Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
IL GOVERNO
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL GOVERNO
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quella guerra civile italiana che fu chiamata brigantaggio.
Il tradimento della Patria.
Storia d’Italia.
Truffa o Scippo: La Spesa Storica.
Il Paese delle Sceneggiate.
LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutto va male? Diamo panem (reddito di cittadinanza) e circenses (calcio).
Liberazione dell'Italia. Ecco il "film" degli alleati.
Il Piano Marshall.
Il Tafazzismo Meridionale. Il Sud separato in casa.
Gli errori sull’Euro.
L’Italia continua a dare più fondi all’Europa di quanti ne riceve.
SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Italia che siamo.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Libero Mercato.
I Liberali.
La Nuova Ideologia.
Vizio sinistro: criminalizzazione della Società.
Un popolo di Spie…
I Senatori a Vita.
La Terza Repubblica (o la Quarta?).
INDICE TERZA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
E la chiamano democrazia…
Parlamento: Figure e Figuranti.
L’Utopismo.
Il Populismo.
Riformismo e Riformisti.
Il Tecnopopulismo.
La Geopolitica.
La Coerenza.
Le Quote rosa.
L’uso politico della giustizia.
L’Astensionismo.
La vera questione morale? L’incompetenza.
Mai dire…Silenzio Elettorale.
Gli Impresentabili.
I Vitalizi.
Il Redditometro dei Parlamentari.
Il Redditometro dei Partiti.
Parlamento: un Covo di Avvocati.
Autenticazione delle firme per i procedimenti elettorali.
Il Conflitto di interessi.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Appalti truccati.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Concorso Truccato. Reato Impunito.
Concorsi truccati nella Magistratura.
Concorsi truccati nell’Università.
Concorsi truccati nella Sanità.
Il concorso all’Inps è truccato.
Il concorso per docenti scolastici era truccato.
Il concorso per presidi era truccato.
Esami universitari e tesi falsate.
L’insegnamento e la Chiamata Diretta.
Concorsi truccati nella Pubblica Amministrazione.
In Polizia: da raccomandato.
Precedenza ai militari.
Il Cartellino Rosso per gli Arbitri.
L’Amicocrazia.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Esame di Abilitazione Truccato.
La Casta precisa: riforme non per tutti...
SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ei fu CNEL.
Lo Spreco dei Comuni.
Lo scandalo della Pedemontana Veneta.
Immobili regalati o abbandonati.
Storia di un maxi spreco. Il super jet di Renzi.
Alitalia: pozzo senza fondo.
Giù le mani dalle auto blu.
Le Missioni dei Politici.
Le Missioni dei Giornalisti Rai.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
Il “gold exchange standard”, il “Nixon shock” e le politiche monetarie.
I Bitcoin.
Tassopoli.
Le vincite.
Il Contrabbando.
I Bonus.
Il Superbonus.
Bancopoli.
Le Compagnie assicurative.
Le Compagnie elettriche.
Le Compagnie telefoniche.
Il Black Friday.
Il Pacco: Logistica e Distribuzione.
I Ricconi alle nostre spalle.
IL GOVERNO
TERZA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il percento in relazione a che? Se la metà degli aventi diritto non vota; della metà che vota togliamo le schede bianche o nulle; da quel che resta togliamo i voti di protesta dati al Movimento 5 Stelle.
A questo punto la percentuale si dimezza.
Allora penso e dico: gli eletti in Parlamento li votano solo i giornalisti partigiani che li reclamizzano nei talk show e tutti coloro che hanno avuto favori con il voto di scambio!
Mal comune mezzo gaudio?
Leonardo Martinelli per "La Stampa" il 28 giugno 2021. Riemerge in Francia, inesorabile, quel divario destra-sinistra che Emmanuel Macron aveva ormai dato come finito, per lui riflesso anacronistico di un passato lontano. Ieri, in Francia, al secondo turno delle regionali, la destra classica e neogollista (e non lepenista) si è imposta definitivamente in sette delle tredici regioni, mentre in altre cinque ha prevalso la sinistra (ogni volta rappresentata, nella persona del futuro governatore, da un esponente di quel Partito socialista, che pure da anni vive una profonda crisi). Certo, pesa su queste regionali il macigno dell'astensionismo, praticamente lo stesso del primo turno: ieri non è andato a votare il 65,7% dei francesi.
Mirella Serri per "la Stampa" il 14 dicembre 2021. «Il concetto di democrazia? E' sempre in divenire. Si trasforma e muta anche velocemente, proprio come avviene per il socialismo, il cristianesimo o per il capitalismo, sistema proteiforme che si riadatta continuamente. Il presidente degli Stati Uniti, aprendo il summit per la democrazia, ha esortato i partecipanti a riflettere sulla "recessione globale delle democrazie" e a ritrovarsi in nome di valori unitari. Diciamolo chiaramente: Joe Biden ha una visione arcaica e superata della democrazia. Astratta ma anche funzionale al suo obiettivo principale: ridare smalto all'immagine degli States dopo il disastro di Kabul. I valori democratici, gli obiettivi comuni bisogna ridefinirli. Ma lo deve fare Biden in casa sua come pure noi qui in Europa». No, non ha dubbi uno dei maggiori storici contemporanei, Donald Sassoon: inutile cimentarsi in appelli, sono lontani i tempi delle certezze sulle sorti progressive della democrazia. Allievo di Eric J. Hobsbawm, Sassoon è professore emerito di Storia europea comparata presso la Queen Mary University of London ed è in procinto di pubblicare Il trionfo ansioso. Storia del capitalismo. 1860-1914 (a metà gennaio per Garzanti). Ed è convinto che la sfida dei sistemi democratici contro i moderni totalitarismi e le autocrazie si possa vincere solo con analisi approfondite ma con lo scetticismo contro i proclami globali.
Professor Sassoon, siamo al capezzale di un malato, la crisi attuale dei valori democratici è connessa al rallentamento dello sviluppo economico negli ultimi quarant'anni?
«Alla fine della seconda guerra mondiale vi furono i tre splendidi decenni, dal 1945 al 1975, che gli storici francesi definirono i Trente Glorieuses, durante i quali i Paesi sviluppati, come la Germania occidentale, l'Italia e il Giappone crebbero notevolmente nel quadro del piano Marshall. La prosperità economica si combinò con un'elevata produttività, con ottimi salari medi, con l'espansione dei consumi e con un importante sistema di benefici sociali. Era assai diffusa la convinzione, sbagliata, che il progresso non dovesse finire mai e che fossero in crescita anche i diritti dei cittadini e le possibilità di influire attraverso le elezioni sulla gestione e l'andamento degli stati nazionali».
Dopo i "Glorieuses" sono arrivati gli ultimi quarant' anni segnati da tante turbolenze. È finita l'era delle illusioni?
«È un madornale errore stabilire un rapporto diretto tra sviluppo del capitalismo ed evoluzione delle istituzioni democratiche. In Europa, per esempio, in questi ultimi decenni il numero degli Stati democratici è cresciuto. Come mai? C'è stato il crollo dei regimi comunisti. Corea del Sud, Taiwan e altri Paesi hanno iniziato la loro corsa verso il benessere. Ma lo hanno fatto sotto regimi dittatoriali. La Cina, che non è un Paese democratico, ha un tenore di vita molto più alto di quello indiano, Paese governato tramite elezioni ma dove muoiono di fame milioni di persone. Oggi il borsino dei valori democratici ha visto un calo precipitoso: come risulta da una recente ricerca fatta dall'università di Cambridge su circa quattro milioni di persone e 150 paesi, il 60 per cento degli intervistati si dichiara insoddisfatto della tenuta della democrazia nel mondo».
È l'età del malessere economico che intacca il tasso di democraticità di un Paese?
«Non, come pensa Biden, in maniera meccanica, predeterminata. Non c'è dubbio che il sistema di produzione capitalistico, per esempio, tragga la sua legittimità dal fatto che 150 anni fa il 20 per cento della popolazione fruiva delle sue conquiste, mentre oggi è l'80 per cento che vive meglio di nonni e di bisnonni. L'incremento del tempo libero, la sanità e l'istruzione per tutti hanno potenziato la libertà dei singoli cittadini. Però il capitalismo nelle sue trasformazioni seleziona vincitori e vinti. Lascia sul campo molte vittime e i cittadini credono sempre meno nella democrazia».
È così difficile stabilire cos' è oggi la democrazia?
«Ogni persona ha un voto. Ma il potere di ciascuno dipende anche dal reddito. E il reddito di un cittadino britannico non è rappresentato solo da quanto guadagna ma anche da quanto spende per lui lo Stato, ad esempio in cure mediche. Per restare all'esempio, negli Stati Uniti la sanità pubblica non supporta i singoli, salvo casi limitati di molto anziani o molto indigenti. Quale sistema è più democratico? Eppure nel vecchio continente tanti votanti sono convinti che mettere la scheda nell'urna serva assai poco».
Il cammino verso un'idea compiuta di cittadinanza è stato oggi rallentato della pandemia? In Italia pensatori e filosofi dicono che stiamo facendo passi indietro e agitano lo spettro della "dittatura sanitaria".
«In Europa gli Stati si sono affermati con la forza e l'autorità. Per esempio, le istituzioni statali gestiscono il potere fiscale oppure gli interventi in guerra e hanno sempre imposto limitazioni all'autonomia e all'indipendenza dei singoli individui. Ne condizionano la vita quotidiana. Le costrizioni originate dalla presenza del Covid hanno un analogo carattere. Non c'è protesta di filosofo che tenga. Voglio aggiungere che il Covid e i provvedimenti che si sono resi necessari hanno attenuato la spinta neoliberista che aveva dominato fino a qualche anno fa. Allora esisteva la certezza che il capitalismo potesse irrobustirsi solo indebolendo la presenza dello Stato. Il diffondersi del virus ha dato il colpo di grazia a questa convinzione. E oggi c'è un maggior peso del ruolo pubblico».
Il pensiero progressista e la sinistra riescono a tutelarci dall'aumento delle diseguaglianze?
«La sinistra purtroppo non ha saputo gestire il globalismo che ha aumentato la fragilità sociale. E dunque dilaga in tutta Europa la disaffezione verso il voto. Le istituzioni sovranazionali non contano nulla. L'Unione europea ha pochi poteri. Non ha una politica fiscale unica, non ha un esercito. Di recente si è detto che per eliminare le sperequazioni economiche in Europa bisogna puntare su un salario minimo. Ma può essere lo stesso in Italia e in Germania?»
Come si può dar vita a vere forme di democrazia?
«Con provvedimenti drastici che eliminino veramente le diseguaglianze. In America e in Europa. Imponendo nuove tasse. Non è facile. I veri ricchi, quelli da tassare, sono difficilmente raggiungibili perché trasferiscono i loro quattrini nei paradisi fiscali e hanno mille modi per eludere il fisco. Inoltre non sono perseguiti adeguatamente. Si può cambiare».
Le nazioni democratiche riusciranno a mettere ordine in casa propria? La crisi dei partiti è collegata a quella della democrazia: si tratta di una carenza di leadership o di idee?
«Mancano entrambe le cose. Sia in America che Europa. In Italia c'era un solido sistema dei partiti, per decenni a governare sono stati sempre gli stessi fino a Tangentopoli. Da allora non si è più trovato un nuovo equilibrio di sistema. Non a caso nelle ultime elezioni c'è stata una crescita spaventosa dell'assenteismo. E' una tendenza non solo del Belpaese».
Esiste un modello democratico a cui guardare?
«Svezia, Norvegia, Danimarca. Questi Paesi mettono insieme un ottimo welfare e una saggia gestione politica delle libertà e dei diritti. "La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate finora": condivido questa celebre affermazione di Churchill. La democrazia e il capitalismo vivono in uno stato di crisi permanente e per limitarne la crisi li dobbiamo continuamente reinterpretare».
Scelta di libertà. Lo Stato debole è il problema. Giordano Bruno Guerri il 24 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel gran mare di Twitter, insieme al buono viene a galla il peggio prodotto dal pensiero dei nostri contemporanei. Nel gran mare di Twitter, insieme al buono viene a galla il peggio prodotto dal pensiero dei nostri contemporanei. L'altro giorno, in una discussione sul suicidio assistito, un maschio adulto ha comunicato con parole grevi e sprezzanti che chi vuole morire lo deve fare da solo. In più, ha dato indicazioni su come comprare da Amazon la medicina usata a questo scopo nelle cliniche (olandesi o svizzere) autorizzate: 20 gocce per 80 chilogrammi di peso. Crepate come volete, ha aggiunto, ma senza coinvolgere Stato e medici. È proprio questo il punto. Lo Stato si fa vivo con noi già alla nascita, assegnandoci il codice fiscale che ci accompagnerà per tutta la vita. Poi decide quali vaccini fare nell'infanzia (per una volta non parliamo degli altri, più attuali) e impone i programmi scolastici. Lo Stato legifera su matrimonio e divorzio, adozioni e eredità, su come guidare i monopattini, su cosa è osceno e cosa no. Lo Stato ci dice se possiamo andare all'estero, assegnandoci il passaporto o negandolo, e a quale età possiamo e dobbiamo smettere di lavorare. Lo Stato, padre e madre a volte benevolo e saggio, sempre autoritario, guida e condiziona tutta la nostra esistenza, regola i nomi che possiamo dare ai figli e il modo di essere sepolti o inceneriti. Di fronte all'avvenimento più importante e tragico dell'esistenza, però, si ferma e gira la testolina dall'altra parte alla richiesta di chi vuole morire perché non sopporta più il dolore, l'umiliazione, la dipendenza, la mancanza di speranze. Da anni giace in Parlamento un progetto di legge sul suicidio assistito. I partiti lo evitano come fosse il capriccio di qualche buontempone e non la richiesta disperata di chi ha più bisogno. Persino la Corte Costituzionale sollecita da anni quella legge, ma niente. Gravi e dolorosi sono anche i motivi di tanta inettitudine: gli elettori di ogni partito non sono compatti su questo tema e soprattutto si arriverebbe a uno scontro serio con il Vaticano, che si vuole evitare, a dimostrazione che non viviamo in uno Stato del tutto laico. In questa fuga dalle responsabilità, Mario, marchigiano tetraplegico immobilizzato a letto da dieci anni, potrà finalmente ottenere quello che desidera e che è nel suo pieno diritto: morire senza un atto violento e doloroso, assistito dai suoi cari e dai medici. Lo potrà fare non grazie allo Stato e al Parlamento, ma grazie all'Associazione Coscioni e alla relazione di un gruppo di medici specialisti dell'Asur. Perché, caro il mio feroce suggeritore di acquisti su Amazon, nella legge che un giorno dovrà arrivare, i medici potranno decidere l'obiezione di coscienza, altri di svolgere fino il fondo il loro compito: il bene del malato. Giordano Bruno Guerri
Scoppia il caso dei 193 parlamentari mai proclamati. Gli avvocati: "Il Senato è illegittimo". Daniele Autieri su La Repubblica il 23 settembre 2021. Nel bel mezzo del semestre bianco, alla vigilia dell'elezione del presidente della Repubblica esplode il caso di due seggi contestati. Gasparri (presidente della Giunta): "Solo quando si risolverà il caso potranno essere proclamati gli eletti". L'avvocato Pellegrino: "In dubbio la legittima costituzione del Senato della Repubblica". L'impasse che dura da tre anni e il ruolo di Claudio Lotito. A un passo dall'inizio del semestre bianco che inaugura gli ultimi sei mesi in carica di Sergio Mattarella e anticipa l'elezione del prossimo Presidente della Repubblica, il paese rischia di trovarsi con un Senato eletto ma non proclamato. O meglio con 193 senatori (la maggioranza assoluta dell'aula) eletti nei collegi plurinominali che non possono essere "benedetti" dalla Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari e la cui attività - almeno dal punto di vista procedurale - è irregolare.
Visto, considerato e premesso. Massimo Gramellini il 29/6/2021 su Il Corriere della Sera. Alcuni parlamentari hanno presentato una proposta di legge per tradurre le leggi italiane in italiano. È la chiusura...Alcuni parlamentari hanno presentato una proposta di legge per tradurre le leggi italiane in italiano. È la chiusura ideale di un cerchio aperto dalle gride manzoniane: l’obiettivo di non farsi capire dagli eredi di Renzo Tramaglino è l’unico che i legislatori abbiano perseguito con coerenza nei secoli. Fa stecca la Costituzione, scritta in un linguaggio talmente chiaro che i nostri azzeccagarbugli non l’hanno mai voluta applicare per ripicca. Tornando alle leggi, la loro caratteristica principale è sempre stata l’oscurità, ottenuta sia rimandando il malcapitato lettore a una litania di altre leggi citate solo per numero, sia facendo fiorire una vegetazione di commi secondari che hanno il preciso compito di ingarbugliare il primo. A questo obbrobrio di «visto», «considerato» e «premesso» intende porre rimedio un gruppo di parlamentari di tutti i partiti, che annovera fior di costituzionalisti come Ceccanti. Il loro intento è «affiancare le norme con un supplemento divulgativo che le renda fruibili». Poiché hanno perso ogni speranza di scriverle in una lingua decente, si accontenterebbero di aggiungervi la traduzione in volgare, ma intendono affidare l’impresa a un apposito «comitato di esperti in materie giuridiche, linguistiche e comunicative», pagandolo 500 mila euro. Peccato che quel comitato di esperti esista già. Si chiama Parlamento. D’altra parte, li capisco: in Italia chi non sa, ma soprattutto chi non vuole esprimersi in modo comprensibile, passa per intellettuale. Una tazzina di parole ogni giorno sul Corriere della Sera. "Il caffè è un rito quotidiano, una pausa, un piacere e anche un luogo di incontro in cui si discute, si scherza, ci si sfoga e ci si consola".
Le accuse al capo del governo. Per Massimo Giannini e la Stampa Draghi è un dittatore, scatta la resistenza all’ombra della Fiat. Michele Prospero su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Sotto la direzione di Massimo Giannini la Stampa si è fortemente collocata nell’ambito della “sinistra illiberale” che tanto spaventa oltremanica il foglio gemello The Economist. Lo spettro di una deriva radicaloide, che l’organo della famiglia Agnelli denuncia sulle rive del Tamigi, è proprio lo stesso che la proprietà foraggia generosamente sulle calde acque del Po. Una vera doppiezza. Non è dunque il plebeo estremismo che dal basso inveisce contro l’élite a imperversare come una minaccia alla razionalità politica della vecchia Europa. È proprio il classico foglio del grande padronato a imprimere dall’alto della sua influenza una radicalizzazione che delegittima l’ordinamento costituzionale come potere alla deriva e nei suoi vertici in preda a un anomalo delirio autoritario. Agli affondi crepuscolari di Agamben e Cacciari si è aggiunto infatti un ulteriore livello di denuncia: Draghi in persona è ritenuto “una sorta di sovrano contemporaneo”. Tradotta in prosa, la definizione di Donatella Di Cesare significa che con la leadership personale di Draghi si spezzano i fili residui dello Stato di diritto per sperimentare altre forme di dominio politico. Sovrano è chi decide con il supporto della coercizione collocandosi ambiguamente oltre il codice stringente della legalità. E l’azione di Draghi è ritenuta fortemente dissolutrice, trattandosi di “un sovrano della competenza” che con le sue decisioni irrituali rompe “la forma della repubblica così com’è”. Il “premier-guaritore”, come viene chiamato da Di Cesare, è una reincarnazione del “Les rois thaumaturges” di Marc Bloch. Questa figura di un corpo regale che si sacralizza alimenta la falsa credenza di massa in una menzogna, quale è il rito della guarigione, per cui il sovrano con il tocco delle sue mani sforna attitudini taumaturgiche. Con il misticismo del capo di governo che compie miracoli con gli abiti della tecnica si entra nell’età della menzogna istituzionalizzata, della rottura di ogni ordine formale-legale ad opera di un sovrano-persona. Secondo l’editorialista della Stampa non solo la grande riforma semipresidenziale è “quasi un dato di fatto” (Draghi diventa l’esecutore testamentario di un abortito progetto di Craxi) ma nella sfera pubblica domina lo spettro della deriva autoritaria perché per molti attori la “democrazia è un optional”. Secondo Di Cesare occorre perciò, nella slavina costituzionale in corso, alzare il livello della critica e colpire esplicitamente la figura di Draghi come “timoniere di una democrazia sospesa” che ha rotto il patto repubblicano. Si sta parlando della repubblica democratica che non ha mai sfiorato i diritti ritenuti inviolabili, cioè i principi supremi che proprio in quanto valori fondativi dell’ordinamento vengono sottratti anche alle leggi di revisione costituzionale, ma sembra che la Stampa abbia presente “lo stato di pericolo pubblico”, un istituto fascista degli anni trenta o “La suspension de l’empire de la Constitution” prevista dalla legge francese post-rivoluzionaria. Eppure, in un’Italia colpita dalla pandemia, restano ben scolpiti i diritti inalienabili della persona, la libertà e segretezza della comunicazione, i diritti politici e sindacali, l’habeas corpus e nella vita di relazione non domina il sospetto, la delazione. Non si intravvede l’accentuazione repressiva del diritto penale con la sospensione della presunzione di innocenza, con il ricorso all’analogia e alla retroattività della norma, non si avvertono inasprimenti di pene con gracili fattispecie, invenzioni arbitrarie di reati (nella sanità pubblica non si riesce a sospendere dal servizio neppure il migliaio di medici no-vax). E neppure, malgrado l’efficienza logistica del generale Figliuolo che compare solo in una divisa che non evoca terrore, si avverte l’opera di commissioni militari speciali, l’intrusione repressiva di tribunali ad hoc. In condizioni drammatiche (oltre 130 mila morti) e con le limitazioni solo temporanee (e quindi ragionevoli-proporzionali allo scopo) di piccole e preziose libertà quotidiane, le risorse dell’ordinamento sono state attivate per tutelare il dovere pubblico irrinunciabile (per ogni forma politica, non solo quella democratica) di garantire il diritto alla vita. Nel mezzo della emergenza sanitaria non si è precipitati in uno sregolato stato di natura o condizione di guerra ma sono state celebrate elezioni regionali, comunali, referendum, congressi di non-partiti. E nessun organo costituzionale è stato ridimensionato nella pienezza delle proprie funzioni. Non c’ è in corso alcuna sospensione dell’habeas corpus, non si registra alcuna interruzione della vita istituzionale e restringimento del pluralismo sociale, politico, culturale. E i vaccini, come strumento di protezione del bene indisponibile della vita, che è la radice originaria della forma politica in quanto tale, non sono equiparabili ai rastrellamenti di massa perché la fila delle persone nei centri della sanità pubblica non è assolutamente la variante post-moderna della nazionalizzazione e disciplinamento totalitario di massa (vero Giuliano Ferrara evocatore, sulla inopinata scia di “filosofi effimeri e bizzarri”, di una assai immaginaria “svolta autoritaria”?). Sul foglio ribelle torinese i concetti di emergenza e di eccezione perdono la loro pregnanza analitica (riferite alle consuetudini del “doppio Stato” mirabilmente raccontate da E. Frenkel) e diventano delle vaghe espressioni semanticamente ballerine. Non l’emergenza, come in altri interventi di Cacciari e Agamben, ma proprio “l’eccezione si affaccia inquietantemente all’orizzonte” secondo Di Cesare. Le parole hanno però un significato univoco nel diritto. Per stato di eccezione si intende in dottrina una rottura profonda che altera il quadro costituzionale, una cesura cruenta o meno che spezza repentinamente l’ordine politico. Lo stato di eccezione indica per definizione l’emersione di un momento autocratico situato al di fuori della norma e quindi un esercizio del comando incompatibile con lo Stato di diritto. Esso prospetta anzi la esplicita fuoriuscita dal principio di legalità e l’avvento di una condizione estrema di dominio irresistibile in sé privo di forme. Nel caso di eccezione ricompare il sovrano che, con il recupero del monopolio della decisione ultima, rinuncia ad ogni regola e strapazza qualsiasi procedura vincolante. Lo spiega bene Schmitt: «Nel caso di eccezione la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto». Si tratta non di un semplice Stato assoluto (sciolto da vincoli giuridici che appaiono del tutto volatilizzati) ma di un apparato totalitario (mobilita, reprime senza limiti, si insinua nella società in modo penetrante, oppressivo) che affida al sovrano la decisione ultima non giustificata da norme vigenti. La sua volontà discrezionale e senza regole (l’eccezione è «il caso non descritto dall’ordinamento giuridico vigente») si afferma come duro fatto e appare sciolto da forme in quanto la irruzione decisionale-creatrice non è giustificata da altre norme o principi costituzionali. Secondo la Stampa il ruolo di Draghi è a tutti gli effetti quello di un sovrano schmittiano che, avendo rotto di proposito la cornice di legalità, giace al di fuori dell’ordinamento. Dinanzi a una democrazia sospesa, per via di una slealtà del titolare del potere che abusa delle proprie attribuzioni procedurali, sono possibili ben poche risposte, una volta preclusa quella adombrata dalle dottrine alto medievali che si spingevano sino al tirannicidio. Se però l’eccezione è una condizione reale della repubblica neppure sono disponibili quali argini le vie delle istituzioni di garanzia che sono state soppresse e svuotate proprio dalla situazione di eccezione. Come precisa Schmitt «nel caso di eccezione, lo stato sospende il diritto, annulla la norma». Cosa è legittimo fare allora per difendere le libertà fondamentali entro una democrazia che per Di Cesare è stata sospesa per colpa del prestigio conferito ad “una rockstar mondiale della knowledge”? Quale condotta è lecita ex parte populi per impedire che qualcuno, arroccato nel palazzo del governo, consolidi l’arbitrio del potere e prolunghi l’incertezza dello stato di eccezione? Se l’accusa a Draghi è quella di essere diventato, nel vuoto dei partiti e senza neppure il bisogno di un colpo di mano ex parte principis, il sovrano che governa discrezionalmente lo stato di eccezione, degli efficaci rimedi legali-procedurali non sono disponibili: le istituzioni di garanzia sono di per sé incompatibili con il concetto stesso di stato di eccezione (che per Schmitt implica proprio «la sospensione dell’intero ordinamento vigente»). Non resta allora che seguire le vie di fatto contro il “timoniere” guaritore e attendere che Giannini con la barba risorgimentale scenda in via Lugaro per distribuire le istruzioni per la disobbedienza civile o per fornire le direttive indispensabili per esercitare il diritto di resistenza (previsto dalla carta tedesca, ma non da quella italiana). C’è molto da temere da una sinistra illiberale, ma gli scritti dei padroni illiberali che evocano di fatto un metaforico “Draghicidio” inquietano ancora di più in questi tempi di innamoramenti per le categorie distruttive di “filosofi effimeri e bizzarri”. Michele Prospero
D come Decisione. Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il Riformista il 20 Settembre 2021. Se provassimo a fare il gioco nomi, cose, città aggiungendo però per ipotesi l’inedita colonna “politica” ci sarebbe da divertirsi soprattutto estraendo la lettera D. Anzitutto avremmo le risposte facili: il nome (Davide), la città (Domodossola), il frutto (Datteri) o l’animale (Daino) ma poi arriva il bello. Che mettiamo – a questo punto- alla categoria politica? D come? A qualcuno verrebbe in mente la parola “Delirio” pensando probabilmente ad un quinto del paese (20-22%) che manifesta un atteggiamento ostinato, tignoso e oppositivo per l’atteggiamento dei restanti 4/5. Un pezzo di paese dormiente quando ci siamo rintanati dentro casa l’anno scorso ma poi emerso in tutto il suo coraggio reazionario anti-sistema quando si è trattato di fare la propria parte per riaprire. Un classico del paraculismo italico, una porzione (piccola) di paese che insieme agli altri – forse – cantava sui balconi al grido di #andratuttobene (sottinteso #coldidietrodeglialtri). Quelli che D come Delirio in queste settimane dicono convintamente NO al vaccino (gratis) preferendo il tampone (pagato dagli altri). Sono dubbiosissimi e scettici sui sieri sottoposti a certificazioni internazionali di FDA-EMA già inoculati su milioni di persone, ma si dichiarano sicurissimi dell’efficacia dell’automedicazione con principi attivi (tra questi un antiparassitario per cavalli) ancora non supportati da studi analitici. E la mente va all’ex presidente americano Donald Trump che consigliava di iniettarsi in vena direttamente l’amuchina durante una conferenza stampa di fronte al capo della commissione medica della Casa Bianca, Deborah Birx, ancora sotto shock da allora. Viva il libero pensiero ma se non è delirio questo, cos’altro sentiremo prossimamente? Ad altri verrebbe un’altra e più emblematica parola poco declinata in politica ed è Decisione: una categoria dell’umano e del sociale che una certa vulgata vorrebbe contrapposta alla D di Democrazia, come fosse antitetica. Una politica decidente è un tema discusso in questi anni ma “distratto” dall’equivoco di fondo per cui l’agire è l’opposto del consultare e del discutere. Non è così, piuttosto è accaduto il contrario: sono anni che si parla e basta, che al tanto fumo non corrisponde l’arrosto, che si promette a basso costo sparando sciocchezze a caso. Di conseguenza, per i cittadini è naturale pensare che non accade nulla di quanto detto nella realtà dei fatti. Gli esempi sono già entrati nella letteratura politica (e mitologica) degli ultimi anni: Dalla mai nata rivoluzione liberale alla riforma sciagurata dei poteri regionali passando per la fine della povertà, l’abolizione delle accise sui carburanti, al sovranismo di mattina e all’europeismo di sera. Un cumulo di totem che si declamano tanto nessuno chiede il conto di nulla. Lecito fino a quando non ti arriva la pandemia che ti squaderna i piani e che ti obbliga al principio di realtà. Siamo in un tempo di pandemia e – ci risulta – fino al 31 dicembre di quest’anno l’Italia mantiene uno stato di emergenza, una parentesi di straordinarietà votata dal Parlamento e tuttora in vigore. Pertanto il governo deve (non può) declinare il mandato a decidere norme di contrasto contro la diffusione del covid, a meno che il parlamento non stabilisca la fine di questa fase togliendo la fiducia all’esecutivo. E i cittadini – come lo fu per il lockdown, i vari dpcm, le aperture, le fasce di rischio delle regioni eccetera – hanno rispettato le regole. Con il governo Draghi, ad aprile, è norma ordinaria (Legge 76/2021) l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari come logica principio di attenzione nell’esercizio della professione medica ed infermieristica. Non fa una piega sapere che gli operatori chiamati a curare i pazienti non siano – anche inconsapevolmente – vettori della malattia. Come legittimo, ci si è indignati con qualche qualche gne-gne sui talk ma le lacrime sono durate, per l’appunto, il tempo di un talk. Successivamente si è passati al green pass e anche qui una telenovela dell’assurdo col paradosso per cui mentre la gente continuava a vaccinarsi, l’urlo dei reazionari alla dittatura si faceva sempre più grottesco. E – di estensione in estensione – giungiamo all’obbligo lasciapassare per il comparto scuola (oltre 90 per cento di lavoratori vaccinati) fino a tutto il mondo dei lavoratori pubblici e privati. Il risultato è che nonostante ore di discussioni inutili – e di cortei farneticanti o di convegni ippocratici a base di cure alternative senza responsabilità di chi le propone (fenomeni no?) – i cittadini ad un certo punto rispettano le decisioni prese. Incentivo dittatoriale? Sopraffazione dei poteri forti? Carcerazioni di massa? Non mi pare. Ci sono milioni di italiani con 5G improbabili sul corpo? Microchip e magneti sul braccio? Niente di tutto ma semplicemente il rispetto delle regole. Sembra assurdo ma nel nostro paese una volta tanto decidere non lede nessun diritto fondamentale delle persone, con buona pace di chi continua a stracciarsi le vesti. Decisione e Democrazia non sono – come una certa vulgata vorrebbe far passare – categorie antitetiche ma possono coesistere ed integrarsi se ordinate sempre al bene comune. Tutto il diritto di critica sia chiaro, ma vanno veicolati argomenti costruttivi per il dibattito nell’opinione pubblica evitando magari il cortocircuito di questi mesi dove si sono raggiunte vette altissime di non-sense frutto di ignoranza grassa ed insopportabile in materia scientifica (non a caso 6 studenti su 10 vanno malissimo in matematica, fisica e scienze) a cui aggiungere la disinvoltura cazzara nello spacciare le proprie opinioni (legittime ma relative) per verità mediche. Un atteggiamento che non ho paura a definire criminogeno specialmente se si tratta della salute dei cittadini; perchè va bene tutto ma nella gerarchia del tuttologismo essere immunologi o virologi un tanto al chilo è più pericoloso (direi criminale) che sentirsi economisti di giornata o commissari tecnici post partita. Non credete? Ciò detto, la politica si è trovata dinanzi ad una scelta “di campo” ineluttabile: stare dalla parte dei fatti e non accarezzare il pelo alle opinioni, applicando perciò il fattore D, il fattore decidente. Decidere non è arbitrio dittatoriale quando è in gioco la pelle dei cittadini. Decidere quindi è democratico, contro i democratici di maniera. Decidere (nella lotta la Covid) è non mettere etichette elettorali, non è di destra nè di sinistra e nemmeno pentastellato. Decidere è esercizio gravoso di offrire una traiettoria di azioni che valgono per i molti tendendo a coinvolgere tutti. E le minoranze – quando il prezzo è la salute collettiva – si rispettano ma non possono sostituirsi alla maggioranza. Le minoranze semplicemente si adeguano.
Il dibattito sulla "spid democracy". Referendum, il pericolo non è il click ma il plebiscito. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 30 Settembre 2021.
1. Cliccocrazia. Spid-democracy. Referendum pret-a-porter. Democrazia fai-da-te a chilometro zero. Si sono sprecati i calembour per dare un nome al terremoto provocato dalla digitalizzazione delle sottoscrizioni referendarie. Dietro i giochi di parole, emerge un diffuso allarmismo: l’uccisione a colpi di mouse della democrazia liberale e rappresentativa, soppiantata da un’inedita, piramidale democrazia digitale: totale disintermediazione politica e sociale alla base, massima concentrazione al suo vertice istituzionale. In breve: un «inasprimento della torsione populista in atto nel sistema politico» (Pallante). Davvero è così? Siamo realmente davanti a una «riforma costituzionale a Costituzione invariata» (Vassallo)?
2. Scenari simili scontano un equivoco di fondo: la firma digitale non aumenta le possibilità di riuscita dell’iniziativa referendaria. Puoi raccogliere a colpi di click anche un milione di sottoscrizioni su un quesito, ma ciò non assicura né che sarà sottoposto al voto né che uscirà vincente dalle urne. È vero, mai era accaduto che la raccolta firme si risolvesse così rapidamente. Oltre 500.000 per il referendum sulla depenalizzazione della cannabis, in soli sette giorni, sono un autentico blitz: democratico secondo i promotori; potenzialmente eversivo per i detrattori. Ma tutto ciò, collocandosi nella fase iniziale del procedimento referendario, si risolve in un’inedita forma di partecipazione diretta, non di democrazia diretta. Quel quesito, per tradursi in decisione politico-normativa, dovrà attraversare diversi semafori, solo il primo dei quali diventa verde grazie al numero di sottoscrizioni raccolte: il controllo di legittimità in Cassazione. Superato questo, la strada resta tutta in salita e l’arrivo al traguardo dipende più dal Parlamento che dal Comitato promotore.
3. Le Camere, infatti, conservano la propria permanente potestà legislativa sull’oggetto del referendum, lungo tutto il relativo procedimento ed anche dopo l’accoglimento della proposta referendaria. Possono usarla per sventare il voto popolare, anticipandone l’esito abrogativo. Oppure per dare risposta alla domanda referendaria, innovando la disciplina ipotecata dal quesito popolare. Il referendum innesca così una dialettica con il Parlamento, la cui centralità non è erosa né soppiantata. Semmai spronata a tradursi in scelte politico-legislative troppo spesso eluse. Per dire: su taluni dei temi referendari odierni (separazione delle carriere, eutanasia, depenalizzazione della cannabis) giacciono in Parlamento altrettante proposte di legge di iniziativa popolare – sottoscritte con la biro, e non a colpi di click – il cui esame non è mai iniziato o si è subito interrotto. È un’accidia legislativa non estranea al successo dei quesiti referendari in campo, a conferma che «quel che accade non è un attacco all’istituzione, ma un esito della sua debolezza» (Villone).
4. Eppure – si dice – una malsana bulimia referendaria è certamente agevolata dalla rapidità della firma digitale, che renderebbe tutto troppo facile. Calma e gesso. Come illustrato bene da Giulia Merlo (Domani, 29 settembre), la procedura telematica è più complicata di quanto si favoleggi. Richiede un’infrastruttura complessa. Comporta costi economici elevati (1,50 euro a firma digitale, che può salire a 3,50 in caso di acquisizione di dati ulteriori). Non esonera dagli oneri, previsti dalla legge, di acquisizione dei relativi certificati elettorali. Il tutto a carico dei promotori. «Chi dice che è facile “fare” un referendum online non sa di cosa parla» (lamenta a ragion veduta Marco Perduca, presidente del Comitato referendario per la depenalizzazione della cannabis). Di più. Per via referendaria non tutto si può fare: i limiti di ammissibilità fissati in Costituzione sono lì per questo, e vengono presidiati dalla Consulta con una severa discrezionalità che la dottrina non esita a ritenere addirittura eccessiva. E ancora. Il referendum in sé è strumento che sconta evidenti limiti funzionali, in ragione della sua natura comunque abrogativa: anche quando manipolativo, infatti, il quesito non può che operare su disposizioni esistenti, né può produrre un’innovazione «del tutto estranea al contesto normativo» originario (cfr. sent. n. 36/1997). Ritorna così la feconda dialettica tra referendum e legge parlamentare: il primo cancella o, al più, sagoma la normativa vigente; la seconda modella compiutamente l’esito abrogativo popolare, coordinandolo con le norme preesistenti.
5. Molti commenti, invece, hanno preferito andare al sodo: quante adesioni online saranno capaci di acquisire quesiti sovranisti, anti-immigrati, anti-sociali, anti-diritti civili? I conati di anti-politica che abitano la rete troveranno così un facile canale istituzionalizzato, un taxi per arrivare direttamente all’intero corpo elettorale. Anche qui si confondono causa ed effetto, accreditando falsi automatismi. Quesiti simili arriveranno alle urne (legittimamente, piacciano o meno) non perché sottoscritti digitalmente, ma solo se costituzionalmente ammissibili e perché il Parlamento non li avrà disinnescati prima. Sarà allora, nella campagna referendaria, che andrà abbandonato il distanziamento sociale della firma digitale, per tornare ad agire politicamente: nelle piazze, nei dibattiti, in ogni sede di confronto tra le ragioni del sì e del no al quesito. Si badi: ciò vale soprattutto per il Comitato promotore perché una minoranza, per quanto capace di raccogliere digitalmente le firme necessarie, dovrà poi riuscire nell’impresa di farsi maggioranza nelle urne. E per riuscirci, dovrà innanzitutto trasformare le firme digitali, da «flussi (momentanei e, talora, impulsivi) di intenzionalità» (Panarai) in adesioni consapevoli e in militanza contagiosa. Non è detto, peraltro, che l’inflazione in una stessa tornata referendaria di molti quesiti, facilitata dalla digitalizzazione delle sottoscrizioni, ne agevoli il successo. Si può essere favorevoli ad alcuni e non ad altri. Se informato, l’elettore è capace di esprimere un voto consapevole, differenziandolo (come nel 1993: 12 referendum, 5 approvati, 7 bocciati). In passato, l’artificiale moltiplicazione dei quesiti ha disincentivato la partecipazione, decretando l’invalidità di 24 referendum per mancato raggiungimento del quorum. E come c’è quesito e quesito, così non tutti i promotori hanno la stessa credibilità: un conto è l’iniziativa referendaria dal basso, su temi trasversali capaci di aggregare una maggioranza elettorale che non ha voce né ascolto in Parlamento; altro è un pacchetto di quesiti promossi da forze politiche che siedono in Parlamento o addirittura nel Governo.
6. Emerge così il vero problema. Fino ad oggi, l’arco temporale tra l’approvazione della legge e la sua sottoposizione a referendum tramite un’impegnativa mobilitazione politica, assicurava una giusta distanza dallo scontro parlamentare. Con la firma digitale non è più così. Il rischio potenziale è l’automatismo referendario, all’indomani della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge, su iniziativa delle forze parlamentari vincitrici o sconfitte: le prime per plebiscitarla, le seconde per contrapporre alle Camere il popolo sovrano. In entrambi i casi il referendum, da correttivo della forma di governo, si trasformerebbe in «un pezzo del gioco politico-partitico» (Adinolfi) nelle mani di chi già ha facoltà e potere d’intervento nelle decisioni parlamentari. Abbiamo già conosciuto, in passato, «la stagione partitica del referendum» (Barbera-Morrone, La Repubblica dei referendum, il Mulino, 2003, pp. 83 ss.) ma mai a ciclo continuo, come la tecnologia digitale consentirà in futuro. Questo lo scenario possibile: una versione 2.0 del pericolo – segnalato dalla Corte costituzionale fin dalla sent. n. 16/1978 – che il referendum si trasformi «in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia».
7. La firma digitale, dunque, è potenzialmente esplosiva. Come la dinamite: può far saltare in aria tutto, oppure può servire per scavare nuove gallerie di comunicazione tra cittadini e Parlamento. La sfida va raccolta, anche perché indietro non si torna. Nel 2022, anno anteriore alla scadenza delle Camere, non si potrà depositare alcuna richiesta di referendum. Tocca al Parlamento capitalizzare questa tregua temporale per valutare tutte le implicazioni della scelta fatta con l’approvazione all’unanimità dell’«emendamento Magi», evitando di banalizzare la “seconda scheda” senza snaturarne l’essenziale funzione contromaggioritaria. Andrea Pugiotto
La firma digitale e le polemiche. I referendum scuotono l’élite terrorizzata e aggrappata ai privilegi. Alberto Cisterna de Il Riformista il 23 Settembre 2021. La rivoluzione digitale è penetrata di soppiatto oltre le mura invalicabili del potere legislativo e le vestali si dimenano sconvolte innanzi al sacrilegio compiuto. La possibilità di sottoscrivere le proposte referendarie apponendo una semplice firma digitale, senza la fatica di dover trovare e di doversi poi recare in qualche lontano gazebo o, ancor peggio, in un desolato ufficio comunale sta mettendo in fibrillazione i sacerdoti della democrazia rappresentativa. In questo paese, in realtà, la partecipazione popolare nel procedimento legislativo non ha mai avuto vera fortuna; né le proposte popolari di legge, né i referendum hanno mai effettivamente inciso nella regolazione di importanti questioni che incidono sulla vita dei cittadini. Il referendum sul divorzio o quello sull’aborto sono stati significativi solo e soltanto perché falliti, sol perché ne è uscita confermata la volontà delle Camere. Bisogna volgere lo sguardo al referendum sulla responsabilità civile dei giudici dell’8 novembre 1987 o al referendum sulla legge elettorale del 9 giugno 1991, con il trionfo di Mario Segni, o del 18 aprile 1993, con il successivo via libera al Mattarellum, per trovare traccia di consultazioni popolari che hanno lasciato un segno evidente nella vita politica del paese. Segni, in verità, che poi, o sono stati cancellati da una brusca restaurazione o sono stati annacquati sino all’irrilevanza dalle corporazioni minacciate. Per il resto – incluso il referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi del 2016 – è stato un frequente succedersi di fallimenti e di bocciature volte alla conferma dello status quo. Nulla di preoccupante o di rivoluzionario, quindi; un’arma spuntata dicevano in tanti. Eppure quel che è successo e sta succedendo nella sottoscrizione del referendum sull’eutanasia e sulla liberalizzazione delle droghe leggere ha messo in allarme apparati e corporazioni, tutti all’unisono preoccupati dal profilarsi di una inedita democrazia telematica che possa mettere in discussione la rappresentanza parlamentare. Strano destino quello dell’Italia, perché sinora all’incirca i medesimi ambienti lanciavano strali contro la scarsa qualità dei lavori parlamentari, contro il deficit di collegamento tra la politica e il cosiddetto paese reale, contro l’affermarsi di signorie tecnocratiche che tendono a governare le sorti della società. Al metronomo che dovrebbe misurare le alternanze fisiologiche tra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta e che dovrebbe vedere il corretto espandersi dell’una di fronte alla crisi dell’altra, si preferisce un immobilismo senza via di uscita. Una impasse paralizzante, ma foriera di vantaggi, in cui la rappresentanza parlamentare resta supina ai diktat delle oligarchie più agguerrite e la partecipazione popolare ha un minuscolo diritto di tribuna di cui deve guardarsi bene dall’abusare. Ci sarebbe da spiegare perché tutti si lamentino della curva sempre più decrescente della partecipazione alle competizioni elettorali; perchè tutti si dolgano dello svuotarsi dei partiti e delle loro sezioni; perché tutti vedano scenari foschi per la fuga dei giovani dell’impegno politico e poi quando si tratta di rendere più performante uno strumento di rilevanza costituzionale come il referendum si sollevano obiezioni e si urla al ribaltone populistico. Sorge il sospetto, ma il mero sospetto, che la firma digitale destrutturi molto più profondamente di quanto si immagini l’organizzazione politica del paese e che, in fondo, gli stessi circuiti che hanno fatto delle battaglie referendarie uno strumento identitario altamente simbolico, possano essere scippati di una riserva di consenso e di una identificazione ideale che il clic su uno schermo annichilisce e ignora. Se le élites del paese hanno sempre agito sul Parlamento e sul Governo per conseguire obiettivi di promozione e, molte più volte, di conservazione del proprio potere e dei propri privilegi, altri gruppi minoritari hanno agitato il ricorso al referendum come strumento per connotarsi e per distinguersi politicamente e assicurarsi così una non marginale visibilità pubblica. Entrambi i protagonisti hanno fatto del monopolio delle proprie sfere di influenza una gelosa prerogativa, poco incline a commistioni e alleanze di sorta. Una separatezza che rimetteva agli uni i piani alti della legislazione e agli altri il sottoscala della rappresentanza diretta attraverso la raccolta di firme per saltuari quesiti referendari. La digitalizzazione spiazza entrambi e li lascia privi di obiettivi di gerenza politica sul lungo periodo. Ogni conquista parlamentare – se non riguarda le materie sottratte a referendum per Costituzione – può rivelarsi precaria e rischia di essere sottoposta a una sorta di obliquo, quanto irrituale, voto confermativo mediante la chiamata referendaria del popolo. Se in pochi giorni centinaia di migliaia di elettori – in un non lontano click day – potranno decidere che si debba andare alle urne per stabilire le sorti di una qualsiasi legge, persino di quelle appena approvare (vedi la minaccia di un voto sul green pass), è chiaro che si spalanca uno scenario totalmente imprevisto e dagli sbocchi imprevedibili. Da anni non mancano sondaggi, petizioni, sottoscrizioni sulla rete che raccolgono, talvolta, un impressionante messe di adesioni. Se questa informale deep democracy si traduce in un’immediata iniziativa referendaria che punta quella legge o quell’articolo, la giustizia o la scuola, la sanità o le licenze commerciali, le banche o le assicurazioni senza neppure la mediazione di una formazione politica, senza neppure un’organizzazione che metta in piedi i gazebo, par chiaro che ci attende un mondo nuovo. Una modifica sostanziale della democrazia liberale e rappresentativa per come l’abbiamo conosciuta e di cui, in tanti, hanno dichiarato da tempo la crisi, se non la morte e che adesso, almeno nel nostro paese, ha trovato un killer silenzioso e rapido che premendo il tasto di un mouse può sparare alla tempia dei potentati che amministrano la legislazione e ne influenzano le scelte. Alberto Cisterna
Il dibattito sul referendum. Come si raccolgono le firme per il referendum, il valore della democrazia diretta. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Con la Gazzetta Ufficiale dov’è stata pubblicata ancora fresca di stampa e la raccolta lampo sull’eutanasia e la legalizzazione della cannabis, i palazzi si trovano in pieno scompiglio di fronte alle novità sul referendum. Imputata: la digitalizzazione della raccolta delle firme per promuovere le iniziative popolari. E dire che si tratta di una modifica introdotta proprio dal Parlamento solo qualche settimana fa. Vabbè che si trattava di una seduta notturna (e qualche colpo di sonno non è da escludere) ma, dicono le cronache, l’approvazione è stata pur sempre all’unanimità. Cioè, tutti i partiti. È per questo che il dibattito scatenatosi in questi giorni sorprende un po’. E ancor di più sorprende la rapidità con la quale sono cominciate a fioccare le proposte per modificare le regole. Sicuramente una coincidenza. Attenzione, però, perché a volte risposte scomposte rischiano di confermare le ragioni degli altri. Intanto distinguiamo merito e metodo. I referendum in questione sono molto divisivi e nessuno può assicurare che l’exploit si ripeta se e quando si andrà a votare. Il metodo però è difficilmente contestabile. Siamo uno dei paesi a più alta digitalizzazione delle attività pubbliche. Processi civili, penali, amministrativi telematici; rapporti con l’amministrazione (anche fiscale) sempre più dematerializzati (così tanto che per trovare un funzionario in carne e ossa che ti dia un chiarimento bisogna convocare una seduta spiritica), firma digitale, identità digitale, sanità digitale. Come sì fa a sostenere che i promotori di un referendum o di una legge di iniziativa popolare debbano continuare con i timbri e i bolli dell’epoca risorgimentale? Ci riempiamo la bocca di semplificazione e bocciamo una riforma che semplifica. La Costituzione non dice come si debbano raccogliere le firme, richiede che siano raccolte. E se 500.000 cittadini sono considerati un numero troppo esiguo, com’è che ce ne accorgiamo solo oggi? Alzare l’asticella solo perché la semplificazione ha funzionato non è solo un nonsenso in sé, è anche una confessione ai cittadini: semplificare sì, ma solo quando conviene. Sarebbe come dire che digitalizzare la giustizia aumenta il numero di processi. Sarà anche vero, chissà, ma non è certo tornando indietro che si risolve il problema. Molto più serio è un discorso di rivisitazione complessiva della procedura di iniziativa popolare. Perché tutti quegli ostacoli per promuovere un referendum? Perché i referendum non possono essere presentati nell’anno antecedente le elezioni o votati in caso di scioglimento? Perché il Parlamento non si pronuncia mai sulle leggi di iniziativa popolare, pur previste dalla Costituzione? Non ci sono dubbi sul fatto che la popolazione dal ’48 ad oggi sia aumentata e il numero di sottoscrittori richiesti è percentualmente più esiguo. Riallineiamolo se necessario. Ma non perché l’obiettivo è sabotare e punire. Del resto a fronte dell’incremento demografico c’è stato un crollo della partecipazione politica. E allora riconosciamo che, anche il famigerato quorum di validità, forse ha bisogno di un tagliando. Chiedere la metà degli aventi diritto per la validità del referendum, compresi gli italiani all’estero, magari anche i defunti, è anch’essa una distorsione da sanare. L’astensionismo è in caduta libera anche alle elezioni, mentre il quorum referendario non si tocca, e i sostenitori del no al referendum (quale che esso sia) possono continuare furbescamente a invitare all’astensione annettendosi la quota cospicua di astensionismo fisiologico, senza combattere a viso aperto. Nessuno può ritenersi soddisfatto se, per approvare una disciplina sul fine vita dopo moniti, ordinanze e sentenze della Corte costituzionale, si debbano mobilitare i cittadini con uno strumento, quello referendario, che è certamente meno cesellato di quanto possa essere una legge parlamentare. Ma tant’è, è il Parlamento che se n’è lavato le mani. Un esempio? Le Camere possono varare una disciplina per evitare il referendum fino al giorno in cui si votasse. Purché non barino facendo il gioco delle tre carte (C. cost., sent. 68/1978). Ci si misuri su questo e si faccia la riforma che la Corte costituzionale ha richiesto da tempo. Il termometro della democrazia diretta va sempre confrontato con quello della democrazia rappresentativa. Se questa funziona, i referendum diventano residuali. Così come li ha pensati il Costituente, del resto. Ma perché funzioni e i cittadini siano soddisfatti è necessario che la politica faccia quelle riforme attese da decenni e abbandoni le convenienze di un gioco politico ormai decrepito, di cui però conosce tutti i trucchi. E chi lascia il noto per l’ignoto? E per favore, non mettiamo in mezzo la Corte costituzionale, costringendola a supplire alle deficienze della politica. Il sindacato di ammissibilità del referendum una volta raccolte 100.000 firme, sempre ammesso che possa introdursi con legge ordinaria (v. art. 2 l. cost. 87 del 1953), contraddice frontalmente la motivazione di chi la propone. Ma chi ci dice che valutare le prime 100.000 firme sia una scelta sensata. Magari sono le uniche, assemblate da qualche minoranza intensa, assai abile a smanettare nel mondo digitale. E così avremo fatto lavorare inutilmente la Corte costituzionale, per una raccolta che non raggiungerà mai la soglia richiesta, solo perché il palazzo non si ritiene in grado di reggere l’impatto politico di una raccolta blitz? Insomma, piuttosto che sperare nei supplementari, interveniamo in modo organico sui referendum e sulle riforme della democrazia rappresentativa? Sarà in grado la politica di questo colpo d’ala? O continuerà a inseguire, in debito d’ossigeno, quello che distrattamente si è lasciata sfuggire di mano, anche se, una volta tanto, era una buona cosa? Certo, continuando così, il solco tra cittadini e istituzioni non è destinato a ridursi. Giovanni Guzzetta
Il "coming out" del quotidiano. Per Travaglio la democrazia è un cesso, svolta fascista del Fatto Quotidiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Ieri Il Fatto Quotidiano ha reso il suo “coming out”, come si dice nel nuovo linguaggio inglesizzante. Cioè ha dichiarato l’essenziale della sua ideologia politica. Ha pubblicato in prima pagina una grande immagine di un gabinetto, con una fessura sulla tavoletta per introdurre la scheda elettorale. Tradotto dall’immagine alle parole, il messaggio è nettissimo: le urne sono un cesso. La democrazia è un cesso. Il voto è un cesso. Più o meno è quello che pensava Pinochet. Oppure, potremmo dire nel giorno in cui se ne va Miki Theodorakis, quello che pensavano i colonnelli greci che in una cupa notte del 1967, armi in pugno, arrestarono tutto l’establishment della democrazia greca, misero in fuga il re, presero il potere e lo esercitarono per diversi anni senza fare uso delle urne, ma solo delle celle e delle torture. Poi, se volete, per essere equanimi possiamo trovare anche tanti altri esempi novecenteschi nell’est Europa. Sull’odio per la democrazia politica, fascismo e bolscevismo si assomigliavano. Credo che Marco, rispetto a Pinochet e ai colonnelli greci, abbia una posizione molto diversa sull’argomento della tortura. Immagino che lui sia nettamente contrario. In fondo è un uomo mite, anche se un po’ rabbioso. Penso che lui si contenti delle celle e soprattutto dell’abolizione di questo metodo insopportabile e mollemente borghese di distribuire il potere che consiste nell’uso delle urne. Le urne, il voto, i candidati, il decadente sistema democratico, sono il male della modernità. Una vera modernità si libera di questi orpelli ottocenteschi e seleziona il potere, non lo distribuisce. Il potere, secondo Travaglio e molti suoi predecessori, spetta agli onesti, o ai giusti, o ai camerati, o alla classe. Lui propende per gli onesti. Chi sono gli onesti? Quelli che appartengono al partito degli onesti e che sono giudicati tali dai magistrati, dai Pm, dalle varie associazioni antimafia, da Di Battista e da Fofò. Su Di Maio bisogna stare più attenti: negli ultimi tempi ha sbandato e in lui sono evidenti netti segni di imborghesimento democratico. Un po’ di prudenza anche su Grillo, che certo non ha tentazioni democratiche, però si è dissociato da Conte, e Conte invece è un uomo puro. Come lo era Bessarione (non sapete chi era Bessarione? Ve lo racconto un’altra volta). Il tono scherzoso che sto usando per riferire della svolta dichiarata del Fatto, che in modo solenne si schiera per una ideologia comunque antidemocratica e che richiama esplicitamente i toni del fascismo mussoliniano, forse è fuori luogo. A me viene spontaneo scherzare un po’ quando parlo di Travaglio (Perché? Ve lo spiegherò un’altra volta quando vi racconterò anche di Bessarione). Il problema però è molto serio. La presenza in Italia di un nucleo di energie politiche, giornalistiche e intellettuali fortemente e appassionatamente contrarie alla democrazia è una questione che va affrontata. Quando io ero ragazzo, per molto meno si sarebbe gridato al colpo di Stato. Ma allora i colpi di Stato erano possibili, persino in Europa (come dimostrò proprio la Grecia, e più tardi – in senso inverso – di nuovo la Grecia e poi il Portogallo quando dei putsch eliminarono la dittatura per mano militare e restaurarono la democrazia). Oggi i colpi di Stato non sono possibili. Ma il progressivo deterioramento della democrazia, del suo funzionamento, delle sue garanzie, del suo legame indissolubile con lo Stato di diritto non solo è possibilissimo ma è largamente in atto. Le forze che in modo esplicito o no non amano la democrazia e lavorano per ridurne la portata e il potere sono presenti in diversi partiti. Sono fortemente maggioritarie tra i 5 Stelle, sfiorano ormai, e penetrano, nel Pd, hanno un peso discreto nella Lega. Non credo che siano presenti anche in Fratelli d’Italia, e se lo sono del tutto marginali, perché Fratelli d’Italia – paradossalmente – è un partito che affonda più di tutti gli altri le radici nella Prima repubblica e nella struttura democratica dei partiti. Fratelli d’Italia ha tendenze reazionarie nettissime, e anche giustizialiste. Sicuramente alcune sue posizioni risentono di una vaga ascendenza fascista. Ma è un partito democratico, che ama la democrazia. Si è del tutto liberato del ricordo autoritario del fascismo. Queste forze sovversive trasversali sono fortemente influenzate, e influenzano, una parte significativa del mondo dell’informazione. E trovano un interlocutore potentissimo e attento nel partito dei Pm. Perché l’idea alla quale si ispirano è quella di Travaglio: la Repubblica degli onesti, dei giusti, lo Stato etico. Qual è il rischio? Che proceda il logoramento in corso. Lo Stato di diritto ormai in Italia è ridotto al lumicino. La magistratura è in mano a una Loggia, che sia l’Ungheria o no non saprei. E ha un potere sconfinato. I partiti devono sottoporsi a cerimonie umilianti per avere l’imprimatur dei giusti. E non possono più scegliere, e non hanno autonomia, e non sono – proprio per queste ragioni, oltre che per un difetto di pensiero – capaci di elaborare strategie e politiche. La campagna del Fatto contro gli impresentabili (con il corredo dell’urna-cesso) è uno dei grimaldelli. Si pubblicano liste di proscrizione, tipiche di tutti i regimi, che si fondano sull’idea che se stai antipatico a un Pm sei un farabutto. Pensate al caso Calabria, dove i Pm hanno fatto fuori il presidente eletto, Mario Oliverio, rispettabilissima persona, erede della nobile tradizione del Pci, lo hanno arrestato, hanno poi dovuto liberarlo solo su ordine della Cassazione per inconsistenza delle accuse, e ora che, indebolito illegittimamente dai poteri occulti delle Procure, prova a ripresentarsi alle elezioni, gli tornano addosso e lo rimettono di nuovo sotto il fuoco per mezzo di Travaglio: sei impresentabile, gridano. Impresentabile? Piuttosto Oliverio è un perseguitato. Ma nei regimi la parola perseguitato è abrogata. Facciamo spallucce a tutto ciò e andiamo avanti? Sotto il ricatto continuo dei manettari? I partiti non sono in grado di reagire, vili e impauriti? La campagna contro Berlusconi ha portato a tutto ciò? Ha demolito l’attaccamento alla democrazia politica e allo Stato liberale? Gli intellettuali di sinistra sono scomparsi o si riparano dietro Montanari? Già. Poi se io dico che siamo al fascismo mi dicono che sono ottuso dalle ideologie. Non c’è niente di ideologico in quello che dico. Questa roba qui nella quale stiamo vivendo assomiglia tantissimo a un moderno fascismo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
È tutto debito buono? Lo Stato onnipresente e la fandonia del neoliberismo italiano. Istituto Bruno Leoni su L'Inkiesta il 16 agosto 2021. I numeri delle partecipazioni dirette e indirette del governo sono altissimi. Ma non basta: sono tanti i modi con cui il pubblico riesce a controllare e dirigere l’economia del Paese. Rimangono dubbi non tanto per i ritorni sull’investimento (che in alcuni casi ci sono), quanto per le conseguenze di lungo termine su dinamismo e attrattività. L’editoriale settimanale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta di Katrin Hauf, da Unsplash. Lo Stato è il più importante investitore a Piazza Affari (oltre che azionista della Borsa stessa): le partecipazioni dirette e indirette del governo superano i 57 miliardi di euro di capitalizzazione (il valore comprende anche Rai e Ferrovie, attualmente non quotate). Un’indagine condotta dal quotidiano Milano Finanza ha inoltre mostrato che, nell’ultimo anno, il peso delle quote pubbliche è cresciuto del 13,8 per cento. A questi vanno aggiunti i pacchetti azionari in pancia agli enti locali o alle regioni, per esempio nelle grandi ex municipalizzate. Inoltre, le partecipazioni pubbliche non solo si contano, ma si pesano: poiché spesso il Mef o la Cdp detengono quote di controllo, la loro influenza sulla Borsa va ben al di là del conteggio delle quote e arriva a oltre un quarto dell’intero listino. Per avere un termine di paragone, la capitalizzazione complessiva della Borsa italiana a fine luglio 2021 valeva circa 724 miliardi. Di fronte a questi dati strappa davvero un sorriso (il nostro, amaro) la costante polemica contro il neoliberismo imperante. Anche perché i numeri non rendono giustizia sulla pervasività della presenza pubblica nell’economia. Infatti, da un lato, la Cdp ha ormai ramificazioni ovunque, che si sono ulteriormente consolidate attraverso i fondi creati per sostenere la liquidità delle imprese durante la crisi del Covid e che, invece, hanno rappresentato uno strumento di penetrante espansione nel capitale delle imprese non quotate. Dall’altro lato, lo Stato non condiziona le decisioni delle imprese solo attraverso gli investimenti in equity, ma anche per mezzo di molti altri strumenti e comportamenti (dalla produzione normativa al disegno del sistema tributario, dal modo in cui le norme leggi vengono in concreto applicate fino alla moral suasion), a loro volta (spesso) orientati dagli interessi delle aziende partecipate. Insomma: dopo la fase (in chiaroscuro) delle privatizzazioni negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, non c’è dubbio che oggi ci troviamo nuovamente in un Paese, se non controllato, quanto meno fortemente condizionato dalle partecipazioni statali. In questo panorama desolante è un po’ difficile considerare il disimpegno dal Monte dei Paschi di Siena, coerente con impegni già presi con le istituzioni europee, un cambio di passo – o la prima avvisaglia del ritorno dei “privatizzatori”. Anzi, il Governo Draghi non si è tirato indietro in altre operazioni, da Tim ad Autostrade, che hanno visto il ritorno dello Stato in settori dai quali in precedenza si era ritirato. Viene dunque da chiedersi, usando le parole del premier, se e come tutto questo capitale pubblico possa essere qualificato come «debito buono», non tanto alla luce dei ritorni sull’investimento (che in alcuni casi ci sono), quanto per le sue conseguenze di lungo termine sul dinamismo e l’attrattività del Paese. Sappiamo bene che più la presenza pubblica è solida in un settore, meno i concorrenti saranno indotti a entrare e misurarsi coi rivali controllati dallo Stato, nella consapevolezza che essi sono inevitabilmente «più uguali degli altri». La fase delicata che stiamo attraversando implica inevitabilmente un incremento della spesa pubblica. Prima o poi, però, questa bolla scoppierà e torneremo a fare i conti con la realtà di una finanza pubblica drogata e insostenibile, e di un mercato egemonizzato dallo Stato. Sarebbe meglio prevenire questo problema, mettendo un freno e possibilmente ingranando la retromarcia, per evitare che l’ipertrofia pubblica divori quel che resta del nostro apparato produttivo.
