva preso di mira l’elefantino nelle acque poco profonde del fiume Zambesi. Le immagini, piuttosto rare e cruenti, sono state girate da Hans Henrik Haahr, un turista danese, durante un safari.

Roma, l'istrice per strada? Che fine agghiacciante gli hanno fatto fare: immagini forti. Libero Quotidiano il 20 ottobre 2021. Non solo animali vivi che girano indisturbati per la città, adesso anche quelli morti preoccupano i cittadini di Roma. Nella capitale, infatti, è stato avvistato un istrice morto per strada e non rimosso. A fare la segnalazione al sito Leggo è stata una residente, Francesca, che ha trascorso una giornata intera al telefono per cercare di capire chi tra istituzioni e associazioni potesse aiutarla a rimuovere l'animale. "Ho visto per strada il corpo dell'istrice, steso tra il marciapiede e un albero vicino alla circonvallazione Trionfale, all'angolo con via Giovanni Bovio - ha raccontato la donna -. Intorno c'era del sangue, probabilmente è stato investito nella notte. Arrivata al lavoro ho iniziato subito le chiamate per capire chi potesse togliere l'istrice". Francesca, però, sembra essersi scontrata pesantemente con la burocrazia: "Prima il Comune con lo 060606, poi la Polizia locale del gruppo territoriale che aveva già ricevuto una segnalazione, quindi l'Ama e la Asl veterinaria. E ancora i carabinieri della forestale e poi la Lipu". Nessuno, però, sarebbe stato in grado di aiutarla: "Nessuno aveva la competenza per togliere la carcassa dell'animale. Per l'Ama era troppo grosso, la Asl si occupa solo di cani e gatti e la Lipu ha detto di no perché si trattava di un animale selvatico. I carabinieri infine mi hanno consigliato di rivolgermi alla Regione". La cittadina, allora, ha fatto sapere che si rivolgerà agli uffici regionali. Se neanche quelli sapranno come aiutarla, ha già deciso che provvederà da sola con una pala e qualche amico di buona volontà. Nel frattempo, però, l'amarezza è tanta: "È una questione di decoro e igiene, chissà quanti topi può attirare l'odore di un animale morto".

Avezzano, orso bruno ucciso in autostrada: "Il conducente è scappato", impatto violentissimo. Libero Quotidiano il 20 ottobre 2021. Nella notte tra lunedì 18 e martedì 19 ottobre, intorno alle 3, è stato ucciso in autostrada un giovane orso bruno marsicano. L’incidente si è verificato sulla A/25, nell’area del comune di Avezzano: un esemplare maschio, dal peso di circa 200 chili, è stato investito mentre era intento ad attraversare la strada. Più precisamente, è stato colpito al centro della carreggiata in direzione di Pescara, dopodiché è stato trascinato per circa 15 metri: la sua fine è avvenuta nella corsia di sorpasso, è praticamente morto sul colpo. Gli agenti della sottosezione di Polizia Stradale di Pratola Peligna hanno curato i rilievi dell’incidente e hanno rinvenuto sul luogo dell’investimento frammenti di colore bianco e nero, appartenenti molto probabilmente al veicolo che ha messo sotto l’orso bruno marsicano. Il conducente non si è fermato, mentre l’orso è deceduto per politraumatismo da investimento, come constatato dal veterinario della Asl di Avezzano. Le indagini sono in corso per accertare il punto dell’impatto e i motivi per cui il conducente del veicolo non si sia fermato a soccorrere l’animale, nonostante anche il suo veicolo fosse certamente danneggiato. Tra l’altro il soccorso è previsto dall’art. 189 comma 9 bis del codice della strada.

Da Ansa.it il 13 ottobre 2021. Una donna di 89 anni è morta sbranata da due cani di razza Amstaff dopo essere entrata per errore, in stato confusionale, nel cortile di una villetta. È successo ieri sera a Sassuolo (Modena). Lo riporta il Resto del Carlino. La vittima, Carla Gorzanelli, ha perso la vita a pochi metri dalla propria abitazione da dove pare si fosse allontanata eludendo la sorveglianza della badante. Sono intervenuti la squadra mobile della Polizia, i carabinieri e la scientifica, oltre al 118 anche se l'anziana all'arrivo era già morta. L'attacco è avvenuto davanti a una bimba, che era davanti al cancello della villa in attesa della madre. Secondo una prima ricostruzione, la stessa bimba avrebbe detto all'anziana «Cosa ci fai qui?». I due cani, si ipotizza, potrebbero aver assalito Carla Gorzanelli per istinto protettivo nei confronti della bambina. Sul luogo della tragedia giunto anche il figlio dell'anziana, che stava cercando la madre allontanatasi da casa: «Non era mai uscita dall'abitazione, non so come sia potuto accadere», le sue parole. Nella villa di Sassuolo al lavoro anche la polizia scientifica e il medico legale. Alcune risposte alle domande sulla dinamica di quanto accaduto potrebbero arrivare dalle telecamere di videosorveglianza della villa.

Dagotraduzione da The Smoking Gun il 16 ottobre 2021. Siccome sospettava che ci fosse un intruso nel suo fienile, una donna della Florida ha installato una telecamera per sorvegliare la zona. Ma dai filmati si è accorta che uno dei suoi dipendenti aveva contatti sessuali con un cavallo ospitato nella struttura. Catherine Engel, proprietaria della casa ha raccontato alla polizia che il mese scorso, dopo aver scoperto segni di corde sul collo del suo cavallo, ha fatto installare una telecamera all’ingresso della stalla. La telecamera ha così ripreso Santiago Victoria, 57 anni, entrare nel fienile a tarda notte e invadere una stalla occupata da un cavallo di nome Mariah. Durante tre incontri separati, Victoria «si mette dietro il cavallo in modo sessuale», secondo la dichiarazione scritta e giurata dell’ufficio dello sceriffo, il quale ha fornitor un resoconto grafico della presunta condotta illecita. Engel ha identificato Victoria come il sospettato, dicendo ai poliziotti che lavorava per una società di saldatura che parcheggia veicoli nella stessa proprietà in cui si trova il fienile. Quando i poliziotti venerdì hanno affrontato l’uomo nella sua residenza, ha «ammesso di avere avuto rapporti sessuali con il cavallo», ma non riusciva a ricordare quante volte. Gli investigatori affermano che Victoria ha anche ammesso di non avere il permesso di entrare nel fienile. Victoria è stato arrestato con tre accuse di furto con scasso. È stato incarcerato nella prigione della contea, dove è detenuto salvo cauzione di 75.000 dollari. Victoria, che è stato precedentemente condannato violazione della libertà vigilata, sarà interrogato il 29 novembre.

Colorado, da due anni un alce vive con uno pneumatico al collo: salvo. Redazione Tgcom24 il 12 ottobre 2021. Gli ufficiali del Colorado Parks and Wildlife lo stavano osservando da anni, mentre con uno pneumatico appeso al collo l'alce di appena di quattro anni e mezzo vagava tra la fauna del parco. Inutili gli ultimi tre tentativi di liberarlo. Almeno fino a sabato 9 ottobre, quando l'alce ha dovuto pagare il conto più salato: le sue corna. L'animale, dal peso di 270 chilogrammi, vagava con la gomma attorno al collo da un paio di anni e più volte era stato avvistato dai soccorritori del parco. Sabato, durante l'ennesimo incontro vicino a Denver, sono riusciti a catturarlo e ad aiutarlo. La prima difficoltà però, è stata quella di capire come liberarlo, dato che l'acciaio presente nel pneumatico rendeva impossibile tagliare via la ruota senza rischiare la vita dell'animale. La soluzione, per tornare a vivere, è stata di tagliare le sue corna che, contando anche il peso dello pneumatico, lo hanno liberato da circa 16 kg extra. Una perdita non da poco. Le corna infatti sono indispensabili all'alce durante questo periodo dell'anno per permettergli l'accoppiamento prima dell'inizio dell'inverno, e prima di perderle naturalmente in vista della rinascita primaverile. Peraltro, la presenza della gomma non aveva avuto effetti evidenti sulla salute dell'animale che, per lo stupore di tutti, non aveva riportato al collo alcuna ferita visibile.

Da tg24.sky.it il 10 ottobre 2021. Un pescatore thailandese è entrato nel club dei milionari grazie a una scoperta tanto rara quanto insolita: un pezzo di vomito - o ambra grigia - di balena da 30 chili dal valore di circa 1 milione di euro, come riporta il Daily Mail. Narong Phetcharaj, questo il nome del pescatore riportato da alcuni media internazionali, aveva appena terminato una giornata di pesca quando ha notato uno strano oggetto spinto a riva dalla corrente sulla spiaggia di Niyom nella provincia di Surat Thani. Avvicinandosi, ha scoperto che si trattava di vomito di balena, una sostanza cerosa solida prodotta nell'apparato digerente dei capodogli. Il pescatore ha tenuto il vomito di balena avvolto in un asciugamano, nascosto per sicurezza in una scatola di cartone e l'ha poi fatto testare agli esperti della Prince of Songkla University, che l'hanno identificato come ambra grigia, sostanza considerata come un tesoro marino, un vero e proprio oro galleggiante perché contiene un alcol inodore che, una volta estratto, viene utilizzato per stabilizzare l'odore nei profumi facendolo durare più a lungo.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 7 ottobre 2021. Come due vecchi amici, uniti da un profondo affetto fino all'ultimo momento. Ndakasi si è spenta posando il capo sul petto di Andre, la persona che per 14 anni si era curata di lei ed era diventata compagna di giochi e amica. La gorilla Ndakasi era stata salvata nel 2007, nella foresta congolese, l'avevano trovata dei militari sulle tracce di una milizia di ribelli. Era aggrappata al seno della mamma uccisa come cacciagione, forse dagli stessi ribelli. Aveva solo due mesi, era fragile, e insieme a un'altra piccola gorilla, Ndeze, anche lei rimasta orfana, fu portata al parco nazionale Virunga per essere curata, ed eventualmente rimessa in libertà. Ma la piccolina e la sua compagna erano troppo fragili, avevano sofferto uno shock terribile vedendo le proprie madri e il resto della famiglia massacrate per la loro carne, e non sono mai riuscite a recuperare la forza necessaria perché gli amministratori del parco nazionale potessero rimetterle in libertà. Andre Bauma, il curatore che la prese in consegna la stessa notte del suo arrivo, dovette per settimane tenerla stretta fra le braccia, proprio come un bambino, per darle calore e affetto. E così Ndakasi e Ndeze sono cresciute tra gli umani, e ne sono diventate amiche. In un certo senso, come ha raccontato Andre, il suo curatore, le due gorille hanno aiutato gli umani «ad essere ancora più umani». Ndakasi soprattutto sembra che avesse un'innata allegria, un buon senso dell'umorismo e una grande capacità di comunicare, non è un caso che il suo nome significasse «felice di dare il benvenuto». Andre ha spiegato: «La sua natura dolce e la sua intelligenza mi hanno aiutato a comprendere il rapporto profondo che c'è fra gli umani e le grandi scimmie, e perché dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere per proteggerle». Dopo la morte della gorilla, lo scorso 26 settembre, Andre ha scritto: «Sono orgoglioso di poter dire che Ndakasi è stata mia amica. Le ho voluto bene come si vuol bene a un bambino, e la sua personalità allegra mi ha fatto sorridere ogni volta che la vedevo». Ndakasi si divertiva soprattutto a fare e a ricevere il solletico, si appassionava a guardare fotografie e fare fotografie, tant' è che è diventata famosa nel 2019 per una foto in cui compare insieme all'amica Ndazi e in cui sembra che sorridano tutte e due in modo ironico. Tanto Ndakasi era diventata famosa che ci sono gorilla nate in altri centri di protezione nel resto del mondo che sono state chiamate col suo nome.  Grazie alla sua fama, è stato fatto anche un documentario per raccontare la sua storia e il coraggio degli individui che rischiano la vita per proteggere i gorilla nel parco di Virunga in Congo, uno degli ultimi parchi nazionali dove ancora esistano i gorilla della montagna.  Il luogo è pericoloso, tant' è che i rari turisti possono essere solo ammessi accompagnati da Ranger che hanno particolare esperienza della guerra nella giungla e accompagnati anche da cani da fiuto che siano in grado di recepire la presenza di una minaccia. Nel 2019 il parco dovette essere addirittura chiuso temporaneamente quando dei guerriglieri uccisero uno dei Ranger. C'è comunque da dire che proprio la popolarità di Ndakasi ha fatto sì che aiuti e finanziamenti internazionali siano arrivati per proteggere il parco e il numero di gorilla della montagna che nel 2007 era sceso a 720 adesso è risalito a 1063. Sono sempre pochi, e i gorilla rimangono nella lista degli animali a rischio di estinzione, ma c'è motivo per sperare in un continuo miglioramento.  Ndaksi si è spenta pacificamente, dopo una malattia prolungata che di colpo era peggiorata. Il suo amico e curatore, Andre, le è stato accanto tutto il tempo, molto spesso semplicemente per posarle un braccio intorno alle spalle mentre lei teneva la testa sul suo petto, per trarne conforto. Una gorilla dallo sguardo così dolente, un uomo che la consola in silenzio, un'immagine così profondamente umana, che la foto ha fatto il giro del mondo causando commozione ovunque. Anna Guaita

Storia di Ndakasi, gorilla morta così: abbracciata al suo amico e custode. Enrico Alleva Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. Ma cosa c’è all’origine del loro legame? Venne ritrovata cucciola, ecco quello che la foto non mostra. Nata nel 2007 nel gruppo di gorilla selvatici del famoso parco nazionale dei Virunga, nella zona del confine orientale del Congo, la cucciola Ndakasi venne ritrovata malconcia dai guardiaparco accanto al cadavere della madre, abbattuta dai locali guerriglieri. Trasportata nel centro di recupero di Goma, venne curata da Andre Bauma, che se la tenne subito stretta al caldo tra le braccia. Con altri gorilla orfanelli venne trasferita tre anni dopo nel centro di recupero di Senkwekwe, dove è morta lo scorso 26 settembre. Senkwekwe passa per un centro di recupero per gorilla unico al mondo - e certamente è di buon livello -, ma centri del genere per specie che evocano nei Paesi ricchi pietà e magica empatia (con il corollario di finanziamenti crowfunding per elefanti, orsi, tigri, con stage volontaristici più o meno formativi per appassionati e studenti) non sempre privilegiano robuste collaborazioni con etologi professionisti esperti.

Compagno di giochi e di sviluppo mentale

Lì Ndakasi legò con il cucciolo Ndeze, compagno di giochi e di sviluppo mentale, un’occasione essenziale per accrescere capacità empatiche fluide e socialmente competenti. Un’avventura insolita, ma che testimonia quanto l’etologia applicata faccia progressi continui, anche in casi «di recupero» dell’equilibrio mentale turbato, ben diverso dal malessere passeggero del cane depresso o del gatto insolitamente molesto e dispettoso. Guardando ora la foto di Ndakasi morente fra le braccia del suo custode Andre viene da chiedersi: che cosa c’è nella mente del gorilla che, in assenza di un compagno appropriato della stessa specie, lo spinge a stringere quel vincolo affettivo, quell’interspecific bonding che ce lo fa scorgere, resuscitato socialmente, mentre si avvinghia all’essere umano che lo sta curando o che lo sta accudendo? Risposta: c’è quell’impronta darwiniana, quel complesso set di stimoli che rende «appetibile» qualcosa che in natura non esisterebbe. In fondo (alla mente del cucciolo) volto, sguardo e sorriso di persone o gorilla non sono poi così diversi.

L’abbraccio interspecistico

Il problema tecnico è se questo vincolo affettivo davvero rappresenti un fixed action pattern (modulo fisso d’azione, si rilegga lo psichiatra e premio Nobel per l’etologia Konrad Lorenz su questo sistema di stimolo-risposta), quel comportamento cioè che rende immediatamente leggibili, già alla nascita, il volto della madre per il neonato, con il loro reciproco sorridersi, l’attrazione fatale altrettanto complice della madre, con i vari gradi e intensità di sorrisi, il contorno armonico di lievi oscillamenti del capo, quello scrutarsi intenso, quei movimenti dei muscoli facciali che si coniuga con un odore famigliarissimo, già noto al piccolo fin dal suo traballante galleggiare nel fluido amniotico del ventre materno. Sarà quel «baby schema» lorenziano a spiegare come mai la lupa generosa sulle rive del Tevere adottò due gemelli affamati, un altro branco lupino il Mowgli di Kiplng o i tanti gattini adottati da cagne e viceversa? Per non parlare dei pulcini di gallina che anatra immediatamente adotta, per un imprinting neonatale che si cementa con un insopprimibile appetito di maternità repressa.

«I piccoli non si toccano»

Citato gloriosamente nell’ Albero della vita, acclamato film del 2011 di Terrence Malick, il «baby schema» lì vede un ferocissimo dinosauro carnivoro che, apprestandosi a sbranare un cucciolo belante e impacciato di dinosauro erbivoro, semiaffogato sul greto di un immaginario fiume del Triassico, nel vederne le bambinesche goffe mosse e gli altri segni certificanti di infantilità - quali testa di grandi dimensioni rispetto al corpo, occhi grandi e spalancati - si blocca perplesso e poi abbandona la preda. Allontanandosi nemmeno troppo mesto né allarmato, magari pensieroso per quanto la ricostruzione filmica di un grande regista riesca a simulare. I piccoli non si toccano, o almeno alcune volte può essere inibita quella furia predatrice che sfama: il sagace regista desiderava chiedersi se una pietà «primigenia e primordiale», insieme al rispetto per i piccoli, fosse già presente in questi rettili estinti, magari per poi fiorire nei mammiferi e diventare imperativo culturale nelle popolazioni di Homo sapiens di (quasi) ogni latitudine.

Guerriglia Fame

Tutto questo discorso per arrivare a dire che c’è una morale geopolitica e insieme etologica nella storia della gorilla di montagna Ndakasi, storia così dolce e così cruenta. Recita che i Paesi ricchi, affamati di oro, coltan, metalli preziosi e scarsi, diamanti, alimentano incessanti guerre locali, e proprio in zone dove specie animali rarissime convivono con bande armate e inferocite. Dove anche i bambini impugnano le armi, sparando a qualsiasi cosa si muova. E dove guerriglia e fame si mescolano, come sanno bene anche gli zoologi del dipartimento Darwin della Sapienza di Roma, che della bush meat , la carne della boscaglia (africana) hanno fatto motivo di indagine, anche bioetica. Sono tante le specie di mammiferi, uccelli e rettili, anche a grande rischio di estinzione, che ne restano da tempo vittime. Quando si ha fame si spara e si mangia, a rischio - accertato dagli epidemiologi - che così facendo si sparga qualche pandemia, specialmente se la carne è cotta o conservata con i mezzi poverissimi dei guerriglieri spaventati.

Un’infanzia da gibbone tra le persone

Una decina di anni fa, con i tesisti triennali Giulia Montebovi e Andrea Monti, ci confrontammo con un analogo problema di reinserimento scimmiesco, nel tentativo (riuscito) di riadattare alla vita di rapporti intraspecifici “normali” un gibbone ormai non più giovanissimo alla vita di rapporti intraspecifici con altri gibboni. Fu una favola triste ma con un finale glorioso. Un neonato di gibbone, un gruppo di specie di scimmie denominata lesser ape , primati antropomorfi cioè “minori”, parenti di scimpanzé, oranghi e bonobo, venne reperito su segnalazione dai vigili urbani di Milano, mentre all’alba si aggirava spaesato nella via principale della Chinatown meneghina. Mai sarà chiaro se il fuggiasco fosse lì giusto come pet di compagnia, o come alimento o magari per estrarne qualche tradizionale farmaco “animista”. Trascorse, come e peggio della nostra gorillina Ndakasi, una vita tra umani, del tutto deprivato di contatti con i propri conspecifici. Gibbone tra le persone, per un’infanzia intera.

La melodia cantata che cementa l’intesa

Il nostro terzetto, con un’attenta consulenza del primatologo ISS Augusto Vitale e nella cornice generosa del Corpo Forestale dello Stato (oggi carabinieri) per un lungo periodo accosterà due capienti gabbie; una delle quali ospitava il piccolo e l’altra un’altra femmina giovane-adulta di gibbone proveniente da sequestro ma con una lunga esperienza sociale con conspecifici nell’attuale Bioparco romano. Con lentezza, settimana dopo settimana, un iniziale timido timore scemò, poi i contatti si fecero ravvicinati e interattivi. I gibboni sono capaci di cantare melodie a squarciagola, quando l’intesa si cementa. Partirono un giorno quei melodiosi gorgheggi a due, vincolo accertato poiché reciproca intesa canora, testimoni di un’unione sociale ormai riuscita. E da allora il compiuto reinserimento sociale perdura.

Gli scimpanzé e la ricerca sui voli spaziali

Un tempo gli scimpanzé erano utilizzati con notevole facilità per la ricerca biomedica, inclusa la ricerca sullo stress causato dai primi viaggi spaziali. Arrivavano in laboratorio da cuccioli, molto fortunosamente, a età nella quali era facile maneggiarli, data la mole ridotta e la relativa docilità. Le madri con i piccoli avvinghiati venivano abbattute a fucilate da bracconieri africani e non di rado, nel precipitare dal ramo alto dove si erano rifugiate, anche il cucciolo decedeva. Furono gli etologi i primi a ribellarsi. Le nostre riviste, in primis quelle di primatologia, si rifiutarono di accettare, rispedendoli direttamente al mittente, contributi su studi nei quali ci fosse anche il minimo sospetto che i soggetti fossero vittime di bracconaggio. Con il sorgere di comitati etici editoriali, questa pratica si estese a macchia d’olio tra una moltitudine di riviste scientifiche, fungendo da efficace metodo anti bracconaggio “senza colpo ferire”.

Granchi e aragoste, "apocalisse in spiaggia": mai visto in Europa, il sospetto dietro alla strage. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. Spiagge ricoperte da migliaia di granchi e aragoste morte, per lo più granchi e aragoste. Scenario "apocalittico", scrive il Guardian, annunciando che sono state avviate delle indagini per individuare il motivo di questo disastro sulle coste a nord-est dell'Inghilterra. Le prime segnalazioni a Seaton Carew, Redcar e più a nord a Seaham. Un residente ha avvistato per la prima volta decine di granchi morti sulla spiaggia di Seaton Carew all'inizio di ottobre, dicendo all'Hartlepool Mail: "C'erano granchi morti in ogni pozza rocciosa e molti lungo la linea di galleggiamento tra le alghe". I residenti di Marske hanno descritto la scena sulla spiaggia come la peggiore che avessero mai visto, con pile di creature morte e in decomposizione, oltre a quelle vive, mescolate con alghe. Volontari hanno passato ore a cercare di riportare i crostacei ancora vivi in acqua, mentre gli ambientalisti hanno espresso preoccupazioni per l'ecosistema. L'industria della pesca locale ha riportato un calo del 95% nella cattura di aragoste e granchi. "Sono stati raccolti campioni di acqua, sedimenti, cozze e granchi e vengono inviati ai nostri laboratori per l'analisi per valutare se un incidente di inquinamento potrebbe aver contribuito alla morte degli animali", ha detto un portavoce dell'Agenzia per l'ambiente (Ea). Ma quali possono essere i motivi di questa strage di crostacei? Le ipotesi sono tre: inquinamento localizzato, un evento atmosferico straordinario, oppure un'epidemia. 

Il mistero dei granchi morti​: che cosa è successo. Alessandro Ferro il 30 Ottobre 2021 su Il Giornale. Migliaia di granchi morti spiaggiati sulle coste nord-est dell'Inghilterra gettano nel panico la popolazione: una causa evidente ancora non c'è. "Scenario apocalittico". Il governo inglese sta indagando sul motivo per cui innumerevoli granchi e aragoste sono stati ritrovati morti sulle spiagge del nord-est, nella regione del Nord dello Yorkshire.

"Scenario apocalittico"

Gli ambientalisti hanno espresso massima preoccupazione per un impatto così dannoso sull'ecosistema mentre l'industria della pesca locale ha riportato un calo del 95% delle catture di aragoste e granchi. Il fenomeno è stato segnalato per la prima volta all'inizio di ottobre nella spiaggia di Seaton Carew: l'Agenzia per l'ambiente ha avviato un'indagine per determinare se l'inquinamento e la tossicità dell'acqua possano essere i responsabili. "Cosa sta succedendo? Sta diventando apocalittico" ha twittato la politica britannica Anna Catherine Turley, membro di Labour and Co-operative. Un residente della zona ha affermato al The Guardian che già ad inizio ottobre c'erano granchi morti "in ogni pozza rocciosa e molti di loro lungo la linea di galleggiamento tra le alghe".

"Cerchiamo di capirne le cause"

La spiaggia in questione, tra l'altro, è un molto battuta dai residenti che fanno passeggiare i propri cani: adesson tutti vogliono sapere se i loro animali domestici sono in pericolo. In una nota, l'Agenzia per l'ambiente (EA) ha affermato che sta lavorando con il Centro per l'ambiente, la pesca e l'acquacoltura (CEFAS) e l'Autorità per la conservazione e la pesca costiera del nord-est per cercare di stabilire il motivo. "Sono stati raccolti campioni di acqua, sedimenti, cozze e granchi e vengono inviati ai nostri laboratori per essere analizzati per valutare se un incidente di inquinamento potrebbe aver contribuito alla morte degli animali", ha affermato un portavoce al quotidiano inglese. "Abbiamo anche condiviso campioni con i laboratori CEFAS per l'analisi delle malattie". Per adesso, quindi, una causa evidente non c'è: gandi eventi di mortalità possono essere causati da inquinamento localizzati, eventi meteorologici insoliti come grandi tempeste oppure epidemie.

L'ipotesi degli studiosi

La ricerca suggerisce che i cavi di alimentazione sottomarini possono interferire con il comportamento dei granchi: rispondendo all'ipotesi che un nuovo cavo di interconnessione dal Northumberland (nord-est inglese) alla Norvegia potrebbe essere responsabile, la National Grid (Società multinazionale britannica di servizi di elettricità e gas con sede a Londra) ha affermato di non essere a conoscenza di tali cavi che danneggiano i granchi poiché "si trovano ben sepolti nel fondo del mare, fatti di acciaio e difficilmente rotti dalla fauna selvatica".

Nel mese scorso, tra l'altro, alcuni residenti sempre sulle coste del Northumberland, hanno riferito di aver trovato morti anche centinaia di uccelli marini: l'EA, per ora, ritiene che non ci siano prove per collegare le morti dei granchi con i recenti spiaggiamenti di mammiferi marini e uccelli marini in tutto il Regno Unito e nei paesi vicini. Un patologo della Teesside University, il dottor Jamie Bojko, ha affermato all'emittente ITV News di sapere quale potesse essere la causa. "La mia ipotesi migliore al momento è che si tratta di un evento unico, soprattutto perché abbiamo visto così tante persone presentarsi tutte in una volta", ha dichiarato. ll CEFAS ha iniziato le indagini ma al momento non ci sono informazioni per spiegare se le morti sono collegate o no.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e nu

Da agi.it il 4 ottobre 2021. Un intero gregge di capre - 47 animali - è stato folgorato durante un temporale sulle montagne massesi. Il fatto risale ad alcuni giorni fa, quando un'ondata di maltempo ha investito la costa apuana. La scarica elettrica non ha lasciato scampo al gregge di Rolando Alberti, giovane pastore molto conosciuto per i suoi formaggi che produce in un caseificio di transumanza seguendo la tradizione pastorizia. Alberti alleva la capra apuana, una delle razze considerate in via di estinzione. L'allevamento, e la produzione di formaggi caprini, destinati alla vendita diretta, sono l'unica fonte di sostentamento del giovane pastore. Secondo una stima ogni anno almeno 10.000 capi nel mondo vengono colpiti da fulmini con effetti che vanno dalla morte a scottature, lesioni di organi interni. "È una casistica sicuramente non molto frequente, per non dire rara, ma possibile - commenta Francesca Ferrari, Presidente Coldiretti Massa Carrara - Rolando incarna lo spirito, la tradizione e la passione pastorizia. Siamo dispiaciuti per quanto accaduto". Da qui l'iniziativa di Coldietti Massa Carrara che ha deciso di promuovere una raccolta fondi per aiutarlo a ripartire. La raccolta è partita in occasione della fiera di San Francesco, santo patrono di Massa e proseguirà anche nelle prossime settimane presso la sede della federazione di Massa in Largo Matteotti.  Per le prossime settimane sarà presente all'interno della sede un raccoglitore dove tutti, cittadini, amici e consumatori, potranno fare una piccola o grande donazione. "È il nostro modo per stagli vicino. - conclude la Ferrari - Non lo lasceremo solo". 

Dal “Fatto quotidiano” il 27 settembre 2021. Una versione più violenta del paradosso "uomo morde cane" arriva dal Canada e dalle pagine del Guardian: "Capra uccide orso". L'improbabile e brutale epilogo è successo sulle montagne di Lake Louise: "I funzionari del parco affermano che una capra di montagna non solo si è difesa dal diventare un pasto, ma è stata in grado di uccidere l'orso con le sue corna 'a forma di sciabola' - scrive il Guardian -. Parks Canada ha dichiarato che l'autopsia forense di una femmina di orso grizzly suggerisce che sia stata uccisa da una capra, dopo che le corna hanno trafitto le ascelle e il collo dell'orso". Com' è stato possibile? La spiegazione è di David Laskin, ecologista della fauna selvatica del parco canadese: "Quando i grizzly attaccano, tendono a concentrarsi sulla testa, sulla nuca e sulle spalle della preda. Questo attacco di solito viene dall'alto". In questo caso l'atterraggio del povero orso non è stato morbido".  

Scontro durante le prove del Palio di Fucecchio, due cavalli morti. Il Quotidiano del Sud il 23 settembre 2021. DUE cavalli sono morti dopo essersi scontrati durante le prove del Palio di Fucecchio (Firenze). Un animale è morto subito, per l’altro, che ha riportato la frattura a un arto, deciso poi l’abbattimento. Dopo un primo post in cui si spiegava che “i cavalli della seconda batteria coinvolti nella caduta sono sotto le cure dell’equipe veterinaria”, a distanza di ore, nel tardo pomeriggio di ieri, sul profilo Fb del Palio è stato pubblicato il seguente comunicato: “In data odierna, durante lo svolgimento delle batterie di selezione non competitive per l’assegnazione dei cavalli alla tratta del Palio, nella seconda batteria è accaduto un incidente che ha coinvolto i cavalli Ugo Ricotta e Rexy. Nonostante i tentativi di rianimazione per arresto cardiaco conseguente al trauma, purtroppo l’esito è stato infausto per il cavallo Ugo Ricotta. Il cavallo Rexy ha riportato una grave frattura della porzione distale della tibia destra ed è stato trasferito alla clinica veterinaria per equini convenzionata, dove sono stati svolti gli accertamenti del caso. Vista la gravità dell’infortunio, in accordo con i proprietari, è stato condiviso il protocollo di eutanasia”. La commissione veterinaria, si spiega ancora, “ritiene che l’accaduto sia da attribuirsi ad una sfortunata circostanza, considerato che le condizioni in cui veniva svolta la prova erano ottimali (condizioni della pista, meteo e idoneità dei cavalli)”.

Da ilmessaggero.it il 23 settembre 2021. In provincia di Firenze è polemica intorno al Palio di Fucecchio, manifestazione in programma domenica: stamattina durante le prove due cavalli si sono scontrati. Uno dei due è morto sul colpo, l'altro ha riportato la frattura della tibia ed è stato trasportato in una clinica veterinaria dove poi - a causa delle sue condizioni - è stato praticato il protocollo dell'eutanasia. Da quanto appreso, il cavallo deceduto è caduto a terra e l'altro animale rimasto ferito lo ha calpestato. 

La Nota del palio. A comunicare le condizioni di entrambi i cavalli, dopo un pomeriggio pieno di polemiche, è stato proprio il Palio con una nota sul profilo Facebook: «In data odierna, durante lo svolgimento delle batterie di selezione non competitive per l'assegnazione dei cavalli alla tratta del Palio, nella seconda batteria è accaduto un incidente che ha coinvolto i cavalli Ugo Ricotta e Rexy. Nonostante i tentativi di rianimazione per arresto cardiaco conseguente al trauma, purtroppo l'esito è stato infausto per il cavallo Ugo Ricotta. Il cavallo Rexy ha riportato una grave frattura della porzione distale della tibia destra ed è stato trasferito alla clinica veterinaria per equini convenzionata, dove sono stati svolti gli accertamenti del caso. Vista la gravità dell'infortunio, in accordo con i proprietari, è stato condiviso il protocollo di eutanasia. La commissione veterinaria ritiene che l'accaduto sia da attribuirsi ad una sfortunata circostanza, considerato che le condizioni in cui veniva svolta la prova erano ottimali (condizioni della pista, meteo e idoneità dei cavalli)».

La rabbia delle associazioni: notizia nascosta. La notizia della morte di entrambi i cavalli si era in realtà già diffusa nel pomeriggio per la rabbia dell'Italian Horse Protection: «Oggi durante le batterie di selezione per il Palio di Fucecchio in programma domenica prossima due cavalli sono morti: lo sappiamo con certezza. Abbiamo appreso da nostre fonti della morte dei due cavalli prima che sulla pagina Facebook ufficiale del Palio comparisse l'informazione che gli animali, coinvolti in un incidente la mattina, erano "sotto le cure dell'équipe veterinaria". "Non è vero, è una falsità: questa mattina c'è stato un incidente gravissimo nel corso del quale due cavalli si sono scontrati: uno è morto sul colpo, l'altro è stato portato in clinica dove sembrerebbe sia stata praticata l'eutanasia perché le condizioni erano troppo gravi e non poteva essere salvato. È vergognoso che si sia scelto di omettere la verità per far proseguire le corse. Chiederemo al sindaco di Fucecchio di annullare il Palio e valuteremo altre azioni da intraprendere contro questo comportamento inaccettabile».

Dagotraduzione dal Guardian il 22 settembre 2021. Uno sciame d’api ha ucciso 63 pinguini africani, specie in via d’estinzione. È successo a Simon's Town, fuori da Città del Capo, ha spiegato la Fondazione dell'Africa meridionale per la conservazione degli uccelli costieri. «Dopo l’autopsia, abbiamo trovato punture di api intorno agli occhi dei pinguini», ha detto domenica David Roberts, veterinario clinico della fondazione. «Questo è un evento molto raro. Non ci aspettiamo che succeda ancora, è un caso. C'erano anche api morte sulla scena», ha detto all'AFP per telefono. L'area è un parco nazionale e le api del Capo fanno parte dell'ecosistema. «I pinguini… non devono morire così perché sono già in pericolo di estinzione. Sono una specie protetta», ha affermato Roberts. I parchi nazionali sudafricani hanno affermato che sono stati inviati anche campioni per test su malattie e tossicologia. «Non sono state riscontrate lesioni fisiche esterne su nessuno degli uccelli», ha affermato una dichiarazione dei parchi. L'autopsia ha mostrato che tutti i pinguini avevano più punture d'ape. I pinguini africani, che abitano la costa e le isole dell'Africa meridionale, sono nella lista rossa dell'Unione internazionale per la conservazione della natura, il che significa che corrono un alto rischio di estinzione.

Da ilmessaggero.it il 21 settembre 2021. Spara a un cinghiale, ma viene attaccato e ucciso dall'animale stesso: è morto infatti in ospedale ad Alessandria Lazzaro Valle, il cacciatore 74enne di Arenzano (Genova) aggredito nelle scorse ore da un cinghiale durante una battuta di caccia nelle zone tra Castelletto e Silvano d'Orba. Fatale l'emorragia causata dalla recisione dell'arteria femorale, provocata dalle zanne dell'animale che, ferito dall'anziano, lo ha caricato. Soccorso dai compagni di battuta e dal personale sanitario del 118, l'uomo era stato trasportato in elicottero al Santi Antonio e Biagio.

Cosa è successo. Domenica mattina alcuni componenti erano impegnati in una battuta nel territorio di Castelletto d’Orba: i cani hanno spinto il cinghiale verso la zona dove erano appostati i cacciatori, Lazzaro Valle ha sparato all’ungulato e lo ha ferito. L’animale anziché fuggire ha puntato il cacciatore, lo ha scaraventato a gambe all’aria alcune volte procurandogli una lesione dell’arteria femorale, causa di un’abbondante perdita di sangue che gli amici hanno cercato di limitare stringendo una cintura dei pantaloni alla gamba del ferito. L’intervento del 118 è stato tempestivo. I medici hanno rianimato sul posto per alcune volte il cacciatore ferito, poi trasportato all’ospedale di Alessandria con l’elisoccorso. Dopo le cure di emergenza Lazzaro Valle è stato ricoverato nel reparto di Rianimazione, ma nella notte è deceduto dopo ore di atroce agonia.

Cinghiali killer, le cifre di una strage tutta italiana: ecco quante persone hanno ammazzato in un anno. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. I cinghiali, un incubo per Roma e i romani. Ma non solo: anche a Torino, infatti, sono state segnalate diverse invasioni. E non si tratta solo di una vicenda di decoro urbano. Già, perché gli ungulati rappresentano un vero e proprio pericolo. Gli animali soprattutto dopo il lockdown sono cresciuti in modo esponenziale. E per quel che riguarda il pericolo di cui abbiamo parlato, i numeri parlano chiaro: i cinghiali causano un incidente ogni due giorni: si pensi che soltanto nel 2020 si contano 16 morti e 215 feriti proprio a causa di sinistri generati dai cinghiali. Ce li ritroviamo nelle città, nei parchi cittadini ma anche in autostrada. Stando ai dati disponibili, in Italia i cinghiali sarebbero circa due milioni, tanto che più di un italiano su 4, la cifra è il 26%, riferisce di aver incontrato un cinghiale almeno una volta in vita sua. Come detto, ad acuire il problema è stata l'emergenza Covid: con le strade semivuote e le bestie alla ricerca di cibo, ecco che sono state invase aree che prima erano "off-limits". Già, si sono abituati alle città. E il problema è tangibile. Gli incidenti stradali causati dagli sfortunati incontri sono sempre più frequenti: negli ultimi dieci anni il numero di incidenti gravi con morti e feriti causati da animali, fa sapere la Coldiretti su dati Aci Istat, è quasi raddoppiato (+81%) sulle strade provinciali. Si pensi per esempio a quanto accaduto lo scorso 8 ottobre sulla tangenziale di Asti, dove un branco di cinghiali ha attraversato la strada generando un tamponamento a catena: coinvolte un'ambulanza con un paziente a bordo e altre due auto. In quell'occasione per fortuna non ci sono stati morti: due feriti e traffico bloccato per ore. E gli ungulati, inoltre, danneggiano anche i campi, le campagne e le colture: si contano infatti 200 milioni di danni, al netto dell'alterazione degli equilibri ambientali e della possibile diffusione di malattie quali la febbre suina.

Vittorio Feltri smonta le balle di Virginia Raggi: "Roma? Una Ferrari pilotata dai cinghiali". Libero Quotidiano il 21 settembre 2021. Esiste un contenzioso tra Libero e la sindaca Raggi perché alcuni anni orsono un nostro articolo su di lei eletta di recente fu titolato così: "patata bollente", che in altri termini, i dizionari della nostra lingua sostengono trattasi di questione scottante. Non è quindi una espressione offensiva. Ma a parte questo dettaglio giudiziario, personalmente non penso che la prima cittadina romana sia peggiore di chi l'ha preceduta a capo del Campidoglio. Ha fatto quello che poteva, poco ma tutto quello che era lecito aspettarsi da lei, date le condizioni della capitale. Oggi, sorprendentemente ella dichiara: ho ricostruito Roma, trasformandola in una Ferrari, la macchina italiana più forte. Una affermazione impegnativa della quale è difficile trovare riscontro nella realtà. Infatti la splendida Città eterna paragonata alla formidabile vettura forse è pilotata dai cinghiali e dai gabbiani, i soli che diano una zampa alla cara Raggi a contenere la montagna di rifiuti che assedia l'Urbe. Nessun altro essere vivente si impegna a combattere contro la monnezza dilagante che soffoca vari quartieri. Il porcus singularis (definizione latina) è dunque una risorsa e la Raggi che giustamente la sfrutta quale squadra di spazzini efficienti, e non inclini a scioperare, dovrebbe apprezzarli e non combatterli quasi fossero nemici. Essi arrivano nei centri abitati che hanno bisogno di loro per essere ripuliti. Sono animali nervosetti solo quando si rendono conto che la loro prole è minacciata dall'uomo, per il resto sono docili e non costituiscono un pericolo per i cristiani che li rispettano. Cara madame sindaco il mio è un consiglio amichevole, si tenga buoni i cinghiali di cui ci si può fidare maggiormente che dei grillini e del Pd, il quale Pd amministra la regione ma non si è mai occupato del pattume scaricando ogni responsabilità su di lei, innocente. Non agisca come il cacciatore di Alessandria che imprudentemente ha sparato a un mammifero selvatico dei suidi, il quale essendo sopravvissuto al proiettile si è incavolato e ha fatto secco con una carica perfetta colui che ha premuto il grilletto. Mi dia retta, Virginia.

Cinghiali a Roma, Vittorio Feltri: "Perché Virginia Raggi non deve combatterli". Libero Quotidiano il 21 settembre 2021. La variante cinghiali sulla campagna elettorale a Roma. A pochi giorni dal voto, la sindaca Virginia Raggi potrebbe aver trovato il più insospettabile degli alleati politici. Ne è convinto Vittorio Feltri, che su Twitter commenta a modo suo, con irriverenza e sarcasmo, le notizie degli avvistamenti sempre più frequenti di facoceri in giro per la Capitale.  Dopo l'aggressione subita da Massimo Lopez la scorsa settimana, a essere sorpresi da un branco di cinghiali sono stati i cittadini dei quartieri Trionfale e Camiluccia, zona semi-centrale, residenziale e vip-chic dell'Urbe. Diversi i casi: le bestie selvatiche sono state viste in via Igea, in via dei Giornalisti, in piazza Walter Rossi e addirittura in piazza della Balduina. L'ultimo avvistamento, come detto, tra via Trionfale e via Taverna, a pochi passi da via Torrevecchia. Una famiglia di cinghiali razzolava come fosse a casa propria, incurante dei passanti visibilmente terrorizzati. Il video pubblicato da Leggo.it è diventato subito virale, a testimonianza del degrado in cui versa la città amministrata dal Movimento 5 Stelle. Ma secondo Feltri, proprio i cinghiali potrebbero essere un aiuto inatteso per la sindaca uscente Raggi, ricandidata ma con poche speranze di arrivare perfino al ballottaggio. "Non deve combattere contro i cinghiali", spiega il fondatore di Libero su Twitter, perché paradossalmente "sono i suoi migliori collaboratori nella lotta ai rifiuti", altra piaga che affligge Roma e che secondo molti è il vero tallone d'Achille dell'amministrazione grillina. Vuoi vedere che l'assist casca a fagiolo?

Roma, passanti aggrediti e terrore per i cinghiali? Virginia Raggi, l'ultima vergogna: come "spiega" questa foto. Libero Quotidiano il 21 settembre 2021. Invasa dai cinghiali. Video di passanti terrorizzati dai branchi di bestie, attirati dai rifiuti. Roma è nel caos: monnezza e cinghiali, un binomio assurdo e che sta facendo parlare in tutto il mondo. Le ultime sconcertante immagini soltanto poche ore fa: una famigliola di bestiole che invadono la carreggiata (qui sotto il link), spaventando i passanti. E ancora, testimonianze di persone terrorizzate dalle stesse bestie quando portano il cane a passeggio la sera. E Virginia Raggi che fa? Accusa la regione. Sconcertante, ma vero. La sindachessa M5s, interpellata da Rtl, afferma: "Abbiamo oggettivamente una Regione che non ha lavorato". E ancora: "Siccome Roma è immersa e circondata da grandissimi parchi naturali e aree agricole, evidentemente se non si controlla la popolazione animale, che si continua a moltiplicare, sono sempre più frequenti le invasioni nelle aree urbanizzate. C'è una denuncia che ho presentato alla Regione Lazio", ha fatto sapere scaricando tutte le responsabilità, dunque, su Nicola Zingaretti. Insomma, l'invasione degli ungulati non sarebbe responsabilità sua, nonostante le continue segnalazioni, comprese quelle dei vip, da Claudia Gerini a Massimo Lopez, quest'ultimo inseguito da un cinghiale attratto dal sacchetto dell'immondizia che stava andando a depositare nei cassonetti, che non vengono svuotati. Ma la Raggi, come detto, non molla: "Sulla questione rifiuti  ciascuno deve fare la sua parte", ha tuonato a Non Stop News. E ancora: "In Lombardia ci sono 30 impianti, tra inceneritori e discariche per smaltire la spazzatura. Nella regione Lazio ce ne sono solo due, di cui uno sta per chiudere. Un terzo l'ho aperto io con un provvedimento sostituendomi al presidente della Regione Lazio che non lo apriva". Per la Raggi, dunque, mancano le discariche. Certo, non si può negare. Ma possibile che la colpa non sia nemmeno in minima parte sua? Difficile, quasi impossibile.

Da "lastampa.it" il 25 settembre 2021. Gli avvistamenti di cinghiali nei centri abitati italiani sono in aumento e generano paura e disagi nella popolazione quando non devastano le colture o finiscono per causare incidenti stradali. Dopo i nuovi casi a Roma e a Torino, Federica Pirrone, docente di etologia veterinaria all'Università degli Studi di Milano, ci spiega le cause della presenza di questi animali nelle città e le possibili soluzioni, che non contemplano il loro abbattimento.

Da Roma a Torino, sempre più cinghiali in città: ogni 48 ore un incidente stradale. Gli animalisti: «Gli abbattimenti non sono la soluzione». La Stampa il 21 Settembre 2021. Assolutamente urbanizzati, per niente spaventati non solo dagli uomini ma neanche dal traffico sostenuto di Roma. L'ultimo video virale tutto capitolino dei cinghiali, ormai quasi consuetudine in certi quartieri di Roma, ritrae una numerosa famigliola, almeno dieci cuccioli con mamma e papà, scorazzare in via Trionfale ai lati della carreggiata mentre passano auto e pedoni. Non è inconsueto per chi abita nella zona nord della città, Balduina, Cassia e appunto Trionfale, imbattersi nei cinghiali. Questa volta la scena, avvenuta verso le 17 di ieri, colpisce perchè la famiglia di cinghiali passeggia tra auto e pedoni. Qualche giorno fa una scena analoga era capitato nel cuore di Monte Mario dove genitori e alunni in attesa della campanella per entrare a scuola si sono ritrovati faccia a faccia con una decina di ungulati a spasso per via della Tenuta di Sant’Agata. Quattro grossi esemplari con al seguito alcuni cuccioli, tutti a loro pieno agio fra i clacson degli automobilisti nervosi e bambini e genitori con zaini in spalla e trolley alla mano. E se questa situazione si ripete sempre più spesso, ma in periodo elettorale entra al centro delle attenzioni dei duellanti politici che condividono i video della “passeggiata familiare”: «Via Trionfale, nel cuore di Roma… . Una famiglia di cinghiali passeggia tranquillamente tra le auto e le persone. Questa sarebbe la “continuità che la Raggi vorrebbe per la Capitale d'Italia?» scrive su Twitter Salvini. Messaggio molto simile quello di Calenda: «Non pensate sia arrivato il momento di sedervi a un tavolo e affrontare la questione?». Nei giorni scorsi Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, aveva bacchettato Raggi: «Roma è invasa dai rifiuti. Fra cinghiali e topi Raggi invece del sindaco ha fatto lo zoologo, può fare il direttore del Bioparco». Da parte sua la sindaca Raggi punta il dito verso Nicola Zingaretti sottolineando come la gestione degli ungolati sia a carica regionale: «Sulla questione cinghiali c'è una denuncia che ho fatto alla Regione Lazio, ma abbiamo una Regione che non ha lavorato su questo fronte. Se non si controlla la popolazione animale, che si moltiplica, saranno sempre più frequenti le invasioni. Sono stati anche gli stessi agricoltori a protestare». La Regione Lazio ricorda «ancora una volta che la responsabilità degli animali che si trovano fuori dai parchi è in capo ai comuni. Spetta dunque agli amministratori locali intervenire per contenere la presenza degli animali sulle strade e sul territorio cittadino al fine di salvaguardare la sicurezza della comunità». Per la Regione, inoltre, «negli ultimi anni la continua presenza di rifiuti nell'area urbana di Roma è certamente un fattore che ha favorito la presenza della specie, offrendo le risorse trofiche necessarie per riprodursi con maggiore efficacia». 

Un problema non solo romano. Ma la questione di cinghiali in città è un fatto noto da tempo e non interessa solo la Capitale: con l'emergenza Covid si è registrato un aumento del 15% di cinghiali, con una stima di 2,3 milioni di unità in Italia. Una situazione, stima la Coldiretti, che porta a un incidente, dovuto a questi animali, ogni 48 ore con 16 vittime e 215 feriti registrati durante l'anno della pandemia. E poi ci sono i danni ai raccolti, con perdite per milioni di euro. In Piemonte si stimano circa 20mila esemplari, e le presenze in città come Torino non mancano, sia per le strade collinari che in quelle urbane. Sono almeno novemila in dieci anni gli assalti dei cinghiali in Lombardia che hanno devastato le campagne e provocato incidenti stradali. È quanto stima la Coldiretti lombarda sulla base dei dati regionali.

Anche la Liguria si sente assediata: sarebbero quasi 40 mila i cinghiali sul territorio regionale secondo le Confederazione Italiana Agricoltori. «Numeri improponibili ed insostenibili per l'agricoltura e per le aree interne. Non si parla ormai di rinaturalizzazione, ma di allevamento monospecie. Quando mai in Liguria abbiamo avuto una presenza di selvatici così intensa? A questi aggiungiamo daini e caprioli e il quadro è completo» denuncia Aldo Alberto, presidente di Cia Liguria che sottolinea la preoccupazione per la presenza di animali selvatici in aree rurali con conseguenze per le attività agricole.

In Toscana, a Gaiole in Chianti, nel Senese, nei giorni scorsi un branco di cinghiali ha devastato i giardini del parco giochi e della scuola in pieno centro città. E' quanto accaduto a distanza di due giorni con due diverse incursioni del branco. «Una situazione insostenibile non solo per il decoro urbano ma soprattutto per la sicurezza dei cittadini che sono esasperati e impauriti» spiega in una nota il sindaco Michele Pescini che ha scritto alla Regione Toscana chiedendo «che venga autorizzato un intervento tempestivo». «Non possiamo temporeggiare su questa vera e propria emergenza che potrebbe creare situazioni di pericolo per l'incolumità stessa delle persone, pertanto confidiamo nella pronta risposta della Regione».

Un problema che arriva anche sull’isola d’Elba dove le associazioni e aziende hanno chiesto in una lettera aperta un tavolo urgente con le istituzioni per risolvere il problema della proliferazione di questi animali che «negli ultimi 24 anni sono stati prelevati o abbattuti in 26.000 esemplari, oltre 1.000 all'anno. Ciò nonostante, la situazione è sempre andata peggiorando: una permanente condizione di danno che, periodicamente, assume le dimensioni di emergenza». Il comitato nato da associazioni e aziende ha prodotto uno studio in cui si evidenzia che ci sarebbe un'unica possibilità per risolvere una volta per tutte il problema, portare cioè a zero la presenza degli ungulati sull'isola.

Gli animalisti: l’abbattimento e la caccia non risolvono il problema. E l’elenco potrebbe andare avanti passando per le diverse regioni d’Italia, cambiano i numeri, ma la posizione è sempre la stessa: i cinghiali sono troppi, bisogna abbatterli. Una posizione/soluzione che non convince gli animalisti: «Da sempre la gestione delle popolazioni di animali selvatici, compresi i cinghiali, è affidata ai cacciatori e al piombo dei loro fucili. E da sempre i danni all’agricoltura imputati ai cinghiali sono in continua crescita, sebbene oramai dal 2005 possano essere cacciati 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno – sostiene la Lav (Lega Anti Vivisezione) – . Dopo più di quindici anni di caccia illimitata al cinghiale dovrebbe essere chiaro che il metodo venatorio è un fallimento sotto ogni aspetto, primo responsabile dell’incremento numerico dei cinghiali sul territorio ma questa evidenza sfugge alle amministrazioni regionali e nazionali che, sotto la pressione degli agricoltori, continuano a sostenere l’incremento della caccia senza alcuna analisi degli effetti da questa prodotti».

Due cinghiali a Torino: avvistati a passeggio vicino alla Gran Madre. I due ungulati in via Villa della Regina filmati dai passanti. Redazione online del Il Corriere della Sera il 21 settembre 2021. Torino come Roma. Due cinghiali sono stati avvistati e filmati da alcuni passanti nei pressi della Gran Madre, in via Villa della Regina, intorno alle 20 e 45. Scena a cui i romani sono abituati da tempo (sui social passa più di un video al giorno), i torinesi un po’ meno, anche se l’affaire cinghiali è decisamente avvertito nel resto della regione, con le proteste continue degli agricoltori. Proprio ieri, lunedì 20, un cacciatore è stato ucciso da un cinghiale. In quel caso però in un bosco dell’alessandrino, durante una battuta di caccia, e non sui luoghi della movida subalpina.