Democrazia in bilico (ma non tutto è perduto). Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Il vero giardiniere – ha scritto il drammaturgo Ceco Karel Capek – non coltiva fiori ma nutre il suolo; il suo occhio non si arresta alla superficie come uno spettatore ma s’immerge in profondità a controllare la fertilità del terreno. L’esatto contrario del terreno buono è il fango dove è facile annaspare e rimanere immobili. E dalla “palude fangosa” che prende avvio il saggio di Rossana Titone dal titolo “Democrazia in bilico” edito da Pluriversum Edizioni : un intenso viaggio – nello spazio di un diario minimo – dentro un paese in discernimento sempre sul filo (anzi in bilico) del “vorrei ma non posso” o – specularmente – del “potrei ma non voglio” a seconda del proprio punto di vista. Di certo è che questo libro è autentico, scritto per anime inquiete nel senso che Agostino d’Ippona intende dare al termine, ovvero non lasciarsi annichilire dalla limitatezza di sé ma assumerla per superare i momenti di crisi. Ed è un saggio dedicato quindi a coloro che sentono il disagio del tempo presente e sono vulnerabili ed incapaci di curare le ferite, atterrite dallo sconforto. E’ quel famoso spettro della paura che apre il romanzo di Joanna Bourke, cioè uno spirito in scala di grigi che si aggira anche in forme sofisticate alimentato da un futuro incerto e complesso nel quale l’interdipendenza dei fatti e delle società hanno letteralmente terrorizzato i cittadini. Ma nella selva dei tempi “globali” va messa a terra una sorta di pietra angolare sulla quale costruire una democrazia della possibilità, un orizzonte di fiducia. Si può dire – parafrasando Renato Zero – che la globalizzazione no, non l’avevamo considerata e tuttavia l’autrice ne coglie tutti gli aspetti problematici (anche nei dettagli della sua vita quotidiana) concentrandosi su una sorta di terapia del linguaggio: le parole diventano terapia. la terapia diventa cura e la cura ti mette in piedi. Il saggio insiste – con una prosa apparentemente istantanea invece molto pensata e pesata -sul tema dell’essere politico (più che del fare politica) affinché si possa costruire una nuova classe dirigente all’altezza dei tempi e per contrastare i populismi e i qualunquismi inadeguati alle questioni di stretta attualità come il contrasto all’odio sociale, la tutela delle diversità, il cambio di passo autentico delle politiche migratorie, la crescita culturale ed economica strutturale, la cura delle nuove generazioni. Su un punto trovo l’analisi di Rossana Titone si fa sferzante come giusto che sia: per un “politichina” nutrita a pane e supponenza che tende ad arrivare a qualunque costo (un Whatever it takes al negativo, costruito su basi rovesciate), l’autrice stabilisce una distinzione e non una sovrapposizione tra coscienza politica di tutti i cittadini ed esercizio del governo che – non si offendano alcuni – non è per tutti. Come per tutti i lavori, essa richiede un cammino graduale, un cursus dall’ambito locale a quello nazionale, studio, analisi dei bisogni ascoltando le persone e far accadere quando si promette. Contro la riduzione della complessità a gossip, il libro sa volare senza distogliere lo sguardo a quanto accade sulla terra, gli occhi non si accecano alla visione estatica dei massimi sistemi ma leggono la realtà attraverso momenti
inaspettati ai più, come passeggiando con il fidato Parker o alla luce di un gag, in una mattinata come tante, davanti a una friggitoria palermitana… ma non posso svelarvi di più. Per scoprire tutto il resto, leggetevi questo bel libro: il diario verace di una giornalista che non si rassegna a vivere in un’Italia nella palude.
L'articolo 88 e gli ultimi 6 mesi del settennato. Cos’è il Semestre Bianco, la norma che proibisce al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Agosto 2021. Da domani il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non potrà più sciogliere le aule del Parlamento, e quindi la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, e indire nuove elezioni. È la norma del cosiddetto Semestre Bianco, all’Articolo 88 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura”. A Mattarella resteranno comunque i poteri di nomina di firma, di rinvio delle leggi, di inviare messaggi al Paese. La norma del semestre bianco è stata definita anche come anacronistica, figlia di un’Italia appena nata democratica e quindi ancora parecchio timorata da svolte autoritarie e fasciste. Il membro dell’Assemblea Costituente del Partito Comunista Italiano Renzo Laconi l’aveva definita come l’antidoto a una sorta di “piccolo colpo di Stato legale”, ovvero il rischio di un Presidente che per vedere prorogati i propri poteri potesse “avvalersi di questo potere prorogato per influenzare le nuove elezioni”. È stato definito anche un “buco nero” che annichilisce l’arma più potente nelle mani del Capo dello Stato. Puntuali emergono quindi alla vigilia del Semestre Bianco scenari su possibili crisi nell’esecutivo. E soprattutto perché i partiti potrebbero moltiplicare i veti incrociati gli scontri duri. A febbraio 2022 scade il mandato di Mattarella. E il toto nomi impazza già da mesi. Lo stesso Presidente del Consiglio Mario Draghi viene spesso citato tra i favoriti. Lo stesso Mattarella, secondo molti, sarebbe stato incitato a intraprendere la ri-elezione. Solo voci per il momento. Della cancellazione della norma sul Semestre Bianco si è sempre parlato ma senza mai fare niente. Il Presidente Antonio Segni, nel 1963, invitò il Parlamento a intervenire su uno strumento che “altera il difficile e delicato equilibrio tra i poteri dello Stato, e può far scattare la sospensione del potere di scioglimento delle Camere in un momento politico tale da determinare gravi effetti”. Segni era favorevole a stabilire la “non immediata rieleggibilità” del Presidente della Repubblica, una proposta citata e condivisa anche da Mattarella – considerazioni che fanno propendere per la sua rinuncia a un nuovo mandato. L’articolo 88 venne modificato solo nel 1991, alla fine del settennato di Francesco Cossiga e della X legislatura, quando venne inserita una deroga nel caso in cui gli ultimi sei mesi del mandato “coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura”. Una situazione definita di “ingorgo istituzionale”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica al Governo e al Parlamento. Ilaria Minucci il 23/07/2021 su Notizie.it. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso un monito rivolto a Governo e Parlamento in merito ai decreti emanati durante la pandemia. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ufficializzato la conversione in legge del decreto Sostegni bis. In questa circostanza, tuttavia, la più alta carica dello Stato italiano ha sfruttato l’occasione per inviare ai politici un importante avvertimento. Nel pomeriggio di venerdì 23 luglio, il Presidente della Repubblica ha annunciato la legge di conversione del decreto Sostegni bis, asserendo: “Ho provveduto – scrive il Capo dello Stato – alla promulgazione in considerazione dell’imminente scadenza del termine per la conversione e del conseguente alto rischio, in caso di rinvio, di pregiudicare o, quantomeno, ritardare l’erogazione di sostegni essenziali per milioni di famiglie e di imprese”. Al contempo, Mattarella ha voluto anche rendere pubblica una lettera indirizzata ai presidenti del Senato e della Camera, Maria Elisabetta Alberti Caellati e Roberto Fico, e al premier Mario Draghi. In questo contesto, il monito del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato volto a sottolineare l’uso improprio delle leggi di conversione dei decreti e delle decretazioni d’urgenza che ha caratterizzato l’esecutivo italiano durante i mesi vissuti all’insegna della pandemia.
Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica: la lettera ai politici. La missiva scritta dal Presidente della Repubbica riporta il seguente messaggio: La consapevolezza della straordinarietà e della gravità del momento che il Paese sta attraversando per le conseguenze economiche e sociali dell’emergenza pandemica, tutt’ora in corso, nonché della necessità di attuare speditamente il programma di investimenti e riforme concordato in sede europea non può, peraltro, affievolire il dovere di richiamare al rispetto delle norme della Costituzione. Avverto la responsabilità di sollecitare nuovamente Parlamento e Governo ad assicurare che, nel corso dell’esame parlamentare, vengano rispettati i limiti di contenuto dei provvedimenti d’urgenza, come già richiesto con analoga lettera dell’11 settembre 2020. Per quanto riguarda le mie responsabilità, valuterò l’eventuale ricorso alla facoltà prevista dall’articolo 74 della Costituzione nei confronti di leggi di conversione di decreti-legge caratterizzati da gravi anomalie che mi venissero sottoposti. Anche tenendo conto che il rinvio alle Camere di un disegno di legge di conversione porrebbe in termini del tutto peculiari – alla luce della stessa giurisprudenza della Corte costituzionale – il tema dell’esercizio del potere di reiterazione, come evocato in una lettera del 22 febbraio 2011 del Presidente Napolitano.
Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica: le parole di Napolitano. In relazione al testo citato da Mattarella e consultabile sul sito del Quirinale, il suo predecessore Giorgio Napolitano – facendo riferimento a un ddl di conversione annesso a un dl Milleproroghe – aveva scritto: “Sono consapevole che una eventuale decisione di avvalermi della facoltà di richiedere una nuova deliberazione alle Camere del disegno di legge in esame ai sensi dell’articolo 74 della Costituzione, per il momento in cui interviene a seguito della pressoché integrale consumazione da parte del Parlamento dei termini tassativamente previsti dall’art. 77 della Costituzione, potrebbe comportare la decadenza delle disposizioni contenute nel decreto-legge da me emanato nonché di quelle successivamente introdotte in sede di conversione”.
Secondo Sergio Mattarella, quindi, il decreto Sostegni bis “contiene 393 commi aggiuntivi, rispetto ai 479 originari. Tra le modifiche introdotte ve ne sono alcune” che “sollevano perplessità in quanto perseguono finalità di sostegno non riconducibili all’esigenza di contrastare l’epidemia e fronteggiare l’emergenza, pur intesa in senso ampio, ovvero appaiono del tutto estranee, per finalità e materia, all’oggetto del provvedimento. Il significativo incremento del ricorso alla decretazione d’urgenza verificatosi durante l’emergenza Covid, anche per fare fronte alle esigenze di attuazione del Pnrr, accentua il rischio di recare pregiudizio alla qualità della legislazione, possono determinare incertezze interpretative, sovrapposizione di interventi, provocando complicazioni per la vita dei cittadini e delle imprese nonché una crescita non ordinata e poco efficiente della spesa pubblica”.
Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica: i decreti emanati durante la pandemia. Il Presidente della Repubblica, poi, ha voluto ricordare i dl emanati nel corso della pandemia da coronavirus, sottolineando: Dal febbraio 2020 al luglio 2021, sono stati adottati dal Governo 65 decreti-legge rispetto ai 31 dei 18 mesi precedenti. Tra l’altro, i provvedimenti d’urgenza hanno comprensibilmente assunto di frequente in questa fase un’estensione eccezionale. La moltiplicazione dei decreti-legge, adottati a distanza estremamente ravvicinata, ha determinato inoltre un consistente fenomeno di sovrapposizione e intreccio di fonti normative: attraverso i decreti-legge si è provveduto all’abrogazione o alla modifica di disposizioni contenute in altri provvedimenti d’urgenza in corso di conversione e, in più occasioni, si è assistito alla confluenza nelle leggi di conversione di altri decreti-legge. In merito alle caratteristiche che è andata assumendo la decretazione d’urgenza, ha avuto modo di esprimersi più volte in senso critico il Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati che, in particolare, ha invitato il Legislatore ad evitare "la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei" e il Governo "ad operare per evitare la confluenza tra diversi decreti-legge, limitando tale fenomeno a circostanze di assoluta eccezionalità da motivare adeguatamente nel corso dei lavori parlamentari".
Mattarella, il monito del Presidente della Repubblica a Governo e Parlamento. Il Presidente della Repubblica, infine, ha concluso la sua lettera rivolgendo un preciso monito al Governo e la Parlamento, asserendo: Invito a riconsiderare le modalità di esercizio della decretazione d’urgenza, con l’intento di ovviare ai profili critici da tempo ampiamente evidenziati dalla Corte costituzionale, nonché nelle stesse sedi parlamentari, oltre che in dottrina, e che hanno ormai assunto dimensioni e prodotto effetti difficilmente sostenibili. L’esperienza sin qui maturata ha reso ancor più evidente come il rispetto del dettato costituzionale coincida con l’interesse ad un’ordinata ed efficiente regolamentazione dell’emergenza in corso, della ripresa economica e delle riforme: ciò richiede un ricorso più razionale e disciplinato alla decretazione d’urgenza. Occorre dunque modificare l’attuale tendenza. I decreti-legge devono presentare ab origine un oggetto il più possibile definito e circoscritto per materia. Nei casi in cui l’omogeneità di contenuto è perseguita attraverso l’indicazione di uno scopo, deve evitarsi che la finalità risulti estremamente ampia. Auspico che queste considerazioni e questi rilievi siano oggetto di approfondimento e di riflessione nell’ambito del Parlamento e del Governo.
· Parlamento: Figure e Figuranti.
Così volpi, leoni, cinocefali spiegano la giungla del potere. Matteo Sacchi il 20 Giugno 2021 su Il Giornale. Sin dall'antichità le metafore zoologiche sono uno strumento di comprensione della politica. Un animale politico. La definizione che Aristotele dà dell'uomo, politikòn zôon, ma anche la definizione che ciascuno di noi dà di chi sia un leader carismatico. La politica sarà pure una scienza ma, da sempre, le metafore che la riguardano hanno a che fare con l'animalità, ne fanno largo uso. Come si fa ad essere un re? La Bibbia ha le idee chiare: «Tre esseri hanno un portamento maestoso... sono eleganti nel camminare: il leone, il più forte degli animali, che non indietreggia davanti a nessuno; il gallo pettoruto, il caprone è un re alla testa del suo popolo». E i re della stirpe di Davide avevano come simbolo il leone. Così come nei templi egizi l'immagine di Ramesse II è accompagnata da quella del suo leone e mentre combatte indossa la khepresh che simboleggia la forza del cobra. E in egual misura, sin dall'antichità, la metafora animale è anche usata per colpire l'avversario politico, per sminuirlo. Alla fine per gli antichi greci perché non ci si può fidare dei barbari? Perché quando parlano fanno «bar-bar» il verso dei cani. Eppure proprio perché più vicini all'animalità questi uomini-altri possono anche essere temibili. Ecco allora prosperare nei secoli il mito dei temibili Cinocefali, un popolo dalla testa canina temibilissimo in guerra, selvaggio eppure dotato di caratteristiche umane. Insomma l'ambiguità del politico incarnata, il trittico uomo - volpe - leone di Machiavelli trasformato, con largo anticipo, in mito pseudoetnografico (preso però per vero per secoli). E, nei secoli, l'animale è stato associato, come vedete nell'illustrazione della pagina a precedere, dopo essere transitato dall'araldica familiare, anche alle intere nazioni. L'orso russo, il dragone cinese che ormai finisce in tutti i titoli di giornale, il leone britannico e l'aquila americana. Aquila, ad esempio, che non piaceva a Theodore Roosevelt, ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti. Lui personalmente avrebbe scelto il Grizly. Lo considerava più simile nella natura profonda agli americani e gli piaceva l'idea di avere un orso più grosso di quello dei russi...Insomma, il libro appena pubblicato da Gianluca Briguglia, professore di Storia delle dottrine politiche all'Università Ca' Foscari di Venezia ha un titolo che coglie nel segno: Bestiario politico (HarperCollins, pagg. 156, euro15). Arioso nella forma, il testo è tratto da un podcast, il volume si muove sul filo di alcune delle più interessanti suggestioni relative alla «bestialità» e alla politica. A partire proprio dall'origine, ovvero dal mito di Adamo ed Eva. Come in un bestiario - nel Medioevo si trattava di una categoria sapienziale di volumi che raccoglievano brevi descrizioni di animali (reali o fittizi), accompagnate da spiegazioni moralizzanti e riferimenti tratti dalla Bibbia- la riflessione muove sempre le mosse da una rappresentazione che nasconde altro. Così si parte dal Peccato originale di Albrecht Dürer, dal dettaglio in basso nell'incisione. Un secondo prima che la mela venga morsicata un gatto guarda il topo. Siamo all'attimo «-1» della politica. La violenza non è ancora scattata, non c'è bisogno di un potere che la controlli. Ma un attimo dopo il mondo diventerà come lo conosciamo. Pieno di mostri e di animali che sono immaginari ma sono anche l'esatta descrizione di quello che la politica genera. E in questo caso la fanno da padrone i cinocefali di cui prima accennavamo. Tornano a ripetizione. Deve ragionarci sopra persino Sant'Agostino, che alla loro esistenza non crede molto ma che prende atto: se sono razionali, se creano una civitas, vanno considerati umani. Come dargli torto, la politica si muove proprio sul discrimine dove la violenza «animale» è messa sotto controllo. E poi la narrazione prosegue passando anche da pensatrici relativamente dimenticate, come Christine de Pizan (1364-1430) e arriva sino a Nicolò Machiavelli (1469-1527). Col pensatore fiorentino il tema del bestiario politico esce dall'inconscio collettivo. Leoni, aquile, volpi, cervi dorati escono dall'araldica. Il manto di pantera dei faraoni viene deposto, così come il palco di corna indossato dai re dei celti o le pelli d'orso dei berserkir. La teorizzazione diventa chiara. La natura del centauro Chirone si svela: «Avere per precettore qualcuno che è mezzo bestia e mezzo uomo - non vuol dire altro se non che un principe deve saper adoperare l'una e l'altra natura: e che l'una senza l'altra non può durare». Ma questo terribile equilibrio che resta sospeso sulla politica di oggi non fa dormire sonni tranquilli. Briguglia cita una intervista di Bill Clinton: «Se parliamo di Osama Bin Laden - un ragazzo intelligente, ho passato molto tempo a pensare a lui - sto dicendo che l'ho quasi preso... Avrei potuto ucciderlo, ma avrei dovuto distruggere una piccola città chiamata Kandahar e uccidere 300 donne e bambini innocenti. A quel punto non sarei stato migliore di lui e non lo feci». Dopo ci fu l'11 settembre 2001 e morirono 2977 innocenti e poi ci fu la guerra in Afghanistan con un corollario di circa 600mila vittime. Maledette bestie della politica, non ci lasciano dormire, continuano a chiederci se siamo disposti ad entrare nel male, almeno quando è necessitato. E allora ogni epoca ha il suo bestiario che si spera non ci porti dritti dritti nella Fattoria di George Orwell, governata dai maiali. Preferiremmo di gran lunga il «cinghiale bianco» di Battiato. Però, non a caso, Briguglia chiude parlando della più cupa delle pandemie: la peste. Ma dalla peste, un batterio davvero bestiale, è nata una grande rinascita. Anche la Fenice è un gran simbolo politico.
Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini, in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”.
La minaccia della scissione del Nord è stata presa troppo sul serio. L’errore più grave da parte dello Stato è stato affidare alle Regioni la gestione della sanità. Giuliano Cazzola il 22 giugno 2021 su Il Quotidiano del Sud. Senza pretendere di risalire al dibattito politico-culturale e alle ragioni pratiche che indussero i Padri Costituenti ad introdurre un livello istituzionale regionale dotato di potere legislativo sulle materie di competenza e su quelle ad esso delegate dallo Stato, in Italia le Regioni sono un dono dell’autunno caldo del 1969 che determinò – come risposta al ‘’nuovo che avanza’’ – lo Statuto dei lavoratori e il completamento dell’assetto statuale in chiave di autonomia politica e non solo di decentramento amministrativo come erano stati nella storia precedente le Province e i Comuni. Fin dalla loro nascita garantirono una maggiore distribuzione del potere politico, perché a livello regionale non vi erano problemi per l’accesso al potere dello stesso Pci oggetto, sul piano nazionale, di una conventio ad excludendum. L’avvio dell’esperienza venne inaugurata da importanti figure politiche come il comunista Guido Fanti in Emilia Romagna e il democristiano Piero Bassetti in Lombardia e accompagnata da un ampio fervore di studi di diritto amministrativo quando vennero varate le leggi delegate per l’attribuzione delle competenze, dei relativi organici e delle risorse. Ma il momento di maggior gloria delle Regioni fu determinato da un contagio politico: l’emergere di una ‘’questione settentrionale’’ sollevata, con inatteso successo elettorale, di alcune Leghe sorte tra le nebbie della pianura padana, le cui popolazione erano sensibili all’accusa – un po’ sempliciotta ma non senza fondamento – ‘’siamo stanchi di lavorare per mantenere Roma ladrona e i terroni. Ce ne andiamo per conto nostro’’. La minaccia della scissione (vi furono anche alcune mascherate) fu presa sul serio. Fino a quando non venne sdoganata da Silvio Berlusconi che convinse Umberto Bossi ormai divenuto (dopo il ‘’tradimento’’ del 1994) suo alleato stabile ad accontentarsi del ‘’federalismo’’. Il senatur fu così messo in grado (un po’ come aveva fatto il Pci nell’immediato dopoguerra) di convincere la base che si trattava di un primo passo verso la secessione. L’Italia però è uno strano Paese in cui le forze appartenenti al ‘’sistema’’ cercano di incorporare e assimilare le istanze dei movimenti ‘’antisistema’’ per rubacchiare loro un po’ del consenso che vanno raccogliendo. È stato così con l’inchiesta di ‘’Mani pulite’’, sostenuta ed alimentata dalla potenza di fuoco televisiva di Silvio Berlusconi, dalla mobilitazione dei Ds (come diceva Winston Churchill c’è sempre qualcuno che nutre il coccodrillo nella speranza di essere mangiato per ultimo) e da tutta la c.d. stampa indipendente (di proprietà di centri di potere economico). Col federalismo, poi, bastò la parola. Tanto che l’unica riforma in tal senso fu attuata da un governo di centro sinistra all’inizio del nuovo secolo: la c.d. riforma del Titolo V della Costituzione che – in mancanza del coraggio di compiere scelte nette come cercò di fare, anni dopo il governo Berlusconi con la riforma Calderoli detta della devolution e bocciata in sede di referendum confermativo – determinò la condizione di un conflitto permanente tra Stato e Regioni nell’ambito delle tante competenze concorrenti costringendo la Corte Costituzionale ad individuare i relativi confini che il legislatore aveva dimenticato di tracciare. Ma l’errore più grave sia per lo Stato che per le Regioni è stato quello di affidare a queste ultime la gestione della sanità (non parliamo poi delle politiche attive del lavoro e della formazione), un settore che, da un lato ha condizionato i bilanci e l’attività delle Regioni, dall’altro a diviso per venti il SSN. Nella XVI legislatura si volle completare il disegno con il c.d. federalismo fiscale con l’impegno non solo della maggioranza di centro destra, ma dello stesso Pd allora all’opposizione. Ma non se ne fece nulla perché le Regioni non vollero mai rinunciare alla copertura dello Stato. L’ultima raffica del regionalismo venne sparata nella XVII legislatura da due Regioni amministrate dal centro destra: la Lombardia e il Veneto che sottoposero a referendum la richiesta di autonomia differenziata, con l’appoggio a sinistra dell’Emilia Romagna. Nella XVIII legislatura, l’attuale, quella richiesta ha rifatto capolino (in precedenza il governo Gentiloni aveva stipulato persino degli accordi con i sedicenti Governatori) ma è stata travolta dalla pandemia, che ha rappresentato – purtroppo – la prova generale di un’autonomia sempre annunciata e mai nata. Al dunque forse sarebbe stato più opportuno, anziché massacrare le Province, rivedere l’assetto delle Regioni, il cui profilo è oggi o quello di uno staterello balcanico o di un Comune, neanche tanto grande.
ECCO LA SINDROME DELLE FEDERAZIONI, IL PASSATEMPO SBAGLIATO DEI PARTITI. Il mantra dominante è quello di aggregare voti a qualunque costo, illudendosi di mischiare moderati ed estremisti, realisti e utopisti. Paolo Pombeni su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. La cabala dei partiti sta tutta nello studiare come raggiungere la pole position nelle griglie di partenza delle elezioni. Fusioni, aggregazioni, aperture verso destra o verso sinistra tutto dovrebbe servire allo scopo. Un sano scetticismo verso queste forme di alchimia è imposto dal realismo, ma ciò non toglie che le forze politiche vi si dedichino con il massimo sforzo disponibile. Nel centrodestra Salvini s’è messo avanti col lavoro provando a lanciare il progetto di una qualche forma di coordinamento con Forza Italia. Servirebbe, dicono quasi tutti, a far nascere il primo raggruppamento per raccolta di voti e dunque a candidare il suo leader alla guida del governo una volta espletata la tornata elettorale nazionale. Curiosamente si discute se questa forma di “federazione” (o cos’altro ci si inventerà) possa raggiungere la fantastica quota del 36-37% di consensi nelle urne. Il calcolo è ottimistico perché va ben oltre la somma di quanto attribuito dai sondaggi a Lega e FI. Così facendo si arriverebbe più o meno al 27-28%: una bella cifra, ma quasi dieci punti lontana dalle fantasie sopra ricordate, le quali non spiegano, se non con numeri al lotto, come si raggiungerebbe quel traguardo. Salvini ormai punta chiaramente sull’effetto Draghi. Ne è diventato il fan più ardimentoso e cerca di mostrarlo in tutti i modi, ma quanto sia credibile la trasformazione di questo entusiasmo in voti aggiuntivi è tutto da dimostrare. Certo il leader leghista conta che Draghi non ripeta la sbandata di Monti e si raccatti un suo partito, perché s’è visto che così non funziona. I partiti si fondano consumando le scarpe, reali e metaforiche, nel percorrere i territori alla ricerca e motivazione di adepti alla causa, operazione difficile da gestire quando si è impegnati nell’azione di governo (specie in questi frangenti così impegnativi su quel piano). Salvini lo sa, pensa dunque che alla fine il tesoretto di consenso raccolto dall’attuale premier andrà letteralmente all’asta, e cerca di comprare il maggior numero di biglietti possibile in vista della lotteria finale. È abbastanza curioso che il PD non reagisca in maniera appropriata a questa operazione. Probabilmente la sottovaluta, convinto che sia il solito fuoco di paglia. Non considera però che se lascia il campo libero a Salvini nell’ottica di un sostegno al governo convinto ma non troppo, perché crede che sia prioritario sventolare una sua agenda, le chance di perdere l’immagine dell’unico partito di massa capace di ragionamento anziché di demagogia saranno in continua crescita. Anche in questo caso a dominare è però la sindrome della federazione. Calcolatrice alla mano se si sommano sulla base dei sondaggi i consensi del PD e quelli di M5S già si arriva testa a testa con i consensi di Lega + FI, mentre se ci si aggiungono e consensi di LeU quantomeno il pareggio è assicurato. Di nuovo si tratta di conti senza l’oste, perché in tutti i casi la somma fra i consensi (per di più stimati e non reali) non da quei risultati così certi come vorrebbero gli strateghi di questa confusa stagione. Entrambi i campi poi sono lì a strologare su cosa avverrà di quell’area confusa e magmatica che va genericamente sotto il nome di “centro”. Ci si mette dentro Renzi, Calenda, Bonino, magari una spruzzata di Verdi, e ci si interroga se la neonata “Coraggio Italia” di Toti e Brugnaro si posizionerà da quelle parti, senza parlare dell’ipotesi di qualche fuga da FI verso un nuovo centro per insofferenza verso l’abbraccio coi leghisti. È un’area che sempre valutandola con la calcolatrice potrebbe valere fra il 10 e il 15%, ma è un ritornello che sentiamo ripetere da decenni senza che si sia visto quagliare qualcosa di significativo. Sarebbe opportuno che tutti i partiti invece di far di conto provassero a misurarsi con le novità di questa stagione politica. Non c’è da perdersi ad immaginare misure fantasiose per rispondere a grandi problemi reali con soluzioni di piccolo cabotaggio fatte passare per miracolistiche. Basterebbe avviare una seria opera di ricognizione non solo delle problematiche che si possono affrontare con profitto, ma delle azioni specifiche che i partiti potrebbero/dovrebbero fare per essere riconosciuti dalla pubblica opinione come partecipi delle fatiche del governo. Piuttosto che discettare su chi è più draghiano di Draghi, piuttosto che correre ad inventarsi qualche trovata per mostrarsi “addizionali” a quanto propone il premier, ci sarebbe da impegnarsi nel lavoro di bonifica delle tante storture contro cui cozzerà la realizzazione di tante cose previste nel PNRR. Anche se non sembra, una azione concorde dei partiti in questi campi otterrebbe più risultati di quelli a cui può ambire il governo, per la semplice ragione che, per dirlo in metafora, asciugherebbe l’acqua in cui nuotano quei pesci. Come sempre il timore è che mentre uno o più partiti si impegnano in quelle operazioni, gli altri approfittino del malcontento inevitabile che esse suscitano per sottrarre loro consensi. E siccome ormai a fronte di un futuro elettorale reso più che incerto fra l’altro dalla modifica dei collegi e dal taglio del loro numero (cosa già avvenuta, a prescindere se si farà o meno una nuova legge elettorale) il mantra dominante è solo quello di aggregare voti a qualunque costo, illudendosi di mischiare facilmente moderati ed estremisti, realisti e utopisti, i partiti ragionano più che altro con l’occhio alla creazione di blocchi e cartelli. Un pessimo modo per fare politica.
La politica in formato social network: tante chiacchiere e nessuna sostanza. Sofia Ventura su L'Espresso l'1 giugno 2021. I partiti e i leader si rincorrono tra hashtag e dichiarazioni virali. Ma dopo aver occupato l’agenda mediatica, resta poco o nulla. Tanto si è parlato della crisi dei partiti. Tanto si è detto della logica mediatica che ha trasformato il modo di comunicare la politica. I due fenomeni sono legati. Lo sono così tanto che seguendo oggi il gioco politico, il dibattito politico, scontri e polemiche, si ha l’impressione di rimbalzare da un social all’altro, di saltellare tra hashtag, meme, grafiche. Le parole e gli interventi sembrano fatti per essere sussunti in questi nuovi atomi del discorso pubblico, anzi, meglio, in questi frammenti nel quale il discorso pubblico è esploso, perdendo ogni natura organica e razionale, ogni coerenza e profondità, ogni nesso con una prospettiva generale, da un lato, e con la concretezza del mondo empirico, dall’altro. Scrivendo del discorso pubblico nella forma che assume su Twitter, il direttore de La7 Andrea Salerno ha acutamente osservato (in un tweet: dalla stessa piattaforma emergono ogni tanto gli strumenti per analizzare gli impazzimenti ai quali essa dà sovente luogo): «Tutta la politica che tweetta sui Maneskin e tutta la politica che tweetta su Falcone. Stesso giorno, stessa intensità. L’essenza dei social network nel linguaggio, nell’imporre agenda delle notizie, senza distinzione di sorta, senza gerarchia, è tutta qui». Si scivola tra gli hashtag. Ogni giorno ha la sua proposta. Dall’abolizione del coprifuoco all’utilizzo dell’esercito per bloccare gli sbarchi «come fa la Spagna» di Giorgia Meloni all’eliminazione dell’Imu sugli immobili sfitti e alla flat tax al 15 per cento di Matteo Salvini. Fino alla tassa di successione per i più ricchi per finanziare la distribuzione di un bonus di diecimila euro ai giovani di Enrico Letta. E vedremo quali nuove proposte ci attenderanno nei giorni e settimane a venire. Proposte che funzionano benissimo per essere riassunte nelle «grafiche» delle quali si servono ormai tutti i partiti, quelle cartoline quadrate con immagini e brevissime frasi ad effetto, scritte con caratteri enormi e colori flash, delle quali ormai ogni partito abusa: basta fare un giro sui loro siti o sulle loro pagine Instagram. Una volta lanciate nel vortice della discussione ottengono plausi o critiche, ma entrano davvero nell’agenda politica? O piuttosto nell’agenda delle chiacchiere? Ma quanto sono state ponderate quelle proposte? Quali analisi di costi e benefici? Di fattibilità? Di impatto? E soprattutto: dove sono state elaborate? Una volta c’erano i partiti, i loro uffici studi, i luoghi interni all’organizzazione partitica deputati al confronto e alla discussione, quindi alla decisione. Una volta. Ora, o il partito si schiera come un sol uomo a sostegno della boutade del leader, nei casi – ad esempio – di Fratelli d’Italia o della piccola falange di Italia Viva, oppure apre il dibattito coram populo, con l’ausilio, ovviamente, delle piattaforme social. E qui veniamo alla crisi dei partiti accennata all’inizio. I partiti non mettono più in forma esperienze di intelligenza collettiva, non sono luoghi per sviluppare visioni, tradurle in progetti, dare concreta forma politica agli interessi di riferimento, luoghi di discussione reale. Stanno, soprattutto con la voce dei loro leader, nella «nuvola delle parole chiave», nel tentativo di intercettare più consenso possibile. Con una differenza, però, tra la destra populista (quasi il 90 per cento della destra italiana) e la sinistra. La prima accompagna questo gioco con la forza di un discorso pre-politico moralistico che divide il mondo in buoni e cattivi. La seconda, che pure non disdegna certi manicheismi, oscilla tra visioni anche opposte che spesso la mandano in corto circuito e le impediscono di comunicare agli elettori anche una solo vaga idea di mondo. In entrambi i casi non si costruisce nulla. Ma gli influencer del primo genere sono più a loro agio in un gioco che tutto sommato si addice loro; il Pd per giocarlo a sua volta, si è solo impoverito.
Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 31 maggio 2021. La nascita di Coraggio Italia innesca un'altra rivoluzione negli equilibri politici e la mappa del Parlamento cambia ancora in maniera sensibile. Snocciolando i dati sui gruppi di Camera e Senato, emerge infatti che, dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018, oltre 200 parlamentari hanno cambiato casacca. Il quadro è chiaro: 138 deputati e 65 senatori non fanno più parte del partito o del movimento con il quale erano stati eletti. Un totale di 203. Il «muro dei 200» è stato superato d'un colpo (con 23 cambi di casacca alla Camera) con la nascita di Coraggio Italia, movimento guidato dal governatore della Liguria Giovanni Toti sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, costituito in gran parte da fuoriusciti da Forza Italia. E presto il bilancio del «trasformismo» potrebbe ulteriormente salire ben sopra quota 203, visto che, in settimana, è attesa la nascita di Coraggio Italia anche a Palazzo Madama, dove la quota minima per formare un gruppo è di 10 senatori (alla Camera è di 20), ma le regole sono più stringenti. Da inizio legislatura, il Movimento Cinque Stelle è il partito che detiene il record di addii: 60 a Montecitorio e 33 al Senato. Una disgregazione che, oggi, ha portato i 93 ex grillini a riaccasarsi in tutti i partiti presenti in parlamento. Forza Italia è invece al secondo posto con 37 addii ufficiali (27 alla Camera e 10 al Senato). A ruota il Partito democratico, con 31 parlamentari persi (rispettivamente 18 e 13), confluiti in gran parte in Italia viva con Matteo Renzi. Scorrendo l'elenco della Camera, secondo i dati di Openpolis, emerge che ci sono numerosi casi con cambi di casacca multipli, che fanno salire ulteriormente il totale dei passaggi di gruppo a 259. Una deputata, da inizio legislatura, ha «cambiato abito» ben 3 volte. È il caso della onorevole Maria Teresa Baldini, che dopo essere stata eletta con Fratelli d'Italia è passata al Misto, poi è entrata in Forza Italia ed infine, l'altro giorno, l'ultimo salto nel nuovo spazio politico costruito da Toti e Brugnaro. Mentre Tiziana Piccolo, nel giro di 24 ore, aveva lasciato la Lega per andare pure lei con Coraggio Italia, salvo poi tornare subito nel Carroccio. E come non ricordare l'addio eccellente a Forza Italia di Renata Polverini, che lo scorso 21 gennaio, in mezzo alla bufera politica per tentare di formare un Conte ter, aveva traslocato con i responsabili di Tabacci. Ma poi, a Palazzo Chigi, è arrivato Draghi e l'ex governatrice del Lazio, pentita, è tornata con i berlusconiani. Al Senato, a detenere il record assoluto di tutto il Parlamento, si registra il caso di Giovanni Marilotti, che ha traslocato per ben 5 volte: M5S, poi Misto, a seguire Autonomie, Maie-Centro democratico, poi di nuovo gruppo Misto ed infine Pd. Quattro cambi di casacca per Gregorio De Falco (è entrato con il M5S, poi Misto, Maie e di nuovo Misto). A pari merito, tra gli altri, la senatrice Mariarosaria Rossi, già fedelissima di Berlusconi: anche lei aveva tentato la carta dei responsabili, chiamati Europeisti, per sostenere un Conte ter (tentativo andato a vuoto). Quindi era passata nel gruppo Misto con Cambiamo e nei giorni scorsi ha seguito Toti nella nascita di Coraggio Italia.
Sabino Cassese, attacco alla magistratura: "Troppo potere, così i pm violano la Costituzione". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'1 giugno 2021. È stato uno dei più autorevoli critici del governo giallorosso nonché uno dei primi a denunciare le magagne della magistratura. Oggi vede nel premier Draghi un'occasione per l'Italia e tifa perché il ministro Cartabia riesca nell'impossibile: cambiare in meglio la giustizia e fermare lo strapotere dei pm. Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale ed eminenza istituzionale italica, accetta di parlare con Libero di quello che non vuol chiamare il tramonto dell'Occidente, «perché in un modo o nell'altro poi le cose vanno avanti, e perché poi non si sarebbe mai visto un tramonto così lungo, visto che questa situazione di impasse dura da oltre trent' anni».
Professore, lei è stato molto critico nei confronti del governo giallorosso: che cosa lo ha fatto cadere davvero a suo avviso?
«L'errata gestione dei rapporti con le Regioni che ha trasformato l'Italia in un Paese ad Arlecchino. L'incertezza dell'indirizzo politico. Le molte parole e i pochi fatti. L'adozione continua di norme incomprensibili. L'imprevidenza (non si poteva partire prima con i vaccini?). L'abuso dei Dpcm. L'accentramento a Palazzo Chigi per non fare».
Cosa è cambiato con Draghi nella lotta alla pandemia e nell'azione di governo?
«Draghi ha un certificato di credibilità internazionale che nessun altro ha in Italia. Guida il governo come può condurlo una persona che conosce la politica e la macchina. Pronuncia poche parole e fa molti fatti. Ha una base parlamentare più ampia. Anche nel governo Draghi ci sono dei "nei", come l'aver adottato un Dpcm, l'aver prorogato l'emergenza, il lasciare che qualche ministro parli troppo per "comunicare", invece che per annunciare decisioni».
Che Italia sta uscendo dalla pandemia? Più abbruttita, più povera, più cinica, più spaventata, come starebbe a testimoniare la tragedia della funivia di Stresa?
«Direi più preoccupata e più provata. Quando si va in auto su una strada difficile, con molte curve, si desidera avere un autista che non abbia preso la patente il giorno prima».
Sarebbe stupito se Draghi prorogasse lo stato d'emergenza, e che cosa significherebbe?
«Sarei stupito. Significherebbe che non si è capito che, passata la fase critica, bisogna ritornare nella norma. Se ritornare alla gestione ordinaria è difficile, vuol dire che le regole della gestione ordinaria sono sbagliate e vanno cambiate. Non si può vivere di deroghe e di eccezioni».
Perché i partiti si sono ridotti in questo stato, completamente privi di autorevolezza e incapaci di qualsiasi decisione?
«Facciamo una diagnosi. Gli iscritti ai partiti oggi sono circa 1/8 di quelli di 70 anni fa. L'offerta politica dei partiti è modestissima: si procede per slogan, non vi sono programmi; e gli slogan cambiano ogni giorno. I partiti hanno perduto la base, non sono più, come prevede l'articolo 49 della Costituzione, associazioni, parte della società civile, ma organi statali».
Non è colpa della nostra Costituzione se la politica è in crisi dal crollo del muro di Berlino?
«La nostra Costituzione manca soltanto di un tassello, anche se molto importante. Uno dei più attivi membri dell'assemblea costituente, Piero Calamandrei, lo indicò chiaramente quando il progetto di Costituzione venne portato dalla commissione dei 75 all'Assemblea costituente: "di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto non c'è quasi nulla"».
Quali riforme ci servirebbero?
«Basterebbe cominciare con queste due: un meccanismo di stabilizzazione dei governi e una fucina di produzione di classe dirigente».
C'è un deficit di democrazia nel Paese o viceversa c'è un eccesso paralizzante?
«Paradossalmente, tutti e due. Di organizzazioni democratiche ne abbiamo molte: eleggiamo i componenti dei Consigli comunali di ottomila comuni, dei Consigli regionali di venti Regioni, del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo. Mancano, invece, gli anelli di congiunzione, il collante: pensi a quello che è successo con la pandemia nei rapporti tra Stato e Regione, ma anche nei rapporti tra le singole Regioni».
Come giudica, anche a livello di democrazia, il fatto che Draghi stia governando quasi disinteressandosi delle istanze dei partiti che lo sostengono?
«Non si sta disinteressando, ne tiene conto, ma mantiene anche l'unità di indirizzo politico del governo, che è il compito principale del presidente del Consiglio dei ministri, secondo la Costituzione, senza farsi sommergere da infiniti negoziati».
Quanto è possibile prorogare il blocco dei licenziamenti e degli sfratti senza ledere la libertà d'impresa e il diritto di proprietà?
«La Costituzione prevede, agli articoli 41,42 e 43, che sia la proprietà, sia l'impresa privata possano essere sottoposte a limiti per raggiungere fini sociali. Tuttavia, se questi limiti diventano troppo pesanti, una specie di espropriazione, lo Stato deve pagare un indennizzo. Quindi, è bene che questi limiti siano quanto più possibile temporanei».
Perché Mattarella, dopo essere rimasto a lungo in silenzio malgrado gli scandali, ha deciso di cambiare linea e dire chiaramente che la giustizia va riformata?
«Non è stato silente. Il problema è quale azione possa intraprendere per porre rimedio a questa critica situazione della magistratura».
Quali sono gli ostacoli che troverà il ministro Cartabia nella sua opera riformatrice e da dove bisognerebbe partire?
«È partita col piede giusto, cercando rimedi alla lunghezza dei processi, perché l'organizzazione e il funzionamento della giustizia sono molto rudimentali. Dovrà poi passare al più spinoso tema delle procure e del Consiglio superiore della magistratura. Qui si scontrerà contro con quel 20 per cento di magistrati che sono addetti alle funzioni investigative e che hanno trasformato gli organi di accusa in un nuovo potere dello Stato».
Nella magistratura è cambiato qualcosa dopo lo scandalo Palamara?
«Quello che è cambiato l'ha indicato molto chiaramente il presidente della Repubblica. Vi è stata una perdita di credibilità della magistratura. Basta vedere i sondaggi. La fiducia degli italiani nella magistratura è diminuita di 40 punti. Consideri, però, anche quest' altro aspetto: la magistratura ha colpito sé stessa con la stessa arma usata per mettere alla gogna cittadini onesti».
Ritiene che il potere della magistratura travalichi in qualche cosa i limiti della Costituzione?
«Bisogna distinguere. Vi sono ottimi giudici che svolgono la loro funzione giudicante e tra questi vi sono anche capi di istituto esemplari che riescono a non far accumulare arretrati. Completamente separata e diversa è la posizione dei procuratori- investigatori. Questi hanno sviluppato un nuovo potere dello Stato, che certamente va oltre il dettato costituzionale. Pensi soltanto a quella norma dell'articolo 111 della Costituzione secondo la quale la persona accusata di un reato è "informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico". Le pare una norma rispettata?»
Come si spiega la parabola di Davigo, da che non è più giudice non gliene va dritta una: è solo un caso?
«Lascerei da parte i problemi personali, che fanno parte degli epifenomeni, facendo attenzione ai fenomeni. Sia la vicenda Palamara, sia quest' altra della procura milanese hanno attirato l'attenzione per gli aspetti di superficie, mentre hanno rivelato aspetti più profondi e pericolosi, sui quali si dovrebbe concentrare l'attenzione. Un solo esempio: quali poteri ha il capo di una procura? Possono i procuratori muoversi del tutto liberamente, come se fossero giudici giudicanti?»
Se Mattarella fosse rieletto, potrebbe rimanere sette anni?
«La durata delle cariche è un elemento fondamentale della struttura delle democrazie. Pensi soltanto a quella dei poteri politici americani, due, quattro e sei anni, con i membri della Corte Suprema nominati a vita. In Italia la differenziazione delle durate, inizialmente anche quella tra Camera e Senato, è stata pensata sempre con l'occhio ad una preoccupazione di tutti i cultori della democrazia: evitare la tirannide della maggioranza e quindi impedire che in un certo anno, in un certo giorno, vi sia una maggioranza unica, a tutti i livelli e in tutti gli organi, così riducendo la dialettica interna tra gli organi».
Draghi con il suo attivismo si sta sbarrando da solo la strada per il Colle?
«Non parlerei di attivismo, ma piuttosto di un "governo che governa", senza rinviare o farsi vincere dai negoziati infiniti. Penso che una persona con l'esperienza di Draghi sappia quello che dicono i francesi sulle cariche pubbliche: non si sollecitano e non si rifiutano».
Se il premier fosse eletto al Quirinale, sarebbe opportuno andare al voto?
«E così un presidente appena eletto manderebbe a casa chi l'ha appena prescelto? Con la conseguenza, in questo caso, che un numero cospicuo di parlamentari non avrebbe neppure possibilità di essere rieletto, a causa della riduzione del numero dei parlamentari».
È giusto che il presidente della Repubblica lo elegga un Parlamento che di fatto non rappresenta più il Paese e che si è di fatto autodelegittimato con il taglio dei deputati?
«In tutti gli ordinamenti moderni, i tempi degli organi rappresentativi e le durate dei loro membri sono regolati in maniera diversificata, per il motivo che ho prima indicato. Non c'è una "democrazia istantanea"».
Si aspettava che Draghi picchiasse i pugni sul tavolo in Europa e pensa che sortirà qualche effetto?
«E chi poteva farlo meglio di lui? E non è meglio battere i pugni sul tavolo da parte di un convinto sostenitore dell'Unione europea, piuttosto che indulgere nel nazionalismo o sovranismo parolaio?»
I soldi del Recovery Fund costituiscono di fatto una cessione di sovranità senza ritorno?
«Le risorse sono date per migliorare il funzionamento della giustizia e dell'amministrazione, nonché per digitalizzare il paese e proteggere l'ambiente. Chi è contrario a questi obiettivi in Italia?»
Cosa ne sarà dell'Europa con il tramonto della Merkel e l'uscita di scena di Macron, l'Italia potrà riacquistare centralità?
«Che magnifica occasione per riconquistare il posto che spetta all'Italia nell'Unione europea! L'Italia non è solo uno dei Paesi fondatori dell'Unione, mai anche uno dei tre più grandi membri dell'Unione».
Draghi si sta sforzando di coinvolgere l'Europa nella gestione dell'emergenza immigrati: può riuscirci, come?
«Non ci si possono aspettare risultati a breve scadenza. Il problema immigrati è enorme. Occorre tener conto della decrescita demografica dell'Italia e dell'Unione europea nel suo insieme e delle previsioni di crescita demografica dell'Africa. Di immigrati ne avremo bisogno e sarebbe utile prevedere canali e priorità, come fanno da decenni gli Stati Uniti, nonché di organizzare un buon sistema di integrazione, tenendo conto che tutte le società moderne sono multietniche e che in Italia abbiamo molto meno immigrati che in altri Paesi europei».
Cosa ne pensa di Salvini, assolto a Catania e processato a Palermo per vicende analoghe?
«Vediamone gli aspetti positivi: è prova dell'indipendenza delle corti e dei magistrati e nel sistema giudiziario vi sono strumenti per risolvere diversità di interpretazioni e conflitti tra le corti. L'importante è procedere speditamente. Quindi, mi concentrerei sui tempi perché, come dicono gli inglesi, giustizia ritardata non è giustizia».
Pietro Salvatori per huffingtonpost.it il 28 maggio 2021. “Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher”. Alessandro Campi insegna Storia delle dottrine politiche a Perugia, da sempre attento osservatore della destra. Di fronte alla difficoltà della coalizione Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia a esprimere candidature di livello nelle grandi città ha pochi dubbi: “C’è un problema enorme di classe dirigente: erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi”. Fatica il modello di reclutamento di nomi di sintesi pescati all’esterno: “I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire?”. E allora “non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla”. Il punto è che “se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica”.
Professor Campi, partiamo dalle candidature a Roma e a Milano. Il centrodestra è partito da Bertolaso e Albertini, due punte di diamante di quell’area politica, ma di vent’anni fa.
L’usato sicuro non funziona più nemmeno per l’acquisto di una vettura, figuriamoci nella politica divenuta ormai spettacolarizzata e prêt-à-porter. Oggi ti danno una vettura fiammante da pagare comodamente a rate e quando ti sei stancato puoi prenderne un’altra anch’essa nuova. E come i consumatori vogliono sempre nuovi modelli, così gli elettori vogliono anch’essi facce sempre nuove, salvo poi stancarsene rapidamente. La difficoltà è evidente. I nomi rispolverati dai partiti, penso a Roma, sono quelli di Gasparri e Storace, anche questi espressione di una destra che guarda a quello che era piuttosto a quel che dovrebbe diventare. Alla fine qualcuno o qualcuna bisogna pur candidare. E se non si trova nessun esterno, non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla. Ma meglio loro, alla fine, che lo sconosciuto della porta accanto: incompetente e magari anche disonesto.
Che ne pensa dei cosiddetti civici? Racca a Milano, Michetti a Roma.
Mi sembra si stia definitivamente sgonfiando il mito della società civile come riserva dei migliori e dei più competenti che si mettono al servizio della cosa pubblica per senso del dovere. Una stagione finita che ha come ultimo esponente Beppe Sala a Milano. I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire? La verità è che quelli che possiedono una posizione socialmente solida e un loro prestigio intrinseco di sporcarsi con questa politica non hanno nessuna voglia. La borghesia media e grande che riteneva quasi un onore, oltre che un dovere sociale, essere coinvolta direttamente nella guida della civitas oggi se ne sta a casa o in ufficio: osserva, critica e si fa gli affari propri. L’impegno pubblico-partitico lo lascia ai parvenu o a quelli che non hanno niente da perdere.
Le faccio un’osservazione. Questo tipo di profilo civico è molto ricercato (anche se con insuccesso) da Pd e M5s, una coalizione in embrione, che ha bisogno ad oggi di piccoli papi stranieri per trovare una sintesi. Il centrodestra, pur con le stradi differenti prese con Draghi, non dovrebbe avere un bagaglio di storia e rapporti che dovrebbe rendere tutto più facile?
In effetti anche il M5S e il Pd pare abbiano difficoltà a trovare figure di esterni che possano, nel loro caso, fare da collante di un’alleanza che stenta peraltro a nascere. A Napoli in realtà sembrerebbe fatto l’accordo sul nome dell’ex ministro Manfredi, ma ancora una volta alle condizioni non del Pd ma del M5s. Tra l’altro, diciamolo una volta per tutte: se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica.
Veniamo al punto: c’è un problema di classe dirigente?
Enorme. E parte dai livelli più bassi: la scuola nei suoi diversi gradi sino all’Università, che per definizione dovrebbe essere il luogo dove si formano i gruppi dirigenti di un Paese (e dove si inculca la consapevolezza di farne parte). Quanto alla politica, erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi. Oggi è rimasta, come palestra di formazione per i ruoli direttivi politico-amministrativi, l’alta burocrazia ministeriale. Ovvero la Banca d’Italia, che non a caso è la riserva alla quale negli ultimi vent’anni si è continuamente attinto per supplire il deficit di competenze della politica. Vediamo anche i volti nuovi che hanno acquisito un certo peso negli ultimi tempi. Un esempio su tutti: Massimiliano Fedriga, quarantenne, apprezzamenti bipartisan, fresco presidente della conferenza delle Regioni. Ma anche lui è cresciuto con la generazione di Bossi. Quelli bravi, per così dire, hanno sempre alle spalle una solida formazione politica in senso tradizionale. Gli altri vanno e vengono e spesso fanno solo danni.
In questo vede differenze tra Fratelli d’Italia e Lega?
Sono in modo diverso partiti all’antica: un capo, un gruppo dirigente, quadri e militanti, una discreta presenza sul territorio, una cultura politica di riferimento, linee di comando chiare. Anche il Pd ha quest’impostazione di massima: ma negli ultimi anni gli scontri interni tra cacicchi e capi-corrente lo hanno molto indebolito, come si vede nel rapporto tra centro e periferia. I suoi governatori sul territorio – Bonaccini, De Luca, Emiliano – vanno praticamente per conto proprio, rispondono solo a se stessi.
Però Salvini e Meloni hanno due storie toste da questo punto di vista. Il primo s’è preso il Carroccio e l’ha trasformato in un partito nazionale tirandolo su dal 3/4% sul quale viaggiava. La seconda ha rotto con il centrodestra in cui è cresciuta fondando un partito che all’inizio in molti ritenevano residuale. La loro storia e i loro successi non dovrebbero aver insegnato qualcosa?
Insegnano che il professionismo politico vince sul dilettantismo. Ma insegnano anche che oggi si sale facilmente nei consensi e altrettanto facilmente si scende. I trionfi elettori sono spesso effimeri o di breve durata, come ben sanno Renzi e appunto Salvini. La Meloni, a sua volta, è avvisata.
C’è poi anche Forza Italia, che forse è un caso ancora diverso. Però anche lì il nuovo che avanza si fatica a vederlo.
Forza Italia in questo momento è alle prese con lo spettro del dopo-Berlusconi. Lunga vita al Cavaliere, ovviamente, ma il partito-padronale è giunto alla fine della sua storia e chi si chiede giustamente se possa sopravvivere a chi l’ha fondato e mai ha voluto pensare ad un suo possibile successore. In Forza Italia c’è da aspettarsi un rompete le righe verso tutte le direzioni. A meno che non emerga un federatore sufficientemente forte e credibile in grado di salvare il salvabile di quell’esperienza. Se dovessi fare un nome, direi Mara Carfagna.
Se si parte dall’era Berlusconi e si passa a Salvini e Meloni, i partiti di centrodestra hanno sempre una forte connotazione leaderistica. È il capo che comanda, decide incarichi e agenda, ma è anche il capo che sposta voti e crea opinione. Un’altra destra in Italia non è possibile?
La mistica del capo è culturalmente e psicologicamente connaturata alla destra per ragioni storiche. Ma non ne farei un residuo del gerarchismo fascista duro a morire, come talvolta si pensa. Il leaderismo è la cifra di tutte le grandi democrazie contemporanee. Il problema è semmai come si esercita questo ruolo e come si arriva ai ruoli di vertice.
Per chiamata dall’alto e per selezione dal basso?
C’è poi un problema legato al linguaggio e ai programmi. Il rischio è di limitarsi alla propaganda e alla comunicazione tralasciando l’agenda politica in senso stretto, cioè le cose da fare e la cultura di governo. Sulla questione se un’altra destra è possibile, direi che conviene arrendersi all’evidenza: abbiamo a destra quel che l’Italia odierna riesce ad esprimere (ma lo stesso può dirsi della sinistra). Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher.
In qualche modo ci aveva provato Fini, andò male.
Malissimo, direi, anche a causa degli errori grossolani da lui stesso commessi: un eccesso d’indolenza e di politicismo, l’eccessiva personalizzazione dello scontro con Berlusconi, la brutta storia (comunque la si voglia giudicare) della casa di Montecarlo, ecc. Aggiungo che Fini non era un capo in grado di fare e disfare a proprio piacimento: all’interno di An la sua è sempre stata una leadership di compromesso. Era un classico primus inter pares, essendo questi ultimi i cosiddetti ‘colonnelli’ con cui egli ha sempre dovuto mediare e venire a patti. Quando ha provato a fare il leader sul serio, rompendo col Popolo delle Libertà e facendosi un suo partitino, non a caso lo hanno rimasto solo. Se ricorda il film, concluda lei la frase….
Questa tendenza di cui stiamo parlando è la stessa anche nel resto dell’Europa?
La destra europea conservatrice – quel che ne restava – si è ovunque radicalizzata, nello stile e nel linguaggio, anche per contrastare la sfida ad essa portata dal nazionalismo populista. Guardiamo alla parabola dei repubblicani negli Stati Uniti, ai tories britannici, alla Francia dove la Le Pen si è sostanzialmente mangiata i gollisti, ecc.
Ci sono invece modelli a cui guardare?
La ricerca di modelli stranieri, oltre ad essere indice di provincialismo, non serve a nulla nella misura in cui non sono imitabili e replicabili. La politica nel mondo globalizzato è ancora nazionale quando alla sua ispirazione e ai fattori socio-culturali che la nutrono. In tempi recenti la destra italiana ha guardato al conservatorismo sociale di David Cameron e al nazional-conservatorismo di Sarkozy, ma guardi che brutta fine che hanno fatto entrambi. Ma anche con l’imitazione di Trump e del trumpismo non sembra andata benissimo.
Concludiamo tornando alle città. Al di là della questione in sé, anche la fatica a trovare disponibilità tra le personalità della società civile è indicativa di una poca attrattività al di fuori dello zoccolo duro o del perimetro del partito. C’entra qualcosa con quello che stiamo dicendo?
La poca attrattività della carica di primo cittadino, anche in grandi e prestigiose città come Roma, Milano, Napoli dipende da molti fattori. Innanzitutto, le casse dei municipi, piccoli e grandi, sono vuote da anni e adesso più di prima. Ti assumi grandi responsabilità per poi scoprire che non hai una lira da spendere, semmai bilanci in dissesto da ripianare.
C’è poi quella che chiamerei la ‘sindrome Marino’ con cui fare i conti: chi ha un suo autonomo prestigio sociale o un suo rispettabile status professionale perché dovrebbe vedersi distrutta l’immagine e la carriera solo perché hai sbagliato la firma su un atto amministrativo o perché un giornale che non ti ama ha deciso di prenderti come bersaglio?
Tra magistratura troppo facilmente inquirente, utenti social impazziti e stampa che alla cronaca preferisce lo scandalismo, oramai fanno politica a livello locale solo quelli che non avendo nulla da perdere hanno tutto da guadagnare, almeno in termini di pubblicità, anche se li si mette sotto inchiesta o li si copre d’insulti. Insomma, fare il sindaco è un mestiere che al momento non conviene.
Maria Lombardi per “il Messaggero - MoltoDonna” il 27 maggio 2021. «Ho avuto una vita normale». Marisa Rodano, cento anni (stesso giorno di nascita del Pci, il 21 gennaio 1921) cinque figli, 11 nipoti, tre mesi di carcere, quattro legislature da deputata e una da senatrice, due da europarlamentare, quattro sigle di partito (Sc, Pci, Pds,Ds), un primato, come donna vicepresidente della Camera. «Sì, ho avuto una vita abbastanza normale», il sorriso arriva con la voce.
Impegnativa, almeno. Come è riuscita a fare tutto questo con una famiglia così numerosa?
«Ci sono riuscita perché mio marito si occupava dei figli mentre io mi dedicavo alla politica. Era lui a sostenermi, a spingermi a impegnarmi. Un uomo straordinario, da prendere a esempio».
Suo padre era podestà di Civitavecchia. Come è nata la scelta della militanza partigiana?
«È cominciato tutto al liceo Visconti, a Roma. Noi ragazze eravamo molto irritate dal dover portare la divisa, la camicia bianca, la gonna a pieghe nere, dall' obbligo dei saggi ginnici allo Stadio dei Marmi. Cominciammo a vederci tra compagni di classe per capire cosa fare per cambiare».
Qual era la vostra attività?
«Diffondevamo manifestini, mettevamo i chiodi a tre punte per strada per bloccare i mezzi dei nazisti. Poi ci siamo spostati ai Castelli Romani, lì si è combattuta la battaglia contro i tedeschi. Con la mia famiglia avevo rotto i rapporti. Mi avevano arrestata ed ero sparita».
In carcere dal maggio al luglio del 1943. Ha avuto paura?
«Direi di no. Avevo trovato dei libri nella biblioteca del carcere, leggevo. Se uno decide di fare una battaglia, la paura non può metterla in conto. Lo sai che in battaglia si rischia. Coraggiosi?
Insomma, siamo stati mediamente coraggiosi. Altri sono stati molto più coraggiosi di noi».
Dopo la Liberazione è stata tra le fondatrici dell' Udi e ha scelto la mimosa come simbolo dell' 8 marzo 1946.
«Allora si parlava di emancipazione delle donne, il femminismo ancora non c' era. Eravamo riunite non mi ricordo dove e bisogna cercare un fiore. Sapevamo che a Parigi per il primo maggio si distribuivano mughetti. Ma erano tutti troppo costosi. Guardando delle mimose, pensammo: sono fiorite, non costano niente, le possiamo raccogliere. Quindi facciamo della mimosa il fiore dell' 8 marzo. Così è andata».
Quali sono i ricordi delle battaglie di quegli anni?
«Ricordo le battaglie per il diritto di voto, per essere elette, per conciliare lavoro e famiglia. Quella fondamentale fu la battaglia sul voto, perché gli altri diritti conquistati vengono sempre un poco contraddetti dall' insieme delle condizioni sociali».
E da prima vicepresidente della Camera?
«Un periodo molto interessante. Ho avuto dei momenti di soddisfazione, come quando ho cacciato Almirante dall' Aula perché si era comportato male».
La Repubblica fa 75 anni. Coma sta, secondo lei?
«Secondo me non sta molto bene. Si ha l' impressione che i dirigenti politici pensino prevalentemente a conservare le loro poltrone e non a disegnare uno sviluppo per il Paese. E che manchi poi un progetto: dove andare, come collocarsi sia all' interno sia nello scenario internazionale».
In che modo vorrebbe essere ricordata?
«Come una persona che si è battuta per l' emancipazione delle donne, sì senza dubbio».
Cosa manca oggi alle donne per raggiungere la parità?
«Non è che manchi qualcosa da un punto di vista formale, mancano le condizioni sostanziali per poter essere effettivamente libere, capaci di conciliare lavoro e famiglia. Quello che bisogna fare è battersi per creare queste condizioni, chiedere più asili nido, scuole materne, tempo pieno».
Che messaggio vuole lasciare ai giovani e alle giovani?
«Non chiudersi nel privato, non lasciarsi trasportare dalle cose ma impegnarsi per costruire un mondo migliore».
Il periodo della sua vita che ricorda più volentieri?
«Difficile dire, le vacanze in montagna, le passeggiate con mio marito. Quelli sono i ricordi più gradevoli».
L' amicizia più bella?
«Con Nilde Jotti e Togliatti».
Come è stato compiere 100 anni?
«È stato normale, non è che fa grande differenza tra 99 e 100. Uno pensa che oramai è arrivato vicino alla fine».
Le fa paura questo?
«No, è normale che sia così».
Una pausa, grazie, grazie a lei, i saluti, il telefono passa alla figlia Giulia. «Come sono andata?». «Benissimo, mamma».
“Un milione di voti se cacciate Conte”: Report e i messaggi tra Maria Elena Boschi e l’ex tesoriere della Lega Gianmario Ferramonti. La Notizia Giornale l'11/4/2021. “Un milione di voti se cacciate Conte”. Questo avrebbe detto l’ex tesoriere della Lega Gianmario Ferramonti a Maria Elena Boschi secondo un servizio di Report che andrà in onda lunedì e che è stato anticipato oggi dal Fatto Quotidiano. La deputata di Italia Viva ha risposto alla trasmissione di Raitre di non aver mai replicato ai messaggi di Ferramonti. Le cui affermazioni a proposito dei “milioni di voti” che avrebbe a disposizione appaiono piuttosto campate in aria. Ferramotti ha parlato con Giorgio Mottola di Report ai primi di gennaio. Gli ha detto di non essere massone ma di sentirsi un “gelliano”, nel senso di Licio Gelli, venerabile capo della P2 nel frattempo defunto. Poi il giornalista è tornato da lui il 27 gennaio, ovvero all’indomani delle dimissioni di Giuseppe Conte. E qui parte il racconto del servizio. A Ferramonti, che anni fa aveva raccontato il suo interessamento per dare una mano a Pier Luigi Boschi nell’avventura di Banca Etruria, Mottola ha chiesto dei suoi rapporti con la figlia renziana, Maria Elena: “Anche per questa crisi vi siete sentiti?”. “Diciamo che con la Boschi ho una corrispondenza”, gli ha risposto compiaciuto l’ex leghista. Report trasmetterà il dialogo domani sera su Rai3, nella prima puntata della nuova stagione. “Ci scriviamo, non ci parliamo”, ha chiarito un attimo dopo Ferramonti. “E la stai consigliando anche su questa fase?”, chiede Mottola. “Be’ – spiega Ferramonti – gli avevo dato una piccola notizia, che se buttavano giù questo cretino di Conte magari gli davamo una mano, vediamo”. “Ma gli davate una mano chi voi?”. “Allora, qui hai un rappresentante di Confimpresa – e Ferramonti indica un uomo, oscurato da Report, seduto alla sua destra davanti alla telecamera nascosta –, qui hai un rappresentante di Confimea, della Cifa – e indica se stesso… – Insieme qualche milione di voti ce l’abbiamo, no? E se decidiamo…”. “Spostarli sulla Boschi?”, chiede il giornalista. “Chi sarà al momento giusto al posto giusto…”, dice lui. Nel colloquio tra i due poi si parla di Cecilia Marogna, ex collaboratrice del cardinale Angelo Becciu. E anche di Francesca Immacolata Chaouqui e Francesco Pazienza. Nel frattempo a Report è arrivata anche la replica di Boschi. Che dice che nei mesi di gennaio e febbraio” ha “ricevuto diversi messaggi telefonici da un numero che non conoscevo ma che, secondo il mittente, corrispondeva all’utenza di tal Gianmario Ferramonti. Non ho mai risposto ai suddetti messaggi – ha assicurato Boschi, né parlato con il sig. Ferramonti, men che mai della crisi di governo”. Va sicuramente sottolineato che la frase sui milioni di voti da spostare appare una millanteria. Anche perché non basta certo avere un’associazione qualsiasi per riuscire a spostarli. E di certo gli associati a queste realtà non possono in alcun modo obbligare a votare nessuno. Nel caso di Confimpresa si parla della “Confederazione Italiana della Piccola Media Impresa e dell’Artigianato – è l’Associazione che rappresenta e tutela gli interessi delle imprese con iniziative, servizi ed interventi politico sindacali”. Confimea imprese invece “è una Confederazione datoriale di piccole e medie imprese italiane che associa oltre 240.162 aziende per un totale di 2.471.734 addetti e rappresenta un interlocutore importante per le Istituzioni, il Sindacato e per il mondo imprenditoriale”.
Riflessioni riformiste. Piero Sansonetti e Paolo Guzzanti: “Draghi non è un uomo di ferro ma un timido”. Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2021. “Come è possibile che siamo finiti in mano a Beppe Grillo?“. E’ questa la domanda che fa il direttore del Riformista Piero Sansonetti all’editorialista Paolo Guzzanti nel primo video di chiacchierata tra i due "vecchi colleghi". “Grillo non è un leader, è l’Italia che l’ha consacrato leader“, risponde con amarezza Paolo Guzzanti. Sansonetti gli chiede: “Tu dici che il populismo è colpa del popolo?“, Guzzanti risponde: “La stessa democrazia è colpa del popolo“. Poi il direttore del Riformista si lascia ad una considerazione “Questa è l’unica nazione al mondo in cui il leader dei populisti è un comico“. E su Di Maio e Conte: “Non si è mai visto uno come Di Maio ministro e un avvocato che si trovava a passare e l’hanno fatto diventare presidente del consiglio…“. Guzzanti racconta l’incontro tra Conte e Mattarella: “Arrivò al Quirinale mentre un altro (Cottarelli) andava via con il trolley. Mattarella gli disse che aveva visto il suo curriculum. Curriculum che lo aveva reso odioso al New York Times poiché non tutte le cose che ci aveva messo dentro erano vere“. Sansonetti: “Non sto facendo una battuta, il ministro degli esteri è Di Maio!“, ma Guzzanti replica: “La cosa grave e triste è che ce l’hanno lasciato poiché già lo era. Quando è arrivato Draghi, che non è un uomo di ferro ma è un timido, non ha mandato via Di Maio a fare lo steward allo stadio poiché la democrazia in Italia si basa solo su un oggetto: il pallottoliere“.
Marco Sarti per linkiesta.it il 15 marzo 2021. Tanti conoscono la storia di Ilona Staller, la pornostar diventata deputata della Repubblica alla fine degli anni Ottanta. Ma non tutti sanno che il poeta romano Trilussa e il pittore Renato Guttuso sono stati entrambi senatori. Dal presentatore tv Gerry Scotti al premio Nobel Eugenio Montale, la lista delle celebrità che hanno avuto un seggio in Parlamento è lunga e in buona parte dimenticata. Il comandante Umberto Nobile è passato alla storia per le due trasvolate sul Polo Nord. Il fascismo voleva farne un eroe nazionale, ma alla caduta del regime divenne senatore nelle liste del Partito Comunista. Paradossi parlamentari. Dalla tenda rossa ai divanetti di Montecitorio, il generale del dirigibile Italia fu eletto all’assemblea costituente con 33.373 preferenze. Il secondo più votato nella sua circoscrizione alle spalle di Palmiro Togliatti. A lui, raccontano, gli italiani devono l’articolo 9 della Costituzione, dove si stabilisce che «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Giorgio Strehler è entrato a Palazzo Madama nel 1987. Esponente della Sinistra Indipendente, sul sito del Senato ancora si può trovare la sua scheda personale. Foto, data di nascita, gruppo parlamentare e professione: «Direttore del Piccolo teatro di Milano, direttore del Theatre de l’Europe». Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia ha preferito la Camera dei deputati. Eletto nel 1979 con i Radicali, della sua esperienza a Montecitorio si ricorda l’attività nella bicamerale Antimafia e nella commissione di inchiesta sul sequestro Moro e il terrorismo. L’apparizione di Franca Rame a Palazzo Madama è più recente. L’attrice teatrale, moglie di Dario Fo, si è candidata con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro alla vigilia della XV legislatura. Due anni da senatrice, poi le dimissioni senza nascondere una certa amarezza. È il destino di molti artisti, incuriositi e delusi dai palazzi delle istituzioni. A rileggerla oggi, la lunga lettera indirizzata al presidente Franco Marini per annunciare il passo indietro sembra quasi un manifesto. «Al Senato – scrive Franca Rame – non si usa ascoltare chi interviene, anche se l’argomento trattato è più che importante. No, la maggior parte dei presenti chiacchiera, telefona su due, tre cellulari, legge il giornale, sbriga la corrispondenza». Nasce anche qui la scelta delle dimissioni, una questione di coerenza nei confronti dei suoi elettori: «Proprio per non deludere le loro aspettative e tradire il mandato ricevuto, vorrei tornare a dire ciò che penso, essere irriverente con il potere come lo sono sempre stata, senza dovermi mordere in continuazione la lingua, come mi è capitato troppo spesso in Senato». Le cronache ricordano un altrettanto deluso Virginio Scotti, in arte Gerry. Giovane deejay radiofonico poi diventato volto noto della televisione italiana. Quando si candida per la Camera con il Partito socialista è il 1987, ha appena compiuto trent’anni. A Milano raccoglie quasi 10 mila preferenze. Viene eletto, ma lo scranno da onorevole diventa presto un incubo. Il periodo trascorso a Montecitorio è scandito da continue frustrazioni che Scotti ha raccontato in una recente intervista a Libero. «È stata una brutta pagina perché non sono riuscito a dare nulla. Non avevo ruoli, sono stato relegato a schiacciare un bottone. In quattro anni mi hanno fatto venire la nausea». Di Cicciolina si è già detto. La pornostar si presenta trent’anni fa con i Radicali. Candidatura scandalistica e provocatoria, secondo molti, eppure apprezzata dagli elettori. Nel collegio di Roma la Staller conquista 19.886 voti, seconda solo a Marco Pannella. In quella lista, tanto per dire, il giovane Francesco Rutelli arriva a 12 mila preferenze (c’è anche Cochi Ponzoni, fermo a 531). Dalla commissione Difesa ai Trasporti, durante tutta la legislatura l’attrice ungherese non rinuncerà mai alla sua carriera hard, alternando i suoi spettacoli alle lunghe sedute a Montecitorio. Alla Camera la giovane onorevole si concentra su alcune questioni, in particolare le carceri e la libertà sessuale. In una recente intervista, Ilona Staller ha svelato un inedito retroscena sull’argomento. «Io gli dissi: “Cicciolino Pannella, per me questa è una battaglia importante”. E lui mi rispose che dovevo portare avanti la mia opinione, le mie idee. Pannella del resto ha sempre sostenuto che l’amore è la cosa più bella del mondo, contrapponendolo alla guerra e alla violenza, e sostenendo la libertà nel fare sesso». Sono tanti anche gli sportivi prestati alla causa. Dalla campionessa di sci Manuela Di Centa al pallone d’oro Gianni Rivera. L’ex centrocampista del Milan ha giocato una parte importante della sua carriera proprio a Montecitorio, dove ha attraversato quattro legislature militando nella Democrazia Cristiana e nell’Ulivo. E se alla Camera siede ancora oggi la schermitrice plurimedagliata Valentina Vezzali, la canoista olimpica Josefa Idem ha un posto a Palazzo Madama (senza dimenticare il breve trascorso nel governo Letta). E poi ci sono i cantanti, da Sanremo al Transatlantico. Domenico Modugno, indimenticabile interprete di Nel blu dipinto di blu, è entrato al Senato nella X legislatura. Anche lui con i Radicali. Negli stessi anni era in Parlamento un altro grande interprete della musica italiana, Gino Paoli. Lui però è stato eletto alla Camera, iscritto al gruppo della Sinistra Indipendente. Franco Califano invece ha soltanto sfiorato l’elezione. Il grande cantautore si era candidato alla Camera nel 1992, in lista con il Partito Socialdemocratico. Ma il sogno di diventare deputato è svanito dopo aver conquistato solo 198 preferenze. Il Califfo non è l’unico artista ad aver tentato senza successo la scalata al palazzo. Nello stesso anno l’attore Massimo Boldi si è candidato alle Politiche con il Partito socialista. Ottenendo duemila preferenze nella circoscrizione Como-Sondrio-Varese, anche quelle insufficienti per entrare a Montecitorio. La lista delle celebrità è lunga. A elencarle tutte si rischiano accostamenti indebiti. Dai cinepanettoni alla grande pittura, è impossibile non ricordare Renato Guttuso. Senatore comunista dal 1976 al 1983, eletto a Palazzo Madama per due legislature. Solo pochi anni prima del suo ingresso in Parlamento, il grande artista siciliano aveva dipinto i funerali di Togliatti, una delle opere più evocative. Artisti e sportivi, cantanti e attori. È la stessa Costituzione ad aprire le porte del Parlamento a chi si distingue nella propria professione. L’articolo 59 della Carta attribuisce al presidente della Repubblica la nomina dei cittadini «che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». E qui l’elenco dei parlamentari coincide con la storia del nostro Paese. Arturo Toscanini, nominato senatore a vita nel 1949, rinunciò al seggio nel giro di poche ore. L’anno dopo toccò a Carlo Alberto Salustri, più noto come Trilussa. Nel 1967 entrò a Palazzo Madama il poeta Eugenio Montale, premio Nobel per la letteratura (ci rimase per cinque legislature, fino al 1981). Ma tra i senatori a vita si ricordano anche l’attore Eduardo De Filippo e la scienziata Rita Levi Montalcini. Onorevoli non per caso, ma per indiscutibili meriti.
Federico Novella per "la Verità" il 15 marzo 2021. «Il fatto che venga richiesta un'analisi politica al sottoscritto, a 94 anni, è uno dei segnali evidenti della crisi politica attuale, non trova?». Rino Formica, più volte ministro ai tempi della Prima Repubblica. Fu ministro delle Finanze nel primo e nel secondo governo Spadolini, durante il governo Andreotti 1989-92 e ministro del Lavoro durante i governi Goria e De Mita. È stato un membro di rilievo del Partito socialista italiano durante la segreteria di Bettino Craxi.
Insomma, lei resta una riserva inesauribile di memoria storica.
«Ma qui si sta disgregando tutto, a cominciare dai partiti che sostenevano il Conte bis. I 5 stelle sono messi peggio d'un corpo attaccato selvaggiamente dal Covid. Il Pd è in una condizione precomatosa, Leu si è autoliquidata, Renzi dopo aver diroccato il vecchio governo ha dismesso l'attività politica per fine missione».
E nel centrodestra?
«Da quelle parti avvengono rivoluzioni silenziose, soprattutto nella Lega e in Fratelli d'Italia, mentre Forza Italia è una monarchia in estinzione, senza eredi. Ma questo per dirle che in questo caos, il punto di Archimede, il punto di appoggio, non lo vedo».
Non è Mario Draghi?
«A Draghi non si può chiedere l'impossibile. Lui può cercare di sistemare l'organizzazione della vaccinazione, elaborare un progetto credibile di Recovery plan. Per il resto, non ha interlocutori all'altezza: tenta di trovare equilibrio tra politica e tecnocrazia. Ma la parte politica ogni giorno si autodistrugge, e dunque pesa di meno. Non è colpa di Draghi se oggi al governo non c'è un solo ministro che possa esprimere seriamente una vera volontà politica».
Secondo lei è un problema recente?
«No, il sistema partito come l'ho conosciuto io è morto nel 1989, e non è ancora nato niente al suo posto. Questo è il grande problema dei nostri tempi. Abbiamo abrogato di fatto l'articolo 49 della Costituzione, quello che riconosce i partiti come cellule democratiche della organizzazione repubblicana. La disfatta dei partiti è in atto da tempo, non solo sul piano della qualità della classe dirigente, ma anche sul piano delle dottrine teoriche».
Con quale risultato?
«Il risultato è che oggi, come nelle tragedie shakespeariane, persino il buffone dice ogni tanto qualcosa di vero. Quando Beppe Grillo si candida a segretario unico dei partiti in liquidazione, non fa una battuta. È la verità che emerge nelle fattezze dello sberleffo».
Il Parlamento è irreversibilmente depotenziato?
«Il Parlamento oggi può solo ratificare e dire signorsì. Prova ne sia che i due governi guidati da Giuseppe Conte, al di là di ciò che si dice, sono nati fuori dal Parlamento, in base ad accordi privati tra leader. E anche il governo Draghi non è una libera scelta del Parlamento: semmai è un'intuizione resistenziale del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al fine di salvare il salvabile. E i parlamentari hanno accettato per salvare la poltrona, per timore di uno scioglimento».
Enrico Letta segretario del Pd può stare sereno?
«Non capisco come un partito possa accettare di essere dichiarato in decomposizione da Nicola Zingaretti, per poi nominare un altro segretario come nulla fosse, senza congresso. Insomma passano in poche ore dal pressapochismo al miracolismo. Si stanno sottoponendo a un lento suicidio, vivendo alla giornata».
Letta verrà impallinato come i suoi predecessori?
«Ormai non c'è alcuna forza nel partito che possa toglierlo di mezzo. Così come non c'è nessuna forza che possa sostenerlo. Letta può stare sereno, ma senza serenità».
Che consiglio gli darebbe?
«Di essere chiaro sui programmi. In questa nomina Letta potrebbe intravedere un risarcimento del danno subito sette anni fa. Se non pretende un mandato politicamente ben definito, diranno che l'unica soddisfazione che ha avuto è stata quella di ricevere gli applausi da parte di chi lo aveva cacciato. Troppo poco: per lui, e per il Paese».
Non c'è mai stata armonia tra le due anime del Partito democratico: quella progressista e quella democristiana. Un vizio d'origine?
«Le turbolenze sono irrisolvibili. Queste cose si risolvono come nei matrimoni sbagliati: ci si divide. Il tentativo di coesistere non può durare all'infinito. Non vedo armi che possano evitare la disintegrazione del partito».
Che idea si è fatto della gita in Arabia Saudita di Matteo Renzi?
«Sono atti tipici della disinvoltura dell'inconsistenza. Se la politica scompare, restano solo le convenienze. E questo perché è caduto ogni condizionamento di ordine etico e morale. Ma non è solo un problema di Matteo Renzi: anzi, su questo piano ha molta concorrenza».
Il Movimento di Beppe Grillo è in subbuglio. Giuseppe Conte può avere un futuro come leader dei 5 Stelle?
«Può essere. Del resto in politica il successo dipende da due cose: le proprie capacità, e le incapacità altrui».
Il suo socialismo, oggi, da chi è rappresentato?
«Da nessuno. Il socialismo resta radicato solo nella società: in certi momenti appare come umanitario, in altri centralistico, in altri libertario. Ma l'esigenza di rimettere in comunità gli uomini, che sono stati abbandonati all'isolamento e all'individualismo, è sicuramente una domanda di socialismo».
A proposito di isolamento, lei come sta affrontando il lockdown?
«Non sono stato ancora vaccinato, e cerco di tenere un comportamento disciplinato, per non danneggiare me stesso e gli altri».
Nell'emergenza sanitaria stiamo vivendo una sospensione della Costituzione?
«Nella storia repubblicana di emergenze ne abbiamo avute, ma neanche il terrorismo venne regolato bypassando la norma costituzionale. È ciò che è accaduto in Italia negli ultimi due anni, con i governi Conte. E questo mi preoccupa perché, più si va avanti, e più diventa difficile recuperare. Per perdere la democrazia ci vuole poco: per ricostruirla, moltissimo».
Da questo punto di vista, vede continuità tra Draghi e il Conte bis?
«Continuità dettata dalla necessità. Ma a Draghi non possiamo imputare ancora nulla, se non un cambio dell'approccio comunicativo. E anche questo ha la sua importanza. Giuseppe Conte era tronfio: roboante ma vuoto. Mario Draghi è disteso: e nella sua calma introduce elementi di serietà nell'affrontare le difficoltà».
Prima tra tutte, il ritardo della campagna vaccinale?
«C'è stata una debolezza durante la gestione Conte nell'affrontare l'intensità del fenomeno. Non hanno saputo organizzare per tempo né la distribuzione né l'accelerazione della produzione».
Non teme il predominio del partito dei virologi?
«Certo che lo temo. Ma è comprensibile: quando arriva il vuoto della politica, si crea il pieno dei piccoli partiti delle specializzazioni. C'è il partito dei virologi, il partito della burocrazia, il partito dei baroni universitari tutti hanno il diritto di esprimersi, ma a decidere dev' essere la politica.
Quando al posto delle istituzioni decidono i piccoli gruppi d'interesse, siamo fuori dalla Costituzione. Riguardo ai virologi che compaiono quotidianamente sulla stampa: siamo sicuri che qualcuno non abbia interesse a un uso politico della paura?».
Cosa intende?
«Quando si diffonde la paura, il Paese è più fragile sul piano della vitalità democratica. E quindi è più disponibile a subire anche violenze democratiche. Che la paura pandemica sia stata strumentalizzata politicamente è indubbio: con quanta efficacia, poi, è da vedere».
Questo uso politico della paura le ricorda analogie con il passato?
«Diciamo che si rischia, come negli anni di piombo, una nuova strategia della tensione. Con l'aggravante che all'epoca si trattava di fenomeni ancora controllabili dalla risposta democratica, mentre oggi l'epidemia è una crisi naturale ed esistenziale, che crea crisi di panico difficilmente gestibili».
Questa settimana, con il decreto sostegni, verranno distribuiti 32 miliardi di aiuti a imprese e lavoratori. Da ex ministro delle Finanze, ci dia una mano a fare due conti. Quanto pensa potranno durare questi aiuti?
«Già nel passaggio dalla parola "ristoro" alla parola "sostegno", il governo ha voluto lanciare un messaggio di contenuti. Ristoro vuol dire risarcimento totale del danno, e non è possibile. Ma è possibile un aiuto, per l'appunto un sostegno. Adesso si farà ricorso a un nuovo scostamento di bilancio, cioè debito. Ma ricordiamoci che questo debito peserà moltissimo, se non sarà sostenuto dalla crescita. È un principio semplice che non mi invento io, ma che si studia al primo anno di economia. Altrimenti, di scostamento in scostamento, non andremo molto lontano».
Marco Belpoliti per "la Repubblica" l'11 febbraio 2021. Quanto sono importanti i capelli? Moltissimo. Per tutti noi, e ovviamente anche per i politici. Lo sa bene Silvio Berlusconi che ha contrastato in molti modi la sua calvizie iniziata all'inizio degli anni Settanta; ha provveduto a nasconderla mediante un trapianto di capelli. Se si guarda il capo degli ultimi due Presidenti del Consiglio, il dimissionario Giuseppe Conte e l'incaricato, e prossimo primo ministro, Mario Draghi, si coglie subito la differenza tra loro. Conte esibisce un ciuffo sbarazzino, che fluttua e si muove sulla parte sinistra della testa, qualcosa che gli conferisce un aspetto giovanile e in qualche modo leggero. Draghi usa invece la riga alla maniera tradizionale. Si chiama scriminatura: la linea di spartizione dei capelli, come l'appellava Pietro Bembo nel Cinquecento. Per trovare un personaggio altrettanto famoso che l'usava bisogna risalire abbastanza indietro nel tempo, al Pasolini degli anni Cinquanta. Qualcosa d'antico? L'etimo di questa parola conduce a "discriminare": "distinguere una o più persone o cose da altre". Non si può certo dire che all'ex banchiere centrale manchi questa dote. L'origine latina della parola poggia sul significato di "dividere", come accade in effetti sulla testa di chi l'adotta per pettinarsi. Che ci sia un rapporto tra i capelli e i pensieri sottostanti? Forse; tuttavia la cosa non è mai stata accertata, e non è neppure accertabile. Secondo la terza legge di Synnott, un sociologo inglese, i capelli non sono solo un simbolo sessuale, ma anche ideologico. Il suo testo è interessante e aiuta a capire tante cose intorno a questo elemento altamente visibile degli esseri umani, uomini e donne. Cosa dire dei capelli ricci di Grillo, che fanno di lui una sorta di Medusa al maschile? Sono forse il segno di una qualche potenza pietrificante in suo possesso? E Salvini con il taglio di capelli quasi da rapper bianco, o da militare in servizio permanente ed effettivo? Non è la rasatura da marines, tipica dei berluscones della prima leva, quelli provenienti dall'apparato commerciale di Mediaset, presto scomparsi da Montecitorio. Giancarlo Giorgetti ha invece un ciuffo che si sta imbiancando sulla parte anteriore; di lui colpisce la pelle del viso coperta di piccole cicatrici che ricordano quelle di Richard Burton, e gli danno l'aria di uomo vissuto. Matteo Renzi sfoggia da sempre il taglio boy-scout: corto, ordinato, da eterno ragazzo. Il corpo umano, spiega Desmond Morris, è una fonte di simboli, ma le sue forme espressive sono sempre controllate dal sistema sociale. I capelli delle donne in politica sono un altro tema interessante. Maria Elena Boschi, dopo un periodo di scriminatura al centro, ha adottato la frangetta legata alla seduzione da vamp anni Venti-Trenta, naturalmente rivista e corretta; quindi è tornata al capello precedente. Teresa Bellanova sembra appena uscita dal casco del parrucchiere: la perfetta messa in piega. Il nostro corpo, hanno scritto, è "una probabilità alla lotteria della vita". Il colore dei capelli e la loro forma l'ereditiamo per via genetica. Il modo di pettinarci, invece no; calvi compresi.
Da Crimi a Meloni, i personaggi della politica diventano protagonisti di romanzi. I protagonisti della crisi e del nuovo assetto politico come i personaggi di sei capolavori della letteratura. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 18/2/2021.
Matteo Salvini/«Grandi speranze». Se non fosse per la storia delle bugie e del naso che si allunga, Pinocchio sembrerebbe il romanzo di formazione adatto a Salvini. In fondo è la storia di un bambino cattivo che diventa buono, umano, amorevole e obbediente nei confronti del padre, anche quando lo sgrida («Draghi ha detto che l’euro è irreversibile? Draghi ha sempre ragione», ha sibilato l’altro giorno a un nugolo di giornalisti). Ma noi non crediamo che stia mentendo. Piuttosto che stia crescendo. Il Papeete è stato il suo Paese dei balocchi, il tentativo finito male di sfuggire alla disciplina e alla serietà che si richiedono nell’età adulta. Ora assomiglia di più a Philip Pirrip detto «Pip», uno dei grandi caratteri di Dickens, l’orfano che prova a farsi gentiluomo. Come nei romanzi di appendice, il finale è aperto.
Silvio Berlusconi/«Doppio sogno». Silvio Berlusconi, che di miracoli se ne intende, ne ha fatto un altro: non solo si è trovato dalla parte giusta della storia, avendo lanciato per primo nel centrodestra l’idea di un governo di unità nazionale, ma è anche riuscito ad approfittare del nuovo esecutivo per moltiplicare in due il suo partito. Una metà l’ha mandata nei ministeri, delegandola
ai rapporti con Draghi: i centristi Brunetta, Carfagna e Gelmini. L’altra metà l’ha delegata ai rapporti con Salvini, praticamente l’incarico affidato alla filo-leghista Ronzulli, con Tajani coordinatore e il solito Ghedini dietro le quinte. All’inizio si era sospettato che il sogno di andare un giorno al Quirinale avrebbe spinto il Cavaliere contro il «concorrente» Draghi. Ma, come si sa, la psiche del Cavaliere è abbastanza vasta da poter sognare in parallelo.
Nicola Zingaretti/«I Buddenbrook». L’ultima cosa che si ricordi del Pd è una frase in tv dell’ora ministro Orlando: «Al governo con la Lega? Neanche se arrivasse Superman». Fa concorrenza al Fassino che sfidava Beppe Grillo a «fondare un partito, così vediamo quanti voti prende». Gli uomini del Pd (le donne non le ascoltano) dovrebbero diventare più prudenti, altrimenti quando poi Zingaretti azzarda che il governo Draghi è «un nostro capolavoro» non gli crede nessuno. La storia è tiranna, tutte le grandi famiglie prima o poi declinano, soprattutto quando litigano, dissipando l’eredità delle generazioni precedenti. Ma per descrivere la linea attuale del Pd (sostenere Draghi, governare con Salvini, allearsi con il M5S e sperare in Conte) ci vorrebbe la penna di un Mann: «La vita, sapete, spezza qualcosa in noi, smentisce tante volte la nostra fede».
Matteo Renzi/«Il fu Mattia Pascal». Matteo Renzi si aggira per Roma con l’aria di uno che ha il sorcio in bocca. I giornali di tutto il mondo lo intervistano ammirati. Come ha fatto con il 3% nei sondaggi a buttar giù il traballante Conte? Come è riuscito a portare Draghi a Palazzo Chigi? Forse se lo domanda anche lui. È così soddisfatto che ha persino rinunciato per qualche giorno a una delle cose che ama di più, subito dopo il Rinascimento: le luci della ribalta. Per ora la sua partita è vinta: doveva archiviare il mondo di ieri, dove stava andando molto male (e non solo per lui), e aprire una nuova strada, anche se ancora non sa dove lo porterà. La sua resurrezione è stata degna di un personaggio pirandelliano. Credendolo tutti (politicamente) morto, si è potuto fare un’altra vita. Adesso però gli serve una nuova carta d’identità, altrimenti non lo riconosce più nessuno.
Giorgia Meloni/«La rabbia e l’orgoglio». Tutti le predicono un grande futuro all’opposizione. Prima o poi, dicono, l’effetto Draghi si attenuerà, e chi sta all’opposizione ne godrà. Ecco perché Giorgia Meloni, anche se non lo ammetterebbe mai, in cuor suo conta sul fatto che finisca come con il governo Monti, cioè con una valanga di voti ai populisti. Essendo rimasta solo lei in quella metà del campo, la messe potrebbe essere copiosa. D’altra parte lei ama presentarsi come una leader di convinzioni, senza compromessi, che sa arrabbiarsi e indignarsi: scommette sulla coerenza. Ma se l’esperimento Draghi funzionasse invece come un patto di legittimazione reciproca tra i partiti di governo, e lei ne restasse fuori, le destra italiana potrebbe rivivere l’incubo dell’emarginazione dall’«arco costituzionale»: molti voti e poco peso.
Vito Crimi/«Buio a mezzogiorno». Si sa che soltanto la realtà può superare in immaginazione la letteratura. E si sa pure che non bisogna indulgere alla fisiognomica. E però Vito Crimi ricorda troppo da vicino uno di quegli inquisitori sovietici che si trovarono a epurare i compagni per aver obbedito alle loro stesse indicazioni, solo che non avevano fatto in tempo ad aggiornarsi all’ultimo cambio di linea. In fin dei conti i quindici senatori che ha appena espulso sono stati i più rigorosi interpreti del comunicato del 2/2/2021, giorno 1 della Nuova Era, quando il Reggente dettò alle agenzie: «Pertanto, il Movimento 5 Stelle non voterà per la nascita di un governo tecnico presieduto da Mario Draghi». Poi arrivò Grillo, e lui diventò sotto-Reggente. Un buon viatico per un posto di sotto-segretario, cui pare aspiri.
I dissidenti. Le comiche di Travaglio e Zagrebelsky: Mattarella e Draghi hanno fatto un colpo di Stato. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Appena qualche giorno fa, l’altro ieri, ci siamo svegliati al canto di Bella ciao. Avevo dormito, come di questi tempi solitari e inquieti, abbandonato a pensieri un po’ tristi, non immediatamente politici, ma inquieti per una tragedia cha non vede ancora la fine, anzi. Ma poi tutto è cambiato, all’improvviso. Abbiamo appreso ciò che il sonno colpevole ci aveva nascosto, l’Italia era sotto attacco, era in atto un colpo di Stato. La cosa era ancora tale da permettere almeno a un giornale di darne notizia, e che fosse uno solo già era preoccupante, gli altri forse già costretti a tacere. Infatti proprio un giornale che si chiama Il Fatto quotidiano, e quindi non può esser sospetto di parlare di fatti passati confondendo i titoli dell’ieri e dell’oggi, ha dato notizia che la democrazia italiana era a rischio mortale. Uno, appena sveglio, con la testa ancora nelle nuvole, poteva immaginare che, nella notte, approfittando del coprifuoco, un gruppo di malintenzionati avesse dato l’assalto al nostro Palazzo d’inverno. E che un gruppo di costituzionalisti autorevoli, e di giornalisti di fama, fosse riuscito in extremis a darne notizia almeno a un giornale che nella notte affannosa riusciva a pubblicarlo, esponendosi molto. Ma la tv taceva, forse già preda degli insorti che attendevano il momento giusto per parlare, e coraggiosamente Gustavo Zagrebelsky era il primo firmatario di un appello drammatico, o il secondo dopo Sandra Bonsanti, nel momento di confusione la cosa mi restò in dubbio. E poi si dice che la cultura è in ritardo! Ma, letto bene il testo, lo scenario cambiava e per certi aspetti diventava più preoccupante. Altro che un piccolo gruppo di profittatori dell’emergenza! L’accusa toccava gli attuali vertici dello Stato, da Mattarella a Draghi, artefici e complici oggettivi del disastro costituzionale e politico in atto. Quale? Il governo Draghi che sostituiva, con empio atto dall’alto, quel bell’esempio di democrazia che era il precedente governo dell’avvocato pugliese, il quale aveva già presieduto, di seguito, due governi con maggioranze opposte, un primo governo che invitava l’avversario, poi diventato alleato nel secondo, a tornare nelle fogne (soprattutto dopo la compravendita di bambini di Bibbiano), ma tutto era a posto, la Costituzione era salva, essa non prevede impedimenti per una cosa così. È la dialettica parlamentare, bellezza!, si sentiva dire in giro, non fate i moralisti. Poi d’improvviso, il buio, la crisi, la caduta del Conte secondo, o due come si dice, e subito l’appello disperato dei molti indignati, affidati e guidati dal giudizio di tanti costituzionalisti illustri. Reduci vittoriosi dalla battaglia contro il referendum istituzionale di Matteo Renzi. Uno allora si domanda. Come è possibile che Mattarella e Draghi si siano macchiati di tanta ignominia? E con la memoria, questo “uno” ripensava i fatti. Il governo Conte 2 era andato in crisi per il venir meno della maggioranza in Parlamento, dunque non per un atto eversivo. Insomma tutto a posto secondo Costituzione. Certo, la responsabilità era dovuta a quel diavolo in persona che si chiama Matteo Renzi, non a caso richiamato nell’Appello, e probabilmente vera causa dello sfacelo, ma nemmeno questo inficiava, almeno formalmente, la fondatezza costituzionale della crisi, che non può dipendere dal nome di chi la apre. Allora iniziò, in Parlamento, il mercato al chiuso dei parlamentari, detto in volgare mercato delle vacche, al Senato soprattutto, dove si tentava di ricostituire i numeri necessari per un nuovo gruppo parlamentare. Si giunse al “prestito” di una senatrice da parte del Pd del dimissionario Zingaretti per tentare la formazione di questo gruppo. I costituzionalisti zitti, tutto a posto, la democrazia parlamentare, non prevedendo il vincolo di mandato, non è stata violata, niente da dire. È a questo punto che giunge la decisione del presidente della Repubblica che esclude la possibilità del voto in piena fase di seconda pandemia. Mattarella chiama Mario Draghi per un governo di unità nazionale, mettendo fine al mercato delle vacche; è una decisione veloce di chi, credo, non sopporta il degrado finale del Parlamento già messo a durissima prova sotto l’egida dei 5 Stelle durante le due legislature. Costituzionalisti silenti, però, le forme sembravano salve, allora. Scandalo, ora! La democrazia è a rischio! Tutto dall’alto! Non c’è più opposizione! Conte disarcionato, Conte-Allende, viene spontaneo il confronto ironicamente richiamato da Claudio Petruccioli ( e ripreso da Paolo Mieli). C’è qualcosa che non funziona più nel cervello sociale e intellettuale di questo paese. Nell’Appello si richiama l’art. 49 della Costituzione sul ruolo dei partiti, sul tradimento che sarebbe in atto: ebbene, che cosa di più applicato di quell’articolo nell’attuale situazione? I partiti tutti, meno uno, si accollano la responsabilità del governo in una fase che non si ricorda, fatte le debite differenze, dalla seconda guerra mondiale, quando Churchill chiamò la nazione all’unità nella guerra al nemico mortale, promettendo lacrime e sangue. Ma il post-azionismo italiano non muore, non contento dei danni già prodotti da decenni, e forse dal suo atto di nascita. E non muore il vezzo, per chiamarlo così, di alcuni costituzionalisti, ideologizzati al massimo, di affidarsi a un giudizio iper-ideologico sotto il manto di un formalismo che fa acqua da tutte le parti. Un costituzionalismo che non aveva aperto bocca dinanzi agli scempi costituzionali operati soprattutto dai 5 Stelle, sulla struttura del Parlamento e sulla vergognosa riforma della giustizia. “Magistero” in negativo, da paese in grave crisi di cultura giuridico-politica, cattivi maestri, per dirla in chiaro. Noi ringraziamo Mario Draghi per aver accettato una responsabilità così difficile, augurandogli buon lavoro, e Mattarella per averlo reso possibile. Nulla da aggiungere.
La vignetta da denuncia. Vignetta di Mattarella golpista? Travaglio e Mannelli andrebbero denunciati…Andrea Pruiti su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Sulla prima pagina de Il Fatto quotidiano di venerdì, una vignetta ha attirato l’attenzione di tanti: c’è un bel ritratto a carboncino del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con mani grandi in primo piano e con tre frasi “ho scelto il meglio”, “nessun dubbio nessuna incertezza” e “NEANCHE UN LEGGERO SENSO DI GOLPE …?”. Proprio così con le maiuscole e le minuscole, come riportate! A parere di tanti, la vignetta travalica i confini della satira e attribuisce al presidente della Repubblica un fatto preciso: essere l’ideatore di un colpo di Stato, per avere scelto di non affidare l’incarico di formare il Governo al professore gradito al Fatto quotidiano e avergli preferito Mario Draghi. La satira è forse il migliore e più efficace esercizio del diritto di critica politica. L’irriverenza dell’espressione satirica giunge al centro dell’elemento criticato e ne mette a nudo le contraddizioni più intime. La satira stimola la capacità intuitiva del lettore, molto più di quella razionale e consente di giungere ad una consapevolezza istantanea e spesso definitiva. Personalmente, ho sempre amato la satira, anche quando non ne condividevo l’oggetto, né gli obiettivi politici. Un motto anarchico di fine ‘800, poi ripreso nel sessantotto, recitava più o meno così “La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!”. La satira è “laicamente sacra”, per chiunque si ispiri ai valori etici del liberalismo e ami la libertà sopra ogni cosa. Fatta questa doverosa premessa, voglio soffermarmi su un interrogativo che ha alimentato numerose polemiche nella cronaca politica italiana. Cosa è possibile considerare satira? Quali sono i tratti distintivi della satira? Se badiamo a quanto emerge dall’applicazione del Diritto, la satira, soprattutto quella vignettistica, potrebbe essere definita come una particolare rappresentazione paradossale della realtà, che può essere molto critica politicamente senza però attribuire fatti determinati, lesivi per il soggetto raffigurato. Tutto ciò che non rientra nel perimetro sopra indicato, potrebbe essere ritenuto censurabile sotto il profilo penale e, integrare, fattispecie di reato, soprattutto il reato di diffamazione, previsto dall’art. 595 c.p. La satira in Italia è stata soprattutto satira vignettistica, sempre collocata nella prima pagina di quotidiani blasonati, mentre quella televisiva è stata limitata a pochi programmi, spesso relegati a programmazione notturna. Sulla stampa italiana, il più celebre vignettista satirico è certamente Giorgio Forattini, che nonostante l’estrema ricercatezza e raffinatezza dei suoi disegni, ha subito la censura giudiziaria per avere dedicato vignette al magistrato Giancarlo Caselli e a Massimo D’Alema, per fare due celebri esempi. La diffamazione è un reato procedibile a querela, stabilisce l’art. 597, cioè serve una specifica richiesta di punizione che soltanto il soggetto “diffamato” può avanzare all’autorità giudiziaria. Vi sono però dei reati per i quali la procedibilità è d’ufficio, cioè non serve che la persona offesa proponga querela. Sono reati particolarmente gravi che ledono oltre che la persona offesa anche un interesse pubblicistico. Nel caso in cui i soggetti ritratti dalle vignette siano politici, i confini della satira sono stati spesso allargati – ed è giusto così – per evitare che la rigida definizione codicistica del reato possa essere motivo di restrizione del diritto di critica politica. Il più delle volte, però, i politici italiani hanno sempre ben tollerato di essere oggetto di satira, alcuni anzi, hanno persino beneficiato della rappresentazione grottesca che ne hanno fatto vari disegnatori e autori satirici. Basti pensare alle celebri maschere di Maurizio Crozza e alla celebrità che hanno regalato a molti soggetti, spesso di secondo piano della politica italiana, uno su tutti: l’ex senatore Antonio Razzi. Torniamo alla vignetta del Fatto Quotidiano, il bel ritratto non ha nulla di caricaturale, anzi il tratto risulta delicato e artisticamente pregevole, non c’è la raffigurazione di alcun paradosso e si riferisce indiscutibilmente ad un fatto determinato: l’indicazione di Mario Draghi come presidente del Consiglio incaricato. Ma dicevamo che a parere di tanti, la vignetta travalica i confini della satira e, parlando di un golpe del capo dello Stato, fa un’affermazione che sarebbe penalmente rilevante qualunque fosse il soggetto passivo del reato, perché integrante gli estremi del reato di diffamazione, per il quale risulterebbe difficile configurare la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica o di satira politica. Nel caso, essendo indirizzata al Capo dello Stato, integrerebbe il reato previsto dall’art. 278 c.p. «offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica», che non necessita della querela di parte, ma è perseguibile d’ufficio. Non resta che aspettare, perché tra i lettori de Il Fatto Quotidiano certamente vi sarà qualche pm che lo farà.
Marzio Breda per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2021. Ha un'espressione tirata ed è scuro in volto, Sergio Mattarella, quando a tarda sera annuncia che farà un governo «di alto profilo e che non debba identificarsi con alcuna formula politica». Un governo del presidente. Dunque suo. Guidato da Mario Draghi, l'estrema e la più autorevole risorsa del Paese, atteso già oggi a mezzogiorno al Quirinale. La crisi aperta 20 giorni fa con il ritiro della delegazione di Italia viva dalla maggioranza si chiude nel peggiore dei modi, per le attese di stabilità cui il capo dello Stato sperava di non dover rinunciare. O meglio, nel migliore dei modi soltanto per Matteo Renzi, il rottamatore in servizio permanente, che a questa tabula rasa mirava fin dall' inizio. E che ha fatto di tutto per vanificare le consultazioni sul Colle e la successiva esplorazione di Roberto Fico. A questo punto a Mattarella restavano solo «due strade tra loro alternative» e le spiega puntigliosamente davanti alle telecamere, per far capire com' è maturata la sua scelta e sgombrare eventuali recriminazioni. La prima strada era quella di «dare immediatamente vita a un governo adeguato a fronteggiare le gravi emergenze, sanitaria, sociale ed economico-finanziaria». L' altra era quella di «immediate elezioni anticipate... Una strada che va attentamente considerata perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia». Era però controindicata perché avrebbe creato un quasi-vuoto di potere di almeno quattro mesi. Un periodo troppo lungo per galleggiare nel piccolo cabotaggio, dato che incombono urgenze e scadenze inderogabili, che gli italiani ben conoscono perché riguardano la loro salute (terza ondata di pandemia, vaccinazioni) e la tenuta economica e sociale del Paese (Recovery plan, ecc.). Ecco perché tocca a Draghi, una scelta obbligata. Sul cui nome il presidente rivolge già adesso un appello «a tutte le forze politiche», affinché gli conferiscano piena fiducia. Appello sillabato con un'enfasi per lui inusuale, perché anche se il nome dell'ex capo della Banca centrale europea è stato evocato quasi unanimemente nelle ultime settimane, non è poi detto che, alla prova dei fatti, il sostegno del Parlamento sia davvero scontato. Otterrà subito un incarico pieno. Il che significa che sarà Draghi stesso a scrivere il programma di governo e a tracciare l' elenco dei ministri, che ancora non si sa se saranno tecnici o politici. Una prova di forza devastante, questa crisi, che ha messo molto a disagio Mattarella. Non solo per lo spettacolo di intrighi, provocazioni, tatticismi, menzogne, trasformismi, azzardi e sabotaggi che hanno rafforzato nella comunità nazionale l' idea di esser dominati da poteri tribali, ma perché alla fine ne esce lesionato il prestigio delle istituzioni. Tutte. Arrivando di fatto a lambire - di riflesso, certo - perfino il santuario più alto, il Quirinale, il cui inquilino da settimane viene strattonato dai partiti senza rispetto. Perciò non sembra casuale che Mattarella abbia proprio ieri fatto diramare un ricordo di Antonio Segni a 130 anni dalla nascita, in cui ci sono un paio di passaggi eloquenti. Il primo, per sottolineare ancora una volta che la rielezione non rientra fra i suoi progetti, lo fa citando un messaggio alle Camere del suo predecessore, nel 1963. In quel testo Segni esprimeva «la convinzione che fosse opportuno introdurre in Costituzione il principio della non immediata rieleggibilità del presidente della Repubblica», definendo «sette anni sufficienti a garantire una continuità nell' azione dello Stato»...Quella riforma della Carta, scriveva lo statista sassarese, «vale anche a eliminare qualunque, sia pur ingiusto, sospetto che qualche atto del capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione». Come sappiamo la proposta fu inascoltata, e con essa anche il suggerimento subordinato che conteneva: l'abolizione del cosiddetto semestre bianco, durante il quale i poteri dei presidenti vicini alla scadenza si affievoliscono al punto che non è consentito loro di sciogliere il Parlamento. E in quest'ultimo passo risuona un richiamo alla responsabilità dei partiti, in modo che abbandonino le strategie faziose degli ultimi tempi e si impegnino a dar vita a un governo in grado di durare almeno fino al prossimo anno, senza dover rimettersi ancora una volta all' arbitrato del Colle.
Da repubblica.it il 3 febbraio 2021. "Ringrazio il presidente della Camera dei deputati per l'espletamento -impegnato, serio e imparziale- del mandato esplorativo che gli avevo affidato. Dalle consultazioni al Quirinale era emersa, come unica possibilità di governo a base politica, quella della maggioranza che sosteneva il governo precedente. La verifica della sua concreta realizzazione ha dato esito negativo". "Vi sono adesso due strade, fra loro alternative. Dare, immediatamente, vita a un nuovo governo, adeguato a fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria. Ovvero quella di immediate elezioni anticipate". "Questa seconda strada va attentamente considerata, perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia. Di fronte a questa ipotesi, ho il dovere di porre in evidenza alcune circostanze che, oggi, devono far riflettere sulla opportunità di questa soluzione. Ho il dovere di sottolineare, come il lungo periodo di campagna elettorale -e la conseguente riduzione dell'attività di governo- coinciderebbe con un momento cruciale per le sorti dell'Italia". "Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale". "Lo stesso vale per lo sviluppo decisivo della campagna di vaccinazione, da condurre in stretto coordinamento tra lo Stato e le Regioni. Sul versante sociale -tra l'altro- a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti e questa scadenza richiede decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un governo senza pienezza di funzioni, in piena campagna elettorale". "Entro il mese di aprile va presentato alla Commissione europea il piano per l'utilizzo dei grandi fondi europei; ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza, perché quegli indispensabili finanziamenti vengano impegnati presto. E prima si presenta il piano, più tempo si ha per il confronto con la Commissione. Questa ha due mesi di tempo per discutere il piano con il nostro governo; con un mese ulteriore per il Consiglio europeo per approvarlo. Occorrerà, quindi, successivamente, provvedere tempestivamente al loro utilizzo per non rischiare di perderli. Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo. Per qualche aspetto neppure potrebbe. E non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro". "Va ricordato che dal giorno in cui si sciolgono le Camere a quello delle elezioni sono necessari almeno sessanta giorni. Successivamente ne occorrono poco meno di venti per proclamare gli eletti e riunire le nuove Camere. Queste devono, nei giorni successivi, nominare i propri organi di presidenza. Occorre quindi formare il governo e questo, per operare a pieno ritmo, deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere. Deve inoltre organizzare i propri uffici di collaborazione nei vari ministeri. Dallo scioglimento delle Camere del 2013 sono trascorsi quattro mesi. Nel 2018 sono trascorsi cinque mesi". "Credo che sia giusto aggiungere un'ulteriore considerazione: ci troviamo nel pieno della pandemia. Il contagio del virus è diffuso e allarmante; e se ne temono nuove ondate nelle sue varianti. Va ricordato che le elezioni non consistono soltanto nel giorno in cui ci si reca a votare ma includono molte e complesse attività precedenti per formare e presentare le candidature. Inoltre la successiva campagna elettorale richiede -inevitabilmente- tanti incontri affollati, assemblee, comizi: nel ritmo frenetico elettorale è pressoché impossibile che si svolgano con i necessari distanziamenti". "In altri Paesi in cui si è votato -obbligatoriamente, perché erano scadute le legislature dei Parlamenti o i mandati dei Presidenti - si è verificato un grave aumento dei contagi. Questo fa riflettere, pensando alle tante vittime che purtroppo continuiamo ogni giorno - anche oggi - a registrare". "Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica. Conto, quindi, di conferire al più presto un incarico per formare un governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato".