Dagotraduzione dal Sun il 15 settembre 2021. Incatenata a un muro, truccata e ingioiellata, e costretta ad avere rapporti sessuali con gli uomini che lavoravano nella vicina fattoria di olio di palma. Protagonista di questo orribile mercimonio è stata per anni Pony, una orango di 17 anni, che, giovanissima, è stata sottratta alla madre e costretta a vivere in questo bordello nel Borneo, in Indonesia. Qui, è stata addestrata a compiere atti sessuali, rasata a giorni alterni, truccata e ingioiellata. Era diventata così popolare nella zona che, per salvarla dal suo destino, si sono dovuti presentare 35 poliziotti armati. Gli abitanti del villaggio non volevano a nessun costo consegnare l’orango. «Sono stati minacciati con pistole e coltelli» hanno raccontato i volontari. La proprietaria del bordello, raccontano i volontari, «ha pianto amaramente quando Pony è stata portata via». Al momento del soccorso, oltre al trauma psicologico, Pony era in condizioni fisiche orribili. La sua pelle era infetta e non riusciva a smettere di grattarsi. «Ho incontrato Pony poco dopo che è stata salvata» dice la volontaria Michelle Desilets, ex insegnante. «La sua resilienza è incredibile. Nonostante il trauma, ha mantenuto una dignità e un senso dell'umorismo. Aveva la personalità migliore e ha imparato a fidarsi molto rapidamente, nonostante quello che aveva passato». «È stato orribile. Era una schiava del sesso - era grottesco. Era ricoperta di ascessi e le hanno messo il trucco e gli orecchini. Deve aver sofferto così tanto. È stato orribile pensare a quanto doveva essere terrorizzata. Forse nella mia ingenuità non avevo mai pensato che fosse umanamente possibile fare una cosa simile a un animale». Adesso vive in un'oasi protetta. 

Da lastampa.it il 15 settembre 2021. Lo hanno trovato steso a terra, a pancia all’aria. Praticamente ubriaco per l’abbondante quantità di fichi che ha mangiato. Protagonista di questa storia è un tasso, un tasso molto molto goloso trovato nelle campagne di Sestola, sull’Appennino modenese. Per sua fortuna una persona del posto, passando per il campo, ha notato l’animale in difficoltà. In un primo momento ha pensato fosse morto, poi ha notato che si muoveva, anche se poco. L’uomo ha chiamato subito i volontari del centro fauna selvatica Il Pettirosso: il tasso è risultato essere in una sorta di “coma etilico” per eccesso di zuccheri derivati dalla troppa frutta ingerita. Qualcosa che non capita così raramente: in natura ci sono molti animali – dai caprioli agli elefanti – che sono ghiotti di frutta che, caduta a terra e fermentata, praticamente li ubriaca. L’animale è stato portato alla struttura per verificare che l’abbuffata non avesse provocato qualche danno. Smaltita l’indigestione, se non avrà bisogno di terapie, tornerà subito in libertà. 

Alle Faroe una mattanza di 1500 delfini. E gli abitanti si dividono. Giacomo Talignani La Repubblica il 15 settembre 2021. La tradizionale caccia ai cetacei ha scatenato un coro di proteste. Anche le associazioni che la organizzano ammettono: "Uccisi troppi animali". Un ulteriore scandalo: troppa carne, non ci sono abbastanza famiglie tra cui distribuirla. Una strage senza precedenti: uccisi 1500 cetacei. Il mare di sangue e le immagini scioccanti sembrano riaprire il dibattito nell'arcipelago, con nuove richieste di porre fine al "Grind", la caccia tradizionale delle isole. Non è una goccia ad aver fatto traboccare il vaso, ma un mare di sangue. Tanto che forse per la prima volta, in maniera più decisa, da interventi nelle radio locali come Kringvarp Føroya alle esternazioni sui social, anche i molti cittadini della Faroe si sono esposti per condannare una tradizione che sembrava indiscutibile, il Grindadráp (detto Grind), una caccia ai cetacei che avviene ogni anno. Nelle scorse ore alle Faroe sono stati uccisi quasi 1500 delfini, un numero da record secondo l'associazione Sea Shepherd che ha condannato, una volta di più, questa annuale mattanza.  Sulla spiaggia di Skálabotnur sull'isola di Eysturoy un pod (gruppo) di delfini è stato incanalato nella baia e poi ucciso con coltelli, arpioni, persino sorte di trapani, strumenti insomma particolarmente cruenti. Una mattanza che ha origini antiche nell' arcipelago a governo autonomo che fa parte della Danimarca, ma che sempre più abitanti fra i quasi 50mila residenti cominciano a contestare, definendola "crudele e inutile" esattamente come il resto del mondo, inorridito dalla strage.  Anche il documentario Seaspiracy, che tanto ha fatto discutere sul problema pesca nell'ultimo anno, aveva raccontato anche questa realtà, sottolineandone però i toni culturali, le radici della tradizione, pur naturalmente non condividendola. Oggi, davanti all'uccisione insopportabilmente violenta di così tanti delfini, anche i più strenui difensori della caccia ai cetacei sembrano cedere. Secondo Sea Shepherd, quella appena andata in scena è infatti "la più grande uccisione di delfini o globicefali nella storia delle isole", con più animali morti che in un'intera stagione nella famigerata "Cove" di Taiji, la mattanza simile che avviene in Giappone. "Mi viene la nausea nel vedere questo genere di cose" scrive una residente sulla pagina Facebook dell'emittente locale Kringvarp Føroya e in tanti la seguono descrivendo il massacro ormai come "completamente terribile" e non nasconde di risvegliarsi "imbarazzato di essere faroese". Dramma nel dramma, quest'anno la strage ha avuto anche tempi più lunghi, con gli animali rimasti intrappolati per ore in attese che i loro boia (meno persone del solito) togliessero loro la vita. Heri Petersen, presidente dell'associazione locale di caccia Grind, ha ammesso che nella baia dove è avvenuta l'uccisione sono stati radunati troppi delfini e con troppe poche persone per ucciderli, così che l'agonia è stata ulteriormente prolungata. Anche Hans Jacob Hermansen, ex presidente della Grind Association, strenuo difensore della caccia tradizionale, ha ammesso che un evento come quello avvenuto con le dinamiche di quest'anno "distrugge tutto il lavoro che abbiamo fatto per preservare la caccia". I sostenitori della tradizione sanno bene che oggi in un mondo dove grazie a internet foto e informazioni girano in tempo reale, immagini cruente come quelle che arrivano dalle Faroe, un lago di sangue e di carcasse, contribuiscono a rafforzare lo sdegno e la solidarietà tra coloro che chiedono di fermare questa tradizione centenaria. Oltretutto, il numero di delfini uccisi quest'anno appare completamente inutile anche per quella che è la volontà del Grind: ovvero condividere poi la carne degli animali fra le famiglie partecipanti e quella in eccesso con gli abitanti locali. Secondo il quotidiano danese Ekstra Bladet sono stati uccisi così tanti delfini che molti non verranno nemmeno usati per ottenerne la carne, ma semplicemente gettati. Un'assurdità totale. Solitamente in media ogni anno venivano uccisi circa 600 cetacei, nel 1940 ci fu un record di 1200, oggi siamo a 1500, è dunque un  massacro senza precedenti. Una pratica che da anni le associazioni ambientaliste di tutto il mondo provano a fermare senza successo, nonostante petizioni di oltre 500mila firme e appelli vari alla Commissione Europea o alle autorità. Viene dunque da chiedersi se il mare di sangue di questo 2021 e lo sdegno mostrato da diversi cittadini, sia un primo segnale forte verso il cambiamento.  Per ora la tv pubblica Kringvarp Foroya ha semplicemente ricordato i dati di un sondaggio: il 50% delle persone delle Faroe si è detta contraria alla caccia dei delfini, ma l'80% è favorevole a quella delle balene.

Mattanza di 1.500 delfini nelle isole danesi Faroe: rabbia dopo la Grindadrap più grande della storia. Le Iene News il 15 settembre 2021. La tradizionale Grindadrap delle isole danesi Faroe ha appena portato alla più grande caccia di cetacei della storia, scatenando proteste in tutto il mondo. 1.500 i delfini sgozzati con i coltelli dopo essere stati attirati a riva. Noi vi abbiamo raccontato assieme all’organizzazione Sea Shepherd questa mattanza che va avanti da secoli nel servizio qui sopra (attenzione: ci sono immagini che potrebbero urtare la vostra sensibilità). Indignazione e rabbia per la tradizionale Grindadrap che ha appena portato al massacro di 1.500 delfini atlantici nelle isole danesi Faroe. Le nuove terribili immagini del mare rosso sangue fanno così tristemente il giro del mondo. A diffonderle come denuncia è l’organizzazione Sea Shepherd, la stessa assieme alla quale vi abbiamo raccontato, come potete vedere nel servizio qui sopra, l’orrore di questa caccia tradizionale che va avanti da secoli (attenzione: ci sono immagini che potrebbero urtare la vostra sensibilità). Durante la Grindadrap i mammiferi, soprattutto balene (globicefali) e delfini atlantici (lagenorinchi), vengono intrappolati e indirizzati con le barche e con i suoni e spinti verso la riva. Qui vengono sgozzati con coltelli e arpioni sotto gli occhi di centinaia di persone che accorrono per ammirare il macabro spettacolo. Ogni anno vengono ammazzati così circa 600 balene e 35-40 delfini. La mattanza di domenica scorsa è senza precedenti. “Riteniamo che questa sia la più grande caccia singola nella storia delle isole Faroe, la seconda più grande è stata di 1.200 globicefali nel 1940”, sostiene Rob Read, capo operazioni di Sea Shepherd. Si potrebbe trattare della “più grande caccia ai cetacei mai registrata in tutto il mondo”. "È stato un grande errore", ammette Olavur Sjurdarberg, presidente dell'Associazione balenieri delle isole. Heri Petersen, che presiede l’associazione locale di caccia Grind dove è avvenuta l’uccisione, ha spiegato che troppi delfini sono stati radunati nella baia mentre troppe poche erano le persone in attesa sulla spiaggia per la mattanza. Questo ha prolungato l’agonia degli animali: “Sono rimasti sulla spiaggia contorcendosi troppo a lungo prima di essere uccisi”. Secondo i media locali, la reazione della popolazione è stata "di smarrimento e shock a causa del numero straordinariamente grande di delfini uccisi”. Un sondaggio della tv pubblica Kringvarp Foroya rivela però che, mentre il 50% delle persone è contraria alla caccia dei delfini, l'80% è favorevole a quella delle balene. La carne viene tradizionalmente condivisa tra i partecipanti alla Grindadrap e poi data agli abitanti dei villaggi locali. Secondo alcune testimonianze, riportate dal quotidiano danese Ekstra Bladet, non era possibile però che la gente del posto consumasse così tanta carne di delfino: “Finirà che la maggior parte dei delfini verrà buttata nella spazzatura o in un buco nel terreno”.

Ghiaccio, orsi bianchi e altre meraviglie in estinzione. Mettere i piedi sul Polo Nord è ormai una gita per famiglie (molto ricche). Arturo Cocchi su La Repubblica l'8 settembre 2021. Reportage dal rompighiaccio russo che da qualche anno porta facoltosi turisti a toccare l'estremo settentrionale del pianeta. Un itinerario sempre più agevole dato il progressivo riscaldamento del pianeta. Tanto che l'anno prossimo ci sarà anche una nave da crociera. I prezzi però rimangono proibitivi: non meno di 30mila dollari. Destinazione Polo Nord. Sempre più spesso, e con crescente facilità, rompighiaccio nucleari russi partono da Murmansk per portare facoltosi turisti a mettere fisicamente piede sul polo nord geografico, sul pack o su quello che ne resta (sempre meno) nel cuore e soprattutto a fine estate. Un viaggio extralusso per pochi che, nonostante i prezzi non rappresenta - secondo le fonti di Rosatomflot, l'azienda di stato cui fa capo la flotta di navi attrezzate contro i climi estremi delle latitudini settentrionali, non costituisce la fonte primaria di guadagno per imbarcazioni semmai create per garantire la navigazione commerciale, che garantiscono ricavi ben maggiori nel loro impiego tipico delle stagioni fredde, quando fungono da apripista della navigazione commerciale nella...

Loch Ness, spuntano nuovi avvistamenti: "Lungo 4 metri". Alessandro Ferro il 5 Settembre 2021 su Il Giornale. Un radar sottomarino ha catturato l'immagine di una creatura lunga fino a 4 metri ad una profondità di 20 metri: ecco in realtà di quale specie potrebbe trattarsi. Il mostro di Loch Ness torna prepotentemente d'attualità: la creatura leggendaria che abiterebbe le acque dell'omonimo lago scozzese vive un altro capitolo della sua storia fatta di presunti avvistamenti, ricerche e teorie.

Cosa ha rilevato la tecnologia. Questa volta, però, l'avvistamento sarebbbe stato puramente strumentale grazie ad un radar sottomarino: come riporta il quotidiano Edinburgh Live, il signor Brandon Scanlon, nominato dal registro ufficiale degli avvistamenti del mostro di Loch Ness, afferma di aver registrato un'immagine radar di una creatura che potrebbe essere lunga tra i 3-4 metri (circa 9-13 piedi) sott'acqua ad una profondità di circa 20 metri. In quel momento, il signor Scanlon stava viaggiando sulla nave "Nessie Hunter", usata per trasportare i passeggeri durante i viaggi intorno al Loch. Secondo il registro, l'ultimo avvistamento è avvenuto il 26 agosto scorso: "Benjamin Scanlon ha notato qualcosa sul sonar sulla barca e ha catturato l'immagine".

La creatura catturata dal radar. Come si può osservare nell'immagine allegata in fondo al pezzo e catturata dal radar, il mostro avrebbe una forma allungata simile ad un'anguilla gigante. Come al Giornale avevamo scritto in una precedente occasione, una squadra di scienziati di varie nazionalità ha prelevato e campionato il DNA ambientale delle acque del lago ed identificato piccoli resti genetici con l'elenco di tutte le forme di vita che popolano le acque di Loch Ness. Le segnalazioni della presenza della della creatura sono aumentate vertiginosamente negli ultimi mesi: già tre avvistamenti soltanto quest'estate. Oltre a quella già citata, la più importante, il signor Veacock ha affermato di aver visto una creatura non identificata alzarsi a due piedi dall'acqua prima di tornare in profondità mentre si trovava in vacanza alla fine del mese scorso. In un'altra occasione, invece, un padre e una figlia hanno affermato di aver visto Nessie muoversi nell'acqua mentre facevano un'escursione nelle vicinanze.

Avvistamenti dal VI secolo. Un team di volontari appassionati della vicenda possiede un registro che classifica gli avvistamenti del plesiosauro fin dalla prima descrizione nel VI secolo, quando si dice che San Colombano, monaco missionario ed evangelizzatore irlandese vissuto tra il 540 ed il 615 dopo Cristo, avesse incontrato un animale gigantesco. In totale, sono stati oltre mille gli avvistamenti del mostro registrati dal Centro apposito, l’Official Loch Ness Monster Sighting Register, e continuano ad un ritmo di circa dieci all’anno. "Di questi avvistamenti ci sono circa quattro spiegazioni principali. La nostra ricerca essenzialmente sconta la maggior parte di queste teorie, tuttavia una teoria rimane plausibile", aveva affermato il Prof. Neil Gemmell dell'Università di Otago, in Nuova Zelanda. Come detto, l'ipotesi di cui si fa riferimento è quella dell'anguilla. "Esiste una quantità molto significativa di DNA di anguille. Le anguille sono molto abbondanti a Loch Ness. I nostri dati non rivelano le loro dimensioni, ma la grande quantità del materiale dice che non possiamo scartare la possibilità che potrebbero esservi anguille giganti a Loch Ness", spiega l'esperto. Che si tratti di anguilla gigante o no, una "tradizione" iniziata più di 1.400 anni, probabilmente, continuerà ad accompagnarci ancora a lungo con avvistamenti, congetture e tanta fantasia.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Sintesi dell’articolo di Giordano Stabile per “Specchio – La Stampa”, pubblicata da “La Verità” il 31 agosto 2021. La compagnia aerea del Qatar fa viaggiare in cabina i falchi come normali passeggeri. Ne ammette 6 in classe economica mentre non ci sono limiti di numero in business. Invece Emirates, Etihad Airways e Royal Jordanian fanno salire a bordo soltanto falchi con passaporto regolare (un documento che registra data e luogo di nascita, razza, vaccinazioni) e posto a sedere riservato. La falconeria è l'unico sport citato nel Corano e quello considerato più «halal» (cioè puro) dai musulmani, ed è l'orgoglio nazionale delle monarchie petrolifere.

Marco Cicala per “il Venerdì di Repubblica” il 29 agosto 2021. Quiz: che cosa hanno in comune Picasso, Audrey Hepburn, Marlene Dietrich, Jean Cocteau, Sophia Loren, Jackie Kennedy Onassis, Grace Kelly, Virna Lisi e "Che" Guevara? Risposta: ognuno di loro è stato fotografato mentre assisteva felice a una corrida de toros. Ancora fino agli ultimi decenni del Novecento, gli spalti delle arene facevano tanto smart. E furono un red carpet per divi, artisti o perfino rivoluzionari. Prima di diventare una furente pasionaria animalista, la stessa Brigitte Bardot si immerse tra il pubblico taurino. E in Gli amanti del chiaro di luna (1957), dimenticabile filmetto giovanile diretto dall'ex marito Roger Vadim, vediamo addirittura BB impugnare la muleta in una plaza di provincia. Immagini d'un altro evo. Di un'epoca dell'antropocene che ci appare remotissima. Oggi se uno di quelli che ci si ostina a chiamare Vip si facesse pizzicare in un'arena dallo scatto di un telefonino, finirebbe linciato a mezzo social ancor prima di essere uscito dall'anfiteatro. In rete, l'odio anti-corrida scorrazza a livelli che talvolta sfiorano l'istigazione all'omicidio. Lo scorso maggio, un'ex consigliera comunale della regione valenziana è stata definitivamente condannata a 7 mila euro di multa perché sulla sua pagina Facebook aveva esultato alla morte del matador Victor Barrio, ucciso da una cornata nel luglio 2016. Per secoli, i toreri hanno rappresentato nell'immaginario collettivo un simbolo di coraggio, virilità, stoicismo, seduzione. Ma negli ultimi decenni il loro prestigio sociale è precipitato facendone una categoria di appestati. Gente ormai costretta a temere meno le cariche dei tori che quelle degli esseri umani. Nessuno è in grado di dire se la tauromachia sopravviverà o abbia gli anni contati, se sparirà del tutto o verrà invece "regionalizzata" come in Francia, cioè confinata in enclave territoriali dove la tradizione è più radicata. Di certo la corrida sta attraversando la fase più pericolosa della sua lunghissima storia. Una storia che a più riprese ha visto gli spettacoli taurini proibiti da monarchi, scomunicati da pontefici, attaccati a morte da intellettuali progressisti. Eppure la "fiesta de los toros" si è sempre rialzata dalle sue cadute - ti ricordano gli aficionados. Vero. Però omettono un particolare decisivo: l'abolizionismo tradizionale poggiava su argomenti "umanitari"; la tauromachia fu vietata o contestata perché metteva a repentaglio vite umane: quelle di chi affrontava il toro sulla sabbia, e quelle di un pubblico circense che, almeno fino a un secolo fa, poteva eccitarsi sulle gradinate scatenando disordini al limite della sommossa. Oggi invece chi vorrebbe cancellare le corride ha come unica preoccupazione l'animale e le sofferenze che gli vengono inflitte nell'arena. Siamo insomma a un cambiamento radicale di paradigma, a una mutazione culturale di cui gli aficionados non sembrano ancora misurare a pieno la portata e che li coglie in larga parte disarmati, scarsamente attrezzati a difendersi, oscillanti tra nostalgia e settarismo, fierezza e rancori revanscisti, fatalismo e suppliche di protezione da parte della politica. Assediata da un animalismo di lotta e di governo, da istituzioni e potenti associazioni mondializzate, la comunità taurina è ridotta se non proprio al silenzio, diciamo al sussurro clandestino, carbornaro, catacombale. Stando così le cose, la recente ripubblicazione di due libri, entrambi italiani, sulla tauromachia andrà salutata come un gesto editoriale valoroso, vuoi temerario. Si tratta di Volapié (Settecolori, pp. 312, euro 22), frizzante raccolta di divagazioni torere che il giornalista romagnolo Max David diede alle stampe nel 1955; e di Il toro non sbaglia mai (Ponte alle Grazie, pp. 33, euro 18,50), romanzo-saggio del 2011 nel quale lo scrittore Matteo Nucci raccontava la propria afición, la passione taurina, come un viaggio esistenziale alla ricerca di verità sul vivere, il morire, il coraggio, la paura. Anche se rieditati, i due libri costituiscono a modo loro una rarità. Perché in Italia la bibliografia tauromachica è a dir poco macilenta. I titoli si contano sulle dita di una mano. A essere generosi di due. Oltre ai classici di Hemingway, mi vengono in mente: Juan Belmonte, la biografia del grande matador scritta nel 1935 dal suo concittadino sivigliano Manuel Chaves Nogales; Toro, robusto reportage degli anni 60 firmato dal francese Jean Cau; Per Pablo, omaggio del leggendario torero Luis Miguel Dominguín all'aficionado Picasso; Tauroetica, pamphlet del filosofo Fernando Savater uscito nel 2012... E poco altro.  

Com' è difficile raccontare. Non è un caso che tanto il libro di David quanto quello di Nucci non possano essere incasellati in un genere letterario canonico. Raccontare la corrida a parole è infatti impresa ostica. Perché la tauromachia è un'arte volatile dell'attimo: impalpabile, aerea, sfuggente. Per tempi e modi si presta meno alle forme del romanzo o del trattato che a quella poesia, dello schizzo rapsodico, della cronaca giornalistica. Ma le difficoltà non finiscono qui. Al di fuori dell'area ispanofona, la letteratura taurina si scontra con un altro limite invalicabile: la lingua. Il gergo torero - che in Spagna fa parte dell'idiomatica popolare, del parlato quotidiano - esce sempre malmenato dalle traduzioni. Impossibile restituirne la tavolozza semantica, le sottili sfumature talmudiche che si annidano in termini e formule quali templar, cargar la suerte, genio, casta, nobleza, trapío, querencia... Perciò la necessità di inserire nei testi non pubblicati in spagnolo dei glossarietti tanto utili quanto fastidiosi nell'atto della lettura. Oppure di ricorrere a una lingua meticcia, ibridata di spagnolismi che risulta sempre goffa e pacchiana. Tragica, quindi, oggi scandalosa, scorretta, la corrida è intraducibile. E inesportabile. Non è global. Puoi vederla soltanto in Spagna, nel sud ovest della Francia e in alcuni Paesi dell'America latina. La sua universalità, la sua unicità le vengono anche dalla tenuta di questi vincoli geografici. Io non so se la tauromachia sia ormai arrivata al capolinea. So che frequento le arene da quasi 25 anni e continuerò a farlo finché non le chiuderanno per trasformarle in centri commerciali o stadi da maxi-concerti, come già accaduto a Barcellona. Ma so pure che in un quarto di secolo, tranne sporadici sprazzi, ho visto il rituale taurino scadere a una liturgia monotona, standardizzata, avara di intensità. Soprattutto per via dei tori, le vere "divinità" dell'arena, la cui integrità appare sempre più compromessa. E non a causa di manipolazioni e frodi (animali sedati o dalle corna "aggiustate" di lima) che, ammesso ancora esistano, restano fenomeni episodici. Ma perché il "toro bravo" - specie selvaggia, però inventata, allevata e riprodotta dall'uomo tramite incroci - sembra sempre meno "bravo", e invece adattato ai desiderata di spettatori che in maggioranza chiedono più spettacolo che "rito", più "arte" che truculenza. Discendente o ascendente a seconda dei punti di vista, questa parabola non è un fatto recente: parte da lontano. La codificazione della corrida come la vediamo adesso nelle arene risale al XVIII secolo. 

La svolta del cavallo. Da allora la tauromachia non è rimasta impermeabile ai mutamenti del gusto, della sensibilità, dei costumi, alle trasformazioni sociali di un pubblico che da rurale diventava sempre più urbano. Il concorso di questi fattori ha progressivamente ridotto la violenza della corrida: l'ha suavizada, addolcita. A riprova, un unico esempio tante volte citato: come noto, fino ai primi del Novecento, i cavalli montati dai massicci picadores affrontavano gli assalti del toro senza alcuna protezione, finendo sbudellati a frotte. Finché, nel 1928, le autorità non decisero che quell'atroce macelleria equina aveva fatto il suo tempo e stabilirono di corazzare el caballo con una pesante armatura trapuntata. Qualche purista pretende che la veracità della corrida avrebbe cominciato a declinare da quel momento. Ma la tauromachia non è vittima di una decadenza, bensì prigioniera di una contraddizione perfetta e in certo senso affascinante. Perché per non morire è costretta a modernizzarsi, ma modernizzandosi muore. Intanto, il vero aficionado va scomparendo, invecchia, o resta sempre più solo. Tragicamente solo come Joaquín Vidal, il grande critico taurino del quotidiano El País, che nel 1999, poco prima di soccombere a un cancro, fu ritratto in una foto struggente sulle gradinate deserte dell'arena madrilena di Las Ventas, sotto un ombrello e un chubasquero, una di quelle cerate con cappuccio che, quando minaccia pioggia, puoi comprare a pochi euro sulle bancarelle intorno alla plaza. Don Joaquín sembrava l'ultimo superstite di un universo mitico, un mondo romanzesco, una civiltà perduta. 

Dagotraduzione da The Sun il 21 agosto 2021. Adie Timmermans è stata bandita dallo zoo di Anversa, in Belgio, dopo essere stata sorpresa a scambiare baci ed effusioni con una scimmia. Negli ultimi quattro anni, la donna ha fatto costantemente visita all’animale: “Lo amo e lui ama me. Non ho nient'altro. Perché vogliono portarmelo via?”. La direzione dello zoo è stata costretta ad allontanare la donna affermando che l'improbabile “amicizia” ha causato alla scimmia problemi di socializzazione con gli altri primati: "Un animale troppo concentrato sulle persone è meno rispettato dai suoi simili. Vogliamo dargli la possibilità di essere il più integrato possibile". La scimmia è cresciuta come animale domestico e solo successivamente, quando è diventato troppo grande e ingestibile, è stato donato allo zoo. Questo ha influito sulla sua capacità di adattamento del gruppo, portando negli anni a diversi scontri con altri scimpanzè.

Matteo Pucciarelli per “il Venerdì di Repubblica” il 16 agosto 2021. Alberto Montoro da Nocera Inferiore, 54 anni, assieme a Cristiano Ceriello guida il Partito Animalista Italiano. Nel simbolo del movimento ci sono due inconfondibili zampate di cane. «Siamo quattro gatti ma diamo fastidio a tutti» assicura.  

Partiamo dalle basi. Chi è un animalista? 

«Eh (sospiro), questa è la domanda principale. Noi cerchiamo di presentarci come moderati, però un animalista puro è una persona che mangia frutti, erba e sta nudo. Poi nella realtà chiunque abbia un animo sensibile verso gli animali, anche la signora che dà da mangiare ad un uccellino, è un animalista. Anche se poi ha la pelliccia o mangia carne tutti i giorni. Viviamo in un mondo fatto così, dobbiamo migliorare l'esistente pian piano». 

Qualche titolo di libro o film formativo per il buon militante animalista? 

«Non me ne vengono in mente, però noi diciamo che la rivoluzione animalista inizia ogni giorno a tavola, riducendo il consumo di carne. Anche se il nostro non è il partito dei vegani».  

Sono tanti ormai, sarebbe un ottimo bacino elettorale.

 «Sì, pare siano due milioni in Italia, ma anche lì poi c'è un vegano di un tipo, uno di un altro, c'è quello più vegano di un altro, tutti hanno le loro contraddizioni». 

Lei mangia carne?

 «No, noi attivisti non la mangiamo. Però chiedo il voto anche al macellaio».  

Qual è la vostra storia? Perché nasce il partito?

«Vent' anni fa sono stato una guardia zoofila e mi accorgevo che nessuno faceva niente dopo i nostri interventi e segnalazioni. Dalle mie parti la camorra organizzava ad esempio i combattimenti tra cani, tutti sapevano e però restava tutto com' era. Io vengo dalla vecchia Dc, invece Ceriello da tempo aveva rapporti con parlamentari tedeschi e olandesi, che ci hanno permesso di candidarci senza dover raccogliere le firme alle Europee del 2019».  

E com' è andata?

 «Abbiamo preso 160 mila voti. Lo 0,6 per cento. Più di Casapound, del partito di Adinolfi, più della Svp». 

Chi vota animalista?

«La persona che non va normalmente a votare, stufa della politica, tanti sono ex 5 Stelle. Ma ci sono pure quelli di centrodestra».  

E di sinistra? 

«A sinistra già ci sono altri partiti che si dicono sensibili al tema, quindi, studiando un po', direi che sono molti meno». 

Ma voi siete di destra, di sinistra, o cosa?

«Non vogliamo essere inquadrati, tra noi ci sono tante sensibilità, ex radicali, comunisti, gente di destra. Il nostro obiettivo comunque è entrare in Parlamento. In Campania abbiamo eletto un consigliere regionale con il centrosinistra, però poi Vincenzo De Luca dei nostri punti programmatici non ne ha fatto nulla. In Puglia abbiamo chiesto di creare una delega di assessorato al Benessere animale: Michele Emiliano lo ha fatto e ci hanno messo Pier Luigi Lopalco, che è un medico, uno scienziato, che è pro-vivisezione. Insomma non è semplice».  

La galassia animalista è bella ampia, che rapporti ci sono tra voi?

 «Beh sì ci sono le associazioni, c'è il rifugio, c'è il mondo delle adozioni, c'è questo e quell'altro, nei vari partiti ci sono deputati che si definiscono animalisti, poi c'è il gruppo interparlamentare, dove non producono più di tanto. A Roma c'è Rivoluzione animalista con Vittorio Sgarbi, Micaela Brambilla di Forza Italia ha provato in passato a fare il partito ma non c'è riuscita. Comunque spesso ognuno si sente più animalista dell'altro, non è mai facile collaborare ma ci si prova».  

Esiste un ambientalista non animalista?

«Ne ho conosciuti parecchi, certo, e guarda caso evitano di toccare il tasto degli animali».  

Perché?

 «Il tema è scottante. Per noi prima vengono gli animali, poi l'ambiente, poi l'uomo».  

L'uomo non è un animale?

«Sì, ma se all'uomo distruggi quel che c'è intorno, cosa ti trovi dopo? L'impostazione è tutta sbagliata».  

Un esempio?

«Uno banale: vuoi costruire un palazzo? Prima pensi agli animali, alla fauna che vai a toccare. Dopo a tutto il resto».  

Il modello economico non influisce sul benessere degli animali? Pensiamo agli allevamenti intensivi, piena logica di profitto.

«Questo è vero, sì, il mercato del cibo potrebbe cambiare, noi ad esempio abbiamo la dieta mediterranea, investiamo su quella. Poi la pandemia guarda caso ha colpito di più dove ci sono gli allevamenti intensivi».  

A proposito, dei vaccini che cosa pensate?

 «Ecco, dal punto di vista del principio, se è stato sperimentato su un animale dovrei essere contrario».  

E lo è?

«Sono contro il vaccino però caliamoci nella realtà: c'è un'alternativa? Si tratta di tutelare la vita degli altri esseri umani, sono ragionevole e non voglio essere considerato no vax. Serve realismo. Comunque ho avuto il Covid e per questo ho il Green Pass, per adesso sono a posto».  

Sull'immigrazione invece che programma avete?

«Siamo per l'accoglienza, però la causa principale delle migrazioni è la siccità, che è provocata dal riscaldamento globale, a sua volta dovuto principalmente al consumo di carne».  

E poi comunque anche gli animali migrano, è la natura.

 «Proprio così, poi ora mi vengono in mente gli uccelli e la caccia, altra cosa fuori dal tempo...». 

Ci stareste mai in una coalizione con la Lega, che è storicamente a favore della caccia?

«Sì, ora a Napoli per le Comunali siamo con loro nel centrodestra».  

E come lo spiegate?

 «Semmai è la Lega che deve dire perché sta con noi. Il punto è che tecnicamente non potremmo stare con nessuno visto che in tante regioni a guida Pd la caccia è consentita. Ma tutti ci cercano, tutti si fanno le foto col cagnolino». 

Diceva che in Campania ora avete un consigliere regionale, che proposte fa in aula?

«Livio Petitto era del Pd, ma non lo vollero candidare, quindi venne da noi proponendosi: portava in dote un pacchetto di dodicimila voti da Avellino. Poi che succede? Con lui da lì si candida anche il figlio di un proprietario di una conceria, allora apriti cielo. Ma è successo tutto in una notte, l'ultima prima di chiudere le liste, neanche c'ero. Insomma giuridicamente è con noi, ma non è un nostro tesserato, tra l'altro i suoi voti se li è portati da solo». Vi serve un po' più di esperienza, diciamolo. «Ci vogliono gli uomini di buona volontà».

"Non si butta la cicca in acqua". E il maresciallo, insultato, muore su Il Giornale. Valentina Dardari il 18 Agosto 2021 su Il Giornale. Il carabiniere aveva rimproverato un bagnante per aver gettato una cicca nel mare. Dopo la discussione è sopraggiunto l’infarto che lo ha ucciso. Un maresciallo dei carabinieri di 56 anni, Antonio Carbone, è morto dopo aver rimproverato un bagnante che aveva gettato una cicca nel "suo" mare. Dopo una banale lite il militare è stato colto da un infarto che non gli ha lasciato scampo. Il sottufficiale dell’Arma, originario di Cosenza ma in servizio a Ciriè, comune in provincia di Torino, era tornato nella sua Calabria il giorno prima per trascorrere qualche giorno di vacanza.

Il maresciallo voleva difendere il suo mare. Il 56enne non è riuscito a voltare la faccia quando ha visto un bagnante buttare una cicca di sigaretta in acqua. Davanti a quel gesto incivile è andato a chiedere alla persona di raccogliere la sigaretta per gettarla in un cestino. Il militare ha avuto quindi un alterco con il bagnante, un uomo del Cosentino, e con la famiglia di quest'ultimo. Dopo la discussione il suo cuore non ha retto e, tornando al suo ombrellone, il maresciallo è stato colpito da infarto ed è morto. Il tragico fatto è avvenuto lunedì 16 agosto sulla spiaggia di Paola, nel cosentino. Dopo essere stato colto da malore l’uomo è stato immediatamente soccorso dai bagnini e dal personale del 118, ma per lui non c’è stato nulla da fare.

La rabbia del fratello. Vincenzo Carbone, fratello della vittima e professore universitario dell’Unical, ha raccontato quanto accaduto ai social, spiegando che è morto un uomo, un maresciallo dei carabinieri, nell’esercizio delle sue funzioni. Carbone, come sottolineato dal fratello, “voleva solo difendere il mare di Paola dalla ignoranza violenta e barbara di un clan di bagnanti calabresi che invece lo stava distruggendo. Un gesto da poco, un gesto banale, chiedere con gentilezza di non buttare rifiuti in mare. Ma l'ignoranza violenta e la protervia minacciosa hanno avuto la meglio”. Ha poi continuato precisando che “alla fine di un violentissimo assalto verbale da parte del clan, a cui lui non ha potuto opporre alcuna resistenza, il suo cuore non ha retto". La Procura ha aperto un'inchiesta sulla morte del maresciallo Antonio Carbone e sul suo corpo è stata disposta l'autopsia per accertare le cause del decesso. Solo ieri un bagnino era finito in ospedale con un trauma cranico per aver salvato una medusa a Castellabate, in provincia di Salerno. Il 26enne, accortosi di alcuni bagnanti che avevano prelevato la medusa dal mare per farla morire sulla sabbia, aveva deciso di intervenire per rimettere l’invertebrato in acqua e salvargli la vita. A quel punto è stato però assalito da un bagnante che lo ha atterrato con un pugno alla testa. Il suo aggressore è stato identificato e denunciato per lesioni personali. Rischia adesso dai 6 ai 3 anni di reclusione. 

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.  

Bagnino pestato in spiaggia per una medusa: cos'è successo. Francesca Galici il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. Si trova ricoverato con un trauma cranico il bagnino che ha salvato una medusa a Castellabate: è stato colpito da un bagnante in preda all'ira. Brutta avventura per un bagnino di Castellabate, in provincia di Salerno, picchiato per aver salvato una medusa. I fatti si sono svolti nella frazione Lago della cittadina della Costiera Cilentana. Questa è una zona particolarmente frequentata dai turisti nel periodo estivo e le sue spiagge sono spesso molto affollate. Qui lavora un giovane bagnino di 26 anni originario di Montecorice, che si è accorto della presenza di una medusa in mare. Anche i bagnanti hanno notato l'invertebrato marino e, pensando si trattasse di una specie pericolosa per l'essere umano, l'hanno prelevata dal mare e per portata sull'arenile per farla morire. Il bagnino, contrario a questo comportamento, è intervenuto per richiamare i presenti all'ordine e salvare l'animale, in realtà innocuo per l'uomo. I bagnanti, però, in disaccordo con il bagnino, hanno iniziato una discussione con il bagnino, che ha avuto la peggio. "Meglio lasciarla stare, facciamola andare verso il largo", avrebbe suggerito il bagnino, come riferisce Repubblica. La sua idea ambientalista, però, non è stata gradita da un bagnante che, al termine della lite, l'ha colpito con un pugno alla testa. Il bagnino ha perso l'equilibrio ed è caduto ma l'aggressore è stato identificato immediatamente dai carabinieri che, avvertiti da uno dei bagnanti, sono accorsi sulla spiaggia. Per il giovane bagnino è stato richiesto l'intervento di un'ambulanza, che l'ha accompagnato all'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, dove i medici gli hanno diagnosticato un trauma cranico. Il 26enne si trova tutt'ora ricoverato per accertamenti mentre il suo aggressore è stato denunciato per lesioni personali, accusa che gli può valere dai 6 ai 3 anni di reclusione. Le indagini sono ancora in corso e i carabinieri stanno passando al vaglio le testimonianze dei presenti per ricostruire la dinamica dei fatti. Se alla medusa fosse stato arrecato un danno, l'accusa per i suoi aggressore sarebbe stata di maltrattamento di animali, un capo d'imputazione previsto dall'articolo 544 ter del Codice penale. In base a questa norma, chiunque maltratti o uccida un animale è punibile con il carcere da 3 a 12 mesi o con una multa da 3 a 15mila euro.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

"Ho sentito rompersi i denti". Così Beatrice è stata aggredita. Federico Garau il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Il racconto di Beatrice Lucrezia Orlando, la ricercatrice aggredita a Tortora lo scorso 6 agosto. Due giorni prima del fatto, il ritrovamento di alcuni cani denutriti e la discussione con una dei suoi aguzzini. Cominciano ad emergere ulteriori dettagli circa la brutale aggressione avvenuta la settimana scorsa a Tortora (Cosenza), dove la 42enne Beatrice Lucrezia Orlando, ricercatrice senior in economia e innovazione sostenibile dell'università di Ferrara, è stata barbaramente aggredita mentre si trovava per strada. La donna ha raccontato di essere stata circondata da un gruppo formato da 4 persone mentre si stava recando dal tabaccaio. I suoi aguzzini, capeggiati da una donna con la quale si erano verificati degli screzi nei giorni precedenti, non avevano esitato a scagliarsi contro di lei, fino a lasciarla tramortita a terra. Il caso ha sollevato non poche polemiche, soprattutto dopo che la Orlando ha deciso di postare le foto del proprio volto martoriato su Facebook per denunciare quanto le era accaduto la sera del 6 agosto. In seguito al violento pestaggio, infatti, la donna ha riportato ferite considerevoli, tanto che i medici dell'ospedale San Carlo di Potenza hanno deciso di dimetterla con 24 giorni di prognosi. Ad occuparsi del caso sono i carabinieri di Paola e di Potenza, che hanno raccolto la denuncia della 42enne. Secondo le ultime dichiarazioni della vittima, ci sarebbe un motivo alla base dell'aggressione. Alcuni giorni prima (4 agosto), infatti, la ricercatrice dell'ateneo di Ferrara aveva discusso con una degli assalitori, prendendo le difese di alcuni cuccioli.

Gli antefatti. "Mi trovavo in vacanza con i miei genitori che hanno una casetta, vicina al mare. Come ogni mattina sono uscita con il mio cane, Charlie, per fare una passeggiata. Ad un tratto, sento dei guaiti provenire da sotto un'auto, posteggiata nei pressi della mia abitazione. Una cagnolina, denutrita, con il collarino, e tre cuccioli, anche loro molto debilitati", racconta la 42enne, come riportato da La Nazione. Compreso lo stato in cui vertevano madre e piccoli, la donna aveva immediatamente deciso di intervenire, soprattutto perché alcuni vicini le avevano spiegato che gli animali erano lì da qualche giorno. "Contatto l'Enpa, che mi assicura un intervento nel giro di uno o due giorni", spiega la Orlando, che riferisce anche di essersi personalmente occupati dei cani, fornendo loro cibo e acqua. Un gesto che, a quanto pare, aveva scatenato le ire di una dei vicini. Uscita nuovamente di casa, la 42enne si era infatti trovata di fronte una donna dal forte accento napoletano, furiosa per la ciotola d'acqua lasciata, a suo dire, di fronte alla porta della propria abitazione. "Avrei voluto andare subito a sporgere denuncia, mia madre mi ha convinto a lasciare perdere. Anche se, onestamente, quelle urla mi avevano scosso non poco, perché non c'era neppure una spiegazione razionale a quanto stava accadendo", racconta la ricercatrice. Pochi giorni dopo, il 6 agosto, il pestaggio. Uscita in bici per recarsi dal tabaccaio intorno alle ore 19, Beatrice Lucrezia Orlando si era improvvisamente trovata circondata: "Erano in quattro: la signora dell'aggressione precedente, suo marito, il figlio e la sua fidanzata. La madre mi teneva ferma e mi graffiava, la fidanzata ha preso il telefono con cui io avevo tentato di chiamare soccorsi, il figlio è arrivato da dietro e ha iniziato a riempirmi di pugni, sulla testa sul volto. Aveva anche degli anelli, io ho ancora i buchi sul volto che lui mi ha lasciato". E ancora: "Pugni di una tale violenza che, a un certo punto, ho sentito rompersi i denti. L'ultimo atto: prima di dileguarsi, il figlio mi ha schiacciato con la bici".

La denuncia. Una violenza inaudita, dunque. Ed a peggiorare la situazione, il fatto che nessuno abbia deciso di intervenire per soccorrere la 42enne. Adesso, oltre al dolore ed ai segni delle ferite, rimane una grandissima paura. Paura che non ha comunque impedito alla Orlando di denunciare, malgrado le intimidazioni ricevute. Gli stessi aggressori, infatti, l'avrebbero minacciata di morte. 

Federico Garau.  Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di ...

DA liberoquotidiano.it il 9 agosto 2021. Da Capri arriva una storia incredibile ma vera. Era una giornata qualsiasi in spiaggia per i bagnanti, quando ad un certo punto è arrivato un gabbiano a guastare tutto. Il povero animale, ignaro del caos che avrebbe scatenato da lì a poco, ha avuto l’ardire di avventarsi su un panino e di rubarlo a un ragazzo. Un familiare di quest’ultimo non l’ha presa affatto bene, per usare un eufemismo: ha ucciso il gabbiano con una pietra. Apriti cielo: si è scatenata una mega rissa in spiaggia, ad avere la peggio una persona intervenuta per placare gli animi, che ha rimediato ben 25 punti di sutura alle gambe. Segno che lo scontro è stato davvero molto acceso, assolutamente insensato se si pensa che tutto è partito da un furto di un panino da parte di un gabbiano. L’esecuzione con una pietra ha mandato su tutte le furie tre turisti di nazionalità spagnola, che sono intervenuti in difesa dell’animale, anche se ormai questo era morto. È così iniziata la rissa, che una persona del posto ha provato a frenare, rimanendo però ferito in maniera seria. Colpa di un oggetto tagliente, probabilmente un manico di ombrellone, con cui è stato colpito durante il parapiglia. È stato necessario l’intervento della polizia e dei vigili urbani per riportare la calma, ma rimane l’assurdità di quanto accaduto.

Da Liberoquotidiano.it il 13 agosto 2021. Ciò che state vedendo, lo vedete per le nefaste conseguenze del riscaldamento globale, che ha avuto conseguenze terrificanti in Siberia, dove il permafrost si sta scongelando. E dai ghiacci è spuntato anche questo animale. Un caso clamoroso, rilanciato dalla Cnn, e che riguarda un cucciolo di leone delle caverne, recuperato in una remota zona artica e che è morto la bellezza di 28mila anni fa. L'esemplare è perfettamente conservato. Sembra essere morto nel sonno, oppure quando era sul punto di svegliarsi, almeno questo è quanto suggerisce la posizione del leoncino. Gli esami hanno messo in evidenza come la pelliccia fosse leggermente intaccata dal fango, ma gli organi, mummificati, sono conservati alla perfezione, così come sono perfettamente conservati i denti e la pelle. Al leone siberiano è stato dato il nome di Sparta. Interpellato sempre dalla Cnn, Love Dalen, professore di genetica dell'evoluzione a Stoccolma, ha spiegato: «Sparta è stato forse l’esemplare di animale dell’era glaciale meglio preservato che sia mai stato trovato. Si tratta di una femmina, e persino le vibrisse si sono conservate perfettamente. Boris non si è conservato altrettanto bene», ha rimarcato.

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 30 luglio 2021. Perdere il proprio animale da compagnia è un duro colpo in qualsiasi momento ma durante il lockdown, a causa della solitudine che per mesi ha messo a repentaglio la salute mentale di molti, lo è molto di più. A maggior ragione se la separazione avviene a causa di un furto. 2,355 sono stati i cani rubati nel 2020 nel Regno Unito, un aumento del 7% rispetto al 2019 e negli ultimi tre mesi ben 508 amici a quattro zampe sono stati sottratti ai loro padroni. Stando ai numeri resi pubblici nelle scorse ore da Kennel Club, il club cinofilo più antico al mondo, solo un caso su 50 si conclude con un colpevole.

L'INIZIATIVA. Per fronteggiare il fenomeno il Governo Johnson ha creato una task force dedicata a investigare su questi reati, puniti dalla legge con un massimo di sette anni di carcere. Un deterrente che secondo Bill Lambert del Kennel Club funziona poco. L'esperto ha chiesto una maggiore «serietà» nel perseguire queste denunce che, lamenta, spesso vengono paragonate dalle forze dell'ordine a furti di beni come un cellulare o un computer, quando invece la sottrazione di un cane ha conseguenze devastanti per l'animale e il suo padrone: «Ci lascia a bocca aperta ha detto al Times - vedere che il 98% dei casi non si conclude con un'incriminazione e che nella maggioranza dei casi non c'è nemmeno un sospetto identificato». La situazione è peggiorata durante la pandemia, con un aumento delle richieste di animali da compagnia che ha portato alla crescita vertiginosa dei prezzi e, purtroppo, anche dei furti. Secondo l'associazione di beneficenza DogsTrust il costo di alcune razze è salito addirittura dell'89%, mentre le ricerche su Google di frasi simili a comprare un cane sono aumentate del 166% tra marzo e agosto dello scorso anno. «Gli animali da compagnia sono parte della famiglia - ha detto il ministro dell'ambiente George Eustice e i proprietari non dovrebbero vivere nella paura. Per questo abbiamo istituito una task force che ci aiuti a capire meglio il fenomeno e bloccare i criminali coinvolti». Sull'argomento si è espressa anche la ministra dell'Interno Priti Patel che ha definito «deplorevole» l'atteggiamento di chi trae profitto da questo crimine così «crudele».

LE FORZE IN CAMPO. Per combattere questi reati la ministra ha annunciato l'aumento di 20mila poliziotti nelle strade. Non solo. Con lei si sono schierati anche 1.700 piloti di droni amatoriali, che hanno già ottenuto importanti successi nel ritrovamento di cani scomparsi. Le forze dell'ordine hanno già dato consigli ai proprietari: evitare di lasciare il proprio animale incustodito in un luogo pubblico, modificare il percorso che si segue durante le passeggiate col proprio cane, controllare sempre i lucchetti alle porte e ai cancelli dei propri giardini. Anche pubblicare le foto dei propri animali sui social può attirare l'attenzione di esperti malintenzionati e per questo gli esperti hanno consigliato di postare togliendo informazioni inerenti al luogo dello scatto. Non da ultimo, poiché il furto dei cani alimenta il mercato clandestino, la polizia ha sottolineato l'importanza di accertarsi della provenienza legale dell'animale nel momento dell'acquisto. Non sempre però dietro la sparizione del proprio amico a quattro zampe c'è un'organizzazione criminale.

CONTROLLI DAL CIELO. E Graham Burton, 66 anni, fotografo in pensione e pilota di droni di Pontypridd vicino a Cardiff, lo sa bene. Con la sua associazione di volontari Drone SAR for Lost Dogs ha ricongiunto ben 2mila cani ai loro padroni. La sua squadra è formata da 1700 esperti numero in continua crescita - pronti a entrare in azione non appena viene segnalata una sparizione. L'idea, ha raccontato al quotidiano britannico, gli è venuta quando una signora anziana che aveva perso il suo Labrador si è rivolta a un pilota di drone per ritrovarlo, al costo salatissimo di 600 sterline al giorno (circa 700 euro). Indignato per la cifra si è messo alla ricerca del cane con altri due amici e i loro droni e insieme hanno ritrovato l'animale, gratuitamente. Il drone si è rivelato subito uno strumento ideale poiché la prospettiva dall'alto permette di avere un colpo d'occhio su un'area molto vasta in tempi rapidi. A volte, ha spiegato Burton al quotidiano britannico, basta qualche minuto per concludere la ricerca ma in altre occasioni servono giorni interi. Una fatica ripagata nel momento del ritrovamento. È «incredibile», ha raccontato, l'emozione che si prova nel vedere l'abbraccio tra un animale che si era smarrito e il suo padrone.

Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 27 luglio 2021. Racconta un agente della polizia provinciale di Firenze che in tanti anni di lavoro mai aveva assistito a un episodio così crudele contro un animale. E quasi si commuove a ricordare quegli attimi. «Il cucciolo di volpe, prigioniero nella doppia trappola, mi ha guardato sino agli ultimi istanti di vita - racconta -. Era terrorizzato, non aveva quasi più denti perché se li era spezzati cercando di uscire dalle gabbie di ferro arrugginito. Poi, quando eravamo quasi riusciti a salvarlo, è crollato a terra. È stato terribile». Il cucciolo di volpe, quattro mesi, era stato trasformato in un'esca. Lo avevano catturato nella tana due fratelli sessantenni, uno dei quali ha anche un regolare porto d'armi per la caccia, e lo avevano usato per catturare, con i suoi lamenti disperati, la madre. «Sì, proprio quella maledetta volpe che di notte ci mangia le galline», hanno raccontato agli agenti della polizia della città metropolitana di Firenze coordinati dal comandante Roberto Galeotti. In quell'orribile prigione, la piccola volpe, un maschio, è rimasto giorni con accanto un pollo putrefatto e una ciotola di acqua contaminata. È morta di fame, di terrore (ha pianto per due giorni) e probabilmente a causa del cibo e dell'acqua contaminati. I responsabili sono stati denunciati per diverse violazioni e reati anche penali, tra i quali la morte di un animale in seguito a maltrattamenti. Rischiano sino a due anni di carcere e anche 50 mila euro di multa. È accaduto sabato mattina a Gaville, nel Valdarno, un tratto di campagna tra le province di Firenze e di Arezzo. A scoprire il cucciolo è stata una squadra di agenti della polizia provinciale fiorentina dopo un'ispezione. Una telefonata anonima li avvertiva che in quel luogo i cacciatori di frodo avevano ucciso un cervo, che però non è stato trovato. «Durante la perlustrazione a un tratto ho sentito un lamento disperato, poi un altro e un altro ancora - ricorda un agente - era sempre più flebile. Mi sono avvicinato e ho visto una gabbia-trappola nella quale era stata collocata un'altra piccola gabbia con il cucciolo. Tremava come una foglia, forse sperava di ottenere di nuovo la libertà, ma mi sono subito accorto che era allo stremo delle forze». Gli agenti hanno cercato di aprire quella gabbia delle torture ma non è stato facile. Il cucciolo di volpe ha resistito ancora qualche minuto poi è morto. «Avevamo già allertato una clinica veterinaria. Il medico ci ha detto che quel piccolo ha molto sofferto», raccontano gli agenti. Nel referto di morte dell'animale si legge di una fine avvenuta in modo lento, provocata da più fattori: la denutrizione del cucciolo, alimentato con poca carne di pollo putrida e infestata dai vermi e con acqua stagnante di colore verde. Ma a provocare la morte della volpe sono state anche le ferite che si è procurata cercando di trovare una via di fuga tra le reti metalliche della doppia gabbia. Il cucciolo le ha morse, quelle reti, sino a spezzarsi completamente i denti. Il terrore ha poi provocato ancora più stress nell'animale che inutilmente ha cercato di richiamare la madre.