Da notaio a decisionista, la svolta di Mattarella. Il capo dello Stato furioso è passato all'azione e ha stoppato l'opzione elezioni. Massimiliano Scafi, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Mi chiamo Mario e risolvo problemi. Dunque Mr Wolf, l'arma finale, l'asso, è in campo: «Ora lasciamolo lavorare», dicono dal Quirinale, convinti che, se salta lui, salta il Paese. Ma niente pressione, nessun perimetro prestabilito, nemmeno una linea di programma, se non il richiamo alle «tre emergenze» che l'Italia deve affrontare: vaccini, Recovery, lavoro. Insomma, «faccia lei come meglio crede», gli ha detto in sostanza Sergio Mattarella (nel tondo) al momento dell'investitura. Mario Draghi quindi «non avrà paletti» né indicazioni precise su come trovare una maggioranza. Ministri politici, tecnici, misti? L'ex presidente della Bce «è completamente libero», starà a lui sbrigarsela con le forze politiche e capire se l'operazione può andare in porto e con quale formula. La svolta in poche ore, martedì nel primo pomeriggio, quando l'esploratore Fico continuava a telefonare per spostare l'appuntamento e da Montecitorio si moltiplicavano i segnali di rottura imminente e definitiva tra Italia Viva e gli altri. I partiti sono rimasti sorpresi, choccati: dalla rinuncia del presidente della Camera al nuovo incarico è passata meno di mezz'ora. Ma non è stata una mossa improvvisata. La carta Draghi era nel mazzo del capo dello Stato da almeno un mese ed è stata tirata fuori quando si sono concretizzate le condizioni: politica in tilt, Paese in bilico. E lì che Mattarella ha cambiato il suo approccio alla crisi. Quasi una metamorfosi. Distante, quasi passivo nel corso delle consultazioni, durante le quali ha registrato con atteggiamento notarile i contorcimenti della maggioranza uscente, dal «nessun veto» al «prima i programmi». Poi però, quando la situazione è esplosa e gli stracci sono volati, il capo dello Stato si è trasformato. Furioso, amareggiato per lo spettacolo offerto, ha deciso di prendere in mano le redini e ha «assunto un'iniziativa». Come nei vasi comunicanti, non ci può essere mai il vuoto nella politica: se le forze parlamentari si bloccano, lo spazio viene riempito dal Quirinale. Mattarella aveva davanti due strade. La prima, sciogliere le Camere, l'ha esclusa subito: nel mezzo della pandemia e con il Recovery Fund da contrattare con Bruxelles, l'Italia non poteva restare a lungo senza guida. Serviva, serve subito un «governo nella pienezza della sue funzioni». La seconda strada portava a un esecutivo «di alto profilo» e sganciato dai partiti, capace di riaccendere i motori? E quale nome più forte di quello del salvatore dell'euro? Ma attenzione, non chiamatelo governo del presidente. Se parte può arrivare al 2023. E non si può sovrapporre, spiegano dal Colle, la coppia Napolitano-Monti a quella Mattarella-Draghi: diversi i caratteri e le storie personali, differenti pure le condizioni. Draghi potrà spendere, Monti doveva tagliare.
Marzio Breda per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2021. Per il programma e i ministri te la devi vedere tu, in libertà. Prenditi il tempo che ti serve. Ma accetta un consiglio: trova la maniera di far capire che il tuo governo non prescinde dalla politica. Fai comprendere che non vai a commissariare il Parlamento. Questo dice Sergio Mattarella a Mario Draghi, quando sta lasciando lo studio del capo dello Stato per presentarsi nel Salone delle Feste, dove annuncerà di aver accettato l'incarico. È un'indicazione utile a segnare una differenza con altri esecutivi tecnici o istituzionali del passato anche recente, che furono spesso percepiti come troppo estranei alla sfera parlamentare. Cioè imposti dall'alto e, in quanto tali, dopo un po' rinnegabili da chi li sosteneva. L'ex presidente della Banca centrale europea accoglie la raccomandazione e la trasferisce a suo modo nel breve discorso davanti alle telecamere: «Con grande rispetto mi rivolgerò al Parlamento, espressione della sovranità popolare Sono fiducioso che dal confronto con i partiti, con i gruppi parlamentari e le forze sociali emerga unità e capacità di dare risposte». Due frasi rassicuranti, di deferenza, come si sarebbe detto una volta. Indispensabili a Draghi, per spianare la strada e trovare un sostegno al suo governo, che porterà il sigillo del Quirinale, essendo stato immaginato e promosso lassù senza neppure una consultazione. Molti, in queste ore, si esercitano a fare raffronti tra questo nascituro esecutivo e quello di Mario Monti, del 2011, ma tra i due ci sono differenze notevoli. Per esempio, il governo Monti era stato «progettato» da tempo, per rianimare un Palazzo Chigi in panne e arginare la rincorsa dello spread schizzato a 560; mentre il governo Draghi è «necessitato» dalla deriva nichilista dei partiti, che non ha lasciato margini di manovra al capo dello Stato (e non era facile, per lui, bypassare il livello politico). E poi, quando Napolitano affidò il mandato a Monti, poteva già contare su una maggioranza di centrodestra, destinata peraltro ad allargarsi. In questo caso invece Mattarella ha dovuto decidere tutto in fretta, favorendo certo la propria soluzione, ma sapendo che il punto di caduta è ignoto e Draghi se lo dovrà conquistare in Aula. Non sono questioni marginali, per il Colle, dove il tentativo dell'ex banchiere è seguito con apprensione, anche perché è senza alternative. Così, preoccupa l'alta tensione dei 5 Stelle, fra i quali serpeggiano idee bizzarre, come quella di scatenare una crociata contro Draghi per farlo fallire, nella speranza che possa esser rimesso in pista l'ormai formalmente dimesso Conte: ipotesi in ogni senso irreale, per Mattarella, quella di un governo di minoranza per fare fronte alle emergenze che ci pressano. Preoccupa anche che, attraverso certe predicazioni interessate, si faccia passare quello di Draghi come un governo dell'austerità e dei sacrifici, sull'esempio di qualche suo predecessore, quando stavolta ci sono semmai soprattutto denari sonanti da spendere (il «debito buono»). E preoccupa, infine, che alcuni giochino con il calendario, vagheggiando già un termine vicino per l'esecutivo «del presidente», nella poco responsabile illusione di lucrare vantaggi da un rapido ritorno alle urne. Adesso sta al premier incaricato fare chiarezza. Non gli sarà facile, data l'aria generale di cupio dissolvi. Il capo dello Stato, comunque, non gli ha messo né fretta né condizioni. Deciderà tutto lui, secondo un criterio più induttivo che deduttivo, costruendo una soluzione per volta rispetto a quanto gli chiederanno i partiti. E questo vale sia per la squadra dei ministri, che ancora non si sa se saranno tecnici o politici o un mix delle due possibilità, sia per il programma, centrato sul Recovery plan. Anche in questo assomiglia parecchio a Mattarella, al quale è legato da una solida amicizia. I due si danno del tu, una forma di familiarità che il presidente della Repubblica concede a pochi e soltanto quando avverte una vera affinità elettiva. Quando un paio d'anni fa Draghi lasciò la Bce, andò a Francoforte per rendergli omaggio assieme a Emmanuel Macron, Angela Merkel e Christine Lagarde, e cominciò il suo saluto così: «Caro presidente della Banca Centrale, caro Mario».
Ha vinto lui. Il governo Draghi è un capolavoro di Matteo Renzi, il Re del 2%. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Corre voce che questo giornale sia renziano. Non è vero. È un giornale assolutamente indipendente, liberale, garantista, socialista, anti sovranista, antipopulista – mi fermo qui… -, che crede nella funzione dei partiti ma si tiene ben lontano dai partiti. Ok? È un giornale che spesso ha apprezzato le idee e le proposte di Renzi, e spesso ha criticato le sue oscillazioni su temi cruciali come l’immigrazione (mancata approvazione dello ius soli da parte del suo timido partito) e come il garantismo, terreno sul quale più di una volta gli è capitato di dondolare (a parte il peccato originale, praticamente incancellabile, di avere proposto Nicola Gratteri come ministro della Giustizia…). Poi, tra l’altro, noi siamo un giornale pluralista, e qui in redazione ci sono quelli ai quali Renzi piace molto e quelli che lo sopportano poco. Detto tutto questo, oggi come oggi è abbastanza difficile negare che Renzi abbia avuto un successo politico strepitoso. E che, a occhio e croce, nel giro breve di un paio d’anni abbia dimostrato di essere, come leader politico, di qualche anno luce al di sopra dei suoi interlocutori o avversari. Tutti. Proviamo a fare qualche confronto. Renzi e Salvini. Salvini ha avuto un successo notevole alle elezioni del 2018, conquistandosi la leadership del centrodestra. È entrato nel governo, è diventato vicepremier e ministro dell’Interno, ha raccolto attorno a se tutte le telecamere d’Italia. Cosa ha ottenuto? Niente: la svolta del Papeete (nella quale, come si dice a Roma, si è ribaltato in parcheggio), la perdita del governo, e poi il cono d’ombra, sebbene i sondaggi dessero il suo partito in costante e clamorosa crescita. Oggi Salvini guida un partito che è accreditato del 25 per cento dei consensi elettorali ed è virtualmente il primo partito: ed è immobilizzato. Renzi invece guida un gruppetto un po’ al di sopra del 2 per cento ed è il capo dell’ultimo partito (persino Calenda, dicono, l’ha scavalcato…). Eppure, con il suo 2 per cento, Renzi fa e disfa governi: dopo aver insediato Conte a Palazzo Chigi con Speranza e Franceschini, ora lo ha mandato a casa senza che lui se ne accorgesse, ha beffato e sbeffeggiato il gradasso Travaglio (padrone di La 7), ha liquidato Bonafede, ha umiliato il Pd e ha sistemato Draghi a Palazzo Chigi, probabilmente permettendo all’Italia di avere finalmente un governo dopo due anni di ribalta dominata da vari dilettanti e figuranti. Beh, sembra un po’ Ronaldo che gioca a pallone con mio cugino… È solo un giocoliere? Un talento assoluto della manovra e basta? È solo fumo? Non si può dire così. In primo luogo perché quest’ultima operazione, se andrà in porto, è una operazione politica di grandissimo peso. L’Italia stava correndo a perdifiato, allegra e instupidita, sull’orlo di un burrone. Con la pandemia, il morso feroce della crisi economica, la necessità di gestire un nuovo piano Marshall e la totale assenza di una classe politica e persino di una maggioranza. Si trovava governata da un esecutivo la cui forza si risolveva nella personalità di cartone dell’avvocato Conte. Privo di carisma, di idee, di conoscenze, di esperienza. Il rischio quale era? Di mandare a monte il piano Marshall e di trovarsi staccatissima dalle grandi potenze europee. Incapace di rialzarsi, di reagire. Ci sono dei momenti, nella storia delle nazioni, nei quali conta moltissimo il valore della propria classe politica. L’Italia purtroppo non ha più classe politica. Era un paese che nel dopoguerra aveva trovato la sua fortuna in una generazione politica formidabile. Che era stata selezionata e rappresentava la parte migliore della sua intellettualità. Espressione di una borghesia robusta e coraggiosa e di una classe operaia potente e compatta. I democristiani, i comunisti, e poi i modelli geniali del Psi e i colti e raffinati repubblicani. Forse pochi paesi dell’Occidente avevano a loro disposizione partiti e leader così preparati e forti. Persino l’opposizione estrema, quella di destra un po’ fascista e quella di sinistra sovversiva e in alcune frange violenta o addirittura sanguinaria, era una opposizione intellettualmente di grande qualità. Nessuno può negare che fosse così. La forza di questa politica era la struttura ed il radicamento dei partiti, che erano fucine di idee, di cultura, di compattezza sociale e anche di capacità di governo. Poi, lo sapete, arrivò Mani pulite e sfasciò tutto. Nessuno si aspettava che una struttura politica che aveva resistito alla guerra fredda, alla mafia, al terrorismo, alla crisi economica, finisse sbaragliata da un gruppetto di magistrati. Eppure successe esattamente questo. Il paese che temeva la rivoluzione comunista o il golpe di destra finì nel sacco di un potere che aveva esso stesso costruito al suo interno, ingenuamente e un po’ vigliaccamente. Beh, oggi i partiti non esistono più – lo spettacolo offerto dal Pd in questa crisi, capace solo di sistemarsi in seconda fila alla corte di Conte – è stato spaventoso. E non c’è più classe politica. Né la destra, né la sinistra hanno leader all’altezza. I grillini hanno Grillo e il gruppetto di avvocati che girano intorno a Conte, e poi basta. È in questo deserto che Matteo Renzi, il bullo, l’inaffidabile, il narciso, l’egocentrico, si è rimboccato le maniche, si è messo a tessere la tela. Ha fatto politica e ha trovato una soluzione. Con la stessa spregiudicatezza e capacità di sogno e di avventura che aveva Bettino Craxi. Vi piace Renzi? A me mica tanto. Mi ha deluso molte volte. Credo che abbia anche lui delle colpe nell’annientamento dei partiti politici (il modo nel quale ha liquidato il Pd e raso al suolo la vecchia tradizione e sapienza che veniva dalla Dc e soprattutto del Pci, ”ancor mi offende”). Penso anche che almeno in una prima fase abbia seguito la spinta populista e abbia delle responsabilità nel trionfo del grillismo. E però come fai a non rendergli omaggio per l’operazione-Draghi e per come si è dimostrato due o tre o quattro spanne al di sopra di tutti gli altri. È uno statista? Non so. Aspettiamo. Sicuramente, se tra i leader presenti in Parlamento ci fosse uno statista, di sicuro sarebbe lui. Questo vuol dire che Draghi è la salvezza? Non ci scommetterei. Draghi è una persona di qualità molto alte e ha più di altri la possibilità di governare. In un clima politico nel quale nessuno è in grado di definire destra e sinistra (destra e sinistra hanno entrambe il problema di ridisegnarsi e di ritrovare le proprie rispettive e distinte anime) non si capisce perché non si dovrebbe dare a lui l’incarico, visto che, a occhio, è il più bravo. I miei amici di sinistra dicono: no, Draghi è la borghesia, è la tecnocrazia, la sinistra è un’altra cosa. Grazie. Ma la sinistra forse ha qualche idea o qualche leader da mettere a disposizione del paese? Vogliamo fare un governo Speranza, un governo Zingaretti, un governo Acerbo? Siamo seri. La sinistra deve rimboccarsi le maniche e provare a rinascere. Pagando pegno per l’orrore che ha fatto mettendosi al servizio di una forza reazionaria come i 5 Stelle. Ci vorrà del tempo. E la destra? Uguale. Quando Salvini ha provato a governare ha solo combinato pasticci. Ha dimostrato di non avere visione, progetti, senso dello Stato. Di essere prigioniero della sua propaganda. Noi ora usciamo da un triennio nel quale ha governato, in modo uniforme, un gruppo di dilettanti su posizioni neo-autoritarie. In questo, tra Salvini e Conte non c’è stato un abisso. Si son dimostrati simili. Draghi si propone come governo neutro. Dico meglio: di coalizione. Nel senso vero della parola coalizione. Coalizione tra diversi. Ci sono pochi esempi nel passato. Forse l’unico esempio possibile è il governo Andreotti del 1978. Sostenuto dai comunisti. Sotto il tiro e il fuoco delle brigate rosse. Sfregiato dal rapimento Moro. Con l’inflazione che galoppava e l’America che ci odiava. Anche la Russia. Durò un po’ più di un anno. Fece la riforma sanitaria (primo nel mondo ad assicurare la sanità a tutti), la riforma psichiatrica (la più grande legge di rottura dell’autoritarismo, con un valore culturale immenso), introdusse l’aborto, riformò i patti agrari e lo stato di famiglia, istitutì l’equo canone, portò Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica. Vi pare poco? È stato forse (senza forse) il governo più riformista della storia della Repubblica. Se Draghi facesse anche solo la metà di quel che fece quell’anno Andreotti…
(ANSA il 4 febbraio 2021) "In queste ore non ho rilasciato nessuna intervista nè dato dichiarazioni alla stampa, quindi ogni virgolettato che mi viene attribuito non è in alcun modo riconducibile al mio pensiero": lo dichiara Rocco Casalino portavoce del Presidente del Consiglio.
Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo e Simone Canettieri per “il Foglio” il 4 febbraio 2021. (…) Alle 23.08 di martedì 2 febbraio, poco dopo la doccia fredda, subito dopo che il Quirinale ha pronunciato le sue due parole più scabrose (“Mario” e “Draghi”) ecco che Rocco risponde al telefono. Voce allegra. Pure troppo. “Eccomi!”. Ci speravate fino all’ultimo. “Sono sollevato. Mi riapproprio della mia vita. L’unica che soffre è mia madre, le faceva piacere poter dire che suo figlio era il portavoce del capo del governo”. Ma Renzi? Renzi vi ha fregati. “Non lo definirei proprio ‘una merda’… direi piuttosto una… diciamo… Guarda, in politica non c’è il buono e il cattivo. Ci sono gli interessi. E Renzi è stato bravo. D’altra parte col 2 per cento dove andava? Ora ha una possibilità di salvezza”. E il presidente? Come sta Conte? “Qua a Palazzo Chigi nessuno è triste, ve lo giuro. E’ stata davvero pesante. Non pensavo. Sono stati due anni difficilissimi: il ponte Morandi, la pandemia…”. In particolare per te. Preso di mira. Anche da Renzi, che aveva chiesto il tuo licenziamento. “Assolutamente sì. C’entra l’omofobia ovviamente. E’ chiaro”. E ora? “Io adesso vivo. Sono libero. Respiro. Esce anche il mio libro tra poco”. Memorie di un portavoce, appunto. Ex portavoce. Perché arriva Draghi. “Draghi ha i rapporti internazionali, ok. Meglio lui di un altro. Ma in questi anni mi sono reso conto di quanto sia importante la continuità al governo”. Conte farà la sua lista? “Mancano due anni alle elezioni”. Intanto Di Maio sta festeggiando per Draghi. E’ contento. “Ma chi, Luigi?”. Eh sì. Giggino. “Il gioco di Draghi non favorisce Di Maio”. Beh, insomma anche lui voleva fare fuori Conte. “Non credo volesse”. In realtà dicono che non sopporti nemmeno te. “La sento dire spesso questa cosa. Che Luigi mi odia. Ma noi del M5s abbiamo un legame unico. Siamo nati insieme… ma non è che mi state facendo un’intervista?”. Solo una chiacchierata. “Mi raccomando”. (…)
Fabio Martini per “la Stampa” il 5 febbraio 2021. Si è congedato così come si era presentato: da Avvocato del popolo. Per il suo ultimo messaggio da Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte ha scartato la suggestione più ovvia. Un 'intervista "classica": al Tg1 o ad un grande giornale. O uno di quei video che nella sua stagione d'oro entravano applauditi nelle case degli italiani. Un video che lo avrebbe inchiodato alla paludata tappezzeria del Palazzo. Conte si è fatto apparecchiare per strada un tavolino, con previa raccomandazione del portavoce Rocco Casalino ai cameraman: «L' inquadratura non su Chigi, non è solo istituzionale». Quando Conte ha parlato alle telecamere, a casa qualcuno si è ricordato di Ernesto Calindri, attore toscano di squisita eleganza che negli anni Sessanta diventò celebre per un Carosello: quello nel quale appariva seduto ad un tavolino in mezzo al traffico e da lì decantava le virtù del Cynar, il liquore a base di carciofo contro «il logorio della vita moderna». Contro il logorio della vita politica Conte ha confezionato uno spot energetico, non rilassante come quello del Cynar. Ha fatto capire di non avere alcuna intenzione di tornare a Firenze dai suoi studenti e di essere pronto a prendere la guida dei Cinque stelle. Conte lo ha detto non dal suo attuale ufficio. Ma per strada. Nella migliore tradizione del populismo soft italiano: quello del predellino di Silvio Berlusconi.
Rocco Casalino, la frase "pizzicata" durante la conferenza di Giuseppe Conte: "Non riprendetelo". Libero Quotidiano il 04 febbraio 2021. Giuseppe Conte e Rocco Casalino tornano a casa. Per il premier uscente e il suo portavoce è giunta la fine della permanenza a Palazzo Chigi. Eppure l'ex capo ufficio stampa del presidente del Consiglio non perde di vista il proprio lavoro. E così ha piazzato un tavolo in strada per una piccola conferenza stampa. Da qui la raccomandazione: "Nell’inquadratura non mettete Palazzo Chigi perché non è solo un intervento istituzionale", si è affrettato a chiedere Casalino ai giornalisti. Forse però l'intento era quello di non mostrare la sede dove presto salirà il presidente del Consiglio incaricato: Mario Draghi. Non solo, in conferenza ai più maliziosi non è passato inosservato un piccolo dettaglio: dov'è finito Casalino? Mentre il premier uscente parla nel suo ultimo "discorso alla nazione", c'è chi nota che alle sua spalle non spunta mai il suo fidatissimo portavoce-spin doctor-factotum. Casalino infatti non c'è, o perlomeno non viene mai inquadrato. Un caso? Una coincidenza? Chissà. Certo è che alle critiche è subito corsa in aiuto dell'ex gieffino Marina La Rosa. L'attrice ha difeso l'amico ribadendo che le critiche ai danni di Casalino sono solo frutto dell'invidia. E che il portavoce "è una persona intelligente", motivo questo per cui "è arrivato dove è arrivato".
Governo, De Luca e il tavolino di Conte: "Ci aspettavamo il barbecue". Repubblica Tv il 05 febbraio 2021. "In questi ultimi due-tre anni abbiamo visto cose bizzarre, cose che noi umani neanche avremmo immaginato di vedere, l'ultima di queste meraviglie l'abbiamo vista quando è stato portato davanti a Palazzo Chigi, a piazza Colonna, un tavolino spoglio, mi sembrava anche con la vernice un po' scrostata. Si è immaginato che volessero far vedere che almeno un banco buono c'era in Italia". Lo ha detto il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca nel corso di una diretta Facebook. "Poi con il passare dei minuti - ha aggiunto - si è pensato che volessero accendere un barbecue, fare una bella grigliata a piazza Colonna. Abbiamo aspettato invano l'arrivo di Casalino col grembiulino, ma è arrivato Giuseppe Conte".
Da video.corriere.it il 6 febbraio 2021. De Luca non si è fatto sfuggire l'occasione di ironizzare, durante l'ormai consueta diretta Facebook del venerdì, sull'ultimo punto stampa dell'ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. "Dicendo io ci sono e ci sarò - ha affermato il governatore campano, tra le altre cose - ci ha chiaramente minacciato, come avrebbero detto Totò e Peppino". Secondo De Luca, Conte si sarebbe addirittura "autoattribuito la funzione di Mitterrand italiano, cioè federatore delle forze progressiste".
Il tavolino e l'assembramento. L'ultimo (triste) atto di Conte. All'ultimo minuto cambiano i piani per la conferenza del premier: parla in strada. E si scatena il caos sull'uscita di scena. Ignazio Stagno, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Un'uscita di scena davvero triste. Quando i social del premier dimissionario Giuseppe Conte annunciano un suo intervento alle 13,30, saltano letteralmente quasi tutti i protocolli Covid. Il premier decide all'ultimo minuto di parlare in piazza Colonna, in strada. Una scelta così last minute che le immagini in diretta dal piazzale di palazzo Chigi mostrano una confusione mai vista soprattutto tra i cronisti presenti e chi deve organizzare la postazione per Conte. Alla fine in video appare un tavolino, una piccola scrivania su cui vengono poggiati i microfoni per far parlare Conte. Una scena, come ad esempio ha commentato Ferruccio De Bortoli a Sky Tg 24, davvero "poco istituzionale". E tra i commentatori tv il parere è unanime: l'organizzazione all'ultimo minuto di questo punto stampa per le dichiarazioni del premier ha solamente favorito l'annullamento del distanziamento sociale fra i cronisti. Di fatto subito dopo l'ingresso in scena del piccolo tavolino i cronisti arretrano dietro una transenna dove però si crea ancora una volta un assembramento. Si sente la voce di Casalino: "Nell’inquadratura non mettete Palazzo Chigi perché non è solo un intervento istituzionale". Poi arriva il premier che forse si sta già abituando all'addio a palazzo Chigi. Il discorso di Conte dura molto meno dei preparativi per il triste tavolino. Il suo intervento si può racchiudere in alcuni ringraziamenti al Colle e agli alleati di governo per poi passare alla sua presa di posizione sul nuovo governo che sta per nascere a guida Draghi: "Auspico un governo politico che sia solido e abbia sufficiente coesione per operare quelle scelte politiche, eminentemente politiche perché le urgenze del Paese richiedono scelte politiche non possono essere affidate a squadre di tecniche". Poi ha di fatto rivelato il suo posizionamento politico in modo chiaro rivolgendosi agli "amici" del Movimento e assicurando loro la sua presenza sulla scena politica. A questo punto il messaggio a Pd e Leu: "E' un progetto forte concreto che aveva già iniziato a dare buoni frutti, dobbiamo continuare a perseguirlo perché offre una prospettiva reale di modernizzare finalmente il nostro paese nel segno della transizione energetica, della transizione digitale, della inclusione sociale". Il tutto però detto in un contesto davvero poco formale. L'intervento di Conte è stato preceduto ed accompagnato da una sorta di girone dantesco con un groviglio di cavi, microfoni e di cronisti che si sono assembrati per seguire l'intervento del premier dimissionario. Davvero palazzo Chigi non avrebbe potuto fare di meglio per garantire le norme Covid? Non è certo la prima volta: qualche settimana fa il premier aveva tenuto una conferenza stampa in mezzo alla strada costringendo i cornisti all'assembramento. Insomma i Dpcm, anche nel suo ultimo atto finale, hanno forse poco valore. Oppure sono solo provvedimenti che vanno rispettati fuori dal perimetro di piazza Colonna...
Giuseppe Conte, tutta la tristezza in una fotografia: quel banchetto per "vendersi". Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. Dopo giorni di silenzio, rispunta Giuseppe Conte e improvvisa una singolare dichiarazione alla stampa davanti a un banchetto sistemato all'esterno di Palazzo Chigi dal suo portavoce Rocco Casalino. Una sorta di scenografia studiata per mostrare che il premier dimissionario è stato messo fuori dal palazzo e per avvertire i naviganti della politica che l'avvocato del popolo è ancora in campo e non intende farsi da parte. Dopo aver ringraziato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, definito un «prezioso interlocutore di questi anni di mandato» e «gli amici della coalizione rimasti leali» (evidentemente non Matteo Renzi), Conte spiega di aver avuto un confronto aperto con Mario Draghi e di non voler sabotare nessuno: «A Draghi ho fatto gli auguri di buon lavoro. Chi mi descrive ostacolo alla formazione della nuova esperienza di governo non mi conosce, o forse parla in malafede. I sabotatori cerchiamoli altrove», ha detto il premier dimissionario. A questo punto, Conte inizia a inviare i suoi messaggi. Innazitutto, auspica la nascita di «un governo politico solido» per poter affrontare la crisi economica e la pandemia. Certe sfide, continua l'avvocato di Volturara Appula, «non possono essere affidate a squadre di tecnici». Benché, in fondo, anche lui sia un tecnico, Conte parla quasi da leader e federatore della vecchia maggioranza giallorossa in questa prima uscita non in veste istituzionale. «Agli amici del Pd e di Leu» chiede di proseguire il «lavoro avviato insieme per modernizzare il Paese e che aveva già iniziato a dare i suoi frutti». Infine si rivolge alla platea grillina, quella che in fondo l'ha portato in politica e che da giorni attende un segnale. «Mi rivolgo agli amici Movimento. Io ci sono e ci sarò» è il messaggio lanciato dal suo tavolino-predellino. Secondo alcuni un tentativo di evitare la scissione grillina, secondo altri uno sgambetto rivolto a Gigi Di Maio e alla futura leadership dei Cinquestelle. Forse semplicemente una mossa disperata per ritagliarsi ancora una parte sulla scena e magari un qualche ruolo che gli eviti di tornare a fare l'avvocato e il docente all'università di Firenze.
Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 5 febbraio 2021. Conte parla davanti a palazzo Chigi, privo di Casalino. Come uno che perso il negozio abbia aperto un banchetto per strada. In giacca e cravatta, pare l' antica pubblicità di un amaro in mezzo al traffico. Questo era il mondo di prima. Il mondo di adesso, in un attimo, è diventato quello descritto da Sergio Mattarella nel discorso agli italiani: serve «un governo di alto profilo che non debba identificarsi in alcuna forza politica». La più clamorosa bocciatura di una classe dirigente sentita in tre minuti, in diretta tv. Potete accomodarvi, non siete all' altezza. Il momento è grave e non siete capaci di pensare al Paese. Bisogna fare reset, come quando va in blocco il computer: o si butta, o si svuota. Dunque Draghi. Da entrambi - dal presidente Mattarella e dall' incaricato Draghi - poche parole: misurate, rispettose, esatte. Non eravamo più abituati, ce ne stavamo anzi quasi cominciando a vergognare. Doveva difendersi, eventualmente, chi esercitasse l' uso proprio del congiuntivo e il silenzio nel dubbio. Élite culturali. Tecnocrati usurpatori di democrazia del popolo. Ed ecco che, come sempre ciclicamente accade, dinanzi alla più drammatica crisi di sistema degli ultimi anni - il collasso di una politica al vuoto pneumatico di progetto, interessata solo al suo proprio tornaconto - quel che marca la differenza è di nuovo la semantica, la prossemica. Il modo di usare la parola e il corpo che la porta. Perché non è vero che aver fatto il commesso in un negozio di intimo autorizza a diventare ministro in quanto "uno del popolo": sapere serve, alla prova dei fatti comanda. Così, per notazione di cronaca, siamo qui oggi a segnalare la distanza simbolica fra le parole del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio incaricato e il resto del mondo: è un fatto. Esempi. Siamo stati in un passato recente governati da Danilo Toninelli, Movimento Cinque Stelle, già ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nel Conte Uno. «Non ci vengano a chiedere di votare Draghi. Abbiamo fatto di tutto, perfino annientarci negli uffici a lavorare pur di dare una mano a chi ne aveva bisogno». Abbiamo persino lavorato, lamenta Toninelli, doglianza in linea con quella dell' unico audio reso noto tra le centinaia diffusi dal plenipotenziario di governo (portavoce, ufficialmente) Rocco Casalino che all' indomani del crollo del ponte Morandi diceva «non mi stressate la vita, mi è già saltato il Ferragosto». Si capisce che la gravità e la misura delle parole di chi ha ora preso in mano la crisi pandemica siano stranianti. Lost in translation , serve un mediatore culturale. Lo si dice a costo di essere accusati, già si sente il coro, di essere espressione dei poteri bancari, massonerie finanziare, élite dei poteri forti. Purtroppo o per fortuna non è così, è la semplice cronaca dei giorni. Giorgetti, vicesegretario della Lega, paragona Draghi a Ronaldo, a ciascuno i suoi esempi: «Non può stare in panchina»; Beppe Grillo fa inversione a U e riflette che si può anche dire sì a Draghi ma «solo se fa un governo politico»: nel senso che per i Cinquestelle questa è una «grande opportunità per tornare al governo». Diversamente, sai quanti mutui inevasi. Goffredo Bettini, segretario ombra del Pd, è dispiaciuto, Nicola Zingaretti, segretario ufficiale, è disponibile. Franceschini è come sempre al posto giusto. Renzi gongola e rilascia interviste agli amici americani in inglese incerto: Draghi is the best. Ciascuno pensa al suo privato futuro, nell' imminente governo che per essere votato deve comprenderli: che sia un governo "politico", che li reintegri o li ricollochi. Si toccano gli estremi: Giorgia Meloni e la pasionaria grillina Cinquestelle, Paola Taverna. Mai con Draghi. Perché è un tecnocrate, competente. Uno che ha studiato, dunque un nemico del popolo. Come se sapere e potere fossero due cose diverse. Come se l' unico antidoto al messia, l' uomo della provvidenza, non fosse saperne tutti qualcosa di più - non qualcosa di meno. Così da poter discutere, eventualmente, nel merito. Invece tutti a pensare: ma a me, personalmente, cosa mi tocca.
Tapiro d'oro a Casalino e Conte. Premiata l'accoppiata delle gaffe. Il premier e il suo portavoce sono stati intercettati da Valerio Staffelli che ha consegnato loro, non senza imbarazzo, il premio di Striscia la Notizia. Novella Toloni, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Insieme hanno governato, insieme hanno lasciato le rispettive poltrone e insieme ora riceveranno il tapiro d'oro. Il premier uscente Giuseppe Conte e il suo portavoce Rocco Casalino non si lasciano, anzi raddoppiano grazie a Striscia la Notizia, che stasera consegnerà loro l'ambito premio delle gaffe. L'inviato dei tapiri Valerio Staffelli, nella puntata del tg satirico di Canale 5 che andrà in onda questa sera (4 febbraio), prenderà due piccioni con una fava. È proprio il caso di dirlo. La caduta del premier Giuseppe Conte ha fatto capitolare definitivamente anche il suo portavoce Casalino e insieme ora si apprestano a ricevere il tapiro. Oltre al danno la beffa di vedersi prendere in giro da milioni di telespettatori che negli ultimi mesi hanno assistito più a uno show che a un'azione di governo. Intercettato fuori da palazzo Chigi dall'inviato di Striscia, Giuseppi prima di prendere il premio ha voluto puntualizzare: "Dimissionario, ma ancora presidente per qualche giorno. Sono onorato di aver servito il mio Paese e terminare con un Tapiro mi rinfranca". Stuzzicato dalle domande di Valerio Staffelli su Matteo Renzi, Conte ha fatto buon viso a cattivo gioco: "È un interlocutore politico, un senatore della Repubblica e fa la sua politica". E sul tapiro ha trovato anche il tempo di scherzare: "Durante tutto il mandato mi sono chiesto: come mai non mi arriva?". Ben altro stile invece quello di Rocco Casalino, che davanti a Staffelli non si è risparmiato il suo solito atteggiamento da primadonna. Pizzicato per le vie di Roma, Casalino ha prima smentito ai microfoni di Striscia di aver telefonato ai vertici del Movimento 5 Stelle chiedendo di votare contro un governo guidato da Mario Draghi, poi ha fatto pubblicità al suo libro: "Ho ricevuto 300 chiamate, ma non rispondo a nessuno". La sua fatica "letteraria" - "Il portavoce" che ripercorre la sua vita - è pronta a finire nelle librerie il 16 febbraio nonostante gli intoppi delle ultime settimane. Di dire addio alla politica, però, Casalino non pare averne voglia e in quanto alla televisione Rocco a Staffelli ha fatto una promessa: "Mai al Grande Fratello Vip".
Conte deve tornare a lavorare, l’Università di Firenze richiama l’ex premier: “Aspettativa terminata”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. Giuseppe Conte ed Elena Bonetti erano i due docenti universitari del governo uscente. Tra i due c’è però qualche differenza. Bonetti appena dimessa da Ministra ha lasciato Roma ed è tornata ad insegnare analisi matematica a Milano. Dopo averlo annunciato il 14 gennaio, con tanto di foto: lei che fa gli scatoloni, svuota l’ufficio al Ministero. E saluta con un tweet: «È stato un onore servire questo Paese nei palazzi romani delle istituzioni. Torno a farlo nelle aule universitarie milanesi. La politica è servizio». In effetti i professori universitari prestati alle istituzioni, perché chiamati ad alti incarichi, vengono posti in congedo d’ufficio. Ma lo stesso congedo termina automaticamente al decadere dell’investitura. «Dal giorno stesso in cui è uscita dal Ministero ha ripreso il lavoro: ha già preso parte alle prime riunioni, da metà gennaio», ci confermano i suoi collaboratori. È davvero rientrata?, chiediamo al dipartimento. «Una persona che lavora qui, e ha chiesto di lavorare qui perché ama la ricerca e l’insegnamento torna più che volentieri all’università», ci rispondono, un po’ sorpresi dalla domanda. E ci dettagliano le attività su cui è impegnata. Non ce ne vogliano, perché facendo le stesse domande all’Università di Firenze, le risposte cambiano. Il Rettore Luigi Dei inquadra Giuseppe Conte. «È professore ordinario di diritto privato presso il Dipartimento di Scienze giuridiche. Ha svolto il suo compito di presidente del Consiglio al meglio, adesso lo aspettiamo qui». A Firenze. Anzi a Novoli, in via delle Pandette. Un po’ diversa da quella via del Corso dove l’ex premier, accudito dalla scorta, amava richiamare gli sguardi dei passanti. «L’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri svolto da Conte», sottolinea il rettore Dei, ha dato «sicuramente lustro alla nostra Università», ma adesso che il mandato governativo è in conclusione, per il titolare di Diritto privato sarà automatico il reintegro nella vita accademica. In base alla legge 383 del 1980, il docente che assume una carica pubblica nello Stato entra in aspettativa obbligatoria. Una volta che la Presidenza del Consiglio comunicherà al Rettorato la decadenza dalla carica, Conte deve riprendere possesso della sua cattedra universitaria. Entro due settimane. E mentre Draghi prepara il cronoprogramma di governo – si è scoperto che sul Recovery c’è tutto da rifare, conti in testa – per Conte la segreteria didattica ha pronto il cronoprogramma del rientro al lavoro. «Potrebbe tornare a svolgere attività didattica già dal 22 febbraio, inizio del secondo semestre dell’anno accademico. Ma questo sarà da vedere in base alla programmazione annuale del suo insegnamento. Nel caso in cui non fossero previste lezioni per la sua cattedra, Conte si dedicherà alla ricerca, allo studio ed eventualmente ai colloqui con gli studenti». La prossima volta che cercherà dei volontari in aula, quindi, potrebbe non essere per la Fiducia. Chiediamo agli uffici se ci siano già state interlocuzioni. No: Conte non ha parlato con il Rettore, ci confermano, negli ultimi tempi. Non ha preso contatto con le segreterie. Non ha ancora voluto comunicare la data di rientro. Ahia. Quando ha piantato il tavolino in mezzo alla piazza, per gridare “Sappiate che ci sono e ci sarò”, lo aveva capito che invece non c’è già più? Lunedì sembra dover riconsegnare le chiavi di palazzo Chigi. Per rimanere a Roma gli occorrerebbe un salvagente: un incarico pubblico, quale che sia. Ma sembra che della personalità più irrinunciabile della politica, tutt’a un tratto, si possa perfino fare a meno. E poi Firenze è bellissima, in primavera.
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2021. Sic transit gloria Conte, però che rapidità. Ancora alla fine di gennaio - dieci giorni fa - una metà del Parlamento gridava compatta «o Conte o morte», i ciampolilli s' accalcavano alla sua corte e i sondaggi facevano a gara nel certificarne la popolarità. «Giuseppi» il leader per caso, il padre della Patria chiusa in casa, il conquistatore dei denari d' Europa, il federatore del centrosinistra e via salmeggiando. Ma appena Conte ha ricominciato a non contare, si è ritrovato in mano una lettera di licenziamento controfirmata dai suoi stessi soci, e senza neanche uno straccio di liquidazione. Il ministero degli Esteri meglio di no, altrimenti Di Maio si offende. La Giustizia, manco a parlarne. La candidatura a sindaco di Roma, ecco, se proprio ci tiene, ma tanto non ci tiene. A un certo punto Radiomercato lo ha spedito addirittura a Bruxelles come commissario europeo in cambio di Gentiloni e milioni, ma era una manovra diversiva. Restava un collegio vacante di senatore a Siena, quasi una mancia per un ex-presidente del Consiglio fresco di beatificazione come lui. Ieri Boschi e Zingaretti gli hanno negato anche quella. Boschi con qualche perfidia, ma tra avversari giurati ci sta, e il Pd con le classiche tecniche del ghosting (scomparire di colpo) e dello scaricabarile, utilizzate in amore dai meno coraggiosi per liberarsi di un partner che non serve più, senza precludersi la possibilità di richiamarlo un domani, casomai.
Conte cerca poltrone ma perde pure la cattedra. Sfuma l'Università di Roma mentre il Pd lo scarica nella corsa al seggio di Siena. Pasquale Napolitano, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Giuseppe Conte perde poltrona, seggio e cattedra. Una tripla beffa per l'ormai ex avvocato del popolo, chiamato da Salvini e Di Maio prima, Zingaretti e Grillo poi, a guidare i governi del cambiamento. Una parabola discendente, culminata il 26 gennaio scorso con le dimissioni da presidente del Consiglio. Ma la notte appare ancor più buia delle previsioni. Conte, nonostante sia stato osannato da tutti, oggi fatica a incassare dal Pd il via libera alla candidatura nel collegio uninominale per la Camera dei deputati di Siena: posto lasciato vacante dopo le dimissioni dell'ex ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Eppure, chi ora sbarra la strada verso il Parlamento all'avvocato di Volturara Appula, prima lo riempiva di complimenti. È la politica, bellezza. Oggi le parole al miele sono tutte rivolte al futuro capo dell'esecutivo Mario Draghi. Anche il premier dimissionario si accoda: «Se fossi iscritto a Rousseau voterei sì a Draghi», dice ai cronisti fuori Palazzo Chigi. Zingaretti (un leader che non brilla per coerenza) si era, però, spinto molto avanti il 20 dicembre 2019: «Conte è oggettivamente un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste». Zingaretti è lo stesso segretario dem che oggi nega l'ok alla candidatura nel collegio di Siena: «Nessuna volontà di imporre dall'alto nulla. Le alleanze si decidono nei territori. Rispetteremo l'autonomia dei territori». Lo stop (in questo caso non è una novità) arriva anche dalla renziana Maria Elena Boschi che in quel collegio può esercitare la sua influenza politica: «Il destino personale di Conte francamente non è la priorità, prima vengono i 60 milioni di cittadini italiani». Il premier sente puzza di tradimento: «Non ne so nulla», ribatte. Missione Siena fallita. Resta la poltrona di capo del Movimento. Opzione rifiutata: «Io presidente del M5S? Non ambisco a incarichi personali e formali, l'importante è avere una traiettoria politica da offrire agli elettori». Conte, dopo lo sfratto da Palazzo Chigi, sta provando a resistere sul campo (politico). Non si schioda. Perché dall'Università è arrivata un'altra beffa: dovrà rinunciare alla cattedra, tanto inseguita, di diritto privato a La Sapienza che fu del suo maestro Guido Alpa. Nel 2018 Conte inoltrò la domanda per il concorso con l'obiettivo di traslocare dall'ateneo di Firenze. Nel frattempo però arrivò la chiamata di Salvini e Di Maio per la guida dell'esecutivo gialloverde. Conte provò, comunque, a presentarsi alla prova di inglese. Beccato dalla stampa, decise di rinunciare. Il concorso è andato avanti: il corso di diritto privato è stato affidato al napoletano Giovanni Perlingieri. Seconda beffa. Conte sta tentando altre vie d'uscita: la candidatura a sindaco di Roma e un incarico in Ue. Poche chance di inserirsi nella partita per il Campidoglio. Virginia Raggi non ha alcuna intenzione di cedere il passo. Sono già pronti comitati per il bis. In Europa, Conte si gioca la carta di un incarico. Quale? La poltrona di Paolo Gentiloni, commissario Ue del governo italiano, non è al momento disponibile. Resta un'ultima mossa: rientrare nella squadra dei ministri dell'esecutivo Draghi. Ma oggi sembra una missione impossibile.
Maurizio Belpietro per "la Verità" il 10 febbraio 2021. Siccome c'è il Covid, in Italia non si può votare. Così per lo meno ha deciso il presidente della Repubblica, incaricando Mario Draghi di formare un nuovo esecutivo. Tuttavia, se c'è da piazzare Giuseppe Conte per evitargli di accomodarsi sui banchi universitari, a fare il professore, si può fare un'eccezione. Ebbene sì, da giorni non si discute del futuro dell'Italia, ma di quello dell'ex presidente del Consiglio, il quale da quando è stato spodestato da Matteo Renzi, non sa bene come occupare il proprio tempo. Di tornare a insegnare non se ne parla: l'avvocato di Volturara Appula si è abituato al palcoscenico della politica e le retrovie delle aule scolastiche non fanno più per lui. Il nostro, dopo aver tentato di fomentare una rivolta contro l'ex governatore della Bce allo scopo di fargli mancare i voti dei 5 stelle in Parlamento, pare avesse preso in considerazione l'idea di rimanere come ministro degli Esteri. Ma qualche cosa deve avergli fatto capire che non era aria e che Draghi, conoscendo di persona tutti i leader del G20, non avrebbe certo avuto bisogno di qualcuno che agli incontri internazionali gli reggesse la borsa. Pare che, prima di prendere la solenne decisione di rifiutare un ministero che nessuno gli aveva proposto, Giuseppi abbia cercato di intercettare l'Elevato in missione a Roma. Non si sa se per proporgli di votare contro il nascente nuovo governo o per cercare di farsi infilare in qualcuna delle caselle rimaste libere. Sta di fatto che Beppe Grillo, dopo averlo usato per impedire che nel 2019 si andasse alle elezioni, consentendogli con una straordinaria operazione di trasformismo di dar vita al Conte bis, lo ha trattato come un kleenex usato. Risultato, al povero ex premier è toccata la sorte di cercare di imbucarsi all'assemblea grillina, per ripetere la minaccia già pronunciata al banchetto da venditore di strada allestito in piazza Colonna il 4 febbraio: «Io ci sono e ci sarò». Insomma, non vi libererete tanto facilmente di me. L'idea iniziale era di diventare presidente del Movimento. A Grillo avrebbe lasciato la qualifica di fondatore, ma a lui sarebbe toccata quella di direttore. Il progetto però si è schiantato contro le ambizioni di Luigi Di Maio, il quale ha mollato la poltrona di reggente a Vito Crimi, tuttavia come tutti sanno non vede l'ora di riprendersela e adesso che il giurista pugliese ha perso Palazzo Chigi e pure il tocco magico è convinto che sia arrivato il momento. A Conte, a cui nel frattempo è appassita la pochette e il ciuffo si è scompigliato, è stato offerto di bruciarsi con la candidatura a sindaco di Roma. Per i grillini sarebbe stato un affare, perché avrebbero preso due piccioni con una fava: liberarsi cioè di Virginia Raggi, che ha intenzione di ripresentarsi, e in un sol colpo pure delle ambizioni dell'ex premier. Ma Giuseppi, fiutando di doversi confrontare con Carlo Calenda e temendo qualche sgambetto del Pd e di Italia viva, ha preferito rispondere con un «no, grazie», aggiungendo che fare il sindaco della Capitale non sarebbe il suo mestiere. Sottinteso: io, dopo aver fatto il presidente del Consiglio, non mi posso rassegnare alla poltrona in Campidoglio. Al massimo, visto che quella di Palazzo Chigi è momentaneamente occupata, posso ambire al Quirinale. Ci siamo capiti: il caso Conte, da politico che era, sta diventando umano, in quanto il rischio è che l'avvocato si aggiri per mesi attorno a piazza Colonna senza saper bene come impiegare il proprio tempo. Una situazione incresciosa, simile a quella dei parlamentari trombati, che dopo anni la mattina presto li vedi ruotare intorno a Montecitorio come pesci nell'acquario, in attesa di incontrare qualche ex collega con cui fingere di avere ancora un ruolo.Risultato, per levarsi di torno il fastidioso questuante, a qualcuno è venuta l'idea di candidarlo alle elezioni suppletive, quelle che si dovranno svolgere per rimpiazzare l'ex ministro Pier Carlo Padoan, il quale come è noto ha lasciato il posto in Parlamento per quello più comodo e meglio retribuito di presidente di Unicredit. Conte dovrebbe correre nel collegio di Siena, guarda caso quello tanto caro ai compagni finché c'è da preservare il Monte dei Paschi e soprattutto tappare i buchi di un bilancio bancario che fa acqua da tutte le parti. Ecco, per levarsi il problema, le elezioni vietate a tutto il resto degli italiani perché i 5 stelle e il Pd, secondo i sondaggi, le perderebbero, a Siena si potrebbero fare. Potrebbero, al condizionale. Perché poi ci sono quei guastafeste dei renziani e degli ex renziani, che con Conte paiono avere un conto personale da regolare. Infatti, appena si è diffusa la voce di una candidatura nel collegio di Siena, Maria Elena Boschi si è incaricata subito di affossarla, liquidando la faccenda con un «abbiamo altre priorità». Poi è stato il turno di Dario Nardella, sindaco di Firenze, che per non avere un ingombrante rivale a due passi da casa ha suggerito all'ex premier di riprendere la via della Capitale. Sì, insomma, se si è sicuri di vincerle le elezioni si possono fare, ma Giuseppi di questo passo potrebbe finire come la Bella de Torriglia, talmente bella che nessuno se la piglia.
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 12 febbraio 2021. Conte che si offre ai selfie per le strade di Roma sembra Benigni nel film di Woody Allen. Ricordate? Era il "Signor Qualsiasi" che all' improvviso diventava il più famoso d' Italia proprio perché era il più anonimo, il più qualsiasi. E quando di botto i giornalisti non lo cercavano più e nessuno lo riconosceva, ormai allampanato dal successo correva per Roma: "Ehi, sono io, volete un autografo, uno scoop, volete vedermi su una gamba sola?".
Vittorio Feltri su Giuseppe Conte: "Vilipeso e disoccupato. Ha fallito ma lo rispetto". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. Giuseppe Conte, ex presidente del Consiglio, merita una citazione latina degna di una lapide di marmo: "Sic transit gloria mundi". Traduco in volgare: la gloria che ti riserva questo mondo è effimera, la dura no, non dura. Per due anni e mezzo il premier deposto è stato adulato non solo dai politici di riferimento, bensì anche dalla maggioranza degli italiani, i quali gli hanno consacrato un oceano di consensi. Sembrava che l'avvocato fosse immarcescibile, che rimanesse al comando delle misere operazioni di governo fino alla scadenza naturale della legislatura. Poi è giunto Matteo Renzi, che ha un patrimonio di voti residuale (2 per cento), ed è riuscito a scalzarlo con facilità irrisoria. Complimenti al rottamatore per eccellenza, sempre sottovalutato dai superficiali attori della politica, il quale ricorda la vicenda di Davide e Golia. Roba vecchia eppure sempre attuale. Non appena è stato strombazzato il nome di Mario Draghi, la scena è cambiata all'istante. Le poderose leccate di terga riservate al foggiano si sono trasferite in un nano secondo verso il posteriore del grande banchiere. Sul quale una ondata spaventosa di saliva si è abbattuta. Un esercito di leccatori professionali è tuttora impegnato a umettare i glutei di Draghi, di cui immagino l'imbarazzo, conoscendo l'uomo e la sua riservatezza. Questo d'altronde è il costume nazionale: l'ultimo arrivato va portato in trionfo ancor prima si segga sul trono. Al cosiddetto Supermario vengono attribuite doti divine in grado di trasformare il Paese da sacco di letame in cesto di rose. Non dubitiamo delle capacità professionali del famoso banchiere, tuttavia sappiamo che un conto è amministrare un importante istituto di credito e un altro è guidare un gruppo di sciamannati che poltriscono in Parlamento. Quindi aspettiamo i fatti: ora non è il caso di muovere il pollice all'insù o all'ingiù. Sarebbe prematuro. Oltre che ingiusto. Per adesso condanniamo senza riserve il trattamento cui è sottoposto Conte, disoccupato e vilipeso: lo trovo disgustoso. Questo personaggio non è da premio Nobel, per lungo tempo ci ha tediato con monologhi notturni mediante cui impartiva lezioni di comportamento a tutti noi poveri tapini, egli ci ha imposto divieti assurdi per combattere il virus con metodi ruspanti e inefficaci. E ci ha inflitto Arcuri e Speranza, due pressappochisti improvvisatisi tecnici della Sanità, che hanno combinato soltanto casini senza risolvere nemmeno un decimo dei problemi sanitari. Ed eccoci qui in attesa di vaccini che non arrivano, ciò che inquieta la popolazione, per giunta alle prese con una crisi economica devastante dovuta al fatto che senza salute pubblica non può verificarsi l'agognato rilancio dell'economia. Ciò detto Conte va rispettato, ci ha provato in tutti i modi e ha fallito, come avrebbe fallito chiunque. Confidiamo in Draghi, evitando però di attribuirgli un successo che non ha per il momento ottenuto. Calma e gesso. Molto gesso. Termino pubblicando i risultati di un sondaggio significativo. Domanda: chi avrebbe preferito come prossimo premier? Mario Draghi: 52 per cento; Giuseppe Conte: 29. Giudichi il lettore.
Ritratto di un ex Presidente. Chi è Giuseppe Conte, da prestanome della coppietta Salvini-Di Maio a leader del mai nato partito del 9%. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. Letterariamente parlando, l’avvocato Giuseppe Conte è un personaggio fantastico. Fate finta per un attimo che quel che è accaduto dalle elezioni ad oggi non sia reale ma l’abbiate letto in un romanzo o visto in un come il film Il giardiniere con Peter Sellers del 1979. Chance era un giardiniere con leggero handicap mentale che l’aveva costretto a vivere sempre dentro un giardino, che curava con austera competenza ma incapace di andare oltre la visione del mondo di una patata. Si esprimeva per metafore agricole sulle stagioni, la potatura e la siccità e diventò il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti mentre una disperata Shirley MacLaine tentava vanamente di fare sesso con lui, interessato soltanto alla sequenza dei canali televisivi. Partiamo dalla fine – provvisoria ma forse definitiva – dell’avvocato Giuseppe Conte: era solo, rabbioso e disperato sulla piazza davanti a Palazzo Chigi dove esprimeva i suoi concetti agricoli, o forse politici. Parlava al movimento, al Pd e alla sinistra, al popolo dei clandestini chiamati alla resistenza, sotto la sua leadership. Incredibile, ma assolutamente vero. Quella scena appena vista costituisce il capitolo finale dell’uomo che un giorno aveva incontrato per strada un tizio che lo aveva presentato a un tale che gli aveva detto senti, perché non vieni con noi, andiamo al Quirinale, ti presentiamo al capo dello Stato e poi da cosa nasce cosa e infatti era nato un governo. Anzi due. Era pronto per il tre. Mattarella, se ricordiamo bene, era incazzato nero quando se lo trovò davanti. Era successo infatti che i bravi ragazzi del New York Times avevano controllato il curriculum inviato alla Camera per candidarsi ad un ufficio amministrativo. Il quotidiano americano allora ce l’aveva con lo sconosciutissimo avvocato Giuseppe Conte perché era stato indicato come candidato a guidare un governo di estrema destra. Negli uffici romani del New York Times il caporedattore Jason Horovitz aveva scoperto qualcosa di comico: l’avvocato, non sapendo allora come oggi, la lingua inglese, aveva frequentato i corsi estivi della New York University e poi li aveva presentati come un titolo accademico. Sergio Mattarella quando se lo ritrovò davanti lo guardò come un varano, il lucertolone – o drago – di Komoto e gli sibilò qualcosa come spero che il suo curriculum sia stato aggiornato. Figura di merda. E allora tutta la sinistra rideva di Conte perché lo sconosciuto era il candidato a governare insieme agli odiati M5S e all’odiatissimo Salvini. Anche alla Duquesne University di Pittsburgh smentivano di aver mai visto il signor Conte, come all’University of Malta, all’Internationales Kulturenstitut di Vienna dove precisarono che nel loro istituto si insegna e si apprende soltanto in tedesco. Ciò che vogliamo sottolineare è che quando emersero queste vere o presunte gaffe, tutta la stampa si gettò a capofitto nella caccia all’uomo allora considerato di estrema destra. Perché l’incredibile personaggio uscito dal nulla era allora destinato a governare come prestanome della coppietta Salvini-Di Maio i quali, sbarrandosi la strada a vicenda, avevano scelto uno sconosciuto avvocato di Volturara Appula, da un assistente di studio dello stesso avvocato, un certo Bonafede Alfonso, DJ per vocazione ma aspirante ministro della Giustizia. Bonafede era un pentastellato e conosceva Di Maio e così finirono tutti al Quirinale in un set cinematografico che ricorda l’incipit del Cavaliere Inesistente in cui Carlo Magno passa stancamente in rassegna i suoi capi militari a ciascuno dei quali chiede: “Ecchisietevoicavalieredifrancia?” E quelli, ad uno ad uno, si presentavano alzando la celata, salvo l’ultimo che restò con la celata abbassata. «E perché non fate vedere il vostro volto?» chiese Carlo Magno. «Perché io non esisto, sire», fu la risposta alla quale il capostipite dei Carolingi non ebbe da obiettare, avendolo il sole reso assonnato e indifferente. Quando il cavaliere Conte si presentò al Presidente, le cose andarono più o meno nello stesso modo: «Ecchissietevoi, candidato al governo?». «Piripì-perepè, poropò-purupù» rispose il candidato. «Ah, va bene – rispose il Presidente – magari la prossima volta cerchiamo di essere un po’ meno paraculi, vero?». «Scusi non accadrà mai più», assicurò il candidato. Tutto accadde in una atmosfera onirica e grottesca, unica al mondo e subito dimenticata, o meglio lobotomizzata dal preciso momento in cui il cavaliere senza celata fece il gran pernacchio al capo leghista in Senato provocando così il fenomeno del rimangiamento della parola data da Zinga, l’uomo che mai e poi mai e poi ancora mai, e – se non l’avete ancora capito – mai, si sarebbe abbassato a un’alleanza coi penta siderali, manco se l’ammazzavano. Accadevano – ed era solo pochi mesi fa – eventi magnifici o almeno non previsti dallo zodiaco, dal calendario di frate Indovino e dalla Cabala. Il Conte, come il Golem di Praga, si era levato in tutta la sua fragilità gigantesca dai piedi d’argilla e tuonava, tuonava, anzi farfugliava con una loquacità che più d’una volta gli aveva sconnesso i congiuntivi, non tanto per superficialità dialettale residua, ma per una reale mancanza di considerazione per la differenza fra ciò che è ipotetico (congiuntivo) e il mondo reale dell’indicativo. Un cianfruglio, un gorgoglio indifferenziato, una torbida accozzaglia di finali di verbo e di partita. Oggi Conte è diventato un monstre molto complicato, ambizioso, pericoloso, ferito a sangue nell’identità miracolosa che gli era piovuta dal cielo come un pesce sganciato da un gabbiano in alta montagna. Abbiamo assistito alla sua metamorfosi da buon manichino a servizio della strana coppietta che lo ha generato, al nuovo Arturo Ui circondato da un manipolo di esternatori-social, da tweettaroli di borgata, facebookisti da malincontro. Alla metamorfosi parteciparono unanimi le televisioni di chiacchiericcio (quelle in cui a qualsiasi domanda venga dallo studio l’inviato sotto la pioggia risponde “Assolutamente sì”) dove si assisteva all’imposizione subliminale e sublinguale dell’immagine del Conte, che si presentava come salvaschermo a tutto, anche al posto delle previsioni del tempo. Il meteorologo diceva nebbia in val Padana e sullo schermo si vedeva la solita clip – sempre quella – in cui Giuseppe Conte pensoso avanza fra specchiere in un Palazzo Chigi adatto a Re Sole, con telecamera a favore finché non si siede da solo davanti a una dozzina di teleschermi ciascuno connesso con un grande della terra, alla peggio un nano. Sempre uguale, manicurato al dettaglio e totalizzante. Ovunque. Comunque. Dossierato. Ha sempre con sé seimila pagine stampate con dentro il nulla dettagliato. Discorsi prolissi e pontificali, ma detti con concessione alla modestia, privi di qualsiasi significato e peso specifico, ma da condividere per esaustione. Il monstre era nato, non dipendeva più dalla strana coppia che per sua fortuna si era divisa e la fata turchina, con un bacio notturno aveva trasformato il burattino in un bambino vampiro azzimato, impomatato, profumato di barberia. Un po’ era il suo DNA, giustamente ambizioso (nulla contro l’ambizione, ci mancherebbe) e un po’ il guaglione miracolato, della famiglia dei Nuovi Guaglioni della Repubblica, uno che vendeva gelati allo Stadio, un altro che azionava il macchinario da DJ, tutti con quell’espressione stupìta, quella crisi identitaria in corso. Ora il piccolo colosso, l’abbiamo visto, sa fare la faccia feroce. Ha sbagliato l’apertura e gli hanno fatto lo scacco del barbiere, lo ha fregato Calandrino Renzi che gli ha dato a bere di aver trovato la pietra elitropia che rende invisibili e lui se l’è bevuta e si è ritrovato fuori da Palazzo Chigi. Il cerchio si chiude: anche Chance il Giardiniere si era trovato fuori dal suo giardino, nel mondo che non aveva mai visto. E una bella signora lo investe, lo soccorre, lo adotta e lo introduce nel salotto di quelli che contano. Conte era arrivato ai supremi salotti dorati con stucchi e tendaggi, più un Presidente americano che gli dà una manata sule spalle storpiandone per sempre il nome, tanto chi se ne frega: e dove si ritrova? In mezzo alla piazza, davanti a Palazzo Chigi dopo un’ora e mezza col Drago che gli deve aver fatto capire come gira il mondo. Non si era mai visto un nuovo Presidente incaricato che va dal predecessore e gli spiega come gira il mondo e come si dovrà comportare lui, d’ora in poi. È stato un dialogo franco, senza peli sulla lingua. Dunque, non amichevole. E infine quella sortita davanti alle telecamere in cui – raccomandando di seguire le prescrizioni del Quirinale (cosa che tutti fanno simulando fronde e borbottii) si improvvisa capo dei Cinque Stelle (“agli amici del movimento dico…”) e ufficiale di collegamento col PD, Leu, chiunque. Un attacco di gollismo (nel senso di De Gaulle) pugliese? Gli è forse apparso Padre Pio? Avrà dietro di sé i soliti poteri forti, o l’intelligence che lui ha curato con senso familistico? E poi, tutta quella gente che lo consola, lo consiglia, lo conforta, lo confonde. Vai a sapere. Certo, gli hanno rubato il giocattolo: il suo partito mai nato del nove per cento che esiste, se esiste, come il Gatto di Schroedinger, soltanto finché non apri la scatola per vedere se è morto o vivo. Il suo partito infatti esiste soltanto se ci sono le elezioni. E non essendoci le elezioni, il palloncino si gonfia con immaginabile frustrazione da impotenza. Dev’essere molto doloroso e frustrante, lo diciamo con sincero rispetto. Ma anche con allarme. Che farà costui, ora che gli hanno smontato la testa? Bisognerà vedere nella prossima puntata se il nostro Conte ritrova la pietra filosofale, il filo d’Arianna o quel che accidenti gli occorre per non finire sulla Luna, sparato da un colpo di cannone come un famoso barone dal nome impronunciabile.
Ritratto di Giuseppe Conte, premier affetto da eiaculazione precoce del cervello. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Marzo 2020.
Istruzioni per l’uso di questo articolo: se non l’avete mai visto perché siete troppo giovani, correte a vedere uno dei più bei film di tutti i tempi, che in italiano è stato titolato Oltre il giardino (del 1980) interprete Peter Seller al suo meglio. Il nostro crudele e dichiarato proposito è quello di mettere a confronto il capo del nostro governo, il professor Giuseppe Conte, con il protagonista del film, un giardiniere con un leggero ma visibile handicap mentale che va incontro a una straordinaria imprevista carriera. Sgombriamo subito il campo: il paragone fra i due ha senso, ma con una importante distinzione: The Gardner è afflitto da un ritardo mentale, mentre Giuseppe Conte è secondo noi affetto da anticipo mentale che è, in politica, l’eiaculazione precoce del pensiero. Ciò che rende accettabile metterli sullo stesso piano è l’inaspettata carriera. Nel film, un giardiniere che non ha mai visto il modo oltre il giardino in cui è nato e vissuto diventerà presidente degli Stati Uniti grazie al fatto che le sue frasi semplici, banali, tipo «quando finisce la siccità le rose possono sbocciare» non vengono prese per quel che sono – banalità al livello più elementare – ma per astutissime metafore dal contenuto densissimo, che fanno impazzire analisti e servizi segreti, incapaci di decifrare la magnifica segretezza e saggezza del giardiniere che sa sempre quando accennare all’avvicendarsi delle stagioni o alla necessità di prendere l’ombrello quando piove. Avrete dunque capito, gentili lettori e – se ci legge – lo stesso professor Conte, dove vogliamo andare a parare: per la prima volta nella storia delle democrazie moderne – ai tempi di Pericle sarebbe stato improponibile e inaccettabile – un giorno, un signore con il suo zainetto a rotelle incrocia un altro signore col suo trolley (il mancato primo ministro Carlo Cottarelli) e si presenta al capo dello Stato con cui ha una conversazione simile a quella che Carlo Magno ebbe, secondo Italo Calvino, con un misterioso cavaliere dalla lucente armatura. Questo colloquio non ha a che fare con Oltre il Giardino ma ci diverte ricordarlo per divertire il lettore con l’evidente analogia, e andiamo a memoria. Carlo Magno passando in rivista i suoi cavalieri con annesse truppe chiede a ciascuno: «E chi siete voi, Cavaliere di Francia?». E il protagonista scintillante e metallico risponde dal chiuso dell’armatura: «Emo, Bertrandino di Gallia Citeriore e Fez…» e seguita con la celata abbassata sicché Carlo Magno si spazientisce: «Perché non mostrate il volto, cavaliere?». «Perché io non esisto» risponde il Cavaliere Inesistente. Carlo Magno a questo punto borbotta qualcosa come: «Oh, be’, boh, ma guarda un po’ tu» e prosegue nella sua ispezione delle forze in campo. Ricordiamo bene quando il nostro Giardiniere, benché Conte, si presentò su al Colle. Il nostro Carlomagno del Quirinale più o meno gli chiese. «E chi siete voi, cavaliere dello Stivale?». «Avvocato, Presidente, solo avvocato». «Ho letto il vostro curriculum e ci è sembrato eccentrico» disse Carlomagnattarella riferendosi al fatto – scovato da un sagace cronista del New York Times – che l’inaspettato sconosciuto aveva fatto passare come un titolo le lezioni di inglese alla New York University, ciò che aveva onestamente fatto un bel po’ incazzare tutti, Carlo Magno compreso. Poi – andiamo a spanne, ma vicini alla riva della verità – il colloquio proseguì con: «E chi vi ha portato qui, cavaliere avvocato?». E lui: «Il signor Di Maio dello Stadio di Napoli». La fine è (quasi) nota quindi non vale la pena di insistere. Torniamo al Conte ignoto e subito primo ministro: nessuno ne aveva visto uno, prima. Ha sbagliato parecchie volte i congiuntivi e mostra una curiosità fonetica: non è sempre sicuro della pronuncia delle parole perché si avventura in una selva di luoghi comuni subordinati a grappoli in cui si perde. Una delle sue boe d’ormeggio è l’espressione “a tutto tondo”, che fa supporre una decisa avversione per i tondi parziali. E l’altra – in multiproprietà – “la trasparenza”. Tutto ciò che il nostro Giardiniere spiega è talmente trasparente che alla fine non si vede. Quando andò alla festa di “Liberi e uguali”, anfitrione D’Alema, creò imbarazzo per aver detto di aver chiesto come cortesia personale ai governi dei paesi europei, di prendersi la loro quota di migranti. Come sarebbe a dire, “per cortesia personale”? Ecco, in questo piccolo accidente, non infrequente, c’è il miglior Peter Seller involontario di Conte. È infatti escluso che avesse intenzione di dire davvero quel che ha detto, ma è vittima di arzigogoli spagnoleschi che non riesce mai a filtrare in un linguaggio limpido. Molto più di quella di De Mita, la sua eloquenza è intraducibile in inglese. La storia del suo rapporto con Salvini, dall’amour passion all’odio senza risparmio, è anch’essa unica nella storia delle democrazie, dove nessuno – mai – è succeduto a se stresso come capo di due coalizioni successive, una di destra che più a destra non si può, e una di sinistra che di più è impossibile. Ne ha risentito alla lunga il suo abbigliamento, passato da un doppiopetto da prima comunione-misto Padrino a una tenuta scamiciata ritenuta più omogenea ai nuovi alleati, perdendo la sua famosa pochette. Il Giardiniere di Peter Seller non era vanitoso. Era modestissimo e non si rendeva conto di essere oggetto di adorazione e anche di passione femminile. Conte sembra invece avido di adorazione, ma consapevole della necessità di apparire casual, amico del popolo o, come dicono i romani, scaciato. La maledizione con cui è venuto politicamente al mondo è quella di apparire un opportunista che ha vinto alla lotteria. E ne è visibilmente consapevole cosa che aggrava il peccato originario con piccole scompostezze, ma specialmente con eccessi verbali di una ridondanza alluvionale. Se mai ci leggesse, gli consiglieremmo di rivedere l’originale Oltre il Giardino, in cui il suo modello si esprime in mondo talmente breve ed elegante, da far pensare a tutti che fosse un pensatore sottile, mentre voleva soltanto dire che finché le mele non sono mature, meglio lasciarle sull’albero. Conte invece spiega la storia dell’albero, dà le ricette di quattro torte di mele e poi dimentica da dove era partito. Di sicuro non pensava – ad esempio – a quel che diceva quando si definì en passant “Presidente della Repubblica” perché voleva dire Presidente del governo di questa Repubblica. Purtroppo nella sciarada del Quirinale che costituisce il corona virus settennale italiano, una gaffe del genere è atroce e Peter Seller al suo posto avrebbe detto «Non ho con me le cesoie adatte». Prendiamolo nella sua recente conferenza stampa in cui, avendo accanto il ministro Gualtieri, annuncia la chiusura di scuole e università. Il governo ha ragione a fare l’unica cosa che si può fare per non provocare il contagio e poi la morte di centinaia di migliaia di persone perché sa che secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità il contagio potrebbe arrivare al sessanta per cento e dunque – dovendo procedere alla cieca – l’unica cosa da fare è distanziare gli esseri umani fra loro affinché le loro salive non vengano sparate a cerbottana nelle gole altrui. Ma quando una giornalista gli chiede perché l’abbia fatto, il nostro Giardiniere risponde con un pezzo di letteratura pesante: «Ieri sera ci siamo riuniti per avere un aggiornamento a tutto tondo perché credo che come prima cosa tutti i componenti del governo, che sono adesso alla guida del Paese, debbano essere periodicamente aggiornati su quello che è l’andamento della curva e delle criticità con cui l’emergenza ci sta sfidando e dopo alcune ore di confronto, poi nella parte finale, ci siamo dedicati poi al tema delle scuole e l’abbiamo sviscerato già nel corso dell’incontro e in modo molto trasparente, lo ridico, è maturato l’indirizzo della chiusura delle scuole che non è una scelta facile, è una scelta complessa: e questo governo ha assunto questa scelta con piena responsabilità e anche consapevolezza delle difficoltà perché chiudere le scuole significa anche creare dei disagi, può avere impatto sulle imprese e i luoghi di lavoro e dà un segnale se volete all’estero perché è chiaro che chiudere le scuole in Italia significa acclarare quello che è sotto gli occhi di tutti. Per completare la nostra decisone abbiamo chiesto la cortesia al professor Brusatello di farci arrivare un parere che poi ci è arrivato e da ieri tanti esperti e scienziati e altri hanno dichiarato tutti che sono misure che possono avere un impatto positivo perché anche in questo momento anche gli scienziati non hanno evidenze scientifiche su un virus le cui loro hanno difficolta, ma in ogni caso quando dico che ci basiamo su valutazioni tecnico scientifiche non dico che noi seguiamo alla lettera ma noi abbiamo una nostra responsabilità, noi valutiamo a tutto tondo e dall’indicazione sanitaria sociale anche culturale per garantire verità e trasparenza e ieri è stata una anticipazione che è filtrata ha dato per scontata una decisione finale che non era stata ancora presa…».
La vittoria dell'autoritarismo. Dal Conte uno al bis tutti i disastri combinati da Giuseppi. Angela Azzaro su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. I due anni che abbiamo alle spalle non sono anni qualsiasi. Sono anni in cui il populismo, nella sua forma autoritaria, ha vinto e stra vinto lasciando sul campo le macerie. E a indicare questa discesa agli Inferi è forse la persona meno adatta a rappresentare il ruolo. L’avvocato del popolo, il professore ordinario cresciuto nello studio del potentissimo Guido Alpa, la persona mite, affabile, che parla con il cuore in mano. Ma proprio questo ha tratto in inganno convincendo fan ed elettori, perché dietro l’immagine costruita ad arte dal fedele e inseparabile Rocco Casalino, Giuseppe Conte ha dato vita a due governi – uno continuità dell’altro – che hanno realizzato il programma dei Cinque stelle in tutto e per tutto: distruggere la democrazia, piegare la giustizia al volere della magistratura e non dello stato di diritto, usare i migranti come arma di propaganda e di ricatto. Dalla Russia agli Usa i suoi alleati sono stati i presidenti autoritari e quel Giuseppi scritto da Donald Trump per sostenerlo non può essere archiviato a semplice folclore. Fa ridere, ma un riso amaro, triste, di chi quel Giuseppi lo ha avuto come presidente del Consiglio per più di due anni. Lo hanno tolto dal cilindro, con un gioco di prestigio per realizzare il governo giallo verde. È il 21 maggio del 2018 e l’avvocato del popolo taglia il nastro del primo governo Conte. Alle elezioni il movimento Cinque stelle ha portato a casa un bel bottino, ma non abbastanza da avere da solo la maggioranza. Il centrodestra unito ha numeri più alti, ma non sufficienti. Inizia così il gioco dei tatticismi, degli incontri, delle mosse ad effetto. Ma ancora prima del voto si sapeva che le due forze populiste, Lega e 5s, si erano incontrate e avevo predisposto un accordo che le portasse unite al governo in nome del sovranismo. Era sufficiente che la Lega rompesse con il centrodestra (ma non per sempre) e che i 5 stelle iniziassero con la lunga serie di tradimenti delle loro parole d’ordine. Il grido “mai alleati con nessuno” diventa via via alleati con la Lega, poi con il Pd, poi chissà. Accadrà lo stesso per il limite dei mandati, per il passaggio da un gruppo all’altro, per i rimborsi, per… Solo su una cosa non smettono mai di essere coerenti: l’amore innato, viscerale, potremmo anche dire patologico, per le sante manette. È la parola magica dei Cinque stelle e farà sì che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, resti in sella sia nel Conte uno che nel bis. E che sul ter faccia crollare tutto: o Fofò o morte. È lui che ha voluto Conte alla guida dell’esecutivo, è un suo amico, e l’avvocato del popolo non lo ha mai mollato, forse anche quando avrebbe voluto, quando difendere l’indifendibile era diventato un fardello. Ma sarebbe ingeneroso dare tutta la colpa al guardasigilli: Conte non ha mai fatto niente per ostacolare le picconate contro lo stato di diritto, contro la Costituzione e contro i diritti dei carcerati, trattati come cittadini di serie zeta e non come esseri umani tutelati dall’articolo 27 della Carta. Conte non si è mai differenziato – siamo ancora al primo mandato – neanche dalla politica sui migranti. Il sadismo di Matteo Salvini contro le persone che fuggono per rifarsi una vita non ha avuto da parte sua un vero stop, anzi è pieno di interviste e video in cui il nostro rivendica le politiche su regolarizzazioni e flussi del governo giallo verde. E infatti nel passaggio al Conte bis ci vuole un anno per mettere mano ai decreti sicurezza, con alcuni cambiamenti, ma senza operare una vera e propria rottura con le politiche precedenti, basta vedere che cosa ancora oggi sta accadendo lungo la rotta balcanica. Persone che vagano nella neve, senza protezione, senza cibo, abbandonate a se stesse. E molte ci sono arrivate dopo che sono state respinte non dal leader della Lega ma dall’attuale, ministra dell’Interno, Lamorgese. Siamo così alla nuova maggioranza composta da 5 stelle, Pd (da cui poi si distacca Italia viva) e Leu. Un governo che non ha prodotto le rotture attese e che ha vivacchiato, rinviando giorno dopo giorno le grandi scelte. Un governo che soprattutto non ha fatto niente per ribaltare le spinte populiste e autoritarie. Niente sulla giustizia, niente sulla difesa della democrazia a iniziare dal ruolo del Parlamento. Così è stata gestita la pandemia, con i dpcm: decreti amministrativi del presidente del Consiglio che hanno saltato i passaggi della condivisione. A Conte mai eletto, doveva dar fastidio lo sfoggio di democrazia e per rendere ancora più lontana ogni vaga idea di rappresentanza si è inventato i comitati tecnici di ogni specie e foggia per cercare di superare l’emergenza, rendendo ancora più profonda la crisi della democrazia e della politica, già duramente messe alla prova. È forse questa la colpa più grande del partito democratico. Non certo aver provato a salvare il Paese da un Salvini in pieno delirio di onnipotenza, ma non aver capito quanto profondo fosse il baratro tracciato dal populismo. L’illusione di Zingaretti, che purtroppo perdura, è quella di curare il populismo facendolo suo, alleandosi in maniera permanente con i Cinque stelle, ormai peraltro ridotti alle ombre di ciò che furono. È una tecnica suicida, che come giustamente ha definito su questo giornale Biagio de Giovanni appartiene alla sfera della sindrome di Stoccolma: si ama chi ti sta annientando. Perché di annientamento si tratta: sulla giustizia, come sui temi sociali, i dem sono andati dietro al movimento che ha distrutto quel po’ di democrazia che ancora restava nel nostro Paese. Invece di fare le barricate per fermarli, hanno dato loro ragione facendosi trascinare nella palude. Ci si poteva anche alleare, ma sapendo che la contesa culturale e politica restava intatta, in primo luogo per salvare le istituzioni che escono da questi anni logorate, impoverite, stanche. Mario Draghi arriva alla fine di questo processo. È il sintomo di una crisi profonda, la conseguenza di un sistema politico che non regge più, in cui è saltato l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Pensare che il suo arrivo sia una buona notizia, la fine del periodo nero, non significa credere nel potere salvifico di una singola persona, pensare che si possa ripristinare tutto con la bacchetta magica. Draghi nasce dalla crisi ma può essere l’occasione per ricostruire dalle macerie. Che sono macerie sociali e macerie politiche. La crisi sociale è appena iniziata e la gestione del Recovery fund è una opportunità per chi ha di meno, per chi rischia il licenziamento, per chi arriva da altri Paesi e viene qui a lavorare senza diritti. Si deve far ripartire tutto e bisogna farlo bene. Ma la ricostruzione riguarda anche le istituzioni e lo stato di diritto. E per farlo dobbiamo dire addio al populismo con in tasca la Costituzione.
Il portavoce di Conte. Rocco Casalino sbaracca da Palazzo Chigi: “Renzi? È stato bravo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Rocco Casalino si sente libero. “Respiro”, dice in una chiacchierata a Il Foglio. Smonta da Palazzo Chigi, il portavoce del Presidente del Consiglio dimissionario, e ancora in carica per gli affari correnti, Giuseppe Conte. L’hanno raccontato come un premier ombra, l’eminenza nemmeno troppo grigia dell’esecutivo, il protagonista di una parabola emblematica dagli studi del Grande Fratello alla Presidenza del Consiglio. “Qua a Palazzo Chigi nessuno è triste, ve lo giuro. È stata davvero pesante. Non pensavo. Sono stati due anni difficilissimi: il ponte Morandi, la pandemia …”. E infatti il 16 febbraio esce il suo libro, Il Portavoce, per edizioni Piemme. Che storia. Per sbaraccare il suo ufficio a Palazzo Chigi servirà una ditta di traslochi, come scrive Il Corriere della Sera: è grande quanto un campetto di calcetto. Nessuno è scontento comunque, la voce allegra, ma Augusto Minzolini ha pubblicato un vocale di 3 giorni fa: “Amore, ci sarà un Conte ter, stai tranquillo”, la voce di Rocco Casalino. E invece: Mario Draghi incaricato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Meglio lui di un altro”, osserva, anche se i giornali avevano malignato che saputo dell’incarico all’ex Presidente della Banca Centrale Europea, il portavoce aveva invitato il Movimento 5 Stelle a non votare la fiducia. Maledette malelingue. Riconosce che “Renzi è stato bravo. D’altra parte col 2 per cento dove andava? Ora ha una possibilità di salvezza”. Due anni bellissimi, per citare il premier, e difficilissimi. Di “Codice Rocco”, com’è stato definito. Quello che decideva su ospitate e interviste e convenevoli con i capi di Stato; di gaffe straordinarie, dal vocale spazientito dopo la tragedia del Ponte Morandi a Genova allo screenshot della posizione in Libia per la liberazione dei pescatori; di conferenze stampa a reti unificate e con lui di poco fuori fuoco rispetto al Premier. Due anni anche di bufera: sempre al centro del bersaglio, per esempio dello stesso Renzi, che aveva spinto per le dimissioni. “C’entra l’omofobia ovviamente”, osserva Casalino nella chiacchierata. E smentisce qualsiasi tipo di astio tra lui e il leader del M5s Luigi Di Maio. Figlio di un operaio e di una commessa, emigrati in Germania, dov’è cresciuto lui, Rocco, laurea in ingegneria a Bologna, il reality che ha cambiato la televisione, alla prima edizione, 48 anni, e oggi finalmente libero. Un romanzo italiano.
Rocco Casalino, quando diceva: "Amore stai tranquillo, il Conte-ter si fa". Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. “Amore, ci sarà un Conte ter, stai tranquillo”. Augusto Minzolini ha pubblicato su Twitter pochi secondi di audio in cui si sente Rocco Casalino dichiarare con grande sicurezza che la crisi di governo terminerà con un nuovo mandato a Giuseppe Conte. Così invece non è stato, con il fu avvocato del popolo e il suo portavoce che sono rimasti fregati alla grande: il Pd e soprattutto il M5s non sono stati in grado di scendere a patti con Matteo Renzi e così è naufragata del tutto la possibilità di formare un nuovo governo politico con la stessa maggioranza di quello precedente, ma con assetti ovviamente diversi. “Profezie disattese”, ha commentato Minzolini in merito all’audio di Casalino. Inoltre l’editorialista del Giornale ha notato anche come Marco Travaglio, uno dei consiglieri più fidati dell’ormai ex premier, abbia reagito molto male alla fine di Conte: “Sembra uno di quei folli che prendono a calci la sabbia e inveiscono contro il sole che sorge. Se la prende con tutti meno che con se stesso che le ha sbagliate tutte e ha rovinato lo stesso Conte”. E quindi adesso toccherà a Mario Draghi provare a formare un governo di “alto profilo” che traghetti l’Italia fuori dalla crisi sanitaria, economica e sociale. “L’iter utilizzato per mettere in pista Draghi è stato corretto - ha sottolineato Minzolini - non è stata una trattativa tra partiti ma un appello del Quirinale alla responsabilità di tutti. Quindi è una cosa che viene dall’alto e che richiama alla responsabilità i partiti che hanno dimostrato di essere incapaci di dare una risposta al Paese. La figura di Draghi è particolare, ho sentito fare il seguente paragone: è come un primario che ha messo in piedi la terapia intensiva in cui il Paese è attaccato con l’ossigeno. Un eventuale no a Draghi deve essere ben soppesato - ha chiosato Minzolini - il Pd può immaginare di legare tutta la sua posizione al nome di Conte? Mi sembra un po’ ridicolo”.
L’ufficio gigante, le sfuriate, il passato: la parabola di Casalino giunta agli scatoloni. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 4/2/2021. Rocco, portavoce e demiurgo di Palazzo Chigi. Le cene con Merkel e Macron in cui si metteva a capotavola. Temutissimo in Rai, decide gli ospiti dei talk e annulla interviste ai quotidiani. L’ufficio di Rocco Casalino, a Palazzo Chigi, ha le dimensioni di un campo da calcetto. Fu un bellissimo capriccio. Il funzionario gli mostrò la stanza di solito destinata al portavoce del premier. Rocco restò immobile per alcuni istanti (solo il labbro superiore iniziò a tremargli: gli succede sempre quando sta per esplodere). Poi, battendo i piedi, urlò: «Orrore! È uno sgabuzzino!». Il funzionario, mortificato, chinò il capo. Nel pomeriggio iniziarono i lavori di ampliamento e così, adesso, non sarà una questione di scatoloni. Servirà una ditta di traslochi. Rocco, entrando lì, si è da subito percepito in grande. È inutile cercare di definire il suo ruolo: demiurgo, spin doctor, eminenza grigia, sottosegretario senza aver giurato sulla Costituzione. Rocco è stato quello che gli è stato consentito di essere. Mettendo in controluce la figura di questo ex concorrente del Grande Fratello — palestrato, 48 anni portati sempre dentro abiti stretti e corti, da buttafuori di discoteca brianzola — si comprende meglio quanto quella in cui siamo precipitati non sia una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Certo, per i cronisti politici sono stati anni stupendi. Rocco allude, tratta, corteggia, annuncia, rimprovera, minaccia, drammatizza e poi, quasi sempre, perdona. Permaloso e un po’ mitomane (tornando da Bruxelles: «Per questo benedetto Recovery avete ringraziato tutti, da Conte a Gualtieri, e vi siete dimenticati di me»), pignolo fino all’ossessione, narratore sfrenato (Lele Mora, suo ex agente: «Ha talento, è solo un filo pettegolo»). Rocco odia Wikipedia. Cova una bizzarra pretesa all’oblio. Invece fai clic, e la sua storia torna. L’infanzia in Germania, a Frankenthal. Il padre operaio, la madre commessa, pugliesi emigrati da Ceglie Messapica che si spezzano la schiena per farlo studiare. Lui si laurea a Bologna, in Ingegneria: ma non ci si vede in un cantiere. Così gira un po’ a vuoto, finché, nel Duemila, riesce ad entrare nella “Casa” di Canale 5, prima edizione del reality, milioni di italiani incollati morbosamente alla tivù: lui resiste alla segregazione 92 giorni con Pietro Taricone e Marina La Rosa (che, la scorsa estate, gli fa la cortesia di raccontare a Cruciani&Parenzo: «Rocco era bravissimo a leccarmi i piedi»). Lui diventa un puma. Perché intanto s’intrattiene con Trump, e organizza cene con Conte, Macron, Merkel: dove, senza esitare, si siede a capotavola. Poi si alza e, al cellulare, decide gli ospiti dei talk show (Il Foglio spiegò che c’era un “Codice Rocco”), in Rai è temutissimo, annulla interviste ai quotidiani («Stabilisco io se Peppino parla o no»), via whatshapp — duro come gli ha insegnato Casaleggio padre — minaccia i dirigenti del Mef: «Li cacciamo». Dannato cellulare. Non usarlo così, Rocco. Sei troppo disinvolto. Glielo dicevano: ma niente. Crolla il ponte Morandi a Genova, i pilastri in macerie ancora fumanti, la conta dei morti e dei superstiti, ma lui si lamenta con i giornalisti: «Basta, non mi stressate! Chiamate come pazzi. Io ho pure diritto di farmi un paio di giorni, che m’è già saltato Ferragosto, Santo Stefano, San Rocco...». Era un “vocale”, c’era l’audio: è costretto a chiedere scusa. Pochi giorni dopo i paparazzi lo sorprendono comunque sugli scogli con José Carlos Alvarez, il suo fidanzato cubano. Questo Alvarez è un ex cameriere, ha perso il lavoro, vive di sussidi, però un giorno viene segnalato all’Ufficio Antiriciclaggio della Banca d’Italia: il suo istituto bancario registra movimenti sospetti di cifre “rilevanti”. Panico. Rocco che urla. Crisi nervosa. Poi prova a spiegare: «José giocava in Borsa, non sapevo nulla, è vittima di ludopatia». Versione ufficiale. Non si discute. Come quando confessò a una Iena, su Italia1: «Hai mai provato a portarti a letto un rumeno? Se gli fai dieci docce, continua ad avere un odore agrodolce». Ragazzi - spiegò poi Rocco - «ma è chiaro, stavo recitando». Sparita, invece, la pagina Linkedin in cui vantava un master in business administration conseguito all’università di Shenandoah, in Virginia («Mai avuto uno studente con il cognome Casalino», comunicarono dagli Usa). Senza master, ma con un talento naturale per lo spettacolo. Conte che legge i Dpcm nella notte; le conferenze stampa in cui le telecamere sono costrette — in una liturgia rivoluzionaria — ad inquadrare un po’ il premier e un po’ anche lui, Rocco; gli Stati Generali dell’economia organizzati a Villa Doria Pamphili nello sfarzo e nella totale inutilità. La politica, però, è una roba diversa. Rocco, ad un certo punto, non ci capisce più niente. Scrive un libro autobiografico.Augusto Minzolini, tornato squalo, pubblica su Twitter un suo audio di tre giorni fa. «Amore, ci sarà un Conte Ter, stai tranquillo». Comincia a girare una notizia: subito dopo aver saputo che Mario Draghi aveva accettato l’incarico, «l’ex portavoce di Conte ha cominciato a fare pressioni sulle truppe a 5 Stelle, chiedendo di non votargli la fiducia». Rocco smentisce. Rocco è isterico. Rocco, coraggio, è finita. Vieni via, esci da quell’ufficio.
Il giorno in cui i giornalisti italiani hanno deciso che Casalino era sputtanabile. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5/2/2021. «Come lo vede er governo?». La domanda è del terzo tassista della giornata, quello alla fine della cui corsa rielaborerò il Mike Nichols di «il primo e il quarto matrimonio sono i migliori»: il terzo tassista è la più precisa chiave di decodifica della Roma che si rivolta contro chi ha troppo a lungo compiaciuto. S’i fossi Rocco, arderei le redazioni. Magari non con letteralismo neroniano, ma come si brasa la credibilità oggigiorno: lasciando filtrare conversazioni private. Quel che fino all’altroieri non facevano con lui. Ieri, con velocità maggiorata (sarà il cambio di cavallo nell’epoca dell’instant messaging) rispetto a quando questo imbarazzante paese passava dal tifo sotto al balcone al tifo contrario a piazzale Loreto, i giornalisti italiani hanno deciso che Rocco l’intoccabile fosse divenuto sputtanabile. (A questo punto il terzo tassista interrompe i miei pensieri casalinocentrici per informarmi che, se al governo mettessero lui, lui stesso tassista, «ogni tanto dal balcone di palazzo Venezia volerebbe qualcuno». Credo gli si stiano sovrapponendo due modalità di dittatura, a scuola non ci siamo arrivati col programma ma sospetto che a far volare gli oppositori fosse un qualche sudamericano, mica quello di piazza Venezia, ma mi guardo bene dal dirglielo, taccio col rigore d’un analista freudiano). Insomma hanno passato tre anni a farsi trattare come neanche Mia Martini in Minuetto, «e lasci vocali sprezzanti quando vuoi, nelle notti più che mai, non rispondi, te ne vai, sono sempre fatti tuoi», e tutto il drammone che ben conoscono le amanti disamate e i cronisti giuseppecontici. Hanno passato tre anni di mutismo, a elemosinare un suo cenno e a non pubblicare mai uno dei suoi «amo’». Il Corriere ieri si produceva in un interessante esercizio di revisionismo storico, scrivendo che l’unica volta che qualcuno aveva scritto dei messaggi privati di Casalino, la volta del ferragosto rovinato, era perché era stato così pieno di hybris da lasciare un vocale insmentibile. Ha lasciato vocali insmentibili per anni, e voi donabbondiamente muti. («io je la pijo, ma nun se usa più: il Consiglio di Stato ha sentenziato che la legge è sbajata»: il terzo tassista, preso dopo avergli chiesto se avesse il pos, m’interrompe di nuovo, io qui che penso a Rocco e lui che pretende di farmi vedere un servizio di tg, salvato sul telefono immagino tra le cose più preziose, che dice che lui non è più multabile se non accetta la carta. Tento di spiegargli che a me della multa non me ne frega niente, io non giro coi contanti, mi dice e il caffè come lo paga, dico non bevo caffè, mi risponde che non è vero che c’è l’evasione fiscale. Da qualche parte Samuel Beckett sta prendendo appunti). Insomma pare che il libro di Casalino esca il 18 febbraio, finalmente una cosa da aspettare, chissà quanto venderà, chissà se lo ristampano in fretta e furia con un’appendice postgovernativa contando sul fatto che i costi della nuova tiratura siano coperti dal nostro precipitarci a comprarlo, ma soprattutto speriamo nell’appendice ci siano i messaggi che gli mandavano i postulanti in cerca d’un retroscena, d’un’intervista, d’un segno che contavano qualcosa dal Mazzarino in sedicesimo: se ora loro ritengono di poter sputtanare lui, pubblicandone le risposte cafone, chissà cosa potrebbe fare lui, pubblicando tutte le volte in cui pietivano. Che peccato che Abatantuono sia troppo vecchio, perché un altro così perfetto per il film biografico su Casalino mica c’è, che passando dal cangurotto di Buona Domenica salì da Ceglie Messapica a palazzo Chigi, che lui chiama Chigi e i cronisti più prostrati così lo chiamavano con lui, quando c’era l’egemonia casalina. («Io mi chiedo, co’ tutta ‘sta gente che paghiamo, ’n era mejo il re? Almeno magnava uno solo». Terzo tassista nonché guru politico, ti voglio parlare: posso pubblicare i tuoi aforismi, come fossi un Casalino decaduto?). Nel giorno in cui persino il Foglio, già gazzettino ufficiale di Volturara Appula, pubblica una telefonata di Casalino in cui l’uomo caduto dagli altari continua a dire «mica mi starete intervistando», e i suoi interlocutori fino al giorno prima ligi, scopertisi schienadrittisti di tabloid inglese, gongolano nel pubblicare un off the record, certo non posso pretendere che il sia il terzo tassista ad astenersi dal populismo. («Se guida male è de Latina», diagnostica il terzo tassista indicando un’auto impacciata quando scatta il verde. Sono tentata di chiedergli un giudizio sul suo collega che la mattina voleva mollarmi in viale Mazzini sostenendo fosse la vietta dove dovevo andare io, «questo non sbaglia mai», ripeteva indicando il navigatore, e l’avevo dovuto far guidare fin sotto la targa all’angolo del viale, lo vede che c’è scritto viale Mazzini, sì? E quello, impunito: «Mica posso conoscere tutte le strade, nun se agiti». Dov’è Nerone, perché nessuno dà fuoco a questa simpatica città? Dov’è Draghi, gli avete detto di prendersi un portavoce non romano?). Il fatto è che Rocco non è tedesco, non è pugliese: Rocco è romano. A stare a Roma si diventa romani. Persino i poliziotti a guardia delle transenne che isolano piazza Colonna, lì teoricamente a badare che il comizietto di Conte (l’avanzo, no il cantante) non venga disturbato, ma in realtà intenti a prendere per il culo le turiste fingendo avvistamenti d’un certo livello, «Guarda, è Draghi, è lui» alzano la voce rivolti a un’utilitaria che passa, persino loro ormai sono romani, da qualunque provincia remota (persino più remota di Roma) vengano. («La settimana scorsa ho portato una de Bologna, ma m’ha detto che a Bologna fa freddo». Figlio mio, veda lei, è febbraio. Qui da voi, nella parte improduttiva della California, ci son venti gradi, sarà per questo che andate a male?). Una volta, quando esistevano i giornali, un cronista politico raccontò di Rutelli (che è sempre stato innanzitutto il marito di Barbara Palombelli, ma all’epoca aveva una carriera politica) che lo riceveva mentre si faceva fare un massaggio alla spa del De Russie. Adesso, quello stesso cronista aspetta la caduta di Rocco per rendere pubblici i vocali «Amore, ci sarà un Conte ter». Forse il coraggio è un tono muscolare, con l’età declina. Forse è che oggi, a pubblicare quell’intervista a Rutelli, verresti sommerso di tweet indignati col listino prezzi della spa del De Russie. Chiederei al terzo tassista, ormai notista politico di riferimento, il suo parere, ma è impegnato a schivare le chiamate d’un collega noioso. A forza di lasciarlo squillare, persino io e il mio scarsissimo orecchio siamo costretti a riconoscere la musichetta. Sì, qualunque revisore della sceneggiatura mi segnerebbe questa scena come poco credibile. Roma si ostina a non bruciare, mentre dal telefono del terzo tassista trilla Faccetta nera.
Fabrizio Rinelli per fanpage.it il 4 febbraio 2021. Vincenzo Spadafora si è congedato da Ministro delle Politiche giovanili e dello Sport dopo il mancato accordo per un Conte ter e il conseguente incarico di formare il governo affidato da Mattarella a Mario Draghi. L'ex ministro, nel suo saluto da titolare del dicastero, ha pubblicato un post su Facebook esprimendo tutto il suo rammarico per la fine del suo mandato. Una frase in particolare però, ha riscosso grande curiosità: "Non conoscevo invece il mondo dello sport, al quale mi sono avvicinato con curiosità, rispetto e attenzione". Ovviamente la reazione social è stata immediata. Nel suo lungo post Spadafora ha anche lanciato un appello augurandosi che il lavoro fatto finora non vada perduto ricordando però le gioie dei primi mesi: "Settimane entusiasmanti, su entrambi i fronti. Ricordo la gioia di presenziare alla storica vittoria della Ferrari a Monza dopo nove anni, ad esempio". Nelle ultime settimane del suo mandato, Spadafora era stato più volte chiamato in causa per cercare di capire se ci fosse o meno una parziale apertura per rivedere il pubblico negli stadi. Nel suo lungo post su Facebook, l'ormai ex Ministro delle Politiche giovanili e dello Sport, Vincenzo Spadafora, ha salutato tutti con una frase in cui rivela come non conoscesse il mondo dello sport al quale si era avvicinato con curiosità, rispetto e attenzione. Di certo le sue parole hanno lasciato grande stupore, specie in virtù del caos che si è generato durante la pandemia nel mondo dello sport. A tal proposito Spadafora ha detto: "Siamo entrati in una fase drammatica, abbiamo dovuto prendere decisioni dolorose e dalle conseguenze gravi ma inevitabili, a partire dalle chiusure". Ovviamente il riferimento va dritto alla decisione di chiudere gli stadi che ha creato non poche polemiche, soprattutto nel mondo del calcio. Negli ultimi giorni, questo argomento, poteva essere oggetto di discussione per cercare di trovare quantomeno una soluzione, fortemente voluta dai club di Serie A, sulla percentuale di pubblico da far entrare all'interno degli impianti sportivi. Questo il post su Facebook dell'ex Ministro delle Politiche giovanili e dello Sport: Quando diciassette mesi fa ho giurato come ministro per le Politiche giovanili e lo Sport eravamo in un’altra era, in un momento completamente diverso da questo. Per molti anni avevo seguito le questioni relative ai diritti dell’infanzia e dei giovani, è sempre stato il centro del mio impegno. Non conoscevo invece il mondo dello sport, al quale mi sono avvicinato con curiosità, rispetto e attenzione. I primi mesi sono stati entusiasmanti, su entrambi i fronti. Ricordo la gioia di presenziare alla storica vittoria della Ferrari a Monza dopo nove anni, ad esempio. Poi, un anno fa, l’esplosione della pandemia, il lockdown, i sacrifici chiesti a tutti i cittadini. Siamo entrati in una fase drammatica, abbiamo dovuto prendere decisioni dolorose e dalle conseguenze gravi ma inevitabili, a partire dalle chiusure. In questi mesi abbiamo lavorato moltissimo per dare sostegno a tutto il mondo dello sport, con i limiti del caso, sicuramente, ma facendo il massimo possibile. Stesso impegno sul fronte delle politiche giovanili: il lancio della piattaforma Giovani2030 e della Carta Giovani, tra le altre cose, e il numero più alto di posti per volontari del Servizio Civile degli ultimi anni. Il lavoro forse più delicato e più importante è stato quello di dare attuazione alla riforma dello Sport, cinque decreti sui quali per un anno abbiamo discusso con tutte le componenti, a tutti i livelli, per arrivare a un risultato condiviso e che rappresentasse davvero un avanzamento sociale e culturale. Sono norme innovative che riguardano molti temi, a partire dal professionismo femminile, dalla possibilità per i paralimpici di entrare nei corpi civili e militari, e soprattutto diritti e tutele che diano finalmente la giusta dignità ai lavoratori dello sport. I decreti sono stati votati in Consiglio dei Ministri, hanno avuto l’intesa nella Conferenza Stato Regioni, e sono ora in Parlamento per il parere delle Commissioni Cultura di Camera e Senato: erano previste in questi giorni, ma a causa della crisi le riunioni sono state sconvocate. Dopo il parere delle Commissioni andranno portati nuovamente in Consiglio dei Ministri per il via libera definitivo che deve arrivare entro e non oltre il 28 febbraio, altrimenti la delega scadrà ed il mondo dello sport perderà una occasione unica. Mi auguro che la prossima settimana le Commissioni possano esprimere il proprio parere, mi appello ai deputati e ai senatori che ora hanno la responsabilità di portare a termine nei tempi previsti un percorso importante. Consegnerò al mio successore un lavoro di fatto completato e basterà solo ripresentarlo al Consiglio dei Ministri e apporvi la firma! Il prossimo Governo avrà anche il compito di approvare il Decreto Ristori cinque, che è già scritto e darà respiro a milioni di cittadini alle prese con difficoltà economiche a causa delle restrizioni dovuto al Coronavirus. In questi mesi ho provato a rispondere alle tante istanze che quotidianamente ho raccolto da ciascuno di voi. Lascio ad altri il testimone sperando che non si perda il lavoro fatto finora e ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato in questo meraviglioso percorso che non dimenticherò mai. Grazie a tutti, davvero.
Da Casalino a Fraccaro a casa anche i Giuseppi boys. Valigie pronte pure per il capogabinetto Goracci, il segretario generale Chieppa e il fedelissimo Arcuri. Pasquale Napolitano, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Nei 32 mesi a Palazzo Chigi il premier Giuseppe Conte ha dato vita a un vero e proprio governo ombra. Passando dalla Lega al Pd. Ma conservando sempre il potere nei vari rami dello Stato grazie alla rete di fedelissimi. Con l'arrivo alla guida del governo di Mario Draghi, assieme all'avvocato del popolo dovranno fare gli scatoloni anche i suoi pasdaran. Qualcuno resisterà per alcuni mesi; il tempo della transizione draghiana. Ma il cammino verso la porta d'uscita è tracciato. Il primo a fare le valigie sarà il portavoce super-pagato Rocco Casalino: l'ex concorrente del Grande Fratello, scelto da Conte «non per i legami con il Movimento ma perché (parole di Conte) era il più bravo», difficilmente sarà riconfermato. Casalino dovrà trovare una nuova sistemazione negli uffici comunicazione dei Cinque stelle tra Camera e Senato. In alternativa c'è la carriera di scrittore, inaugurata con il libro (poi bloccato) che racconta della sua esperienza di portavoce. Casalino è stato al vertice del governo ombra di Conte. Sullo stesso piano c'è Alessandro Goracci, capo di gabinetto di Conte, uscito indenne nel passaggio dall'era gialloverde a quella giallorossa. Molto apprezzato dai grillini, Conte gli ha affidato i dossier più delicati. Casalino e Goracci sono stati i due uomini chiave dell'operazione responsabili-costruttori. Un flop costato la poltrona al capo dell'esecutivo. Al numero tre c'è Roberto Chieppa, promosso dal premier grillino nel ruolo di segretario generale della presidenza del Consiglio. Chieppa resterà nei ranghi della pubblica amministrazione di Palazzo Chigi. Ma per la poltrona di segretario generale di Palazzo Chigi Draghi avrà altre opzioni. Nel governo ombra di Conte meritano due poltrone di prestigio Domenico Arcuri e Gennaro Vecchione. Il primo è il manager, vicino a Massimo D'Alema, super-commissario all'emergenza Covid. Ma prima ancora è stato capo di Invitalia e commissario Ilva. Da molti ritenuto il vero presidente del Consiglio ombra. Il ruolo di Arcuri è stato uno dei motivi che ha scatenato lo strappo con Italia viva. Con l'avvicendamento a Chigi, Arcuri sarà ridimensionato. Il generale Vecchione è un fedelissimo del premier: piazzato e riconfermato a capo del Dis, il dipartimento che coordina gli 007 italiani. Più defilato, ma negli ultimi tempi in avvicinamento al cerchio contiano, c'è Pietro Benassi, messo a capo dell'Autorità per i servizi segreti. Tre sono i ministri di stretta fede contiana: Alfonso Bonafede (ministro della Giustizia), Riccardo Fraccaro (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e Federico d'Incà (per i Rapporti con il Parlamento). Erano lo scudo dell'avvocato nell'esecutivo. La rete di Conte si estendeva anche a Montecitorio e Palazzo Madama. Tra i parlamentari vicini al presidente c'è (c'era) Giorgio Trizzino, interprete del pensiero contiano alla Camera. Tanto fedele che pare sia già saltato sul carro di Mario Draghi. Rischiano di restare orfani del proprio padre nobile i senatori Raffaele Fantetti e Riccardo Merlo: i due hanno fondato l'associazione Italia23. L'embrione del nascente partito di Conte. Un partito che pare non vedrà più la luce.
Dagoreport il 3 febbraio 2021. E’ la bancarotta di una classe dirigente, è il default di partiti e leader allo sbando. Come Tangentopoli, ma senza tangenti (aggravante dunque). E come nel ’93 deve intervenire un banchiere a salvare l’Italia: stavolta Mario Draghi al posto di Carlo Azeglio Ciampi. I numeri, dicono. Ballerini. Chissà se SuperMario ha i numeri in Parlamento. Lo vedremo. Ma qualche numeretto, minaccioso e incazzato, lo ha fornito ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per evitare che il suo fosse solo un appello alla Nazione caduto dall’alto: 4 mesi per formare il governo nel 2013 (120 giorni), 5 mesi nel 2018 (180 giorni). In mezzo alla pandemia!!! E alla campagna vaccinale!!! E al varo del Recovery Plan!! E alla crisi economica che esplode!! Lo schiaffo finale ai grandi sconfitti della ex maggioranza, quelli del Conte ter (già finito sabato scorso) o elezioni subito. Un modo per dire: capisco che siete poco svegli ma almeno a 2 + 2 ci arrivate? Eccola la compagnia dei #votosubitisti come li chiama Giuliano Ferrara, dei grandi feriti di guerra in questa Caporetto giallorosa: il premier col ciuffo Giuseppi; Ta-Rocco Casalino, le sue veline e i suoi vocali (amo’, tesoro et similia) che non hanno mai aiutato il suo capo a darsi un profilo più alto; Nicola Zingaretti, il segretario che confonde sempre il dito con la luna (“un doroteo senza la Dc”, lo definisce sprezzante Lorenzo Guerini, cioè uno del Pd); lo stratega Goffredo Bettini che conosce solo lo schema del consociativismo romano sinistra-Gianni Letta-Caltagirone, che è troppo in generale, troppo poco durante una crisi mondiale. E che non fosse la persona più indicata a dettare la linea si capì quando qualche mese fa, con il lockdown e il bollettino di guerra, fu l’unico politico sul pianeta cui venne in mente di creare una corrente (un paio di ministri ci cascarono pure). Iniziativa veramente fuori dal mondo. Infine, ci sono Massimo D’Alema (ma a lui qualche operazioncina è riuscita), Pier Luigi Bersani (che invece non ne ha mai fatta una col buco), insomma la pattuglia degli odiatori di Renzi in calo di lucidità. E’ la fine anche di un circo. Quello mediatico che ruota intorno al ‘’Fatto Quotidiano’’, vale a dire intorno a Marco Travaglio. Ossia tutti i talk che pendono dalle sue labbra, quasi più di Conte. Travaglio non ha risparmiato nessuno, a cominciare da questo disgraziato sito, accusando l’universo di spacciare fake news (nel più buonista dei casi). Al contrario: le bufale erano le sue, i consigli sballati al Principe pure, l’assoluta mancanza di senso della realtà anche. Una lezione di non giornalismo in purezza. Altro che Dagospia. L’altro sconfitto è Urbanetto Cairo, l’editore intempestivo, che ad aprile 2020 gasava i venditori di spot dicendo che in Italia andava tutto benissimo (mentre morivano 1000 persone al giorno) e che la scorsa settimana, con grande scelta di tempo, ha scommesso sul Conte ter, mettendo La7 e Corriere della Sera a disposizione. Poi uno dice perché non sarà mai l’erede di Berlusconi. Povera anche Lilli Gruber, a lutto ieri sera. Rientra in studio dopo aver mandato in diretta il discorso di Mattarella e sintetizza: “Allora, nuove elezioni o un governo tecnico”. Sì, buonanotte. Il capo dello Stato aveva appena scolpito: elezioni nel 2030, forse. Il gruppone dei pugili suonati è nutritissimo. Non abbiamo parlato dei grillonzi: il M5s, Di Maio, Dibba, Crimi e tutto il cucuzzaro, rischiano l’esplosione e meriterebbero un discorso a parte. I vincitori sono meno interessanti: Renzi, Berlusconi (e il sottovalutato Tajani, preso di mira da Bettini, altra mossa geniale), Giorgetti, mezzo Pd. Hanno buttato giù il bersaglio grosso: Conte. Ma anche loro, da oggi, si muoveranno in terra incognita. Non è che Draghi si mette lì al telefono a parlare con Matteuccio dei guai di Briatore o di dove piazzare certi amichetti. A proposito: avviso agli aspiranti ministri maschi (tipo Marco Bentivogli, che via Calenda e Montezemolo, sta puntando lo Sviluppo economico). Il governo di SuperMario, se nasce, sarà quasi tutto al femminile. L’ex capo della Bce ha un debole (solo professionale s’intende) per le donne. Sentimento ampiamente ricambiato dalle collaboratrici che hanno lavorato con lui.
Travaglio come Fassino, si dà alle profezie: “Draghi? Non è disponibile a fare il premier”. Vito Califano su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Il Governo Draghi non esiste. Un po’ come il concetto di Dio: ci credi o non ci credi. E Marco Travaglio non ci credeva a tal punto da sbandierarlo senza troppi giri di parole, soltanto qualche settimana fa, in televisione. A Otto e Mezzo, ospite di Lilly Gruber, su La7. L’eventualità non era nemmeno in considerazione, “non è disponibile”, esisteva solo Conte, e il Movimento 5 Stelle e Rocco Casalino e Conte, sempre Conte, ancora Conte. Era il 17 dicembre 2020. In studio, insieme con il direttore de Il Fatto Quotidano, il leader di Azione ed ex ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. Lo stesso Calenda ha riproposto il simpatico siparietto sulla sua pagina Facebook. “Ci vuole tanta pazienza”, ha scritto nel suo post Calenda. Un po’ come la profezia al contrario di Piero Fassino che nel 2009 aveva sentenziato: “Se Grillo vuol fare politica fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”. Ecco. Si agitava, il direttore del Fatto. Visibilmente spazientito. La crisi politica si sarebbe aperta meno di un mese dopo, il 13 gennaio, con il ritiro dalla delegazione di governo delle ministre di Italia Viva Teresa Bellanova ed Elena Bonetti e del sottosegretario Ivan Scalfarotto. Una crisi già ampiamente annunciata dagli attriti espressi dal partito di Matteo Renzi a dicembre, in particolare sulle bozze del cosiddetto piano Next Generation EU che in Italia ci ostiniamo a chiamare Recovery Fund. Ebbene, Travaglio la piazzava lì, la sua non-profezia, senza troppi complimenti: “Se qualcuno vuole fare il governo Draghi lo lanci, chiamano Draghi così scopriranno subito che non è disponibile, e la piantano visto che è un anno che parlano di una cosa che non esiste”. E di Draghi infatti si parlava sempre più spesso dall’esplosione della pandemia da coronavirus, da quell’editoriale sul Financial Times che tutti hanno citato e ripreso in questi giorni. Per Travaglio non c’era altra via e credo che Giuseppe Conte, sempre Conte, incommensurabilmente Conte. Martedì la convocazione in Quirinale del Presidente Sergio Mattarella, l’incarico accettato con riserva da Mario Draghi e, infine, il punto stampa dall’esterno di Palazzo Chigi del compianto premier Conte. L’“avvocato del popolo”, Conte, proprio quel conte, non Paolo Conte o Antonio Conte, quello caro a Travaglio: il premier uscente che ha aperto e lanciato un appello ed esortato tutta la vecchia maggioranza a sostenere l’ex Presidente della Banca Centrale Europea. Che doccia fredda.
Dagospia il 26 luglio 2021. "DRAGHI È UN FIGLIO DI PAPÀ, UN CURRICULUM AMBULANTE, CHE NON CAPISCE UN CAZZO NÉ DI GIUSTIZIA, NÉ DI SOCIALE, NÉ DI SANITÀ" - MARCO TRAVAGLIO RIVERSA LA SUA BILE SU SUPERMARIO ALLA FESTA DI "ARTICOLO UNO" (E IL PUBBLICO DE' SINISTRA APPLAUDE): "CI HANNO RACCONTATO CHE È COMPETENTE ANCHE IN MATERIA DI SANITÀ, DI GIUSTIZIA, DI VACCINI. MA NON ESISTE L'ONNISCIENZA O LA SCIENZA INFUSA. E NON HA NEANCHE L'UMILTÀ. PERCHÉ A FURIA DI LEGGERE CHE È COMPETENTE SU TUTTI I RAMI DELLO SCIBILE…"
Intervento di Marco Travaglio alla festa di "Articolo Uno - MDP". Voi capite per quali il motivo per cui sono popolari si dice populisti. Popolare è un pregio, populista è un difetto. E' per quello che l'hanno buttato giù. Poi non è che non hanno fatto degli errori. Secondo me li hanno fatti e nel libro li ho elencati. Ma non li hanno mandati via per i loro errori ma per i loro meriti. E hanno messo al loro posto l'esatta antitesi. Che è un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo ci hanno raccontato che quindi è competente anche in materia di sanità, di giustizia, di vaccini. Mentre, mi spiace dirlo, non capisce un cazzo! (applausi della platea di Leu) Né di giustizia, né di sociale, né di sanità. Capisce di finanza ma non esiste l'onniscienza o la scienza infusa. E non ha neanche l'umiltà. Perché a furia di leggere che è competente su tutti i rami dello scibile…
Twitter. Vincenzo Manzo: Stasera alla festa di @articoloUnoMDP, Marco Travaglio ha definito Mario Draghi: “figlio di papà che non capisce un cazzo”. Ecco Mario Draghi il nostro Presidente del Consiglio è rimasto orfano all’età di 14 anni. Lo stato del giornalismo italiano #Travaglio #vergogna
DA ansa.it il 23 luglio 2021. Appreso l'esito del sorteggio dei tabelloni del judo, in cui nella categoria dei 73 kg avrebbe quasi sicuramente dovuto affrontare, nel secondo turno, un avversario israeliano, Tohar Butbul, l'algerino Fethi Nourine ha annunciato che si ritira dai Giochi di Tokyo. Lo ha poi confermato il suo tecnico Amar Ben Yekhlef. "Non abbiamo avuto fortuna con il sorteggio - il commento di Yekhlef -. Il nostro judoka Fethi Nourine avrebbe dovuto affrontare un avversario israeliano, e questo è il motivo del suo forfait. Abbiamo preso la decisione giusta".