Gabriele Rosana per "il Messaggero" il 19 luglio 2021. Non c'è solo lo stop alle auto a benzina e diesel dal 2035, che nei giorni scorsi ha fatto registrare una serie di reazioni contrastanti, anche particolarmente forti: all'interno del grande calderone del Green deal europeo per trasformare l'economia del continente nei prossimi dieci anni rientrano anche nuove regole sull'allevamento animale. Anzi, per essere più precisi, un vero e proprio divieto all'uso di gabbie a partire dal 2027. In altre parole, niente più recinti sovraffollati, sbarre o filo spinato per polli, maiali e conigli, o alimentazione forzata per anatre e oche. L'iniziativa vuole favorire la transizione verso «un sistema più etico, sostenibile, rispettoso del benessere animale e che tiene conto anche della qualità del cibo che consumiamo». Rispondendo a una petizione partita dal basso e firmata da oltre un milione e mezzo di cittadini di tutta l'Unione, la Commissione europea si è impegnata a mettere il divieto nero su bianco in una proposta legislativa da presentare nel prossimo anno e mezzo. Secondo gli enti per la protezione degli animali, sono oltre 300 milioni gli esemplari allevati in gabbia nei 27 Paesi dell'Ue (45 milioni solo in Italia): «Una pratica crudele e inutile. E' giunto il momento che la zootecnia si evolva, introducendo sistemi alternativi di allevamento», è scritto nel documento. L'apertura di Bruxelles rappresenta una vittoria per le oltre 170 associazioni ambientaliste e le organizzazioni non governative (20 quelle italiane) che nel 2018 hanno avviato e promosso la campagna End the Cage Age (Poniamo fine all'era delle gabbie): si tratta infatti di uno dei pochi casi il sesto in nove anni - in cui va in porto una Iniziativa dei cittadini europei (Ice), lo strumento di democrazia partecipativa previsto nella complessa architettura istituzionale dell'Ue. Perché un'Ice venga esaminata da Bruxelles, servono almeno un milione di firme provenienti come minimo da 7 Stati membri (è successo in passato anche con le campagne contro il glifosato e per il diritto all'acqua). L'Ice contro l'allevamento in gabbia ha superato la soglia ed è riuscita a diffondersi capillarmente in 18 Paesi, ottenendo pure l'appoggio di grandi aziende alimentari. Adesso l'esecutivo europeo proporrà un nuovo quadro legislativo sull'allevamento di galline ovaiole, scrofe e vitelli - oggi contemplati nella normativa vigente sull'uso delle gabbie - e delle altre specie animali indicate nella petizione (conigli, polli da carne, quaglie, anatre e oche), inserendolo all'interno del pacchetto Farm to Fork (Dal produttore al consumatore) sulle pratiche sostenibili in agricoltura. La bozza di testo dovrà però seguire l'iter legislativo Ue, fra Consiglio, dove siedono i rappresentanti dei governi, e Parlamento europeo. Proprio gli eurodeputati hanno dimostrato a più riprese di essere alleati della campagna (Le alternative all'allevamento in gabbia esistono e devono essere incoraggiate), ma non perdono di vista come per tutte le sfide del Green deal - l'impatto socio-economico sui settori produttivi. Gli europarlamentari vogliono che sia garantito ad agricoltori e allevatori «un periodo di transizione per il progressivo adeguamento al nuovo regime», e che anche «i prodotti di origine animale importati nell'Ue seguano le norme in vigore da noi». Ispirata dall'iniziativa europea, intanto l'Italia prova a indicare all'Unione la strada da intraprendere: a maggio l'assemblea legislativa dell'Emilia Romagna ha approvato una risoluzione che impegna la giunta regionale a sostenere il passaggio ad allevamenti senza gabbie.

Da ilmessaggero.it il 18 luglio 2021. Intanto va detto che questa storia, anche se arriva dal villaggio di Santa Claus a Rovaniemi, in Finlandia, con il Natale non c'entra per niente. O quasi. Sì perché le renne, oltre a tirare la slitta del magico nonnetto, sono anche gli animali simbolo di un territorio, la Lapponia, che da tempo immemore cura e alleva questi giganti della foresta considerati, per molti villaggi, una vera e propria ricchezza. Anche e soprattutto per questo, da anni si sta cercando di limitare gli incidenti stradali che vedono coinvolte le renne. Ogni anno, infatti, mediamente si contano 4mila esemplari morti proprio a seguito di incidenti stradali. Un numero già di per sé esorbitante, considerate le latitudini, che vede l'incidenza maggiore proprio nei mesi bui di novembre e dicembre quando, complice anche il ghiaccio, riuscire ad evitare una renna che compare alla luce dei fari all'improvviso appare impresa ardua. Da qui l'idea di alcuni pastori che hanno pensato di verniciare le corna delle loro renne con della vernice riflettente. La trovata, nata nel 2014, è senza dubbio singolare e non priva di brillantezza. Un animale, al buio, è pressoché invisibile e quelle corna che si "accendono" se illuminate dai fari dei veicoli, potrebbero fare la differenza tra la vita e la morte per tutti, conducente e animale. Così, mentre l'iniziativa aveva subito interessato anche enti e associazioni di quel Paese come la Paliskuntain Yhdistys-Reindeer Herders' Association che, di stanza a Rovaniemi ha diffuso le immagini che proponiamo, i test dello spray su corna e pelliccia sono ancora in fase di sviluppo. Gli incidenti, infatti, nonostante la vernice catarifrangente non sembrano essere diminuiti sensibilmente. Notizia, quest'ultima, che preoccupa non poco i pastori, gli animalisti e, perché no, anche Santa Claus. 

Dagotraduzione dal Daily Star l'1 luglio 2021. In una fattoria delle Filippine è nato un maialino gravemente deformato con una proboscide al posto del naso. La creatura ha due occhi ma un’unica orbita coperta dalla lunga parte del corpo che sporge dalla fronte. Il maialino è nato anche con il muso appuntito e un’altra parte del corpo floscia vicino alla bocca. Non sapendo come prendersi cura di lui, l’allevatore ha immediatamente chiamato i funzionari locali del bestiame per aiutarlo, ma purtroppo l’animale è morto prima che potessero intervenire. Il tecnico James Embate, che è andato a controllarlo, ha raccontato: “L'allevatore che ha chiesto aiuto era confuso e temeva che gli altri maialini potessero essere malati, quindi ci hanno chiamato. Abbiamo cercato di rianimare il maialino perché poteva aiutarci con la ricerca, ma purtroppo era morto quando siamo arrivati». «Abbiamo controllato gli altri maialini ma stavano tutti bene così come la madre». James ha detto che il maialino soffriva di un difetto alla nascita che non è stato rilevato durante la gravidanza della madre. Il "maiale elefante" è stato seppellito nel cortile dell'agricoltore mentre ai suoi fratelli sono stati somministrati integratori per evitare i rischi della peste suina africana che attualmente sta colpendo l'industria nel paese. Non è la prima volta che nasce un maialino con una rara mutazione genetica. A maggio, è apparsa l'immagine di una creatura da incubo "ciclope" nata con un occhio e anche un tronco al posto del muso. E all'inizio dell'anno, gli abitanti del villaggio si sono radunati per adorare una mucca mutante nata con cinque zampe dopo aver creduto che avrebbe «portato loro fortuna». Il filmato mostrava gli abitanti del villaggio che si radunavano su un campo per toccare a turno la mucca dall'aspetto insolito nella provincia di Surin, nel nord-est della Thailandia, il 6 gennaio.

Dagotraduzione dal DailyMail il 30 giugno 2021. Ieri il mare delle isole Faroe si è tinto di rosso. Rosso sangue, quello delle 175 balene uccise ieri per il Grind o Grindadrap, come le chiamano qui, che qui è parte della cultura tradizionale: la caccia alle balene, la cui carne è conservata per il cibo. Tutto è iniziato nelle prime ore di domenica: i pescatori hanno individuato un branco al largo della costa vicino alla città di Vestmann. Gli uomini hanno spinto le balene verso riva e, armati di uncini, lance e coltelli, ne hanno ammazzate 52.  Poche ore dopo, un altro branco è stato avvistato al largo della costa meridionale e gli equipaggi sono partiti per guidare gli animali verso la città di Hvannasund, dove ad aspettarli hanno trovato i cacciatori. Bilancio: 123 balene uccise. I cacciatori nelle Isole Faroe hanno ucciso 175 balene, così tante da tingere il mare di rosso sangue dopo che le barche hanno portato gli animali verso la riva dove gli uomini aspettavano nelle secche con ganci, coltelli e lance. La mattanza è stata ripresa dai droni di Sea Shepard, che ha denunciato la pratica come «insostenibile e barbarica» accusando i cacciatori di aver ucciso oltre 6.500 balene e delfini dall’inizio dell’anno. I faroesi sono divisi sul Grind, ma molti esortano i media stranieri e le ONG a rispettare la loro cultura tradizionale dell'isola, dove la pesca mantiene un posto centrale e tutta la carne di balena è conservata per il cibo. Gli attivisti per i diritti degli animali operano nelle Faroe dall'inizio degli anni '80, intraprendendo azioni dirette contro i Grind con le proprie barche. Ma nel 2015, le modifiche alla legislazione hanno impedito a qualsiasi barca di Sea Shepherd di interrompere la caccia. Per questo l’associazione usa l’equipaggio di terra per affrontare il Grind documentandolo con fotografi di stanza sulla riva e droni in aria. Robert Read, direttore operativo di Sea Shepherd, ha dichiarato: «Il grindadráp è una reliquia barbara di un'epoca passata. Un'inutile caccia a centinaia di globicefali e delfini che sarebbe dovuta finire un secolo fa e che non serve per nutrire nessuno sulle isole». Dopo aver individuato un branco, i faroesi guidano gli animali con barche da diporto, barche da pesca e talvolta anche moto d'acqua creando con i motori delle loro barche un «muro sonoro» che costringe il branco verso la baia più vicina. Al loro arrivo gli uomini, che le aspettano in acque poco profonde, si precipitano in mare, trascinando le balene vive con funi attaccate a uncini che spingono attraverso lo sfiatatoio della balena. Gli uomini più vicini alla riva tentano di recidere il midollo spinale della balena con una lancia e poi con un coltello per tagliare il collo dell'animale. Può volerci molto tempo prima che l'ultima delle balene e dei delfini venga ucciso, lasciandole a dimenarsi in acque piene di sangue mentre le barche bloccano qualsiasi fuga. Il Servizio Veterinario delle Faroe ha calcolato che la durata media delle uccisioni durante le cacce al grindadráp è di 12,7 minuti, sebbene l'equipaggio di Sea Shepherd spesso registri che le uccisioni siano durate ben più di 20 minuti.

Dagotraduzione da Inside Edition il 18 giugno 2021. «Non sono sicuro di come sia uscito il cerbiatto, ma Harley ovviamente non ha chiesto perché, è semplicemente entrato in azione», ha detto Ralph Dorn, 62 anni, di Culpeper, in Virginia. Harley è un eroe canino. Il Goldendoodle di 6 anni si è tuffato in un lago fuori dalla sua casa in Virginia per salvare un cucciolo di cervo dall'annegamento. Dorn, un pilota in pensione del Corpo dei Marines, era così orgoglioso del suo ragazzo che ha pubblicato il salvataggio sul suo Facebook e da allora il post è diventato virale, con più di 250.000 condivisioni. Dorn ha raccontato tutto è successo il 2 giugno. Mentre cercava di ritrovare il suo cane, Dorn si è accorto che era nel lago, a 60 metri dalla riva e stava trasportando un piccolo cerbiatto. Ha visto Harley nuotare fianco a fianco con il cerbiatto fino alla salvezza. Poi Dorn ha preso il cucciolo di pochi giorni e l'ha portato su una ripida sporgenza rocciosa prima di metterlo sull'erba. Intanto, Harley era molto eccitato e ha iniziato a fare ciò che i cani sanno fare meglio: annusare e leccare il suo nuovo amico. «Harley non voleva lasciare il cerbiatto», ha detto Dorn a People . «Continuava a interagire con lui, a leccarlo, a prendersene cura». La coppia si è finalmente separata dopo che è emersa la madre del cerbiatto. Dorn ha detto che è stato allora che ha portato dentro Harley. Fino al mattino successivo, quando c’è stato un nuovo incontro: Dorn e Harley infatti si sono ritrovati con il cerbiatto fuori da casa, a belare per chiamare il nuovo amico. Non appena Dorn ha aperto la porta d'ingresso, Harley è corso verso il cerbiatto. «Il piccolo ha smesso di belare, scodinzolare, si sono toccati i nasi si sono annusati e Harley è tornato tranquillamente a casa con me», ha scritto Dorn. Dorn ha detto che sapeva fin dall'inizio che Harley aveva un cuore d'oro.

Da "La Presse" il 16 giugno 2021.  Sono immagini incredibili quelle riprese da un pescatore siciliano durante una battuta di pesca al largo delle coste di Marzamemi, in provincia di Siracusa in Sicilia. «Mi trovavo a pesca e guardate cosa ho trovato: è impressionante», dichiara l'uomo prima di inquadrare due cinghiali che nuotano in mare aperto. «Non ho mai visto in questa zona cinghiali, verranno dall'Africa o qualcuno li avrà buttati in mare da qualche nave. Impressionante. Ora li sto scortando verso terra», ironizza il pescatore testimone di una scena alquanto inusuale. 

Dagotraduzione da Dnyuz il 15 maggio 2021. Nel corso della storia l'uomo ha nutrito ogni sorta di animale, non solo quelli domestici. Perché? E che impatto ha questo comportamento sugli esseri umani, sugli animali e sull'ambiente? Un gruppo di cinque ricercatori guidati dall'archeologa Naomi Sykes sta indagando sul fenomeno in Gran Bretagna e Scozia. La ricerca è ancora in corso ma gli scienziati credono che cibare gli animali abbia a che vedere con l'estinzione di alcune specie. Addomesticare gli animali, e cibarli, può essere la condanna a morte dei loro progenitori selvaggi. Gli antenati dei cavalli e dei bovini non esistono più. E anche se ci sono ancora lupi in giro, non prosperano come i cani. In alcuni casi nutriamo gli animali per fini pratici. Ingrassiamo i polli per poterne mangiare le uova, e poi la carne, sfamiamo i cavalli per poterli cavalcare e prepariamo i pasti alle cavie da laboratorio, perché ci servono vive. Ma una grande quantità del cibo che destiniamo agli animali non ha alcun ritorno pratico. Le aquile nere di Delhi si nutrono di spazzatura e degli animali che ne sono attratti, ma vengono anche foraggiate dai musulmani, che per tradizione lanciano loro pezzi di carne in aria. Molti indiani sfamano i cani di strada come fossero loro vicini di casa. Ricchi e poveri dividono spesso il loro cibo con gli animali. La ricerca di Sykes e dei suoi colleghi però è partita dai polli. Lavorando su alcuni siti antichi in Gran Bretagna, la dottoressa è rimasta sorpresa nello scoprire che gli isotopi di ossa di pollo fossilizzati restituivano strani risultati. Gli isotopi sono atomi di elementi chimici come carbonio o azoto utilizzati dagli scienziati per stabilire il contenuto dei pasti di animali e uomini. «Nei siti in cui venivano sacrificati agli dei di Mercurio e Mitra molti polli» durante l'occupazione romana della Gran Bretagna, «alcuni dei valori sembravano davvero bizzarri»: le galline venivano sottoposte a una dieta speciale a base di miglio. Con gli anni, i polli sono diventati una delle principali fonti di cibo. Ma sono un esempio, secondo Sykes, di un processo in cui nutrire l'animale era più importante che mangiarlo. I romani erano soliti portare con loro anche cani e gatti. E negli insediamenti se ne trova traccia. Ma come mai, si è chiesta Sykes, per nutrire i gatti utilizziamo il pesce? Potrebbe essere una tradizione legata al cristianesimo? «Penso che i primi a legare con i gatti, almeno in Gran Bretagna, siano stati i monaci. Ne avevano bisogno per cacciare i topi, famelici divoratori di carte e documenti che richiedevano ai religiosi molte ore di lavoro. I monaci, costretti al digiuno, mangiavano spesso pesce». Forse sono stati i monaci, in ogni caso la pratica si è diffusa. Tanto che oggi la pesca che alimenta il mercato del cibo per gatti è un settore a sé. Un fenomeno preoccupante per il suo impatto ambientale. I consumatori esercitano pressioni sulle flotte che pescano per il mercato degli uomini, ma non su quelle che pescano per il cibo degli animali. Un altro fenomeno misterioso da spiegare è per quale motivo consideriamo alcuni uccelli come amabili ma ne disdegniamo altri? In Gran Bretagna la spesa per nutrire gli uccelli si aggira intorno ai 200 milioni di sterline. Ma non per tutti gli uccelli. I piccioni, per esempio, non sono molto amati. Nel 1500 in Inghilterra la legge riconosceva un compenso a chi uccideva alcuni animali, non solo ratti e topi, ma anche «corvi, nibbi reali, uccelli rapaci». Perché abbiamo cambiato prospettiva? Una delle ipotesi è che le basse temperature dell'epoca, nota come una piccola era glaciale, rendessero il cibo scarso inducendo gli animali a rivolgersi agli insediamenti umani per sopravvivere. I campioni di ossa mostreranno se in effetti nel 1500 i rapaci dipendessero di più dal cibo umano che dal foraggio tradizionale. La dottoressa Sykes vede gran parte dell'abitudine umana di nutrire gli animali come una forma di addomesticamento. Sembra anche che alcuni animali che ora mangiamo, come polli e conigli, possano essere entrati nella nostra vita non come cibo, ma come bestie da nutrire. L'alimentazione degli uccelli è solo un esempio, ma è anche un campanello d'allarme secondo Sykes: l'addomesticamento e l'estinzione spesso vanno di pari passo anche se la causa e l'effetto non sono chiari. L'uro ha lasciato il posto al bestiame. Ci sono molti gatti domestici in Gran Bretagna, ma solo pochi gatti selvatici scozzesi. I lupi sono ancora qui, ma non i lupi da cui discendono i cani. Sono estinti. E i lupi moderni stanno solo resistendo, mentre i cani potrebbero essere un miliardo. Il loro futuro, almeno in termini di numeri, è luminoso. Finché ci saranno persone, ci saranno cani. Nessuno sa che aspetto avranno e se dovremmo lavare loro i denti giorno e notte e spendere una fortuna per i loro tagli di capelli. Ma saranno qui. Lo stesso non si può dire dei lupi. E se le creature selvagge si estinguono, perdiamo tutti.

Daniela Mastromattei per “Libero Quotidiano” il 23 aprile 2021. Rare testuggini e variopinti pappagalli di varie specie protette e a rischio estinzione importate illegalmente dalla Tunisia sono state sequestrate ieri al porto di Genova. A condurre l'operazione la Guardia di Finanza e i funzionari dell'ufficio delle dogane, che hanno scoperto i 150 animali - chiusi dentro anguste scatole di cartone - nell'ambito dell'attività di controllo sui passeggeri provenienti dal Nord Africa. I trasgressori, tutti cittadini tunisini, sono stati denunciati all'autorità giudiziaria per violazione della normativa Cites sugli animali esotici, adottata proprio per evitare il commercio clandestino di esemplari che nei loro habitat vivono e si moltiplicano, in luoghi completamente diversi dal punto di vista geografico e climatico, non solo soffrono ma rischiano di estinguersi. Per non parlare della sofferenza alla quale sono sottoposte queste bestiole durante la cattura e il trasporto in condizioni incompatibili con la loro natura. Un traffico che dimostra l'inciviltà e la scarsa sensibilità verso il mondo animale sia da parte di chi li porta in Italia strappandoli al loro habitat selvatico, sia da parte di chi li acquista per il piacere di avere in salotto un pappagallo dai mille colori e di rara bellezza. Come fosse un'opera d' arte, per sfoggiarla con amici e parenti. Ma sappiamo bene quanto l'essere umano sia volubile e dall'innamoramento facile: prima l'accoglie con l'entusiasmo infantile di chi ha appena ricevuto un nuovo gioco, poi si stufa e vorrebbe (quasi) romperlo. E insieme al fastidio di doverlo nutrire ogni giorno iniziano a serpeggiare le domanda e ora a chi lo affidiamo? Le vacanze estive sono vicine e in aereo lo faranno salire? Ma come? In borsa o in una gabbietta? E quanto ci costa? Interrogazioni che vanno avanti per giorni, e a poche ore dalla partenza l'unica soluzione possibile, senza alcuna spesa, sembra essere l'abbandono. C'è chi acquista animali esotici di cui non conosce nulla, e poi scopre che non sono pupazzi di peluche ma esseri viventi che hanno bisogno di essere accuditi. Ma è troppo tardi. Quanti pappagalli e tartarughe lasciati nei parchi delle città italiane...La criminalità organizzata ci va a nozze. Il programma ambientale dell'Onu (Unep) stima che il valore complessivo dei traffici illegali di fauna e flora selvatiche tocca a livello globale i 23 miliardi di dollari l'anno. Solo in Europa nel 2018 ci sono stati più di 6 mila sequestri in crescita del 7% rispetto all'anno precedente. «In tutto il mondo, il commercio illegale di animali selvatici è cresciuto in modo esponenziale perché è un'attività a basso rischio e ad alto rendimento», spiega Legambiente nel Rapporto Ecomafia 2020. Nel 2017, con l'approvazione del "Piano d'azione dell'Unione europea contro il traffico illegale di specie selvatiche", questo commercio è stato riconosciuto da Bruxelles come una priorità nell'ambito della lotta alla criminalità organizzata transnazionale. Un traffico di settemila tra rettili e pelli di rettili sono stati sequestrati nel 2018. Più di mille tra cavallucci marini, scaglie di pangolini, ossa di tigre e bile d'orso che senza alcun fondamento scientifico in alcune zone del mondo continuano ad essere considerati rimedi medicali. Ci sono anche coralli (oltre una tonnellata), uccelli vivi (oltre mille esemplari, in particolare pappagalli), avorio (quasi tremila campioni per 145 kg di peso in Inghilterra) e poi quasi duemila tra trofei e pelli di lupi, tigri e orsi. Le testuggini sequestrate a Genova, in attesa di essere restituite alle autorità tunisine per essere reintrodotte nel naturale habitat da cui sono state illecitamente sottratte, sono state affidate all'Enpa, mentre i pappagalli sono stati presi in cura all'interno di un parco faunistico.

I segreti che gli animali ci sussurrano. Filelfo su La Repubblica il 17 aprile 2021. Storia di un’altra rivoluzione del 1789, avvenuta in Inghilterra Dove un cane ispirò al filosofo Jeremy Bentham la prima dichiarazione dei diritti delle bestie. Da leggere e mettere in pratica ora. Anche per noi il 1789 fu l'anno della grande rivoluzione. Ma non quella di cui abbaiano i fratelli quadrupedi francesi, sempre inclini a menare vanto della nazione gallica, come usa tra i bipedi e perfino tra i millepiedi di quelle contrade. Chi di noi non ha fissato la mascella quadrata di un bracco di Saint-Germain intenta a rimasticare la convocazione degli Stati generali, quell'assemblea dove più numerosi erano i senza pedigree, come da sempre lo sono tra le specie viventi, poiché è nel meticcio e nel molteplice che la natura ama nascondersi? O non ha annuito ai versi alessandrini con i quali un basset bleu di Gascogna, dall'animo libertario dei cadetti di lungo naso, fa festa...

Api, coleotteri e farfalle: la biodiversità nascosta. Vincenzo Foti su La Repubblica il 22 aprile 2021. Non possiamo farne a meno: il mondo degli insetti è una componente chiave per la conservazione degli ecosistemi. Lo dimostrano alcuni progetti sul territorio, come il ''Sentiero delle api'' nel Parco del Circeo. La Giornata Mondiale della Terra è il momento giusto per recuperare ciò che manca per una corretta salvaguardia dell'ambiente. E le numerose ricerche sulla biodiversità aiutano a capire dove è più urgente intervenire e in quale misura. A cominciare dagli insetti, creature portatrici di un fascino che non morirà mai, e purtroppo tra le prime vittime dei cambiamenti climatici. Il Dipartimento di Scienze dell'Università di Roma Tre, guidato da Marco Alberto Bologna, ha intrapreso una ricerca sulla famiglia dei coleotteri Meloidi svelando alcune funzioni tuttora oggetto di studio. Diffusi in tutto il pianeta (eccetto Nuova Zelanda, in Antartide e alcune isole Polinesiane), i Meloidi sono rappresentati da circa 3.000 specie. La loro fama è legata alla produzione di cantaridina, sostanza altamente tossica e irritante usata come difesa naturale. Dotata di proprietà afrodisiache e mediche, la cantaridina appare legata agli aspetti riproduttivi di questi insetti. Attualmente è oggetto di studio come antitumorale. Fra le peculiarità dei Meloidi vi è il loro ciclo di sviluppo, definito “ipermetabolico”, dove il primo stadio larvale  (triungulino) di alcune specie vive come parassita nei nidi di api selvatiche, mentre quello di altre specie sfrutta le cavallette. La maggior parte degli studi del professor Bologna sui Meloidi, condotti in collaborazione con la dottoressa Alessandra Riccieri, si concentra però sul loro status morfologico e molecolare. L'obiettivo è descriverne la biodiversità interpretando nel contempo la storia evolutiva che ha portato alla formazione e alla distribuzione delle specie oggi osservabili. Per esempio, selezionando alcuni frammenti del DNA è stato possibile tracciare l’evoluzione di Hycleus, un genere di Meloidi estremamente ricco di specie (circa 500), dalla distribuzione geografica vastissima. L'analisi del DNA di questi coleotteri si è dimostrata utile anche per capire in quale misura la distribuzione  di alcune specie sia stata influenzata dagli eventi geologici di milioni di anni fa, come le glaciazioni del Pleistocene o la crisi di salinità del Messiniano. Tra i progetti futuri del Dipartimento rientra la ricostruzione della storia evolutiva dell’intera famiglia dei Meloidi, avvalendosi delle più moderne tecniche di sequenziamento del DNA (Next Generation Sequencing), che permetteranno di ottenere, per ogni individuo studiato, una grandissima quantità di informazioni molecolari da confrontare. “I coleotteri sono animali dal grande successo evolutivo, che funzionano bene” conferma professor Bologna. “Possiedono una sorta di corazza esterna (infatti vengono chiamati 'i corazzati') e hanno ruolo ecologico fondamentale in tutti gli ambienti. Controllano l'eccessiva crescita della vegetazione e sono anche in grado di riutilizzare risorse da rimettere in gioco nell'ambiente. Non tutti i coleotteri si mostrano all'uomo, ma alcuni di loro sono bellissimi. Oggi le loro sostanze vengono sperimentate come antitumorali”. I coleotteri rientrano nel gruppo fondamentale degli impollinatori. Proprio il ruolo degli impollinatori è stato studiato presso il Parco Nazionale del Circeo, una tra le aree naturali protette più antiche d'Italia. Le zone umide, la costa e il promontorio sono di grande interesse naturalistico. Gli impollinatori di queste aree rappresentano una componente chiave della biodiversità perché garantiscono il mantenimento delle comunità vegetali lì presenti. In particolare, il sistema delle dune litoranee del Parco del Circeo costituisce un ambiente unico. Tutelato dall’Unione Europea, è considerato un ecosistema fragile a causa dell’elevata pressione antropica. Molte popolazioni di insetti nel mondo stanno già calando dell'1-2% all'anno a causa dei cambiamenti climatici e ambientali prodotti dalle attività umane. L'allarme arriva da Pnas, attraverso i dati raccolti da 12 studi firmati da 56 ricercatori che spiegano anche come possiamo fare per salvare la biodiversità. Conoscere quali specie di api e farfalle vi sono presenti è l’obiettivo principale di progetto del Dipartimento di Scienze curato da Andrea Di Giulio, Marilena Marconi e Giulia Simbula. Un primo passo da compiere per promuovere la conservazione degli ambienti. Importante, se si considera quanto poco ancora si sa sulle specie che  abitano questi luoghi, soprattutto sulle api selvatiche. “Al Circeo – precisa Bologna - stiamo comparando ambienti coltivati dall'uomo, biologicamente e non, con gli ambienti naturali del parco, per capire se in questi ultimi l'indice di biodiversità degli impollinatori è più alta. Vogliamo fare un monitoraggio di cosa  successo negli ultimi anni a questi importantissimi insetti”. Il progetto, che si svilupperà nel biennio 2021-2022, prevede anche lo svolgimento di attività educative. Lungo il 'Sentiero delle api', un percorso didattico pensato per le scuole, i ragazzi potranno incontrare alcuni soggetti particolari (per esempio i bombi) e capire in tal modo cosa sono gli insetti impollinatori, come nascono e vivono e qual è il loro ruolo fondamentale nell'ecosistema.

La strage delle api che mette in pericolo tutta la catena alimentare. Stefano Liberti su L'Espresso il 30 marzo 2021. Negli ultimi cinque anni nel mondo sono scomparsi 10 milioni di alveari e in Italia se ne sono persi oltre 200mila per colpa di alcuni insetticidi. E parte la raccolta firme per vietarli. Se questa mattina avete preso un caffè o bevuto un succo d’arancia, dovete probabilmente ringraziare un’ape. Un terzo del cibo che mangiamo è legato all’azione di questi e altri insetti impollinatori, che volando di fiore in fiore favoriscono la fecondazione incrociata nelle piante. Un rapporto simbiotico che va avanti da milioni di anni e rappresenta una delle chiavi di volta dell’evoluzione: le piante forniscono alle api il nettare di cui si nutrono; queste in cambio trasportano il polline dagli stami allo stigma, facendosi vettori della riproduzione. Le une non potrebbero vivere senza le altre. E anche noi avremmo non poche difficoltà: se le api cessassero di esistere, non saremmo privati solo del miele, ma scomparirebbero varie specie vegetali, con effetti devastanti su tutta la catena alimentare. La relazione tra la nostra specie e le api affonda nella notte dei secoli. Già l’arte rupestre del neolitico ce ne fornisce testimonianza: nella Cueva de la Araña (grotta del ragno) vicino a Valencia, un’incisione di 8000 anni fa raffigura una donna che prende dei favi con le mani mentre le api le ronzano intorno. La donna nel graffito spagnolo non è altri che l’antenata dei moderni apicoltori, che instaurano un rapporto di reciproco vantaggio con le famiglie di api: forniscono loro le arnie, sottraendo loro il surplus di miele che producono. Oggi questo rapporto appare seriamente compromesso: le api muoiono a ritmi spaventosi come risultato di diversi fattori, tutti legati al comportamento umano. L’uso in agricoltura dei pesticidi neonicotinoidi le disorienta, impedendo loro di ritrovare la strada dell’alveare. Le monocolture le privano di fonti di nutrimento e le costringono a spostarsi a caccia di cibo. Gli shock climatici influiscono sul comportamento degli alveari: il caldo innaturale in inverno può spingere la regina a riprodursi precocemente e ad allargare la colonia quando le condizioni di fioritura nell’ambiente circostante non sono ancora adatte al nutrimento. Succede così, come è successo in tutti questi ultimi anni in Italia, che nelle famiglie sovrappopolate si muoia di fame. Ad altre latitudini avvengono fenomeni ancora più estremi: in Australia un anno e mezzo fa le temperature eccessive hanno fatto fermentare il nettare dei fiori trasformandolo in alcol e letteralmente ubriacato le api, come ha raccontato in una serie di tweet l’apicoltore Cormac Farrell, responsabile delle cinque arnie installate nei giardini del Parlamento di Canberra. Questo insieme di cause sta provocando una vera e propria strage: negli ultimi cinque anni sono scomparsi nel mondo 10 milioni di alveari, quasi 2 milioni l’anno. In Italia se ne sono persi almeno 200mila. Se si conta che ogni alveare può ospitare fino a 80mila unità si capisce la portata del massacro. L’estate scorsa si è avuta una moria eccezionale tra Brescia e Cremona, che ha lasciato a terra tra gli otto e i nove milioni di esemplari. La probabile causa? L’uso improprio di alcuni insetticidi. Nel 2018, l’Unione Europea ha vietato l’uso di tre pesticidi neonicotinoidi particolarmente nocivi per le api, ma l’anno scorso alcuni paesi li hanno riammessi per combattere degli afidi che colpiscono le barbabietole. Oggi la moria delle api ha innescato un movimento popolare. Un’iniziativa dei cittadini per “salvare le api e i contadini”, che chiede l’eliminazione al 2035 dei pesticidi sintetici, il ripristino della biodiversità e misure di sostegno agli agricoltori per favorire la transizione, ha già raccolto quasi mezzo milione di firme. Se si arriva a un milione, la Commissione europea sarà costretta a prendere una posizione. La battaglia per la sopravvivenza di questi impollinatori riguarda tutti noi. Anche perché, come sottolinea l’apicoltore e divulgatore Paolo Fontana, «se si rompono gli equilibri che hanno garantito la sopravvivenza delle api per milioni di anni, la specie più minacciata sarà proprio quella scimmia nuda dal nome forse un po’ ampolloso di homo sapiens».

Da il Messaggero l'8 marzo 2021. Multa di 5.000 euro per avere tagliato le ali di due pappagallini con i quali chiedeva l' elemosina. Sanzione pesante per una mendicante di 33 anni di Roma, condannata dal tribunale per maltrattamento di animali. La donna aveva tagliato le piume remiganti per impedire che i pappagalli spiccassero il volo. I volatili venivano anche offerti ai turisti nella zona di Fontana di Trevi per scattare foto ricordo. 

Da messaggeroveneto.gelocal.it il 19 marzo 2021. C'è un'inchiesta della Procura. E un'altra indagine è stata già aperta dalla magistratura militare. Ma i contorni dell'episodio di Vivaro (un colpo partito, durante un'esercitazione militare, da un blindato del Genova Cavalleria ha danneggiato un allevamento di polli, uccidendo diverse decine di animali) tutti da decifrare, hanno scatenato l'ilarità della Rete. Che si sa, tra meme e vignette, non si lascia sfuggire l'occasione per strappare una risata all'insegna del paradosso, mescolando cronaca e tormentoni del web, storia e cinematografia. Così, c'è chi ha scomodato le "Galline in Fuga" di un film d'animazione del Duemila, e chi invece ha usato il format di wikipedia per raccontare la "Battaglia del Cellina". Qualcuno ha scherzato sull'estinzione dei pennuti a Pordenone e altri hanno dotato - potere di Photoshop - una gallina pasciuta di elmetto da guerra.

Tre orsi “condannati all'ergastolo” in Trentino. Le immagini del Casteller. Le Iene News il 09 marzo 2021. Le immagini degli attivisti che sono riusciti a entrare all’interno del Casteller in Trentino hanno fatto molto scalpore, denunciando le condizioni di reclusione di tre orsi. Nina Palmieri racconta la situazione degli orsi in quei territori. “Un lager, gli orsi sono in delle gabbie”. Le immagini degli attivisti che sono riusciti a entrare all’interno del Casteller in Trentino hanno fatto molto scalpore, denunciando le condizioni di reclusione di tre orsi. Il Trentino è da secoli casa degli orsi, ma a un certo punto le cose iniziano a cambiare. Nel 2007 un’orsa  viene catturata e portata in Germania. La sua colpa? Aver predato alcuni capi di bestiame. Nel 2011 avviene un altro episodio con un’altra orsa. “Viene catturata e condannata all’ergastolo nel lager del Casteller”, racconta Marco Ianes, insegnante e ambientalista, a Nina Palmieri. “Sono quasi 10 anni che è lì”. “L’orso è un animale assolutamente pacifico, che cerca i tutti i modi di evitare di non venire a contatto con l’uomo, non a caso si dice ‘sei un orso’” spiega a Nina Palmieri Antonio, un veterinario che studia gli orsi da tantissimi anni. Nel 2014 avviene un altro episodio. Un uomo si imbatte nei boschi in un’orsa con i suoi cuccioli. “L’orsa ha avvertito il pericolo e l’ha aggredito”, racconta Marco. Ma su come si sia arrivati al contatto “non è stata fatta chiarezza”, conclude. L’uomo ha riportato diverse ferite e così è partita una caccia all’orsa, finita in tragedia: l’animale muore. Un episodio che ha posto un interrogativo fondamentale: chi sta sbagliando, l’orso o l’uomo? Nel 2017 un orso torna sulle pagine dei giornali e anche se le circostanze dell’incontro sono poco chiare, c’è un colpo di scena: l’uomo avrebbe aggredito l’orso. Quando Maurizio Fugatti, esponente della Lega, diventa Presidente della Provincia Autonoma di Trento, mette le cose in chiaro. “Ha voluto una legge che prevedeva che gli orsi ritenuti pericolosi potessero essere abbattuti senza nessun tipo di autorizzazione da parte del ministero”, racconta il consigliere provinciale Filippo De Gasperi. Nel 2019 un altro orso viene catturato e portato al Casteller. Ma per ben due volte riesce a scappare diventando così l’orso più famoso del mondo e finendo sui giornali internazionali. Contro una nuova cattura si schiera l’allora ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Ma l’orso viene preso ancora una volta e portato al Casteller. “La Provincia ha ridotto il contingente dei custodi forestali, erano 170 e l’hanno ridotto a 130. Poi non sorprendiamoci se ci troviamo con un’orsa con i cuccioli sull’uscio di casa”, dice De Gasperi. “È chiara e netta la volontà che si preferisce arrivare a quella che io definisco la soluzione finale”, continua Marco. E cioè investire nel luogo dove gli orsi considerati problematici vengono rinchiusi: il Casteller . “Sappiamo che c’è in previsione il progetto di sistemazione dell'area, si parla di 630mila euro più la manodopera. La stima parlava di un milione e 200mila euro”, dice De Gasperi. Soldi che si aggiungo ai 160mila euro investiti per fortificare la recinzione negli anni scorsi. “Io mi chiedo: sono soldi pubblici, qualcuno dovrà rendere conto di questo. Abbiamo anche fatto un esposto alla Corte dei Conti”, racconta Marco. A settembre 2020 i carabinieri del Cites riescono ad entrare nel Casteller e scrivono: “Tutti gli orsi versano in una situazione psicofisica molto severa. Le condizioni di detenzione non garantiscono condizioni di benessere degli esemplari”. Uno degli orsi, si legge, “ha smesso di alimentarsi”, un altro “ripete costantemente dei movimenti in maniera ritmata”. L’amministrazione si era difesa dicendo che quelle condizioni fossero dovute al fatto che c’erano dei lavori. Ma dopo qualche settimana sono entrati anche gli attivisti e hanno documentato le condizioni degli animali. Su quelle condizioni siamo andati a chiedere delle spiegazioni all'assessore Giulia Zanotelli. "C'è un veterinario che li segue", ci ha detto. “Rispetto ai danni causati da questi orsi non c’è una proporzione con la pena che stanno subendo. Loro attualmente  sono condannati all’ergastolo”, conclude Marco. 

Pappagalli, tartarughe e perfino tigri: che fine fanno gli animali sequestrati dai bracconieri. Daniele Di Stefano su La Repubblica il 9 marzo 2021. Un business fuori legge che tra fauna e flora selvatiche tocca i 23 miliardi di dollari all’anno a livello globale. In Italia un reato ambientale su quattro colpisce la fauna. La criminalità ha un debole per gli animali. E la tenerezza non c’entra. Il programma ambientale dell’Onu (Unep) stima che il valore complessivo dei traffici illegali di fauna e flora selvatiche possa toccare a livello globale i 23 miliardi di dollari all’anno. Solo in Europa, nel 2018 ci sono stati più di 6 mila sequestri di fauna e flora selvatici detenuti illegalmente e di prodotti derivati da piante e animali protetti, in crescita del 7% rispetto dell’anno precedente. Il termometro dell’illegalità a spese degli animali lo tengono Wwf e Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) col nuovo dossier di Traffic, programma congiunto che monitora per la Commissione europea i commerci di specie selvatiche. Oltre settemila i rettili e le pelli di rettili sequestrati nel 2018. Più di mille sequestri tra cavallucci marini, scaglie di pangolini (vi ricorda qualcosa?), ossa di tigre e bile d’orso che senza alcun fondamento scientifico in alcune zone del mondo continuano ad essere considerati rimedi medicali. Ci sono anche coralli (oltre una tonnellata), uccelli vivi (più di mille esemplari, in particolare pappagalli), avorio (quasi 3.000 campioni per 145 kg di peso, tutti in Gran Bretagna) e poi quasi 2.000 tra trofei e pelli di lupi, tigri e orsi. "In tutto il mondo, il commercio illegale di animali selvatici è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni perché è considerato un’attività a basso rischio e alto rendimento", spiega Legambiente nel Rapporto Ecomafia 2020. Nel 2017, con l’approvazione del "Piano d’azione dell’Unione europea contro il traffico illegale di specie selvatiche", il commercio illegale di animali selvatici è stato riconosciuto in Europa come una priorità nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata transnazionale. Un traffico che, pensiamo ad esempio all’avorio, "fornendo finanziamenti a milizie e gruppi terroristici nei paesi in via di sviluppo - spiega ancora l’associazione - minaccia la sicurezza internazionale e alimenta i conflitti".

IL RAPPORTO.

I NUMERI DEL TRAFFICO ILLEGALE. E in Italia? "In Italia ancora oggi chi lucra sulla pelle degli animali selvatici rischia al massimo un’ammenda di poche migliaia di euro, mentre chi lo fa sulla pelle degli animali domestici rischia al massimo un anno e mezzo" denuncia Legambiente. Che parla di un "fragilissimo contesto normativo e culturale", e di forze dell’ordine "con armi spuntate e inefficaci per fermare le diffuse illegalità". Quanto diffuse ce lo dicono i numeri: settemila persone denunciate nel 2019, 2.629 sequestri, 22 reati contro la fauna verbalizzati ogni giorno, 8.088 in tutto (erano 2.200 circa nel 2007). Napoli (696 reati), Roma (429 reati) e Genova (394 reati) le province più interessate. Un reato ambientale su quattro colpisce la fauna, e presuppone (dalla cattura al commercio alla vendita) una filiera criminale organizzata, sia essa di tipo mafioso o meno. Tra cattura e vendita di animali selvatici vivi e morti, pesca di frodo, traffici di cuccioli di cane, mercato illegale di animali cosiddetti da macello e scommesse su corse o combattimenti le stime valutano un volume d’affari di qualche miliardo di euro all’anno. Ma una volta sequestrati, che fine fanno gli animali? "Vengono portati in uno dei nostri Centri recupero fauna selvatica ed esotica (Crase)", spiega il colonnello Raffaele Manicone, comandante del Raggruppamento Carabinieri biodiversità. I sequestri, prosegue, "avvengono essenzialmente per due motivazioni: maltrattamenti e violazione della Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (Cites)". I centri gestiti dal Raggruppamento Carabinieri per la biodiversità sono dieci – Assisi, Caserta, Castel di Sangro (Aq), Foresta Umbra (Fg), Fogliano (Lt), Isernia, Lucca, Martina Franca (Ta), Pescara e Punta Marina (Ra) – e "oggi accolgono circa 2.000 esemplari tra specie autoctone ed esotiche". I diversi centri hanno diverse "specializzazioni": a Castel Volturno ci sono quasi 120 uccelli esotici, soprattutto pappagalli, tra i quali alcuni rarissimi; Magliano de’ Marsi è all’avanguardia per la cura dei grifoni; ad Assisi ci sono 400 tra cervi, daini, cinghiali e rapaci; a Punta Marina (RA) 500 testuggini, Pescara è invece specializzata nel recupero della Lontra. Nei centri "non ci sono solo animali confiscati – aggiunge ancora il colonnello – ma anche, il 60%, animali della fauna autoctona in difficoltà rinvenuti da privati cittadini, associazioni o dai Carabinieri dell’Arma durante il servizio: esemplari feriti, vittime di incidenti o di bracconaggio. Li recuperiamo, li curiamo, e quando riteniamo possibile la loro liberazione in natura, con l’ausilio dei medici veterinari che ci assistono, li lasciamo liberi". Non sempre, purtroppo, gli animali possono tornare liberi: "A volte sono in condizioni così gravi che non possono più riprendere la vita selvatica. Allora li tratteniamo nei centri: con progetti per la conservazione del genoma e programmi di riproduzione". Quando l’animale maltrattato o oggetto di traffico è ad esempio un grosso carnivoro, un animale esotico, che quindi in Italia sarebbe decisamente lontano dal suo habitat "cerchiamo di trovare ospitalità in centri specializzati come i giardini zoologici: qualche tempo fa abbiamo sequestrato una tigre bianca poi affidata al bioparco di Roma". I 10 centri gestiti dai Carabinieri biodiversità sono visitabili: “Uno dei compiti del Raggruppamento è l’educazione ambientale – ci tiene a sottolineare Manicone – e per questo usiamo i centri di recupero: sia per far conoscere la fauna italiana che per mostrare il dramma del maltrattamento, del commercio illegale e del bracconaggio: vedere pappagalli in gabbia, anche se in voliere molto ampie, e sapere che dovrebbero invece essere liberi in natura, porta ad una importante presa di coscienza da parte dei ragazzi”. La repressione infatti, le multe e i sequestri, non saranno mai sufficienti finché c’è qualcuno che in casa vuole esibire un animale raro o al ristorante ordina piatti a base di specie protette, alimentando così i mercati illegali. È necessario un cambiamento culturale, e la formazione – insieme all’esperienza di pappagalli iridescenti che non potranno mai più volare liberi – può avere un ruolo importantissimo. E mentre l’ultima Legge di Bilancio ha istituito, partendo dalla rete Crase, il Centro nazionale di accoglienza degli animali confiscati, anche la repressione deve disporre di strumenti adeguati: per questo Legambiente chiede di approvare specifici delitti contro la fauna e, per dare solidità giuridica ai nuovi delitti, di inserire il benessere animale nella Costituzione.

Australia, trovata una pecora selvatica con 35 kg di vello: viveva in libertà da cinque anni. La Repubblica il 25 febbraio 2021.

Aveva addosso una quantità di lana pari a quella che cresce in circa cinque anni. È la storia di una pecora selvatica, soprannominata Baarack, che è stata ritrovata in una foresta australiana a circa 60 chilometri da Merlbourne. "Era denutrita e riusciva a malapena a vedere per la troppa lana sul corpo", hanno spiegato i soccorritori che hanno poi l'hanno consegnata all'Edgar's Mission Farm Sanctuary per la tosatura. Dalle prime ricostruzioni sembra che l'animale in passato fosse appartenuto a qualcuno, cosa visibile da un segno sull'orecchio, ma che negli ultimi anni sia vissuto in stato di libertà.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021. «We Are the Champions» è la canzone che Brian May, chitarrista dei Queen, ha concesso alla «Fondation 30 Millions d' Amis» per un efficace video di denuncia sull' abbandono degli animali. Un francese su due possiede un animale (12 milioni di gatti, 7 milioni di cani, un milione di cavalli, più criceti, porcellini d' India, etc.) ma i francesi sono campioni d' Europa anche nell' abbandono: 100 mila l' anno. Per combattere questa pratica e più in generale avanzare nella difesa negli animali La République en Marche, il partito di maggioranza, ha presentato ieri un progetto di legge contro i maltrattamenti. È una questione che si è imposta ormai al centro del dibattito pubblico, tanto da venire discussa in Parlamento anche nei giorni delicati in cui il governo deve decidere se dichiarare un terzo confinamento per frenare la pandemia in crescita. «Il maltrattamento degli animali interessa tutti i francesi, non solo gli abitanti ricchi delle città», ha detto la relatrice Aurore Bergé, una delle esponenti più note del partito di Macron. I risultati delle ultime elezioni, le municipali del giugno scorso, sembrano darle ragione: l'«ondata verde», l' affermazione degli ecologisti, è stata anche frutto dell' attenzione per il benessere degli animali, parte di quella rinnovata sensibilità per l' ambiente che l' epidemia di coronavirus ha amplificato. In vista della corsa all' Eliseo della primavera prossima il presidente Macron vuole presentarsi con i compiti fatti e quindi spinge per una nuova legge, dopo la storica modifica del Codice civile che dal 2015 considera gli animali come «esseri viventi dotati di sensibilità» e non più beni mobili. Quindi, ecco la proposta di un «certificato di conoscenza» da chiedere a chiunque voglia acquistare per la prima volta un animale di compagnia, in modo da ridurre le scelte impulsive e le successive sofferenze degli animali, e la richiesta di pene più severe per chi commette sevizie. Oltre agli animali da compagnia la proposta di legge presentata da Aurore Bergé si occupa dei circhi, con il divieto di usare animali, e dei parchi aquatici, che dovranno rinunciare a delfini e orche. In anticipo sull' approvazione della legge, il Parc Asterix ha deciso di chiudere il suo delfinario, da anni oggetto di proteste degli animalisti. Il testo fa discutere per quello che propone ma anche per i temi che volutamente ignora: la caccia e gli allevamenti intensivi. Trovare consenso sui gattini da non abbandonare è relativamente facile, mentre affrontare la questione delle immense fattorie-fabbrica avrebbe rischiato di contrapporre di nuovo le città e il mondo rurale, come all' inizio della crisi dei gilet gialli. Anche sulla corrida non si prende posizione: gli elefanti spariranno dai circhi , ma i tori continueranno a essere uccisi nelle arene. «La Francia è in ritardo e questa legge è un progresso benvenuto - dice Christophe Marie, portavoce della Fondation Brigitte Bardot -. Poi bisognerà trovare il coraggio di affrontare anche le questioni che dividono di più».

TRASPORTATI IN NAVE IN CONDIZIONI BRUTALI: STRAGE DI TREMILA BOVINI NEL MEDITERRANEO. Un’odissea di tre mesi a bordo di due cargo L’europarlamentare Eleonora Evi: «Urgenti nuove regole Ue sui trasporti di animali vivi». Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 7 marzo 2021. Una, la prima vittima, l’avevano chiamata “Carolina”. Le altre, più di un migliaio, avevano attaccato al collo un numero e un codice. Tutte sono finite in fondo al mare, nel mare Mediterraneo, un vero e proprio cimitero invisibile che da anni “accoglie” migliaia e migliaia di migranti di cui nessuno saprà mai chi erano e da dove erano partiti. Di loro, dei migranti affondati e annegati, purtroppo se n’è parlato e scritto tanto, ma di Carolina e delle altre sue compagne di sventura se ne è parlato poco, molto poco. Il motivo: Carolina e le altre vittime che sono state gettate in fondo al mare o morte a bordo delle navi dove si trovavano per essere trasferite dalla Spagna in altri porti del Mediterraneo, sono, anzi erano, animali, mucche, alcune incinte, vitellini appena nati, molti morti durante la navigazione.

L’ODISSEA. Insomma una vera e propria strage di mucche e vitelli le cui carcasse ormai riposano, per modo di dire, in fondo al mare e che hanno sfamato migliaia e migliaia di pesci che, come è noto, non disdegnano la carne, non solo quella umana ma anche quella degli animali, in questo caso quella di Carolina e delle sue compagne. Quella che stiamo per raccontarvi non è una favola, ma realtà, fatti veri anche se sgradevoli e poco noti. Tutto è cominciato nel dicembre scorso quando due navi cargo che trasportano svariata merce, erano partite dalla Spagna. A bordo avevano quasi 3.000 “passeggeri” particolari: mucche e vitellini acquistati in Spagna da aziende turche e libiche che macellano e vendono carne non soltanto nei loro Paesi ma anche in altri. Per mesi queste due navi, con il loro carico di mucche e vitellini, hanno vagato, e una continua ancora a vagare, in mezzo al mare Mediterraneo perché si sono viste negare l’accesso nei porti turchi e libici, quelli di destinazione, le cui autorità hanno negato l’attracco per la sospetta malattia del bestiame che avrebbe compromesso la vendita della carne qualora mucche e vitelli fossero stati stati macellati.

L’ATTRACCO. Una delle due navi, la Karim Hallah , di proprietà di una società libanese, dopo avere vagato per oltre 2 mesi in mezzo al mare, una settimana fa è riuscita, dopo aver fatto avanti e indietro da un porto all’altro, ad attraccare nel porto di Cartagine, in Spagna, da dove era partita. Una volta attraccata in porto, le autorità spagnole hanno ordinato la macellazione di oltre 850 bovini potenzialmente malati che erano rimasti bloccati per due mesi sulla nave adibita al trasporto di bestiame. Le mucche non sono più idonee per essere trasportate sulla Karim Allah, come ha riferito il ministero dell’agricoltura di Madrid. La nave ha attraccato a Cartagena il 25 febbraio perché non era riuscita a trovare un acquirente per il carico. Era stata avvistata durante il viaggio di ritorno verso la base, anche al largo della Sardegna.  Diversi Paesi, infatti, hanno rifiutato gli animali per paura del virus che circola tra gli animali, una malattia trasmessa dagli insetti che causa zoppia ed emorragie.