Federico Capurso per "la Stampa" il 27 luglio 2021. Difficile dire che la carriera di Mario Draghi sia stata favorita dalla sua famiglia. La salita, anzi, inizia quasi subito. La madre è farmacista, il padre lavora in Banca d'Italia, e questo gli evita di vivere un'infanzia segnata dal disastro economico dell'Italia del dopoguerra. Cresce nel quartiere romano dell'Eur, tra i grandi viali alberati e i palazzi bianchi di travertino, simboli del razionalismo fascista, insieme al fratello Marcello e alla sorella Andreina, di poco più giovani di lui. E con loro, viene mandato a studiare già dalle elementari nel vicino istituto dei gesuiti Massimiliano Massimo, dove resterà fino al diploma. Ben presto l'istituto gesuita diventa quasi una seconda casa e quell'ambiente lo aiuterà - per quanto possibile - a fronteggiare la perdita del padre a 15 anni e, quattro anni più tardi, quella della madre. «Il fatto di cui mio padre stesso era preoccupato - ricorda Draghi - era che lui fosse nato nel 1895. Ho avuto il privilegio di confrontarmi con una persona che veniva da una generazione lontana, ma non è durato a lungo». I drammi Due avvenimenti dilanianti, eppure «i giovani sono così - prova a raccontarsi oggi Draghi, schermendosi -, reagiscono d'istinto alle avversità, e a quello che gli succede si oppongono senza bisogno di pensarci. Questa capacità li salva dalla depressione, anche in situazioni difficili». Perdere il padre in una famiglia degli anni Sessanta è una questione anche più seria di quanto non lo sia oggi. La zia aiuterà la madre con i fratelli più piccoli, ma la figura del capofamiglia è ancora un'istituzione legata indissolubilmente alla figura maschile. Sulle sue spalle gravano così responsabilità che stravolgono ogni spensieratezza e l'attuale premier ne offre un esempio, in uno dei rari scorci di quel dramma che la sua riservatezza non ha tenuto oscurato: «Ricordo che a sedici anni, al rientro da una vacanza al mare con un amico, lui poteva fare quello che voleva, io invece trovai a casa ad aspettarmi un cumulo di corrispondenza e di bollette da pagare». Ad aspettarlo una volta tornato dalle vacanze estive, ogni anno, c'è anche il preside dell'istituto Massimo, padre Franco Rozzi. Una figura «di autorità indiscussa», come lo descrive lo stesso Draghi, a cui il futuro presidente della Bce si legherà con forza: «Erano anni in cui si passava molto tempo a scuola. Gli incontri con padre Rozzi erano frequenti, da quelli con contenuti prevalentemente disciplinari - purtroppo frequenti nel mio caso - a quelli in cui voleva essere informato dell'andamento scolastico». Il suo messaggio educativo, riconosce Draghi, «ha inciso in profondità. Diceva che la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non è solo individuale, ma sociale; non solo terrena, ma spirituale». Gli anni dello studio Ci sono anche i compagni di scuola, come Luca Cordero di Montezemolo che ne tratteggia un profilo da studente modello: «Non era mai spettinato, mai trasandato. Seduti nei banchi dietro il suo, noi cercavamo di trovare almeno un dettaglio fuori posto nei suoi capelli o nei vestiti, ma lui era sempre impeccabile e curatissimo». A Draghi, però, non piace la descrizione da secchione: «Non mi sono mai considerato il migliore. Andavo a scuola perché mi ci mandavano». L'educazione gesuita segna la formazione di Draghi. L'insegnamento inculcato nelle ore di studio e di preghiera, che ancora oggi ricorda, è che «le cose andavano fatte al meglio delle proprie possibilità, che l'onestà era importante e soprattutto che tutti noi in qualche modo eravamo speciali. Non tanto perché andassimo al "Massimo", ma speciali come persone umane». Una volta uscito dall'istituto, si iscrive all'università La Sapienza. E la scelta della facoltà è semplice: «Quando da piccolo tornavo a casa da scuola, la sera, con mio padre parlavamo spesso di argomenti economici. Sapevo già cosa volevo studiare all'università». In quegli anni, l'Italia è scossa dalle sollevazioni studentesche del '68. Draghi porta i capelli più lunghi di quanto non fossero al liceo, «ma non troppo», puntualizza lui tra il serio e il faceto. E comunque, aggiunge, «non avevo genitori a cui ribellarmi». Studia, invece, per laurearsi nel 1970 sotto la guida dell'economista keynesiano Federico Caffè con una tesi intitolata "Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio". Arrivano subito delle offerte di lavoro, ma dal legame con Caffè, che ne coglie le potenzialità, nasce l'opportunità di un dottorato negli Usa, su invito del professor Franco Modigliani, al prestigioso Mit di Boston, dove si trasferisce con la moglie. Il problema è che la borsa di studio copre solo la retta e l'affitto: «Per fortuna però il Mit aiutava gli studenti con incarichi di insegnamento pagati - ricorda Draghi -. Più avanti, dopo la nascita di mia figlia, trovai lavoro in una società informatica a settanta chilometri da Boston». E da lì, solo da lì, la strada inizia a essere in discesa.
Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 27 luglio 2021. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. L'altra sera ho accolto l'invito alla festa di Articolo 1 e, intervistato da Chiara Geloni, ho risposto addirittura alle sue domande. E il pubblico ha osato financo applaudire. Apriti cielo. La Lega ha chiesto le dimissioni di Speranza (giuro), il quale ha dovuto precisare che, quando parlo io, non è lui che parla (ri-giuro). Una domanda riguardava una frase di Speranza sull'estrazione sociale dei ministri del Conte-2, quasi tutti figli del popolo, diversamente da quelli che contano nel governo Draghi: tutti figli di papà, cioè del solito establishment, a cominciare dal premier, rampollo di un dirigente di Bankitalia, Bnl e Iri. La consueta combriccola di spostati, falliti e leccapiedi che bivacca sui social ne ha dedotto che ho offeso la memoria dei suoi genitori prematuramente scomparsi, dunque secondo Rep avrei fatto "una gaffe". Per dire com'è messa questa gente. Un'altra domanda riguardava la diceria, molto in voga fra i leccadraghi, sui Migliori discesi dall'empireo per salvarci dal "fallimento della politica". Siccome dissentivo, pensando che fosse ancora lecito, ho ricordato qualche "Migliore": Brunetta, Gelmini, Cingolani, Cartabia. E ho aggiunto che Draghi è un ex banchiere esperto di finanza, ma non ha la scienza infusa e i suoi atti dimostrano che non capisce una mazza di giustizia (solo ora lui e la Cartabia scoprono cosa c'è scritto nella loro "riforma" e quali catastrofi ne seguiranno), di politiche sociali (licenziamenti subito, nuova Cig chissà quando, Fornero consulente) e di sanità. Uno che fa un decreto per obbligare gli psicologi a vaccinarsi, pena il divieto di esercitare, e poi li cazzia perché si vaccinano; uno che sospende Astrazeneca mentre Ema e Aifa dicono che è sicuro e tre giorni dopo revoca la sospensione perché Ema e Aifa ri-dicono che è sicuro; uno che si fa la prima dose con AZ, prescrive il richiamo omologo per gli over 60 e poi, a 73 anni, si fa l'eterologo perché "ho gli anticorpi bassi" (in base a un test che gli scienziati ritengono farlocco); uno che vieta per decreto gli assembramenti e poi, previa trattativa Stato-Bonucci, autorizzai calciatori a violare il suo decreto con un mega-assembramento perché "con quella Coppa possono fare ciò che vogliono"; uno che pensa di convincere i No Vax a vaccinarsi dando loro degli assassini; ecco, uno così non mi pareva un grande esperto di vaccini. Ma l'unanime sdegno per la duplice lesa maestà, manco avessi detto "figlio di Tiziano", mi ha fatto ricredere: Egli è onnisciente e, a dispetto delle biografie, non è nato ai Parioli, ma a Betlemme, in una mangiatoia.
LE FARNETICAZIONI DI MARCO TRAVAGLIO CONTRO IL PREMIER MARIO DRAGHI. Il Corriere del Giorno il 27 Luglio 2021. Matteo Renzi si sofferma soprattutto sulla definizione di “figlio di papà”: “Le parole offensive e deliranti di Marco Travaglio su Draghi, orfano di padre all’età di 15 anni, dimostrano come il direttore del Fatto Quotidiano sia semplicemente un uomo vergognoso”, spiega l’ex premier su Facebook. L’oggetto della polemica è stato un passaggio in cui Travaglio dal palco della festa di Articolo Uno a Bologna difende il precedente Governo e Giuseppe Conte. Parte dalla premessa che anche loro hanno commesso degli errori. E che lui li ha sempre elencati. Poi dice: “Non li hanno mandati via per i loro errori. Li hanno mandati via per i loro meriti. E hanno messo al loro posto l’esatta antitesi. Un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo ci hanno raccontato che quindi è competente anche in materia di giustizia, sanità, vaccini. Ma, mentre, mi dispiace dirlo non capisce un cazzo di giustizia, sanità o sociale. Capisce di finanza”. La definizione “Un figlio di papà” usata da Marco Travaglio per definire Mario Draghi ha scatenato un fuoco di polemiche che finisce per dividere la maggioranza. Il senatore Pd Andrea Marcucci sottolinea il passaggio in cui Travaglio definisce Draghi “un curriculum ambulante”: “Draghi non deve certo vergognarsi del suo curriculum, della sua competenza e della sua storia familiare. A vergognarsi deve essere il solito Travaglio, che ha usato parole indegne”. Draghi, come scrive Aldo Cazzullo, infatti “a 15 anni ha perso il padre, Carlo, uomo di incarichi pubblici: in Bankitalia, liquidatore con Donato Menichella della Banca di Sconto, in Bnl nel dopoguerra. Poco dopo è mancata anche la madre. Draghi ha dovuto fare il capofamiglia, prendersi cura dei fratelli minori: Andreina, la storica dell’arte che nel 1999 ha scoperto a Roma un ciclo di affreschi medievali nel complesso dei Santi Quattro Coronati; e Marcello, oggi piccolo imprenditore”. Matteo Renzi si sofferma soprattutto sulla definizione di “figlio di papà”: “Le parole offensive e deliranti di Marco Travaglio su Draghi, orfano di padre all’età di 15 anni, dimostrano come il direttore del Fatto Quotidiano sia semplicemente un uomo vergognoso”, spiega l’ex premier su Facebook. Il capogruppo di Italia Viva al Senato, Davide Faraone, invita il ministro Roberto Speranza, leader di Articolo Uno, a prendere le distanze da Travaglio. “Le scuse di Travaglio non arriveranno mai, ma una cosa è leggere le volgarità sul suo giornale, che è già dura prova di resistenza umana, altra cosa è ascoltare queste parole dal palco di un partito che sta al governo proprio con Draghi e ciò – sottolinea Faraone – è francamente inaccettabile. Per non dire disgustoso. Forse le scuse dovrebbero arrivare proprio da chi siede accanto al presidente del Consiglio”. Un appello che Speranza raccoglie poco dopo: “L’uscita di Marco Travaglio sul presidente del Consiglio Mario Draghi è infelice e non rappresenta certo il punto di vista di Articolo Uno che sostiene convintamente la sua azione di governo”. Alcuni esponenti di Articolo Uno, però, sui social, hanno puntualizzato che negli spazi di dibattito è lecito esprimere il proprio pensiero. “Travaglio ha presentato un libro con il suo punto di vista, non diciamo a nessuno cosa dire e non dire”, ha ricordato Arturo Scotto. Per la Lega la precisazione del ministro non basta. “La presa di distanze di Speranza dai pesantissimi insulti rivolti da Travaglio a Draghi è quasi peggio degli insulti stessi. Domandiamo a Speranza che senso abbia stare al governo se i suoi applaudono convinti agli insulti del direttore del Fatto. Si dimetta”, ha commentato il vice segretario della Lega Lorenzo Fontana. La Lega attacca per bocca dei capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo: “È vergognoso che la platea di un partito di governo applauda apertamente un giornalista che insulta beceramente e volgarmente Mario Draghi. Travaglio si vergogni per le sue parole e lo stesso Speranza dovrebbe quantomeno riflettere sul suo ruolo. A questo punto infatti Articolo Uno decida se sostenere il governo oppure no”. Travaglio in serata è stato contattato dall’ agenzia ADN KRONOS per commentare le critiche e le aspre polemiche sollevate sui social, dopo l’epiteto di “figlio di papà” affibbiato al premier Mario Draghi? “Non me ne frega niente” è stata la squallida risposta di Marco Travaglio, direttore del ‘Fatto Quotidiano‘, che poi chiosa: “Come diceva Arthur Bloch, non discutere mai con un idiota: la gente potrebbe non notare la differenza…“ E non, caro Travaglio in questo caso la gente sa riconoscere il perfetto idiota, che non è sicuramente il premier Draghi, ma bensì un “montato” che lavora e mangia grazie ai soldi ricevuti in prestito con la garanzia fidejussioria del Governo Italiano.
Dagospia il 27 luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Travaglio ha sbagliato due volte, la prima a definire Draghi figlio di papà la seconda, come ha spiegato Chiara Geloni che lo intervistava, “nel volerlo confrontare con l’estrazione di Conte”. Ecco, Conte è passato in quattro anni – e con quasi le stesse pubblicazioni – da cultore della materia a professore ordinario, secondo i peggiori schemi non meritocratici dell’università italiana: se la scelta è tra figli di papà e figliocci di baroni non si sa di che morte morire! Quanto ai giornalisti indignati, che di parentele se ne intendono, vale il detto latino: Aut tace aut loquere meliora silentio: vero Francesco Merlo (che lavoro fa suo nipote?), vero Chiara Geloni (che lavoro faceva suo padre? L’operatore ecologico?) Lettera firmata
Da “la Repubblica” il 27 luglio 2021. Caro Merlo, «Mario Draghi è un figlio di papà che non capisce un cazzo di sanità, di sociale, di vaccini». Marco Travaglio, che partì dal vaffa di Grillo, ogni giorno supera un limite. Giorgio Villano - Milano
Il turpiloquio e l'insulto, che di Marco Travaglio sono il codice abituale di caricatura e di sbraco, sono segni di debolezza e non di forza, scorciatoie del pensiero per mancanza di argomenti, una prosa torva che, ha ragione caro Villano, ha perso anche la misura della dismisura lessicale degli esordi, quella del vaffa. È però pensiero comico-confusionale quel «figlio di papà» a un uomo di 73 anni che ha perso il padre quando ne aveva 15 e la mamma quando ne aveva 16, e tuttavia ha fatto la carriera che tutti sappiamo, non al Circolo Canottieri. Figli di papà sono i giovinastri che vivono di rendita e di cognome. I primi che mi vengono in mente sono Davide Casaleggio e Ciro Grillo. E potrei continuare.
Travaglio non si scusa: nuovi insulti a Draghi. Luca Sablone il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. Il direttore del Fatto rincara la dose: "Non capisce una mazza né di giustizia né di sanità, ma lui è onnisciente". E fa pure il simpatico: "È nato a Betlemme in una mangiatoia". Evidentemente Marco Travaglio non è sazio e ci tiene a punzecchiare costantemente il lavoro svolto da Mario Draghi e da molti ministri della squadra di governo. Le critiche e i dissensi sono ovviamente leciti e legittimi, ci mancherebbe. Ma nelle scorse ore il direttore de Il Fatto Quotidiano si è spinto oltre e ha definito il presidente del Consiglio "un figlio di papà", ignorando forse che è rimasto orfano sia di padre sia di madre in giovanissima età. Le considerazioni si sono fatte poi pesanti, accusando il capo dell'esecutivo di non capire "un c... né di giustizia, né di sociale, né di sanità". E adesso il giornalista ha voluto rincarare la dose, non facendo mezzo passo indietro e utilizzando anzi toni ironici per tentare di uscire fuori dalla bufera che ieri si è creata.
Travaglio rincara la dose. Così Travaglio ha intitolato il suo pezzo di oggi "Il piccolo fiammiferaio", commentando le reazioni politiche scaturite in queste ore. "Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa", è stato l'esordio del suo articolo. Il direttore del Fatto ha ricostruito il tutto: ha accettato l'invito a intervenire alla festa di Articolo uno, ha risposto alle domande di Chiara Geloni e ha ricevuto applausi dalla platea presente dopo le parole al veleno verso Draghi. Oggi ha rivendicato quanto detto in precedenza: i ministri di questo governo sono "tutti figli di papà, cioè del solito establishment, a cominciare dal premier, rampollo di un dirigente di Bankitalia, Bnl e Iri". E ha additato la "consueta combriccola di spostati, falliti e leccapiedi che bivacca sui social" di aver travisato il senso del suo discorso e di averlo interpretato come un insulto alla memoria dei suoi genitori prematuramente scomparsi.
"Adesso si dimetta". Scoppia la bufera su Speranza. Il giornalista ha voluto nuovamente ribadire che il presidente del Consiglio "è un ex banchiere esperto di finanza", ma che "non capisce una mazza di giustizia, di giustizia sociale e di sanità". Travaglio ha portato a sostegno della sua tesi esempi come il compromesso sulla riforma della giustizia, lo sblocco dei licenziamenti e il ritorno della Fornero. Poi ha fatto il simpatico e ha scritto che l'unanime sdegno per la duplice lesa maestà lo ha fatto ricredere: "Egli è onnisciente e, a dispetto delle biografie, non è nato ai Parioli, ma a Betlemme, in una mangiatoia".
"Non è esperto di vaccini". Travaglio ritiene che Draghi non sia un "grande esperto di vaccini". È probabile che il giornalista senta la mancanza dell'era targata Giuseppe Conte e Domenico Arcuri, ma ora deve farsene una ragione: a Palazzo Chigi c'è Mario Draghi e a gestire la campagna di vaccinazione c'è il Generale Francesco Paolo Figliuolo. Sono diverse le accuse mosse nei confronti del premier: il decreto per obbligare gli psicologi a vaccinarsi "e poi li cazzia perché si vaccinano"; il divieto di assembramento "e poi, previa trattativa Stato-Bonucci, autorizza i calciatori a violare il suo decreto con un mega-assembramento"; il tentativo di convincere gli italiani a vaccinarsi "dando loro degli assassini".
Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.
Da liberoquotidiano.it il 27 luglio 2021. Tweet muto di Guido Crosetto. In effetti non servono parole. Il "fratello d'Italia" ha pubblicato una foto di Gad Lerner della rivista Oggi in cui è in vacanza con Carlo De Benedetti e rispettive consorti. Più sotto c'è il cinguettio di Gad Lerner in difesa di Marco Travaglio che domenica sera 25 luglio, durante la festa di Articolo Uno a Bologna ha insultato il premier Mario Draghi, un "figlio di papà" che, testuale, "non capisce un c***o". E chissenefrega se è orfano dall'età di 15 anni e se ha il curriculum che ha. Tant'è. Gad Lerner ha scritto un post che recita così: "Che Mario Draghi abbia un profilo tecnocratico-padronale è all'evidenza di tutti. E risalta nello zelo degli adulatori di ogni risma che si fingono indignati con Marco Travaglio. Li ringrazio perché oggi mi fanno sentire ancor più contento di scrivere sul Fatto quotidiano". No comment, verrebbe da dire. Ma il popolo social commenta eccome. "La sinistra da scarpe amatoriale fatte a mano da pseudo operai sottopagati ahhh con Rolex al polso su camicia... La sinistra da Unità in tasca la domenica, dove è?", scrive uno. "Avere un profilo tecnocrate padronale é uno dei pochi modi per governare con una classe politica impreparata, inetta, scialacquatrice di denaro pubblico, ignorante, che pensa solo nel breve periodo e al collegio elettorale", aggiunge un altro. "Comunisti col rolex", si legge ancora. Insomma, Travaglio sbaglia e Gad Lerner lo difende. "Un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo sarebbe competente anche in materia di sanità, di giustizia, di vaccini eccetera. Invece mi dispiace dirlo che non capisce un c***o, né di giustizia né di sociale né di sanità. Capisce di finanza ma non ha la scienza infusa. E non ha neanche l'umiltà", aveva attaccato il direttore del Fatto. Secondo il quale era meglio, manco a dirlo, Giuseppe Conte. Per Lerner, ovviamente, ha ragione.
Intellettuali e politici inghiottiti dal travaglismo. Travaglio e Scanzi sono diventati gli oracoli di una sinistra sciagurata. Michele Prospero su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Più che i liquami di Travaglio, che piovono senza fermarsi mai e tornano sempre in faccia al mittente, conta il luogo in cui le parole contro Draghi che “non capisce un cazzo perché è figlio di papà (Draghi è rimasto orfano da ragazzino, ndr)” sono state pronunciate. Che “Articolo uno” trasformi la sua festa bolognese in una passerella di Travaglio, Scanzi è un piccolo evento che dimostra come un’area politica un tempo rilevante sia ormai perduta alla prospettiva di una sinistra autonoma. Quel materiale grigiastro che il Fatto riversa contro Mattarella, Cartabia, Draghi è da tutti annusato come maleodorante e però che il movimento di D’Alema e Bersani decida di affidare il posto d’onore proprio al foglio della rivolta anti-sistema è un accadimento politico. Questa volta la massiccia campagna dei giornali più vicini ai (contro)poteri politico-giudiziari dovrebbe sortire come effetto non già l’alterazione degli equilibri politico-elettorali (come è accaduto in passato quando proprio Bersani fu indotto anche dalle “inchieste” del Fatto alla non-vittoria) ma l’aggregazione subalterna del Pd e dei vari cespugli nello schieramento a traino di Conte. La tenaglia che stringe il Pd è troppo forte perché sia spezzata da un partito così fragile nella cultura politica. E poi proprio quei settori prima interni al Pd e ora a lato di esso, che in nome dell’autonomia della politica si mostravano in passato refrattari a forme di giustizialismo antipolitico, ora si ritrovano in prima fila nel guidare la confluenza strategica della fu sinistra sotto la leadership di Conte. Del resto i toni del dibattito politico sono accesi sino all’inverosimile. Uno studioso del mondo classico come Luciano Canfora non ha remore critico-filologiche ad accostare Draghi al dispotismo di Stalin e alla sua “concentrazione di potere assoluto, monarchico”. A suo dire, questo insopportabile autocrate contemporaneo oggi arbitrariamente al governo in Italia, “potrebbe pensare di sistemare la Cartabia al Quirinale e tenersi palazzo Chigi. O fare l’inverso”. Il potere si configura come una cosa, un pacco postale da piazzare, un oggetto da spostare, un bene da dare in affidamento. Uno scolaro di Rodotà, il giurista Ugo Mattei, si sente a casa propria sotto le bandiere di Forza Nuova perché bisogna insorgere contro “le verità di sistema” e quindi contro il governo Draghi che è “la quintessenza di una visione autoritaria e ricattatoria del potere tecnocratico”. Questo accade nella élite intellettuale della sinistra. E nel popolo? Sembra che le invettive di Travaglio contro “Draghi figlio di papà” siano state accolte, tra qualche timido mugugno, con una ovazione delle persone presenti. Aristotele scriveva che l’essenza della retorica si racchiude sempre nella questione del destinatario. E il pubblico che reagisce con gesti di grande approvazione alle metafore di Travaglio rivela come sia degradato lo stato della cultura politica di massa. Se si aggiungono anche le incredibili proteste di Landini sull’obbligo di vaccino, e quindi contro la tutela pubblica della salute operaia in fabbrica, si ha la percezione di uno sviamento preoccupante della sinistra politica e sociale. Se attorno alla tregua tecnica, che ridisegna le condizioni della ripartenza del meccanismo capitalistico da trent’anni inceppato, il sistema dei partiti è lasciato al suo stato di fluidità non ci sono concrete speranze: rispetto alle flebili istanze di una ragione impotente, il populismo coltiva passioni e anche regressioni più forti. E facendo leva su pulsioni elementari esso è capace di riacquistare baldanza dopo l’illusione di un accantonamento momentaneo della fuga nella irrazionalità. Alla ricerca di un Conte perduto, e con la volontà di potenza raccolta nel tavolino attrezzato davanti a Palazzo Chigi nel giorno dell’abbandono, i partiti di centro-sinistra non tengono in considerazione la sola verità che Grillo ha sinora pronunciato e cioè che l’avvocato è un assoluto nulla. Il Pd e i suoi satelliti sono rassegnati a prendere una vacanza sudamericana (sussidi nella decrescita, ozio creativo nella de-industrializzazione, giustizialismo) e non sono in grado di costruire un supporto politico indispensabile a Draghi che procede con risolutezza ma senza una organica forza coalizionale. Il segretario venuto da Parigi non ha la capacità, e neppure l’intenzione, di fare da regista alla definizione di un nuovo centro-sinistra che assuma proprio l’opera di Draghi come fondativa. Vaga senza un progetto dietro un Conte disarcionato e da tempo mostra preoccupanti segni di irrilevanza. Tutto diventa palpabile quando con il tempo affiora l’inconsistenza di tutte le sue proposte che si dileguano perdendosi nel chiacchiericcio di un tweet. ll Pd e i suoi cespugli, inghiottiti dalla (anti) politica-rancore di Conte, sono destinati alla celere marginalizzazione. Non hanno la forza e il pensiero per riprogettare le funzioni dei soggetti della politica dopo la discontinuità qualitativa che Draghi ha immesso nella vicenda politica, sociale e istituzionale. Questo è un vuoto che per la prima volta si presenta in forme così eclatanti. Fa tristezza la notizia di una sinistra sia pure minore che pende dall’oracolo di Travaglio. Michele Prospero
La polemica. Marco, che Travaglio: il figlio di papà divide a metà la rete. Piero de Cindio su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Marco Travaglio ne combina una nuova accusando il Premier Draghi di essere un figlio di papà. Peccato però che la rete ha impiegato poco nello scoprire che l’ex presidente della BCE sia orfano dalla tenera età adolescenziale. Tanti i commenti indignati verso il direttore del Fatto, a cui però sono giunti in soccorso il conduttore Luca Telese ed il Professore Tommaso Montanari che hanno provato a giustificare la dichiarazione che ha destato molto scalpore. A fare da contorno a tutto il resto è certamente il fatto che le parole offensive di Travaglio nei riguardi del Premier e della sua famiglia benestante sono arrivate dal palco della festa di Articolo 1 dove un imbarazzato ministro Speranza ha dovuto prendere le distanze dall’invitato scomodo. Nel giro di poche ore, il data journalist Livio Varriale ha analizzato 18.409 tweets che hanno imperversato sul social del cinguettio ed il risultato dell’indignazione non sarebbe così scontato.
Top Tweets
“La dichiarazione di Travaglio è stata forte ed ha contribuito nel far parlare una festa anonima ed irrilevante giornalisticamente parlando come quella di Articolo 1” Esordisce l’autore della ricerca “Renzi ha avuto la sua occasione per andare addosso al suo nemico storico e sorprende anche la posizione di Lapo Elkann. Bene i giornalisti Ederoclide e Capone che hanno evidenziato il fatto che fosse rimasto orfano da quando era 14 enne”.
Sentiment draghi
Dei Tweets analizzati tramite il sentiment, c’è però un dato che preoccupa e non poco e precisamente quello che il pubblico è nettamente indeciso se appoggiare uno o l’altro. “Le ragioni di Travaglio indignano, ma Draghi non riscuote la giusta considerazione dalla massa interessata alle questioni politiche. Sui 9.313 tweets analizzati contenenti la parola Draghi e figliodipapa, solo il 54,87 per cento è positivo, contro il 45 per cento di commenti che danno ragione a Travaglio.
Travaglio Montanari Telese
Bisogna riconoscere a Travaglio che fuori dalle bolle di moderati, liberisti e amanti del politicamente corretto, c’è uno zoccolo duro che non apprezza Draghi e ne chiede le dimissioni. “certo è che il campione è ristretto al popolo dei social, ma analizzando bene la composizione, c’è una congiunzione di elettori della lega, Fratelli d’Italia e ovviamente nostalgici del Movimento Cinque Stelle che fu”. Sui 6.906 tweets che coinvolgono il tris degli “alternativi” Travaglio, Telese e Montanari, la massa social si è spaccata mostrando una leggera positività per le posizioni contro il premier.
Articolo Uno
Nel mentre il pubblico si scontra sulle dichiarazioni di Travaglio, chi ne esce peggio di tutti, su un campione limitato di tweets che marginalmente hanno interessato, è Articolo 1. Travaglio è un ospite di successo per animare una festa, ma non il festeggiato.
Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format
La gaffe alla festa di Articolo Uno. Travaglio si scaglia contro Draghi ma resta solo: Conte tace e "a mezzo Casalino" smentisce il Fatto. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Gli ci vorrebbe un convento senza connessione wifi, “chiuderli” lì dentro tre giorni e chiarire con ciascuno, uno per uno dei 270 parlamentari 5 Stelle, cosa vogliono fare da grandi. E poi tirare la riga e scrivere il risultato, favorevoli o contrari. Avanti con Draghi o basta con Draghi. Gli ci vorrebbero tre giorni così a Giuseppe Conte per vedere di capirci qualcosa nel suo Movimento. Gli ci vorrebbe, anche, di chiarire bene i suoi rapporti con Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano: solo il giornale di riferimento o il direttore di quel giornale ne è anche la vera cabina di regia? Perché in entrambi i casi Conte deve chiarire il suo pensiero rispetto a quanto è uscito di bocca al direttore de Il Fatto domenica sera alla Festa di Articolo Uno: «Draghi è un figlio di papà che non capisce un cazzo». Che detto di un banchiere rimasto orfano di entrambi i genitori a vent’anni e che, cresciuto con gli zii, ha scalato prima Banca d’Italia e poi la Bce, è non solo informazione tecnicamente sbagliata (dunque grave che sia detta in pubblico) ma eticamente volgare, violenta, cattiva. Di sicuro Giuseppe Conte ha smentito il titolo de Il Fatto di domenica mattina: “O si cambia (la riforma della giustizia, ndr) o leviamo la fiducia”. Era ancora notte fonda quando Rocco Casalino ha scritto una nota per smentire tutto visto che «Conte non ha mai parlato». Ma certe smentite valgono più di altrettante conferme. È la settimana della verità (e quante ne abbiano contate in questi lunghissimi tre anni). Per il Movimento, soprattutto. La cartina di tornasole è la riforma del processo penale. Martedì 20 luglio sono piovuti sul tavolo mille e seicento emendamenti. Giovedì 22 Draghi ha chiesto al governo, ottenendola, la fiducia preventiva. L’arrivo del decreto è slittato dal 23 al 30 luglio. Tutti ad aspettare che i 5 Stelle trovino la giusta mediazione grazie alle doti maieutiche dell’avvocato di Volturana Appula Giuseppe Conte. Che deve produrre il non facile risultato entro questa settimana. Una delegazione sta trattando direttamente con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ne fanno parte la sottosegretaria Anna Macina, vicina a Di Maio e da annoverare tra le “trattativiste”, e la capogruppo in Commissione Giulia Sarti, pasdaran della linea Bonafede, l’ex ministro che non ne vuole sapere di retrocedere di un millimetro rispetto alla sua riforma che non ha abbreviato di un solo giorno i processi (l’Europa ci chiede di ridurre i tempi del 25% rispetto a quelli attuali) e ha introdotto il “fine processo mai”, cioè la prescrizione bloccata. Conte a partire da domattina ha deciso di incontrare per tre giorni tutti i parlamentari divisi per tematiche (e commissioni) per provare a scogliere i tanti nodi che si sono creati in questi sette mesi di sostanziale anarchia all’interno del Movimento. Il non-detto che invece emergere di continuo è «uscire dalla maggioranza pur di difendere una pietra miliare del Movimento: la prescrizione Bonafede». Parcheggiato nel frattempo Grillo, si può dire che il Movimento segua una linea di frattura precisa. C’è la linea Travaglio per cui o tutto resta così com’è perché la riforma Cartabia «è una schiforma che manda al macero 150 mila processo tra cui anche quelli per mafia» oppure tanto vale uscire dal governo di uno che «non capisce un cazzo». Attenzione però: uscire dal governo non vuole dire chiudere la legislatura (punto su cui Travaglio si troverebbe solo) ma solo uscire e mandare avanti il governo Draghi che tanto i numeri li ha comunque. Sarebbe la pacchia suprema per Travaglio & soci: poter sparare ogni giorno a palle incatenate contro la maggioranza Pd-Forza Italia-Lega e responsabili vari. C’è poi la linea Di Maio e governisti dove il mantra è “mediare”. Anche ieri pomeriggio il ministro degli Esteri, che ha già avuto un ruolo chiave nel superamento della crisi Conte-Grillo, ha ribadito la strada da seguire. «Confido molto in Giuseppe Conte che ha la mia totale fiducia e dobbiamo lavorare tutti insieme per rafforzare la sua leadership. Sono certo che troverà una soluzione all’altezza delle nostre aspirazioni: evitare che i reati di mafia restino impuniti e restare uniti perché diversamente siamo più deboli». Quello del titolare della Farnesina è un appello contro le divisioni interne e le bandierine ideologiche. È evidente che la ministra Cartabia non vuole sacche di impunità meno che mai in quel territorio largo, fatto anche di microreati, dove ingrassano le mafie. Ed è altrettanto evidente che è propaganda attribuire alla riforma Cartabia simili conseguenze. Una settimana chiave. Ogni giorno la situazione si può sbloccare o saltare del tutto. Quella di ieri è sembrata ma non è una giornata persa. La Commissione Giustizia, che deve valutare gli emendamenti e dare un ordine ai lavori prima dell’aula, non ha nei fatti lavorato. Tutto rinviato a oggi. Anche la provocazione di Forza Italia che di fronte ai 1600 emendamenti ha chiesto di «allargare il perimetro di intervento della riforma alla ridefinizione del reato di abuso d’ufficio». Contro il quale, tra l’altro, sono scesi in piazza decine e decine di sindaci. La Trattativa, quella vera, però va avanti al ministero della Giustizia. La partita è in mano a Conte. E a Travaglio. Da cui l’ex premier non ha preso le distanze, mentre ha fatto infuriare Italia viva, spingendo a intervenire in modo forse un po’ troppo blando il ministro della Salute Roberto Speranza – alla cui festa di partito è accaduto il fattaccio – che ha bollato come “uscita infelice” quella del giornalista. Non lo ha fatto per niente il Movimento 5 Stelle: non una parola a tutela della sostanza e dell’immagine del Presidente del Consiglio. Meno che mai lo ha fatto Conte. E certi silenzi valgono più di mille di dichiarazioni su presunte mediazioni.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Sono solo hooligans che invadono il campo. Conte dichiara guerra a Draghi, il rancore dell’azzeccagarbugli beniamino di Travaglio e protettore di Arcuri. Claudio Martelli su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Premesso che il Csm non ha alcun titolo per giudicare atti del governo e del Parlamento, considerato che questo Csm è in balia delle correnti più politicizzate e più intrallazzone della magistratura e che a guidare la contestazione è un giurista di Catanzaro designato dai 5 Stelle ed esperto in diritto della navigazione ci si chiede: primo, se sia il caso di far intervenire la forza pubblica come accade negli stadi quando un tifoso squilibrato invade il campo di gioco; secondo, se questo sia il primo atto della guerriglia contro il governo Draghi di Conte Giuseppe il rancoroso azzeccagarbugli beniamino di Travaglio e protettore di Arcuri. Claudio Martelli
TRAVAGLIO? MA MI FACCIA IL PIACERE! Dagospia il 4 febbraio 2021. BREVE SELEZIONE DELLE PROFEZIE DEL RASPUTIN DI CONTE COLTE SUL “FATTO QUOTIDIANO” SUL TEMA MARIO DRAGHI:
MA MI FACCIA IL PIACERE – 2 NOVEMBRE 2020. Il Covid alla testa. “Appena guarito ho sognato un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Tra i suoi ministri, oltre ai capi dei partiti di maggioranza e opposizione, le più autorevoli e prestigiose personalità politiche e ‘tecniche’ di cui questo Paese dispone” (Massimo Giannini, Stampa, 1.11). Non bastava il Covid: pure gli incubi.
SCI-MUNITI – 24 NOVEMBRE 2020. Il Covid-19 ci ha regalato due ondate e, se tutto va male, a gennaio arriva la terza. Invece la cosiddetta informazione sforna un’ondata alla settimana. Ma non di virus: di cazzate. C’è la settimana del governo Draghi (la prima di ogni mese), quella del Mes (la seconda), quella del rimpasto, quella delle troppe scarcerazioni (colpa di Bonafede), quella delle troppe carcerazioni (colpa di Bonafede), quella del governo senza “anima”, quella di Conte che decide sempre tutto da solo, quella di Conte che non decide mai niente neanche in compagnia.
STORMIR DI FRONDE – 4 DICEMBRE 2020. La riforma del Mes, secondo alcuni addirittura peggiorativa di quel prestito-capestro per gli Stati in bancarotta, passerà comunque: FI o chi per essa, viste le pressioni europee, nel voto del 9 dicembre rimpiazzerà i dissidenti 5Stelle. Che così avranno ottenuto questo triplice risultato: screditare vieppiù il M5S, proprio mentre i poteri marci vogliono buttarli fuori da Palazzo Chigi e i giornaloni fanno a gara a demolire le loro conquiste (vedi le fake news del Corriere sul Reddito di cittadinanza); indebolire il governo Conte (di cui il M5S è l’azionista n.1 e che per questo è così inviso ai padroni del vapore); rafforzare il partito delle larghe intese e del governo Draghi all’insaputa di Draghi.
DRAGON BALL – 17 DICEMBRE 2020. Siccome se ne sentiva la mancanza, si riparla di governo Draghi, sempre all’insaputa di Draghi. È bastato che dicesse le solite frasi alla Catalano: guai ad aiutare “aree dove il mercato sta fallendo”, meglio “progetti utili”, “la sostenibilità del debito sarà giudicata da come verrà impiegato il Recovery”. E subito s’è levato il solito coro dei provincialotti con la bocca a cul di gallina e l’aria tra il rapito e lo svenuto che doveva avere Mosè sul Sinai dinanzi al roveto ardente. “Ripartire da Draghi si può”, “il monumentale rapporto Draghi” (rag. Cerasa, Foglio). “Sempre bello leggere Draghi” (l’Innominabile). “Le sue analisi sono una traccia” (Gelmini, FI). “Se Conte non ce la fa, c’è Draghi” (Nannicini, Pd). “Governo Draghi senza Bonafede, Catalfo e Azzolina” (Richetti-Chi? l’altro calendiano oltre a Calenda). “Il monito di Draghi, la visione che serve” (Messaggero). “Il 55% degli italiani preferisce Draghi per il Recovery” (Libero). “Draghi, serve sguardo lungo” (Fubini, Corriere). “Draghi, i partiti e la realtà urgente” (Folli, Repubblica). Insomma, il governo Draghi è fatto. Il programma è il suo intervento al Gruppo dei Trenta, l’allegro simposio di finanzieri, accademici, banchieri centrali, banchieri sfusi, bancarottieri di nazioni intere come l’ex ministro argentino Cavallo e l’ex presidente messicano Zedillo, insomma controllori e controllati (si fa per dire) e altri samaritani, fondato nel 1978 da Rockefeller, che si riunisce due volte l’anno a porte chiuse come il Gran Consiglio dei Dieci Assenti di fantozziana memoria. E la maggioranza in Parlamento? Quella non c’è, ma per i sinceri democratici de noantri è un trascurabile dettaglio. Il Giornale informa che “il Professore da qualche settimana ha lasciato la casa di campagna e s’è trasferito nel suo appartamento romano”. Mecojoni. E “il suo ufficio di rappresentanza alla Banca d’Italia è diventato la sua base operativa”. Apperò. Già ci pare di vederlo destreggiarsi festoso fra un veto dell’Innominabile, un distinguo di Orlando, un emendamento di Marcucci, una bizza della Bellanova, un capriccetto della Boschi, un tweet di Faraone, un ultimatum dei dissidenti grillini, un rutto di Salvini, una supercazzola di Giorgetti, un appuntino di Letta su Mediaset e un pizzino di Ghedini sulla giustizia. Folli però è in ambasce: “Stupisce che qualche forza politica non abbia immediatamente fatto propria e rilanciato l’analisi di Draghi”. Giusto: che aspettano i partiti tutti a recarsi in processione nel suo appartamento romano o nella sua base operativa a baciargli la pantofola e incoronarlo re? Folli non sta più nella pelle, tant’è che ha fatto pure un fioretto: se lo ascoltano, si taglia il riportino.
PULIZIE DI FINE ANNO – 27 DICEMBRE 2020. E il rimpasto? Sparito. E il governo Draghi? Mai visto. E il Mes che Conte e il M5S fingevano di non volere ma sotto sotto erano pronti a prendere di corsa? Mai preso.
MA MI FACCIA IL PIACERE – 28 DICEMBRE 2020. Tu scendi dalle stelle. “Il governo galleggerà, ma meglio un governo Draghi. Si può fare” (Paolo Mieli, Foglio, 22.12). “Il premier è un pirata. Conte usurpa i poteri di ministri e governatori. Un governo Draghi? Avrebbe autorevolezza” (Sabino Cassese, Libero, 22.12). “Il “modello italiano” ha fatto vittime e danni. Draghi? Ci può salvare” (Luca Ricolfi, sociologo, il Giornale, 27.12). “Una intera generazione di politici dovrebbe saper ricorrere a uomini di esperienza come Prodi e Draghi” (Marco Damilano, Espresso, 27.12). Draghi, Draghi, Draghi, paraponziponzipò.
CIAONE – 29 DICEMBRE 2020. Resta da decidere il premier. Draghi risponde: “Fossi matto”. E parte la mattanza fra i pretendenti, che sommati insieme non fanno un terzo di Conte nei sondaggi. Poi iniziano le ricerche di una maggioranza: uno spasso, visto che i 5Stelle si fanno incredibilmente furbi e non prestano all’ammucchiata un solo voto. Passano le settimane e l’Ue, stufa di aspettare il Recovery Plan, ci cancella la prima rata. Così Mattarella manda tutti a votare, tranne i leader che han causato la crisi, barricati in casa per paura del linciaggio. Conte, visti i sondaggi bulgari, è costretto a tornare in pista. Ma, anziché farsi un partito, accetta l’offerta di guidare il nuovo direttorio dei 5Stelle. E li riporta al 30%, rubando voti a destra, FI e Pd e mandando Iv sottozero, con una campagna elettorale di un solo slogan: “Ciaone”.
VOCABOLARIO 2021 (31 DICEMBRE 2020). Governo Draghi. Perché esista, occorre che l’attuale governo cada, che in Parlamento si formi una maggioranza disposta a votarne uno guidato da Draghi e soprattutto che Draghi accetti di guidarlo. Chi dice di stimare Draghi dovrebbe almeno chiederglielo, anziché nominare il suo nome invano per darsi un tono e fingere di esistere sulle e alle sue spalle.
PERCHÉ LO FA? (6 GENNAIO 2021) A Messer Due Per Cento han detto che Draghi non vede l’ora di mettersi al suo servizio. E lui ci ha creduto.
CONTE ALLA ROVESCIA (12 GENNAIO 2021) Noi ci ciucceremo per qualche mese un’ammucchiata con Pd, FI, Iv, Calenda e frattaglie poltroniste di Lega e M5S guidata dai premier preferiti dai giornaloni (Cottarelli, Cartabia, Amato, Cassese, robe così: Draghi non è fesso). Una sbobba talmente immangiabile che molta gente urlerà: “Ridateci Conte”. E lo costringerà a tornare in pista, come capo dei 5Stelle o di una lista al loro fianco. Allora sì che ci sarà da divertirsi. Perché si voterà prima che gl’italiani si scordino chi ha fatto cosa.
HO VISTO COSE… (21 GENNAIO 2021) Quelli che arriva il governo Draghi, anzi Cottarelli, anzi Cartabia, anzi Franceschini, anzi Di Maio, anzi Guerini (tutti i giornali) e invece niente, un’altra volta. Quelli che “il governo è morto e al Colle farò il nome di Draghi” (Innominabile) e neanche li han fatti salire, al Colle.
SÌ MA È ANCORA LUNGA (2 FEBBRAIO 2021) Tutte le chiacchiere e i fiumi di inchiostro sui governi Draghi, Cottarelli, Cartabia, Severino, Giovannini, Panetta, Fico, Di Maio, Patuanelli, Franceschini sono sprecati: la scelta del premier spetta al partito di maggioranza relativa, cioè ai 5Stelle, che l’han detto e ripetuto: “O Conte o andiamo all’opposizione”.
UN NO GENTILE MA NETTO ( 3 FEBBRAIO 2021) (…) E meno male che non era una faccenda di poltrone. Ora, perché le cose non finiscano male con governissimi o altri orrori, basta che M5S, Pd e LeU siano coerenti e dicano un garbato ma fermo no all’ammucchiata del Colle e di Draghi, per salvare l’unica coalizione che può competere con queste destre: la via maestra è il rinvio di Conte alle Camere; e, in caso di sfiducia, il voto al più presto possibile. Di regali a Salvini & C. ne ha già fatti troppi il loro cavallo di Troia.
Marco Travaglio, insulti a Silvio Berlusconi: "Psiconano amico dei mafiosi. Il M5s si suicida a governare con lui". Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. A Marco Travaglio sta "sfuggendo di mano" il M5s. Insomma, dopo l'addio di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, dopo la cacciata del suo "preferito", il direttore è disperato e furibondo. Si diceva: i grillini. Sin dal principio, mister Fatto Quotidiano aveva chiesto di non appoggiare Mario Draghi. Il M5s sembrava seguirlo poi, ieri, giovedì 4 febbraio, la retromarcia introdotta da Luigi Di Maio. Nel nome della poltrona, ovviamente. Dunque oggi ecco il fondo di Travaglio, talmente disperato da "scordare" (si fa per dire...) Matteo Renzi e tornare ad insultare il nemico di sempre, l'uomo che lo ha ossessionato per una vita intera e contro il quale torna a vomitare livore nel momento per lui più duro. Chi? Silvio Berlusconi, ovviamente, protagonista assoluto della prima pagina del Fatto, il cui titolo di apertura recita: "Governare con lo psiconano?". Domanda ovviamente retorica e altrettanto ovviamente rivolta ai grillini. Nel suo fondo, Travaglio, premette: "Ci sono vari modi per suicidarsi: l'aspide, la cicuta, il gas, il cappio, il balcone, la finestra, il ponte, la clinica svizzera, i barbiturici, le vene tagliate nella vasca da bagno, il topicida, la pasticca di cianuro. Tutti tragici, ma rispettabili. Il meno onorevole è consegnarsi volontariamente al carnefice pensando o raccontando che così lo si migliora e lo si controlla. Eppure è la strada che, secondo indiscrezioni, pare abbiano scelto Grillo e parte dei 5Stelle poche ore dopo che i gruppi parlamentari che avevano deciso (a maggioranza ampia al Senato e più risicata alla Camera) di non appoggiare il governo Draghi". Insomma, per il direttore e "leader" grillino, i grillini si stanno suicidando. Come detto in premessa, a Travaglio sta "sfuggendo" il M5s. Dunque Travaglio aggiunge che il carnefice non è Draghi, ma "i carnefici sono i compagni di strada che si ritroverebbero accanto i 5Stelle con l'insano gesto. Draghi non è un drago sceso dal cielo che ripulisce, con un colpo di coda e di spugna, le lordure di un Parlamento pieno di voltagabbana, sciacalli e squali". Il direttore passa poi in rassegna quelle che definisce "le 4 alternative di Draghi". Che sarebbero: "Governo giallorosa-bis. Includerebbe M5S , Pd e LeU, che si ritufferebbero nelle grinfie dell'Innominabile, di nuovo decisivo, come se questi 17 mesi di sevizie non fossero bastati. Ammetterebbero che il problema era Conte (non una grande idea per chi lo vuole candidato premier). E ricomincerebbero a litigare su Mes, giustizia, reddito, bonus, autostrade ecc. Governo Ursula. Terrebbe insieme M5S , Pd, LeU, FI , Iv, Bonino e Calenda. "Tutta gente col pelo sullo stomaco abituata da anni a inciuciare e a far digerire di tutto ai rispettivi elettori (reali o virtuali), con un'eccezione: i 5Stelle", tromboneggia Travaglio, come se negli ultimi anni i grillini non avessero fatto digerire ai loro ormai pochi elettori tutto e il contrario di tutto. E dopo questa risibile tromboneggiata, ecco che Travaglio si gioca il jolly-Berlusconi. I grillini, scrive, "con tutti possono governare, fuorché col pregiudicato amico dei mafiosi e con l'irresponsabile che ha rovesciato Conte per espellerli dal consorzio civile, cancellare le loro riforme, sputare sulle loro bandiere, radere al suolo ogni loro traccia e spargervi il sale misto al veleno dei Calenda & Bonino". Certo, c'è anche Matteo Renzi di mezzo. Ma nel momento della disperazione, et voilà, ecco il Cavaliere, lo "psiconano", "pregiudicato", "amico dei mafiosi". Che miseria...
Otto e mezzo, Marco Travaglio fuori controllo: mani a megafono, l'insulto a pieni polmoni contro Silvio Berlusconi. Libero Quotidiano il 06 febbraio 2021. "Il tabù dei 5 Stelle si chiama Silvio Berlusconi". Marco Travaglio perde il controllo a Otto e mezzo, in collegamento con Lilli Gruber su La7. Il direttore del Fatto quotidiano mette le mani a megafono intorno alla bocca e grida contro il Cav: "È un PRE-GIU-DI-CA-TO! Nove volte prescritto, e loro sono caduti anche perché hanno bloccato la prescrizione dopo il primo grado. Ma te li vedi che fanno i ministri con gli uomini di Berlusconi che vogliono cancellare la riforma della prescrizione? Pensate veramente che la politica sia una pagliacciata a questi livelli?". Gli altri ospiti, Massimo Cacciari e Massimo Giannini, se la ridono e forse sospettano che il manicheismo di Travaglio non abbia troppo fondamento. "Dovranno trovare un altro modo per evitare la scissione, l'astensione o che ne so l'appoggio esterno. Ma se vedi i ministri dei 5 Stelle con i ministri di Berlusconi la gente gli sputerà in faccia molto più di quando hanno fatto il governo con la Lega", tiene duro Travaglio, agitatissimo dalla prospettiva. Il direttore della Stampa Giannini, però, avanza una semplicissima obiezione: "Hai ragione ma stanno per fare un governo con Draghi, che nella campagna elettorale del 2018 additavano come il nemico del popolo. Le cose cambiano, è triste ma cambiano". Travaglio ribatte: "Ma devi aggiungere che farebbero un governo con i due Matteo, Salvini che ha fatto cadere il Conte 1 per radere al suolo i 5 Stelle, e Renzi che ha fatto cadere il Conte 2 per radere al suolo i 5 Stelle. Se succede, i loro elettori gli sputerebbero in faccia. Perché sarà strano, ma ci sono partiti che hanno ancora elettori".
Marco Travaglio l'ha presa bene: "Matteo Renzi? Crisi delinquenziale, invidioso allergico alla giustizia". Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Ciao ciao, Giuseppe Conte. Fatto fuori. A casa. Cacciato. Niente più Palazzo Chigi. Arriva (forse) Mario Draghi. E secondo voi come la ha presa Marco Travaglio? Ecco, maluccio, per usare un'eufemismo. Un travaso di bile, quello firmato dal direttore del Fatto Quotidiano in prima pagina oggi, mercoledì 3 febbraio, il primo giorno dell'Italia senza il "suo" Conte". Furia cieca contro Matteo Renzi, un profluvio di insulti. Insomma, per Travaglio una spettacolare, godibilissima, crisi di nervi. Di cui vi diamo un piccolo assaggio. Di seguito, l'attacco del pezzo di Travaglio: "Non è vero che l'esplorazione di Fico sia stata totalmente inutile. Non ci ha ridato un governo, ma almeno ha spiegato fino in fondo a chi ancora avesse dubbi cosa c'era dietro la crisi più demenziale e delinquenziale del mondo scatenata da Demolition Man: al netto delle ragioni psicopolitiche, dall'invidia per la popolarità di Conte alla frustrazione per l'unanime discredito che lo precede su scala mondiale (Arabia Saudita esclusa), ci sono l'inestinguibile bulimia di potere, l'acquolina in bocca per i 209 miliardi in arrivo, la fame atavica di poltrone del Giglio Magico e la congenita allergia per una giustizia efficiente e uguale per tutti", scrive il direttore. Dunque, in breve sintesi. Crisi "demenziale e delinquenziale", innescata da Renzi, al quale gli aggettivi devono essere evidentemente riferiti. Poi le ragioni "psicopolitiche", dell'"invidioso" e "frustrato" Demolition Man. E ancora, la "bulimia di potere", la "fame atavica di poltrone", e anche la "congenita allergia per una giustizia efficiente e uguale per tutti", la quale giustizia, stando al pensiero di Travaglio, sarebbe stata garantita da Alfonso Bonafede (il Bonafede che Renzi non avrebbe mai digerito). Insomma, grassissime risate. Il fondo di Travaglio ovviamente prosegue. Ma tanto basta per farvi capire come la abbia presa. Giornataccia, per il direttore...
Da vigilanzatv.it il 5 febbraio 2021. Durante lo speciale Tg1 dedicato alle consultazioni di Mario Draghi, il conduttore Francesco Giorgino ironizza con il Direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, che per settimane è andato ribadendo il suo desiderio di un Conte Ter, oltre ad aver escluso categoricamente per l'appunto la possibilità di un incarico all'ex presidente della BCE . "Posso chiederti se il tuo stato d'animo è quello di delusione dopo l'incarico a Mario Draghi?" domanda Giorgino a Travaglio. Questi risponde seccamente: "Assolutamente no, non faccio il politico, osservo la situazione dalla mia finestra. La politica non mi provoca delusioni né particolari stati di eccitazione", per poi commentare tuttavia sarcasticamente l'entusiasmo generale che accompagna l'arrivo di Draghi, come si può vedere nel video che alleghiamo. "In questo momento sono imperturbabile" ha quindi rincarato Travaglio. Giustamente Giorgino ha ribattuto: "Hai colto il senso della mia domanda. E' assolutamente legittimo. Tu con coerenza hai sempre manifestato una posizione molto netta a favore della continuità del Governo Conte". Sì, la domanda del mezzobusto del Tg1 è decisamente legittima.
Otto e mezzo, "sei tu il grande sconfitto?". Lilli Gruber clamorosa, Travaglio balbetta: figura rovinosa. Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. Marco Travaglio è "il grande sconfitto di questa crisi di governo?". Lilli Gruber glielo chiede direttamente e il direttore del Fatto quotidiano, ospite in collegamento con Otto e mezzo a La7, prima sorride con una smorfia amarissima stampata in volto, poi replica un po' stizzito.
"Chiamatelo, tanto non esiste". Tutto da godere: ricordate la crisi di nervi di Travaglio per Draghi?
"Se volessi vincere o perdere, mi candiderei alle elezioni. Due anni fa mi ero battuto per un governo Conte con Pd e M5s, mi pare che abbiano dato una discreta prova tanto che ora vorrebbero correre insieme alle elezioni".
Ora c'è Mario Draghi.
"Io sui tecnici ho avuto sempre idee critiche, i governi ammucchiata non funzionano perché si litiga, sono degli equivoci. E l'ho sempre detto, anche quando cadde Berlusconi, il governo che meno mi piaceva. E alla fine dopo qualche mese Mario Monti aveva il problema di uscire di casa perché la gente non era contenta".
Travaglio stesso aveva assicurato che Draghi "non aveva alcuna intenzione di fare il premier", previsione drammaticamente sbagliata. Ma il direttore del Fatto quotidiano si difende: "Fino a domenica scorsa non era disponibile. E la cosa mi risulta da fonti direttissime. Poi domenica pomeriggio sappiamo quello che è successo: Mattarella ha chiamato disperato Draghi, e lui non se l'è sentita di dire no"
Marco Travaglio accusa Sergio Mattarella: "Fa onore a Napolitano, ci ha regalato Draghi dopo aver fatto filtrare altro". Libero Quotidiano il 27 febbraio 2021. Adesso che il suo Giuseppe Conte è stato spodestato, Marco Travaglio se la prende con Sergio Mattarella. "Al netto di tutti i Peggiori che lo compongono, l'aspetto peggiore del Governo dei Migliori è che d'ora in poi nessuno crederà più alla parola di alcun politico", esordisce il direttore del Fatto Quotidiano nel suo editoriale che da giorni spara a zero su tutti senza alcuna distinzione. "Per esempio, Mattarella: ora, dopo aver detto e fatto filtrare mille volte "dopo Conte c'è solo il voto" e averci poi regalato Draghi&C., fa onore al suo predecessore Napolitano, che giurò e spergiurò "no al secondo mandato" e poi si fece rieleggere dopo lunghi tormenti durati 10 minuti". Peccato però che il capo dello Stato non abbia mai negato la necessità di un nuovo esecutivo, vista l'emergenza coronavirus in cui riversiamo. Non a caso Mattarella ha tentato di rincollare i pezzi giallorossi, concedendo il mandato esplorativo al grillino Roberto Fico. Evidentemente Travaglio ha già accantonato il ricordo. "Pensate - prosegue dal dente avvelenatissimo - poi a tutte le campagne del centrosinistra contro la Lega fascista, razzista, sovranista, populista, lepenista, orbanista, trumpista, bolsonarista, casapoundista ecc.: ora gli ex partigiani del Pd e LeU ci governano insieme e devono ringraziare la Meloni che s'è tirata via". Il direttore del Fatto non risparmia i suoi amati Cinque Stelle. Gli unici a poter essere graziati? Strano ma vero Nicola Fratoianni e Giorgia Meloni. Sono loro - è la conclusione - "gli unici che possono dire qualcosa agli elettori senza essere sputacchiati sono - come ha scritto Moni Ovadia - la Meloni e Fratoianni. Ai quali aggiungerei i "dissidenti", anzi i coerenti 5Stelle che si son fatti espellere pur di non ingoiare il rospo".