LA DENUNCIA. Una delle due era stata avvistata nei giorni scorsi al largo di Augusta, in Sicilia, e poi a Cagliari, in Sardegna. È quanto ha denunciato, nell’incontro online con la commissione Petizioni del Parlamento europeo, l’avvocato Manuela Giacomini per conto della Fondazione per il benessere degli animali. Su richiesta urgente di Giacomini, il governo italiano ha tentato un’ispezione ma la nave era ripartita prima di poterla effettuare. «Negli ultimi due mesi abbiamo assistito all’ennesima violazione sistematica  del regolamento europeo, con conseguenze veramente molto gravi per gli animali trasportati» ha detto Giacomini. Anche Eleonora Evi, eurodeputata dei Verdi, è intervenuta definendo l’episodio uno dei «casi più emblematici» che «rappresentano la norma anziché l’eccezione». «Da oltre due mesi questi animali sono stati  costretti  in spazi angusti e a viaggiare in  condizioni  che non rispettano neanche lontanamente gli standard minimi previsti per il trasporto degli animali” spiega Evi, che ha firmato una  lettera  indirizzata alla  commissaria allaSalute  e alla sicurezza alimentare  Stella  Kyriakides, affinché vengano presi immediati provvedimenti e si chiarisca anche la posizione delle autorità spagnole, legalmente responsabili della salute degli animali fino alla destinazione finale. Secondo l’europarlamentare dei  Verdi  è necessario riformare al più presto il  regolamento Ue  che disciplina il trasporto di animali vivi «abbandonando – sostiene – nel più breve tempo possibile il sistema attuale, che costringe ogni anno milioni di animali a  viaggi interminabili  in condizioni disumane, favorendo invece una transizione verso il trasporto di carne e  carcasse. Nel fare questo dobbiamo ridurre drasticamente le ore massime consentite per il trasporto di  animali  vivi  che devono essere ridotte a 4 ore per conigli e polli, 8 per  bovini  e ovini, con un divieto totale per il trasporto di  animali  non svezzati  e per l’export al di fuori della Ue, dove registriamo le violazioni più gravi». La petizione della Fondazione, che resta aperta, fa parte di una serie di reclami da parte di vari gruppi animalisti presentati al Parlamento europeo, affinché venga istituita una commissione di inchiesta e sia meglio regolamentato il trasporto di animali vivi per tutelare il oro benessere.

LA SECONDA NAVE. E se la “Karim Allah” alla fine ha quasi concluso la sua odissea, continua ancora quella dell’altra nave, la “Elbeik” che era partita dal porto spagnolo di Tarragona con 1.776 vitelli e che il 10 gennaio scorso era arrivata a Tripoli, in Libia, dove però era stata bloccata con il suo carico di vitelli. Per settimane è rimasta in acque libiche, poi il 25 gennaio scorso ha lasciato Tripoli e dopo essere stata avvistata al largo di  Lampedusa era arrivata in  Egitto  il 1° febbraio, rimanendo al largo di Alessandria  fino al 10 febbraio. Poi più nulla, nessuna informazione, fino a qualche giorno fa. La nave si trovava davanti a  Cipro, senza più sufficiente cibo per gli animali. Ancora molti i dubbi su cosa sia accaduto a bordo delle navi.

Sperimentazioni sui macachi, il Consiglio di stato dà ragione ai ricercatori. Bocciato il ricorso della Lav. Jacopo Ricca su La Repubblica il 28 gennaio 2021. Il Consiglio di stato ha respinto il ricorso della Lav, che contesta gli esperimenti sui macachi. L'accademico torinese Tamietto: "Ha vinto la scienza, finalmente si torna in laboratorio". Gli animalisti: "Con la lotta abbiamo svelato ciò che accade in quei laboratori. Andremo avanti". Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso della Lav contro la sperimentazione scientifica sui macachi portata avanti dall'Università di Torino e di Parma. Il progetto di ricerca Light-Up dei professori Marco Tamietto e Luca Bonini, vincitore di un Consolidator Grant dell'European Research Council (Erc), era stato stoppato a ottobre 2020 dai giudici amministrativi, ma questa sera è arrivata la sentenza che dà il via libero definitivo alla ricerca. “Già nei prossimi giorni possiamo tornare in laboratorio” dice soddisfatto Tamietto, finito più volte nel mirino degli animalisti. L'ultimo sviluppo della decennale ricerca sui pazienti resi ciechi dalle lesioni alla corteccia cerebrale richiede una sperimentazione anche sui macachi e ha fatto infuriare gli animalisti che dopo le proteste e le manifestazioni si sono rivolti ai giudici per chiedere di bloccarla: “Abbiamo combattuto una battaglia per oltre due anni, contro i giganti favorevoli alla sperimentazione animale. Una lotta con cui abbiamo svelato ciò che accadeva in quei laboratori, per questo studio autorizzato all’Università di Torino, finanziato con fondi europei – commenta il presidente Lav, Gianluca Felicetti - In questa lunga campagna d’informazione e denuncia numerosi esperti scientifici e legali hanno sostenuto la richiesta Lav di fermare la sperimentazione e liberare gli animali”. Sul Consiglio di Stato da giorni soffiava la bufera per le prese di posizione del giudice, ed ex ministro, Franco Frattini che su Twitter in passato si era scagliato contro il progetto di ricerca. Per Tamietto invece la sentenza che dà il via libera alla sperimentazione “è una vittoria della scienza”. Il professore ordinario di Psicobiologia all’Università di Torino insiste: “Dall'inizio di questa vicenda abbiamo perso 20 mesi di ricerca. Non è che dopo questa sentenza siamo pari e patta. C'è un danno pubblico al valore della ricerca, alle vite delle persone e per la cura dei pazienti. Al di là di questo caso bisogna fare un ragionamento su quale spazio si deve dare alle associazioni che si sono opposte”. In una nota le Università di Torino e Parma sottolineano "con preoccupazione e rammarico il considerevole ritardo accumulato (ben 20 mesi) nelle attività progettuali, nonché le false accuse che sono state rivolte contro dottorandi, ricercatori, personale e istituzioni pubbliche a causa della campagna denigratoria che, per alcuni tratti, ha travalicato i limiti del confronto sereno e del reciproco e doveroso rispetto su questioni tecnicamente complesse e con indubbi, delicati, risvolti etici, sfociando anche in minacce, aggressioni e deturpazioni perpetrate su suolo ed edifici pubblici delle città e degli Atenei coinvolti. Episodi alimentati da notizie che le sentenze di merito di Tar e Consiglio di Stato hanno definitivamente sancito come infondate". I due atenei concludono augurandosi che la vicenda sia "un monito in merito alle necessarie tutele istituzionali che devono essere garantite alla libertà di ricerca entro il rigoroso rispetto dei principi etici".

Colombia, ucciso il guardiano dei pappagalli. Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica il 16 gennaio 2021. È il primo attivista ambientale assassinato nel 2021. Lo scorso anno le vittime  furono 64, il numero più alto al mondo. Si chiamava Gonzalo Cardona, aveva 40 anni e per tutti era il guardiano dei pappagalli. Pappagalli rari, quelli dalle orecchie gialle, gli orejiamarillos. Una specie che rischia l'estinzione anche sulla cordigliera centrale della Colombia dopo essere completamente sparita sul lato opposto, in Ecuador. Gonzalo era una guida speciale anche per gli esperti del ministero dell'Ambiente e le frotte di ornitologi che giungevano nel paesino di Roncesvalles per ammirare il miracolo compiuto da questo attivista ambientale. Lo hanno ucciso con due colpi al petto. Il suo corpo è stato ritrovato dalla moglie che lo cercava da giorni. Qualcuno che sapeva cosa era accaduto, le ha telefonato: "Non cercarlo più, è sotterrato dietro un fosso". È il primo attivista ambientale assassinato in Colombia nel 2021. Fa parte di quel vero cimitero di paladini della natura che punteggia il Paese andino: l'ultimo rapporto dell'ong britannica Global Witness parla di 64 vittime l'anno scorso. Il numero più alto al mondo. "Aveva un'intelligenza naturale", ricorda adesso parlando con il settimanale colombiano Semana Alex Cortes, direttore della Fondazione ProAves, con la quale Cardona collaborava da alcuni anni. Conosceva ogni singolo volatile. Preoccupato di vederne sempre meno in giro, nel 1998 decise di contarli per tenere sotto controllo una decimazione che ne metteva a rischio la sopravvivenza. "Sono 81", appuntò sul suo libretto. L'ultimo conteggio lo fece nel dicembre scorso: 2.895, aveva scritto. Il guardiano era riuscito a proteggere e far riprodurre i pappagalli dalle orecchie gialle. Non era un numero a caso. Gonzalo Cardona riusciva a distinguerli e a contarli. Sapeva dove andavano, quando e come emigravano, quando tornavano. Lo conferma Cortes, affranto da un omicidio che resterà impunito. Come tanti. "Mi ricordo", aggiunge il direttore di ProAves, "che una volta aveva scritto che 25 pappagalli si erano diretti a occidente. Venne fermato dall'esercito che pattugliava la zona. Lo accusò di essere un infiltrato della guerriglia. Gli chiedevano cosa fosse quel numero. Erano convinti che indicasse i dissidenti delle Farc o di qualche altro gruppo armato. Non credevano che in un territorio al centro del conflitto pieno di violenze potesse esserci qualcuno che si occupasse di ambiente". Alla fine venne rilasciato. Ma la sua attività dava fastidio.  "In questo Paese", riflette Cortes, "tutti siamo considerati dei potenziali nemici. L'anno scorso sono stati uccisi 300 leader contadini, 60 ex guerriglieri che avevano firmato la pace, 64 ambientalisti". Gonzalo Cardona è stato colpito mentre tornava a casa con la sua moto. Ha seguito un sentiero nella foresta che conosceva e aveva percorso tante volte. Un agguato, due colpi al petto. Era scomparso l'8 gennaio, lo hanno ritrovato cinque giorni dopo.

·        Capodanno letale per gli animali.

Da romatoday.it il 2 gennaio 2021. Sta facendo il giro del mondo la notizia degli uccelli morti a Roma per i botti di Capodanno. Dopo le foto e i video apparsi nella notte in rete e le notizie diffuse in mattinata, in tanti hanno gridato a lungo alla bufala, narrando di una foto legata ad un altro accadimento. Come abbiamo spiegato nel nostro primo articolo, le immagini degli uccelli morti, diffuse da più utenti oggi, avevano sicuramente una collocazione diversa rispetto ai fatti del febbraio 2020, quando su viale del Policlinico la caduta di un albero provocò la morte di diversi uccelli. Nel caso odierno i fatti sono riferibili alla zona della stazione Termini. Nel corso della mattinata, altri uccelli sono stati ritrovati privi di vita nel cuore della Capitale, come dimostrano le foto scattate dal fotografo dell'agenzia Ansa. Sin da subito abbiamo avanzato l'ipotesi di storni impauriti e disorientati, morti o a seguito dell'impatto contro le finestre, contro i cavi dell'alta tensione oppure dopo essersi scontrati tra loro o a seguito di infarti provocati dallo spavento per i botti.

La spiegazione della Lipu. A spiegare cosa è successo arriva ora anche la Lipu che conferma, una volta di più, la veridicità della notizia. "Purtroppo si, è successo stanotte a Roma nei pressi della Stazione Termini". Uccelli morti sono stati ritrovati anche in via Nazionale, piazza Esedra e via dei Fori Imperiali. "Nella zona di Roma Termini", spiega Lipu, "c'è un grosso dormitorio. Gli storni sono animali sociali e la notte formano dei dormitori sulle alberature che possono arrivare a contare molte migliaia di individui. Ieri notte l'esplosione dei botti ha spaventato gli animali che si sono alzati in volo contemporaneamente, in maniera disordinata e al buio e molti individui hanno sbattuto tra di loro e contro i fili sospesi e le barriere architettoniche tipiche del centro città. Questo ha causato la morte di un centinaio di individui e il ferimento di altri". All'obiezione "i botti ci sono sempre stati perchè è successo solo quest'anno?", Lipu replica: "Gli storni negli ultimi anni hanno diminuito la loro presenza in centro a Roma, forse anche come conseguenza degli interventi di dissuasione operati ormai da quasi venti anni. Negli ultimi due anni, al 31 dicembre, non c'era nessun dormitorio presente o comunque non così numeroso. Quest'anno invece gli storni sono tornati al centro di Roma e non essendo stato fatto nessun intervento di dissuasione sono rimasti sul posto fino ad oggi in grandissimi numeri. E' per questo motivo che è successo quest'anno. Episodi simili si sono registrati comunque anche negli anni passati soprattutto tra il 2003 e il 2010 quando la presenza di questi animali a Roma era davvero importante". Già in passato la Lipu aveva denunciato: "Riguardo gli animali selvatici, in particolar modo per l’avifauna che spesso non viene considerata, lo scoppio dei fuochi artificiali in piena notte provoca danni inimmaginabili; nell’avifauna selvatica un botto causa uno spavento tale che può provocare la morte per infarto o li induce a fuggire dai dormitori costituiti da alberi e siepi (da qui l’importanza del verde urbano e di non capitozzare drasticamente le chiome degli alberi), e a volare al buio alla cieca anche per chilometri, andando a morire addosso a qualche muro o cavo elettrico; quelli che riescono ad atterrare o a posarsi su un manufatto, spesso muoiono investiti dalle automobili o assiderati a causa delle rigide temperature invernali ed alla mancanza di un riparo. Gli uccelli recuperati ancora vivi che vengono di solito portati ai Centri di recupero fauna selvatica , incrementano i costi per le cure e gli orari di lavoro ai danni dei volontari, cosa che può benissimo essere evitata con il divieto dell’uso di tali fuochi".

·        Comandano loro.

Marinella Meroni per “Libero quotidiano” l'1 novembre 2021. I polpi sono così intelligenti da essere considerati dagli studiosi gli animali più ingegnosi del mare: sanno usare la memoria come l'uomo, hanno il senso dell'umorismo, riescono a svitare coperchi di barattoli (anche quelli con chiusure di sicurezza), sono curiosi e simpatici tanto da giocare con i sub e perfino farsi accarezzare. Ora i ricercatori hanno fatto una nuova rivoluzionaria scoperta: le femmine dei polpi "sparano" oggetti contro i maschi quando si sentono molestate. In pratica, si difendono dalle molestie insistenti dei corteggiatori lanciando intenzionalmente contro di loro degli oggetti, come conchiglie e fango. E la loro tattica è vincente, poiché i maschi poi si allontano frustrati. Una strategia difensiva nei confronti dei "molestatori" piuttosto rara nel regno animale, individuata finora solo in pochissime specie animali, come scimpanzè ed elefanti. A confermarlo i ricercatori australiani dell'Università di Sidney con lo studio "In the line of fire: debris throwing by wild octopuses" (Sulla linea di fuoco: detriti lanciati da polpi selvatici), pubblicato su New Scientist. Sono arrivati a queste conclusioni dopo aver visionato centinaia di video registrazioni che hanno fornito informazioni dettagliate. In pratica, si è visto che le femmine di polpo quando sono importunate con eccessivi e non graditi corteggiamenti, raccolgono con i loro otto tentacoli dal fondale marino fango, conchiglie o altri sedimenti per poi prendere bene la mira inclinando il corpo e lanciare gli oggetti con un agile movimento contro i maschi. Un comportamento che gli scienziati chiamano "lancio" e con il quale questi intelligenti cefalopodi di solito posizionano un oggetto nei loro tentacoli e lo "sparano" con un getto d'acqua.

POTENZA E PRECISIONE In proposito, dichiara Godfrey-Smith dell'Università di Sidney: «Sono le femmine a lanciare oggetti spesso ai maschi che tentano l'accoppiamento. Abbiamo osservato che quando una polpa lancia per colpire tende a farlo con più potenza e precisione prendendo la mira, e il maschio in nessun caso ha mai risposto al fuoco. Ad esempio, in un video si vede una femmina lanciare fango dieci volte al maschio che tentava di accoppiarsi con lei, colpendolo per ben cinque volte, e il maschio ha cercato di schivare il fango, tentando anche di anticipare le mosse della femmina, il che conduce a pensare che si trattasse di una qualche forma di combattimento. Al maschio rifiutato, poi, non è rimasto che lanciare una conchiglia nel vuoto, in quello che è sembrato un altrettanto evoluto segnale di frustrazione. In un altro video, invece, una femmina ha lanciato una conchiglia in "stile frisbee" con i tentacoli. Oggi è chiaro che il lancio di oggetti da parte dei polpi non soltanto è intenzionale, ma è anche chiaramente offensivo». I ricercatori hanno anche osservato e svelato il comportamento particolarmente curioso e la reazione dei maschi che cercavano di evitare di essere colpiti, schivando i vari lanci: alcuni si abbassavano poco prima che partisse il tiro, altri subito dopo il lancio, e in altri ancora li hanno visti alzare i tentacoli in direzione del lanciatore senza abbassarsi, proprio come fa un portiere di calcio quando si prepara a pare un tiro. Ma non è tutto: in alcuni casi questi comportamenti delle femmine si sono riscontrate anche quando devono difendere la loro tana o territorio da altri polpi intrusi. Una femmina "tosta", dunque, che sa tutelarsi da avances non gradite e proteggere il suo territorio, quasi avvertendo gli incauti: "Stai alla larga e non avvicinarti senza il mio permesso perché potresti prenderle di santa ragione".

Mucche, squali e gatti svelano la nostra storia. Eleonora Barbieri il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Senza gli animali la scienza, l'economia, le guerre e le religioni non sarebbero le stesse. Innanzitutto non è vero che le vespe siano inutili, come si sente spesso dire (le cimici sì, invece, sono inutili). Dalle vespe, infatti, si sono evolute le api: succedeva in Asia 130 milioni di anni fa e, oggi, sono le api a impollinare più di un quarto del cibo che produciamo. E questo piccolo esempio spiega: primo, perché si sentano tanti servizi allarmistici sulla scomparsa delle api; secondo, quanto sia stretto il nostro rapporto con gli animali, laddove per nostro si intende di noi esseri umani. Lo dimostrano la storia naturale - nonostante alcuni siano ancora resistenti alla teoria darwiniana, come ai vaccini e al paracetamolo, abbiamo un antenato comune con le scimmie, condividiamo il 70 per cento dei geni con il pesce zebra e senza certi batteri in fondo al mare non staremmo neanche qui a parlarne, di noi esseri umani - e la nostra storia, fatta di commerci, religioni, simboli, scoperte, guerre, scienza, potere. E lo racconta, anche attraverso bellissime immagini di dipinti, stampe e statue, Jacob F. Field, storico dell'Università di Cambridge, nella sua Storia illustrata del mondo in 50 animali (ilSaggiatore, pagg. 308, euro 32). Ecco alcuni esempi.

FEDELISSIMI

Il cane, innanzitutto. Vive con noi da 15mila o forse addirittura 40 mila anni: è solo dopo che questi animali, varianti del lupo grigio selvatico, sono stati addomesticati, che siamo diventati coltivatori e allevatori. I primi quattrozampe di casa? In Cina intorno al 15300 a.C., ma nella grotta di Goyet in Belgio è stato ritrovato un teschio risalente a 36500 anni fa. E il cavallo: migrato dall'America (da cui poi scomparve, per essere reintrodotto dai coloni spagnoli) due milioni di anni fa, arrivato in Asia e in Europa, è stato il protagonista della rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni. Oltre che un formidabile compagno in centinaia di conflitti (da Alessandro Magno ai mongoli...): ancora nella Seconda guerra mondiale furono impiegati oltre 7 milioni di cavalli. Quello che per noi è stato il cavallo, in Sud America è stato il lama: docile, socievole, faticatore e camminatore, per gli Inca era così importante che, ogni anno, ne facevano il censimento. Infine, l'elefante: simbolo di forza, saggezza e autorità, addestrato dal mahut, è stato per secoli l'arma segreta di molti sovrani indiani durante le guerre.

SOPRAVVISSUTI

Gli squali sono più antichi dei dinosauri e, dopo 420 milioni di anni, nonostante meteoriti e disastri, sono ancora lo spauracchio dei mari. Il più spaventoso è stato il megalodonte, 25 metri di superpredatore. Oggi lo squalo della Groenlandia è il più longevo fra i vertebrati, con un'età monstre: da 300 a 500 anni.

MESSAGGERI

Non solo si è dovuta inventare la scrittura, è toccato anche trovare un supporto su cui scrivere e, nel XIII secolo a.C., i caratteri cinesi venivano trascritti su carapaci di tartaruga. Come sempre, lente, solide e affidabili. Balzando avanti di qualche secolo, ecco i piccioni viaggiatori: resistenti e veloci, sono stati dei veri eroi durante assedi (come quello della Comune di Parigi) e guerre, tanto da ricevere medaglie, come Cher Ami, uno dei 6mila esemplari arruolati dall'esercito americano nella Prima guerra mondiale.

IL SACRO

Fanno compagnia agli uomini da 9500 anni, ma sono stati gli egizi a «scoprire» e venerare i gatti come divinità: venivano mummificati accanto al padrone, far loro del male era tabù e chi li uccideva faceva la stessa fine. Sono arrivati in Europa grazie ai fenici e, sempre a bordo delle navi, nei secoli hanno viaggiato ovunque, seminando spesso il panico nella fauna locale: hanno causato l'estinzione di almeno 33 specie. Adorati anche in Giappone e in Thailandia, dove la famiglia reale allevava i siamesi. L'orso bruno è invece il totem in Finlandia e nelle lande russe: per gli evenchi della Siberia un orso era il creatore del mondo e in molti riti ne viene allevato un cucciolo fra gli umani. E il lupo, o meglio, la lupa: non solo il terribile mannaro ma, soprattutto, l'animale al cuore dei miti fondatori di Roma, dell'impero mongolo e di quello ottomano.

IL POTERE

L'aquila vola più in alto di tutti: prestigio, forza, potere. Accompagna le divinità, da Giove a Vishnu, fa da leggio alla parola di Dio in molte chiese, è venerata dai nativi americani. Da Roma in poi, è il simbolo del potere imperiale: per Carlo Magno, per la Prussia, per Bisanzio che la sceglie bicefala, per la Russia e gli Asburgo, per il Saladino, per gli antichi mexica che fondarono Tenochtitlán dove un'aquila dorata sbranò un serpente, per gli Stati Uniti, l'Egitto e numerose nazioni arabe. E poi il leone, la cui potenza regale è già dipinta sulle pareti delle grotte di Chauvet ed è passata dal regno babilonese all'Inghilterra di Riccardo, dalle tribù di Israele fino a ruggire in Finlandia, Repubblica Ceca, Sri Lanka.

KILLER

La zanzara è la più grande assassina di uomini della storia. Dopo l'uomo stesso, ovviamente. Ancora nel 2018, la malaria ha infettato 228 milioni di persone e ne ha uccise 405mila. La tallona, adagio ma non troppo, una lumachina d'acqua dolce che, se infetta, rilascia dei vermi piatti che causano la schistosomiasi: ne muoiono circa 200mila persone ogni anno. Infine, la pulce: 2,5 millimetri capaci di diffondere le più disastrose epidemie di peste della storia...

TERAPEUTICI

Le sanguisughe, tanto di moda nell'Ottocento (anche se utilizzate già dagli antichi greci), sono tornate in voga negli ultimi anni, grazie alla saliva che aiuta la guarigione di zone sottoposte a chirurgia plastica o ricostruttiva, e alle proprietà anticoagulanti naturali. Le rane sono pericolose - nelle foreste tropicali, alcune venivano usate per avvelenare la punta delle frecce, e la rana dorata della Colombia è così tossica che può uccidere dieci uomini adulti - ma nella loro pelle si nascondono anche proprietà antibiotiche naturali da sfruttare nella ricerca sui farmaci. E poi la mucca: non solo è da diecimila anni uno degli animali più preziosi per l'uomo, simbolo di benessere e venerata dagli induisti, ma è dal vaiolo bovino che Jenner creò il primo «vaccino».

DI LUSSO

Fu Xi Ling Shi, moglie dell'Imperatore giallo, ad avviare l'allevamento dei bachi da seta e a insegnare alle donne a lavorare questo tessuto meraviglioso, che darà il nome alla Via commerciale per eccellenza per molti secoli. Il segreto cinese fu rubato da due monaci, che portarono dei bachi a Costantinopoli, nel VI secolo d.C.. A Roma però gli animaletti più ricercati erano i murici, dei gasteropodi marini da cui i fenici iniziarono a ricavare una tinta rossa, la porpora di Tiro, che divenne il colore del prestigio e del potere. E lo è ancora oggi. Eleonora Barbieri

Miriam Romano per “Libero Quotidiano” il 22 marzo 2021. Le orecchie sventolano lente e pesanti. La proboscide si arriccia e spruzza l'acqua che sgorga come da un'antica fontana. L'età non la scalfisce. Il peso degli anni è il vessillo del suo comando, indiscusso e ponderato. L'elefante femmina più anziana è la matriarca: la regina del branco, guida eletta per dirimere le controversie, assennata avventuriera della savana. I maschi non ci provano nemmeno a soffiarle lo scettro. Il sesso dominante è quello femminile. Ogni pronuncia della matriarca, che con zampe possenti marcia lungo la terra e segna il tragitto per tutti, è perentoria. Nessuna gara di forza. Nessuno che provi a mostrare i muscoli. Ci si affida al più saggio, come suggerisce l'istinto, infallibile timone degli animali. E la saggezza è femmina. In alto, elefanti e scimmie bonobo: specie animali in cui il dominio della femmina è indiscusso. Anche nei branchi di lupi le "donne" dominano, foto sotto Il predominio femminile non vale soltanto per gli elefanti. È una costante nel mondo animale che seleziona gli esemplari di quello che noi definiamo "gentil sesso" per affidargli le redini del branco. «Le femmine sono più vigorose, più in salute, vivono più a lungo dei maschi, in virtù dell'apparato riproduttore che le rende possenti», spiega l'etologo Roberto Marchesini. «Nel mondo animale essere la fonte riproduttiva del branco ha una valenza molto significativa: il potere di far andare avanti la specie si traduce automaticamente nel potere di prendere qualsiasi tipo di decisione sociale», spiega ancora l'esperto. Agli animali, in altre parole, non servono quote rosa. Semmai quote azzurre, come dimostrano diversi casi di sottomissione maschile. «Il fatto in sé di generare figli conferisce alle femmine il comando. Come non seguire le decisioni di chi detiene un potere così grande?». La natura sovverte le logiche umane. Per le donne mettere al mondo un figlio spesso significa abbandonare il lavoro o ridurlo o non tentare nemmeno la scalata verso ruoli apicali. Fare figli relega, ancora oggi, le donne a una dimensione domestica, unico cantuccio in cui possono esercitare il potere. Tutto il contrario di quello che accade tra quattro zampe, insetti e pesci: qui le femmine sono a capo di intere società, gestiscono le lotte, decidono tempi e luoghi della caccia. L'esempio più immediato e più vicino a noi è quello dei Bonobo, scimmie che si definiscono sagge, se non altro perché dirimano i conflitti con il sesso anziché tuffarsi in guerre di sangue. Tra questi primati non vige la legge del più forte, ma le leader dei Bonobo, sempre femmine, spiccano per le grandi capacità di mediazione. Secondo gli studi, le femmine hanno una così alta capacità di coalizione da riuscire a sottomettere gli uomini: la più pertinace battaglia femminista nel mondo animale è stata vinta. Anche le strutture familiari delle orche ruotano attorno alle femmine del gruppo. Le più anziane, come per gli elefanti, detengono il potere. Sono molto più longeve dei maschi, per questo non ci sarebbe partita tra i due sessi. La matriarca vede crescere figli e nipoti e i suoi anni avanzati le conferiscono lo scettro. Per non parlare dei lemuri, altri primati molto meno docili dei Bonobo. Tra questa specie le femmine dominano con la forza. Tolgono il cibo da bocca ai maschi, gli riempiono di morsi o schiaffi quando ne disapprovano i comportamenti. Tra le iene invece le femmine sono più forti e più grandi, così sottomettono i maschi. La caccia spetta al sesso maschile, ma non per una questione di virilità: loro procurano il cibo e lo danno in pasto alle femmine. Nessun maschio provi a fiondarsi per primo sullo spuntino: i primi morsi spettano alle regine. Il mito del maschio dominante è da sfatare anche per quanto riguarda i lupi. Ci vogliono arguzia e molte abilità per governare la società dei lupi e sono le "lupe" a primeggiare. Le femmine prendono tutte le decisioni più importanti: dove andare, quando cacciare, dove fare la tana. Una maggiore parità tra i sessi, invece, regnerebbe tra gli uccelli. «In diversi casi sia il maschio che la femmina covano insieme le uova e poi alimentano i pulcini», spiega Marchesini. Ma anche nel mondo dei volatili capita che ci possa essere un sovvertimento dei ruoli rispetto al nostro mondo. «Le femmine di Jacana, grandi uccelli che camminano sull'acqua con zampe affusolate e artigli incredibilmente lunghi, hanno veri e propri harem di maschi per cui depongono le uova», aggiunge l'etologo. Queste femmine difendono persino i maschi attaccati da altre femmine mentre covano. Sono i maschi, ancora, a occuparsi dei pulcini, li portano sotto le ali, gli insegnano a procurarsi il cibo. Mentre le femmine, immemori degli affari domestici, continuano la loro vita tra paludi e laghi. Non dimentichiamo le api. La società matriarcale per eccellenza, dove domina su tutti, fuchi e operaie, l'ape regina, padrona dei destini degli insetti e custode dell'alveare. Senza l'ape regina al comando nessuna colonia di api resisterebbe. Madre di tutti, viene nutrita con la pappa reale dai sudditi. La mantide religiosa, invece, è lo spettacolare insetto che divora il maschio dopo averlo sedotto. La femme fatale del mondo animale. Durante l'amplesso il povero maschio viene decapitato e poi fagocitato. Non è un atto di crudeltà femminile. È l'istinto materno che guida la femmina: si ciba del maschio per trarre le energie per far crescere le uova. Dura è anche la vita del maschio che si accoppia con la vedova nera, vere accalappiatrici che possono attirare fino a quaranta partner in una sola notte. Dopo aver fatto fuori la concorrenza e ottenuta la sua femmina, il destino dello sventurato non è molto diverso dal maschio della mantide: anche lui viene divorato in un sol boccone.

·        I Cloni.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 6 luglio 2021. Ricercatori russi hanno annunciato di aver prodotto la prima mucca clonata del paese e ora stanno cercando di modificarne i geni perché produca latte ipoallergenico. L’animale è nato nell’aprile del 2020 di 63 chili e per il primo anno di vita è stato tenuto in un recinto separato con la madre. Arrivata a 14 mesi pesa quasi mezza tonnellata, sembra sana e con un normale ciclo riproduttivo. «Da maggio è al pascolo quotidiano con le altre mucche dell’Istituto» ha detto Galina Singina, ricercatrice presso l’Ernst Federal Science Center for Animal Husbandry e autrice di un nuovo studio pubblicato sulla rivista Doklady Biochemistry and Biophysics. Secondo il rapporto dello Skoltech Institute of Science and Technology di Mosca, l'esperimento è stata una doppia vittoria perché i ricercatori hanno anche alterato con successo i suoi geni perché non produca la proteina che causa l'intolleranza al lattosio negli esseri umani. Per eliminare i geni responsabili della beta-lattoglobulina, la proteina che causa il «malassorbimento del lattosio» negli esseri umani, Singina ha lavorato con i colleghi dello Skoltech Institute e dell'Università statale di Mosca. I ricercatori hanno utilizzato la tecnologia CRISPR/Cas9 per rimuovere PAEP e LOC100848610, due geni che rappresentano la beta-lattoglobulina nel genoma bovino. Sono riusciti a clonare il vitello utilizzando il trasferimento nucleare di cellule somatiche (SCNT). L'embrione risultante è stato impiantato nell'utero di una mucca e portato a termine. Mentre i topi geneticamente modificati sono un fenomeno abbastanza comune, modificare altre specie è molto più difficile, per via dei costi più elevati e delle difficoltà nell'allevamento, ha detto il coautore Petr Sergiev, professore allo Skoltech Institute. «Una metodologia che porti a bestiame che produce latte ipoallergenico non è solo una necessità per l'agricoltura del futuro, ma anche un progetto interessante», ha aggiunto Sergiev. Secondo il National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases, quasi il 70% della popolazione mondiale ha una qualche forma di malassorbimento del lattosio, che rende difficile digerire il latte e altri prodotti caseari derivati dai bovini. La clonazione di una singola mucca è in realtà solo un test, ha spiegato Sergiev. Il prossimo passo è ingravidare una mandria di diverse dozzine di mucche con embrioni dai geni modificati. L'obiettivo finale è sviluppare una razza di mucche che produca naturalmente latte ipoallergenico. «Dal momento che non è un processo sicuro al 100%, bisogna tirare i dadi ed è anche piuttosto costoso», ha detto Sergiev. Altrove, i ricercatori stanno clonando le mucche per migliorare la salute degli animali: in Nuova Zelanda un team di ricercatori ha utilizzato l’editing del genoma CRISPR per creare mucche con macchie grigie invece del nero, per ridurre la quantità di calore che assorbono durante il pascolo. Secondo lo studio, pubblicato su biorxiv, «rispetto a un colore chiaro, il nero assorbe più radiazioni solari, e il calore radioattivo è un fattore che contribuisce allo stress termico nei bovini, con un impatto negativo sui loro livelli di produzione, fertilità e benessere». Il team della Nuova Zelanda ha utilizzato un metodo di clonazione per creare embrioni destinati a essere geneticamente modificati e ha applicato la mediazione gRNA/Cas9, lo strumento CRISPR, per mutare il gene pre-melanosomico (PMEL), come riportato per la prima volta da New Scientist. Una volta nati i due vitelli, il team ha confermato che avevano segni grigio argento, mentre le aree bianche erano rimaste inalterate. Sebbene i vitelli non mostrassero segni di potenziali mutazioni fuori bersaglio alla nascita, entrambi sono morti dopo diverse settimane: uno ha dovuto essere soppresso e l'altro è morto di un'infezione causata dal processo di clonazione. Goetz Laible del Ruakura Research Center di Hamilton, in Nuova Zelanda, ha detto che per studiare ancora la mutazione il team esaminerà pratiche di allevamento più tradizionali. Lo studio ha esaminato le vacche da latte, ma Laible ritiene che lo stesso metodo possa essere applicato alle razze da carne, come i bovini Black Angus. «Se proiettato su scala globale, anche miglioramenti modesti dell'eco-produttività dei bovini diluiti con il colore si tradurrebbero in sostanziali benefici ambientali».

·        Le Scimmie.

Fulvio Cerutti per lastampa.it l'1 agosto 2021. Gli scimpanzé che vivono nel Parco nazionale africano di Loango in Gabon stanno attaccando e uccidendo i gorilla. Secondo un team di ricercatori dell'Università di Osnabrück e del Max Planck Institute questo sarebbe il primo caso registrato e sarebbe il risultato della competizione nata per il cibo che sta diminuendo a causa del cambiamento climatico. Prima di questi due scontri, i ricercatori hanno osservato nove occasioni tra il 2014 e il 2018 in cui scimpanzé e gorilla hanno interagito pacificamente e si sono persino nutriti insieme sugli stessi alberi da frutto. L'armonia si è interrotta bruscamente nel 2019, quando, in due occasioni, gli scimpanzé hanno formato coalizioni e hanno attaccato un gruppo di gorilla per oltre due ore lasciando sul campo due gorilla neonati morti. Nel secondo episodio un cucciolo di gorilla è stato ucciso ed è stato quasi interamente consumato da una femmina adulta di scimpanzé. «Potrebbe essere che la condivisione delle risorse alimentari da parte di scimpanzé, gorilla ed elefanti della foresta nel Parco Nazionale di Loango a spingere a una maggiore competizione e talvolta anche in interazioni letali. tra le due grandi specie di scimmie – ha detto Tobias Deschner, un primatologo del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology – . L'aumento della concorrenza alimentare può essere causato anche dal fenomeno più recente del cambiamento climatico e dal crollo della disponibilità di frutta, come osservato in altre foreste tropicali del Gabon». Il primo incontro letale, durato 52 minuti, è stato osservato il 6 febbraio 2019 ed è avvenuto dopo un pattugliamento territoriale durante il quale i maschi hanno compiuto una profonda incursione in un vicino territorio di scimpanze, si legge nello studio pubblicato su Scientific Reports. Un gruppo di 27 scimpanze ha incontrato un gruppo di cinque gorilla silverback in un boschetto e il primo branco ha iniziato a urlare contro gli altri animali. Uno dei gorilla ha caricato una giovane femmina di scimpanzé e poco dopo quell’esemplare è stato circondato da nove maschi e una femmina e hanno iniziato a colpirlo fino a quando è stato messo in fuga. Poco dopo i ricercatori hanno una osservato un’altra scena molto crudele: «Littlegrey (così viene chiamato un esemplare maschio di scimpanzé) ha annusato un cucciolo di gorilla, lo ha messo a terra davanti a sé e lo ha colpito tre volte con la mano destra. Non lo ha ucciso, ma lo ha lasciato agonizzante a terra che si lamentava». Poi 25 minuti dopo quel cucciolo di gorilla è stato passato ad altri tre scimpanzè e poco dopo non si è più sentito il suo lamento. Era morto. Il secondo attacco letale, durato 72 minuti, è stato osservato l'11 dicembre 2019  da squadre di osservazione al seguito di un gruppo di 27 scimpanzé che si spostavano in tutta la regione. L’attacco è iniziato alle 12:26, quando uno scimpanzé di nome Freddy si è fermato di colpo e ha lanciato un forte latrato di allarme. Due minuti dopo, gli scimpanzé hanno avvistato un albero frusciante in cui stava riposando una femmina di gorilla. Quest’ultima ha iniziato a battersi il petto e a urlare, e in meno di un minuto un gruppo di altri gorilla si è precipitato in suo aiuto sull'albero. Tuttavia, la vista di quattro gorilla e due neonati non ha scoraggiato gli aggressivi scimpanzé, che hanno iniziato a scalare l'albero per attaccare. Tutti i gorilla sono fuggiti, tranne una femmina e il suo cucciolo che hanno iniziato a muoversi attraverso l'albero con la speranza di eludere i loro avversari. Alle 12.50 la femmina è stata vista arrampicarsi su un albero vicino senza il suo piccolo e poco dopo un adolescente di nome Caesar è stato visto tenere il corpo di un gorilla neonato morto, che aveva un grande taglio aperto nello stomaco con l'intestino parzialmente sporgente.  Una femmina di scimpanzé ne ha parzialmente mangiato alcuni pezzi di carne. «Siamo solo all’inizio per capire gli effetti della competizione sulle interazioni tra le due grandi specie di scimmie a Loango – spiega Simone Pika dell’Universität Osnabrück .-  Il nostro studio mostra che c’è ancora molto da esplorare e scoprire sui nostri parenti viventi più stretti e che questo parco con il suo habitat unico a mosaico è un posto unico per farlo».

Dagotraduzione dal Mailonline il 16 aprile 2021. In India la polizia ha arrestato due ladri accusati di aver addestrato alcune scimmie a intimidire i passanti di Nuova Delhi per farsi consegnare soldi e oggetti di valore. Una delle vittime, un avvocato, ha raccontato che mentre viaggiava dentro a un risciò tre uomini si sono infilati dentro accompagnati da due scimmie. I primati si sono seduti vicino all’uomo, che ha dovuto consegnare loro 6.000 rupie (quasi 60 sterline). Altri furti simili si sono succeduti nella capitale indiana, tanto da indurre la polizia a costituire una squadra speciale per arrestare i colpevoli. I primati trovati con i ladri sono stati poi trasferiti in un centro di soccorso per animali. In India le scimmie rappresentano una minaccia, perché sono aggressive e spesso affamate. Anche se catturarle è illegale, vengono addestrate per esibirsi in strada. L’anno scorso, nella città di Meerut, nel nord dell’India, un gruppo di scimmie ha attaccato un medico, disperdendo alcuni campioni di sangue positivi al coronavirus.

Abitudini e risate, cosa ci accomuna alle scimmie. Dal tendere la mano per chiedere cibo, al dire «no» Dal riconoscere i volti, all'usare giocattoli sessuali. Oscar Grazioli - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Avremo perso la maggior parte dei peli, avremo un cervello diverso, ma gli esseri umani rimangono evolutivamente molto vicini alle scimmie. Al di là dello sguardo, i ricercatori hanno scoperto un numero sorprendente di comportamenti umani praticati dai nostri antenati scimmia. Almeno 7 ne riporta un articolo su LiveScience. 1) Dire di No. Per quanto non vi sia ancora la sicurezza assoluta sul gesto le mamme Bonobo sono state viste scuotere la testa per convincere i bambini a smettere di giocare con il loro cibo (invece di mangiarlo) o per impedire a un bambino di smarrirsi. Il comportamento potrebbe essere un precursore precoce di gesti negativi di scuotimento della testa negli esseri umani, secondo il ricercatore Christel Schneider del Max Planck Istitut. 2) Mendicare cibo. Molti primati chiedono cibo con una mano aperta (come fanno i mendicanti umani per strada), accarezzano, toccano e abbracciano proprio come fa l'uomo e quindi il repertorio gestuale ci sembra estremamente umano. Gli scimpanzé giovani sono abili nel chiedere l'elemosina con la mano e con una faccia silenziosa a denti scoperti. Questo suggerisce che gli esseri umani comunicavano con il linguaggio dei segni molto prima di parlare. 3) «Forse il comportamento più umano è il riso delle scimmie quando vengono solleticate - ha detto Frans de Waal, primatologo della Emory University - La tonalità del suono è più bassa, ma l'espressione del viso è talmente umana che quelli di noi che hanno familiarità con queste vocalizzazioni non possono smettere di ridere loro stessi» 4) Riconoscere i volti. Uno studio condotto da scienziati del Max Planck Institute for Biological Cybernetics a Tubinga, in Germania, ha dimostrato che le scimmie possono distinguere una faccia dalla folla proprio come fanno gli umani. «Fin dalla tenera età siamo abituati ai volti di altri esseri umani: un naso lungo, l'oscillazione delle labbra o le sopracciglia folte. Impariamo a riconoscere le piccole differenze che contribuiscono a un aspetto individuale», ha detto il ricercatore Christoph Dahl. Le scimmie possono anche individuare i «nasi lunghi» nei loro amici. 5) Mangiare cibo spazzatura per calmare i nervi. Dopo una rottura romantica o una dura giornata di lavoro, spesso ci concediamo alla gola con qualche snack. Le scimmie Rhesus fanno lo stesso quando combattono lo stress. Le scimmie formano delle gerarchie che comprendono femmine dominanti e subordinate, l'ultima delle quali sopporta pesanti molestie. I ricercatori hanno dato due diete, una simile all'americana (ricca di grassi e zuccheri) e l'altra bilanciata per i primati. Le scimmie subordinate mangiavano male (la prima) mentre quelle dominanti bene (la seconda). 6) Usare giocattoli sessuali. Gli scimpanzé sono l'unica specie animale non umana nota per produrre e utilizzare una vasta gamma di strumenti complessi, che possono includere la «versione scimpanzé» dei vibratori. All'inizio degli anni '60, la primatologa Jane Goodall vide per la prima volta uno scimpanzé in Tanzania modellare un filo d'erba in uno strumento per pescare termiti da un tumulo. Da allora, gli scimpanzé hanno continuato a rivelare le loro sorprendenti capacità di creare e utilizzare strumenti avanzati, inclusi alcuni che erano utilizzati esclusivamente per il piacere sessuale. 7) Scegliere giocattoli specifici a seconda del sesso. In uno studio del 2008 su 34 scimmie Rhesus che vivevano con un gruppo di 135 scimmie, i ricercatori hanno esaminato la preferenza delle scimmie per i giocattoli di peluche (l'equivalente umano delle bambole) e gli oggetti su ruote (come i camion). Le scimmie maschio hanno mostrato una preferenza costante e forte per i giocattoli a ruote, mentre le femmine hanno mostrato una maggiore variabilità nelle loro preferenze.

·        I Cani.

Da lastampa.it il 19 novembre 2021. Il cane più ricco del mondo ha messo in vendita per 32 milioni di dollari una casa esclusiva a Miami, un tempo appartenuta a Madonna. La notizia potrà sembra assurda, anche per gli standard sopra le righe del mondo dei super-milionari; eppure è così ed è balzata dai siti specializzati di vendite immobiliari alle pagine di cronaca dei giornali di mezzo mondo perché chi vende è appunto... un cane milionario. Il protagonista è un pastore tedesco di nome Gunther VI: è erede del fondo della contessa Karlotta Liebenstein morta nel 1992, priva di figli, che lasciò tutto al suo cane, Gunther III. Ora a beneficiare della fortuna sono i suoi discendenti: grazie ai giusti investimenti da parte del Gunther Group, i gestori del fondo, l'eredità è cresciuta fino a raggiungere, con Gunther VI, i 500 milioni di dollari. Il fortunato cane possiede diverse proprietà. Tra le altre la villa di Miami ora in vendita, situata nel quartiere di Brickell e acquistata per 7,5 milioni di dollari nel 2000 dalla popstar Madonna, che ci ha vissuto negli anni '90. La casa è stata costruita nel 1928: ha nove camere da letto, nove bagni, una piscina e una vista mozzafiato sul Golfo di Biscaglia. Sopra il camino in soggiorno c’è pure un ritratto in cornice dorata del nonno, Gunther IV. Il cane, che vive parte dell'anno in Toscana, fa una vita da jet-set: voli tra Milano e le Bahamas in jet privato, pasti preparati dallo chef, a base di carne pregiata, verdure fresche e riso, a volte il caviale, mai ovviamente le crocchette; lezioni private dal suo allenatore, dorme su un pouf di velluto rosso nell'ex camera da letto di Madonna, compra yacht e automobili e ha acquistato persino un tartufo bianco da 1,1 milioni di dollari a un'asta. Pare anche sia di ottimo carattere. «La prima volta che ho incontrato Gunther VI, mi ha dato un bacio togliendomi tutto il rossetto. Credo sia stato questo a suggellare l'accordo», ha raccontato a Forbes, Ruthie Assouline, l'agente immobiliare che ha valutato l'immobile e che anche lei, di primo acchito, non voleva credere alle sue orecchie.

Muore di dolore subito dopo il suo padrone: Asti si commuove per la cagnetta Birba. Carlotta Rocci su La Repubblica il 22 ottobre 2021. La beagle non ha retto alla scomparsa di Giovanni Cerutti, 80 anni. Il figlio: "Era in buona salute ma si è lasciata andare". Birba ha passato ogni giorno della sua vita con il suo padrone, Giovanni Cerruti, ad Asti. E quando lui, a 80 anni, è mancato, Birba è morta di dolore. Succede quando due vite sono legate con un filo così resistente da non poter fare a meno l’uno dell’altra. Succede con gli amori umani e duraturi, e anche con l’amore totalizzante degli animali.

Cani legati alla catena: cosa dice la legge e in cosa consiste questa pratica diffusa. Redazione il 22 ottobre 2021 su Today.

Animali domestici

Per i cani legati alla catena, purtroppo, non vi è un’unica legge a livello nazionale che stabilisca limiti e divieti. Ecco tutto quello che occorre conoscere su questa pratica. Il cane legato alla catena è una pratica ancora molto diffusa nel nostro Paese, dove non esiste ancora un’unica legge nazionale che regoli questa pratica. Sono, quindi, le Regioni e i singoli Comuni a dover stabilire le norme su come e quando è possibile legare un cane alla catena. Ovviamente, in tutti i provvedimenti il cane, in quanto essere vivente, deve essere rispettato e non sottoposto a sofferenza e violenza, e in questo rientrano anche i casi dei cani legati alla catena per tutto il giorno. Le uniche regioni in cui vige il divieto assoluto di tenere un cane legato alla catena sono Campania, Marche, Lazio e Umbria.

Perché i cani vengono legati alla catena

I cani vengono legati alla catena per svariati motivi, come:

E’ importante ricordare che nel momento in cui si sceglie di avere un cane, si deve tenere a mente che non si sta comprando un giocattolo bensì un essere vivente, da amare e rispettare. Il cane, così come tutti gli altri animali, ha dei diritti legalmente riconosciuti e non può essere maltrattato o immobilizzato da una catena.

Cane alla catena: cosa dice la legge

Come accennato in precedenza in Italia non vi è un'unica normativa valida per tutte le regioni. Quindi, prima di legare il tuo cane alla catena è bene informarsi presso il proprio comune di residenza, in modo da evitare di trasgredire la normativa vigente.

Ciò che sottolinea la legge italiana è che un cane deve uscire in passeggiata almeno due volte al giorno, non solo per consentirgli di espletare i bisogni fisiologici, ma anche e soprattutto per avere contatti con l’esterno e con i suoi simili.

Cani legati alla catena: quando è reato

I cani non possono essere immobilizzati alla catena per tutto il giorno; quindi, per la legge chi tiene gli animali sempre legati alla catena o ad altre corde commette il reato di detenzione e maltrattamento di animali in condizioni incompatibili con la loro natura. Sì, perché il pet fermo alla catena non è in grado di girare liberamente, accedere alla cuccia o alla ciotola con cibo e acqua; inoltre, un cane legato alla catena non è felice, non sta bene e si sente privato della propria libertà.

E’ consentito farlo solo ed esclusivamente per brevissimi periodi di tempo; se ad esempio, si deve procedere con la pulizia della sua cuccia, oppure se occorre immobilizzarlo per le cure veterinarie.

Legare un cane alla catena: quando non è considerato reato

Visto che al momento non esiste una normativa nazionale che regoli l’usanza dei cani legati alla catena, questa pratica non è reato per la legge quando:

Ovviamente, occorre ricordare che nonostante vengano rispettate tutte queste caratteristiche legare il cane alla catena è una pratica subdola, che non rispetta la natura del pet che invece ha bisogno di libertà per esplorare, correre e annusare il mondo che lo circonda.

DA ilrestodelcarlino.it il 3 settembre 2021. È stato trovato dilaniato dai cani il corpo di un 56enne di Treviso, deceduto nella sua abitazione in circostanze ancora da chiarire. A fare l'inquietante scoperta è stata la sorella della vittima, arrivata in via Del Fante perché da giorni non riusciva a mettersi in contatto col fratello. Il corpo era in stato di decomposizione quando i vigili del fuoco hanno sfondato la porta di casa. L'uomo, con un passato condizionato anche da alcune dipendenze, abitava da solo e non dava più notizie di se dalla metà di agosto. Si ritiene che il decesso sia sopraggiunto per cause naturali e che gli animali, imprigionati ed affamati, non abbiano potuto far altro per nutrirsi che addentare le carni del proprietario morto. Una scena terribile quella che si è presentata agli occhi della sorella e delle forse dell’ordine intervenute. La magistratura ha tuttavia disposto un esame più approfondito per fugare dubbi sull'eventuale responsabilità di altre persone, visto il passato burrascoso dell’uomo.

Fulvio Cerutti per lastampa.it il 29 agosto 2021. La tragedia di Simona Cavallaro ha riacceso le paure nell’incontrare branchi di cani in libertà. Pochi casi, ma che possono trasformarsi in tragedie.

Lorenzo Niccolini, educatore cinofilo e presidente di Stray Dogs Aps, andiamo subito al punto: il cane randagio è davvero pericoloso?

«No, in generale il cane randagio proprio perché deve sopravvivere, tende a evitare situazioni di pericolo. Nei rapporti con l’essere umano, a meno che non sia una risorsa perché gli porta da mangiare, lui cerca di evitarlo perché potrebbe essere un rischio. Poi il concetto di pericolosità dipende molto dall’osservatore: dall’abbaio al ringhio, se si fraintendono i suoi segnali la situazione può complicarsi». 

Quindi più che il cane, può essere più pericoloso il comportamento umano…

«Quando si incontra un cane randagio è bene capire se c’è della diffidenza da parte sua: se non ci viene incontro scodinzolando, ma è guardingo bisognerebbe capire che non ha così tanta voglia di incontrarci. Il problema nasce, per esempio, quando l’uomo crede che con il suo amore per gli animali possa interagire e rendere malleabile il rapporto. Se così non avviene e l’uomo scappa, nell’animale si attiva la motivazione predatoria, istinto innato che il cane stesso ha difficoltà a controllare. E da lì possono nascere i problemi: magari la persona cade per terra ed espone all’animale parti del proprio corpo molto vulnerabili».

E quindi che cosa fare?

«È meglio allontanarsi senza mai dare le spalle all’animale. Meglio farlo mantenendo un angolo di 45 gradi o rimanendo frontali. Bisogna farlo in maniera molto lenta facendo attenzione a non inciampare. Ancora meglio, se si riesce, rimanere vicino a qualcosa a cui aggrapparsi, come un albero o un muretto, per poter restare solidi e stabili in caso di attacco». 

Sono così frequenti questi attacchi?