Il Travaglio furioso scomunica i grillini che inciuciano col Cav. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 5 febbraio 2021. Il direttore del Fatto Quotidiano le prove tutte per bloccare l’accordo. Ma i vertici del Movimento gli voltano le spalle e tirano dritto…Non bastavano le divisioni per il ritorno al tavolo con Renzi, né la spaccatura profonda sulla figura di Draghi. Il vero dramma per il Movimento 5 Stelle si consuma fuori dal Palazzo, nel logoramento del cordone ombelicale che da sempre lega quel partito al Fatto quotidiano, il giornale di Marco Travaglio. Nati quasi in contemporanea nell’autunno del 2009, il partito e il giornale hanno intrecciato così tanto i loro destini fino a rendere a volte impossibile distinguere dove finisse l’uno e dove cominciasse l’altro. Più che l’Unità per il Pci, o Repubblica per il Pd, il Fatto è sempre stato lo spazio in cui militanti e dirigenti grillini trovavano senso politico alla loro esistenza, analizzavano il mondo attraverso le categorie secche del “buono” e “cattivo”, apprendevano slogan da spendere immediatamente in campagna elettorale. Non solo. Alleanze, strappi e svolte memorabili – racconta la vulgata pentastellata – sono sempre state concepite nella redazione di quel giornale. Travaglio è l’ideologo dell’onestà al potere come unico programma politico in cui identificarsi, il solo vero intellettuale di riferimento per una forza nata nelle piazze del Vday, la guida sicura. Almeno fino a poche ore fa, quando l’amarezza ha invaso il volto del direttore. Il bimbo che ha cullato per anni, il Movimento, ha cominciato a camminare sulle sue gambe e ha deciso di voltargli le spalle. Il sì a Draghi, pronunciato in coro da Di Maio, Conte e persino Grillo è una pugnalata al cuore. Ci sono molti modi per «suicidarsi», scrive il direttore sul suo editoriale , «il meno onorevole è consegnarsi volontariamente al carnefice pensando o raccontando che così lo si migliora e lo si controlla. Eppure è la strada che, secondo indiscrezioni, pare abbiano scelto Grillo e parte dei 5Stelle», spiega, specificando però di non avercela con Draghi, ma con «i compagni di strada che si ritroverebbero accanto i 5Stelle con l’insano gesto». Già, perché nella maggioranza Ursula entrerebbero solo partiti col «pelo sullo stomaco», ad eccezione dei grillini che, secondo Travaglio, «con tutti possono governare, fuorché col pregiudicato amico dei mafiosi e con l’irresponsabile che ha rovesciato Conte per espellerli dal consorzio civile, cancellare le loro riforme, sputare sulle loro bandiere, radere al suolo ogni loro traccia e spargervi il sale misto al veleno dei Calenda & Bonino». Sì, perché non c’è emergenza che tenga per giustificare l’abbraccio con Berlusconi, a cui il Fatto quotidiano nega persino il diritto al nome dal 2009. Su quel giornale il Cavaliere diventa semplicemente «B», o al massimo riesce a guadagnarsi qualche “scherzoso” epiteto da osteria, persino in prima pagina. «Governare con lo psiconano?» era il quesito d’apertura del Fatto di ieri, molto più vicino all’eleganza di Libero di quanto non si pensi. Insomma, per quanto Travaglio provi a minimizzare il suo stupore intervistato dal tg1, non sembra affatto che abbia preso bene l’ultima giravolta del M5S. Un dolore così forte da far perdere lucidità, tanto da pubblicare, sempre in prima pagina, una vignetta di Mannelli in cui la scelta di Mattarella viene associata a un «vago senso di golpe». Grillo, Conte e Di Maio per ora non sembrano curarsi dello strappo col direttore, ma nei prossimi due anni di convivenza con Draghi potrebbero pentirsene.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 19 febbraio 2021. Spunti per il nuovo spettacolo di Grillo. Belìn, c'era una volta un comico che capiva tutto prima degli altri. Tipo che la politica era marcia, la finanza anche peggio e la stampa teneva il sacco a entrambe. Così cominciò a informare la gente nei suoi show (chi ci andava scoprì che la Parmalat era fallita ben prima della Consob e dei pm). E fondò il Movimento 5 Stelle: tutti risero, poi piansero, poi passarono agli insulti, ai corteggiamenti e infine alle alleanze. E gli "scappati di casa", in tre anni, trovarono un premier più che degno e portarono a casa quasi tutte le loro bandiere prima che il Matteo maior e il Matteo minor buttassero giù i loro due governi per liberarsi di loro. Nel momento del massimo trionfo, anziché rendersi prezioso e vendere cara la pelle, Grillo sbarellò. Scambiò per "grillino" Draghi, che a suo tempo chiamava "Dracula" e voleva "processare per Mps". E spinse i grillini quelli veri ad arrenderglisi senza condizioni, in nome di un superministero-supercazzola alla Transizione Ecologica che doveva inglobare Ambiente e Sviluppo economico. Su quella promessa fece votare gli iscritti con un quesito che diceva mirabilie del Sì, nulla del No e non prevedeva l'astensione. Quelli si fidarono di lui, unico ammesso al cospetto di SuperMario, e dissero Sì al 60%. Poi scoprirono che era una battuta (quella di Draghi): il superministero era mini, per giunta diretto da un renziano per giunta indicato da Grillo; e il Mise, lungi dallo scomparire, passava semplicemente da Patuanelli a Giorgetti, noto ambientalista padano (vedi trivelle, Tav, Terzo Valico e altre colate di cemento). Molti iscritti gabbati chiesero di rivotare, ma furono narcotizzati con altre supercazzole: "i ragazzi del 2099", "la sonda Perseverance atterra su Marte e la Perseveranza atterra alla Camera", "i Grillini non sono più marziani". E i loro "portavoce" andarono al patibolo fornendo la corda al boia e dandogli pure la mancia. Donarono sangue e organi all'ex Dracula, che li liquidò con quattro perline colorate (Esteri, Agricoltura, Giovani, Rapporti col Parlamento), trattandoli peggio dei partiti con metà o un quarto dei seggi. I parlamentari coerenti col giuramento fatto agli elettori "mai con B." votarono contro o si astennero, ma, anziché essere rispettati come minoranza interna, furono espulsi da chi era andato al governo con B. (già "testa d'asfalto", "psiconano", "psicopedonano"), col Matteo maior (già "pugnalatore dell'Italia da mandare a lavorare a calci") e col Matteo minor (già "ebetino" e "minorato morale"). "Belìn", ridacchiò il comico, "è il mondo alla rovescia! È come se Ario, Lutero e fra' Dolcino avessero scomunicato il Papa! Lo dicevo io che ne resterà uno solo: io!". Applausi. The end.
Da la7.it il 6 febbraio 2021. Antonio Di Pietro contro Peter Gomez (Il Fatto Quotidiano): "Perché non vi va bene Draghi?", "Io non sono iscritto al MoVimento 5 Stelle, l'ho votato in una Camera mentre nell'altra ho votato +Europa, questo plurale per favore lo eviti".
Peter Gomez su Mario Draghi a Tagadà: "Una vittoria per l'Italia", roba da far venire una crisi isterica a Marco Travaglio. Libero Quotidiano il 17 febbraio 2021. Peter Gomez, ospite di Tagadà condotto da Tiziana Panella e in onda su La7, commenta il fatto che Matteo Renzi non parlerà in Senato nel corso della discussione della fiducia a Mario Draghi: "Non sa cosa dire.... è entrato alle consultazioni qualunque cosa faccia Mario Draghi e oggi ha detto 'avete visto che ne valeva la pena'. Ora con tutto la stima che abbiamo per Mario Draghi, pensiamo che un governo non si giudica dal discorso. Perché se io dovessi giudicare dal discorso della fiducia, direi che il 95% dei governi precedenti avevano degli ottimi propositi e delle ottime idee: un governo lo si giudica sul giorno per giorno", spiega Gomez. Gomez infatti commentava proprio le parole di Renzi, dette all'uscita di un ristorante romano dopo il discorso di Draghi. "Io penso che tutto l'intervento di Mario Draghi sia stato molto bello e da meditare. Il passaggio sullo spirito repubblicano, il passaggio sul sovranismo che non funziona, quello sul debito pubblico, ogni spreco è un torto alle generazioni successive: siamo molto contenti, un grandissimo discorso. Adesso lasciamolo lavorare". E ai cronisti che gli ricordavano, "E' una sua vittoria però". Renzi ha risposto subito. "No, è una vittoria dell'Italia. Adesso mi fate andare per piacere". E chissà cosa ne penserà Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, del fatto che Gomez definisce Draghi una "vittoria per l'Italia". Insomma, un clamoroso siluro contro Giuseppe Conte, da parte del direttore del sito del Fatto. Infine Gomez nel suo intervento a Tagadà ha voluto ricordare il dibattito acceso all'interno dei cinquestelle sulla fiducia a Draghi: "Ci saranno più astenuti che voti contrari nella fiducia al governo Draghi. Ma saranno molto pochi", ha concluso.
Travaglio è verde di bile e insulta: «Siete tutti lecchini». Tranne il circo grillino, naturalmente. Adriana De Conto lunedì 8 Febbraio 2021 su Il Secolo D'Italia. Slurp. Già questo termine all’inizio di ogni capoverso dà la misura dell’entità del travaso di bile di Marco Travaglio. Nel suo editoriale sul Fatto di lunedì 8 febbraio non informa, non analizza, ma insulta, ridicolizza, mette alla berlina colleghi, analisti e quotidiani che non la pensano come lui. Eppure ne avrebbe di che imbarazzarsi per la piroetta pro Draghi dei grillini e del loro “garante” Beppe Grillo. Ne avrebbe di spiegazioni da dare per questo repentino cambio di passo. Invece preferisce guardare in casa d’altri. Più comodo. Dopo la sua crisi di nervi dalla Gruber il suo stato d’animo è sicuramente agitato. “Nella sala dei busti, attigua a quella dove Draghi tiene le sue udienze, persino Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi si guardano e sembrano sorridere” (Francesco Bei, Repubblica, 4.2). Poi leggono Repubblica e si scompisciano proprio”. Esordisce così per poi andare al “Pippo Baudo dei padroni”, ossia quel Carlo Bonomi, presidente Confindustria che sulla Stampa osò affermare: “Draghi è un patrimonio del Paese, ora superare reddito e quota 100. Io lo ammiravo già in tempi non sospetti: al meeting di Rimini ad agosto c’ero solo io ad ascoltarlo”. Slurp al quadrato, chiosa Travaglio. Per lui tutto è un cabaret, tranne lo spettacolo indecente dei grillini. Guardare alla sceneggiata di sabato di Grillo per credere. Poi viene alla Lega e scrive: “Slurp al cubo. Il tifo di Giorgetti, il Richelieu padano: “Supermario come Cristiano Ronaldo” (La Stampa, 5.2). Giorgetti lecca Draghi e La Stampa lecca Giorgetti. Ora, per favore, qualcuno lecchi La Stampa”. Straccia la Boschi: “Conte ministro del governo Draghi? Non abbiamo messo nessun veto su nessun nome. L’importante è che si tratti di persone competenti” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Tg2, 6.1). Però, carina a tirarsi subito fuori. Otelmaspia”. “Flash! Mario Draghi sta avendo incontri con tutti perché tutti i leader politici de’ noantri glielo chiedono. E tutti fanno mezz’ ora di discorsi politici sui massimi sistemi per poi tirargli la giacchetta con domanda finale: ‘Ma un governo di unità nazionale?’. A tutti l’ex presidente della BCE dà la stessa risposta: ‘Grazie, non sono interessato’, con il solito sorriso che somiglia a un ghigno” (Dagospia, 10.7. 2020). Sbertucciando sbertucciando, dando dei lecchini a tutti Travaglio, con le rassegne stampa davanti ripercorre tutte le previsioni sbagliate espresse da vari opinionisti in tempi di crisi. Come se fosse un peccato analizzare, criticare (e magari sbagliare). E come se fosse più onesto intellettualmente dare giudizio corrosivi a cose fatte. Come fa lui. Quindi prende di mira molti articoli di Dagospia. “Draghi qua, Draghi là, Draghi su, Draghi giù. Pronto prontissimo? Manco per niente! In questi giorni si sprecano i colloqui tra i vertici delle istituzioni italiane e persone che potrebbero rivestire ruoli di alto rango. Non può mancare Draghi. Che però è riluttante a ricoprire una posizione, per quanto di prestigio, in un paese rissoso come il nostro. Il problema è che le liti non sono neanche più tra schieramenti, o tra partiti. Ma direttamente nei partiti” (Dagospia, 28.10.2020)”. Poi irride chi si occupa di mercati: “Spread, l’effetto Draghi vale già 1 miliardo” (Sole 24 ore, 6.2). E dove si può ritirarlo”? . Vabbè… prende in giro Zingarelli, la Lega, tutti fuorché i santini del grillismo. Anzi, butta un po’ di fiele su Emilio Carelli che definisce “Carelli della spesa”. “Io uscire dai 5Stelle per fondare un gruppo centrista che guarda a destra? Smentisco categoricamente, falsità” (Emilio Carelli, deputato M5S , Repubblica, 1.2). “Non senza sofferenza interiore annuncio la mia uscita dai 5 Stelle, un Movimento che ha perso la sua anima. Voglio propormi come aggregatore di una nuova casa accogliente: Centro-Popolari Italiani. Troppe volte ho assistito a scelte sbagliate e persone sbagliate” (Carelli, 2.2). Tipo lui. Lei non sa chi sono io”. Poi ne ha per il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, che scrisse: “Sono curioso di vedere Travaglio fare un mazzo tanto al governo 5Stelle-Berlusconi”. “Io ho cominciato subito. E tu?”, risponde Travaglio, come se questa crisi fosse un fatto personale tra i grillini e il resto del mondo. Il titolo dell’editoriale dovrebbe essere “Il mio ego smisurato”.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 13 febbraio 2021. Mentre il Premier Incaricato […] leggeva la lista del Governo dei Migliori con i Ministri di Alto Profilo, il primo pensiero andava a Cirino Pomicino: per reclutare una ciurma del genere, bastava e avanzava lui, senza scomodare Draghi. Il secondo pensiero era per i poveri 5Stelle e soprattutto per i loro elettori, gabbati da Grillo gabbato da Draghi, passati da partito di maggioranza relativa a partito e basta, con tanti ministri (peraltro inutili come gli Esteri o minori come gli altri) quanti il Pd (che ha metà dei loro seggi e 3 dicasteri più un tecnico d'area) e uno in più della Lega (metà dei loro seggi) e di FI (un quarto). Notevole anche l'ideona di inventare il super-ministero della Transizione Ecologica, già diventato mini perché gli manca il Mise, e regalarlo al renzian-leopoldiano Cingolani. […] All'"anima", "identità" e "purezza" di sinistra ci pensa il governo Berlusconi-4, momentaneamente parcheggiato presso il Draghi-1 nelle persone di Gelmini, Brunetta, Carfagna, Giorgetti e Stefani. All'ecologismo badano Giorgetti, le truppe forziste e altri santi patroni del partito del cemento, del bitume, delle trivelle e del Tav. Per la competenza, a parte tre o quattro tecnici […] c'è un trust di cervelli mica da ridere: dalla Gelmini e i suoi neutrini nel tunnel Gran Sasso-Ginevra; a Brunetta, grande esperto di tornelli e diplomazia; a Orlando (quello che "mai con la Lega"), che può passare dalla Giustizia al Lavoro al nulla con la stessa enciclopedica impreparazione. […] Otto ministri del Conte-2: ma quindi era vero che erano i "migliori del mondo"?
L'indagine social. Povero Marco Travaglio, da bullo diventa lo zimbello dei social. Luigi Ragno su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Per anni è stato il giornalista più temuto d’Italia a capo del giornale punto di riferimento delle Procure e dei Servizi, deviati o meno non si sa, ma Marco Travaglio adesso sta ricevendo quello che per anni ha dato a tutti quelli che ostacolavano il Movimento 5 Stelle e le riforme della Giustizia. Secondo un’analisi Twitter del data journalist Livio Varriale dal 5 febbraio ad oggi sono stati registrati 6.365 tweets, 74.211 likes, 11.913 condivisioni, 1.418 citazioni, 11.913 commenti, aventi la parola chiave “Travaglio”. Perché Marco Travaglio è diventato l’oggetto del desiderio delle frecciatine cinguettate spesso rivolte a personaggi politici come Renzi e Salvini e poche volte ai giornalisti? Secondo Varriale è difficile sbagliare previsione in merito “Se scorriamo la lista dei tweets più acclamati dalla critica, scopriamo che Travaglio ha dapprima smentito Draghi per poi trovarselo in Premier Incaricato ed ha continuato ad esprimere concetti vicino l’ala oltranzista grillina per poi trovarsi in queste ore dalla parte opposta dell’esito elettorle su Rousseau”. In effetti, dai top tweets notiamo proprio questo. Il Professore Carlo Alberto Maffè fa all in descrivendo il modus del pensiero della punta di diamante del Fatto Quotidiano citando il suo commento “Travaglio: “non sono io che ho sbagliato previsione, è colpa di Draghi che ha cambiato idea”. Meraviglioso”. Jacopo Jacoboni fa una lucida analisi politica decantando il tatticismo di Renzi “È molto chiara l’ultima battaglia avvenuta: con l’azione politica di Conte Casalino Zingaretti Bettini Grillo D’Alema Gianni Letta, sostenuta da Travaglio, avremmo un Conte ter. con l’azione di Renzi abbiamo Mario Draghi”. Anche il sito Lercio fa una sintesi perfetta dell’atteggiamento di Travaglio e del suo punto forte in video: il sorrisetto. “#LERCIOSTORY Nuovo speciale del FQ: “Come fare il sorrisetto del cazzo alla Travaglio per delegittimare l’interlocutore” – #ottoemezzo #ottoemezzola7 #Gruber #Travaglio #Rousseau”. Gli argomenti collegati a Travaglio in questi giorni sono stati quelli più disparati. Le sue uscite in tv hanno dato grande notorietà alla trasmissione Otto e Mezzo. Draghi smepre presente e declinato in più modi mentre sorprende più l’associazione a Scanzi, suo delfino che a Natale lo intervistò, che al Fatto Quotidiano. Discorso diverso invece dal punto di vista delle menzioni, il Fatto Quotidiano supera nelle citazioni il profilo di Marco Travaglio. Inutile a dirsi, ma la maggior parte dei tweets è di schernimento e di protesta nei confronti della punta di diamante del giornale fondato da Peter Gomez. Qui si apre una bella riflessione sul fatto che la strada di Travaglio, dopo anni di discese da lui percorse nel moralizzare chiunque fosse opposto al suo giudizio, è giunto il momento della salita che porta ad una vittoria politica sia di Renzi sia di Berlusconi e la caduta in disgrazia non solo del Movimento, ma del politico che ha garantito serenità economica al suo quotidiano: Giuseppe Conte.
Da liberoquotidiano.it il 13 febbraio 2021. “I 5 stelle sono delle capre, hanno sbagliato tutto”: parole dure quelle che Andrea Scanzi ha pronunciato in collegamento con Lilli Gruber a Otto e Mezzo su La7. Secondo il giornalista del Fatto Quotidiano, i 5 Stelle non ne avrebbero azzeccata una dopo la caduta del governo Conte II. In particolare, secondo lui, i grillini non avrebbero beneficiato di alcun vantaggio. Anzi, hanno perso la posizione di prestigio di cui godevano prima. "Avevano il coltello dalla parte del manico, se non ci fossero stati dentro loro non sarebbe partito Draghi. Hanno fatto tutto questo gran teatro con il ministero della Transizione ecologica e alla fine non lo hanno nemmeno ottenuto", ha spiegato Scanzi. “Hanno ottenuto quattro ministeri, di cui due senza portafoglio”, ha continuato Scanzi, riferendosi a Farnesina, Agricoltura, Rapporti col Parlamento e Politiche giovanili, destinati rispettivamente a Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Fabiana Dadone e Federico D’Incà. Parole al veleno, insomma, che non hanno risparmiato nessuno. Il giornalista, infatti, ha poi puntato il dito anche contro le altre scelte dell'ex numero uno della Banca centrale europea Mario Draghi. E infatti ha detto: “Se qualcun altro continua a dire che, a livello politico, questo è il governo dei migliori imbraccio il kalashnikov, a livello metaforico”. Il riferimento è soprattutto ai ministri azzurri: “Se il meglio della politica sono Renato Brunetta, Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini allora è bene andare via da questo Paese”. Secondo la firma del Fatto, poi, i grillini hanno subito un’altra pesante sconfitta: “Giorgetti al Mise, ministero dello Sviluppo economico, che era sempre stato dei 5 stelle”, ha detto riferendosi all'importante ruolo ottenuto dal numero due della Lega.
Andrea Scanzi contro i grillini: “Sono capre, hanno sbagliato tutto”. Secondo il giornalista i 5stelle “avevano il coltello dalla parte del manico”. Valentina Dardari, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. I grillini sono riusciti a farsi insultare anche da Andrea Scanzi, da sempre loro sostenitore, anche quando non vi era proprio nulla da sostenere. Parole non proprio carine quelle che Scanzi ha riservato ieri sera al Movimento intervenendo alla trasmissione “Otto e mezzo” condotta su La7 da Lilly Gruber. “I 5 stelle sono delle capre, hanno sbagliato tutto” ha detto il giornalista del Fatto Quotidiano prendendo in prestito un parallelismo tipico di Vittorio Sgarbi. Insomma, secondo Scanzi i grillini non sarebbero riusciti a trarre beneficio dal momento a loro favorevole e, anzi, sarebbero riusciti a sbagliare tutte le mosse subito dopo la caduta del Conte II. Se prima potevano vantare una posizione di prestigio, adesso non hanno più neanche quella. "Avevano il coltello dalla parte del manico, se non ci fossero stati dentro loro non sarebbe partito Draghi. Hanno fatto tutto questo gran teatro con il ministero della Transizione ecologica e alla fine non lo hanno nemmeno ottenuto" ha sottolineato senza mezzi termini Scanzi, precisando che il 5stelle hanno ottenuto quattro ministri di cui due senza portafoglio. Ed ecco poi arrivare, subito dopo, la parola capre nei loro confronti, almeno per quanto hanno fatto a livello strategico e nel gestire le trattative. Termine usato in modo affettuoso, come ha tenuto a precisare Scanzi. Ma sempre delle capre si sono beccati. Non è andato leggero neanche quando si è riferito alla presenza dei ministri azzurri: “Se qualcun altro continua a dire che, a livello politico, questo è il governo dei migliori imbraccio il kalashnikov, a livello metaforico”, perché proprio l’idea che i 5 stelle governino con Renato Brunetta, Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, non sembra riuscire a digerirla. Altro schiaffo al M5s è arrivato con l’incarico al ministero dello Sviluppo economico, sempre stato dei grillini, dato invece al numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti. Scanzi non ha risparmiato neanche il Partito democratico che a suo dire ha pure l’aggravante di aver preso tre ministri come Forza Italia e di non aver indicato donne. Del resto, anche il direttore della sua testata giornalistica, Marco Travaglio, nei giorni scorsi non era stato particolarmente gentile con gli esponenti del M5s che “prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più” sottolineando che da adesso in poi non conteranno più niente. E a Grillo ha fatto un complimento che tanto complimento non sembra: “Grillo è tutt’altro che scemo. Si è trattato di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi che lo ha intortato con la supercazzola del super-ministero della transizione ecologica”.
DAGOREPORT l'8 febbraio 2021. Ieri sui social il tweet di Selvaggiona Lucarelli, in modalità “orfanella di Conte”, in cui ha riproposto il video del 5 settembre scorso del Conte Casalino ospite della festa del “Fatto'', ha avuto un rimbalzo anche nello staff di Mattarella e di Draghi, facendo lievitare ancor di più l’irritazione della Mummia Sicula e di Dragonball nei confronti del carciofaro con banchetto davanti a Palazzo Chigi. Da perfetto statista che non rivela mai i suoi colloqui con esponenti istituzionali, flautato con il suo gné-gné preferito, Conte rivela: "Quando si è lavorato per nuova una commissione Ue fu proposto innanzitutto Timmermans ma alla fine non andò a buon fine. Subito dopo io stesso cercai di creare consenso per Draghi, lo avrei visto bene come presidente della Commissione Ue. Lo ho incontrato perché non volevo spendere il suo nome invano ma lui mi disse che non si sentiva disponibile perché era stanco della sua esperienza europea". E a mo’ di irridente epigrafe, Selvaggia commenta: ‘’Draghi s’è riposato, a quanto pare’’...
Fuori dal Coro, Augusto Minzolini vede Mario Giordano e sbrocca: "Non capisce un tubo". Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Contro tutti. Un Augusto Minzolini scatenato davanti al televisore. Siamo al martedì sera, sfida per eccellenza tra talk-show sul piccolo schermo. Già, abbiamo Giovanni Floris con DiMartedì su La7. Dunque, per Mediaset, ecco su Rete 4 Mario Giordano, con il suo Fuori dal Coro. E non può mancare la Rai, che schiera Bianca Berlinguer con il suo CartaBianca sul terzo canale. Tre programmi che, però, il Minzolini scatenato proprio sembra non gradire. Il retroscenista manifesta tutto il suo dissenso poco dopo le 22, su Twitter, in un cinguettio al vetriolo nel quale scrive: "Vedi Floris, cambi per andare su Giordano, e con rammarico comprendi che non sanno un tubo e non spiegano un tubo e alla fine la scelta più politica è andare su una serie di Netflix. L’informazione in Italia". Insomma, cannonata contro Floris e Giordano. Mentre la Berlinguer non viene nominata: dunque promossa oppure neppur degna di citazione? Un piccolo mistero. Minzolini, successivamente, risponde agli utenti che commentano e chiedono lumi circa il suo cinguettio. E continua a picchiare duro, nella fattispecie su Elsa Fornero e Ilaria Capua, messe a confronto nello studio di Giovanni Floris: "Sempre la stessa narrazione, sempre lo stesso punto di vista, non un guizzo - premette -. Il problema non sono le due protagoniste, che dicono ciò che pensano, ma il conformismo culturale del programma. Fa mancare l’aria", conclude Minzolini nella sua risposta. Ma basta dare una scorsa al tweet qui sotto per vedere che ci sono altre e puntute risposte del Minzo.
Peter Gomez, rissa con Antonio Di Pietro a L'aria che tira: "Voi chi? Non sono Marco Travaglio". Libero Quotidiano il 04 febbraio 2021. Una clamorosa rissa a L'aria che tira. Rissa dai risvolti succosi. Nel programma condotto da Myrta Merlino su La7, si parla ovviamente di Mario Draghi, del suo incarico da premier. A confrontarsi ci sono Peter Gomez, direttore del sito del Fatto Quotidiano, e Antonio Di Pietro, l'ex magistrato un tempo piuttosto vicino alle posizioni del M5s, ma ora molto meno. Come è noto, il Fatto diretto da Marco Travaglio ha una linea clamorosamente pro-M5s e pro-Giuseppe Conte. Sfacciata. Incontenibile. E come è altrettanto noto, Gomez ha delle idee un poco divergenti rispetto a Travaglio. La scintilla la accende Di Pietro, che si rivolge a Gomez chiedendo: "Perché non vi va bene?". Il riferimento è a Draghi e quel "vi" è riferito a quelli del Fatto Quotidiano. Ma Gomez non ci sta. E risponde in modo netto, brusco: "Io non sono Marco Travaglio, dirigo ilfattoquotidiano.it e non sono nemmeno un grillino", spara ad alzo zero. "E quindi questo plurale per favore non lo usi. Non sono un iscritto al M5s che alle ultime elezioni ho votato solo in una camera, nell'altra ho votato +Europa. Questo voi te lo eviti", ribadisce Gomez. Insomma, un prendere le distanze da Travaglio e dalla sua linea completamente appiattita su M5s e Conte. Ma non è finita. Di Pietro ci riprova: "Io leggo tutte le mattine Il Fatto Quotidiano e per me è un punto di riferimento. Ma voi avete una linea...". Apriti cielo. Di Pietro reitera quel "voi". E Gomez esplode e urla a tutto fiato nel microfono: "Ma voi chi? Ma chi?". Costretta ad intervenire la Merlino, che fa presente a Di Pietro che Gomez è Gomez e Travaglio è Travaglio. Dunque, Peter Gomez riprende, cercando di stemperare un poco la tensione: "Marco Travaglio è il mio migliore amico e non abbiamo sempre le stesse idee. E nemmeno la linea di Marco è anti-Draghi", sottolinea. Infine, Gomez cita un servizio di Radio 24 "che nemmeno ai tempi di Stalin. È alto, bello... siamo giornalisti eh". Il riferimento, ovviamente, era all'idolatrato Super-Mario.
Non è l'arena, "vale anche per Lilli Gruber però". Gomez critica Giletti "sindaco", la clamorosa risposta. Libero Quotidiano l' 08 febbraio 2021. "Hai commesso un grave errore". Peter Gomez, in collegamento con Non è l'Arena La7, entra a gamba tesa su Massimo Giletti e lo critica per la sua (presunta) possibile candidatura a sindaco di Roma per il centrodestra. "Mi rivolgo pubblicamente perché te l'avrei voluto dire tante volte - cambia il discorso il direttore del Fattoquotidiano.it -. Si è parlato di te come sindaco di Roma e te lo dico col cuore: quando hai detto che eri disponibile hai commesso un grave errore. Noi siamo giornalisti, molti telespettatori magari sbagliando potrebbero interpretare quello che fai nella tua trasmissione con gli occhi 'ma allora è perché lui si vuole schierare da quella parte, perché sta con loro'". "Allora vale anche per la Gruber!", lo interrompe Vittorio Sgarbi, e Gomez concorda: "Certo, vale per la Gruber, per ogni giornalista e per ogni magistrato". Ma Giletti si difende in prima persona: "Scusate, se mi trovi un pezzo in cui io dirò sono disponibile a fare il sindaco hai pienamente ragione, gliel'ho detto anche a Carlo Calenda che mi aveva attaccato. Io non escluderò mai il domani, perché a differenza di tanti politici che dicono se perdo vado in Africa, se perdo il referendum vado a casa". "Non voglio dire non lo farò - conclude il ragionamento -, perché credo sempre che chi fa parte di un mondo abbia il dovere di mettersi a disposizione. Ma non ci ho mai seriamente pensato, e se l'avessi fatto avrei detto “Mi candido e me ne vado”. Però non è che se uno si candida a destra gli è concesso lo zero e invece Sassoli, Badaloni, Lilli Gruber...".
Estratto dell'articolo di Peter Gomez per il “Fatto quotidiano” il 5 febbraio 2021. "La politica non è l'arte del possibile. Consiste nello scegliere tra il disastroso e lo sgradevole" diceva l'economista John Kenneth Galbraith. Quando nei prossimi giorni il Movimento Cinque Stelle dovrà decidere se appoggiare o meno Mario Draghi farà bene a tenere in mente questa frase. […] Draghi è poi un esponente di spicco delle élite responsabili dell'austerità e dell'aumento delle diseguaglianze. Tutto questo lo rende in apparenza indigeribile da parte loro. […] Draghi è un uomo di grande valore, in grado di alzare il telefono per parlare subito con qualsiasi leader mondiale, e al pari del resto dell'establishment si è accorto di quali siano state le conseguenze di quelle politiche […] Come banchiere europeo ha poi difeso non solo l'euro, ma pure il nostro Paese (contro la Germania) con un programma di acquisto di titoli che ha tenuto i tassi d'interesse bassi per anni. […] Insomma il premier incaricato, come l'Europa, nel tempo ha cambiato posizione. Del resto, prima di essere stato un campione del liberismo e delle privatizzazioni, Draghi era stato l'allievo prediletto di due grandi economisti keynesiani: Caffè e Modigliani. E Keynes era solito ripetere: "Quando cambiano i fatti io cambio le mie opinioni. Perché voi che fate?". Altra frase che i 5 Stelle dovrebbero ricordare quando si tratterà di scegliere. […] Certo […] il prezzo per i 5S potrebbe essere salato. La prospettiva di trovarsi al governo di nuovo con Renzi e per giunta con il pregiudicato Berlusconi suscita in loro e nei loro elettori un condivisibile ribrezzo. Ma solo chi è al governo e si muove con Pd e Leu può respingere le istanze peggiori di Iv e Forza Italia. Non chi fa opposizione. Anche perché se i 5S non ci saranno al loro posto ci sarà la Lega. Per questo dopo aver discusso il programma con Draghi e aver messo dei paletti, i 5S , prima di decidere, dovranno pensare ciò che conviene ai cittadini. E a quella frase di Galbraith. Poi potranno scegliere.
Michele Serra per "la Repubblica" il 4 febbraio 2021. Dice il Di Battista che Draghi è «l' apostolo delle élite». Ah, magari fosse vero, magari potessimo ancora illuderci che le élite, orco dei populisti, esistono veramente. Se poi provassimo a chiamarle una buona volta, queste famigerate élite, "classe dirigente", qualche speranza di sfangarla potremmo averla, visto che da quando sono nato sento lamentare, in Italia, la mancanza di una classe dirigente all'altezza. Insomma, il dubbio vero (ravvivato dall'esperienza del governo Monti, anche lui figlio dell'illusione che un manipolo di bravissimi e competentissimi arrivasse a salvarci, come Batman) è che ci sia l'apostolo, ma non le élite. O forse abbiamo udito, in tempi recenti, il discorso di un confindustriale più coinvolgente e nobile di quello di un politico? O conosciamo un mago della Borsa in grado di sanare il deficit pubblico? O un tycoon tecnologico capace di dire due parolette che possano finalmente mandare in archivio lo stradetto, consunto "stay hungry, stay foolish" di Steve Jobs, che ormai è diventato come i pensieri di Mao, souvenir di un'epoca remota? E dei tanti fenomenali scienziati catapultati in video dalla pandemia, non abbiamo forse ricavato l'impressione che qualcuno di loro, lontano dalle sue provette, possa anche essere un minchione? E se invece per élite si intendono i ricconi, avete presente la tradizione inossidabile dei presidenti delle nostre squadre di calcio, saga decennale di trafficoni che parlano peggio del più casual tra i deputati grillini? Ah Dibba', ma 'ndo stanno, 'ste élite? Diccelo, per cortesia, che le andiamo a cercare col lanternino.
Odio di classe contro l'"élite". È arrivato l'apostolo delle élite. Così Di Battista ha subito apostrofato Draghi come nuovo messia del Potere. Claudio Brachino, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. È arrivato l'apostolo delle élite. Così Di Battista ha subito apostrofato Draghi come nuovo messia del Potere, lui ultimo apostolo del celodurismo grillino che ci lascia troppe macerie, dai banchi a rotelle a una giustizia mai votata, dai no vax (nel senso che i vaccini proprio non ci sono) agli inutili navigator. A parte che i miei pochi risparmi, a naso, li affiderei più all'apostolo Draghi che all'apolide Dibba, che tra parentesi. A parte che, stando ai sondaggi, la pensino così più del 60% degli italiani. Ma torniamo alle manipolazioni sulla parola élite. Da un lato la semantica cristallizzata, poteri forti, banche, oligarchie mondiali, club ristretti dove si decidono i nostri destini. Qualcosa di lontano e minaccioso, che il povero cittadino non può controllare con le liturgie della democrazia rappresentativa, a cominciare o a finire dal voto. Ecco che in questa distanza si inserisce il leader populista, che, poco consono al galateo istituzionale, dice al suo pueblo: non ti preoccupare, ci penso io a ristabilire la giustizia per te. E poi, uno vale uno, nessuno vale più di me stesso per difendere i miei interessi nel mondo dei bottoni. Ciampolillo, l'uomo che sussurra agli ulivi prima del loro ultimo respiro, non fa impressione in sé. Fa impressione chi l'ha portato dentro il Senato della Repubblica. Comunque per dieci anni questo movimento anti-casta ha capitalizzato la rabbia sociale, fino alle elezioni del 2018. Poi è arrivato lui, il Covid. Dei suoi effetti si parla tutti i giorni, poco però del fatto che ha riportato al centro del governo della cosa pubblica una cosa che si chiama competenza. Questa è la semantica giusta quando si parla di élite associata a Draghi. Il corollario linguistico immediato è molto importante: credibilità, nazionale e internazionale, storia, esperienza, conoscenza. Mattarella l'altra sera è stato netto e finalmente grande: basta con il teatrino dei no incrociati, la polis, l'Italia, sta morendo. Se non vuole fallire si deve affidare a uomini così, che sappiano salvarci la vita materiale con i vaccini e quella economica con la gestione sensata dei soldi dell'Europa. Superata la dicotomia élite-interesse della gente, bisogna non indugiare sull'altra, altrettanto deviante, politica o tecnica. Chi farà per davvero il meglio per la polis Italia sarà supremamente politico, in senso etico, anche senza la tessera in tasca.
Vittorio Feltri su Mario Draghi premier: "Pensavo gli facesse orrore, può succedergli di tutto". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. Di seguito la risposta di Vittorio Feltri a Paolo Becchi, che su Libero di giovedì 5 febbraio scriveva: "Diamo fiducia a super Mario. Ha idee chiare". Caro professore, mi tocca sempre battibeccare con te sebbene non ne abbia voglia. Devo sottopormi a questa tortura nel tentativo di soccorrere il lettore affinché capisca cosa diavolo sta succedendo nel Paese, nulla di esaltante. Non sei un eroe per aver indicato Mario Draghi come persona preparata ad affrontare l'emergenza. Eravamo da tempo tutti convinti che quest' uomo stimato a livello internazionale fosse il più adatto a toglierci dai guai. Un particolare, io e molti altri eravamo persuasi: l'ex capo della Banca europea doveva prendersi la briga di porre in salvo la sua patria malata, a causa di una politica inconcludente o addirittura dannosa. Pensavo però che Draghi non accettasse l'incarico offertogli da Mattarella non perché si sentisse inidoneo al ruolo propostogli, bensì poiché gli facesse orrore guidare una armata Brancaleone. Egli invece si è caricato di una fascina di erba verde confidando nella protezione dello stellone dell'Italia. Non è questo il momento di compiere discorsi iettatori, ma ci corre l'obbligo di sottolineare che la partita è appena cominciata e finirà tra alcuni giorni, durante i quali potrà succedere di tutto. La politica non è disgiunta dall'aritmetica e, se il presidente incaricato non avrà in Parlamento la maggioranza, bisognerà prenderne atto e agire di conseguenza, il che significa cambiare cavallo quando la scuderia è vuota o, meglio, piena di somari. Adesso, insomma, bisogna usare il pallottoliere e contare i voti in grado di confermare Draghi alla presidenza del Consiglio. Allora, i grillini hanno già annunciato di essere ostili, Meloni pure perché punta alle elezioni anticipate, e pare irremovibile, Salvini nicchia ma non ha voglia di cedere le praterie della opposizione all'amica Giorgia, per cui il suo assenso non è pacifico. Qualora le posizioni politiche rimanessero quelle appena descritte, avere come premier l'ex banchiere di successo rimarrebbe un sogno. Il mio è un discorso arido se non cinico, tuttavia sarebbe imprudente trascurarne i contenuti. Aggiungo una curiosità. Conte è stato osteggiato da molti critici in quanto ha rappresentato per oltre un biennio il popolo da cui non è stato eletto. Adesso è arrivato Draghi, pure non eletto, ma nominato, e tutti esultano. È assurdo. C'è chi è convinto che il primo ministro debba essere scelto dagli elettori quando invece viene designato dal capo dello Stato e poi approvato in Parlamento con il voto di fiducia. Purtroppo domina l'ignoranza della Costituzione che passa per essere la più bella del mondo, mentre andrebbe riscritta e adeguata ai tempi attuali. Ad ogni modo, nel caso in cui Draghi ottenesse la maggioranza delle Camere menerebbe il torrone come desidera, altrimenti dovrebbe fare come Conte: accomodarsi a casa. Personalmente gli auguro di vincere, eppure non sono sicuro che ce la faccia.
Scettici, favorevoli e contrari: la mappa del consenso politico di Draghi. Mentre l'ex governatore della Bce Mario Draghi è a lavoro per costituire "la sua squadra", i partiti si dividono anche al loro interno sull'opportunità di sostenere il suo governo o meno. Francesco Curridori, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. “Sono fiducioso che dal confronto con i partiti e i gruppi parlamentari e dal dialogo con le forze sociali emerga unità e, con essa, la capacità di dare una risposta responsabile e positiva all'appello del Presidente della Repubblica”. In queste parole pronunciate da Mario Draghi, al termine dell'incontro col presidente Sergio Mattarella, è racchiusa tutta la difficoltà dell'ex governatore della Bce di trovare un'ampia disponibilità in Parlamento che sostenga un suo governo. Le posizioni all'interno dei singoli partiti sono note, ma in ognuno si possono ritrovare più di qualche distinguo. Se il Pd si è detto subito pronto a sostenere l'iniziativa promossa dal Capo dello Stato, il M5S pare orientato verso un No fermo e deciso a Draghi, mentre dentro LeU vi è più di una perplessità. Andiamo con ordine. “Con l'incarico a Mario Draghi si apre una fase nuova che può portare il Paese fuori dall'incertezza creata da una crisi irresponsabile e assurda”, ha dichiarato il segretario dei democratici, Nicola Zingaretti che ha aggiunto: "Non bisogna perdere la forza e le potenzialità di una alleanza con il Movimento 5 Stelle e con Leu basata su proposte comuni sul futuro dell'Italia. Per affrontare questi temi chiederemo nelle prossime ore un incontro con il Movimento 5 Stelle e Leu". Il vicesegretario Andrea Orlando, però, ha evidenziato che “Non basta dire è arrivato Draghi, viva Draghi. A Draghi occorre dargli una mano" e, a tal proposito, ha ricordato che, a Palazzo Madama, il Pd detiene solo l'11% dei senatori. E se il capogruppo Andrea Marcucci afferma con sicurezza: "A Draghi assicuriamo una collaborazione fattiva, e chiederemo un confronto a tutto campo, sulle 3 emergenze che il Paese deve affrontare: Recovery, vaccini, economia”, alla Camera c'è chi ancora punta a un esecutivo di altro tipo. Michele Bordo, vicecapogruppo del Pd a Montecitorio, twitta:"È fondamentale che Pd, M5S e Leu lavorino per assumere una posizione comune rispetto ai delicati passaggi dei prossimi giorni e all'ipotesi di un nuovo governo #Draghi. Sarebbe utile una maggioranza politica ampia ed europea non un governo tecnico". "Credo che Conte indirizzerà M5s su di lui. No al voto, salviamo l'alleanza dentro la nuova fase", è la sintesi dell'intervista rilasciata da Dario Franceschini all'HuffPost. In ogni caso sarà molto difficile che le forze che componevano la maggioranza che ha sostenuto il Conte-bis trovino una posizione unitaria. Ormai, infatti, appare chiaro che Italia Viva, abbia provocato la crisi affinché si arrivasse alla soluzione di un governo istituzionale. “Ora è il momento dei costruttori. Ora tutte le persone di buona volontà devono accogliere l’appello del Presidente Mattarella e sostenere il governo di Mario Draghi. Ora è il tempo della sobrietà. Zero polemiche, Viva l’Italia”, ha scritto oggi Matteo Renzi sul suo profilo Facebook. Dentro LeU, invece, la situazione è più composita. Da un lato, ieri, il capogruppo in Senato Loredana de Petris, invocava il ritorno alle urne, oggi il suo omologo alla Camera, Federico Fornaro appare più possibilista e spiega che l'appello di Mattarella va ascoltato: “La storia ci insegna però che non ci sono governi neutri, ma governi che devono avere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Per queste ragioni ascolteremo il presidente incaricato Draghi e poi decideremo". Nicola Fratoianni, deputato di LeU e segretario di Sinistra Italiana, invece, davanti alle telecamere di Agorà si è mostrato alquanto scettico: "Mi pare molto difficile sostenere un governo di questo tipo".
Le divisioni dentro il M5S. Dentro il M5S si prevede che si consumerà la lotta interna tra “movimentisti” e “governisti”, anche se questi ultimi, al momento, sembrano piuttosto taciturni. Secondo quanto trapela, Beppe Grillo avrebbe dato pieno sostegno alla linea tracciata dal reggente Vito Crimi che prevede una contrarietà netta a un governo tecnico presieduto da Draghi e l'appoggio incondizionato al premier uscente Giuseppe Conte. Alessandro Di Battista e la sua sparuta pattuglia di parlamentari hanno alzato le barricate di fronte all'ipotesi che l'ex presidente della Bce salga a Palazzo Chigi, mentre l'ex capo politico Luigi Di Maio, parlando all'assemblea dei gruppi M5S, ha chiarito: "Io credo che il punto non sia attaccare o meno Draghi, Mario Draghi è un economista di fama internazionale che ha legittimamente e correttamente risposto a un appello del Capo dello Stato. Io credo che il punto qui sia un altro e prescinde dalla figura di Mario Draghi. Il punto qui è che la strada da intraprendere a mio avvisto è un'altra. E, come ho detto, è quella di un governo politico". Una condottiera come la senatrice Paola Taverna ha ribadito: “Il governo tecnico è un insulto alla nostra storia e a tutta l'esperienza politica portata avanti". L'ormai noto post del Danilo Toninelli, invece, ha prodotto un mix di polemiche e ironie: “Non ci vengano a chiedere di votare Mario Draghi. Abbiamo fatto di tutto. Perfino annientarci negli uffici a lavorare pur di dare una mano a chi ne aveva bisogno. Questo per noi è stato governare l'Italia. Lo abbiamo fatto avendo contro tutto il sistema organizzato di potere. Lo abbiamo fatto pur sapendo che stavamo perdendo consenso. Orgogliosi del fatto che per noi gli italiani erano prima di tutto persone, non solo elettori. E anche questa volta rimarremo seri e responsabili”, aveva scritto l'ex ministro alle Infrastrutture prima di concludere: “Ma non ci vengano a chiedere di votare Mario Draghi". La deputata Giulia Grillo, ministro della Salute nel governo gialloverde, invece, parlando con l'Adnkronos, apre al governo tecnico e dice: “Visto che fino a ieri condividevamo un tavolo di lavoro con Renzi, mi fa pensare che per qualcuno nel Movimento Cinque Stelle Renzi sia più responsabile di Draghi. Il no a priori a Draghi ci sembra eccessivo. Non pensate ci possa essere prima una discussione interna, anche nel rispetto delle indicazioni del Presidente Mattarella?". Il viceministro Stefano Buffagni, sempre all'Adnkronos, si mostra cauto e si limita a commentare: “Mario Draghi ha un profilo inattaccabile, nulla da dire”. Secondo un altro big del Movimento come Carla Ruocco “è assolutamente prematuro dire no a Draghi”. Si spinge ben oltre il deputato Giorgio Trizzino che sul suo profilo Facebook, scrive: “Non credo che il M5S possa sottrarsi all’appello alla responsabilità che è stato rivolto dal Capo dello Stato a tutte le forze politiche per fare fronte comune e compatto nel momento più difficile per il Paese dal dopoguerra. Sarebbe da irresponsabili e noi non lo siamo mai stati". La sua collega Dalila Nesci, leader della corrente 'Parole Guerriere', infine, rilancia e dice: "Basta giocare a nascondino. Per dire no alla soluzione individuata dal Presidente Mattarella bisognerebbe avere pronta una valida alternativa politica. Chi ha condotto le trattative e ci ha portato sin qui dovrebbe farsi delle domande sul proprio ruolo".
Le posizioni nel centrodestra. Il centrodestra, com'è noto, ha sensibilità differenti, ma se prima della caduta di Conte il voto sembrava essere l'unica strada percorribile soprattutto per Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ora non è più così. Il leader di FdI, che ieri aveva risposto all'appello di Mattarella dando la piena disponibilità del suo partito di lavorare “per il bene della Nazione”, “anche dall'opposizione”, oggi propone un voto di astensione per salvaguardare l'unità della coalizione. Dalla Lega, invece, per ora, si resta fedeli alla linea impostata dal Capitano Matteo Salvini: “Ascoltiamo e poi valutiamo”. Forza Italia e Cambiamo! di Giovanni Toti sarebbero propensi a sostenere il nuovo esecutivo. "Draghi è l'uomo giusto e non è la riedizione di Monti. Nelle istituzioni europee ha saputo far valere le sue idee e la sua visione particolare. Noi non ci dimentichiamo il whatever it takes quando si trattava di difendere la moneta e il debito di alcuni paesi europei più fragili", ha affermato il governatore della Liguria nel corso del programma 'L'aria che Tira' su La7. Antonio Tajani, vicepresidente degli azzurri, opta per una linea attendista: "Durante l'incontro che avremo con Draghi valuteremo i contenuti e decideremo il da farsi".
Striscia la Notizia, "Mario Draghi non accetterà mai". Pd e sinistra ridicolizzati, il video tutto da godere. Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Striscia la Notizia ha trattato a modo suo la notizia dell’incarico che il presidente Sergio Mattarella ha conferito a Mario Draghi. Il tg satirico di Antonio Ricci - che va in onda come sempre tutte le sere su Canale 5 - ha subito pubblicato un video che raccoglie alcune delle frasi celebri sull’ex presidente della Bce, che per oltre un anno è spuntato puntualmente nei retroscena della stampa come possibile alternativa a Giuseppe Conte. Il video inizia con Myrta Merlino che rivolge la seguente domanda durante una puntata de L’aria che tira: “Lei auspicherebbe un maggior impegno di Draghi nella politica italiana?”. A risponderle c’era Romano Prodi, secondo cui “non accetterà mai”. A seguire c’è il parere di Andrea Orlando del Pd: “Non lo vedo un governo Draghi, non credo che sia possibile”. Poi l’intervento di Carlo De Benedetti, editore di Domani: “Non ho mai creduto neanche per un istante che Draghi fosse un’ipotesi per la presidenza del Consiglio. Conoscendolo bene l’ho sempre escluso nel modo più categorico”. Alla fine, invece, l’ex presidente della Bce a Palazzo Chigi ci è arrivato davvero, anche se non è ancora detto che possa piazzarsi lì, dato che deve verificare se ha o meno i numeri per governare: “Ringrazio il presidente della Repubblica - sono state le sue prime parole - per la fiducia che mi ha voluto accordare conferendomi l’incarico per la formazione del nuovo governo. È un momento difficile, la consapevolezza richiede risposte all’altezza della situazione. Ed è con questa speranza e con questo impegno che rispondo positivamente all’appello del presidente della Repubblica”.
Dagospia il 5 febbraio 2021. LE ULTIME PIPPE FAMOSE (“O CONTE O VOTO”)
ANDREA ORLANDO
Crisi di governo, Andrea Orlando: "Il voto anticipato è molto più vicino" (21 gennaio 2021) - PIAZZAPULITA
Andrea Orlando (vicesegretario PD): "Sta succedendo quello che temevamo, oggi sento il voto molto più vicino. Non c'è nessuna ipotesi di unità nazionale, non vogliamo mischiare i nostri voti con quelli di Salvini e Meloni".
PAOLO MIELI
Le previsioni di Mieli: “Conte ter, 60% senza Renzi” (28 gennaio 2021) - PIAZZAPULITA
Paolo Mieli sulla crisi: "Serve un governo forte. La cosa migliore? Subito al voto, con l'ok del Cts" (1 FEBBRAIO 2021) - LIBERO QUOTIDIANO
ANDREA SCANZI: “MEGLIO IL VOTO DI QUESTO MISERO STILLICIDIO” (2 FEBBRAIO 2021)
Renzi vuole la rottura? Dategliela! Il tavolo è tutto in salita per colpa di Renzi. Si sta spaccando il M5S? Carelli è il primo di una lunga serie? Meglio il voto di questo misero stillicidio. Guardate e condividete!
MASSIMO GIANNINI A OTTO E MEZZO 1
Crisi, Giannini: "Abbiamo toccato il fondo. Governo del Presidente che ci porti al voto" (2 FEBBRAIO 2021) - VIDEO LA STAMPA
GOFFREDO BETTINI.
Crisi di governo, braccio di ferro tra Pd e Italia Viva. Bettini: «O Conte o le elezioni anticipate». Estratto dell’articolo di open.online (31 gennaio 2021). Bettini: «Occorre fare presto». Questo governo, secondo il Pd, dev’essere guidato da Giuseppe Conte. Dice Goffredo Bettini al Corriere della Sera: «Siamo disponibili a ricomporre la maggioranza di governo messa in crisi da Italia Viva. E Conte deve guidarla. Occorre fare presto, perché ogni giorno che passa il dibattito pubblico si allontana sempre di più dalle preoccupazioni degli italiani». Secondo Bettini, Conte è l’unica soluzione, «perché ha lavorato bene ed è popolare; ha riportato l’Italia nella sua naturale collocazione europeista; ha già ottenuto la fiducia alla Camera e un ampissimo consenso al Senato». L’alternativa, secondo Bettini, è «un governo elettorale che ci porti al voto a giugno».
Bettini, no alternative a Conte, se qualcuno rompe voto Camere E poi eventualmente urne. Premier è pilastro alleanza. (ANSA 7 gennaio 2021) Il premier è a rischio? "Assolutamente no. Per andare dove? Verso l'avventura, il trasformismo, coalizioni incerte e improvvisate? Conte è il pilastro dell'attuale alleanza che ha lavorato bene e che per il Pd non ha alternative". Lo dice Goffredo Bettini, dirigente del Pd, in un'intervista a Tpi. "Occorre, semmai, rilanciarla per dare ancora più certezza e serenità agli Italiani. Se qualcuno intende romperla, sarà il Parlamento, e poi eventualmente gli elettori, a decidere se dovrà continuare a lavorare al servizio della Repubblica". (ANSA).
Governo: Bettini, subito allargare maggioranza oppure urne. (ANSA 20 gennaio 2021) "Non è che le elezioni non si possono fare, perchè si fanno in tutta Europa. Ma se non riusciamo a rafforzare il governo, non c'è un governo della destra o con le destre; allora superata la fase acuta dell'epidemia si va alle elezioni". Lo ha detto Goffredo Bettini intervistato da Sky Tg24. Secondo il dirigente del Pd, la verifica sulla possibilità di allargare la maggioranza va fatta "rapidamente", in "poche settimane" dopo di che si potrebbe procedere ad un rimpasto, mentre la sostituzione delle due ministre di Iv andrebbe fatta "subito" con personalità "fuori dalla trattativa" per l'allargamento della maggioranza. (ANSA).
"Noi - ha spiegato - abbiamo chiesto la fiducia perchè sarebbero state sbagliate le elezioni, fuori tempo, fuori dalla sensibilità dei cittadini, ed ecco perchè vogliamo allargare i confini della maggioranza, perchè con questi numeri non si può governare fino a fine legislatura". Bettini ha giudicato impraticabile un governo di unità nazionale: "Un Governo con tutti dentro? Sarebbe incomprensibile, perchè abbiamo una destra di un certo tipo. Il Pd non lo voterebbe mai". In ogni caso o si allarga l'attuale maggioranza oppure "c'è il voto" perchè "non è che le elezioni non si possono fare, dato si fanno in tutta Europa". La verifica sull'allargamento, ha proseguito, va fatta "in poco tempo, e il tempo si misura in settimane. Si capisce in poche settimane se ci sono le condizioni per un patto di legislatura. Noi del Pd la verifica l'abbiamo chiesta già da prima, ma non in modo distruttivo come ha fatto Renzi, che ha fatto una svolta incomprensibile". Terza tappa il rimpasto: "Noi abbiamo posto il problema di un rafforzamento, Conte è d'accordo e deve avvenire dopo un chiarimento sul programma. In queste settimane dobbiamo lavorare alle emergenze, sostituendo le ministre che si sono dimesse. Suggerisco di scegliere personalità fuori dalle trattative. Poi se in corso d'opera si costruisce una alleanza numerica più ampia e vediamo un programma di legislatura, a quel punto si può pensare a un rafforzamento", ha concluso Bettini. (ANSA).
Governo: Bettini, in situazioni difficili si torna al voto. (ANSA 3 febbraio 2021) "Il Conte ter era a portata di mano. Il governo precedente non è stato mai sfiduciato, ha dimostrato di avere una fiducia assoluta alla Camera e un ampissimo consenso al Senato. Era la sola naturale base di partenza per aprire una fase nuova di stabilità , di condivisione delle priorità fino alla fine della legislatura, di riassetto della squadra per renderla più forte". Così Goffredo Bettini, dirigente nazionale del Pd, in conclusione del suo lungo editoriale sulla situazione politica pubblicato dal portale online Tpi.it- "Ecco perchè , -aggiunge - se qualcuno voleva mettere in crisi tale possibilità , era evidente prevedere uno sbocco elettorale nei tempi consentiti dall'andamento della pandemia. Anche perchè le elezioni non sono praticabili oggi. Ma a giugno si vota nelle principali città italiane e, prima di giugno, anche in Calabria. E poi, quando le cose si fanno difficili, complicate e confuse; quando, cioè , c'è uno stato di emergenza o di eccezione, è proprio il momento in cui la parola va data alla politica e alla democrazia. E non il contrario". "Altrimenti - prosegue Bettini - per senso di responsabilità , rischiamo di essere irresponsabili: nel significato letterale del termine, di rinuncia alle nostre proprie responsabilità , ampliando le zone di apatia, sfiducia, disprezzo o paura nei meccanismi fondamentali di ogni regime democratico. Tra cui quello basico, insostituibile, e alla fine decisivo: l'espressione del voto popolare, sulla base di convincimenti politici e di scelte chiare del popolo. Quando sono esaurite le condizioni di una ricomposizione nel Parlamento, tornare dai cittadini diventa una necessità, seppure in alcuni momenti difficile, incerta e anche dolorosa". (ANSA).
VINCENZO SPADAFORA.
Governo: Spadafora, se c'è crisi si va al voto. (ANSA 29 dicembre 2021) "Non è detto che se cade questo governo se ne faccia subito un altro, io davvero penso che se cade Conte non si può fare altro che andare alle elezioni": lo ha detto il ministro dello sport e esponente del M5s Vincenzo Spadafora, intervenuto stamattina al programma di Raitre Agorà.
MATTEO SALVINI.
Salvini, se salta Conte via normale il voto, no a toto-governo. (ANSA 22 dicembre 2021) - ROMA, 22 DIC - "Se salta questo governo la via normale sono le elezioni. Non è un mistero per nessuno che molti parlamentari, a differenza di me e di quelli della Lega, se si andasse a votare non verranno eletti e vorranno ogni tipo di governo. Ma l'Italia non si può permettere questo caos. O elezioni subito o il centrodestra ha le sue idee ma non facciamo toto-nomi, non mi appassiona il toto-governo". Così il segretario della Lega, Matteo Salvini a "Porta a Porta". (ANSA).
Salvini, o elezioni o governo di centrodestra. (ANSA 29 gennaio 2021) "Mezza Europa se non ha il governo va ad elezioni, fa decidere ai cittadini e in Italia invece no. Detto questo, l'unica alternativa è un governo di centrodestra che rimetta al centro l'impresa, lo sviluppo, l crescita". Lo ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini, incontrando gli operatori dello sport che stanno manifestando a piazza Montecitorio. (ANSA).