«No, sono situazioni rarissime, stiamo parlando di un caso che avviene ogni tanto e per circostanze che vanno approfondite. Spesso non sono cani randagi, ma cani vaganti, ossia animali che girano, che possono avere qualcuno che li accudisce, che li raduna in branco per nutrirli o, come nel caso della Calabria, cani da pastore a guardia del gregge». 

Come funzionano le logiche del branco?

«Esiste un leader, ma spesso non è lui ad agire in prima “persona”: rimane dietro e dice agli altri che cosa fare, manda all’attacco gli altri esemplari, spesso quelli “adolescenti”, che devono fare esperienza, che nel pieno del vigore di fronte a un abbaio si buttano senza ragionare». 

Torniamo ai cani vaganti, quali problemi comportano?

«Il punto cibo è uno dei più dolenti: quando si nutrono i cani vaganti non si considera che si finisce per radunarli in branchi, dove si possono generare dei conflitti fra i diversi gruppi che si avvicinano alla stessa risorsa. Queste tensioni si vanno a scaricare sulle ruote della auto o, peggio ancora, arrivare a uccidere un bambino come nel caso di Scicli del 2009. Non erano cani del tutto randagi, qualcuno si occupava di loro». 

È possibile recuperare un cane che ha aggredito una persona fino a ucciderla?

«Si, è possibile. Come Stray Dogs c’è capitato proprio con i cani di Scicli. Non sono animali che per forza di cose aggrediscono con l’intento di uccidere, bisogna sempre considerare il contesto in cui le cose capitano. Mi sono occupato di un cane che ha morso al viso tre persone, con competenza e pazienza è stato riabilitato: ora vive a casa mia e gioca con mia figlia di un anno e mezzo senza alcun problema». 

Un’ultima domanda: c’è soluzione al randagismo?

«In alcune realtà la convivenza di cani liberi con l’uomo credo che sia una cosa ancora possibile: esistono città dove gli animali imparano ad attraversare la strada, sanno dove procurarsi il cibo e diventano mascotte degli abitanti del posto. In questi casi, la soluzione sta in buon lavoro a livello culturale e adeguate politiche di sterilizzazione. Nelle situazioni problematiche, invece, bisognerebbe fare un adeguato monitoraggio e controllo perché non basta rinchiudere gli animali dentro le gabbie andando a ingolfare i canili senza che questi esemplari abbiano realmente possibilità di venire adottati. Stray Dogs agisce in alcune piccole realtà dove con un’app inseriamo le informazioni e le foto dei cani e poi orientiamo le nostre attività: dalla sterilizzazione delle femmine alla cattura degli esemplari difficili, azioni mirate che permettano di mantenere il giusto equilibrio dentro la comunità». 

Claudia Guasco per “Il Messaggero” il 27 agosto 2021. Una gita tra amici, una giornata spensierata nella natura. Fino a quando Simona Cavallaro, vent'anni, si incammina nel bosco in compagnia del fidanzato. All'improvviso si avventa su di lei una muta di cani randagi e per la giovane non c'è scampo, viene sbranata e uccisa. Sembra un film dell'orrore ciò che è accaduto ieri pomeriggio sulle montagne che circondano Satriano, comune sul versante ionico delle Serre calabresi in provincia di Catanzaro. La comunità di Soverato è sconvolta, perché al dolore per la scomparsa di una ragazza si aggiunge il dramma della morte terribile: mangiata viva dagli animali, più di dieci, senza poter fare nulla per difendersi. Simona Cavallaro era arrivata qualche ora prima con degli amici per una scampagnata nella zona di Monte Fiorino, nei pressi di un'area picnic. Poi insieme al fidanzato ha deciso di addentrarsi nei boschi circostanti per un sopralluogo, un luogo impervio dove avrebbero voluto organizzare una gita nei prossimi giorni. In lontananza i due ragazzi hanno visto avvicinarsi un gregge di pecore seguite da alcuni pastori maremmani. Il ragazzo impaurito dagli animali si è subito allontanato nascondendosi dietro a un capanno, mentre Simona ha iniziato a giocare con i cani. Accorgendosi, troppo tardi, che erano pericolosi. Così ha cercato di mettersi in salvo, ma è stata azzannata e subito dopo aggredita da almeno dieci cani spuntati all'improvviso. Il giovane, sconvolto, ha chiamato i soccorsi che hanno impiegato un po' di tempo per raggiungere la zona impervia. I primi ad arrivare sul posto sono stati i vigili urbani di Satriano: per allontanare i cani, che si stavano avventando anche su di loro, hanno dovuto sparare diversi colpi di pistola in aria. È toccato ai carabinieri il compito di informare della tragedia i familiari della ragazza. Sotto shock gli amici della vittima che erano partiti con lei per trascorrere qualche ora in spensieratezza. La notizia della morte della ventenne si è subito diffusa a Soverato dove la vittima viveva con la famiglia, conosciuta nella cittadina. La morte di Simona Cavallaro riporta purtroppo in primo piano l'emergenza randagismo in Calabria. Sono circa 15 mila i cani rinchiusi nei rifugi, di cui oltre 5.700 nella sola provincia di Crotone. Nel 2019 sono state effettuate 1.492 adozioni, circa 20 milioni di euro è invece la stima del costo annuo per il mantenimento dei cani nelle strutture e per i risarcimenti a carico delle aziende sanitarie per incidenti causati dai randagi. I dati del 2020 sul randagismo in Italia, condivisi dal ministero della Salute, registrano 76.192 ingressi in canili sanitari, 42.665 in canili rifugio e 42.360 adozioni di cani randagi. Ma il numero di quelli fuori dalle strutture sarebbe ben più alto: il dato del 2019 registra 500-700 mila cani randagi. Un fenomeno diffuso soprattutto in alcune regioni, dove prosperano colonie di animali vaganti e dove gli abbandoni di animali domestici si intensificano nel periodo estivo o in concomitanza con l'apertura della stagione di caccia. Le differenze tra regioni, tuttavia, sono marcate, con un profondo divario tra nord e sud. Il 67% dei cani rinchiusi è nel Mezzogiorno e il 43% dei canili è concentrato sempre al sud.

Da lastampa.it il 28 agosto 2021. E' stata attaccata dal branco alle spalle e alle gambe Simona Cavallaro, la ragazza di 20 anni di Soverato, uccisa giovedì scorso da alcuni cani nell'area picnic di località Monte Fiorino, nel comune di Satriano, mentre stava perlustrando la zona con un amico in previsione di un scampagnata da fare domenica prossima. E' il risultato dell'autopsia, durata 5 ore, eseguita dal medico legale Isabella Aquila su disposizione del pm di Catanzaro Irene Crea, alla presenza dei periti nominati dalla famiglia della ragazza e dell'indagato, un pastore di 44 anni, proprietario del gregge che i cani, tra maremmani e meticci, forse stavano custodendo. La ragazza, probabilmente stava cercando di fuggire e ha anche tentato di difendersi: sotto le sue unghie sono stati trovati peli di cane. Starà ora a un team di esperti stabilire a quali tra i 12 cani catturati appartengano i peli prelevati. Tra gli animali catturati solo uno aveva impiantato il microchip che consente di risalire al proprietario. Nelle ultime ore sono stati effettuati prelievi dal pelo degli animali, alcuni dei quali avevano il capo sporco di sangue. Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri della compagnia di Soverato, agli ordini del tenente Luca Palladino, che per primi sono arrivati sul posto, lo scorso giovedì, allertati dall'amico che si trovava in compagnia di Simona. Al momento i militari, con l'aiuto dei veterinari, hanno catturato 12 animali, per otto dei quali si è resa necessaria la sedazione. Gli animali sono affidati in custodia al canile municipale mentre i carabinieri sono alla ricerca degli ultimi esemplari che mancano alla cattura. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, in un primo momento i due ragazzi si sarebbero rifugiati in una chiesetta in legno che si trova nell'area picnic. Solo in un secondo momento Simona, forse pensando che gli animali fossero andati via, ha cercato di raggiungere l'auto, ma è stata assalita dal branco. L'area è attualmente interdetta, dal momento che occorre capire se possano esservi altri cani in circolazione che potrebbero, eventualmente, creare ulteriori problemi. Sono stati attimi concitati, nei quali Simona Cavallaro e l'amico che si trovava con lei hanno dovuto prendere una decisione in pochi istanti. Il giovane ha iniziato a correre verso quel capanno, urlando ripetutamente il nome di Simona e invitandola a seguirlo. Lei, invece, terrorizzata, ha cercato probabilmente di raggiungere l'auto non molto distante. Ovviamente sono tutti racconti poco lucidi, visto il terrore che si è vissuto in quei momenti e su cui i carabinieri puntano a fare chiarezza.

Da catanzaro.gazzettadelsud.it il 28 agosto 2021. C'è un indagato per la morte assurda di Simona Cavallaro, la studentessa ventenne assalita ed uccisa da un branco di cani nelle vicinanze di un’area picnic in località Monte Fiorino nel territorio del comune di Satriano, nel catanzarese. Si tratta di un pastore 44enne di Satriano, Pietro Russomanno, che sarebbe stato individuato dai carabinieri come il proprietario del gregge di pecore che pascolava poco distante dal luogo dell’aggressione e a guardia del quale sarebbero stati almeno alcuni dei cani - in prevalenza pastori maremmani - che hanno aggredito la giovane. Il pastore, che sarà assistito dall'avvocato Vincenzo Cicìno, è stato iscritto nel registro degli indagati - con l'ipotesi di reato di omicidio colposo - anche a sua garanzia, per permettergli, cioè, di nominare un proprio perito in vista dell’autopsia disposta dal pm della Procura di Catanzaro Irene Crea che sarà effettuata oggi (28 agosto 2021). Ma solo al termine degli accertamenti in corso da parte dei carabinieri della Compagnia di Soverato e del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Catanzaro, la posizione dell’uomo sarà definita.

Le indagini. Nella zona continuano le ricerche per catturare tutti gli animali, in tutto una quindicina, che si sono avventati sulla ventenne. Per adesso ne sono stati presi due, ancora sporchi di sangue, che sono adesso all’esame dei veterinari che dovranno accertare se hanno impiantato il chip di riconoscimento che permette di risalire al proprietario. Si tratta di cani che, hanno riferito gli investigatori, si presentavano particolarmente aggressivi. Tanto che, al loro arrivo, hanno anche tentato di assalire i carabinieri e la polizia locale. Militari ed agenti sono stati costretti a sparare alcuni colpi di pistola in aria per farli allontanare. Gli investigatori, oltre a dover stabilire se i cani che hanno aggredito Simona fossero del pastore, stanno anche valutando se il gregge di pecore fosse al pascolo in una zona consentita o meno. La morte della ragazza, infatti, è avvenuta vicino ad un’area picnic dove Simona ed un amico stavano facendo un sopralluogo in vista di una scampagnata in programma domenica con un gruppo di amici. Il ragazzo è riuscito a fuggire rifugiandosi in un capanno poco distante, mentre la ragazza non ce l’ha fatta. 

La testimonianza dell'amico. I morsi non avrebbero dato tregua alla ragazza che non sarebbe riuscita a divincolarsi e scappare. Neanche le urla di auto avrebbero fatto allontanare gli animali che invece l'hanno ferita in modo mortale. Il ragazzo che era con lei, invece, probabilmente fuggito nella direzione opposta, è riuscito miracolosamente a trovare riparo nelle vicinanze, all'interno di una baita, salvandosi così la vita. È stato lui a chiamare i soccorsi. Sul posto sono immediatamente accorsi i sanitari del 118, che non hanno potuto far altro che constatare il decesso e i carabinieri della Compagnia di Soverato, guidati dal tenente Luca Paladino, che hanno avvisato dell'accaduto i familiari della ragazza, oltre al magistrato di turno che è giunto sul posto per coordinare le indagini. Comprensibilmente sotto choc l'amico della ragazza che era andato con lei a trascorrere qualche ora in spensieratezza. Il ragazzo ha comunque fornito agli inquirenti elementi utili a ricostruire l'accaduto, per tracciare dinamica ed eventuali responsabilità. Ulteriori chiarimenti verranno dalle testimonianze di quanti, trovandosi nelle vicinanze, hanno potuto in qualche modo assistere ai fatti. Intanto la notizia si è sparsa in un baleno nella cittadina jonica, visto che la ragazza è figlia di un imprenditore locale, dove i conoscenti della famiglia sono rimasti sbigottiti e increduli quando hanno appreso la notizia.

Il dolore del padre. "La mia amata figlia Simona è venuta a mancare su questa vita terrena, il mio dolore è immenso come se avessero esportato metà del mio corpo. Simona, pura come l'acqua di fonte, solare come l'alba e il tramonto, sorridente e scherzosa come una bambina". In queste parole c'è tutto il dolore di un padre, Alfio Cavallaro, che su Facebook ha provato a tracciare un ricordo di sua figlia Simona, la 22enne sbranata ieri pomeriggio da un branco di cani pastore a Satriano. Alle parole, il noto gioielliere di Soverato, ha aggiunto le foto di Simona per ricordare "uno spaccato della sua poca vita vissuta nel pieno amore della famiglia e degli amici più cari". "Le nostre vite saranno distrutte". “Quanto avvenuto a Satriano lascia sgomenti. La giovane Simona Cavallaro ha perso la vita dopo essere stata aggredita da un branco di cani in una pineta attrezzata. Si fa davvero fatica a crederci. È una tragedia immane che poteva e doveva essere evitata. Non si può morire in questo modo, a vent’anni. Mi auguro che gli inquirenti, che hanno già avviato le indagini, facciano luce al più presto su quanto accaduto e riescano a individuare gli eventuali responsabili. A nome di tutta la Giunta regionale, mi unisco allo straziante dolore della famiglia di Simona ed esprimo il più sentito cordoglio a tutta la comunità di Soverato, sotto choc per un evento incomprensibile, inaccettabile”. È quanto afferma il presidente della Regione Calabria, Nino Spirlì.

Gli ultimi istanti di vita della giovane 20enne. Simona sbranata dai cani, il racconto dell’amico: “Urlavo il suo nome, siamo scappati in direzioni opposte”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 28 Agosto 2021. Era insieme a un amico Simona Cavallaro quando si è ritrovata di fronte un branco di una decina di cani che ha attaccato e sbranato la giovane ventenne nei boschi di Satriano, in provincia di Catanzaro. Gli inquirenti sono a lavoro sugli ultimi istanti di vita della giovane originaria di Soverato, morta giovedì 26 agosto. Sono stati attimi concitati quelli vissuti dalla coppia di amici nei boschi del Monte Fiorino. I due si erano staccati dal gruppo di coetanei per addentrarsi in altre zone: lì il branco di cani li ha circondati. A questo punto Simona e l’amico, anche lui ventenne, hanno preso decisioni opposte: quest’ultimo ha deciso di correre verso un capanno; lei invece verso l’autovettura con la quale avevano raggiunto la zona. Ma l’auto Simona non riuscirà a raggiungerla. A raccontare i dettagli degli ultimi istanti di vita della giovane è stato l’amico, ancora sotto choc. Agli inquirenti, secondo la ricostruzione dell’agenzia Agi, ha spiegato che si sono imbattuti prima nel passaggio del gregge di pecore, poi, poco dopo, si è palesato il branco di cani, oltre una decina. Qui l’amico di Simona ha iniziato a correre verso il capanno pronunciando più volte il nome della 20enne, nella speranza che lo seguisse. Lei invece, terrorizzata, ha provato a raggiungere l’autovettura che si trovava non molto distante. Ma è stata prima accerchiata dal branco di maremmani e meticci e poi aggredita dopo aver provato a riprendere la fuga. Un racconto ancora confuso sul quale sono in corso le indagini dei carabinieri. Intanto la notizia dell’orribile morte di Simona ha gettato nello sconforto l’intero comune di Soverato. Un paese in lutto che si stringe intorno al dolore dei familiari. A parlare il papà della 20enne, un gioielliere molto noto in città che in un post sui social ha scritto: “La mia amata figlia Simona è venuta a mancare su questa vita terrena, il mio dolore è immenso come se avessero esportato metà del mio corpo. Simona, pura come l’acqua di fonte, solare come l’alba e il tramonto, sorridente e scherzosa come una bambina”. Il sindaco di Soverato, Ernesto Alecci, ha detto: “Per un dolore di questo tipo non esistono parole di conforto adeguate”, quindi ha proclamato il lutto cittadino durante il giorno in cui si terranno le esequie, mentre ieri ha vietato qualsiasi attività musicale sul territorio comunale, anche durante la notte. Intanto è stata effettuata in giornata l’autopsia sul corpo di Simona da parte del medico legale dell’Università di Catanzaro, Isabella Aquila. Al momento l’unico indagato è un pastore, proprietario del branco di cani che ha ucciso la giovane. L’accusa è quella di omicidio colposo, un atto dovuto per completare gli accertamenti. Le ricerche dei carabinieri della Compagnia di Soverato proseguono serrate alla ricerca degli animali che hanno sbranato Simona. In due giorni, con l’ausilio dell’Azienda sanitaria provinciale, sono stati accalappiati dodici cani maremmani e meticci nella zona di Monte Fiorino. Molti degli animali catturati sono sporchi di sangue e saranno alcuni rilievi scientifici a ricostruire quanto accaduto nell’aggressione. Gli esperti hanno prelevato, infatti, alcuni campioni di peli per identificare con certezza gli animali che hanno effettivamente aggredito la ragazza.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Dagotraduzione da Study Finds il 21 agosto 2021. I cani sono davvero "i migliori amici dell'uomo" e sanno relazionarsi agli uomini come gli altri animali non sanno fare. Un nuovo studio rileva che anche i parenti più stretti del cane - i cuccioli di lupo - non si uniscono alle persone allo stesso modo. I ricercatori della Duke University sostengono che 14.000 anni di addomesticamento hanno giocato un ruolo importante. In effetti, il migliore amico dell'uomo si è effettivamente evoluto per comprendere i gesti umani e chiedere aiuto agli umani in un modo che nessun altro animale fa. Gli autori dello studio, che hanno confrontato i cuccioli di lupo allevati dall'uomo con cani che avevano pochissimo contatto con le persone, hanno scoperto che i cani superano ancora le loro controparti di lupo nei test sulla comprensione e cooperazione con gli umani. Il team dietro la ricerca aggiunge che i risultati mostrano che i cani capiscono istintivamente le persone. «Questo studio consolida davvero l'evidenza che il genio sociale dei cani è un prodotto dell'addomesticamento», afferma il dottor Brian Hare, professore di antropologia evolutiva, in un comunicato universitario. È questa capacità, dice Hare, che rende i cani degli ottimi animali di servizio. «È qualcosa per cui sono davvero nati preparati», aggiunge il ricercatore. Proprio come i bambini umani, il team scopre che i cuccioli capiscono intuitivamente cosa sta facendo un umano quando indica qualcosa. I cuccioli di lupo, invece, non se ne sono accorti. «Pensiamo che indichi un elemento davvero importante della cognizione sociale, ovvero che gli altri stanno cercando di aiutarti», spiega Hare. «I cani nascono con questa capacità innata di capire che stiamo comunicando con loro e stiamo cercando di collaborare con loro», aggiunge la dottoranda Hannah Salomons. Durante uno dei test, i ricercatori hanno posizionato due ciotole, nascondendo in una delle due un bocconcino di cibo. Poi hanno preso i cuccioli di lupo e quelli di cane e li hanno aiutati a trovare il premio: in alcuni casi, indicando con lo sguardo la ciotola giusta; in altri, posizionando un piccolo blocco di legno accanto alla ciotola giusta. I risultati hanno mostrato che, anche senza un addestramento specifico, i cuccioli di cane di otto settimane hanno risolto l’enigma, mentre quelli di lupo, abituati a frequentare gli uomini, no. Non solo. Più della metà dei cani (17 su 31) è andato alla ciotola giusta, mentre i lupi non hanno provato altro che soluzioni casuali. Ancora più impressionante, molti dei cuccioli di cane ce l'hanno fatta al primo tentativo. I cuccioli di cane e i cuccioli di lupo si sono dimostrati ugualmente abili nei test di altre abilità cognitive, come la memoria e il controllo degli impulsi motori. È stato solo quando si è trattato delle capacità di compresione “umana” dei cuccioli che le differenze sono diventate chiare. «Ci sono molti modi diversi per essere intelligenti», spiega Salomons. «Gli animali evolvono la cognizione in un modo che li aiuterà ad avere successo in qualunque ambiente vivano». Le differenza tra cani e lupi non finisco qui. «I cuccioli di cane con i quali abbiamo lavorato si radunavano intorno alle persone quando qualcuno entrava nel loro recinto. I lupi invece scappavano nell’angolo e si nascondevano». E ancora: davanti a un contenitore sbagliato per il cibo, i lupi hanno cercato di «risolvere il problema da soli» mentre i cani hanno «chiesto aiuto agli uomini, guardandoli e aspettando». Il Dr. Hare ritiene che la ricerca offra alcune delle prove più solide di quella che è nota come «ipotesi dell'addomesticamento». Da qualche parte tra i 12.000 e i 40.000 anni fa, condividevano un antenato con i lupi moderni. Come questi temuti predatori si siano trasformati nei migliori amici dell'uomo è ancora un po' un mistero. Una delle teorie è che, quando umani e lupi si incontrarono per la prima volta, solo i lupi più amichevoli sarebbero stati tollerati e si sarebbero avvicinati abbastanza da frugare sui primi avanzi umani invece di scappare. Mentre i lupi più timidi e cattivi potevano soffrire la fame, quelli più amichevoli sarebbero sopravvissuti e avrebbero trasmesso i geni che li rendevano meno timorosi o aggressivi nei confronti degli umani. La teoria è che questo è continuato generazione dopo generazione, fino a quando i discendenti del lupo sono diventati maestri nel misurare le intenzioni delle persone con cui interagiscono decifrando i loro gesti e segnali sociali.

(ANSA il 14 giugno 2021) E' un pechinese di nome Wasabi il cane più bello degli Stati Uniti secondo i giudici del prestigioso concorso del Westminster Kennel Club. Dietro al cagnolino di tre anni si è piazzato un levriero di nome Bourbon. "Ha talento, rientra perfettamente nello standard della razza e poi ha quel qualcosa in più, quella brillantezza, che distingue un cane", ha detto alla Cbs uno dei padroni, David Fitzpatrick, che come premio per la vittoria concederà per cena al suo pechinese un filetto. Un altro co-proprietario del cane è morto di Covid-19 l'anno scorso. Wasabi, il cui nome deriva dalla madre Sushi, ha battuto in finale il bulldog francese Mathew, il cane pastore inglese Connor, il pointer tedesco Jade e Bourbon. In totale hanno partecipato 2.500 cani.

Agostino Gramigna per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2021. In cuor suo la signora Alexis Devine era sicura che il suo Bunny avrebbe «parlato». Bunny non è una persona, è un animale. Esattamente un cucciolo di cane pastore. Che un giorno, come Devine sperava, avrebbe davvero imparato a «parlare». La storia raccontata dal New York Times, che affascina molti studiosi, potrebbe iniziare dal tappeto di una casa americana, nella città di Tacoma, Stato di Washington, dove abita la signora Devine, artista e designer di gioielli. E dove sul tappeto è disteso il suo Bunny. Divine aveva studiato con attenzione la letteratura sulla cognizione, la comunicazione e l'addestramento canino poco prima di prendere il cucciolo di pastore. Durante la sua ricerca, si era imbattuta nella pagina Instagram della logopedista Christina Hunger, che stava documentando come il suo cane, Stella, stesse iniziando a sviluppare un vocabolario. Stella aveva una tavola armonica composta da pulsanti circolari, ognuno dei quali dettava una parola quando veniva premuto. Picchiando i pulsanti, che insieme formavano frasi strutturate in modo approssimativo, Stella riusciva a comunicare in inglese. La signora Hunger ha lavorato per diversi anni con dispositivi di comunicazione alternativa e «aumentativa» per aiutare i bambini non verbali ad acquisire il vocabolario e comunicare senza parlare. Così ha pensato di applicare il frutto dei suoi studi alla comunicazione dei cani. E ha iniziato a sperimentare. Dopo aver acquistato una confezione da quattro di cicalini di risposta registrabili, ha riportato su un pulsante la parola «fuori», come punto di partenza. Risultato? Nel giro di poche settimane Stella premeva regolarmente il pulsante e usciva. Devine ha usato lo stesso metodo della signora Hunger. Ad aprile, sui social, ha fatto sapere che «Bunny ora può pronunciare 92 parole». Bunny ha quasi 2 anni. Un bambino di pari età, dicono gli esperti, può usare con facilità una cinquantina di parole. Secondo la signora Devine, Bunny può usare i pulsanti sulla sua tavola armonica per formare frasi di quattro parole. Può fare domande. Può, e spesso lo fa, dire alle persone di stare zitte. Con i suoi bottoni riesce a dire: «Sistematevi». «È probabile che l'addomesticamento abbia influenzato la posizione del cervello dei cani in modo che possano interagire e socializzare meglio con gli umani - ha spiegato Claudia Fugazza, ricercatrice nel dipartimento di etologia dell'Università Eotvos Lorand di Budapest -. Sono predisposti a interagire come partner sociali». Con 6,6 milioni di follower su TikTok e 818.000 su Instagram, Bunny è diventata una celebrità. Devine: «Un giorno un'auto ha fatto un'inversione a U. L'autista l'ha riconosciuto e l'ha salutato». Anche i racconti di Hunger sui social media tirano: la logopedista ha quasi 800.000 follower su Instagram, la maggior parte dei quali è lì solo per sentir parlare del cane. Devine è stata contattata da Leo Trottier, un master in scienze cognitive, uno sviluppatore di prodotti nel settore degli animali domestici. Che a sua volta ha contattato Federico Rossano, un professore cognitivo dell'Università della California, per aiutarlo a «rendere più scientifico» il progetto. Inizialmente scettico, Rossano ha accettato.

DAGOTRADUZIONE DA Reed Tucker per nypost.com il 4 maggio 2021. Solo pochi giorni dopo che Christina Hunger ha adottato il suo nuovo cucciolo, ha notato qualcosa che avrebbe cambiato le loro vite. Hunger è un logopedista che lavora spesso con bambini che hanno difficoltà a parlare, li istruisce a superare i loro ritardi o a utilizzare strumenti per aiutarli a comunicare. Un giorno, mentre era seduta alla sua scrivania e completava il test di valutazione linguistica di un bambino, è rimasta fulminata. Hunger ha notato che un bambino sul punto di parlare mostrava molti degli stessi comportamenti che stava esibendo Stella, il suo cane di 8 settimane. Ad esempio, proprio come una bambina piccola, Stella piangeva per attirare l'attenzione e faceva dei cenni per richiedere un'azione, come quando annusava la sua ciotola dell'acqua vuota. "Mi si è accesa una lampadina ", ha detto Hunger. “Una volta che l'ho notato, non riuscivo a pensare a nient'altro. Era così ovvio che i cani avevano solo bisogno di un modo alternativo di comunicare ". Ma si può davvero insegnare a un cane a usare le parole? Nel 2018 Hunger, che allora viveva a Omaha, decise di addestrare il suo cane a fare proprio questo e ha riportato le sue scoperte in un libro di memorie, "How Stella Learned to Talk: The Groundbreaking Story of the World's First Talking Dog" (William Morrow), in uscita martedì. Il libro non solo racconta la storia di Hunger, ma serve da tabella di marcia per i proprietari di cani di tutto il mondo su come addestrare i loro animali domestici. "Penso assolutamente che qualsiasi persona normale con le giuste informazioni e motivazioni possa insegnare al proprio cane a parlare", dice l'autore. “La pazienza è l’aspetto più importante. I cani stanno essenzialmente imparando una seconda lingua ". Il primo passo è iniziare a parlare con il vostro cane. "Inizia raccontando semplicemente ciò che il tuo cane sta facendo in brevi frasi semplici", dice Hunger. "È così che impareranno i significati delle parole." La Hunger iniziò a dire "gioca" ogni volta che Stella guardava il suo giocattolo. Oppure diceva "mangia" a cena, o "fuori" quando era ora di fare una passeggiata. Li ripeteva ancora e ancora, almeno da cinque a dieci volte prima di proseguire, per dare al cane la possibilità di stabilire la connessione. L'autore dice che è importante notare le cose che il cane sta cercando di dirvi con i suoi comportamenti e di concentrarvi su quelle parole. Durante il suo lavoro quotidiano, Hunger utilizzava dispositivi di comunicazione aumentativi e alternativi con alcuni dei suoi clienti, come dei tablet con pulsanti corrispondenti alle parole. Chi ha difficoltà a parlare può premere un pulsante o una serie di pulsanti per comunicare. Visto che questi strumenti sono troppo complicati per i cani, Hunger è andata online e ha ordinato diversi "pulsanti di risposta registrabili" - fondamentalmente grandi pulsanti di plastica che consentono all'utente di registrare un suono che verrà riprodotto quando il pulsante viene premuto. Hunger prese il primo bottone e vi registrò la parola "fuori", poi lo mise vicino alla porta sul retro. Ogni volta che stava per portare Stella a fare una passeggiata, Hunger si fermava e premeva il pulsante più volte, oltre a ripetere la parola "fuori" più volte durante la passeggiata. Nel frattempo, ha programmato altri due pulsanti per Stella: uno per "acqua" posto vicino alla ciotola dell'acqua del cane e un altro per "gioco" situato accanto al cestino dei giochi di Stella. Ogni volta che Hunger o il suo ragazzo Jake passavano di lì mentre Stella stava bevendo, premevano il pulsante "acqua" e ripetevano la parola. Prima di tirare fuori i giocattoli, pigiavano e ripetevano "gioco". È importante per il cane, scegliere parole che "siano motivanti", dice Hunger e di iniziare con termini più generici: "Gioca" è meglio di "palla", ad esempio, perché si può modellare il gioco in molti modi. È anche importante dare al vostro cane il tempo di capire, dice Hunger. Lei consiglia di fare una pausa di 15 secondi se il cane sta notando il pulsante o se sembra che stia cercando di comunicare. Se l'animale ha ancora bisogno di una spinta, restate vicino al pulsante e puntatelo o toccatelo. Quando il cane preme il pulsante, è fondamentale onorare quella richiesta "il più possibile", almeno all'inizio. Durante il primo mese i progressi per Stella sono stati lenti, alla fine ha imparato ad avvicinarsi al pulsante "fuori" quando aveva bisogno di uscire, ma aspettava che Hunger lo premesse. Poi finalmente, dopo un mese, Stella ha detto la sua prima parola una sera. Si avvicinò alla porta e si sedette vicino al bottone, aspettando pazientemente che Jake la portasse fuori. Quando non ha aperto la porta dopo 30 secondi, il cane ha toccato il pulsante finché non ha suonato. Jake la lodò e la portò immediatamente fuori. Quando sono tornati, Stella ha premuto di nuovo il pulsante e sono usciti subito. La Hunger era “felicissima” che Stella avesse imparato una nuova abilità. "Ci sono poche sensazioni migliori", scrive. Nel giro di pochi giorni, Stella stava usando i suoi pulsanti per "gioco" e per "acqua", anche se dice che non è insolito che un cane continui ad aver bisogno di suggerimenti per un po’ di tempo, come per esempio chiedere al cane: "Cosa vuoi?" quando ci si avvicina a un pulsante. Ogni volta che Stella premeva un pulsante, Hunger non la ricompensava mai con dolcetti. I cani sono "intrinsecamente motivati a comunicare", scrive l'autore, e dare cibo impedirà al tuo cane di imparare il significato della parola. Alla fine Hunger ha deciso di introdurre nuovi pulsanti per "mangia", "ciao", "vieni", "no", "ti amo", "aiuto" e "cammina". L'autore dice che una volta posizionati i pulsanti, dovreste tenerli sempre nello stesso punto. Hunger iniziò a modellare queste parole nello stesso modo che fece con le altre e scoprì che Stella imparava più velocemente quando erano disponibili parole simultanee. Dopo tre giorni, Stella ha iniziato a usare "camminare" spesso quando voleva uscire e "fuori" solo quando aveva bisogno di fare i bisogni. In poco tempo le abilità linguistiche di Stella divennero più complesse. Una volta, mentre Hunger stava annaffiando le sue piante d'appartamento, il cane premeva il pulsante dell'acqua. Alla fine, Stella è stata in grado di mettere insieme più parole, come dire: "Christina vieni a giocare, ti amo". Hunger ha detto che l'esperienza dell'addestramento di Stella, che ora ha 3 anni, ha cambiato il modo in cui pensa dei cani. "I cani pensano molto", dice l'autore. “Sentono, hanno opinioni. Sono così attenti al loro ambiente, commentano su ciò che sta accadendo, hanno pensieri e idee indipendenti e vogliono condividerli ". dice l'autore. Le sue intuizioni hanno anche cambiato il suo rapporto con il suo animale domestico. "È molto più forte", dice. “Le cose che facciamo non le decido io. Prendo in considerazione i desideri e le esigenze di Stella. Voglio che sia in grado di parlare da sola. Non sono solo io a chiamare i colpi. "

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 13 maggio 2021. In Italia in media si rubano (quasi) 3 cani al giorno. Mille l'anno. «Ma questo potrebbe essere un dato perfino al ribasso - spiega Stefano Testa, tenente colonnello della sezione operativa antibracconaggio dei carabinieri - poiché non tutti denunciano». Il bottino sull'amico a 4 zampe si trasforma spesso in un buon affare per il ladro. I campioni da caccia o da tartufo possono arrivare a valere anche «fino a 15mila euro nel mercato nero», sottolinea l'ufficiale dell'Arma. Un po' meno lucroso, ma comunque sempre redditizio, il furto del fido da compagnia: «dipende dalla razza e dall'età, in questo caso si può arrivare anche intorno ai mille euro», spiega Testa.

IL FENOMENO Numeri ragguardevoli quelli che si registrano nel nostro Paese, ancora non ai livelli della Gran Bretagna dove il furto del miglior amico dell'uomo è diventato un caso nazionale. Si stima che lo scorso anno 2.438 cani siano stati sottratti ai loro padroni. Nel 2020, nel Regno Unito, si è registrato un aumento del 20%, tanto da spingere il primo ministro Boris Johnson ad istituire una task force per cercare di arginare il fenomeno. Nel Bel Paese la guerra ai ladri di cani è soprattutto ad appannaggio dei carabinieri della sezione operativa antibracconaggio e reati in danno degli animali (Soarda) del raggruppamento Cites che coordinano anche i reparti forestali. Sono loro ad avere il polso della situazione e a contrastare l'ondata che si sta abbattendo anche in Italia. Il furto è sempre fine a se stesso. Infatti, per adesso, non si sono registrate ruberie di animali con richiesta di riscatto come è accaduto a febbraio negli Usa alla popstar Lady Gaga. Un fenomeno, però, scommettono gli investigatori, che potrebbe arrivare presto anche da noi. «Il valore economico dei cani, definiti di razza, è in costante aumento. Questo unito al valore affettivo può spingere i criminali a rapimenti a scopo estorsivo», ragiona il tenente colonnello Testa.

I FURTI Intanto, ad oggi, occorre fare i conti con i semplici ladri di cani. Bisogna fare attenzione quando si ha tra le mani un campione nel trovare i tartufi. Perché a quel punto può divenire lo stesso lagotto (la principale razza impiegata per scovare il prezioso tubero) l'oggetto dei desideri di diverse persone. E così il fido viene solitamente rubato dal suo box. Si taglia la rete e si porta via l'animale. Molto semplicemente. Il secondo step prevede la ripulitura della bestiola. Il ladro gli passa un trasponder per trovare il microchip. Quest'ultimo viene estratto, in modo tale che l'animale non sia più riconducibile al vecchio padrone, e ne viene inserito uno nuovo. Infine viene venduto, solitamente in un'altra regione rispetto a quella in cui è stato messo a segno il colpo. Lo stesso identico copione va in scena anche con i breton, i segugi, il bracco e i setter impiegati per la caccia. Anche in questo caso i criminali si sfregano le mani per l'affare. Gli amici a 4 zampe vengono piazzati di solito all'estero, venduti anche a 15 mila euro, come i loro cugini da tartufo, e affittati per le battute. Meno lucroso è, ad oggi, il furto degli animali da compagnia. Tuttavia i criminali puntano anche i jack russel terrier, il bassotto, il cocker spaniel, il pinscher, lo yorkshire, il barboncino, il chihuahua o il bulldog francese. Solo per fare alcuni esempi. Capita sempre più spesso che un ladro, quando si introduce in un appartamento per rubare gioielli, trovi anche uno di questi cani e, conoscendone il prezzo sul mercato nero, lo porti via con sé. Il furto dell'amico a 4 zampe spesso avviene anche in un altro modo: «È necessario stare attenti - avverte Massimo Comparotto presidente di Oipa, Organizzazione internazionale protezione animali - quando viene lasciato il cane incustodito legato nei ganci fuori dagli esercizi commerciali». Anche così i più spregiudicati dei ladri possono mettere a segno un colpo per poche centinaia di euro, un danno affettivo incalcolabile per il padrone.

Daniele Mastromattei per Libero Quotidiano il 2 maggio 2021. Tutti i giochini che avete fatto finora per indovinare la maturità del vostro cane sono ormai obsoleti. Per capire le varie fasi della vita di Fido non basta una moltiplicazione (per sette, quella che conoscono tutti), ma occorre una sofisticata equazione, oltre che alcune considerazioni sulla razza e una profonda conoscenza dei tratti cognitivi e comportamentali dell'animale. A questa conclusione, che alcuni definiscono rivoluzionaria, giunge l'ultimo studio, pubblicato sulla rivista Veterinary Science, condotto dagli scienziati dell'Università di Nottingham, secondo il quale un cane diventa adolescente a circa sei mesi, raggiunge la maturità a due anni e può considerarsi anziano intorno ai sette. «La longevità dei cani è circa sette volte inferiore rispetto agli esseri umani - commenta Naomi Harvey, dell'Università di Nottingham - ma questo non significa che ogni anno umano valga automaticamente sette anni per i nostri amici a quattro zampe».

SONO SEMPRE CUCCIOLI. La scienziata spiega che i cani, che voi probabilmente trattate sempre come cuccioli, maturano più rapidamente degli esseri umani. Innanzitutto terminano la pubertà a circa un anno di vita, i nostri 15 anni. E dunque a due anni raggiungono la piena maturità, esattamente come gli esseri umani (ma non tutti, purtroppo) a 25 circa. Dai sette in poi i cani possono essere considerati senior, e dai 12 anni raggiungono l'età geriatrica. E da lì i primi acciacchi. Gli autori dello studio avvertono però che l'invecchiamento dipende da vari fattori comportamentali e cognitivi.

GLI ALANI. Nel Regno Unito i cani da compagnia vivono, in media, fino a 12 anni, ma si tratta di un valore che cambia a seconda della razza. Gli Alani, per esempio, pur avendo un'aspettativa di vita di soli sei anni, le loro condizioni cerebrali e il comportamento evolvono con ritmi simili rispetto alle altre razze. «La salute degli Alani è più cagionevole - osserva Naomi Harvey - possono sperimentare problemi quando sono ancora giovani, ma non ci sono prove del fatto che i cani con aspettative di vita più brevi crescano in modo diverso, anzi, sembra che l'invecchiamento avvenga allo stesso modo degli altri cani». Insomma, «non maturano più velocemente - conclude Harvey - semplicemente muoiono più giovani». Ma molto dipende dalle taglie. «Il San Bernardo e il Terranova, sono cani di grossa taglia, vivono meno di un Jack Russell, un Pinscher o un Carlino che possono arrivare fino a 15 anni», spiega a Libero il veterinario Diego Manca autore di tanti libri, l'ultimo "Trilli, riflessioni di una gatta in degenza", (Castelvecchi editore). «Ma è così anche per gli esseri umani, le persone più minute e magre vivono più a lungo probabilmente perché gli organi vitali, come il cuore faticano meno», aggiunge Manca.

LO STILE DI VITA. «Le articolazioni e i muscoli hanno sollecitazioni maggiori in un Pastore tedesco rispetto a un chihuahua», sottolinea il veterinario. «Poi anche lo stile di vita è importante. Se l'animale vive in casa con una famiglia che lo ama, ha più probabilità che la sua vita si allunghi rispetto a un coetaneo costretto a stare in un canile e che magari ha subito pure maltrattamenti», dice. «Qualche consiglio per allungare la vita ai nostri animali? L' alimentazione ha un peso specifico sulla longevità, la dieta deve essere molto bilanciata; se per caso si scelgono alternative a croccantini e scatolette e si vuol cucinare per il proprio animale meglio affidarsi a un veterinario nutrizionista. Le passeggiate al parco sono obbligatorie. I cani non ne possono fare a meno. Non sono gatti. E poi state attenti al fumo passivo. Non accendete sigarette o sigari in loro presenza».

Da "lastampa.it" l'1 febbraio 2021. Era il cane vivente più alto del mondo. Freddy, un esemplare di alano maschio, è purtroppo morto all’età di otto anni e mezzo. Il gigante gentile era un animale domestico molto adorato e coccolato che aveva conquistato questo primato nel 2016, con tanto di certificazione del Guinness World Record: secondo la misurazione fatta dal veterinario Craig Glenday, redattore capo del Guinness World Records, Freddy misurava 103,5 cm dalla zampa al garrese. In piedi sulle zampe posteriori - una misura che il GWR non considera ufficialmente - la sua altezza era di 226 cm. «Non era solo il cane più alto, ma il cane con più amore e il cuore più grande – racconta la proprietaria Claire Stoneman distrutta dal dolore -. Era la mia vita. La mia ragione. La mia gioia. La mia irritazione. La mia felicità e la mia ultima tristezza. Era il mio cuore Alano. Il mio unico su un milione e amato dal mondo intero». La signora Stoneman ricorda anche come è entrato nella sua vita: «Da cucciolo, era il più piccolo della cucciolata. In realtà l'ho preso un paio di settimane prima di quanto avrei dovuto visto che non veniva nutrito da sua mamma. Non avevo idea che sarebbe diventato così grande».

·        I Gatti.

Il gatto Grisù fugge dal trasportino sul treno Lecce-Torino, il controllore lo fa scendere a Pescara: è stato ritrovato. Ecco il video dell'incontro con i padroni disperati per la perdita temporanea del cucciolone di 14 anni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2021. Momenti di paura per il gatto Grisù, una nonnino di 14 anni che era in viaggio in treno da Lecce, destinazione Torino. Durante il viaggio, iniziato domenica scorsa, però l'animale (che era uscito dal trasportino) è stato fatto scendere dal convoglio dal controllore che l'aveva preso per un gatto randagio. Il felino disperso a Pescara per alcuni giorni finalmente è stata ritrovata questa mattina alle ore 8 grazie anche al tam tam mediatico dei due anziani proprietari (originari di Andrano, nel Leccese) disperati per la perdita del loro amico a 4 zampe e delle reti ambientaliste che si sono mobilitate in lungo e in largo sull'asse Salento-Pescara. Il gatto è stato ritrovato in una zona interdetta al pubblico e pattugliata solo dalla Polfer. Il felice epilogo della vicenda si è concluso con la telefonata alla padroncina residente a Torino che, nel frattempo, aveva trovato alloggio a Pescara sperando nel ritrovamento del gatto. Il micione era stanco ed affamato. Anche per questo gli agenti sono riusciti ad avvicinarlo senza problemi, con la “promessa” di qualche croccantino. Da Lecce l’animalista Maria Teresa Corsi si è tenuta costantemente in contatto con i colleghi di Pescara ed ora, a nome del sodalizio Verdi Ambiente e Società, ringrazia i “gattari” abruzzesi e gli uomini in divisa. “Abbiamo assistito ad una bella gara di solidarietà verso questa famiglia di amici degli animali”. Corsi ribadisce la necessità di utilizzare trasportini omologati per far viaggiare gli animali d’affezione. La vicenda non finisce qui perché, probabilmente, ci sarà uno strascico per l’accertamento delle responsabilità. Sulla vicenda ci sono state diversi esposti ed anche una interrogazione parlamentare.

Daniele Abbiati per “il Giornale” il 27 marzo 2021. In questa storia le cose sono un po' diverse, rispetto a quanto accade in un'altra, famosissima storia, quella del burattino bugiardo. Il Gatto e la Volpe (anzi la gatta e le volpi, al plurale) sono i buoni. Mangiafuoco, che nella vecchia storia sembra cattivo ma poi mostra di avere un cuore tenero, qui in teoria è buono perché compie il suo dovere, ma fa una cosa da cattivo. E il Grillo è una Grilla (ho scritto Grilla, non grulla, «miei piccoli lettori»), anzi una grillina la quale, tutta presa dal proprio ruolo di voce della coscienza, esagera un tantinello nel parlare. Anzi nell'interrogare. La storia è quella di Grisù. Lei, a dispetto del nome che porta, quello del pericoloso gas che quando scappa fa gravissimi danni, quando scappa fa soltanto tenerezza, essendo una tipa molto pacifica. Grisù è infatti una gatta, e si temeva di dover usare il tempo passato, giusto una settimana fa, quando se ne erano perse le tracce. Viaggiava in treno da Lecce a Torino, con i suoi padroni, ma senza mascherina perché se lo può permettere, essendo una gatta. Da Lecce a Torino è un bel tocco di strada anche per una gatta di 14 anni. Ogni tot di ore bisogna sgranchirsi le zampe. Ma per farlo occorre prima uscire da quel maledetto cestino. Prova e riprova, Grisù evade e va a fare due passi tra i vagoni. Ma incontra il Mangiafuoco-controllore che, vedendola sola, ovviamente non la riconosce quale passeggera in possesso di tutti i suoi diritti, né della facoltà di intendere e di volere. Morale, alla stazione di Pescara, Grisù viene accompagnata all'uscita, senza che i suoi padroni, forse appisolatisi, possano intervenire per pagarle la cauzione. «Troppa grazia, santa Gertrude» (la protettrice dei gatti e dei viaggiatori), si sarà detta la Nostra di fronte a così tanta libertà da essere persino troppa. Stendiamo un velo felino, per non cadere nel tragico, sull'angoscia del signore e della signora una volta scoperta l'espulsione della loro convivente. Non avendo attivato il «parental control», come si può fare persino per la tv, si saranno giustamente sentiti in colpa. Tuttavia la notizia prende a correre più del suddetto treno, e l'anima animalista degli umani si prende in carico le indagini. Scendono in campo le volpi dell'Enpa di Pescara, della Polizia Ferroviaria, dei cittadini tutti, intenzionati a rimettere le cose a posto e Grisù nel suo cestino. Nel frattempo, prende la parola la Grilla, cioè la deputata a Cinque Stelle. Avendo per cognome Torto, non esita ad attivarsi affinché il torto subìto da Grisù venga messo in conto al Mangiafuoco-controllore. E minaccia, e promette niente meno che un'interrogazione parlamentare sulla vicenda, postando su Facebook, giovedì scorso, un infuocato j' accuse contro il capotreno. «Ritengo che l'accaduto metta in evidenza ciò che doveva essere fatto e non è stato fatto», tuona, e il discorso non fa né una grinza, né, tuttavia, le fusa ai suoi seguitori da social, secondo i quali va bene tutto ma... un'interrogazione parlamentare su una roba simile... con i tempi che corrono... con tutti i problemi che abbiamo... Intanto, fra le volpi alacremente al lavoro sulle tracce (inesistenti) di Grisù, probabilmente c'è qualcuno che si ricorda della Lettera rubata, il racconto di Edgar Allan Poe in cui, dopo tanto cercare, si scopre che ciò che si cercava era esattamente dove era stato messo. In altri termini, Grisù era fino a ieri, quand'è stata ritrovata, alla stazione di Pescara. I gatti, anche quelli di casa, magari pigri, anziani e sovrappeso, se la sanno cavare in mille occasioni. Ma chiedere alla Nostra eroina di fare il biglietto di ritorno sarebbe stato troppo. Ha preferito aspettare la coincidenza. Che per fortuna è arrivata.

Gatti, cosa significano i loro comportamenti. Francesca Robetti il  31 ottobre 2019 su momentocasa.it.

1) Saluta. Se noti che il tuo gatto batte costantemente il muso contro le gambe o il viso, non c’è nulla di strano anzi, secondo gli esperti, è il loro unico modo di salutare ed esprimere il loro affetto. Infatti, strusciandosi addosso ad una persona, i gatti trasferiscono i loro feromoni e segnano come proprio l’individuo in questione.

2) Cosa significano i loro sguardi. Secondo gli esperti, i gatti utilizzano gli occhi per mostrare il loro affetto o il proprio disappunto. Infatti, se ti guardano e sbattono le palpebre lentamente, ti fanno sapere che ti amano. Invece, se ti stanno fissando, probabilmente stanno cercando di attirare l’attenzione, ma gli sguardi lunghi e intensi sono generalmente usati come una minaccia.

3) Perché danno fastidio. Non importa quanto ami i gatti, ci sono probabilmente momenti in cui ti danno fastidio e si divertono a interrompere le tue attività quotidiane e, a volte, leggere un libro o guardare un film sul laptop senza farli saltare sopra è una missione davvero impossibile. Questo comportamento invadente indica che ha bisogno di attenzioni e smetterà solo quando lo accarezzerete.

4) Perché impasta con le zampe. Se noti che il tuo gattino sta impastando parti morbide del tuo corpo con le proprie zampe, è possibile che stia cercando lo stesso comfort che ha provato con la madre, premendo sulle ghiandole mammarie per bere il latte. Di solito, impastare con le zampe, è un gesto che fanno quando sono contenti o cercano sollievo dallo stress.

5) Quando annusano il viso. I gatti non sarebbero gatti se non fosse per la loro curiosità contagiosa e, grazie al loro fiuto, riescono a capire subito chi li circonda. Infatti, non c’è bisogno di avere paura se il tuo amico felino si avvicina al tuo viso per annusare, perché stanno semplicemente cercando un modo per confermare che non sei un estraneo. Respirare il tuo profumo è molto confortante per loro e li aiuta a sentirsi a proprio agio.

6) Masticare costantemente. Non tutti i comportamenti sciocchi mostrati dal tuo gatto sono divertenti. Se noti che l’animale mastica costantemente cose che sarebbe meglio non ingerire, è consigliabile parlarne con il proprio veterinario. Infatti, questo gesto potrebbe significare che l’animale soffre di ansia o stress. Per questo, assicurati di chiedere una consulenza professionale una volta che accade, poiché è anche estremamente dannoso per il loro sistema digestivo e ricordati che molte piante e fiori sono tossici per i gatti.

7) Strani regali. Se c’è una creatura in questo universo da cui cui preferiresti non ricevere regali è il tuo gattino. La maggior parte dei proprietari di animali domestici ha avuto a che fare con uccelli morti o topi che hanno ricevuto in regalo dal proprio gatto e non è un’esperienza così piacevole. Nonostante si possa rimanere disgustati da questo comportamento, in realtà è un segno di affetto. Infatti, quando il tuo gatto era ancora un cucciolo, sua madre gli portava da mangiare e ora sta cercando di dire “grazie per esserti preso cura di me” facendo la stessa cosa.

8) Rotola sulla schiena. Se noti che il tuo gatto è sdraiato sulla schiena e rotola, probabilmente sta cercando di attirare la tua attenzione per un motivo. I gatti di solito lo fanno quando sono in vena di giocare ed è segno che stanno cercando di coinvolgerti nel loro gioco. Però, un’altra possibile spiegazione, è che stiano solo marcando il territorio depositando il loro profumo sul tappeto. Qualunque sia il caso, non fa male giocare un po’ con lui, per assicurarsi che sia di buon umore.

9) Correre velocemente in una stanza. Ti è mai capitato di vedere il tuo gatto correre a tutta velocità in una stanza? Cosa significa quando accade? I gatti che vivono in casa e hanno poche possibilità di uscire liberi, diventano facilmente irrequieti perché raramente riescono a cacciare e questo strano comportamento è il loro modo di rilassarsi. Un improvviso scoppio di intensa attività è a volte il loro unico modo per liberare la loro energia ma c’è qualcosa che puoi fare al riguardo. Giocare con regolarità con lui lo aiuterà a consumare parte di questa energia repressa e non correrà come un matto così spesso.

10) Sdraiato con le gambe aperte. Se il tuo gatto si sente rilassato in compagnia di altre persone, noterai che si sdraierà con le gambe aperte. I gatti si sentono molto vulnerabili con le gambe distese e la pancia esposta ma se lo fanno vicino a te ti sarai finalmente guadagnato la loro fiducia. Difatti i gatti, assumono questa posizione solo quando sono certi che non ci siano minacce in giro e vederli così spesso è davvero un ottimo segno, perché dimostra che si sentono molto rilassati e a proprio agio in casa che non hanno paura di essere vulnerabili.

11) Animali notturni. Il tuo gatto di solito non ha il tuo stesso programma per la notte e raramente si addormenta dopo che le luci sono spente. Infatti, a calar del sole, sono estremamente attivi, il che può essere un problema se il loro forte lamento ti impedisce di addormentarti. I gatti di solito lo fanno quando stanno cercando di catturare la loro preda all’interno della casa ma può anche essere un segno di frustrazione. L’unica soluzione a questo problema è di dedicare un po’ di tempo a giocare con lui durante il giorno in modo che si stanchi e si addormenti quando lo fai anche tu.

·        Topi o Scoiattoli?

Marco Belpoliti per doppiozero.com il 21 agosto 2021. Cip e Ciop, Squitto, Alvin, Rodney, eccetera. Perché gli scoiattoli piacciono così tanto a grandi e piccini? Per la loro coda? Per la rapidità dei loro movimenti? Perché saltano di ramo in ramo? Perché salgono e scendono dagli alberi con grande agilità e eleganza? Gli scoiattoli hanno senza dubbio qualcosa di speciale, tanto speciale che ci rifiutiamo di considerarli semplici roditori affini ai topi e ai ratti, così che quando li incontriamo nei parchi cittadini ci diamo da fare per cercare di farli avvicinare fino a prendere il cibo dalle nostre mani. Perché? Da molti anni gli scoiattoli vivono accanto a noi e non più nelle foreste. Nei grandi giardini e negli spazi alberati delle città sono così abituali e consueti da essere oramai parte della fauna stanziale, mentre, come scrive il biologo ed ecologo Josef H. Reichholf in Scoiattoli & Co. (tr. it. di Elena Sciarra, Aboca) molti bambini delle zone rurali oramai conoscono questo roditore solo per averlo visto sui libri illustrati. Nella classifica, seppur provvisoria, degli animali più famigliari occupa un posto in alto insieme a conigli, volpi, ratti, topi, ricci. La prima caratteristica evidente degli scoiattoli è la loro dentatura: due robusti incisivi, sia nella mandibola superiore che in quella inferiore. L’ordine cui appartengono è appunto quello dei Rodentia, uno dei più ricchi di specie, oltre 2280, e i suoi membri son ben lungi dall’essere stati identificati tutti. Allo stato attuale delle conoscenze i roditori sono circa la metà di tutte le specie di mammiferi esistenti. Le loro dimensioni sono molto variabili: si va dai topi minuscoli del peso di qualche grammo al castoro europeo che ha una stazza di 30 chili e anche più. La sua parentela con i topi, i roditori che s’accompagnano da sempre all’umanità, è così stretta che, come suggerisce Reichholf, basterebbe fornire un mantello a un topo e aggiungergli una coda per confonderlo con uno scoiattolo vero e proprio per quanto il muso dello scoiattolo sia appuntito e quello del topo invece rotondo. Gli Sciuridi, famiglia a cui lo scoiattolo appartiene, sono saliti sugli alberi molto tempo fa, e ne hanno fatto il loro habitat naturale. Scendono i tronchi come se percorressero una strada e sono capaci di grande velocità nei movimenti, in più sono ottimi saltatori. Affusolati, dalla punta del naso alla coda sono lunghi tra i 18 e i 27 centimetri – la coda da sola misura 14-20 centimetri –, mentre la coda dei ratti è nuda. Probabilmente è proprio questo aspetto a farli risultare repellenti alla maggior parte degli esseri umani. Quella dello scoiattolo è particolarmente graziosa e anche il colore del mantello, per lo più rossiccio o marrone scuro, ci risulta piacevole. Ci sono anche scoiattoli quasi neri in Asia e grigio argento, ma il loro ventre è quasi sempre bianco. Sono colori che ci piacciono, mentre il grigio o il nero scuro dei topi e ratti ci repelle in qualche modo. Tuttavia sono gli occhi dello scoiattolo che ci colpiscono: nero lucente. Un tratto che viene messo bene in luce nei disegni delle illustrazioni e nei cartoni animati di cui sono protagonisti – come dimenticare i dispettosi Cip e Ciop con i loro occhioni? Sono entrati nel mondo Disney nel 1943 e ci sono rimasti a lungo. Gli scoiattoli usano le zampe anteriori come se fossero delle mani per manipolare cose e reggerle. Anche i topi lo sanno fare, ma non con la medesima destrezza, che è accentuata solo nei film di animazione dove i topi sono protagonisti e si levano in piedi come se fossero esseri umani, dei bipedi, a nostra immagine e somiglianza – un inconscio ottico anche questo? Reichholf mette a fuoco il problema fondamentale che riguarda l’anatomia e il destino dello scoiattolo: il cibo. Quello che gli serve per vivere è grossomodo quello che consumiamo noi, naturalmente in proporzione alle loro dimensioni. Per mantenere la sua temperatura corporea più elevata della nostra, vivendo spesso in zone molto fredde, e per muoversi con quella velocità ed agilità, lo scoiattolo consuma una enorme energia per cui gli serve cibo in abbondanza e continuamente, anche per la forma del suo apparato digerente. Il fatto che questo non lo trasformi in una sorta di divoratore continuo e pericoloso come il topo, è interessante. Gli scoiattoli sono più moderati di questi roditori che ci assediano e che mangerebbero tutto ciò di cui noi umani ci nutriamo e di cui facciamo provvista. Questa è la ragione per cui li consideriamo nocivi, oltre che portatori passivi di malattie come la peste. Gli scoiattoli, scrive Reichholf, non hanno mai superato la “soglia del danno”, o se lo hanno fatto è stato per ragioni particolari e in circostanze spesso irripetibili. Il paragone con i topi è importante per capire le particolarità degli scoiattoli, Dove ci sono gli uomini, lì ci sono sempre anche i topi. La loro società è l’esatto calco della società umana. Il termine “topo” è un’invenzione letteraria, perché in zoologia non esiste un animale con questo nome. Il termine scientifico che lo indica è Mus musculus, che corrisponde al cosiddetto il topo domestico; c’è poi l’Apodemus selvaticus, la versione selvatica, della famiglia dei Muridi, e l’Elyomys quercinus, il topo quercino, della famiglia dei Gliridi, quindi lo Jaculus jaculus, il cosiddetto topo delle piramidi della famiglia dei Dipoidi, e molti altri. Così la distinzione tra topi e ratti non è compresa nelle classificazioni zoologiche. La famiglia dei Muridi, cui appartiene il “topo” comprende 83 generi di animali, tra cui il Mus e il Rattus; del primo sono presenti in Italia più di 300 sottospecie, poi evolute nel corso del tempo, e così anche per il Rattus. La storia dei topi è dunque connessa con quella degli uomini a partire da quando, sessanta milioni di anni fa, si estinsero i dinosauri, dominatori del pianeta, e cominciarono ad emergere i mammiferi, cui appartengono sia gli uomini che i topi. Occorsero però altri milioni di anni a entrambi per conquistare la superficie del Pianeta. Questo formidabile animale così come lo conosciamo ora proviene dall’Asia, dai deserti, dalle steppe e dalle foreste di quel continente. Fu nel VII secolo a.C. che le popolazioni indiane si resero conto che la presenza dei ratti e topi era diventata endemica nelle loro abitazioni e presso i granai. Seguendo gli spostamenti delle genti e dei commerci, i topi entrarono successivamente in Africa. Così in Egitto il Rattus alexandrinus diventò commensale delle riserve alimentari dei faraoni e s’incrociò con altri tipi di ratti dando vita al Rattus rattus. Com’è arrivato in Europa diventando l’abitante stanziale delle nostre città? Secondo alcuni sarebbe giunto nel XII secolo dentro le navi dei crociati di ritorno dalla Terra Santa; in realtà il Rattus si trova già effigiato in bronzi votivi etruschi e su monete romane circolanti in varie regioni. Quello che aveva trovato posto sulle imbarcazioni cristiane fu un ratto molto aggressivo e vorace, che dovette poi contendere il proprio territorio nel corso del XVIII secolo all’ancora più terribile Rattus norvegicus, chiamato così perché creduto originario della Norvegia, in realtà arrivato prima, probabilmente anch’esso dall’Asia. Si ipotizza che sia stato un terremoto devastante del 1727 in Asia centrale a produrre la diaspora decisiva del norvegicus verso l’Europa da città come Calcutta. Qual è il segreto del successo dei topi? La loro sbalorditiva prolificità, che ne ha fatto sin dall’antichità un emblema della sessualità e li ha elevati presso alcuni popoli a divinità. La femmina del ratto ha sei paia di mammelle, va in calore da sei a otto volte l’anno per una durata di sei ore. In questo tempo viene corteggiata da molti maschi e si unisce a loro. Può essere coperta in questo tempo da trecento a cinquecento volte. Se poi si pensa che la gestazione è molto corta, ed è precoce nella capacità sessuale, si capisce come mai i topi si riproducano così velocemente e in numero così cospicuo. Il Rattus norvegicus, che infesta oggi le nostre metropoli, è invece al confronto meno prolifico. Sessualmente maturo dopo otto-dodici settimane, si riproduce tre o cinque volte l’anno con una gravidanza di tre-quattro mesi, e dà alla luce da quattro a dodici piccoli. Vive circa tre anni e, se si calcola quanti topi si generano in questo lasso di tempo – centosettanta circa –, si arriva a computare che dalla discendenza di un solo ratto in tre generazioni di nove anni complessivi si producono 2.197.000 norvegicus. C’è un altro aspetto sconcertante che spiega la forza d’impatto dei topi al di là della lotta che gli uomini conducono contro di loro: una femmina che ha partorito almeno una volta è in grado di riprodursi senza accoppiarsi. Non si è ancora capito bene come sia possibile, ma le femmine del ratto possono ritenere gli spermatozoi o gli zigoti. Si sa per certo che una femmina incinta di un ratto maschio, se ne incontra un altro che le piace di più, è in grado di far regredire i feti concepiti a vantaggio di una nuova gestazione dopo l’accoppiamento con il nuovo partner. Il Mus musculus, meno pericoloso e di minori dimensioni rispetto al norvegicus, è con noi da almeno 23.000 anni, ben prima che le fogne diventassero l’habitus ideale per i ratti. I topolini, invece, quelli trasformati da Walt Disney in personaggi amati dai bambini, come accade nel cartone animato Cenerentola – l’affettuoso e soccorente Gas Gas – sono arrivati attraverso lo Stretto di Gibilterra circa quattromila anni fa, e hanno colonizzato il nostro continente, scendendo poi verso la Pianura Padana. Sono state le nostre abitazioni a fornire loro il domicilio migliore, sotto i nostri piedi o sopra le nostre teste: cantine e solai. Così il loro esercito composto da musculus e domesticus abita con noi, cercando di sfuggire al loro stretto parente il Rattus rattus. C’è da dire che i topi e i ratti hanno raggiunto, come sostengono gli studiosi, una forma pressoché perfetta, dato che da milioni di anni non subiscono più grandi trasformazioni e reggono bene le sfide ambientali in corso, candidandosi a nostri successori, visto che persino gli insetti, veri dominatori del Pianeta, cominciano ad estinguersi a causa delle nostre azioni sul sistema ecologico terrestre. In un suo celebre romanzo, La ratta, lo scrittore tedesco Gunther Grass ha elevato questo animale a testimone terminale della nostra estinzione. La storia dei topi è anche la storia della più terribile malattia di cui essi sono potenziali portatori: la peste. Attraverso una pulce, che li frequenta da tempi lontanissimi, hanno generato la strage nelle nostre città a partire dal 161 d.C. Lo Yersinia pestis, il bacillo scoperto solo nel 1894, ha sterminato gran parte della popolazione europea tra il 1347 e il 1351, e si è manifestato l’ultima volta nel nostro paese nel 1945 a Bari. Ancora oggi i ratti e i topolini si alimentano delle nostre deiezioni, corrono dentro i condotti fognari, s’infilano nei solai e nelle cantine senza che riusciamo ad eliminarli una volta per tutte. Anzi, siamo noi gli allevatori dei topi e dei ratti grazie ai rifiuti abbandonati per le strade delle città. La lotta contro di loro è estenuante, e non è detto che la vinceremo. Più probabile che avvenga il contrario. La nicchia ecologica che definisce lo scoiattolo è legata come il topo al cibo e poco a fattori ambientali. La prerogativa dell’Homo sapiens è stato quello di adattarsi a tutti i climi e le latitudini, anche le più estreme e difficili; siamo tra gli abitanti del pianeta quelli che più si sono emancipati dalla dipendenza diretta dall’ambiente. Salvo poi incontrare problemi nella sua gestione come dimostrano le catastrofi ambientali attuali. Gli scoiattoli esprimono uno dei molti stadi intermedi di emancipazione dalle condizioni esterne. Sono, come scrive Josef H. Reichholf, liberi e flessibili. E forse questa è la ragione per cui nutriamo verso di loro una particolare forma di simpatia. Il capitolo sulla alimentazione di questo roditore è assai interessante. Gli scoiattoli sono molto interessati all’età degli alberi e meno alla specie cui appartengono, dal momento che si nutrono di semi che gli alberi producono a partire da una loro determinata età. Noi umani siamo abituati a trovare i frutti degli alberi in bella vista sui banchi dei fruttivendoli e, distaccati come siamo dalla coltivazione diretta delle piante, non ci rendiamo conto che gli alberi fruttificano in modo irregolare e spesso imprevedibile, per quanto la moderna agricoltura abbia messo a punto tecniche di coltivazione innovative per condizionare gli alberi da frutto. Il fabbisogno alimentare degli scoiattoli dipende dalla stagione in cui sono più attivi. In primavera è al massimo: 80 grammi di cibo al giorno. In quel momento dell’anno devono recuperare il peso perso durante l’inverno, poi ci sono i piccoli da sfamare. In inverno dorme molto e si muove poco. Poiché l’età massima raggiunta da questo roditore è dieci anni, se tutto gli va bene, attendere che una quercia giovane produca ghiande è impossibile. La quercia cresce lentamente, ma una volta raggiunta l’età e la dimensione giusta per fruttificare, può produrre ghiande per otto secoli e più. Per cui è importante per lo scoiattolo che nel bosco vi siano querce di età differente. Una decina di querce grandi sono in grado di sfamare famiglie di scoiattoli per generazioni e generazioni. Per un singolo animale servono 30 chili di ghiande in un anno. Purtroppo per loro non sono gli unici che si nutrono di ghiande: tra altri animali e insetti, la gara per accaparrarsi le ghiande non è sempre semplice. In Europa poi le annate di grande abbondanza degli abeti – altra fonte di nutrimento – si succedono a intervalli decennali o poco più, seguendo all’incirca l’andamento ciclico delle macchie solari, e raggiungono il culmine ogni undici anni, quando l’attività del Sole raggiunge il suo massimo. Per cui vi sono periodi di magra nella produzione di pigne, ma anche di noci e nocciole, altro cibo preferito dagli scoiattoli. L’osservazione delle pratiche nutritive degli scoiattoli ha spinto i biologi a studiare i rapporti fra le varie specie, e anche in rapporto con gli alberi e come si diffondano le varie piante all’interno dei boschi. Oggi non esistono più, almeno in Europa, con qualche piccola eccezione, foreste che non siano state segnate dall’azione dell’uomo, e l’alterazione dell’ecosistema ha indotto gli scoiattoli ad adattarsi alle mutazioni portate dall’agricoltura e dalla coltivazione umana. La diffusione attuale degli scoiattoli rimonta all’era glaciale, un lasso di tempo di vari millenni caratterizzato dall’avanzata dei ghiacci e da inverni particolarmente rigidi. Questo ha influito sulla diffusione degli scoiattoli spingendoli in zone con climi meno duri e determinando una differenziazione tra le varie forme che ha assunto questo roditore. Ad esempio, gli scoiattoli giapponesi sono dal punto di vista genetico abbastanza autonomi da essere classificati come una specie a sé, pur non avendo affrontato nessuna prova per imporsi su quelli euroasiatici. Lo studio degli scoiattoli, come quello dei topi – la famiglia degli Sciuridi è affine a quella dei Muridi cui appartengono i topi, come si è detto – è assai interessante per capire il meccanismo che lega la riproduzione e la durata della vita delle varie specie animali. I ratti raggiungono una maturità sessuale molto prima degli scoiattoli. Le femmine nate all’inizio dell’anno diventano fertili prima che questo abbia termine; già a sette mesi il loro corpo è in grado di ospitare dei nascituri. Nei successivi quattrodici mesi sono altamente produttive, poi passano a uno stato somigliante a quello che nelle donne è la menopausa. Tutto questo nell’arco di un anno e mezzo. Perciò a quel punto sono già anziane. Alla medesima età gli scoiattoli femmina cominciano a riprodursi. Cosa strana, perché entrambi, topi e scoiattoli, hanno il medesimo peso. L’altra cosa curiosa, o almeno così pare, è il fatto che pur essendo molto mobili e attivi, gli scoiattoli vivono più lentamente. La ragione di questa lentezza a riprodursi rispetto ai topi dipende dalla temperatura corporea degli scoiattoli: hanno una superficie assai maggiore attraverso cui il calore va perduto, e per mantenere costante la loro temperatura, che si aggira tra i 38-40 gradi, lo scoiattolo deve “scaldarsi” il più possibile. Cosa che i topi fanno abitando le fognature o altri luoghi negli edifici costruiti dagli uomini. In conclusione, scrive Reichholf, corporatura e stile di vita limitano la riproduzione negli scoiattoli, mentre i ratti si moltiplicano a una velocità impressionante quando le condizioni di vita sono propizie, cioè quando c’è sufficiente cibo. Chi si riproduce molto in fretta ha una vita breve. Si pensi in questo caso alle balene, che si riproducono con molta lentezza e in numero limitato. Un esempio citato da Reichhopf è quello delle cornacchie che raggiungono una età avanzata. La loro vita si svolge a tutta velocità ma non rischiano nessun infarto o stress e vivono a una temperatura corporea di 42 gradi, che per noi sarebbe impossibile. Noi oggi viviamo più a lungo per via dell’alimentazione, del riscaldamento delle case e per le cure mediche, ma dal punto di vista biologico siamo un’eccezione, gli altri mammiferi, comprese le scimmie antropomorfe, vivono meno di noi umani. Tra gli animali terrestri più grandi solo gli elefanti vivono una vita così lunga da paragonarla alla nostra. Gli scoiattoli, conclude Reichhopf, ci hanno introdotto a un importante fenomeno alla base dell’esistenza: l’aspettativa di vita. Non è una cosa da poco. Su cui cominciare a riflettere, vista la situazione del Pianeta. 

·        Le Api.

Dagotraduzione dal DailyMail il 26 maggio 2021. Due api da miele hanno unito le loro forze per aprire una bottiglia di Fanta. Il filmato, catturato a San Paolo, in Brasile, mostra le due api che si posizionano su entrambi i lati della bottiglia e usano le gambe per spingere il tappo verso l'alto. Pochi istanti dopo, le api riescono a sollevare la parte superiore della bottiglia e guardarla cadere a terra. La scena, ripresa il 17 maggio, è stata poi pubblicata sui social. «Il video è stato registrato durante la mia pausa pranzo dal lavoro. Ho preso una bibita da un cliente, ma presto le api me l'hanno rubata» ha detto l'autore del filmato. Studi scientifici hanno fatto luce su come le api lavorano insieme e cooperano tra loro. Per esempio, nel 2018, i ricercatori dell'Università di Harvard hanno scoperto che quando l’alveare viene scosso le api restano unite e si muovono in sciami. Dopo mesi di studi, hanno dimostrato che le api possono percepire la direzione in cui si stanno muovendo le loro vicine per imitarne i movimenti. Anche la passione delle api per tutto ciò che è dolce è ben nota, ma nel 2016 gli scienziati della Queen Mary University di Londra hanno scoperto che bere una piccola goccia di acqua zuccherata ha permesso agli insetti di entrare in uno stato emotivo simile all'ottimismo umano. I ricercatori hanno posizionato del cibo su un fiore blu e lasciato vuoto un fiore verde, addestrando le api a collegare determinate sfumature di fiori con il cibo. Gli scienziati hanno quindi confrontato le api con un nuovo fiore blu-verde per esaminare la loro reazione. Le api a cui hanno somministrato una goccia di acqua zuccherata prima di essere liberate impiegavano meno tempo ad atterrare sul fiore blu-verde. Gli scienziati hanno detto che questo indicava che l'acqua dolce aumentava il buon umore delle api. L'autore senior, il professor Lars Chittka, ha dichiarato: «La scoperta che le api mostrano non solo livelli sorprendenti di intelligenza, ma anche stati emotivi, indica che dovremmo rispettare le loro esigenze quando le testiamo in esperimenti e fare di più per la loro conservazione». D’accordo anche il coautore Luigi Baciadonna: «Il cibo dolce può migliorare gli stati d'animo negativi negli adulti umani e ridurre il pianto dei neonati in risposta a eventi negativi.  I nostri risultati suggeriscono che risposte cognitive simili si stanno verificando nelle api».

·        Gli Uccelli.

Dagotraduzione dal Guardian il 6 giugno 2021. Al mondo ci sono circa 50 miliardi di uccelli e 10.000 specie diverse. A calcolare la popolazione dei volatili ci ha pensato l'Università del New South Wales, in Australia, che ha sfruttato le osservazioni dei "cittadini scienziati" per le sue stime. Nonostante il numero di uccelli sia quasi sei volte quello degli esseri umani, molte specie sono rare. Quattro appartengono a quello che viene definito "il club del miliardo", hanno cioè una popolazione superiore al miliardo di esemplari: si tratta del passero domestico, dello storno europeo, del gabbiano dal becco ad anelli e della rondine del granaio. I ricercatori hanno sviluppato stime per 9.700 specie, tra cui pinguini, emù e kookaburra, attingendo a centinaia di milioni di osservazioni di uccelli registrate dai birdwatcher su eBird, uno dei più grandi progetti di "citizen science" sulla biodiversità al mondo. Hanno unito i dati alle osservazioni scientifiche professionali e ideato un algoritmo che calcolasse i numeri della popolazione per quasi tutte le specie. Il team di scienziati ha scoperto che c'erano relativamente poche specie di uccelli comuni, ma un gran numero di specie rare. «Possono essere rari per ragioni naturali - vivono davvero solo su un'isola o sulla cima di una montagna per esempio - o possono essere rari per via degli esseri umani», ha detto Will Cornwell, un ecologo dell'UNSW e uno degli autori principali dello studio. «L'intera idea è nata dal fatto che ci sono alcune specie di uccelli davvero studiate a fondo», ha detto Cornwell. «E poi c'è questa enorme raccolta di dati dei cittadini scienziati che viaggiano in tutto il mondo contando ogni uccello che vedono. «Il vero grande passo avanti è stato unire i dati scientifici con i dati di citizen science e quindi colmare il divario per gli uccelli che non sono stati studiati da scienziati professionisti». Cornwell ha poi precisato che c'erano ancora alcune incertezze nelle cifre e i ricercatori hanno pianificato di perfezionare il modello man mano che si verificava una ricerca più professionale su più specie. La ricerca ha evidenziato le lacune nelle informazioni causate dalla significativa attenzione scientifica rivolta alle specie di uccelli nelle parti sviluppate del globo rispetto ai paesi in via di sviluppo e la necessità di affinare le stime della popolazione globale per tutte le specie. Gli scienziati condurranno un altro ciclo di stime tra pochi anni.

·        Le Zanzare.

Alex Saragosa per “il Venerdì di Repubblica” il 22 agosto 2021. A cosa si devono la nascita della civiltà Occidentale, la salvezza di Roma dagli Unni, la conquista delle Americhe e l'abolizione della schiavitù negli Usa? Al nostro peggior nemico: le zanzare. Naturalmente questi insetti, che usano ben sei diverse appendici boccali per tagliarci la pelle, iniettare saliva anticoagulante e succhiare una gocciolina di sangue, sarebbero solo un fastidio, se non fosse che ben quindici fra virus, batteri e parassiti hanno imparato a usarle per passare da un ospite all'altro. «Si stima che la zanzara abbia ammazzato intorno a 50 miliardi di persone in 300 mila anni, circa la metà di quanti siano mai vissuti: è fra i pochi animali ad aver cambiato il nostro destino» dice Timothy Winegard, professore di storia alla Colorado Mesa University, che sull'argomento ha scritto il poderoso Zanzare (HarperCollins, pp. 576, euro 22). «Solo un centinaio delle 3.500 specie di zanzara, soprattutto dei generi Anophele, Aedes, e Culex, sono in realtà in grado di trasportare malattie. Ma non tutti i patogeni vengono digeriti dalla zanzara con il sangue che ha succhiato per poi trasferirsi nelle sue ghiandole salivari, così da essere iniettati alla vittima successiva. Nel caso di Covid-19, peste o Aids, i patogeni vengono sì aspirati con il sangue, ma sono poi distrutti nell'intestino dell'insetto e dunque non riescono a raggiungere indenni le sue ghiandole salivari». Sono bastate però le poche malattie che spargono nel mondo, dalla malaria alla febbre gialla, dalla dengue alle encefaliti, a rendere enorme il loro impatto sulla storia umana. Amplificato dal nostro aiuto: disboscando, irrigando e creando canali abbiamo moltiplicato le acque stagnanti che a questi insetti servono per moltiplicarsi. ovunque ma non in Antartide «Oltre a miliardi di sconosciuti, non sono pochi i leader storici stroncati da una puntura. Il più famoso è Alessandro Magno, deceduto a Babilonia nel 323 a.C. forse per la malaria contratta in India. Ma la stessa sorte toccò a tre imperatori romani, sette papi, e cinque sovrani del Sacro Romano Impero». La cosa che però riesce meglio ai letali ditteri è far fallire spedizioni militari. «Le zanzare vivono ovunque, Antartide a parte, e la malaria fino a cento anni fa era quasi altrettanto globale. Le persone si potevano abituare al ceppo locale, ma bastava esporsi a uno diverso e la malattia tornava feroce. Così la lista degli eserciti invasori decimati dalle zanzare è lunghissima, a partire da quelli persiani che nel V secolo a.C. cercarono di sottomettere la Grecia, finendo tanto indeboliti dalla malaria da essere sconfitti: senza zanzare forse la civiltà Occidentale sarebbe morta lì. Annibale e gli Unni evitarono di assediare Roma spaventati dai suoi famigerati acquitrini malarici, così come l'esercito mongolo nel XIII secolo, arrivato in Ungheria, rinunciò a devastare l'Europa perché l'idea di attaccare decine di città "difese" da mortali paludi lo fece desistere. Le zanzare della Terra Santa diedero una mano al Saladino a decimare i Crociati, così come fermarono fino al XIX secolo le mire europee sull'Africa tropicale: quella è la terra di origine della malaria umana, le popolazioni locali hanno adattamenti genetici per resisterle, ma gli invasori europei morivano come mosche fino all'arrivo del chinino». Ma le zanzare non sono sempre state alleate dei difensori. Di certo non in America. «Le prime popolazioni umane erano arrivate lì ripulite dai plasmodi malarici grazie ai secoli passati nella glaciale Siberia. Così nel Nuovo Mondo non c'erano malattie trasmesse dalle zanzare. Ma fin da Colombo gli europei portarono in America nel loro sangue tanti nuovi patogeni, fra cui i plasmodi, che le Anopheles locali si rivelarono bravissime a diffondere. La malaria fece una tale strage fra gli amerindi, che quando i primi conquistadores arrivarono in Florida, trovarono i villaggi già spopolati dal morbo». E quella guerra batteriologica involontaria, non finì lì. «Visto che gli indios morivano in massa, gli europei pensarono bene di importare schiavi africani, che però avevano nel sangue i virus mortali di febbre gialla e dengue. Questi, sulle ali delle locali zanzare Aedes, contribuirono alla strage di 95 milioni di persone nelle Americhe consegnandole, ormai svuotate, agli europei». dalla parte degli spagnoli Ma presto le zanzare tornarono a "giocare in difesa". «È grazie a loro che Caraibi e Centroamerica sono rimasti in gran parte spagnoli: britannici e francesi fecero di tutto per prendersi le ricchezze, ma nugoli di zanzare infette con malattie a cui gli spagnoli, dopo secoli, si erano un po' adattati, li respinsero. La Scozia, poi, nel 1698 spese così tanto per conquistare Panama, abbandonata dopo pochi mesi perché metà dei coloni era morta di febbri, da doversi unire all'Inghilterra per uscire dalla rovina. In Guyana, morirono 11 mila dei 12 mila coloni, prima che la Francia si arrendesse alle zanzare, e decidesse di usarla solo come prigione. Per questo le due nazioni, alla fine, si "accontentarono" del Nord America: lì, almeno, malaria e febbre gialla c'erano solo d'estate». Paradossalmente, però, alle zanzare, si dovrebbe anche la fine della schiavitù negli Stati Uniti. «Gli stessi Usa sono nati anche grazie a loro, visto che decimarono l'esercito inglese inviato contro i ribelli di George Washington. Durante la guerra di secessione, però, furono gli eserciti del Nord a trovare zanzare infette ad accoglierli a Sud, impedendogli una veloce vittoria. Così la guerra, iniziata solo per riunire la nazione, si trascinò a lungo e richiese truppe nordiste di colore per proseguire. Solo allora Abramo Lincoln si convinse che la schiavitù andasse abolita del tutto». Ma vista la terribile efficacia, non è mai venuta la tentazione di usarle come arma? «Nel 1944 in Italia, quando l'esercito americano sbarcò ad Anzio, i tedeschi distrussero le opere di bonifica delle paludi pontine per ripopolarle di anofele infette. L'effetto sugli americani fu nullo, avevano Ddt e farmaci, ma nel 1944 morirono di malaria intorno a Roma 55 mila italiani, contro i 33 mila del 1939».

·        I Cavalli.

Lo stallone berbero di Mattarella. Francesco Bei su La Repubblica il 13 novembre 2021. Alla scoperta di “Acciaio” e della antica razza africana che fece innamorare anche Napoleone. Uno splendido stallone purosangue berbero, anzi arabo-berbero. Un dono inaspettato, che ha lasciato a bocca aperta l’intera delegazione italiana. In occasione della visita di Sergio Mattarella in Algeria, la prima di un capo di Stato europeo dopo l'insediamento di Abdelmadjid Tebboune, il neo presidente algerino ha regalato all’ospite italiano il grigio “Fouledh”, che in arabo si può tradurre con “acciaio”. Non un cavallo qualsiasi, ma di sangue blu. La notizia è passata come una piccola curiosità esotica, una nota di colore nei pezzi degli inviati. Eppure nella cultura araba, dietro quel regalo, si nascondeva anche un preciso significato politico. Come ha notato in un’intervista all’Ansa l’ambasciatore italiano ad Algeri, Giovanni Pugliese, si è trattato infatti di “un gesto di particolare attenzione” da parte del presidente algerino perché “qui in Algeria regalare un cavallo è una delle più grandi attestazioni di stima e di rispetto nei confronti di un leader straniero”. Fouledh è nato il 19 aprile 2018 da padre El Faras (“il cavallo”, classe 2013) e madre Hidjaba (“la risposta”, classe 2002). Il pedigree del padre risale fino al 1942; quello della madre fino al 1945. Il berbero, considerato a torto in Occidente come una sorta di cugino povero del più famoso “arabo”, è al contrario un cavallo le cui origini affondano nella Storia con la maiuscola. La cavalleria numida, assoldata dai romani, cavalcava questi piccoli destrieri mansueti, velocissimi e frugali. Quei formidabili guerrieri li vediamo raffigurati sulla colonna Traiana: hanno capelli come dei Rastaman, cavalcano a pelo, guidando i loro cavalli berberi con un collare, senza nessuna imboccatura, comandando gli animali solo attraverso la voce. Anche i cartaginesi conoscevano bene i berberi e li facevano correre all’interno dell’Ippodromo di Cartagine. Saltando i secoli e la conquista araba della Spagna (ancora i berberi protagonisti), Napoleone si innamorò in Egitto di uno stallone di questa razza, fra l’altro con un mantello molto simile a quello regalato a Mattarella dagli algerini, e mai più si volle separare dal suo fidato Marengo, ritratto nel celeberrimo quadro di Jacques Louis David mentre si impenna sui posteriori. Marengo portò Napoleone in lungo e in largo attraverso l’Europa e mille campi di battaglia, capace di percorrere anche 50 miglia in una giornata. Da vero reduce della vecchia guardia, il cavallo fu ferito (almeno) otto volte sia di spada che con il piombo. Catturato infine dagli inglesi a Waterloo, visse in Gran Bretagna fino al record di 38 anni e il suo scheletro è ancora esposto al National Army Museum di Londra. Un’altra testimonianza del carattere particolare di questa razza: nel 1918, la Cavalleria Francese d’Africa si dotò dei berberi e il generale Juinot-Gambetta li esaltò come indomiti compagni d’arme. “I nostri cavalli berberi – scrisse - si mostrano ammirevoli per l’abilità con la quale affrontano la terribile salita. Infatti, per raggiungere questo nodo ferroviario dietro al fronte e impedire la ritirata del nemico, i cavalieri avevano dovuto attraversare un massiccio, là dove altri cavalli non avrebbero saputo venirne fuori: un’audace manovra”. Dai francesi ai tedeschi: Rommel, la volpe del deserto, li impiegò per giungere alle porte di Mosca. Tornando al nostro meraviglioso puledrone Fouledh, la sua gestione è ancora in capo alla Guardia Repubblicana della Presidenza della Repubblica algerina. Il protocollo sanitario prevede adesso che il cavallo sia messo in quarantena e sotto sorveglianza medico-veterinaria. Come un atleta, gli sono state fatte diverse analisi che sono state mandate in Germania in un laboratorio specialistico e si attendono i risultati. Poi, espletate tutte le necessarie verifiche fitosanitarie, gli algerini si occuperanno del trasporto in Italia. Dove verrà ospitato il nuovo stallone? Ancora non c’è nulla di ufficiale, ma dal Quirinale la voce è che andrà ad abitare nella tenuta presidenziale di Castel Porziano. Con 60 ettari di boschi, prati e persino la spiaggia a sua disposizione, entrerà nel branco di cavalli della tenuta. Fianco a fianco con i famosi maremmani  del Presidente.

Progetto Islander, così Nicole Berlusconi ha tratto in salvo 500 cavalli. Francesco Bei su La Repubblica il 5 novembre 2021. Tenuta di Angera, sul Lago Maggiore, qui nasce la onlus che si occupa dei cavalli maltrattati, torturati, affamati da proprietari e allevatori senza scrupoli. La nipote del leader di Forza Italia “Nel team siamo una decina, ognuno con una sua responsabilità. C’è chi si occupa delle segnalazioni su cavalli sfruttati o maltrattati, chi dell’adozione, ci sono i volontari. E poi collaboriamo con tanti veterinari, etologi e una rete di amici in tutta Italia che ci assistono sia nel centro di recupero, sia per i cavalli che diamo in pre-affido e nei controlli post-affido”. “Questo è il mio posto magico, questa è la terra dei cavalli. In questo centro ho realizzato il mio sogno di bambina”. Nicole Berlusconi, 29 anni, ci porta con “Facetime” a vedere la tenuta di Angera, sul Lago Maggiore, dove di recente ha trovato casa la sua Onlus “Progetto Islander” con la quale ha già tratto in salvo oltre 500 cavalli maltrattati, torturati, affamati da proprietari e allevatori senza scrupoli. Sullo sfondo della videochiamata si intuisce un panorama che sembra il set della serie “Yellowstone”: campi, maneggi, paddock, cavalli, prati, boschetti…E’ da qui che Nicole, una ragazza molto tosta che non ha difficoltà ad ammettere di essere una “vera rompiscatole”, dirige le operazioni della sua truppa. 

Che nome è Islander?

“Si chiamava così la mia prima cavalla da salto, razza sella italiana”.

Quindi, prima di “sussurrare” ai cavalli, ha iniziato con il salto ostacoli sui pony?

“Ho cominciato a montare a undici anni, ma subito su un cavallo, saltando la tappa del pony. Ho fatto anche le mie garette, fino alle 130…”.

E poi?

“Poi mi sono iniziata a rendere conto di quello che girava intorno a quel mondo e ho abbandonato tutto. La mia passione per i cavalli nasceva anzitutto come amore verso gli animali, tutti gli animali. Al primo posto ho sempre messo il rispetto. E invece vedevo intorno a me tanto sfruttamento, la visione del cavallo come semplice mezzo agonistico e non come essere vivente. Quindi ho iniziato a distaccarmi. Ma non subito eh…anche io ho fatto parecchi errori. Ma era la normalità”.

Quale normalità?

“Il cavallo sempre chiuso in box 23 ore su 24, salvo uscire in campo per l’allenamento. Poi con l’esperienza e con le risposte che mi hanno dato gli stessi cavalli, ho aperto gli occhi e ho scoperto l’etologia, la doma dolce, il metodo naturale. E ho cambiato gestione. Ho messo da parte tutto quello che mi era stato insegnato e ho ricominciato da capo. E adesso, come può vedere, i nostri cavalli sono liberi di pascolare in paddock tutto il giorno”.

Quanti cavalli gestite al momento?

“Una settantina. Dieci sono miei, alcuni adottati tra quelli salvati dall’associazione. Poi teniamo a pensione anche 25 cavalli di clienti privati. Abbiamo 43 ettari a disposizione, è un paradiso, e lo spazio non manca. Ma non ci sono solo cavalli, c’è un po’ di tutto: asini, mucche, cani…E’ una vera azienda agricola”.

Concretamente, cosa fate e quanti siete?

“Nel team Islander siamo una decina, ognuno con una sua responsabilità. C’è chi si occupa delle segnalazioni su cavalli sfruttati o maltrattati, chi dell’adozione, ci sono i volontari. E poi collaboriamo con tanti veterinari, etologi e una rete di amici in tutta Italia che ci assistono sia nel centro di recupero, sia per i cavalli che diamo in pre-affido e nei controlli post-affido”.

Chi vi segnala gli abusi sui cavalli?

Molte sono segnalazioni che arrivano dai privati anonimi attraverso la nostra mail (segnalazioni@progettoislander.it). Li capisco…dati i soggetti coinvolti hanno paura di ritorsioni. A volte sono proprietari o persone che frequentano maneggi e si accorgono di qualche cosa di strano, altre volte sono cittadini che assistono personalmente a maltrattamenti”.

C’è omertà nel mondo dell’equitazione?

“Purtroppo sì, tanta”.

Le forze dell’ordine che ruolo hanno?

“Con loro abbiamo collaborato e collaboriamo spesso. Se effettuano un sequestro ci chiedono di diventare i custodi giudiziari dei cavalli. In questo momento, a Castel di Guido, vicino Roma, stiamo appunto gestendo un sequestro di 70 cavalli, trovati pelle e ossa”.

Quanti cavalli avete salvato finora?

“Dal 2012 siamo a circa 500”.

Vi arriva una segnalazione, cosa fate?

“Se possibile, portiamo il cavallo al nostro centro di recupero e qui iniziamo un percorso riabilitativo a livello sia fisico che psicologico. Una volta che il cavallo è tornato in salute e riteniamo che sia pronto, lo diamo in adozione. Naturalmente controlliamo chi lo prende, sia prima che dopo l’affido, perché noi restiamo i custodi giudiziari”.

Chi si prende un cavallo maltrattato?

“Le richieste per cavalli domati e in salute sono tante. Più difficili sono quelle che chiamiamo le adozioni del cuore. Cavalli che non possono più essere montati, o perché molto anziani o perché i danni fisici o psichici sono troppo grandi. Alcuni cavalli restano con noi e sappiamo che li terremo per sempre”.

A volte va male?

“Siamo molto attenti e quindi, prima di dare in adozione un cavallo, ci assicuriamo che sia davvero a posto. Solo una volta ci è capitato un incidente. Un cavallo che era stato trattato così brutalmente da aver sviluppato una forte aggressività contro l’uomo. Dopo mesi di paziente lavoro con noi, sembrava aver superato il trauma e la nuova proprietaria era contenta. Ma in una occasione, senza aver dato alcun preavviso, la attaccò all’improvviso mordendola al seno”.

E’ mai successo che vi siate ripresi un animale dato in affido?

“Come no! In alcuni casi, quando abbiamo capito che il cavallo era sfruttato in maniera non corretta, abbiamo revocato l’affido. Un cavallo anziano, con più di 30 anni, veniva utilizzato da un maneggio per portare in passeggiata i principianti. E glielo abbiamo tolto”.  

Quali sono le discipline più a rischio per i maltrattamenti?

“Non voglio gettare la croce su una disciplina piuttosto che un’altra, anche perché sono tutte potenzialmente a rischio. Il problema sono sempre i singoli, non gli sport. Senza quindi generalizzare, si può dire che abbiamo riscontrato tanti problemi con la doma vaquera, quella con i cavalli spagnoli. Troviamo cavalli segnati da speroni molto duri e dalla cagna o serreta, un capezzone da doma che spesso ha delle punte all’interno che provocano ferite e lacerazioni sulle parti più sensibili e delicate del naso. Ma anche l’endurance è a rischio, perché ci sono cavalli portati al limite, allo stremo delle forze. Vogliamo parlare del salto ostacoli? Speroni elettrici e protezioni per gli arti anteriori che in realtà nascondono punte: se il cavallo tocca l’ostacolo sente dolore e quindi si abitua a saltare più in alto. Ma se queste sono torture evidenti, ci sono anche maltrattamenti meno visibili ma altrettanto duri. Anche tenere un cavallo legato alla posta tutto il giorno, senza che possa muoversi, magari in un ambiente poco illuminato o arieggiato. Oppure senza contatti con i suoi simili, perché non dimentichiamo mai che in natura i cavalli sono animali sociali, da branco”.

In Italia si fa abbastanza?

“La verità? Ancora no. Anche le federazioni potrebbero attivarsi di più. Noi possiamo intervenire se vediamo qualche abuso durante una gara o una manifestazione. Per esempio a Fiera cavalli a Verona siamo di supporto nella commissione etica che controlla che non ci siano maltrattamenti. Siamo i rompiscatole ufficiali. Ma non possiamo controllare quello che avviene nei maneggi affiliati alle varie federazioni. Noi non possiamo, loro invece potrebbero. E raramente lo fanno”.

Perché un proprietario o un atleta dovrebbe maltrattare il proprio cavallo? Non ha senso…

“Il problema è spesso la fretta e anche…l’ignoranza. Dicono: si è sempre fatto così. Ma per fortuna l’umanità evolve. Il dolore e i metodi coercitivi sono certamente più veloci, ma non è vero che siano i migliori. Con la corretta comunicazione, basata sull’etologia, i risultati sono migliori e i cavalli restano competitivi anche più a lungo. Ma noi vogliamo tutto e subito, abbiamo fretta. Dobbiamo vendere subito un cavallo o prepararlo in poco tempo per una gara. Così montiamo imboccature sempre più forti, bardature sempre più coercitive. Il dolore è la scorciatoia a portata di mano”.

Lei è la nipote di Silvio Berlusconi, la figlia del fratello Paolo. Nel suo mondo il cognome Berlusconi è un fardello o un passpartout?

Sbuffa. “Dobbiamo proprio parlare della mia famiglia? Il cognome che porto rappresenta un onere e un onore: è un motivo in più per fare le cose al meglio”.

Storie, personaggi, trekking, inclusione e aiuto alla disabilità, tutto questo nella nuova sezione "La Repubblica dei cavalli". Francesco Bei su La Repubblica il 5 novembre 2021. La Repubblica salta in sella e da oggi diventa anche la Repubblica dei cavalli. Una sezione del nostro sito dedicata a tutto quello che ruota intorno al mondo dell’equitazione. Troverete storie, personaggi, sport, trekking, consigli per montare, inclusione e aiuto alla disabilità, nuove discipline e tradizioni storiche da recuperare e valorizzare. Per far conoscere la meraviglia del rapporto con questo animale – archetipo eterno di libertà - che da millenni ci accompagna e ha permeato così profondamente la nostra storia, trasformando e influenzando la civiltà umana in tutti gli ambiti: l’economia, la guerra, l’arte, la letteratura, fino al cinema e, naturalmente, lo sport. Vorremmo raccontare questo mondo trascinandolo fuori dai (pochi per fortuna) pregiudizi che ancora lo accompagnano, descrivendo l’equitazione per quello che è ormai diventata nel nostro Paese, un’attività praticata da centinaia di migliaia di persone, di tutte le età, dal Sud al Nord, senza differenze di genere. E che, soprattutto dopo la pandemia, ha conosciuto una nuova giovinezza, sulla scia del successo di tutte le attività che si possono svolgere all’aria aperta. La Fise, la principale federazione che organizza e gestisce le discipline equestri in Italia ci ha comunicato che al 30 settembre di quest’anno i suoi tesserati sono più di 160 mila. L’incremento rispetto ai 120 mila del 2020 è di oltre il trenta per cento. Il settore Turismo equestre della Fitetrec-Ante, il più green di tutti, è in pieno boom; i numeri magari in assoluto sembrano ancora piccoli (13.879 tesserati) ma l’aumento è pari al 37%. E’ chiaro che sta succedendo qualcosa e la Repubblica dei cavalli nasce anche per intercettare e dare voce a questa passione. Il debutto non poteva che essere in occasione della 123esima edizione di Fieracavalli a Verona, il più importante appuntamento del mondo equestre in Italia, che ha ormai conquistato un valore assoluto a livello internazionale. Vi lasciamo con le parole di Senofonte, il primo a mettere per iscritto 24 secoli fa un ancora attualissimo Trattato sull’arte di cavalcare e allevare in maniera etologica: “Dal momento che ritengo di essere diventato esperto di equitazione in seguito al fatto che mi è capitato di appartenere alla cavalleria per molto tempo, voglio mostrare anche agli amici giovani in quale modo secondo me essi potrebbero accostarsi nel modo più corretto alla pratica dei cavalli”. Buona lettura! 

Mustang, un simbolo di indipendenza che oggi lotta per sopravvivere. Anna Lombardi su La Repubblica il 9 novembre 2021. Il documentario intitolato The Mustangs: America's Wild Horses è prodotto da Robert Redford (anche voce narrante del film) insieme alla cantautrice Diane Warren e a Patti Scialfa e Jessica Sprignsteen: sì, la moglie del “boss” Bruce – che canta molti dei brani che fanno da colonna sonora del film - insieme alla figlia ventinovenne campionessa olimpionica di salto ostacoli. Sono il simbolo più impetuoso di quella libertà e indipendenza che da sempre forgia lo spirito degli Stati Uniti. Eppure proprio l’America che per omaggiarne rapidità e fierezza battezzò come loro la sua auto Ford più iconica, ha da tempo voltato le spalle ai suoi Mustang. Sì, la popolazione equina “rinselvatichita” di quell’area nord-occidentale un tempo conosciuta come Far West. I destrieri selvaggi (mustang deriva dalla parola messicana mestengo, non domato, cioè) che si dice siano i discendenti dei cavalli portati dai conquistadores spagnoli a inizio Cinquecento, nel tempo fuggiti o catturati dai nativi – comunque tornati allo stato brado - il cui patrimonio genetico è stato poi “arricchito” nel corso dell’Ottocento dai pionieri che sopprimevano gli stalloni dominanti dei branchi selvatici e li sostituivano con cavalli d’importazione: per poi catturarne la prole. Nel Novecento erano circa un milione. Ahimè considerati un fastidioso problema dagli allevatori, perché competevano per i pascoli col loro bestiame, vennero decimati: spesso usati come carne da macello. Oggi ne restano liberi appena circa 90mila, in buona parte concentrati in Nevada. Ma la loro sorte è tutt’altro che certa, nonostante siano protetti dalla legge fin dal 1971. Lo racconta un documentario uscito un anno fa, nel pieno della pandemia, e dunque approdato nei cinema americani solo ora. Intitolato The Mustangs: America's Wild Horses, è firmato dai registi Steven Latham e Conrad Stanley ed è prodotto dall’attore Robert Redford (che è pure la voce narrante del film). Insieme alla cantautrice Diane Warren e a Patti Scialfa e Jessica Sprignsteen: sì, la moglie del “boss” Bruce – che canta molti dei brani che fanno da colonna sonora del film - insieme alla figlia ventinovenne campionessa olimpionica di salto ostacoli. Il film racconta l’epopea storia dei Mustang: e ne denuncia l’attuale triste sorte. Sì, perché sfruttando una legge esistente, varata ai tempi di Richard Nixon grazie all’impegno di agguerriti attivisti, e con la scusa di proteggerli, oggi vengono catturati in massa e dati in adozione: con addirittura un incentivo di 1000 dollari a chi ne prende uno. Quel che succede poi non è il bene degli animali. Ancora oggi quei fieri animali finiscono al macello. Una pratica accelerata dall’amministrazione di Donald Trump che, come sappiamo, non aveva particolarmente a cuore la natura selvaggia... E il film si ferma qui, ma purtroppo la cronaca va oltre. Si sperava infatti che con Joe Biden le cose sarebbero cambiate. Invece con la siccità provocata dalla lunga estate caldissima, la cattura dei Mustang è ricominciata, giustificata con la scusa che i Mustang che non avrebbero altrimenti trovato abbastanza da mangiare e bere. Ma secondo gli attivisti lo scopo è sempre lo stesso: sostituire bovini a cavalli in determinate aree verdi. Peccato che il documentario racconti la dura realtà solo fino a un certo punto, indulgendo più sulla maestosità degli equini piuttosto che sulla loro sorte. Girato in California, Wyoming, Texas e Colorado, il film è un ritratto adorabile di quel prezioso simbolo vivente della frontiera. Ma a tratti è un po’ noioso. Le storie più interessanti sono soprattutto quelle degli attivisti. Su tutte, la defunta Velma “Wild Horse Annie” Johnston, i cui sforzi portarono proprio all’approvazione del Wild Free-Roaming Horse and Burro Act del 1971 per proteggere cavalli e asini selvatici su terreni federali. Ci sono poi memorabili filmati d'archivio e foto d’epoca a ricordare l’epoca in cui il Mustang era ancora, e per davvero, il simbolo della libertà e dell’indipendenza d’America.

·        Gli Elefanti.

Peppe Aquaro per il Corriere.it l'11 luglio 2021. È un po’ come nel film “Downsizing”, dove Matt Damon si miniaturizza in pochissimi secondi per ridurre l’impatto globale rappresentato dall’uomo. Ma, nel caso degli elefanti nani, la fantascienza c’entra poco e i tempi sono sicuramente diversi. È tutta una questione di evoluzione della specie. O di involuzione, a seconda dei casi. E come succede spesso per le «novità estive», anche la recente notizia riportata dal New York Times relativa alla ricerca scientifica sugli effetti dell’isolamento nell’evoluzione della specie degli elefanti, ha qualcosa di sorprendente, e, allo stesso tempo, anche di «già sentito». Perché, tutto nasce in una grotta, quella dei Puntali, a due passi da Carini, vicino Palermo.

Nella grotta di Gemellaro. Una grotta esplorata in lungo e largo già dalla fine del 1800 e dove sono stati ritrovati diversi resti di elefanti nani. Compreso il cranio numero 3, il prezioso reperto conservato al Museo di geologia, intitolato a Gaetano Giorgio Gemellaro, colui che per primo scoprì e studiò i resti ossei degli elefanti nani nella grotta. «Gli elefanti fossili siciliani sono noti da tempo, tanto da aver dato origine ad alcuni miti legati all’isola di Sicilia e ai suoi primi abitatori. Non è infatti casuale che i ciclopi di Omero fossero giganti con un solo occhio (la fossa nasale dell’elefante) e non è pure casuale che abitassero in grotte, se si considera che proprio dalle grotte proviene la maggior parte dei fossili di elefanti pleistocenici siciliani». È scritto proprio così in una pagina di presentazione sui musei e le collezioni dell’Ateneo dell’università di Palermo. 

Non solo in Sicilia. Ma la novità della ricerca scientifica portata avanti da Sina Baleka, paleogenetista alla McMaster University in Canada, in collaborazione, naturalmente, con il museo «Gemellaro», è che, servendosi di un calco di elefante nano proveniente da un passato remotissimo, si è capito quanto tempo ci è voluto perché il normale elefante, sull’isola, si evolvesse fino a diventare un «elefante nano»; quindi si capisse in che modo le specie siano influenzate dall’isolamento geografico. La domanda di partenza era stata proprio: in quanto tempo dei mammiferi così massicci si sono rimpiccioliti fino ad assumere la dimensione di un cavallo o di un animale alto al garrese non più di un metro e novanta (le stesse misure di uno scheletro di elefante nano esposto nel museo palermitano)? 

L’età dell’elefante nano. «Entrano in campo metodologie temporali che si rifanno sia alla paleogenetica che alla paleontologia, o addirittura alla geocronologia», afferma Baleka. È il bello di questa ricerca condotta un po’ in tutto il mondo, tra Canada, Inghilterra, Germania, Olanda e Palermo, pubblicata in queste ore su ScienceDirect, e dove tutti hanno potuto aggiungere un prezioso tassello alle conclusioni. Come Johanna L.A. Paijmans, coautrice e ricercatrice di Paleogenomica all’università di Cambridge: «Siamo stati in grado di definire il tasso di nanismo con molta accuratezza: sicuramente inferiore a 350.000 anni». E molto più inferiore, a sentire Victoria Erridge, anche lei coautrice della ricerca e biologa nutrizionista al Museo di Storia naturale di Londra: «L’elefante nano potrebbe essersi sviluppato nel giro di 1.300 anni, qualcosa come quaranta generazioni».

Dal gigante al discendente. Una scoperta resa possibile perché, per la prima volta, si è riusciti a tirar fuori dal cranio numero 3 della Grotta dei Puntali, il Dna. «Si è trattato di un vero e proprio viaggio nel tempo: ricavando il Dna dall’osso petroso fossilizzato, abbiamo scoperto che discendeva dal Palaeoloxodon antiquus, un elefante continentale vissuto 400 mila anni fa, che pesava dieci tonnellate ed era alto poco meno di quattro metri. Come è arrivato fino in Sicilia? A seguito delle glaciazioni, è possibile che esistesse un ponte di terra che collegasse l’isola al resto del continente», spiega Carolina Di Patti, curatrice e responsabile del settore vertebrati del museo «Gemellaro», pienamente coinvolta nella preziosa ricerca intorno al cranio del «piccolo elefante», il cui Dna era quasi impossibile che si riuscisse ad estrarre, in quanto inizia a degradarsi già al momento della morte e sopravvive meglio nei climi ghiacciati, più che in quelli mediterranei. Un altro piccolo, grande regalo di una terra come la Sicilia.

Dagotraduzione dal New York Times il 7 giugno 2021. Joyce Poole è uno delle maggiori esperte di elefanti africani, il più grande animale terrestre del pianeta e uno dei più complessi dal punto di vista cognitivo e comportamentale. Lei e il suo team di collaboratori hanno raccolto negli anni informazioni importanti sugli elefanti e su come questi animali si comportano e comunicano fra loro. Per esempio hanno scoperto che possono tenersi in contatto con coetanei lontani generando segnali di frequenza così profondi e bassi che noi umani difficilmente riusciamo a coglierli. Nel corso della sua carriera, la dottoressa Poole ha trascorso decine di migliaia di ore sul campo, osservando, tracciando e analizzando gli elefanti selvatici. Ora, in un progetto completo che altri biologi descrivono come «un risultato straordinario» e «un immenso tesoro», la dottoressa Poole e suo marito, Petter Granli, hanno raccolto i frutti del lavoro sul campo in un vasto database pubblicamente disponibile chiamato l'Etogramma dell'elefante: una biblioteca sul comportamento degli elefanti africani. Pubblicato alla fine di maggio dal gruppo no-profit ElephantVoices, l'etogramma è un compendio dettagliato degli odori e dei fonemi di base del comportamento degli elefanti: i lembi, le increspature, le pieghe e gli schiaffi delle enormi ed espressive orecchie dell'elefante; il modo in cui la proboscide si accartoccia, si allunga, ruota, sonda, pizzica, succhia e punta; il sottile fruscio della coda, che è facile trascurare ma invece è importante; le trame e le onde del fallo di un maschio eccitato, che assomiglia a una seconda proboscide e a volte intralcia gli esemplari goffi; i barriti, i brontolii, i saluti, le suppliche, i rimproveri, le prese in giro e le minacce. Nel database sono descritti circa 500 comportamenti e 110 suite comportamentali e la libreria è ancora in crescita. E anche se sono stati compilati etogrammi di varia accuratezza per altre specie, ciò che rende il nuovo etogramma dell'elefante eccezionale - e avvincente, anche per i non esperti - è l'inclusione di oltre 3.000 clip video e audio che illustrano le azioni descritte. «È un incredibile risultato scientifico e una meravigliosa aggiunta alla nostra conoscenza», ha affermato Cynthia Moss, fondatrice dell'Amboseli Trust for Elephants. «Un unico posto dove trovare tutte le posture, i gesti, le vocalizzazioni, i segnali visualizzati. Non conosco nient'altro di simile». L’etogramma è stato pubblicato in un momento cruciale per gli elefanti selvatici africani. A fine marzo, l'Unione internazionale per la conservazione della natura ha formalmente diviso gli elefanti africani in due specie distinte, gli elefanti della savana, descritti nell'etogramma, e quelli della foresta, più piccoli, rari e sfuggenti. Entrambi sono in via di estinzione, l'elefante della foresta in modo critico. Nel 1913 ce n’erano circa 10 milioni in tutto il continente africano. Oggi ne rimangono solo 400.000 circa. Gli elefanti continuano a essere uccisi per le loro magnifiche zanne. Ma la minaccia più seria è la perdita dell'habitat e gli scontri con le persone per l'accesso alla terra e all'acqua. I biologi degli elefanti sostengono che più comprendiamo la mentalità degli elefanti, maggiori sono le probabilità di mantenerli in vita. Michael Pardo, ricercatore della Colorado State University, ha iniziato a studiare la comunicazione vocale negli elefanti africani tre anni fa. «Il comportamento degli elefanti può essere sottile, e a volte è difficile sapere perché un elefante sta vocalizzando», ha detto. «Joyce ha trascorso molto tempo a studiare il contesto delle diverse chiamate e i video mi danno un'idea di cosa dovrei cercare sul campo». Il dottor Pardo ha citato come esempio il suono «andiamo», un rimbombo basso e profondo che una femmina di elefante dà per annunciare il suo desiderio di andare avanti. «Sapevo che queste chiamate esistono, ma quando sono uscito sul campo per la prima volta, non è stato così facile identificarle come sembrava sulla carta», ha detto. L'etogramma dell'elefante offre 13 clip dei rumori per aiutare i neofiti della ricerca di domani. Daniela Hedwig, ricercatrice associata all'Elephans Listening Project presso la Cornell University, che studia gli elefanti della foresta, ha affermato che «gli elefanti africani possono fungere da sistema di studio davvero interessante per l'evoluzione di sistemi di comunicazione complessi, inclusa la nostra lingua». L'etogramma si basa sugli studi di tre popolazioni di elefanti: due in Kenya, nel Parco Nazionale di Amboseli e nella riserva Maasai Mara, e la terza nel Parco Nazionale di Gorongosa in Mozambico, per un totale di circa 6.000 elefanti. I diversi gruppi mostrano una serie di idiosincrasie culturali. Al Masai Mara, ad esempio, alcuni elefanti, a turno, trascorrono una dozzina di minuti in piedi in silenzio sopra un cespuglio. «Si comportano come se il cespuglio fosse qualcosa di diverso da un cespuglio, come se fosse un cucciolo», ha detto la dottoressa Poole. Quasi tutti gli elefanti coinvolti sono femmine adolescenti: potrebbe essere una sorta di tecnica di addestramento alla maternità. A Gorongosa, le elefanti femmine di tutte le età sono notoriamente avverse alle persone, retaggio dei 25 anni di guerra civile del Mozambico, quando gli elefanti venivano massacrati in massa. Molti degli odierni elefanti Gorongosa sono nati dopo la guerra, ha detto Poole, e «hanno imparato la cultura dell'aggressività dalle loro madri, nonne e bisnonne». Ovunque vivano, gli elefanti sembrano costruire il loro vasto vocabolario sociale attraverso un mix e un abbinamento di gesti e suoni familiari. Il contesto è fondamentale. Gli elefanti organizzano spesso le loro proboscidi a forma di periscopio, per esempio, ma il significato della conformazione dipende dalle circostanze. Se lo fa un cucciolo, può indicare il desiderio di succhiare. Un giovane maschio, voglia di giocare. Gli elefanti adottano una probiscide a periscopio anche quando percepiscono qualcosa di insolito, e le prove suggeriscono che si dirigono alla fonte del problema con la punta del periscopio, come se indicassero. Allargare le orecchie può servire come avvertimento o saluto amichevole, a seconda di quante volte le orecchie si aprono, se vengono piegate o sollevate contemporaneamente e dall'angolazione del mento dell'elefante. Nonostante tutto, gli elefanti selvatici amano tenersi in contatto, letteralmente, con i loro corpi; con l’olfatto, attraverso odori che producono dalle ghiandole temporali e che altri elefanti possono rilevare attraverso le loro cavità nasali lunghe fino alla proboscide, che sono più sensibili di quelle di un segugio; o acusticamente, attraverso brontolii, latrati, ruggiti e barriti. I brontolii suonano come le fusa del gatto molto profonde e sono di gran lunga le vocalizzazioni più comuni e diverse dell'elefante. «Alcuni sono silenziosi, altri sono rumorosi, alcuni salgono e scendono di tono», spiega Pardo. Secondo lo scienziato, inoltre, gli elefanti usano i brontolii per chiamarsi l'un l'altro per nome. «Finora i nostri risultati indicano che gli elefanti si rivolgono ai singoli membri della famiglia con richiami unici», ha detto. «E quando diversi elefanti si rivolgono allo stesso individuo, usano una chiamata simile». Aristotele aveva ragione quando giudicava gli elefanti «l'animale che supera tutti gli altri in arguzia e mente». È stato dimostrato che gli elefanti, attraverso il famoso test di riconoscimento dello specchio, hanno un senso di autocoscienza. Le elefanti femmine - che costituiscono il nucleo della società degli elefanti - tengono traccia di centinaia di individui attraverso reti a più livelli di unità familiari, gruppi di legami e clan. Gli elefanti non sono stupidi, ma sono gentili. «Gli elefanti mostrano alcune delle caratteristiche che vorremmo pensare di avere», ha detto il dottor Moss. «Si preoccupano molto delle loro famiglie e tollerano i non parenti». Un maschio adulto può pesare il doppio delle 3200 chili di una femmina, ma non è mai molesto. «Anche questi grandi maschi, quando hanno un aumento del testosterone, sono gentili con femmine e cuccioli», ha detto Poole. Gli elefanti sono implacabili buongustai, e trascorrono circa 16 ore al giorno abbattendo rami, rovistando tra i cespugli e spogliando agilmente i ramoscelli del fogliame. Gli elefanti sono considerati ingegneri dell'ecosistema, perché aprono opportunità per una serie di forme di vita più piccole. Allo stesso tempo, l'appetito degli elefanti può portarli a razziare frutteti e giardini locali e distruggere il sostentamento di un allevatore di sussistenza durante la notte. I biologi e gli ambientalisti degli elefanti ammettono che convivere con gli elefanti non è facile, ma affermano che il pensiero della loro estinzione è insopportabile. «Sarebbe una Terra molto triste», ha detto il dottor Moss, «senza elefanti che la attraversano a grandi passi».

·        Il Tonno.

Maiali di mare. Del tonno non si butta via niente, neanche gli scarti di lavorazione. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 26 Novembre 2021. E se dai fanghi di scarto della lavorazione del tonno nascessero fichi, olive e melegrane? È lo scopo di un progetto di ricerca portato avanti da Callipo con l’Università di Reggio Calabria. La lotta contro gli sprechi, la volontà di valorizzare gli scarti, le pratiche virtuose dell’economia circolare: tutti concetti fondamentali, vitali in questi tempi, che ruotano intorno all’unico perno della sostenibilità. In Italia lo spreco di cibo equivale a circa 10 miliardi di euro, cioè 5 euro a settimana a famiglia secondo quanto emerso dal Food Sustainability Index (Fondazione Barilla): un dato importante, che fa riflettere tanto i singoli cittadini quanto le industrie. Così nelle nostre case stiamo imparando a rendere concreti tanti piccoli accorgimenti, e se quasi tutti abbiamo provato a preparare degli gnocchi o una torta di pane per dare nuova vita a quello raffermo, i più virtuosi arrivano al compostaggio domestico, per trasformare i rifiuti organici e farne concime. Parallelamente, ma molto più in grande, le aziende stanno puntando sull’economia circolare per concretizzare la transizione ecologica, passaggio obbligato per poter guardare al domani. Dagli scarti delle industrie agricole e alimentari si possono ricavare energia, combustibili, concimi, cibi per animali, solo per fare qualche esempio. In prima fila in questa azione di trasformazione dello scarto in risorsa si colloca Callipo, azienda conserviera che da oltre un secolo mantiene inalterato il valore fondante di “qualità totale”: un risultato che si ottiene orientando ogni scelta a preservare l’eccellenza organolettica dei prodotti e insieme a limitare gli sprechi delle diverse risorse, energetiche, ambientali e della preziosa materia prima. Perché del tonno non si butta via niente. Lo sapevano bene le nonne di Calabria, che consideravano il tonno il “maiale del mare”: una sapienza antica che oggi si trasforma in progetti che guardano al futuro. «Il presupposto è sempre quello di non sprecare: quella che una volta era una necessità dettata dalla povertà, oggi è una scelta resa imprescindibile dalla scarsità di risorse». A parlare è Giacinto Callipo, quinta generazione dell’azienda di famiglia, che racconta: «a Pizzo, dove è nata la nostra azienda, c’erano le tonnare. Ma allora erano fisse, erano ancorate allo scoglio: il sistema consentiva di catturare il tonno mediterraneo solo in alcuni periodi dell’anno.  La Tonnara Grande di Pizzo veniva fissata in mare ai primi di aprile, ma la pesca vera e propria avveniva nel periodo maggio-giugno con la cattura del cosiddetto “tonno di corsa”: i tonni passano per andare a deporre le uova in Adriatico, e poi ritornano, nei mesi luglio-agosto, quando si catturava il “tonno di ritorno”. In primavera le femmine avevano le uova: quando venivano pescate si estraevano, intere, le sacche degli ovari che, salate, messe sotto pesi ed essiccate, diventavano (e diventano tutt’oggi) la bottarga. Dai maschi si estraeva invece il cosiddetto lattume, lo sperma, che si consumava fresco.  Le parti più pregiate del pesce, la ventresca e il tarantello, che a Pizzo sono chiamate ‘a surra e ‘u taranteju, e lo “schienale”, erano bollite separatamente in grandi caldaie quindi pulite, raffreddate, tagliate a filetti e tranci, selezionate a mano e conservate sotto olio d’oliva sigillate in latte di banda stagnata. I filetti venivano separati dalla buzzonaglia, una carne che è per gran parte scura, perché è quella che si trova più vicino alla lisca, ed è più irrorata di sangue: considerata una prelibatezza, per il suo sapore deciso, è molto apprezzata anche oggi, la si può trovare sul nostro e-shop. Come si diceva, non si butta e non si buttava via niente: mia nonna da cuori e trippe faceva un umido con il sugo. Lische e pelli si usavano per pescare o si buttavano, queste sì, in mare. Oggi noi recuperiamo anche queste parti: vanno alle industrie di pet food, e si trasformano in cibo per animali. Stiamo anche valutando un progetto per trasformare direttamente in azienda parte degli scarti in farina di pesce, destinata all’alimentazione animale e all’itticoltura». In questo modo l’azienda nel 2020 ha trattato 2.600 tonnellate di scarti alimentari, ma non basta: di recente è stato avviato un importante progetto di ricerca con il Dipartimento di Ingegneria Civile, Energia, Ambiente e Materiali (Diceam) dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Tutto ciò che rappresenta uno scarto nella filiera produttiva, compresi i fanghi di depurazione, viene studiato con l’obiettivo di trasformarlo in un prodotto ad alto valore aggiunto di omega-3, bioenergia e fertilizzanti organici. «Stiamo finanziando con una borsa di studio – spiega Giacinto Callipo – un lavoro volto a studiare l’impiego in agricoltura dei nostri fanghi. In particolare per noi è interessante vedere come possono essere usati nella coltivazione dell’ulivo, dei fichi e del melograno, che sono le colture che abbiamo nella nostra azienda agricola, e da cui ricaviamo olio e confetture. Quelli che ora sono dei rifiuti, che vanno smaltiti a pagamento, diventerebbero così delle vere e proprie risorse». Callipo lavora dal fresco il tonno rosso del Mediterraneo per una linea di nicchia che è il tonno di tonnara, il resto è il tonno yellowfin pescato per lo più nell’oceano indiano. L’azienda acquista partite di tonno esclusivamente da pescherecci o compagnie autorizzate, controllate da ispettori a bordo e certificate Dolphin Safe o materia prima certificata MSC pesca sostenibile.  Il tonno arriva a bordo di container intero e congelato nello stabilimento Callipo e la lavorazione avviene interamente qui. Gli scarti che derivano da questa lavorazione sono di diverso genere: i brodi che derivano dal processo di cottura del tonno, che vanno ad alimentare l’impianto di depurazione insieme ai cosiddetti sfridi che derivano dalla fase di taglio del tonno crudo, al sangue e alla cosiddetta segatura composta da piccoli frammenti provenienti dal taglio; gli scarti derivanti dalla fase di taglio del tonno crudo che vengono stoccati in appositi cassoni identificati e prelevati da aziende autorizzate nella produzione di pet-food; gli scarti del tonno cotto, provenienti dalla fase di pulizia (monda), pelle, lische squame, parti ematiche, parti con colorazioni anomale eccetera, insieme agli sfridi provenienti dal reparto di inscatolamento automatico, vengono anch’essi prelevati da aziende di Pet-food; l’essudato acquoso rilasciato dal tonno in fase di condizionamento dopo la cottura, vengono destinati al depuratore. La lavorazione è attenta e rispettosa dell’ambiente in ogni sua fase, dalle numerose attività avviate per garantire la sostenibilità della pesca, fino alla scelta di una drastica riduzione della plastica nel packaging. Del resto si tratta di una lavorazione che segue i dettami di procedure antiche: «siamo artigiani che lavorano con volumi da industria. Tagliamo con seghe, cuociamo a vapore, tecniche semplici, anche se applicate su larga scala. Alla fase di pulizia, poi, si procede a un tavolo con 60 postazioni, a cui stanno sedute altrettante signore che lavorano con un coltello e un guanto di acciaio. Tutto a mano, come anche l’invasettamento». Un lavoro in larga parte femminile, svolto con maestria e passione, anche se sicuramente faticoso: «le più anziane, quelle che noi chiamiamo le “senatrici”, insegnano il lavoro alle nuove. Non è facile, ci vogliono almeno 7-8 mesi per imparare. Per questo abbiamo una “scuola di monda”, che consente di arrivare a padroneggiare il mestiere». Quella sapienza che consente a un prodotto di sicura eccellenza di arrivare nelle nostre case. E noi, nelle nostre cucine, quando apriamo una scatoletta o un vasetto di tonno, ci prendiamo il piccolo compito di portare avanti l’attenzione all’ambiente, ad esempio facendo la raccolta differenziata, la latta con la latta e il vetro con il vetro. E l’olio di conserva? Mai scolarlo nel lavandino, va portato al centro di raccolta o, meglio ancora e più semplicemente, va usato, perché è buono, e fa bene, ricco com’è degli Omega-3 ceduti dal pesce.

Giacomo A. Dente per "il Messaggero" il 22 settembre 2021. Fascinoso destino, quello del tonno, un vero protagonista in cucina, sempre in bilico tra fantasie gourmet e ricette da tavola popolare. Apparteneva senza dubbio alla aristocrazia del gusto quel tonno di Sicilia ricordato da Archestrato di Gela, una sorta di precursore di Epicuro vissuto nel VI secolo prima di Cristo e autore di un'opera, l'Edypatheia, il Poema del Buongustaio, raffinata ricerca delle migliori ricette e dei migliori luoghi dove provare una determinata vivanda. Ed è in uno dei frammenti sopravvissuti dell'opera di Archestrato che il tonno di Sicilia - appena scottato e poi coperto con un intingolo di erbe - fu descritto come un autentico cibo per Immortali. L'idea delle cotture brevi e della ricerca mirata degli ingredienti dall'antico gourmet sarebbe così passata, scavalcando i secoli, a uno dei padri fondatori della cucina moderna francese, Alain Sanderens che, non per caso - correva l'anno 1968 -, volle chiamare Archestrate il suo ristorante nel 7ème, dove il tonno era servito in tartare con profumi mediterranei, accompagnato con un Galets Rosé pieno di profumi. Il tonno non è tuttavia protagonista minore di straordinarie esperienze anche nella sua forma più pop, ovvero messo in scatola. Per i cultori della storia, sembra che il primo a impiegare intorno al 1860 il metodo inventato dal francese Appert per la conservazione dei cibi sia stato il piemontese Gaetano Valazza con salumeria a Torino e stabilimento a Porto Torres in Sardegna, specializzato in scatolette che proponevano la sorda, come l'industriale chiamava la pancia del tonno. Tuttavia, per arrivare alle antenate delle scatolette dei nostri giorni, bisognò spostarsi a Palermo, quando la città celebrò l'Esposizione nazionale del 1891-1892, e quando - presente, tra le altre meraviglie -, ci fu anche il tonno conservato in scatolette con relativa piccola chiave incorporata per l'apertura. In questo modo Casa Florio inaugurò l'ingresso delle scatolette nella cucina: a casa, a bordo, ma anche ai fornelli stellati. Il Mediterraneo, con le sue storie antiche di tonnare, luogo di riproduzione dei tonni nelle loro lunghe migrazioni dall'Atlantico, si combina anche con la insaziabile ricerca dei gourmet giapponesi di tonni di grande pezzatura. La dimensione del pesce, nel mercato orientale, è infatti un elemento fondamentale di qualità, e ogni anno allo Tsukiji, il celebre mercato di Tokyo, vengono disputati esemplari giganti a cifre da capogiro (una recente aggiudicazione ha raggiunto i 3 milioni di dollari). D'altra parte, per sushi e sashimi occorre saper gestire in maniera professionale il tonno, dall'akami maguro (il filetto, magrissimo), al chutoro (accanto alla ventresca), perfetto per i nigiri, fino all'otoro, il cuore della ventresca, marezzato di grasso come il manzo di Kobe. Solo mare, quindi? La risposta è negativa, perché il tonno e il vitello trovano una loro fantastica simbiosi nel vitello in salsa tonnata, codificato dall'Artudi ed entrato con prepotenza nelle nostre cucine, sia nella versione antica, che in quella moderna (molto anni 70-80, ricca di maionese). Mancava quindi solo un passo: rovesciare la ricetta, come ha fatto Tonino Cannavacciuolo, mitico stellato, che inventato un fantastico tonno vitellato che rappresenta una felice frontiera di contaminazione tra la carne e il pesce.

Il rito della mattanza dei tonni divide ancora la Sardegna. Nell’Isola sopravvive la tradizione della pesca a reti fisse, tra tonnare, gabbie e colpi di lupara. Mentre la domanda di sushi fa schizzare il prezzo (foto di Daniel Etter). Eleonora Vio su L'Espresso l'8 settembre 2021. Lo scirocco non piace né agli uomini né ai pesci. Ecco perché la mattina del giorno della mattanza, l’atmosfera sulla banchina della tonnara di Isola Piana, a Sud della Sardegna, non è allegra. «Pensavamo di cavarcela in poche ore...», mormorano i tonnarotti, mentre caricano le barche in legno per l’evento che conclude la stagione di pesca a Carloforte. «La mattanza andrebbe rimandata», azzarda il capo, il Rais, Luigi Biggio. Ma Giuliano Greco, uno dei tre fratelli proprietari di questa e di altre tonnare sarde, è di tutt’altro avviso: «Domani parto per Genova. La mattanza si fa e basta». È l’unico della famiglia a dedicarsi interamente all’attività e a prendervi parte da sommozzatore. Ci si prepara così, ancora una volta, a questa particolarissima battuta di caccia, un rito millenario che, però, ruota sempre più attorno alle leggi di mercato. I tonni pinna blu, dal manto bluastro e luminescente, hanno, infatti, smesso di essere trattati alla stregua di «antichi dei», secondo la definizione di Ernest Hemingway, per tramutarsi in prodotto di consumo. Ogni giorno infruttuoso costa alla tonnara 9.000 euro in più. Anche per questo Giuliano Greco ha fretta di concludere. Il thunnus thynnus, conosciuto come tonno rosso, è il più grande e il più veloce tra i tonni, con un peso che oggi varia tra gli 80 e i 500 chili. In passato arrivava anche a 900. Tra i pochissimi pesci a sangue caldo, entra nel Mediterraneo dall’Atlantico attraverso Gibilterra, ed è anche uno dei più pregiati al mondo. Alle aste giapponesi, dove arriva dopo essere ingrassato negli allevamenti di Spagna e Malta, è battuto per milioni di euro. Furono i fenici a fondare le prime tonnare, più di tremila anni fa. Ed è ad allora che risalgono i primi esemplari siciliani di pesca a reti fisse, ovvero complessi sistemi a forma di aquilone, in cui i tonni vengono spinti di vasca in vasca, di camera in camera nel gergo, finché rimangono intrappolati nella Camera della Morte, dove sono sollevati e uccisi. In passato si usavano gli arpioni ma oggi, un po’ per non rovinare la delicata carne del tonno, un po’ per la pressione internazionale contro questa pratica così cruenta, si preferiscono gli uncini. In Sardegna, le prime tonnare fisse risalgono all’occupazione spagnola del Cinquecento. E nell’isola, a dispetto del passato dominio siciliano, oggi si trovano le uniche due rimaste in attività nell’intero Mediterraneo. Solo a Isola Piana si celebra, però, la mattanza tradizionale. Nell’altra, a Capo Altano, da quest’anno hanno cambiato metodo, innescando una diatriba che continua fuori dall’acqua. Pur appartenendo anche questa al variegato impero dei Greco, per metà avvocati e per metà mercanti giramondo, qualche anno fa è stata affidata alle cure di un’altra famiglia. A bordo della musciara, il Rais siede sempre a prua, da dove osserva e dirige i lavori. «Ogni anno caliamo la tonnara nello stesso posto, allineo i segnali presenti a terra senza gps, tutto a occhio», dice Biggio, tirando l’ennesima boccata di sigaretta. Ha iniziato quasi 40 anni fa. «All’epoca venivamo trattati come schiavi. Le cime venivano tessute a mano con la fibra di cocco; caricavamo tutto sulle spalle e poi via a remi. Per calare le reti, al posto della catena, usavamo le pietre delle cave», racconta il Rais, mentre gli uomini si dispongono a bordo. “Bubu”, il capobarca, gode di ampio rispetto. Lo conferma “Lollo”, un ventinovenne dalla lingua lunga, costretto a ritornare a fare il tonnarotto, dopo che il bar per cui sperava di aver cambiato vita, è fallito a causa del Covid-19. “Fenicottero”, appena diciottenne, parla poco ma si dà un gran da fare, mentre “Cazzillo”, complice qualche bibita di troppo, prova a innescare il buon umore. Bisogna trasferire gli ultimi tonni dal Bastardo, la camera attigua, alla Camera della Morte. Mare e cielo si tingono dello stesso grigio e la barca impazzisce per le onde: è impossibile capire cosa succede sul fondo. Finché i sommozzatori lanciano l’allarme. I pesci stanno uscendo dalla vasca invece di entrare. «Sono come le pecore, se uno esce, gli altri seguono in massa», bisbiglia “Zichichi”, lo scienziato del mare, a cui hanno appioppato per questo il cognome del fisico. E mentre il Rais si cala in acqua con la sua muta maculata, “Zichichi” racconta di un mestiere che si sta estinguendo. «Il mare per me è una passione, ma sono retribuito troppo poco. I ragazzi che vedi qui, domani potrebbero non esserci più. Se vuoi tramandare la cultura della tonnara, devi affrontare certi argomenti». Anche per questo, soprattutto in Sicilia, una dopo l’altra, nella seconda metà del Novecento, le tonnare fisse hanno chiuso. Ma non solo. «I tonni passano meno sotto costa per l’inquinamento, soprattutto acustico, provocato dagli aliscafi. E poi c’è stato il cambio del mercato. La tonnara è una pesca per certi versi artigianale, ma richiede capacità di investimento. Tre stagioni fallimentari portano alla bancarotta dell’armatore», spiega Ambra Zambernardi, antropologa marina e docente all’Università di Torino. Nel mercato miliardario del tonno a pinna blu, principalmente orientato all’industria del sushi nei mercati asiatici, la tonnara ha un ruolo marginale, e proprio per questo ha dovuto pagare il prezzo più alto dei tagli nelle quote pesca adottati negli anni dall’Iccat (International commission for the conservation of atlantic tunas), il controverso organo internazionale addetto alla conservazione dei tonni. Nel 2011, quando il thunnus thynnus era a rischio estinzione, si è arrivati al minimo storico nel Mediteraneo e nell’Atlantico Orientale, e conseguentemente in Italia con, rispettivamente, 12.900 e 964 quote. Grazie a queste misure, ma anche all’insistenza del mercato, l’anno scorso l’Iccat ha deciso di triplicarle, portandole a 36.000, e destinandone 4.745 al nostro Paese. Di queste, solo 383 spettano alle tonnare fisse, mentre la stragrande maggioranza è riservata alle barche a circuizione, che in una settimana catturano il pesce che in tonnara si pesca in due mesi. Anche i Greco hanno dovuto fare i conti con questi cambiamenti. La famiglia, originaria di Genova, al pari dei padri fondatori dell’Isola di San Pietro, acquisì le quattro tonnare del Sulcis nel 1671 dal Re Filippo II di Spagna, caduto in disgrazia. Assieme alle due operative di Isola Piana e Capo Altano, fuori Portoscuso, possiede anche Calavinagra e Portopaglia, che quest’anno hanno preferito non calare le reti, per via del crollo del prezzo del tonno causato dalla pandemia. Oggi la proprietà, oltre che di Giuliano, è dei fratelli Andrea, che guida lo studio legale del padre novantasettenne, e Pier Paolo, il più anziano, con residenza a Zurigo, affari in Russia e un occhio alle pubbliche relazioni dell’intera famiglia. Per anni il tonno sardo si è identificato con Portoscuso. Poi i fanghi rossi, provocati dalle scorie minerarie del Sulcis, li hanno convinti a cambiare: «Per puntare sulla qualità non potevamo associare il nostro logo a un pesce inquinato. Ecco perché 20 anni fa abbiamo sostituito il brand Portoscuso con Carloforte», spiega Pier Paolo Greco. Risale agli anni Duemila anche la scelta di far gestire ai Farris, una famiglia di imprenditori locali, Capo Altano, Calavinagra e Portopaglia, con un accordo quasi paritario (52 per cento ai proprietari e 48 ai partner) degli incassi totali di tutte e quattro le tonnare. Ma da quest’anno l’equilibrio tra i due è saltato. Mentre a Isola Piana il Rais Luigi Biggio pesca alla vecchia maniera, il fratello Ettore, al lavoro con i Farris, ha sovvertito la tradizione. E ora ai tonni spara con la lupara. C’è di più. Secondo i Greco, i Farris, senza consultarli, e dopo aver venduto buona parte delle proprie tonnellate di tonno a una barca, hanno utilizzato una gabbia per concentrare i tonni e abbatterli a fucilate. In realtà, l’idea della gabbia fu proprio di Pier Paolo, chiamato nel 2010 a escogitare un sistema per ovviare al taglio delle quote. Così, anche adesso, 160 delle 187 tonnellate di pesce di Isola Piana finiscono nella gabbia, fissata alla tonnara tramite un tunnel inserito alla fine della Camera della Morte e destinata a una delle quattro multinazionali del tonno, la Ricardo Fuentes e Hijos. Un sistema che suscita non poche obiezioni. «In questo modo la tonnara fissa, più sostenibile, si lega indissolubilmente agli allevamenti ittici intensivi, perdendo totalmente di senso», nota Alessandro Buzzi del Wwf Italia. Andrea Farris, dell’omonima famiglia, non solo difende le ragioni della gabbia ma anche la scelta del fucile. «Da noi c’è innovazione. Mettiamo i tonni in gabbia e gli spariamo in testa, così non si stressano. La mattanza è crudele. E poi noi riusciamo ad approvvigionare il mercato nazionale più a lungo, ammazzando il pesce selettivamente giorno dopo giorno, secondo le richieste». A Capo Altano, mentre due sommozzatori, con le lupare strette in vita, scompaiono dentro la gabbia, tutt’attorno sale un silenzio rarefatto e l’acqua s’increspa in modo anomalo. All’improvviso, compare un elicottero da dietro le rocce. In breve arrivano anche due gommoni. È la Guardia costiera che sequestra il pescato. Il trambusto fa agitare i pesci. E anche Farris, che interrompe l’operazione e impreca contro i Greco: «Pier Paolo del tonno sa solo che lo metti in scatoletta e lo mangi. Di tonnara non capisce nulla».

·        Le Balene.

Balena morta e spiaggiata? La squartano e la vita di 35 pescatori viene stravolta: cosa trovano nel ventre del gigante. Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Una scoperta che ha dell'incredibile quella avvenuta in Yemen, dove alcuni pescatori si sono ritrovati improvvisamente ricchi. Tutto merito di una balena. Come ogni mattina la ciurma di 35 compagni di lavoro era a bordo del suo battello nelle acque del Golfo di Aden, quando uno di loro ha ricevuto una chiamata sul cellulare da un collega: "Venite qui, che c'è la carcassa galleggiante di un capodoglio". Arrivato sul posto l'equipaggio ha subito notato qualcosa di strano, in particolare un odore terribile provenire dall'animale. "Quella puzza ci ha fatto sospettare che avesse all' interno qualcosa di particolare", ha spiegato uno di loro alla Bbc. Un dettaglio che ha spinto la ciurma a indagare meglio: ed ecco che dal ventre del gigantesco cetaceo è spuntato un vero e proprio tesoro: l'ambra grigia che i pescatori chiamano "oro galleggiante".  "È stato come se, improvvisamente, un sogno incredibile fosse diventato realtà", ha commentato ancora il pescatore. E in effetti la sostanza fortemente odorosa può essere utilizzata sia come medicinale che come incenso e perfino come afrodisiaco. Il suo prezzo? Attualmente si vende sul mercato a circa 50mila dollari al chilo. Una vera e propria fortuna visto che quella ritrovata nel ventre della balena ha fruttato circa 1,5 milioni di dollari. Il suo odore deriva dall'origine. L'ambra grigia infatti è una sostanza prodotta dall'intestino dei capodogli e deriva dal rigurgito che viene secreto per proteggere il rivestimento del suo intestino dal becco dei calamari, dei quali l'animale è ghiotto, e che possono così essere digeriti. Il suo valore è elevato perché si stima che soltanto tra l' 1 per cento e il 5 dei capodogli contenga l'ambra grigia. Essendo una specie protetta, il commercio della preziosa sostanza è proibita, proprio per evitare che rischino l'estinzione.

"Inghiottito" e sputato da una balena: l'avventura del pescatore. Gerry Freda il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Il pescatore americano è stato inghiottito dalla balena mentre era in immersione in cerca di aragoste al largo del Massachusetts. Un pescatore americano di aragoste, Michael Packard, ha vissuto ultimamente un'"avventura alla Giona", venendo "inghiottito da una balena". L'uomo ha infatti avuto uno spiacevole incontro in mare con un cetaceo, finendo prima nella bocca dell'animale per poi venire "sputato" da quest'ultimo. La disavventura è stata vissuta dal pescatore, con oltre quarant'anni di esperienza tra i flutti, mentre era in immersione al largo di Cape Cod, nel Massachusetts. Packard e un altro pescatore avevano preso la barca questo venerdì mattina per andare in cerca di crostacei. Dopo avere fermato il natante in mezzo al mare, l'uomo si era immerso con addosso l’attrezzatura da sub, quando, all'improvviso ha avvertito un "forte colpo" e ha visto "tutto buio attorno": stava venendo "risucchiato da una megattera". Packard, ha raccontato successivamente, aveva inizialmente pensato in quegli istanti di essere stato attaccato da uno squalo, ma "non vedeva denti" nella cavità orale in cui era finito. Il malcapitato è rimasto nella bocca della megattera per una trentina di secondi, durante i quali il sub ha "temuto di morire". Alla fine, la balena ha sputato il pescatore ingoiato per errore e Packard è stato così soccorso dall'amico e dalla Guardia costiera, venendo poi trasportato in ospedale: "Sono stato lanciato in aria", ha raccontato in questi giorni il sopravvissuto, "e sono atterrato in acqua. Ero libero e mi sono ritrovato a galleggiare. Non potevo crederci. . . Sono qui a raccontarlo". "È dannatamente fortunato a essere vivo", ha commentato l'episodio il capitano Joe Francis, che era a capo di una barca da pesca situata a poca distanza dal punto in cui Packard è stato risucchiato e sputato. Packard temeva che i suoi arti fossero rimasti spezzati a causa dell'incontro con la balena, ma è riuscito ad andarsene con le sue gambe dall'ospedale la sera stessa di venerdì, anche se zoppicando. Nonostante la disavventura capitatagli e le suppliche della moglie affinché lui cambi mestiere, il lupo di mare americano non sembra affatto intenzionato a dire addio alla propria storica professione ed è anzi già pronto a ributtarsi tra i flutti.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Flavio Pompetti per "Il Messaggero" il 13 giugno 2021. Inghiottito dalla bocca di una balena, e poi risputato nel mare. Un pescatore di aragoste nelle acque di Cape Cod in Massachusetts ha vissuto un'esperienza traumatica quanto incredibile, che pensavamo appartenesse solo alla sfera della letteratura e della mitologia religiosa. Come Giona e come Pinocchio ha sperimentato la tenebra della cavità orale di una megattera, ed è tornato alla luce quasi senza danni per raccontare la sua storia.

PESCA SUBACQUEA Michael Packard è un veterano cacciatore di aragoste di cinquantasei anni, e pesca nelle baie del New England. Fino a qualche tempo fa le acque di Cape Cod erano affollate dai preziosi crostacei, e costellate dalle boe che segnalano la presenza delle nasse con le quali vengono catturati. Il riscaldamento atmosferico e delle acque negli ultimi anni ha spinto le aragoste molto più a nord, al largo delle Nuova Scozia e della costa canadese. Per questo pescatori come Packard scendono sempre più frequentemente con pinne e bombola di ossigeno a cercare quelle ancora rimaste nelle acque domestiche. Venerdì mattina poco dopo le 8 era già alla seconda immersione e si trovava a circa 15 metri di profondità, quando è avvenuto l'incidente. «Ho avvertito un colpo alla schiena (probabilmente l'impatto con il rostro già spalancato della balena, ndr.). Poi il buio assoluto. Potevo muovermi, ma non trovavo più l'erogatore dell'ossigeno. Sentivo i muscoli della balena che si contraevano intorno a me senza strizzarmi. Temevo di aver incontrato uno degli squali che sono visitatori frequenti della baia, ma ho capito presto quello che mi era successo perché al tatto non trovavo denti. Ero dentro il corpo di una megattera! Ho pensato ai miei due figli di dodici e quindici anni, e poi ho concluso: ecco, sto per morire». La bocca di una balena di grosse dimensioni può contenere fino a 70 tonnellate di volume. Il cetaceo la riempie di tutto quello che trova nell'acqua marina durante la caccia: crostacei, calamari, plancton, kril. La dinamica dell'apertura è come l'esplosione di un paracadute, e il rostro finisce per ostruire gli occhi del cetaceo, il quale non è capace di discernere quello che sta pescando. Poi spinge con la lingua contro i fanoni, le lamine flessibili che si estendono dalla mascella. L'acqua esce dalla bocca, mentre tutto il materiale commestibile rimane intrappolato. Nella cavità nella quale si è venuto a trovare il pescatore non c'erano le candele di mastro Geppetto. Il buio ha tradito Packard, e gli ha fatto temere che il mammifero l'avrebbe digerito, oppure che la riserva di ossigeno nelle bombole si sarebbe esaurita, e lui sarebbe finito asfissiato. 

RISCHIO EMBOLIA In realtà, come spiega il biologo marino Jooke Robbins, il rischio era inesistente: il passaggio tra la gola e l'esofago di una megattera è troppo piccolo per il corpo umano, e l'ingombro dell'insolita preda deve essere risultato troppo fastidioso. Il vero pericolo avrebbe potuto essere la rapida risalita dalla profondità del mare, senza effettuare la fase di compensazione che i subacquei sono abituati ad osservare. Packard ha rischiato l'incidente più comune nella sua professione: la formazione di un embolo di conseguenze micidiali.

Dopo circa trenta secondi che al prigioniero sono sembrati un'eternità, la balena è tornata in superficie e ha cominciato a scuotere la bocca aperta, infastidita dai movimenti del sub, ovviamente impaurito che si agitava dentro di lei, e con un colpo di tosse ha sputato l'ospite indesiderato. I compagni di pesca tra cui la sorella Cynthia a bordo di un battello hanno visto Michael uscire dalla bocca della balena come per miracolo, prima le pinne e poi il resto, e cadere in acqua. Lo hanno soccorso e portato in ospedale, ma a parte qualche escoriazione e l'indolenzimento, i danni erano stati minimi.

·        Cazzi animali.

Dagotraduzione dal The Guardian l'8 giugno 2021. Gli scienziati russi hanno dimostrato che una microscopica creatura simile a un verme, etichettata dai biologi come uno "scandalo evolutivo" per aver prosperato per milioni di anni senza fare sesso, è sopravvissuta per almeno 24.000 anni nel permafrost siberiano e, una volta scongelata, è stata poi in grado di riprodursi. I rotiferi bdelloidei, invertebrati pluricellulari esclusivamente femminili, sono già conosciuti per la loro resistenza alle radiazioni e la loro capacità di resistere ad ambienti piuttosto inospitali: essiccamento, fame e carenza di ossigeno. Esistono da almeno 35 milioni di anni e si possono trovare oggi in laghi d'acqua dolce, stagni, ruscelli e habitat terrestri umidi come muschi, licheni, corteccia d'albero e terreno. Queste piccole creature dure - che hanno un apparato digerente completo che include una bocca e un ano - sono in grado di sopravvivere in ambienti ostili interrompendo ogni attività e arrestando quasi completamente il loro metabolismo. Questo processo si chiama criptobiosi, che significa "vita nascosta", spiega Stas Malavin, ricercatore presso il Laboratorio di criologia del suolo presso l'Istituto di problemi fisico-chimici e biologici nella scienza del suolo a Pushchino, in Russia. «È uno stato tra la vita e la morte». Il Soil Cryology Lab ha precedentemente isolato altri organismi microscopici, tra cui un verme nematode di 30.000 anni, dal permafrost. Ma in questo studio, Malavin e i suoi colleghi hanno utilizzato la datazione al radiocarbonio per determinare che i rotiferi, recuperati da campioni estratti in località artiche remote tramite una piattaforma di perforazione, avevano circa 24.000 anni. Prove precedenti avevano dimostrato che le creature potevano sopravvivere fino a un decennio se congelate. I rotiferi trovati nel permafrost sarebbero stati sotto i piedi di grandi creature lanose, ora estinte, come il rinoceronte lanoso, ha detto Malavin. Una volta scongelati in un ambiente di laboratorio, i rotiferi sono stati in grado di riprodursi, hanno scritto i ricercatori sulla rivista Current Biology. Ma gli scienziati sono incerti sui meccanismi biologici che consentono a questi minuscoli organismi di sopravvivere nel ghiaccio per un periodo così lungo. «I risultati di questo documento sono domande più che risposte». Ma studiare le creature può aiutare a trovare modi per migliorare la crioconservazione di cellule, tessuti e organi. «Gli esseri umani non possono preservare organi e tessuti per un tempo così considerevole. Questi rotiferi, insieme ad altri organismi trovati nel permafrost, rappresentano il risultato di un grande esperimento naturale che non possiamo replicare... quindi sono buoni modelli da studiare ulteriormente», ha detto Malavin. Matthew Cobb, un professore di zoologia all'Università di Manchester che non è stato coinvolto nella ricerca, ha detto che l'implicazione più spettacolare della ricerca è che potrebbero esserci molti tipi di animali congelati nel permafrost che potrebbero svegliarsi mentre il riscaldamento globale scioglie il permafrost. «Ciò non significa che cose terrificanti usciranno e ci mangeranno, ma dà agli scienziati la possibilità di studiare come il rotifero si è adattato per resistere ai cattivi effetti del congelamento e l'opportunità di esplorare la differenza tra specie esistenti e i loro predecessori», ha affermato. «Ciò è particolarmente significativo nel caso dei rotiferi bdelloidei che si riproducono per partenogenesi (le femmine si clonano). Uno dei vantaggi del sesso è che si mescolano i geni ogni generazione: qui vengono tutti copiati, quindi c'è meno variabilità su cui operare la selezione naturale. Ora abbiamo la possibilità di confrontare il genoma di questo gruppo di animali con i loro equivalenti moderni, noti dal Belgio. Ciò farà luce su una curiosità biologica chiave e potrebbe rivelare perché alcuni animali hanno rinunciato del tutto al sesso».

Il libro di Vincenzo Venuto. Anche gli animali “o’ fanno strano”: il kamasutra come motore dell’evoluzione. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Aprile 2021. Tra un giorno da leone e cento da pecora, l’antechino di palude fa una scelta più estrema: questo marsupiale, che somiglia a un topolino e vive in Australia, può fare sesso per dodici ore, tutti i giorni, per un mese di fila, con tutte le femmine che incontra, corteggia, per le quali si batte con altri maschi. E alla fine muore. Campa un anno in tutto. Lo squalo, invece, travolto da un fortunoso destino nell’azzurro mare d’agosto, ha due peni. Il gobbo argentino, una piccola papera, uno solo ma lungo 42 centimetri e mezzo. Le lumache sono invece in grado di avere contemporaneamente due rapporti sessuali. Dove trovarli e scovarli e spiarli, questi animali fantastici, mentre si agghindano e si corteggiano e alla fine – quasi sempre – copulano e – spesso e volentieri – mettono su famiglia è presto detto: in Il gorilla ce l’ha piccolo (HarperCollins), di Vincenzo Venuto, biologo e autore e conduttore televisivo. Un volumetto mondo, una guida focosa, piccante e peccaminosa sulle abitudini sessuali degli animali per tornare anche agli esseri umani. Viene fuori da un podcast omonimo per il sito storielibere.fm. Un’idea nata dai perché, dalle domande, dalla curiosità di un bimbo. Venuto infatti è una specie di Indiana Jones all’italiana, più guida che avventuriere; uno di quelli che ha esaudito i sogni di tutti o quasi i bambini di fare i veterinari o qualche altro lavoro legato agli animali e invece alla fine niente. S’è specializzato sull’acustica dei pappagalli africani e ha ideato per La7, Mediaset e Sky una serie di trasmissioni piuttosto fortunate. Il gorilla ce l’ha piccolo era chiuso in un cassetto da anni. E quindi ne aveva di punti interrogativi. Perché diciamo “si pavoneggia”? Perché il pene dei maschietti ha perso quell’osso detto “baculum” che avrebbe reso la loro vita meno difficile? Perché le lucciole fanno luce? Come il sesso può essere un modulatore sociale? Perché l’ovulazione delle donne è “nascosta”? Che cosa c’entrano con tutto questo il velo e l’infibulazione e il delitto d’onore? Perché in alcuni Paesi la carne di maiale non si mangia e come questo è diventato un precetto religioso? Qual è la differenza tra polpi e polipi? Qual è l’animale più longevo di tutti? E soprattutto: come fa e come lo fa il coccodrillo? Niente spoiler, tranne per una: il pene di un gorilla alto oltre due metri e pesante quasi 200 chili è lungo tre centimetri. Eretto. E naturalmente c’è un perché. Questo il fulcro: il progetto incuriosisce perché il campo è più ampio di quanto si possa pensare. Si va oltre il corteggiamento, l’atto, il tradimento e via dicendo. Il sesso è motore dell’evoluzione: la selezione non privilegia solo i più adatti a sopravvivere ma anche quelli più in grado di riprodursi. Un istinto naturale e una forza vitale possibile grazie alla diversità che permette il cambiamento e quindi l’evoluzione e quindi la sopravvivenza. Venuto ha scritto un libro di aneddoti e di viaggi oltre che di citazioni scientifiche. Tutto nasce dalla “guerra dei sessi”, dall’investimento a basso costo di spermatozoi dei maschi e da quello ad alto prezzo delle uova da parte delle femmine. E infatti l’uomo più prolifico della storia ha avuto 868 figli, la donna 69 – chi sono? No spoiler avevamo detto. Da qui che le donne scelgono, quegli altri si fanno scegliere e quindi fanno di tutto: ballano, bramano, combattono, ululano, volano, disegnano sulla sabbia o costruiscono nidi esteticamente stupefacenti – come gli uccelli giardinieri che hanno una fissa per il blu e le sue 50 sfumature. È la voglia, la pazzia, l’incertezza e l’allegria a guidare questo safari un po’ voyeur in tutti e cinque i continenti. Qua e la strappa una risata, si scoprono parole nuove, fa anche schifo e orrore questo viaggio. La natura – i ragazzi dello Zoo di Venuto inclusi – non è di per sé buona: ci sono dentro violenze e devianze – “Niente è buono o cattivo se non è tale nel nostro pensiero”, scandiva Amleto – applicare il giudizio morale è concepire l’uomo come misura di tutte le cose. E invece qui si scopre anche qual è la differenza fondamentale tra uomini e animali – e no, non è la pornografia, come hanno notato i ricercatori di Chengdu sui panda. Oltre le nove settimane e mezzo di ungulati e rettili e certe gag alla Fiorello a Sanremo sugli argonauti e i polpi, la natura offre poi spunti sulla diversità che noi umani al massimo “o’ famo strano”, senza neanche troppa fantasia, come i protagonisti di Viaggi di Nozze di Verdone. E quindi famiglie allargate che I Cesaroni si scansano, monogamia e poligamia si incrociano e si sfiorano e mutano e comunicano tra di loro. È tutto fluido insomma, al servizio della sopravvivenza e del piacere. E infatti tra i primi a scoprire le famiglie omogenitoriali fu il padre di Konrad Lorenz, altro che Unioni Civili. Una fluidità che appartiene anche alla “scimmia nuda”. Non ditelo al senatore della Lega Simone Pillon. O forse sì.

Siegmund Ginzberg per Dagospia il 28 dicembre 2020. Il gemano reale ce l’ha a cavatappi. Ed è pure violento. Il pinguino di Adelia è pedofilo e pure necrofilo. C’è chi ce l’ha spinoso, chi uncinato, chi dentato, chi bifido, e capace di penetrare più femmine allo stesso tempo. L’Echidna a becco corto, un mammifero australiano, ce l’ha a quattro teste. Pensavate che ad avercelo più grosso fossero balene ed elefanti? Un lumacone, la limaccia grigia, ce l’ha di lunghezza doppia del proprio corpo. I trichechi ce l’hanno con l’osso. L’Argonauta, bellissimo cugino dei polpi, ce l’ha mobile, che si stacca e raggiunge come un proiettile la femmina, ed è pure dotato di una magnifica conchiglia, in cui poi accoglie le uova fecondate. Pensavate che gli animali lo usassero solo per riprodursi e non anche per divertirsi? Ebbene, omosessualità e bisessualità sono prerogative di oltre un migliaio di specie, e non solo mammiferi. Il Cynopterus Sphinx, un pipistrello asiatico, pratica fellatio e cunnilingus, lo scoiattolo di Terra del Capo si masturba (e la cosa ha benefici per la sua salute), il Tursiope, una specie di delfini, fa giochi erotici e omoerotici, partouze subacquee da far impallidire il Kamasutra…Queste e altre curiosità in un libro dell’etologa Emanuelle Pouydebat, deliziosamente illustrato con disegni a colori da Julie Terrazzoni: Sexus Animalus, pubblicato da L’ippocampo (euro 19,90). È praticamente una strenna natalizia. Non dico da regalare ai bambini, ma da tenere tranquillamente sul tavolino davanti al divano in soggiorno, senza temere che un ospite si scandalizzi se si mette a sfogliarlo. Fidatevi. A New York a suo tempo avevo trovato in una libreria dell’usato una rarità di impronta sessantottina, How A Baby Is Made, con bellissime illustrazioni destinate all’infanzia, ma credo di non aver osato darlo ai miei figli piccolini. Questo lo lascerei tranquillamente in giro, a portata di nipotini. A proposito, chissà quando potremo avere di nuovo ospiti? Non è l’unico libro fresco di stampa che parla di organi sessuali. Soprattutto maschili. Di quelli femminili, anche degli animali, si sa meno, e quindi se ne parla meno, si scusa la Pouydebat. Un altro libro che nelle librerie in questo periodo va a ruba (in molte è già esaurito) è La voglia dei cazzi, e altri fabliaux medievali, di Alessandro Barbero (Edizioni Mercurio, euro 15). Si tratta della traduzione, da parte dell’esimio medievista, di una gustosa scelta di fabliau, racconti spesso erotici del 1200, accompagnati da una dotta quanto brillante introduzione. Che si stia aprendo una nuova stagione? Negli anni ’70 aveva avuto un certo successo un libro del professore dell’ École des hautes études Jean-Paul Aron e dell’etnologo del Politecnico di Zurigo Roger Kempf sul costume sessuale in letteratura tra Settecento e Ottocento. Si intitolava: Il pene e la demoralizzazione dell’Occidente. Sottotitolo: “Genealogia della morale borghese”. Poi, col femminismo militante, erano arrivati i dialoghi e monologhi della vagina. C’era stata un’intera epoca in cui una parola che faceva parte del linguaggio comune, in bocca a tutti, era invece proibitissima in tv. Finché fu Cesare Zavattini a rompere per primo il tabù, negli anni Settanta, in un programma radiofonico. E ora tutti questi cazzi in libreria. Che stia iniziando un nuovo ciclo, incentrato stavolta sull’organo riproduttivo maschile, malgrado #Metoo? Credo che sia una buona cosa dare il loro nome alle cose. E che sia brodo di cultura dell’ipocrisia – con tutto quel che ne consegue – censurare le parole. Già Jean de Meung, l’autore del Roman de la Rose, ragionando sulle cosiddette parole oscene concludeva: “Le chiamino pure come fanno di solito, se non vogliono usare le parole giuste; non sarò io a costringerle. Ma il mio massimo sforzo, quando voglio dire qualcosa chiaramente, è di parlare in modo appropriato”. Nel racconto L’Esquiriel, lo scoiattolo, una borghese ammonisce la figlia a non pronunciare mai quella parola, perché “una donna può finire male se la sentono parlare come non dovrebbe”. E la figlia: “Cazzo, disse, sant’Iddio, cazzo! Dirò cazzo anch’io, senza discussione. Cazzo, misericordia! Papà dice cazzo, mio fratello dice cazzo, la cameriera dice cazzo, e cazzo qua e cazzo là, tutti dicono cazzo quando gli pare! Anche tu, mamma, dici cazzo. E io, scema, cos’ho fatto che non posso dire cazzo? Lo dirò eccome, cazzo, mi do il permesso da sola”. Per Gioacchino Belli, che di mestiere faceva il censore del papa, è “Er padre de li Santi”. Lo spassoso sonetto del 6 dicembre 1832 così intitolato elenca ben altri cinquanta modi di denotarlo in romanesco. E siccome il censore del Papa sor Belli, malgrado il codino, è già per la parità di genere, lui dedica pure un altro sonetto a “La madre de le Sante”. Cosa audacissima per l’epoca se si tiene conto che, mentre il riferimento al membro maschile è, per quanto volgare, di uso comune in quasi tutte le lingue occidentali, in inglese l’organo femminile è ancora assolutamente impronunciabile, cuntè la peggiore parolaccia che si possa profferire.

·        Sesto senso e telepatia.

Sesto senso e telepatia, i "poteri" di cani e gatti. Anticipano l'arrivo dei terremoti, sanno trovare la strada di casa e soffrono o gioiscono con chi li ama.Laura Tuan, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Sono innumerevoli le vicende di cani e gatti che, smarriti o abbandonati, hanno inspiegabilmente saputo ritrovare la via di casa, per questo ci si chiede se alcuni animali abbiano percezioni extra sensoriali. Possibile che Micio e Fido, proprio come gli umani sensitivi, «vedano» e «sentano» ciò che non si potrebbe nè vedere nè sentire? Un discorso analogo vale per gli uccelli migratori che, guidati da un misterioso istinto, si ritrovano come teleguidati a un magico appuntamento nel luogo lasciato l'autunno precedente. Molti parapsicologi hanno indagato nelle meraviglie arcane del mondo animale: cavalli abilissimi nel risolvere operazioni matematiche, gatti atterriti da visioni, cani capaci di indovinare i simboli della carte zener, un test creato appositamente per misurare le facoltà extra percettive. La storia del paranormale ci regala decine di casi interessanti, storie buffe, talvolta commoventi, altre tragiche, ma sempre misteriose. Si pensi ai famosi cavalli di Elberfeld: il saggio Hans (l'epiteto gli fu attributo a proposito), conosceva i colori, le note musicali, i nomi delle persone che lo accudivano e le più semplici regole di calcolo matematico. Il suo compagno Ralph estrasse una radice cubica semplice battendo con lo zoccolo il risultato, mentre Mohamed, ancora più dotato, si cimentava persino con i problemi e le potenze tenendo una zampa alzata, rifiutandosi di proseguire ogni qualvolta il risultato non fosse esatto. Insolito e divertente il caso di Lampo (circa 1950 - 1961), il cane di un ferroviere di Campiglia Marittima, che col tempo era diventato un abituale e regolare fruitore delle ferrovie delle stato. Dopo che un collega gli ebbe riferito di aver visto il suo cane in una località molto distante, il ferroviere decise di seguire l'animale nei suoi misteriosi giri, che lo tenevano lontano da casa dal mattino al tramonto, scoprendo che, come un provetto viaggiatore, attento a orari e coincidenze, Lampo saliva su un treno, scendeva a una stazione, ne prendeva un altro e così via, trascorrendo la giornata in località sempre diverse. Ma il fatto più strabiliante è che riusciva sempre a ripresentarsi a casa alla stessa ora. Pur senza arrivare a casi così eclatanti, ogni proprietario di animale potrebbe riferire come il suo beniamino avverta episodi o fenomeni naturali prima del loro verificarsi: lo scatenarsi di un temporale o di un terremoto, l'arrivo di persone a lui note, manifestandolo con atteggiamenti insoliti, tutti da decodificare. Insomma, i poteri paranormali, classificati in parapsicologia come telepatia, chiaroveggenza, precognizione, non sono estranei neppure al mondo degli animali, anzi, liberi dagli schermi della razionalità. Tutti ricorderanno Hachiko, che per anni, dopo la morte del padrone, continuò ad attenderlo alla stazione alla sera alla stessa ora, fedele a quel rito quotidiano fino alla morte. Proprio come avviene per gli uomini, gli eventi emotivamente carichi, i disastri naturali, gli accidenti, turbano profondamente Micio o Fido, fino a casi limite. Un esempio molto triste la vicenda di Wamar, splendido levriero appartenuto a un nobile piemontese, impegnato al fronte. Il cane impazzì improvvisamente in un pomeriggio d'estate, mettendo in agitazione con i suoi ululati tutto il personale di servizio. Qualche ora più tardi si accasciò mugulando davanti al letto del padrone e, nonostante i tentativi del veterinario, morì di inedia qualche settimana più tardi. L'accaduto venne chiarito da una lettera giunta dal fronte, il granduca, rimasto ferito proprio nel momento in cui il cane aveva cominciato a ululare, era spirato qualche ora più tardi, proprio quando Wamar si era recato nella sua stanza, lasciandosi morire. Come scrive Chrtina Friedrich Hebbel, «il cane è il sesto senso dell'uomo».

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

·        Evento naturale…

Tina Merlin, la Cassandra del Vajont. Francesca De Sanctis su L'Espresso il 20 dicembre 2021. Figlia di contadini, partigiana, cronista. Sull’Unità la giornalista aveva previsto il disastro e denunciato i responsabili. Il ricordo a trent’anni dalla morte. Fu fin troppo facile soprannominarla “la Cassandra del Vajont” quando il 9 ottobre del 1963 una frana fece esondare la diga causando la morte di oltre duemila persone. Tina Merlin, giornalista de l’Unità, aveva previsto tutto. Così come Cassandra aveva preannunciato il rapimento di Elena e la successiva caduta di Troia, lei aveva scritto che il monte Toc avrebbe ceduto e che tutta la valle era in pericolo. Ma a differenza della sacerdotessa di Apollo, Tina Merlin, che in realtà detestava essere chiamata “la Cassandra del Vajont”, non aveva il dono della preveggenza. Quella del Vajont non fu una “tragedia naturale”, come scrissero Montanelli, Bocca, Buzzati. Per quattro anni Tina Merlin aveva denunciato gli affari della Sade (la società elettrica che progettò la diga), aveva raccontato del ventre marcio di una «montagna che cammina», aveva scritto del terreno argilloso, dei boati, dei sismi e delle frane, aveva ascoltato gli abitanti di Erto, Casso, Longarone, aveva dato voce alle loro proteste e alle loro paure. Articolo dopo articolo, per quattro anni. Tutti sapevano, ma nessuno fece nulla. Certo, la Sade era il potere, e come diceva Tina Merlin, il potere comanda. Altro che fatalità, dunque. Mai tragedia fu più annunciata. Ma non era facile per una donna, comunista, corrispondente (precaria) dell’Unità dalla provincia di Belluno, farsi ascoltare. Persino convincere i suoi colleghi romani ad ottenere la prima pagina era un’impresa.

Tina Merlin però un dono ce l’aveva, e non era quello della preveggenza, come dicevamo: lei sapeva stare in mezzo alle persone. Aveva a cuore la sorte della sua gente ed era animata da un forte sentimento di ribellione contro ogni forma di ingiustizia, un istinto indomabile in difesa di operai, emigrati e soprattutto donne, considerate inferiori senza che lei riuscisse a capirne il perché. Nelle fotografie in bianco e nero, la vediamo spesso con i suoi strumenti di lavoro inseparabili: penna e taccuino, in mezzo al fumo delle sigarette. Era molto bella, ma non aveva un carattere facile. La sua durezza le derivava probabilmente dalla vita difficile che aveva avuto, scandita da sacrifici, povertà e lutti. Aveva tanti amici, certo. Ma anche tanti nemici, proprio per questo suo voler sempre manifestare apertamente ciò che non le andava giù, dai tedeschi ai burocrati del Pci.

Le sue battaglie contro le ingiustizie della vita aveva iniziato a combatterle molto presto, dopo aver vissuto sulla sua pelle brucianti umiliazioni. Era nata il 19 agosto del 1926 a Trichiana, in provincia di Belluno, da una famiglia di contadini, e aveva capito sin da piccola cosa significava l’emarginazione. Aveva imparato a pascolare le mucche dopo la scuola, a zappare la terra, a fare da cameriera per le famiglie benestanti di Milano. E a 17 anni divenne staffetta nella brigata partigiana “7˚ alpini”. La Resistenza per lei non fu mai un capitolo chiuso, semmai una porta aperta verso la conoscenza del mondo. Sposò un partigiano, Aldo Sirena, con il quale ebbe un figlio che chiamò Toni, come il fratello anche lui partigiano che lei stimava tanto e che fu ucciso a poche ore da quel 25 aprile del 1945, giorno della Liberazione.

La vita stessa di Tina Merlin, dunque, è un racconto epico straordinario, documentato dal romanzo pubblicato postumo, “La casa sulla Marteniga” (Il Poligrafo di Padova, 1993), grazie all’aiuto di Mario Rigoni Stern. Tina frequentava anche altri scrittori, da Goffredo Parise a Gianni Rodari. D’altra parte amava scrivere - racconti, filastrocche, poesie - e fu proprio grazie ad un premio letterario che arrivò all’Unità nel 1951.

Quando iniziò la sua collaborazione con il quotidiano fondato da Gramsci scriveva per la “Pagina delle donne” e correva su e giù per la provincia di Belluno a caccia di notizie. Era quasi una missione per lei. In quell’ambiente provinciale appariva rivoluzionario per una donna fare quel mestiere che era sinonimo di libertà, di indipendenza e quasi di libertinaggio. Del Vajont scrisse tanto. Prima, durante e dopo la tragedia. Fu perfino denunciata dalla Sade per uno dei suoi primi articoli e poi assolta. L’11 ottobre del 1963 sull’Unità parlò di «genocidio». Le tv straniere la intervistavano mentre in Italia continuavano ad ignorarla. Solo 20 anni dopo riuscì a pubblicare il libro in cui raccontava nel dettaglio quello che era accaduto: “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont” (La Pietra, 1983). Nell’edizione del 2001 (Cierre Edizioni) firmano la prefazione Giampaolo Pansa e Marco Paolini, che rimase folgorato dalla lettura di questo libro e diede vita allo spettacolo-capolavoro “Il racconto del Vajont”. In effetti fu grazie al suo monologo, al film di Renzo Martinelli “Vajont - La diga del disonore” (con Laura Morante) e agli spettacoli di Patricia Zanco (“A perdifiato, ritratto in piedi di Tina Merlin” e “Il Vajont dopo il Vajont”) che la storia di Tina Merlin è diventata finalmente nota al pubblico.

Eppure, lei, della faccenda del Vajont non ne ha mai fatto una bandiera. Ricordo quando iniziai a lavorare all’Unità e mi presentarono Toni De Marchi. Mi dissero: «Lui ha lavorato con Tina Merlin». Fianco a fianco per lungo tempo. «Mi assunse nel 1975, negli anni in cui coordinava la redazione veneta», racconta De Marchi: «Stava cercando dei giornalisti e da comunista convinta ma insofferente alle logiche di partito, per evitare che le venissero imposti dei piccoli funzionari, chiese alle sezioni del Pci di Venezia se c’erano giovani interessati a intraprendere la strada del giornalismo. Il mio segretario segnalò me. Così mi ritrovai a lavorare con Tina Merlin senza sapere minimamente chi fosse. Mi sono sempre chiesto perché non veniva ben vista dal partito, poi ho capito: non faceva sconti a nessuno, si incavolava quando qualcosa non le piaceva, non era diplomatica. Era una donna dal carattere complicato e dalla vita straordinaria, che ho scoperto anni dopo perché ne parlava poco. Tina Merlin, più che una brava giornalista è stata una giornalista militante: si poneva problemi seri, dalle lotte operaie alla conquista dei diritti femminili».

Era una donna contro, come suggerisce anche il titolo della sua biografia, “Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro”, scritto da Adriana Lotto con la prefazione di Toni De Marchi (Cierre Edizioni, 2011). Oggi Adriana Lotto dirige l’associazione culturale intitolata alla giornalista, che a gennaio pubblicherà un Quaderno in cui verranno raccolte tutte le testimonianze di chi l’ha conosciuta. «Tina conservava una brutta copia di qualunque cosa scrivesse», racconta: «E noi abbiamo acquisito il suo archivio così come era, dai racconti scritti per il Pioniere alle lettere private. Le piaceva ascoltare gli altri, stare in mezzo alle persone, agli operai. Era la sua gente e lei era una di loro. Certo, pagava il fatto di essere donna e di essere una giornalista dell’Unità. Ma è sempre stata una donna contro le ipocrisie e la stupidità, per la giustizia». Chissà se il Comune di Belluno le dedicherà una statua come è stato proposto di recente dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. Una cosa è certa, oggi, a 30 anni dalla sua scomparsa avvenuta il 22 dicembre del 1991 in un letto di ospedale dopo un anno di malattia, vale la pena ascoltarla ancora la sua storia, la storia di una donna libera e ribelle che ha attraversato il Novecento senza stancarsi mai di lottare contro il potere, i pregiudizi e i diritti negati. 

Mauro Masi per Milano Finanza il 26 novembre 2021. Come affrontare al meglio il rischio da calamità naturali? Mi scrive il dr. Alessandro Di Virgilio da Roma. Tema importantissimo nel nostro Paese dove si stima che la popolazione potenzialmente esposta ad un elevato rischio idrogeologico sia pari a 5,8 milioni di persone mentre quella esposta ad un elevato rischio sismico sia 21,8 milioni di persone. In generale i differenti meccanismi istituzionali mediante i quali il rischio da calamità naturali può essere ripartito si possono distribuire su una linea ideale cui ad un estremo si collocano meccanismi ex post sulla base del principio generale di mutualità per cui la collettività (quindi la fiscalità generale) si fa carico in toto dei danni subiti solo da una parte di essa. Al lato opposto si collocano meccanismi che fanno leva sul mercato. In questo caso i singoli individui decidono ex ante se sopportare il rischio o scambiarlo con altri soggetti attraverso una qualche forma di copertura assicurativa. Le varie situazioni concrete si distribuiscono su questa linea ideale mischiando a volte l’uno o l’altro dei sistemi. Da noi il modello coincide sostanzialmente con quello dell’intervento ex post da parte della fiscalità generale. Un modello che, al di là di alcune patologie contingenti, si è comunque rivelato in grado di affrontare situazioni di grande complessità.   Ora però le difficoltà della finanza pubblica rendono sempre più difficile continuare ad utilizzare risorse pubbliche per interventi risarcitori ex post. Tuttavia, per non lasciare privo di tutele questo importante diritto sociale, si rende necessario esplorare altre possibilità. La prima, e più importante, è quella che riguarda il ricorso allo strumento assicurativo. In quest’ambito, tutta una serie di motivi, sia tecnici che di opportunità, concorrono a rendere piuttosto improbabile che le imprese private di assicurazioni possano garantire la necessaria copertura del rischio. Sappiamo infatti che i mercati assicurativi privati sono esposti a “inefficienze” derivanti dalle asimmetrie informative tra assicuratore e assicurato ma anche dalle caratteristiche del rischio e, in particolare, dalla correlazione tra i vari rischi assicurati. I fenomeni perversi a cui le asimmetrie informative possono dare luogo sono quelli della “selezione avversa” (perciò risulta conveniente assicurarsi soltanto a coloro che appartengono a classi di rischio molto elevate, con ovvie conseguenze negative per la profittabilità delle imprese di assicurazione) e del “moral hazard”, (che consiste nell’adottare comportamenti, sollecitati dall’essere assicurati, che possono rendere più probabile l’evento negativo o anche il danno che ne consegue). Da qui la necessità per individuare una soluzione efficiente ed equa di un qualche coinvolgimento del pubblico che può essere  a vari livelli (lo stato assicuratore diretto del danno; riassicuratore di ultima istanza; fornitore di supporto finanziario) anche se l’ipotesi che meglio supera le problematiche indicate, almeno da un punto di vista tecnico, è quella che lo Stato renda obbligatoria l’assicurazione contro eventi catastrofali come già accade in vari Paesi sia in Europa (Francia) sia extra-europei (Stati Uniti, Giappone, Turchia). Sull’obbligatorietà il dibattito nel nostro Paese è, a livello politico, da tempo aperto: chi è contrario sostiene (con solide ragioni peraltro) che finirebbe per essere considerata, di fatto, una ulteriore tassazione sulla casa. Proprio per questo da più parti (e dalla stessa ANIA) è stato proposto una sorta di sistema misto in cui lo Stato copre una parte del danno mentre la parte restante sarebbe sostenuta da polizze private obbligatorie sottoscritte da proprietari di case. Un po' come accade lì dove vige quello che è considerato il modello migliore cioè in Francia.

23 novembre 1980: l'Italia al Sud devastata dal terremoto. Stefano Vecchione su Il Quotidiano del Sud il 23 novembre 2021. INIZIA in Giappone la diffusione del videogioco Pac-Man e a New York è arrestato Michele Sindona per il fallimento della Franklin National Bank. Un mese dopo è indiziato anche per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Il 1980 è un annus horribilis per l’Italia: il 27 giugno, alle 20:45, scompare dai radar, 40 miglia nautiche a nord di Ustica, un DC9 Itavia che da Bologna doveva raggiungere Palermo, nessun superstite tra i 4 membri dell’equipaggio e i 77 passeggeri, e il 2 agosto, alle 10:25, una bomba esplode nella sala d’attesa della Stazione ferroviaria di Bologna causando 85 morti e 203 feriti. Il Governo è all’ennesima ricerca affannosa di una via d’uscita dal tunnel degli scandali, quando, nel Mezzogiorno, dove ancora non sono state sanate le ferite del colera, il 23 novembre, una domenica che sembra estate, una giornata luminosissima, d’improvviso, un terrificante terremoto, più devastante di un’esplosione di quindici bombe atomiche, sconvolge tutto l’Appennino meridionale, ed in particolare la Basilicata, la Campania e le Puglie. La prima scossa, completamente distruttiva, percorre repentinamente una vasta area, difficile da determinare con esattezza: Muro Lucano comincia a tremare intorno alle 19:30, la scossa è registrata con epicentro tra i comuni di Castelnuovo di Conza, Conza della Campania e Teora tra le 19:34 e le 19,35, a Balvano arriva alle 19:36. La durata è infinita, 90 interminabili secondi in cui il sisma distrugge interi paesi e fa strage degli abitanti. In un clima di paura, al freddo, con migliaia di morti e migliaia di dispersi, è lunga l’attesa dei soccorsi, che sembrano non arrivare mai. È una situazione da incubo nei territori dell’Italia più poveri e indifesi, un quadro agghiacciante che va da Napoli a Potenza. Le popolazioni restano all’addiaccio tra tendopoli di lenzuola, sono senza acqua, senza pane e senza coperte, ma moltissimi trovano la forza per scavare disperati con le mani, perché da sotto le macerie giungono lamenti e grida di centinaia e centinaia di persone. Napoli è paralizzata e deserta, sono tante le fabbriche colpite dalle cento scosse del sisma, che ancora continuano incessantemente. Gravemente danneggiati anche gli stabilimenti della Liquichimica e dell’Aeritalia. Spazzato via il vecchio centro di Avellino e quasi cancellati molti dei paesi vicini. Attorno a Salerno è una distesa di macerie, Eboli ha un aspetto spettrale, il centro di Buccino è stato quasi raso al suolo, e danni anche nel Cilento. Ferrovie sconvolte in Campania e in Basilicata, inagibile le linee Napoli-Foggia e Battipaglia- Potenza-Metaponto. La SIP chiede di limitare le telefonate, sono senza luce molti comuni e sono enormi i disagi anche per il traffico stradale. In rovina Balvano, Pescopagano, Potenza e altri innumerevoli borghi della montagna lucana, terra di emigrazione, dove la situazione è altrettanto drammatica. Immediatamente, ancor prima del tanto atteso arrivo dei soccorsi, tra il 24 e il 25 novembre 1980 il presidente della Repubblica Sandro Pertini si getta d’impeto in un triste pellegrinaggio nelle zone devastate dal terremoto. Per Sandro Pertini, che raggiunge i territori maggiormente colpiti dal sisma, non ci sono i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci e ancora due giorni dopo il terremoto, dalle macerie si levano grida di disperazione dei sepolti vivi. Dopo 24 ore il Governo non conosce ancora l’entità del disastro. Le informazioni radio si accavallano per ore e ore fino a formare un quadro sempre più preoccupante e drammatico della tragedia. Un grande sforzo di solidarietà è comunque già in atto. I primi soccorsi sono quelli inviati da singoli comuni, e sono potenziati i servizi negli ospedali vicini alla Basilicata e alla Campania. Migliaia di roulotte sono già pronte per essere inviate ai terremotati. È ormai certo che gli italiani saranno chiamati a grandi prove per alleviare le sofferenze delle vittime del terremoto, per ricostruire e risanare quel che è stato distrutto. Ma una cosa viene detta subito dal PCI, ora che le immagini della distruzione e della morte scorrono nei telegiornali: gli aiuti non devono finire come è finita la famigerata addizionale Pro Calabria.

Da Ansa.it il 24 novembre 2021. Volti e storie 'in presa diretta' dalla tragedia del terremoto che colpì la Campania e la Basilicata il 23 novembre del 1980: programmata lo scorso anno in occasione del quarantennale (poi rinviata causa pandemia) per la serie Il MANN e la memoria si è aperta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli la mostra 19:34. Fotografie di Antonietta De Lillo (fino al 2 maggio 2022) con il sostegno della Regione Campania. Oltre cento le foto inedite in bianco e nero, dall'archivio di marechiarofilm, realizze da Antonietta De Lillo allora giovane fotogiornalista destinata a dimostrare la sua capacità narrativa nella trentennale carriera di autrice cinematografica. «Trasmettere la memoria viva di ciò che è accaduto 41 anni fa è oggi, ancora più significativo. Insieme al ricordo della tragedia vogliamo indicare alle giovani generazioni anche e soprattutto la forza e i sentimenti di solidarietà e la voglia di rinascita che trasmettono le immagini di questa emozionante mostra» ha detto il direttore del Mann Paolo Giulierini. Partita da Napoli verso i comuni dell'Irpinia ridotti in macerie, le foto raccontano i primi soccorsi, i gruppi di ricerca, e poi nei giorni successivi gli accampamenti, le roulotte e i prefabbricati, l'opera dei volontari che giungono da tutta Italia, l'arrivo della neve fino al disgelo, alle soglie di una fragile, ma coraggiosa ripresa. Un tappeto sonoro, tratto dall'archivio di Rai Teche, con le voci dei tg e radiogiornali dell'epoca è diffuso in tutte le sale. «Sono felice e onorata che queste mie fotografie siano esposte al Museo Archeologico Nazionale di Napoli in un dialogo tra l'antichità, un passato più recente e il nostro presente» scrive De Lillo nel catalogo. Nell'allestimento della mostra patrocinata dall'Ordine dei Giornalisti della Campania, le foto sono commentate da frasi tratte dai giornali dell'epoca e da servizi televisivi. In un video il contributo dell'archeologo Antonio De Simone sul tema dei danni subiti nell'80 dal museo. Il percorso si chiude con l'illustrazione dei recenti studi sull'antisismica condotti dal MANN con l'Università degli studi Federico II Dipartimento di Strutture per l'Ingegneria e l'Architettura (DiSt) diretto da prof. Andrea Prota.  

Da Ansa.it il 24 novembre 2021. L'Irpinia ricorda oggi le oltre due mila vittime, su complessive 2.914, del terremoto che alle 19:34 del 23 novembre del 1980 si abbattè con la furia devastante di una scossa di magnitudo 6.9 che all'epicentro localizzato sulla Sella di Conza, in Alta Irpinia, toccò il decimo grado della scala Mercalli. Una contabilità di guerra: insieme alle vittime, si contarono oltre 8 mila feriti, molte centinaia dei quali con danni permanenti; 300 mila abitazioni distrutte o inagibili; 18 comuni rasi completamente al suolo, quelli del "Cratere", e altri 99 definiti "devastati" nella gerarchia dei danni. L'evento sismico cambiò il corso della storia delle comunità irpine. I costi ufficiali della lunga opera di ricostruzione delle case e per l'insediamento delle aree industriali, nove in totale, ammontano a 150mila miliardi delle vecchie lire, 75 miliardi di euro, destinati oltre che alla provincia di Avellino a quelle di Benevento, Salerno, Caserta, Matera, Potenza, Foggia e alla città di Napoli, per la quale venne inserito nella legge 219 un apposito capitolo. Per 41 anni quel terremoto ha costituito un riferimento costantemente conflittuale se non permanente nel discorso pubblico e in quello socio-economico nella provincia più colpita, quella di Avellino, confermando in qualche misura la incompiutezza dei processi messi in moto all'indomani del sisma. A distanza di decenni, tornano in primo piano alcuni temi che furono al centro del confronto sul futuro e le prospettive del territorio irpino. A partire dalla nuova emigrazione che ha prodotto spopolamento e desertificazione sociale, un fenomeno che investe più in generale tutte le zone interne del Mezzogiorno: ogni anno due mila persone, soprattutto giovani, lasciano la provincia di Avellino per andare a lavorare e a studiare nelle regioni del Nord o all'estero. Le nuove speranze per arginare il fenomeno che da anni appare inarrestabile oggi sono affidate alle risorse che il Pnrr riserva alle aree interne per incentivare lo sviluppo di una economia collegata alla sostenibilità dei borghi del "buon vivere", la cui ricostruzione ha valorizzato i centri storici, e alla filiera eno-gastronomica di notevole qualità. Un obiettivo che è stato ribadito ad Avellino dal ministro per il Sud e la Coesione Sociale, Mara Carfagna: «Le risorse ci sono. Si tratta di 1 miliardo e 150 milioni - ha detto - per finanziare infrastrutture sociali nelle aree interne funzionali a spezzare la condizione di isolamento e fermare la tendenza allo spopolamento. È un'occasione unica e irripetibile che dobbiamo cogliere e non sprecare per rivalità, contrapposizioni e conflitti istituzionali». Sul versante industriale fa da positivo contrappasso le nuove prospettive che si aprono per Iia, Industria Italiana Autobus, l'unica azienda pubblica italiana che produce autobus nello stabilimento di Flumeri, in Valle Ufita. 41 anni fa si chiamava Iveco, gruppo Fiat, ed era stata aperta da qualche anno ma già scontava le prime crisi produttive collegate al mancato decollo del piano autobus nazionale. Cambiò nome in Irisbus, sempre del gruppo della multinazionale torinese fino al luglio del 2011 quando Fiat decise la dismissione dello stabilimento irpino. Dal 2019 è stato rilevato da Invitalia ed ex Finmeccanica, oggi Leonardo, che detengono la maggioranza delle quote societarie. Nella giornata di ieri, Iia ha presentato Citymood, il primo autobus elettrico interamente prodotto in Italia, che apre durature prospettive industriali e occupazionali che «nel contesto della ripresa dalla crisi pandemica - ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio - rappresenta una importante testimonianza dell'impegno di coniugare qualità del prodotto, soluzioni tecnologiche e sostenibilità che fanno dell'Italia il paese leader in Europa nell'economia circolare».

Terremoto dell’Irpinia, 41 anni dopo 20mila pratiche ancora ferme per la ricostruzione infinita. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Erano le 19.35 del 23 Novembre 1980 quando la radio cominciò a balzare distorcendo la musica popolare che stava andando in onda. Il boato di quella scossa durata un minuto e mezzo la sentirono in tanti. È questa l’immagine stampata nella memoria di chi visse il dramma di quei giorni e che ancora 41 anni dopo resta indelebile. Quella terribile scossa in un minuto e mezzo distrusse 36 comuni tra Campania e Basilicata. Furono 2.735 le persone che persero la vita e le centinaia di migliaia di senzatetto che, per anni, si sono dovuti confrontare con una emergenza che sembrava infinita. Un evento tragico che ha segnato profondamente la comunità e che ancora oggi mantiene visibili le ferite.

Ventimila pratiche ancora ferme in Regione

Dopo 41 anni nelle città le ferite sono ancora sotto gli occhi di tutti sotto forma di caseggiati crollati o ciò che resta delle case di fortuna che furono costruite nella fretta di tamponare l’emergenza di quanti rimasero senza casa. Oggi quella ricostruzione poderosa che costò allo Stato oltre 50mila miliardi di lire, almeno fino alla relazione conclusiva presentata nel 1991 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, sembra non essere ancora terminata.

Dal 1980 si governa a colpi di emergenza, così il sisma in Irpinia ha cambiato l’Italia

Terremoto del 1980, il racconto di Donato: “Sento ancora il pianto delle bimbe prima di morire, sono stato 18 ore sotto le macerie”

Terremoto Irpinia 1980, 40 anni dopo tante ferite ancora aperte: “È come se il dramma fosse successo ieri”

Secondo quanto riportato dal Mattino ci sono ancora pratiche per la ricostruzione ferme in Regione. gli interventi sono residuali e riguardano il 6 per cento del totale del patrimonio edilizio interessato, circa 20mila richieste di contributo a cui si aggiungono le poche migliaia della Basilicata: 120 milioni di euro che per altro sono previsti dal bilancio di Palazzo Santa Lucia, quindi pronti per venire erogati e mettere il punto a una storia che è durata già troppo a lungo.

La carta della pericolosità sismica

Intanto La Regione lancia la campagna per mettere in sicurezza le case ed evitare che un nuovo sisma si possa trasformare in tragedia. “Prevedere un terremoto, ossia la data o il periodo in cui si verificherà, non è possibile. Ma sapere se un determinato territorio è a rischio, si può”, scrivono dalla regione Campania su Facebook. Online c’è la carta della pericolosità sismica divisa in fasce di colore. 

“Oggi conosciamo esattamente la pericolosità delle varie zone della Campania – continua il post su Facebook – Prepararsi ad affrontare il terremoto è fondamentale. La sicurezza parte dalla propria abitazione. Se è costruita in modo da resistere al terremoto, quindi adeguata alle norme antisismiche, vi garantirà una maggiore protezione”.

“Una scossa sismica, infatti, provoca sempre oscillazioni, più o meno forti, che scuotono in vario modo gli edifici. Le costruzioni più antiche e non progettate secondo criteri antisismici, potrebbero non sopportare le sollecitazioni future derivanti da un nuovo sisma e mettere a rischio la vita umana. È il crollo delle case che uccide, non il terremoto. Oggi, tutti i nuovi edifici devono essere costruiti rispettando le normative sismiche”.

“La Regione Campania proprio per agevolare le procedure necessarie all’ottenimento delle autorizzazioni per i lavori finalizzati all’adeguamento antisismico, anche in vista degli investimenti strategici del PNRR e degli interventi soggetti a incentivi Sisma Bonus ed Ecobonus, ha varato “Sismica”, il nuovo portale regionale in materia di difesa del territorio dal rischio sismico – conclude il post – Non rischiare, adegua la tua casa!”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Cosa sono le luci telluriche o sismiche apparse durante il terremoto in Messico? Giampiero Casoni il 08/09/2021 su Notizie.it. Cosa sono le luci telluriche? Il fenomeno non è raro e si determina quando nel quarzo si generano dei campi elettrici a causa della polarizzazione. La domanda è ricorrente in queste ore: cosa sono le luci telluriche o sismiche apparse durante il terremoto che in Messico ha scosso la terra con ben 7,1 gradi della scala Richter? Il fortissimo sisma della serata di martedì 7 settembre con epicentro a Los Órganos de San Agustín, nello Stato di Guerrero, è stato accompagnato da un fenomeno inquietante su cui gli scienziati stanno dibattendo da molto tempo, ogni volta che si verifica un terremoto in date condizioni di magnitudo e composizione delle faglie coinvolte.

Cosa sono le luci telluriche: il sisma in Messico le ha viste apparire dal nulla. L’ipocentro del sisma in Messico è stato registrato anche dall’Istituto geofisico degli Stati Uniti (USGS) ed è stato individuato a 12,6 chilometri di profondità. Il terremoto a cui avrebbero fatto seguito scosse di assestamento multiple con magnitudo fino a 5,2, avrebbe finora fatto un morto ed è stato “immortalato” da numerosi video amatoriali. Proprio quei video hanno mostrato il misterioso fenomeno delle luci sismiche o luci telluriche, conosciute anche con l’acronimo di EQL (da earthquake lights).

Le luci telluriche, cosa sono e come sono fatte: i colori e la direzione. Ma cosa sono? Sono luci globulari e bagliori simili ai lampi che vanno in sincrono con terremoti di grossa entità. Posso essere colorate di bianco o di azzurro, a volte con viraggio verdastro o addirittura rossiccio. Ma cose la provoca quelle luci che dal basso vanno verso l’alto? Non è ancora molto chiaro, ma pare che a determinarle sia la generazione di campi elettrici innescata da fenomeni piezoelettrici su rocce contenenti quarzo.

Sisma in Messico, cosa sono le luci telluriche: campi elettrici generati da rocce di quarzo. Che significa? Che i movimenti tettonici del terremoto deformano le rocce, le polarizzano in senso elettrico e le fanno diventare delle “antenne” che sparano verso l’alto campi elettrici ad alta rifrazione cromatica generata dalla natura cristallina del quarzo. 

Il libro di Franco Arminio. “Lettera a chi non c’era”, un pellegrinaggio in tutti i paesi colpiti da terremoti. Filippo La Porta su Il Riformista il 2 Luglio 2021. In Lettera a chi non c’era di Franco Arminio (Bompiani) le parole che riguardano l’area semantica del “tremore” sono le più frequenti, a partire dal sottotitolo (“Parole dalle terre mosse”): «Tremano le fondamenta della terra» (da Isaia), trema continuamente la terra (dai terremoti di Casamicciola del 1883, in cui Croce perdette i genitori, a quello di Messina del 1908, in cui Salvemini vide morire l’intera famiglia, moglie con 5 figli), al «minuto di tremore in Friuli nel 1976», al cielo che «un giorno tremò»…Lui stesso dichiara di venire da «un’aria che trema» e dichiara che «mi piace la vita scossa». Il libro è un pellegrinaggio in tutti i paesi colpiti da terremoti: dopo quelli prima citati, Avezzano, Irpinia, Friuli, Belice, Tuscania e poi in quelli colpiti dalle grandi sventure, dalle alluvioni, dai disastri ferroviari, etc., ma il suo sguardo si dilata a comprendere anche le tragedie sociali, dai linciaggi xenofobi agli omicidi maturati tra le mura domestiche. Arminio ha scritto una grande Spoon River del nostro tempo e del nostro paese, un’ode agli scomparsi caduti nell’oblio, ai morti anonimi – che «sembrano morire come foglie» – , alle umili esistenze finite nel tritacarne universale, alla sterminata umanità disfatta dalla morte. Il libro si compone di piccole prose (limpide, quasi prosciugate), frammenti narrativi, microritratti letterari (Silone, Salvemini), pagine di diario, descrizioni, annotazioni («c’è un silenzio clamoroso a Camerino»), e anche poesie, sia distici di grande intensità («Salì una fiamma, un lampo dal basso/ da un cielo sepolto sottoterra») e sia componimenti lunghi una pagina. Le poesie sono più convincenti quando illuminano, dall’interno, un paesaggio, piuttosto che quando risultano assertive, e dichiarando esplicitamente un sentimento. Si legga l’incipit di un componimento dal sapore pascoliano: «È Irpinia/ cadono gli alberi/ senza incontrarsi». Arminio definisce se stesso ironicamente «turista delle rovine» ma il suo è uno sguardo partecipe, tutt’altro che «da turista», animato da passione esplorativa, stupore, curiosità e pietas. È anche un significativo aggiornamento della paesologia, cara all’autore: non solo e non tanto “disciplina” dello sguardo, originale invenzione poetica (che a volte, solo a volte, sfiora un rischio di alta retorica) quanto precisa denuncia di critica documentata a comportamenti individuali e collettivi, a scelte politiche e a strategie della “ricostruzione”, infine a una ideologia dominante. E, sul fondo, una meditazione sul male: storico, metafisico, insito nella natura stessa (come una ferita o incrinatura originaria). Certo, resta il presupposto della paesologia (presupposto morale e “epistemologico”), ineliminabile: guardare bene i paesi, sentirli nel profondo, saperli ascoltare, e poi dare fiducia alla gente, anche perché solo così la fiducia – sempre contagiosa – verrà ricambiata (contro gli “scoraggiatori” professionali o peggio i profeti estetizzanti dell’apocalisse). Il libro di Arminio si rivela infine come un esercizio spirituale laico, la proposta di una “filosofia”, di una postura di fronte al terremoto, al tremore. Per i terremoti non ci sono cure né vere spiegazioni, e certo non dipendono da noi: «La stessa cosa accade nel profondo di noi stessi, non possiamo entrare e uscire a piacimento dalla nostra inquietudine». Che significa? Significa imparare che la vita non può essere immunizzata o assicurata, che quasi niente è sotto il nostro controllo (come ci promette la tecnologia), che il futuro non esiste e perciò si riempie di ogni nostra fantasia (la virtù teologale della speranza, per quanto umanamente comprensibile, secondo Pasolini genera alienazione dal presente). Si delinea qui l’abbozzo di una filosofia antica, segnatamente stoica: «il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi vi si oppone» (Seneca). Il messaggio non è però solo di rassegnazione: bisogna “tremare” e al tempo stesso usare il tremore. Accettare la finitezza umana – sarebbe insensato opporvisi! -, la fondamentale impotenza, la nostra “infermità”, ma costruire attraverso l’infermità un senso dell’esistere e una solidarietà di tutti gli esseri umani di fronte al nemico comune (si veda la “Ginestra” leopardiana). Arminio nella bellissima lettera finale a chi non c’era lancia un appello alle nuove generazioni (e ovviamente non solo a loro), in nome della «grande sensualità della rivoluzione»: «Tu che al tempo del terremoto non c’eri, lascia tremare la tua vita». Dante, che della materia si intendeva (qualcuno ipotizza una sua epilessia) parla di un «tremuoto nel cuore» alla vista di Beatrice. Ma non solo. All’interno della Divina commedia il terremoto, che pure nell’aldiquà genera morte e distruzione, appare nell’aldilà come presenza teofanica e segno positivo. Con un terremoto Cristo scese all’inferno, mentre nel purgatorio avviene un terremoto ogni volta che un’anima sale al cielo. Possiamo non credere nei regni dell’oltretomba e neanche in una vita dopo la morte, però qui troviamo l’invito ad assumere il terremoto, interiore ed esteriore, come evento straordinario, occasione di rigenerazione. Filippo La Porta

La famiglia Tuccio fu sterminata nel sonno. Sisma di Accumoli, tutti assolti nel processo sul crollo del campanile: “Famiglia Tuccio sterminata dalla natura”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Assolti tutti gli imputati nel processo per il crollo del campanile di Accumoli, provincia di Rieti, a causa del terremoto del 24 agosto 2016. La sentenza di primo grado, arrivata nel pomeriggio, del giudice monocratico del Tribunale di Rieti, Giovanni Riccardo Porro. In quel crollo morì un’intera famiglia, n nucleo molto giovane, la famiglia Tuccio: madre, padre e due bambini piccoli. Gli assolti sono l’ex sindaco Stefano Petrucci e l’ingegner Matteo Buzzi, perché il fatto non costituisce reato, e gli architetti Pier Luigi Capelloni, Angelo Angelucci, Mara Cerroni, l’ingegner Alessandro Aniballi e il geometra Giuseppe Renzi perché il fatto non sussiste. La famiglia Tuccio morì nel sonno, dopo che la scossa che proprio ad Accumoli ebbe il suo epicentro, causò il crollo della vela campanaria facendola piombare violentemente sul tetto dell’adiacente edificio e, dopo aver sfondato la copertura della casa canonica e due solai, finì nella casa del Comune dove i Tuccio vivevano in affitto. Andrea Tuccio aveva 34 anni, come la moglie Graziella Torroni, i figli Stefano e Riccardo avevano otto e nove mesi. “Il processo non è stato facile, ha subito la pressione dei media, la questione di vicinanza umana e morale nei confronti di una famiglia completamente sterminata. È molto più facile condannare che assolvere e il giudice Porro ha dimostrato grande equilibrio e coraggio. È una sentenza giusta perché frutto di un’istruttoria dibattimentale particolarmente equilibrata. Quella povera famiglia alla quale ho confermato la vicinanza morale del sindaco e mia personale è stata sterminata non dalla mano dell’uomo ma da un fenomeno naturale e questo ce lo dice un tribunale della Repubblica”, ha dichiarato all’Adnkronos l’avvocato Mario Cicchetti, legale dell’ex sindaco Petrucci. “Sono contento dell’esito, sinceramente in primo grado non ce lo aspettavamo ma bene così. È stata fatta emergere la verità, non eravamo tranquilli, è stato un giudizio molto lungo di una vicenda pesante con quattro amici vittime di quel campanile. Non abbiamo nulla da festeggiare perché non possiamo riportarli in vita. Almeno non sono rovinate altre sette famiglie, quelle degli imputati che oggi sono stati assolti e che non avrebbero meritato di scontare una pena e tutto quello che ne consegue”, ha detto all’Adnkronos lo stesso Stefano Petrucci. Indignati i familiari delle vittime.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        A proposito di Rigopiano.

Fine di un calvario. Il figlio morì al Rigopiano, dopo tre anni assolto Alessio Feniello per aver portato dei fiori sul luogo della tragedia. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 5 Marzo 2021. Il suo gesto di affetto, commozione e dolore, gli era costato una denuncia e una sanzione pecuniaria. Alessio Feniello era salito a Rigopiano per lasciare dei fiori nell’area del crollo dell’hotel che nel 2017 si era portato via suo figlio Stefano. La zona era però sottoposta a sequestro, e gli accessi erano interdetti: per questo motivo, era stato sanzionato con una multa di 4550 euro ed era stato denunciato. Il tribunale di Pescara lo ha però assolto: il giudice Valente ha riconosciuto per lui la tenuità del gesto, e di fatto la sua “non punibilità”. Come riportato dall’Ansa, il legale di Feniello ha raccontato come in quella stessa zona diverse persone fossero già entrate in passato per fare picnic, partite di calcio, foto ricordo e addirittura per portare via pezzetti di hotel come “souvenir”. Quando il 21 maggio del 2018 l’uomo si è però recato lì con la moglie per ricordare la scomparsa del figlio, è stato fermato e multato. Per i familiari di Stefano il bivacco intorno al luogo dove il ragazzo aveva perso la vita suonava come una “profanazione di un luogo sacro”, e per questo avevano deciso di portare dei fiori, venendo però bloccati dai carabinieri. Dopo una discussione gli era stato concesso di entrare, ma erano stati segnalati immediatamente alla procura, che – dopo avere esaminato i fatti – aveva deciso di archiviare la posizione della donna, considerata la tenuità del fatto ed essendo incensurata, ma di procedere nei confronti di Feniello. Quest’ultimo aveva subito deciso di non pagare la multa, preferendo un processo penale. “Questa è una pagliacciata, se verrò condannato non tirerò fuori un euro e piuttosto mi farò il carcere” aveva spiegato. Per lui è quindi scattato il processo davanti al giudice monocratico di Pescara: la procura aveva chiesto 3 mesi di condanna, ma è arrivata la sentenza di assoluzione.

Stefano Buda Paolo Vercesi per “il Messaggero” il 17 gennaio 2021. Intoppi organizzativi, filoni paralleli d' inchiesta come quello sul presunto depistaggio. Battaglia legale a colpi di perizie, ultima - clamorosa - quella che ha messo in relazione valanga e terremoto, riaprendo nuovi scenari in ordine alle responsabilità nei soccorsi tardivi. Sono stati tanti, troppi i rinvii in aula per la tragedia dell' hotel Rigopiano, il resort travolto e distrutto da una valanga che in un attimo ha spezzato 29 vite il 18 gennaio 2017 sul versante pescarese del Gran Sasso. Domani ricorre il quarto anniversario di quel doloroso evento e a distanza di tutto questo tempo il processo si trova ancora nella fase dell' udienza preliminare. Non senza risvolti paradossali: ad oggi l' unico condannato in questa vicenda è Alessio Feniello, reo di aver violato i sigilli sul luogo della tragedia per deporre un mazzo di fiori dove Stefano, il suo giovane figlio, era rimasto sepolto da ghiaccio e macerie. Per la prima volta i familiari delle vittime ricorderanno i propri cari sul luogo del disastro e all' ora esatta in cui la valanga travolse il resort. Non era mai accaduto prima e questo renderà quel momento ancora più commovente. E ci sarà pure la neve, proprio come quel dannato giorno. Il momento di raccoglimento, davanti al totem del resort, avverrà alle 16.49 in punto. A causa delle misure anti-Covid, come evidenziato su Facebook da Gianluca Tanda a nome del comitato, potranno parteciparvi in pochi tra superstiti, i parenti delle vittime e pochi rappresentanti delle istituzioni tra i quali il governatore Marco Marsilio, il questore di Pescara Luigi Liguori e il prefetto Giancarlo Di Vincenzo. Intanto, nei mesi scorsi i parenti delle vittime hanno ricevuto 6 dei 10 milioni previsti, beninteso come aiuto e non come risarcimento, secondo quanto stabilito da una commissione formata dai sindaci dei Comuni delle vittime con funzionari del Viminale. La restante cifra verrà versata successivamente ed è allo studio se al fondo possano accedere anche i superstiti. Ma alle lacrime per il rinnovato dolore seguirà la richiesta di una giustizia veloce. Perché se è vero che l' emergenza Covid ha complicato una situazione già difficile, il comitato dei parenti delle vittime pretende ora dalla magistratura un deciso cambio di passo, trattandosi peraltro di un procedimento riunito che conta 30 imputati e 120 parti civili. La prossima udienza è fissata al 5 marzo e si confida che il gup Sarandrea, con i pm Papalia e Benigni, confermino l' atteggiamento collaborativo mostrato finora e insistano per l' auspicata accelerazione. Al rientro in aula si aprirà la discussione sulle eventuali richieste dei riti alternativi e, secondo indiscrezioni, potrebbero essere in molti a voler percorrere questa strada che consentirebbe di approdare alla sentenza in tempi più brevi. Proprio il 5 marzo entrerà nel processo la perizia firmata da Nicola Sciarra, docente ordinario di Geologia all' Università d' Annunzio di Pescara, secondo cui ci sarebbe correlazione tra le forti scosse sismiche del mattino e del pomeriggio con la valanga che di lì a poco si sarebbe abbattuta sul resort portando distruzione e morte. Lo studio mette in luce che nel giorno del disastro e in quello successivo, in Abruzzo, si verificarono tante valanghe quante quelle complessivamente rilevate negli ultimi 70 anni. «Ci siamo anche chiesti - ha commentato il professor Sciarra - come mai nel 2015, con 5 metri di neve, e nel 2016, con 3 metri di neve, non accadde nulla, mentre nel 2017, con 2 metri e mezzo di neve, si verificò quell' evento». La risposta dell' esperto, corroborata da studi e analisi scientifiche, è riconducibile all' effetto delle due scosse di terremoto, di poco superiori al quinto grado Richter, registrate alle 10.25 e alle 14.33 di quel 18 gennaio. Tesi, va ricordato, del tutto opposta a quella fornita tempo prima dalla Procura e che poggia sulla perizia del geologo Igor Chiambretti, responsabile tecnico di Aineva, che aveva escluso il nesso tra sisma e valanga. Un bene che la questione irrompa in aula in questa fase, altrimenti avrebbe rischiato di essere il convitato di pietra di tutto il processo.

Strage Rigopiano, la storia di Federica che perse i genitori: «Io nel team della ricostruzione». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 18/1/2021. La madre e il padre di Federica Di Pietro morirono nella valanga che travolse l’hotel. Lei dopo si è laureata due volte. E il commissario Legnini adesso l’ha scelta nella sua squadra. C’era un bel po’ di gente, come sempre. E in mezzo a quella gente c’era una ragazza con una tesi di laurea fra le mani. Era il 18 gennaio dell’anno scorso ed era la cerimonia per il terzo anniversario della strage di Rigopiano. «Avevo portato la tesi con me alla commemorazione — ricorda lei — perché quello era il mio lavoro di ricostruzione della tragedia, l’avrei discussa tre giorni dopo. Mi presentarono Giovanni, lui lesse il titolo e disse: “Molto interessante, mi piacerebbe leggerla”. Così gliela feci avere. Il 25 febbraio mi telefonò: “Ho letto la tesi, vorrei parlarti”. Quando ci incontrammo disse: “Sono stato nominato commissario, mi piacerebbe che tu facessi parte della mia squadra. Ti va?». Certo che le andava. Federica disse immediatamente sì. Giovanni è Giovanni Legnini, ex vicepresidente del Csm, ex parlamentare ed ex consigliere regionale in Abruzzo, ragione per cui era presente alla cerimonia per ricordare le vittime di Rigopiano (Pescara). È stato nominato, appunto, commissario straordinario del governo per la ricostruzione post sisma dopo i 5 mesi che hanno messo in ginocchio il Centro Italia: fra l’agosto del 2016 — con il terremoto che rase al suolo Amatrice — e gennaio del 2017, con la valanga che trascinò a valle l’Hotel Rigopiano e la vita di 29 persone (11 sopravvissuti). Quel giorno di febbraio dell’anno scorso — mentre la pandemia muoveva i suoi primi passi — Legnini assoldò nella sua squadra Federica Di Pietro. Che non è solo l’autrice della tesi di laurea in Scienze politiche scritta per dimostrare come e quanto sul caso Rigopiano la burocrazia della pubblica amministrazione abbia creato limiti al potere decisionale. Federica è anche un’orfana di Rigopiano. Il pomeriggio del 18 gennaio 2017 un cumulo gigantesco di neve, terra, macerie e alberi scivolò a valle, dritto sull’hotel di Farindola. Sua madre Barbara, 50 anni, e suo padre Piero, 53, non ebbero scampo. La memoria seleziona flash. «Il 21 ci chiamarono dall’ospedale per mostrarci delle fotografie. Andarono i miei zii. Al ritorno mia zia mi diede una busta sulla quale c’era scritto “cadavere nr.3”. Dentro c’erano la fede e la collana di mamma, gli occhiali sporchi di sangue...». Il 24 di quel gennaio o Federica avrebbe dovuto discutere la sua prima tesi (in Giurisprudenza) e quello stesso giorno trovarono suo padre. Stavolta le restituirono il portafogli e l’orologio. «Nel gruppo WhatsApp di famiglia — ricorda — il giorno della tragedia avevo mandato la foto della tesi stampata. L’hanno vista, per fortuna. Le ultime parole che scrissi, non so perché, furono “take care of you”, abbiate cura di voi. Mancavano pochi minuti alle 16.50, quando venne giù tutto». Furono giorni di attesa e sgomento, di «un buco allo stomaco» e del «respiro che si bloccò» alla prima notizia di una slavina nella zona di Rigopiano. Fu quella sensazione di essere soli davanti al «favoloso mondo della prefettura che mai una sola volta ci ha fatto sentire la sua vicinanza». Fu l’inizio di ragionamenti fatti un milione di volte: le scosse di terremoto di quel mattino («mia madre era terrorizzata e in lacrime, voleva tornare a casa»), i tre metri di neve che trasformarono l’hotel in una prigione, la turbina promessa e mai arrivata per sgombrare la strada...Per cercare una risposta alle sue domande Federica — 33 anni e un bambino appena nato — ha studiato, studiato e studiato ancora. Ha sfruttato le conoscenze giuridiche del primo corso di laurea e si è appassionata agli esami del secondo. «Mentre studiavo i modelli organizzativi dell’amministrazione, ho visto in anteprima il documentario sulla tragedia di Rigopiano. Ho messo assieme tutto e mi sono illuminata. Ho passato un anno a studiare gli atti del processo, le normative, il rapporto fra la parte politica e quella amministrativa. E sono riuscita a dimostrare che a Rigopiano il problema fu un misto fra inefficienza amministrativa e irresponsabilità politica. Consegnata la tesi è stato come se avessi messo un punto: la fine delle domande e delle risposte. Il mio lavoro sarà pubblicato». Oggi, dalla segreteria tecnica del commissario, Federica segue le istanze di migliaia di persone che vissero nel Centro Italia la stagione nera fra Amatrice e Rigopiano. Chiama tutti, risponde a tutti, semplifica, accelera, risolve pratiche che prima di lei e del commissario si incagliavano nella burocrazia. «Leggo richieste di aiuto e faccio quello che posso», dice. «Quasi sempre è gente che vuole tornare a casa e io non posso non pensare all’hotel, ai miei genitori e a tutti gli altri. Anche loro chiedevano aiuto. Anche loro volevano soltanto tornare a casa».