DI MAIO.
Di Maio, senza Conte si va al voto. (ANSA 23 dicembre 2021) "Alcuni continuano a parlare di rimpasto ma quando si apre una crisi non si può sapere come finirà . E l'esito potrebbe essere quello di andare al voto". Così in una intervista al "Fatto Quotidiano" il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Sento parlare di rimpasto controllato - aggiunge - ma non c'è nulla di controllato quando si aprono processi del genere. Qualsiasi azione per provare a rimuovere Conte porterebbe alle urne".
MICHELE EMILIANO.
Governo: Emiliano, Conte è unica alternativa per il Paese. (ANSA 4 gennaio 2021) "Io penso che Conte in questo momento sia l'unica alternativa per questo Paese. Quindi penso che è inutile andare alle elezioni per rieleggere Conte, o per eleggere Conte. Tanto vale tenerselo e non fare cadere il governo, è più rapido". Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, in una intervista al TgNorba. (ANSA).
ANDREA ORLANDO.
Governo: Orlando, alternativa a attuale equilibrio è voto. (ANSA 5 gennaio 2021) "L'alternativa proposta da Renzi non si capisce qual'è . Non abbiamo detto che vogliamo il voto perchè ci piace andare a votare in piena pandemia nè, oggettivamente, perchè la Costituzione dice che si deve votare per forza. Temiamo che le elezioni siano l'unica soluzione possibile per una ragione molto semplice: tutte le altre ipotesi alternative ad una soluzione costruita sulla base dell'attuale equilibrio, pur con i necessari ritocchi, non sono una soluzione perseguibile". Lo dice, interpellato da Fanpage.it all'uscita dal Nazareno, il vice segretario Pd Andrea Orlando. (ANSA).
Governo: Orlando, Conte equilibrio in maggioranza complicata Altre strade rischiano di essere peggiori. (ANSA 7 gennaio 2021) "Quando noi diciamo elezioni non lo diciamo perchè pensiamo che siano la via d'uscita ma perchè pensiamo che si rischi di rotolare verso le elezioni. Conte è un punto di equilibrio di una maggioranza complicata, non so se ce ne sia un altro. Le altre strade rischiano di essere peggiori". Lo afferma il vicesegretario del PD Andrea Orlando a l'Aria che Tira. (ANSA).
Governo: Orlando, escluso appoggio Pd a uno d'unità nazionale. (ANSA 12 gennaio 2021) "O Conte o il voto? Noi pensiamo che Conte sia il punto di equilibrio più avanzato di questa coalizione così composita, tutte le altre soluzioni non tengono e alle elezioni spesso ci si va non perchè qualcuno le voglia ma perchè ci si finisce. (...) Escludo totalmente il nostro appoggio a un governo di unità nazionale. Dovremmo gestire i fondi europei con questa destra antieuropea e una pandemia con questa destra negazionista. E' già difficile con questa coalizione, figuriamoci con una in cui ci sono delle distanze simili". Così Andrea Orlando (PD), ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. (ANSA).
GIANFRANCO ROTONDI.
Governo: Rotondi, se si va alla conta elezioni inevitabili. (ANSA 8 gennaio 2021) "Se si va alla conta al Senato, le elezioni sono inevitabili. Avevo previsto questa mossa di Conte: se a uno punti la pistola alla tempia, è naturale che, se può , lui te la gira e spara. Appare evidente che l'obiettivo del premier sono le elezioni, non la sopravvivenza del governo al Senato". Lo afferma Gianfranco Rotondi della Dc. "I responsabili non sono mai esistiti. Li ha inventati Renzi sussurrandoli ai giornalisti più affezionati a lui. All'inizio pensavo che temesse la nascita di questi gruppi, poi ho capito che la inseguiva: gli avrebbe consentito libertà di opposizione senza compromettere la legislatura. Ma alle strette i numeri non ci sono, al Senato si è espresso a favore del governo solo chi già lo sosteneva", rileva. "Altro discorso in caso di elezioni anticipate. Esiste un cantiere aperto per un'area 'centrale' che potrebbe essere la novità politica in eventuali elezioni nel 2021; in quel caso potranno nascere "gruppi tecnici" per l'esonero della lista dalle firme, e i numeri ci sono in abbondanza, sia alla Camera che al Senato", conclude Rotondi. (ANSA).
PIER LUIGI BERSANI.
Governo: Bersani, dopo Conte ci può essere solo Conte o voto. (ANSA 12 gennaio 2021) "Dopo Conte ci può essere solo Conte o si va a votare. Io sono per andare avanti, perchè trovo demenziale immaginare 3-4 mesi di stallo per avvicinarsi alle elezioni". Così Pier Luigi Bersani (Articolo Uno), a "Oggi è un altro giorno", su Raiuno. "Se fossi Conte e si dimettono i ministri, - aggiunge - andrei in Parlamento: non per una sfida all'Ok Corral, ma con il Recovery Plan sulle cose da fare per gli italiani, senza neanche nominare Renzi". Infine, una battuta sul vaccino: "Per me deve essere facoltativo fino a prova contraria, cioè fino a quando chi lavora in certi luoghi, come ospedali e Rsa, deve garantire la salute di chi viene curato". (ANSA).
ROMANO PRODI.
Prodi, crisi inconcepibile, Conte fa bene. (ANSA 12 GENNAIO 2021) "E' inconcepibile dal punto di vista razionale questa crisi". Lo dice l'ex premier Romano Prodi a Di Martedì su La 7. Ma qual è l'obiettivo di Renzi? "Lui ha la sicurezza che non si andrà ad elezioni e che alla fine qualcosa la ottiene. Questo è il suo punto di vista e io credo che abbia fatto bene Conte a dire 'se poi rompe, rompe...'. Non è che si possa poi riprendere dentro le cose", aggiunge. (ANSA).
MARIASTELLA GELMINI.
Governo: Gelmini, se Conte cade si va al voto - Non ci sono condizioni per governo unità nazionale. (ANSA 15 gennaio 2021) - "Se nel 2020, con tutto quello che è successo, non è maturato un clima di unità nazionale, faccio fatica a pensare che possa crearsi adesso". Lo ha detto Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati, intervenendo a "Studio24", su RaiNews24. "Se Conte la prossima settimana non dovesse avere la fiducia dal Parlamento, ci si deve affidare al presidente Mattarella, e lavorare ad un governo di scopo che traghetti il Paese alle elezioni in primavera. Non penso - conclude - ci siano le condizioni per governi di unità nazionale". (ANSA)
MASSIMO CACCIARI. Roma, 18 gen. (askanews) – “Conte non ha bisogno di chiedere i voti a nessuno. I voti li ha già e ce li aveva comunque. Non c’è bisogno di alcuna compravendita”. Queste le parole di Massimo Cacciari in merito alla crisi di governo, intervistato da “Quarta Repubblica”, in onda questa sera, in prima serata, su Retequattro. E aggiunge: “Tutto questo Parlamento ha interesse a non andare a casa, per motivi di poltrona, per motivi umani, "troppo umani", diceva quel tale”.
MASSIMO D'ALEMA. Governo: D'Alema, non vedo alternative a questo esecutivo. (ANSA 20 GENNAIO 2021) "Penso che il Governo abbia affrontato la prova della pandemia bene, meglio di molti governi europei, e soprattutto non vedo alternative. L'opposizione propone le elezioni, domani. Precipitare il paese in piena pandemia e con l'Europa che attende il Recovery Plan in campagna elettorale non è saggio. Da cittadino dico che bisogna aiutare il governo che c'è. Il governo vive un momento difficile, certo, ma l'alternativa dove è? Dove sarebbe questa sfolgorante classe dirigente pronta a prendere le redini del governo?" Lo ha detto Massimo D'Alema a Porta a Porta su Rai 1. "Credo che la passione di distruggere - ha aggiunto - è più forte di quella ricostruire e il sistema dell'informazione ha responsabilità, ma a furia di distruggere ci troviamo nella situazione in cui siamo. Io mi sento di fare argine a una deriva distruttiva in cui non c'è alcuna proposta. E' il governo possibile e nella mia posizione di persona che studia, cerco di dare una mano". (ANSA).
PAOLA DE MICHELI.
Governo: De Micheli, Conte punto equilibrio Con giochetti rischio voto. (ANSA 25 gennaio 2021) "Ci sono delle forze politiche e dei singoli parlamentari e senatori che invece vogliono dare un contributo al patto di legislatura? Questa è la domanda cui dare la vera risposta. Credo che le risposte arriveranno. E' un contributo individuale o di forze politiche per risolvere i problemi". Lo ha detto la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli a "Oggi è un altro giorno" su Rai 1. Interpellata sull'ipotesi che senza Conte si vada al voto, la ministra ha detto: "Conte è un punto di equilibrio. Ciascuno può avere il suo giudizio, ma ha rappresentato per questa maggioranza un punto di equilibrio importante perché è' una maggioranza oggettivamente eterogenea". Il rischio, ha evidenziato De Micheli, "è che nella crisi al buio ci sia uno scivolamento verso le elezioni. Il Pd non le ha chieste, anche se non le temiamo e non ne abbiamo paura. Ma il punto vero è che quando aumenta il livello della confusione, con ultimatum e giochetti, il rischio di rotolare ad elezioni diventa molto forte". (ANSA).
STEFANO FASSINA.
Governo: Fassina, sia Conte-ter, alternativa voto è male minore. (ANSA 31 gennaio 2021) "Costruiamo il Conte Ter. In alternativa, l'unica, le elezioni sarebbero il male minore. Giuseppe Conte non è' Che Guevara. Ma e' condizione per strutturare e qualificare l'alleanza tra M5S-Pd-LeU: obiettivo di fase storica. Il punto politico ai fini della rinascita, riveduta e corretta, del Governo Conte non è la riammissione dell' "inaffidabile" Italia Viva. Il punto politico, al quale lavora con saggezza e passione il Presidente Fico, è il programma di legislatura.", Così dichiara Stefano Fassina, deputato LeU. "Ma attenzione al suo principio fondativo: insistere sull'ortodossia europeista porta al “Governo Ursula”, presieduto da Draghi o da una figura istituzionale trendy, così da normalizzare o dividere il M5S e riportare il Pd a servizio degli interessi più forti. Implica scomunicare metà del campo elettorale e i governi di 14 Regioni, cancellare le differenziazioni in esso evidenti, allontanare ancor di più classi medie spiaggiate da riconquistare, temere le elezioni come l'apocalisse, quindi consegnarsi alla misericordia del sen Renzi e predisporre ammucchiate elettorali senz'anima e senza risposte alle domande di protezione sociale e identitaria raccolte, in assenza di alternative, dalla destra", conclude Fassina (ANSA).
ANTONIO TAJANI.
Governo: Tajani, maggioranza Ursula non esiste. (ANSA 2 febbraio 2021) "Non esiste la sostanziale unità del Paese se manca mezzo Paese. Voglio dire una cosa chiara e netta: la maggioranza Ursula in Italia non esiste. Si è realizzata a Bruxelles perchè a guida Partito Popolare Europeo, che ha vinto le elezioni, al quale gli altri si sono accodati". Lo dice il vicepresidente di Fi Antonio Tajani ad Affaritaliani.it sull'ipotesi che Forza Italia possa partecipare a un governo con Pd, M5S e Italia Viva ma senza Lega e Fratelli d'Italia. (ANSA).
(ANSA il 5 febbraio 2021) Sul tavolo di Mario Draghi durante le sue consultazioni a Montecitorio c'è il "facciario" dei suoi interlocutori che via via si alternano ad incontrarlo: si evince dalle foto diffuse alla stampa dove, sul tavolo del presidente del Consiglio dei ministri incaricato insieme all'elenco dei consultati, all'ipad ed allo smartphone si vedono alcuni fogli con i ritratti dei componenti delle delegazioni. Davanti al premier incaricato, poi, una bottiglia d'acqua, un telefono ed un portapenne. All'occhiello della giacca scura, Draghi indossa la "rosetta" di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana, l'onorificenza di cui è stato insigito su iniziativa del presidente della Repubblica il 5 aprile del 2000. Si tratta della più alta onorificenza dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana.
Consultazioni, sulla scrivania di Draghi spicca il "facciario". Per riconoscere interlocutori e componenti delle delegazione dei partiti il presidente incaricato ha utilizzato una sorta di album con le foto dei vari esponenti politici. Novella Toloni, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. L'avvio delle consultazioni a Montecitorio ha acceso ufficialmente i riflettori su Mario Draghi. L'ex governatore della Bce ha iniziato il secondo giorno di colloqui con i capigruppo e le varie delegazioni, ma a saltare all'occhio è stata la sua scrivania e gli oggetti "scelti" da Draghi per accompagnarlo in questa prima giornata di lavori. A guardar bene, infatti, quel tavolo svela più di quanto si potesse pensare. E un po' come avviene in occasione del discorso della regina Elisabetta - dove si studiano i particolari della scrivania e del contesto - anche Mario Draghi non è sfuggito alla curiosità degli osservatori. Tra una classica bottiglia d'acqua e bicchiere, un portapenne stracolmo, il tablet e lo smartphone d'ordinanza a spiccare è il "facciario" dei suoi interlocutori. Una sorta di promemoria visivo (con tanto di fototessere) per aiutarlo a riconoscere coloro che, via via, si sono alternati ad incontrarlo. In fondo anche i migliori cantanti e attori hanno bisogno del gobbo. E in questo caso un aiutino non può certo nuocere, anzi. Soprattutto se la stanza in cui si tengono le consultazioni è una distesa infinita che ha posto più di dieci metri tra Draghi e i suoi interlocutori. Roba che se non porti gli occhiali, quasi ti servono per capire con chi stai parlando. Quindi ben venga il prontuario con le foto: facile, snello e senza intoppi (che di questi tempi è oro colato). Un'astuzia già utilizzata dal premier uscente Giuseppe Conte, che nel maggio del 2018 non rinunciò all'ausilio del "facciario" dei parlamentari eletti per aiutarsi nelle consultazioni di allora. Dalle foto diffuse dalle agenzie stampa, che hanno immortalato la seconda giornata di consultazioni dell'ex governatore della Bce, spicca anche il look scelto da Mario Draghi. Camicia bianca, cravatta prugna e giacca scura sul quale fa bella mostra di sé la "rosetta" di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana, l'onorificenza ricevuta dal presidente della Repubblica il 5 aprile del 2000 e che rappresenta la più alta onorificenza dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana.
Il nuovo governo. Governo Draghi verso una maggioranza bulgara, resta fuori solo la Meloni. Claudia Fusani su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. Dalla scarsità all’abbondanza, che non sempre è sinonimo di qualità. In 72 ore, che in politica sono tantissime, il governo Draghi passa dal timore di non avere voti e la prospettiva non felice di partire con un governo di minoranza, allo scenario opposto, un all in a due facce, diverse e ciascuna a suo modo rivoluzionaria nel quadro politico italiano ed europeo. Nel primo caso si potrebbe arrivare addirittura al tutti-dentro esclusi Fratelli d’Italia ancorati all’opposizione più per convenienza elettorale che per convinzione. Nel secondo caso si tratterebbe di un’alleanza ancora più rivoluzionaria di quella Ursula che nel 2019 portò i 5 Stelle all’interno delle grandi famiglie storiche europee. Al posto dei 5 Stelle, infatti, o insieme ai 5 Stelle ci sarebbe la Lega. Che in Europa è alleata della Le Pen ma in Italia andrebbe a votare Draghi. Si chiama governo di unità nazionale. E l’unica ideologia che conta è salvare il paese. Sono ore frenetiche con continui ribaltamenti e improvvisi ripensamenti. Sarà tutto più chiaro oggi, a fine mattinata, quando prima la Lega e poi il Movimento 5 Stelle siederanno davanti al presidente incaricato per comunicare le rispettive decisioni. La prima delegazione guidata da Matteo Salvini, a tu per tu con l’incarnazione dell’euro e dell’europeismo, incubi – a quanto pare – di un’altra vita. La seconda delegazione guidata dal garante politico del Movimento, quel Beppe Grillo che ha guidato per dieci anni Vaffaday al grido “banche killer”, “finanza assassina” e varianti varie circa “l’odiato establishment”. È un fatto che la carta Mario Draghi ha fatto “esplodere” il quadro politico parlamentare dopo tre anni di equilibri instabili, quasi volatili, figli della frammentazione dei numeri e di uno “schema nuovo”: europeisti contro antieuropeisti. Adesso si potrebbe rimescolare tutto. E l’Italia diventare un laboratorio inedito per capire dove va la politica. Una pax politica che ha un padre, il presidente Sergio Mattarella: «Chiedo ai partiti e alle forze politiche di andare oltre le tradizionali appartenenze» aveva detto il martedì sera annunciando l’incarico a Draghi. E un agente provocatore, quel Matteo Renzi che ieri, dopo la consultazione con Draghi incontrando i giornalisti ha sollevato per un attimo la mascherina e ha mostrato per un attimo la faccia sorridente per dire: «Io adesso sono rilassato. Italia viva non è più rilevante in una maggioranza larga? Avremo meno ministri? L’unica cosa che conta è che sarà un signore che si chiama Mario Draghi a decidere come spendere i 209 miliardi del Recovery plan. E questa è la migliore polizza assicurativa per il paese, i nostri figli e i nostri nipoti. E ora arrivederci, ci vediamo nel 2023». Italia viva darà il suo sostegno al governo Draghi senza se e senza ma. Molto probabilmente con la Lega di Salvini e i 5 Stelle di Crimi. Ma anche con la Lega e senza i 5 Stelle. Senza limiti e gabbie ideologiche. Per qualcuno “il grande caos”. Per altri “il governo di salute pubblica” tante volte invocato. Mario Draghi si è confrontato per tutto il giorno a Montecitorio con le varie delegazioni alternandosi tra la sala della Lupa e la biblioteca del Presidente per consentire la sanificazione. Il presidente incaricato, assistito dal dottor Nuvoli caposervizio degli Affari generali della Camera, è stato percepito come “gentile”, “affabile” e “molto attento”. Ha ascoltato più che parlare, ha preso appunti su un bloc notes e con una bic nera, ha accolto le varie delegazioni tenendo davanti a sé il “facciario” dei deputati. Per guardare in faccia, spesso per la prima volta, i componenti dei vari gruppi. A fine giornata sul bloc notes è rimasto il sì con riserva di Leu («mai alleati con chi ha negato la pandemia ed è stato fino a ieri antieuropeista») che però in serata si è già molto ammorbidito. Il sì senza riserve dei gruppi delle Autonomie, di Italia viva, di Forza Italia, del Pd. Nessuna di queste delegazioni ha sollevato questioni sulla natura dell’alleanza pro Draghi. L’unico No è quello di Fratelli d’Italia. «Non possiamo votare la fiducia a Draghi e ad un governo con dentro Pd e 5 Stelle. La via maestra per noi resta il voto. Daremo comunque una mano senza avere nulla in cambio» ha detto Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia rischia di essere l’unico gruppo all’opposizione. La scena si sposta quindi su domattina. Su quello che diranno Lega e 5 Stelle. Salvini sta cedendo il passo, ora dopo ora, alla linea Giorgetti e dei governatori, a cominciare da Zaia. Il no di quattro giorni fa è diventato il “vediamo” di tre giorni fa con sempre maggiori aperture («andiamo ad ascoltare quello che ci darà Draghi») fino all’apertura di ieri pomeriggio. Quando ha parlato di “ministri leghisti” e ha negato ipotesi di appoggio esterno. «Noi non facciamo le cose a metà, se ci siamo ci siamo» ha detto. «Siamo pronti a metterci la faccia senza condizioni. Chi sono io per dire io sì e tu no. Noi con Draghi non diremo non voglio tizio». Non è un Sì o un No a prescindere, ma «in questo momento l’interesse del Paese deve venire prima di quello dei partiti. E gli italiani oggi ci chiedono coraggio e serietà». È chiaro che la Lega non potrà autorizzare patrimoniali, aumento di tasse o l’azzeramento di Quota 100. Ma è altresì chiaro che Mario Draghi non comincerà da questi dossier, i più divisivi, la sua operazione di salvataggio dell’Italia. È un riposizionamento totale di Salvini rispetto al quadro politico. In qualche modo atteso e auspicato da larghe fette dell’elettorato leghista, soprattutto quel nord rimasto spiazzato e deluso dalla svolta statalista e assistenzialista della Lega nei quattordici mesi in cui ha governato con i 5 Stelle. Svolta che Giorgetti, sponsor di Draghi almeno tanto quanto Renzi (e i due si sono molto parlati in questo periodo) ha curato nei vari passaggi fin dall’autunno dopo la sconfitta alle regionali. Sarà invece ancora una notte di travaglio per i 5 Stelle. Beppe Grillo è arrivato a Roma, anche con Casaleggio. Ieri sono stati braccati dai cronisti in tutta la città. Senza successo. Nei momenti topici, il leader torna dai suoi ragazzi. Il Movimento sarà ascoltato per ultimo. E sembrano lontani secoli gli streaming prima con Bersani e poi con Renzi rilanciati dalle stesse stanze dove ora lavora Draghi. Il Movimento è diviso tra chi dice «andiamo a vedere cosa propone Draghi, siamo un partito di governo e i no a prescindere sono irresponsabili, l’Italia e l’Europa hanno bisogno di noi». E chi insiste, da Di Battista in giù, «mai con Draghi, mai con le banche». In mezzo una schiera di indecisi davanti all’ennesima decisione storica per il Movimento. Se il Movimento dovesse accettare di appoggiare il governo Draghi, al netto anche di una piccola scissione già messa in conto, non sarebbe una sconfitta per chi entrò in Parlamento con la promessa di “aprirlo come una scatoletta di tonno” (cit. Grillo). Ma la crescita responsabile di un Movimento che ha saputo, tra mille difficoltà, riconoscere errori e mettere al bando rigidità. Draghi farà un secondo giro di consultazioni. A partire da lunedì. Più veloce di questo. Sarà quello il momento delle proposte. E degli indizi sulla formazione della squadra di governo. In ogni caso sarà un governo molto politico. Il governo, questa volta sì, dei migliori. Il modello è quello del governo Ciampi, premier tecnico, ministri politici, fuori all’epoca, le “estremità” di allora, Msi e Prc. Oggi Fratelli d’Italia e qualche piccola frangia grillina o ex grillina. Un governo, quello di Draghi, sostenuto da maggioranze bulgare alla Camera e al Senato. Prendiamo le tre ipotesi. Tutti-dentro tranne Fratelli d’Italia significa un maggioranza di 595 voti alla Camera e 296 al Senato. Tutti dentro tranne Fdi e M5s, segna una maggioranza di 406 alla Camera e 204 al Senato. Anche con un improbabile, a questo punto, passo indietro della Lega che resterebbe fuori con Fdi, la maggioranza sarebbe larga alla Camera (466) e anche al Senato (223). Un autostrada per il governo del Presidente.
Le consultazioni. Draghi incassa i primi sì dei “big”, Grillo e Salvini alla prova con il premier incaricato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. Una maggioranza che "rischia" di essere ampia, ampissima per Mario Draghi. Dopo il secondo giorno di consultazioni l’unico no secco, chiaro, è quello di Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia si tira fuori dall’ipotesi di sostenere con la fiducia l’esecutivo dell’ex numero della Bce, che incassa invece i sì di Pd, Italia Viva, e Forza Italia. Via libera anche da Leu, il partito del ministro della Salute Roberto Speranza, pur storcendo il naso all’eventualità di trovarsi al tavolo con i sovranisti, mentre oggi è il turno di Movimento 5 Stelle e Lega, che venerdì hanno lanciato segnali incoraggianti. A conti fatti è pur vero che l’unico ad assicurare sostegno a Draghi “indipendentemente dal nome dei ministri e da quanti tecnici e quanti politici” è Renzi. Nicola Zingaretti ribadisce la fiducia all’ex Bce ma “abbiamo anche espresso le nostre preoccupazioni e in parte le nostre proposte”. Insomma “piena disponibilità”, ma non a tutti i costi: “Invieremo nelle prossime ore un documento per un programma di Governo forte, di lunga durata”. Lunga durata che viene confermata all’uscita dalle consultazioni da Giorgia Meloni. “Abbiamo chiesto al premier incaricato se il suo sarà un governo a termine, che consenta di riportare al voto gli italiani a giugno. Non è così, l’orizzonte è più lungo, di legislatura”, spiega la leader di FdI ribadendo il no a Draghi. Nel campo dei sovranità all’italiana la posizione di Matteo Salvini si fa invece più sfumata: “A me piacerebbe che nel Governo ci fossero tutti, mi dispiace che altri mettano veti”. Il pressing dell’area riferibile a Giancarlo Giorgetti si fa sentire e il Carroccio è passato dal ‘no’ ad una decisa apertura, ma per esserci la Lega vuole prendere parte all’esecutivo: “Non sono per le mezze misure: se sei dentro, sei dentro e dai una mano, ti prendi onori e oneri. Se stai fuori, stai fuori”, dice Salvini, che dovrebbe però saltare il giro nel “totoministri” a favore di Giancarlo Giorgetti, che con Draghi peraltro ha un ottimo rapporto. Restando nel centrodestra, da Forza Italia è arrivato l’appoggio a Draghi ad un “governo dei migliori”, assicura Antonio Tajani, che sostituisce come capodelegazione Silvio Berlusconi, costretto a tirarsi indietro per precauzione sanitaria, ma chiarisce anche che “non è una nuova maggioranza politica”. Resta quindi il rebus Movimento 5 Stelle. Per tentare di non sfaldare il tutto, Beppe Grillo è arrivato a Roma e guiderà oggi la delegazione all’incontro ma prima farà il punto con ministri, capigruppo e Vito Crimi. Riunione che vedrà anche la partecipazione del premier dimissionario Giuseppe Conte. Tra i grillini Davide Casaleggio punta al voto sulla piattaforma Rousseau per evidenziare la spaccatura e puntare alla scissione dei “duri e puri” assieme ad Alessandro Di Battista. Quanto a Draghi, dopo gli incontri con Lega e M5s, potrebbe aggiornare il Colle, poi lunedì mattina incontrare le parti sociali – sono preallertati Confindustria e sindacati – e subito dopo iniziare un nuovo giro con i politici.
Renzi si autoincensa per la vittoria politica: "Sì incondizionato, siamo accanto al premier". Show di Matteo: "Draghi è una polizza assicurativa per i nostri figli e nipoti". Pasquale Napolitano, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. È il giorno del vincitore: Matteo Renzi guida la delegazione di Italia Viva (Maria Elena Boschi, Teresa Bellanova e Davide Faraone) alle consultazioni a Montecitorio con il presidente del consiglio incaricato Mario Draghi. Si gode il successo politico, arrivato al termine della lunga crisi di governo, culminata con le dimissioni di Giuseppe Conte. Renzi è in palla. Decide lui il numero (massimo due) di domande da parte dei giornalisti. Scherza con il capogruppo dei senatori Iv Davide Faraone. Si autocelebra come «modello per le future generazioni». Al termine delle consultazioni si lascia andare a un siparietto con i cronisti: «Io sono rilassato. Abituatevi a non vedermi più, ci vediamo nel 2023». Tira giù la mascherina: «Volete vedere come sto? Ecco il mio sorriso smagliante», dice prima di essere richiamato all'ordine da un assistente parlamentare. «Dicono che Iv non sarà più rilevante? Ne sono entusiasta». Il leader Iv gongola per il nervosismo che trapela dagli ambienti vicini al segretario dem Nicola Zingaretti. Anche se da una ricerca condotta da Spin Factor di Tiberio Brunetti Renzi risulta ultimo nella classifica che registra il sentimento positivo nei confronti dei leader. All'ex numero uno della Bce la delegazione Iv non consegna alcun suggerimento. Ma la semplice rassicurazione: «Noi siamo al tuo fianco». Un via libera incondizionato al governo Draghi: «Mi auguro che tutte le forze politiche esprimano lo stesso sostegno a Draghi. Chi pone veti non fa solo un errore politico ma rifiuta l'appello del presidente della Repubblica». Colloquio breve: mezz'ora. Pochi punti programmatici, senza richiesta di ministri: «Gli manderemo tutto il nostro materiale e ulteriori elementi. Nel colloquio abbiamo sottolineato in particolare le questioni legate al lavoro e le politiche del lavoro con Bellanova, con Boschi il funzionamento delle regole parlamentari, con Faraone tutto il tema del piano shock e delle infrastrutture», spiega Renzi. Il nocciolo dell'intervento del rottamatore è sul cambio di scena: «Aver individuato in Mario Draghi l'interlocutore per formare il governo ha portato immediatamente una ventata di credibilità e fiducia nel Paese, Mario Draghi presidente del Consiglio è una polizza assicurativa per i nostri figli e per i nostri nipoti, chi meglio di lui può gestire questo passaggio in cui il Paese ha più soldi da spendere che in tutta la sua storia repubblicana». Una garanzia. «Per chi ama la politica internazionale l'idea che la presidenza del G20 sia affidata all'italiano che più di ogni altro ha partecipato a summit del genere è un elemento di grande serenità e solidità. Il fatto che Draghi sarà l'uomo che rappresenta l'Italia è molto importante. Nel 2021 Merkel lascerà, Macron attende un anno di campagna elettorale molto impegnativo. L'idea che Italia sia alla guida anche delle Istituzioni europee ci dà fiducia», sottolinea l'ex premier. Toglie dal tavolo il capitolo Mes e ritorna sulle ragioni della crisi: «Meglio se 209 miliardi li spende Draghi e non altri». Il Renzi day è un'orgia di autoelogi.
Massimo Recalcati per “la Stampa” l'8 febbraio 2021. Non senza nascondere un certo compiacimento Massimo D' Alema aveva riconosciuto, nei giorni precedenti la crisi di governo, in Conte il politico più popolare in Italia e in Renzi il più impopolare. Questo a seguito della decisione del leader di Italia Viva di sfiduciare il governo ritirando i suoi ministri. D' Alema si è fatto interprete di un coro che, soprattutto nei giorni precedenti la caduta di Conte, è apparso unanime e rabbioso: Renzi sarebbe vittima patologica del suo Ego, irresponsabile a generare una crisi di governo al buio in un tempo di emergenza sanitaria ed economica, abbagliato dalla necessità solo tattica di recuperare visibilità politica, indifferente alle conseguenze collettive dei suoi scellerati passaggi all' atto. Quando i giudizi si compattano in modo così conformistico contro qualcuno, uno psicoanalista, abituato a diffidare da ogni forma di pensiero unico, non può non interessarsene. La soluzione Draghi ha forse raffreddato gli animi consentendo un' altra lettura dell' azione politica di Matteo Renzi? Non abbiamo forse in questi giorni la sensazione di una risposta finalmente adeguata alla crisi sanitaria ed economica senza precedenti che ha travolto il nostro Paese? Aveva allora davvero torto Italia Viva a porre le critiche nei confronti del governo Conte? Immobilismo, esautoramento del Parlamento, errori di fronte alla emergenza sanitaria e, soprattutto, nella programmazione dei futuri investimenti, per non citare il tema del Mes. Davvero la crisi che ha innescato la nomina di Draghi è stata avvertita come incomprensibile da parte degli italiani, come si è sentito ripetutamente dire in ogni occasione? Davvero è stata una pura manovra di palazzo? Non poteva esserci una giusta istanza in quelle critiche grazie alla quale abbiamo oggi l' occasione di avere un presidente del Consiglio che non potrà più essere rappresentato da Casalino per evidente incompatibilità estetica ed etica? Nessuno dei critici più severi e implacabili di Renzi nutre dei dubbi su questo punto? A proposito di Renzi è toccato a Bersani nelle settimane della crisi a lasciarsi sfuggire il Witz che raduna attorno a lui una generazione di sconfitti. Non credevo alle mie orecchie di psicoanalista quando in televisione l' ho ascoltato definire Renzi, in modo allusivo, come un eiaculatore precoce, ovvero come qualcuno che non si saprebbe trattenere, come un ragazzo alle prime armi di fronte al marasma dell' eccitazione erotica. Eccoli, ho pensato. Ti giri un attimo e ritorna immancabile il paternalismo della sinistra tradizionalista e il suo immancabile livore! In un attimo questo Witz ha radunato attorno a sé tutti gli ex-rottamati da Renzi che hanno avuto l' ennesima occasione per ribadire che avevano visto lungo, che il ragazzo è un corsaro, una canaglia, un poco di buono, un figlio bastardo e, soprattutto, la prova più evidente della loro innocenza. Il livore antirenziano segnala come ripeto da tempo un problema storico del centro-sinistra assai più serio di quello della diagnosi psicopatologica di Renzi. In gioco è l' identità stessa del Pd, di ereditare autenticamente la propria storia, della sua capacità o incapacità di interpretare il suo tempo. Nonostante Renzi militasse nel loro stesso partito i vecchi comunisti lo hanno vissuto sempre come un corpo estraneo, facendogli la guerra in modo militante e organizzato. Questo non ha solo contribuito alla caduta del sogno riformista che Renzi ha rappresentato, seppur per un breve tempo, per l' Italia, ma - ben al di là di Renzi - ha mostrato tutti i limiti interni relativi all' identità politica del Pd. Oggi non siamo in un tempo molto diverso da quello. Almeno dal punto di vista delle dinamiche psicologiche del centro-sinistra. Ieri D' Alema e soci brindavano nelle sedi del Pd alla sconfitta del loro stesso partito al referendum, felici di avere frenato l' ambizione smodata del figlio ribelle e di aver salvato la Costituzione, ieri esultavano di fronte al suo ennesimo passo falso, quello di avere provocato una crisi al buio non rendendosi conto però che nel buio eravamo già tutti. La demonizzazione del figlio bastardo di Rignano è oggi il paravento dietro il quale nascondere la propria dipendenza politica dal M5S. Sarebbe invece dovuto essere proprio il Pd a sollevare la crisi assumendosi la responsabilità di dare al Paese una nuova speranza. Non è questo storicamente il suo compito? In molti dei suoi militanti condividevano le tesi critiche di Renzi senza avere il coraggio politico di assumerle pubblicamente. Nel nome dell' emergenza, ovviamente. Ma non è l' emergenza a imporre sempre cambiamenti drastici? A insegnarci che il coraggio delle proprie idee merita la luce? A imporre di voltare pagina?
IO LA VEDO COSÌ - Perché tanto odio contro Renzi? Lidia Marassi Il Quotidiano del Sud l'8 febbraio 2021. Matteo Renzi è ora, probabilmente, l’uomo più impopolare di Italia, o ci si avvicina. A seguito dei recenti avvenimenti, le vicissitudini politiche che lo hanno visto protagonista non hanno che alimentato il malcontento diffuso che già si concentrava, soprattutto in rete, attorno al leader di Italia Viva. Rispetto alle scelte del suo partito, Renzi ha più volte ribadito che sono state dettate dall’impossibilità di un confronto serio con gli ormai ex alleati di Governo, la cui mancanza di contenuti avrebbe reso impraticabile ogni tentativo di dialogo. Quali che siano state le sue motivazioni, valide o meno, sembra che ormai non abbia più importanza. Negli ultimi giorni, sui social si è scatenato un fortissimo odio mediatico contro il senatore fiorentino; lo stesso Renzi ha parlato di “aggressione mediatica” nei suoi confronti, che avrebbe stavolta percepito in modo più duro rispetto al solito. Se qualsiasi personaggio politico può godere o meno di un buon consenso, chiunque sia malvisto dall’opinione pubblica è suscettibile, specialmente online, di critiche e attacchi da parte dell’elettorato. L’eccessiva esposizione mediatica della classe dirigente comporta del resto la conseguente reazione degli utenti che, se scontenti, hanno la possibilità di esprimere il proprio dissenso quasi senza remore. Eppure, in questo caso, se da un lato l’ex Premier ha spesso corso il rischio di apparire come un vittimista, d’altra parte basta controllare qualsiasi piattaforma online per rendersi conto che, nel caso di Italia Viva, sembra esservi una aggressività verbale incontrollata. Non è il caso di parlare di “attacco mediatico” non solo per non strizzare l’occhio ad un qualche – insensato – complotto ai danni del partito di Renzi, ma soprattutto perchè non vi è alcuna azione organizzata che voglia danneggiarne l’immagine, quanto piuttosto siamo davanti al prodotto di anni di esacerbato malcontento, fomentato anche dalla stampa italiana. Intendiamoci, se un politico non riesce ad ottenere consenso, di base deve aver fatto qualcosa che lo ha reso sgradevole agli occhi dei cittadini, ma la legittimazione di un tale accanimento passa soprattutto attraverso il giudizio dell’opinione pubblica. Vi sono correnti di pensiero che, nell’immaginario comune, appaiono meno accattivanti di altre, alcune che invece sembrano essere realmente condannabili, ma, se tutte sono criticabili, ad oggi nessun insulto pare grave quanto dare a qualcuno del “renziano”. Persino provare ad interessarsi a questa particolare dinamica sociale potrebbe far nascere, in un eventuale interlocutore, la convinzione che si voglia in qualche modo fare una apologia dell’indifendibile. Ma come si è costruito, al netto dei suoi errori, questo stigma contro Matteo Renzi? Questi, suo malgrado, è diventato fortemente impopolare a seguito degli anni del suo governo, duranti i quali il rancore nei suoi confronti sembrava però trovare giustificazione nelle azioni, poco condivise dai più, della sua gestione politica. Adesso, da qualche tempo, sembra di trovarsi davanti ad un Signor Malaussène (dall’omonimo libro di Daniel Pennac), utilizzato come capro espiatorio anche quando, a conti fatti, è chiamato in causa per giustificare gli errori collettivi di una cattiva gestione politica. La crisi, indubbiamente, è stata aperta da Renzi, ma sarebbe quantomeno irrealistico ritenerlo il responsabile primario degli errori dell’ormai ex-Governo, così come della mancanza di una maggioranza solida. Pare difficile riuscire a giustificare l’eclisse di popolarità di Matteo Renzi basandosi su errori commessi in questa o quella circostanza, soprattutto quando i più autorevoli commentatori internazionali, avulsi dallo scenario politico italiano, descrivono spesso le sue azioni come ponderate e meritevoli. Ci deve essere dunque qualcosa di più strutturale di una condivisa antipatia, che getta semmai le sue basi in un carattere non certamente accomodante, in bilico tra battute mordaci ed il noto egocentrismo esasperato. Ma la leadership si accompagna spesso a personaggi carismatici e presuntuosi, più o meno apprezzati ma difficilmente tanto ghettizzati. Resta il dubbio che il motivo principale possa essere che Renzi, pur avendo commesso errori, abbia comunque mostrato ad una certa sinistra la sua inadeguatezza. Se gli ideali di un tempo resistono come sottotraccia dello scenario sociale, la sinistra idealizzata è forse decaduta, ormai da anni. Quella classe politica che ha cristallizzato e infine disilluso il proprio paradigma, senza accorgersi che si stava consumando col passare del tempo, ha avuto la colpa di non essere stata all’altezza delle sue stesse aspettative. Renzi, da contro, ne ha sottolineato le mancanze, non provando a curarle, ma piuttosto proponendo un’alternativa politica che si pone agli antipodi e, per molti, non è perciò meritevole d’esser detta “di sinistra”. Allora, al di là di queste dissertazioni, forse è solo il caso di limitarsi a sottolineare che, quando si è detto che l’ex Premier Conte aveva evitato il confronto con Italia Viva, tale sdegno è stato condiviso da gran parte dell’opinione pubblica, secondo il monito per il quale estromettendo il senatore dal confronto politico, “finalmente”, lo si sarebbe potuto allontanare. Questo modo di ragionare, tuttavia, sembra essere molto pericoloso. Forse, trattandosi di Renzi, è stato difficile comprendere la gravità di un così forte accanimento ai danni di un partito politico che era parte della squadra di Governo. E che, che piaccia o meno, è stato sufficientemente scaltro da farlo cadere.
Il Cav salva di nuovo la democrazia. Dando via libera a Draghi anche a costo di provocare malumori fra gli alleati, Silvio Berlusconi completa il secondo ciclo storico. Paolo Guzzanti, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Dando via libera a Draghi anche a costo di provocare malumori fra gli alleati, Silvio Berlusconi completa il secondo ciclo storico. Il primo fu bloccare all'ultimo istante l'operazione che avrebbe dovuto consegnare al vecchio Partito comunista la Repubblica, decapitata da un'impresa giudiziaria. Berlusconi costruì allora una macchina da guerra liberale che batté quella dell'ultimo segretario del Pci, che la definiva «gioiosa». A Berlusconi gliela fecero pagare carissima, e questa è storia nota. Adesso siamo al secondo salvataggio in extremis della democrazia liberale per metter fine al secondo ciclo perverso: quello del populismo dell'uno vale uno, cioè niente; della decrescita infelice, del reddito alla ndrangheta e del progetto dichiarato di aprire la democrazia come una scatola di tonno, impresa che è già cominciata e in parte è riuscita. Affinché ciò avvenga, occorre un capitano, non un raccattapalle che metta insieme tutti i «punti di caduta», visto che l'Italia intera è un Paese in caduta libera, visto che «il morbo infuria e il pan ci manca» - pandemia e crisi economica - come ai tempi della guerra e peste di Venezia del 1849. La scelta di sostenere questo governo ha non solo lo scopo di rimettere a posto sanità ed economia a pezzi, ma di ridare vita alla democrazia liberale che Grillo e i suoi hanno cominciato a distruggere. Questo è il punto non di caduta, ma di riscossa su cui l'intero centrodestra dovrebbe ripartire senza svenarsi sulle differenze.
Simona Ravizza per corriere.it il 6 febbraio 2021. Il problema è sempre lo stesso: la fibrillazione atriale parossistica, ossia un’alterazione del ritmo del cuore che l’ex premier Silvio Berlusconi si trascina da tempo e si riacutizza di tanto in tanto (per tenerla sotto controllo da anni ha il pacemaker). L’assenza del leader all’incontro con Mario Draghi, però, assicura chi gli è più vicino, non è dovuta a un nuovo episodio, bensì alla necessità di mantenere il «riposo assoluto» che gli è stato prescritto dal medico di fiducia Alberto Zangrillo in occasione dell’ultimo attacco: è il 14 gennaio quando Berlusconi viene ricoverato al Centro cardiotoracico del Principato di Monaco per un paio di giorni proprio per questo problema. Quel periodo di «convalescenza» non è ancora trascorso. Così niente incontro. Berlusconi, 84 anni, era risultato positivo al Sars-CoV-2 nel settembre dello scorso anno, e aveva sviluppato i sintomi del Covid-19, tra cui una polmonite bilaterale. Anche i figli Luigi, Barbara e Marina erano in seguito risultati positivi al virus. Uscito dal ricovero, Berlusconi aveva parlato della malattia come di una battaglia durissima, aveva precisato di essere stato in angoscia per figli e nipoti, e aveva invitato i malati a «non lasciarsi andare».
Flavia Perina per "La Stampa" il 10 febbraio 2021. Silvio Berlusconi rientra a Roma dopo un anno di quarantena e la crisi politica si tinge immediatamente di show perché c'è il tweet presidenziale sulla scaletta dell'aereo («Arrivato a Roma»), le riprese a villa Zeffirelli con il cane Dudù e persino il video musicale per celebrare l'evento, con lui che appare dietro un vaso di geranei, saluta facendo capolino, poi si mostra a figura intera, col sole che lo illumina mentre sorride. È Evita Peron, al suo trionfale ritorno in Argentina, oppure Gloria Swanson nell'ultima scena di Sunset Boulevard («Eccomi De Mille, sono pronta per il mio primo piano»)? Si dovrà decidere. Intanto i cameramen gridano «Daje Silvio», i parlamentari forzisti si affollano emozionatissimi nei corridoi della Camera, i commessi si inchinano. Ecco, prima di lui la crisi era troppo seria, triste, "europea", con lui torna un po' più italiana e funambolica. L'improvvisa riapparizione del Cavaliere nel teatro delle consultazioni oscura persino Beppe Grillo (pure lui di nuovo a Palazzo Chigi per il secondo giro) e si impone sulle immagini decisamente stanche di Matteo Salvini e Nicola Zingaretti. Nessuno dei big ha molto da aggiungere alle cose già sentite, e anche Silvio ripete frasi scontate sulla necessità di un governo di unità nazionale. Ma, nel suo caso, il messaggio non è nelle parole. È nella postura, nell'estetica, nella colonna di macchinoni che lo trasporta a Montecitorio, nel gesto rapido con cui si leva la mascherina per farsi riprendere bene dai fotografi. «Sì, sono proprio io». O anche: «Quando la Patria chiama, io ci sono» (non l'ha detto davvero, ma il sottotesto era palese). Tornare a Roma per Silvio Berlusconi è stata probabilmente una necessità politica. Fino a una settimana fa, pensava di poter costituire la colonna portante del governo Mario Draghi nel formato della "maggioranza Ursula". A Forza Italia sarebbe toccato il ruolo prima esercitato dai renziani: quello di partito numericamente indispensabile, e quindi titolare della golden share dell'esecutivo. Poi Matteo Salvini ha fatto il suo giro di valzer e Forza Italia è diventata assai meno importante. Era la reginetta della festa, in cinque minuti si è trovata a far tappezzeria. Allora, come sempre, è toccato al Cavaliere riaccendere i riflettori su se stesso e sui suoi trasformando la partecipazione alle consultazioni in una celebration lunga un giorno. In mattinata l'arrivo nella Capitale con jet privato: la foto in total black sulla scaletta viene spinta ovunque sul web. «Stai come un picchio!» commentano i fedelissimi, e ognuno ha un suggerimento, compreso chi dissente dalla scelta delle scarpe («Presidente, però le Hogan no» - segue dibattito con 25 commenti sull'importanza del calzare italiano e sulla collocazione politica del brand, che per qualcuno è comunista). Poi la corsa nella sua nuova residenza romana, la villa sull'Appia Antica che fu di Franco Zeffirelli, ed è qui che si gira il video dei geranei mentre i fotografi riescono a riprendere il cane Dudù insieme a Dudina. Di nuovo in auto, ed è subito Montecitorio: esterno Camera con folla, interno con le feste dei forzisti e la tappa nell'ufficio della vicepresidente Mara Carfagna, dove scoppia l'applauso. Il colloquio col premier incaricato diventa un dettaglio (anche se servirà per mostrare la gran confidenza, il fatto che si danno del tu) in una giornata programmata per avere un solo titolo: «Lui c'è». Il successo mediatico della resurrezione, oltreché il trasporto a Roma dei cani, fa pensare che Berlusconi sia tornato per restare, almeno un po', e tentare l'ultimo colpo della sua carriera conquistando un ruolo di protagonista nell'operazione di salvezza nazionale che sta per aprirsi. Dopo un anno di buen ritiro a Nizza forse si è stufato, forse ha capito che la conversione di Salvini rischia di produrre un disastroso sorpasso al centro con l'immaginabile e temutissimo ingresso del Capitano nel Ppe. Un Salvini "merkeliano" cancellerebbe l'ultimo plus rimasto a Forza Italia dopo il declino elettorale: l'apparentamento "in esclusiva" con la famiglia che guida il Continente. Brividi. E così, ecco lo show, i cani, i video, la photo-opportunity sulla scaletta, ecco la necessità di mostrarsi di nuovo vivo e vegeto dopo un anno di lockdown in quel di Nizza, con lo scopo evidente di restaurare l'immagine del leader sempre-in-piedi e (forse) il desiderio occulto di fare un dispetto a Pd e grillini («ecco, dovete ingoiare anche questo rospo»). Non è la prima volta che succede. Il titolo «Silvio is back» lo abbiamo letto a cadenza quasi annuale fin dal 2013, l'anno dell'addio al Parlamento, perché ogni campagna elettorale era una ri-discesa in campo, ogni momento topico un nuovo predellino, sempre seguito da sparizioni sempre più lunghe e preoccupanti per i suoi (vai a vedere che, così come ha dismesso il Milan, vuole liquidare per esaurimento pure il partito?). Anche in questa occasione, come nelle precedenti, il dubbio sulla natura della rentrée resta. Uno show occasionale o un nuovo progetto? Il primo atto di una nuova storia, o l'ultimo ciak, luccicante e malinconico, di un grande divo che ha visto esaurirsi la sua stagione? Insomma, Evita o Gloria?
Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2021. Montecitorio, quello che avete visto alla tivù è niente. Pomeriggio con un tasso di situazionismo pazzesco. A parlare con Mario Draghi sono venuti tutti. Ma tutti. «Andiamo a salutare lo Zio Silvio!», urla un fotografo buttandosi giù per le scalette di via della Missione, mezzo ironico e mezzo sincero, con quel po' di nostalgia canaglia per i tempi in cui Silvio Berlusconi faceva tutto in grande, politica opere e peccati, anche se poi in effetti eccolo che ancora arriva dentro un corteo da sultano, il pulmino blindato in coda a cinque macchine, la sua che si infila subito nel garage. Ma come: non si fa vedere? Ragazzi, calma: vi siete dimenticati del senso di Berlusconi per lo spettacolo? E infatti, nemmeno il tempo di finire la frase, lo Zio Silvio è già qui fermo sul portone, con le capogruppo di FI Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini alle spalle, le sue spalle ormai un po' curve dentro il solito magnifico doppiopetto blu di Caraceni. Si scatena un mischione. «Presidente, è un piacere vederla!». «Grande!». «Bella Silvio!». Microfoni nell' aria, le luci delle telecamere accese. Lui se la gusta tutta questa scena antica, d' un tempo andato, s' abbassa pure la mascherina anche se non dovrebbe, e così tutti notiamo le rughe belle dell' età che nemmeno un dito di cerone riescono più a nascondere. Ma va bene, gli anni passano per tutti e anche per Berlusconi, che è voluto venire in volo privato dalla Provenza, che dopo aver dato la linea al suo partito adesso con Draghi vuole parlare personalmente, nonostante appena quattro giorni fa i medici siano stati perentori dicendogli: no, presidente, il suo cuore ogni tanto saltella e lei, a Montecitorio, non ci va. Un quarto d' ora dopo. Sala della Lupa. Qui può darsi che qualcosa siate riusciti a guardarla, nei tigì. Draghi va incontro a Berlusconi - che avanza leggermente incerto, come ciondolante - e poi si danno il gomito, e si sente l' ex grande capo della Bce che dice con tono accogliente: «Ciao, grazie per essere venuto». È una di quelle scene destinate a restare (uscendo Berlusconi dichiarerà: «L' ora è grave. Totale sostegno. Governo di unità»). Il tempo di scrivere due appunti sulla Moleskine. E di vedere, subito, laggiù, Nicola Zingaretti. La delegazione del Pd ha preceduto quella di FI. Con Draghi, raccontano i democratici, l' incontro stavolta è stato assai fruttuoso e così adesso se ne stanno andando tutti abbastanza soddisfatti - Zingaretti, Orlando, alcuni componenti dello staff. Ma, all' improvviso, compare Beppe Grillo. Il capelli bianchi. Il viso bianco. Lo sguardo cupo. Preoccupato? Sì, molto preoccupato. «Avete consegnato tutte le cartuccelle?» (Grillo è rimasto, sostanzialmente, un comico, e da comico pensa sempre di dover far ridere: così prova a ironizzare sul corposo dossier che il Pd ha appena consegnato a Draghi). «Sì, gli abbiamo consegnato tutte le carte», risponde Zingaretti, mettendo su un' aria simpatica, ma che in realtà è di pura cortesia. Ancora Grillo: «Com' è andata?» (cerca di capire come va agli altri, mentre sta per decidere che sarà meglio rinviare il voto sulla piattaforma Rousseau, che lo lascerebbe penosamente appeso insieme a Di Maio). Zingaretti: «La situazione si muove, si muove», replica un po' vago il segretario del Pd, che comunque qualche pensiero ce l' ha pure lui (da ore gli arrivano i siluri interni della coppia Bonaccini&Gori, che con grande sensibilità politica pensano di assaltare la segreteria del partito mentre qui non c' è ancora nemmeno un governo; poi, ma questo Zingaretti non lo ammetterà mai, poi c' è che gli tocca venire a parlare con Draghi insieme ad Andrea Marcucci, il capogruppo al Senato legato da profonda amicizia a Matteo Renzi, il sorriso dolciastro, la richiesta di un congresso formulata mentre ancora il Paese viaggia alla media di 400 morti al giorno; Zingaretti gli ha dovuto rispondere duro: «Parlare di congresso, ora, è da marziani»). Ecco, appunto. E Renzi? Ci sono tutti, c' è pure lui. Partecipa all' incontro con il gruppo di Iv. Ma poi davanti ai microfoni lascia Maria Elena Boschi, sempre vestita di nero. Renzi va via mollandoci comunque un paio di notizie niente male. La prima: è già una settimana che non cambia idea. La seconda: saluta dicendo «Sono felice. I love you», e bisogna ammettere che la pronuncia in inglese, sì, la imbrocca (non è molto portato per le lingue straniere, fatica tanto, i miglioramenti vanno segnalati). Nient' altro. A parte Giorgia Meloni e i suoi che restano da Draghi mezz' ora in più del consentito. E Matteo Salvini che esce e viene al microfono. Canticchia. Se ne va. Poi torna, è un po' sudato e ha un accenno di fiatone (può essere un po' di stanchezza; ma se ricapita, qualcuno avverta la fidanzata, Francesca Verdini) .
Così Silvio Berlusconi l’immortale è tornato al centro della scena. Francesco Damato Il Dubbio il 7 febbraio 2021. Silvio Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere e rivendica l’indicazione di Draghi alla Bce. Figuriamoci se Silvio Berlusconi non si lasciava perdere l’occasione per partecipare in qualche modo alla festa del “suo” Mario Draghi. Al quale ha telefonato di persona per anticipargli l’appoggio che la delegazione forzista gli avrebbe espresso nelle ore successive e scusarsi del divieto impostogli da medici e familiari di muoversi dalla villa in Provenza. Dove la figlia Marina lo ha affettuosamente e metaforicamente chiuso a chiave per proteggerlo dal Covid. Quel “suo” nasce dalla convinzione di Berlusconi di essere stato lui nel 2011, ancora presidente del Consiglio, a volere e saper portare Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea. Certo, il curriculum già internazionale dell’allora governatore della Banca d’Italia era tanto consistente da rendere difficile alla Cancelleria di Berlino o all’Eliseo una resistenza oltre un certo limite alla candidatura avanzata da Berlusconi. Al quale i vertici comunitari, a dire il vero, guardavano ormai più con diffidenza che con simpatia, preferendo spesso interloquire direttamente col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sino a metterlo qualche volta in imbarazzo. Ma, per carità, non ditelo al Cavaliere, convinto di essere stato lui, e soltanto lui, l’artefice di quel trasferimento di Draghi a Francoforte. Si sa che Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere con altri. D’altronde, ai tempi della sua sostanziale defenestrazione da Palazzo Chigi, sempre in quel fatidico autunno del 2011, egli fece buon viso al cattivo gioco della crisi del suo ultimo governo di fronte al nome del successore: Mario Monti. A proposito del quale Berlusconi non perse un istante per vantarsi di averlo voluto, da presidente esordiente del Consiglio nel 1994, a rappresentare l’Italia con Emma Bonino nella Commissione Europea. Anche Monti era in qualche modo “suo”, e continuava ad esserlo anche dopo essere stato confermato a Bruxelles dai governi successivi, di segno politico opposto. Fu tanto orgoglioso di dovergli cedere Palazzo Chigi che Berlusconi, contrariamente alla prassi, volle controfirmare personalmente il decreto del Presidente della Repubblica con cui Monti veniva nominato a senatore a vita per alti meriti prima di ottenere l’incarico di presidente del Consiglio. Così peraltro quel poco che era, ed è, rimasto dell’immunità parlamentare poteva in qualche modo mettere al riparo il capo del nuovo governo da qualche iniziativa avventata di un sostituto procuratore della Repubblica. E chi più di Berlusconi poteva capire e condividere una simile cautela? Va detto che Monti non si mostrò per nulla imbarazzato da tanto calore. E si compiacque della decisione di Berlusconi di interrompere, diciamo così, l’alleanza con la Lega di Umberto Bossi pur di votargli la fiducia. Quella del Carroccio fu invece opposizione dura, alla quale tuttavia si convertì pure Berlusconi in vista delle elezioni ordinarie del 2013. Che il Cavaliere, col fiuto e l’ostinazione che gli riconoscono anche gli avversari, ritenne di poter vincere se affrontate con la Lega. E ci sarebbe riuscito se Monti, per una sostanziale ritorsione in nome della difesa della propria “agenda” politica, non fosse sceso in campo pure lui con un movimento che poi si dissolse come neve al sole nella nuova legislatura, non prima però di impedire – come poi egli stesso si sarebbe più volte vantatouna candidatura vincente di Berlusconi al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano. Che infatti, fallite le corse di Franco Marini e di Romano Prodi, entrambi azzoppati dai soliti “franchi tiratori” dello schieramento di appartenenza, fu confermato. Lasciatemi esprimere con tutta franchezza la convinzione che Berlusconi, se fosse riuscito ad andare al Quirinale, difficilmente sarebbe finito dopo solo qualche mese in quella curiosa storia di un processo per frode fiscale celebrato in ultima istanza, quasi al limite della prescrizione, e conclusosi con la condanna del primo o fra i primi contribuenti italiani. Quello che è uscito proprio in questi giorni dai ricordi di Luca Palamara sugli intrecci fra magistratura e politica avvalora, a dir poco, la mia impressione. Ma torniamo a Draghi e al suo governo, di cui si può dare ormai per scontato che nascerà con l’aiuto, a dir poco, di Berlusconi. Che è tornato d’altronde sulla scena già da qualche tempo, se mai ne è stato davvero allontanato, col progressivo logoramento del secondo governo di Giuseppe Conte. E’ un Berlusconi di cui non si capacita – giustamente dal suo punto di vista – il pugnace Marco Travaglio. Che ieri sul Fatto Quotidiano, nervoso anche coi pentastellati refrattari ai suoi consigli e ormai prenotatisi, secondo lui, al “suicidio assistito”, si chiedeva se davvero Draghi e persino Beppe Grillo, con tanto di fotomontaggio, si apprestassero a “governare con lo Psiconano”. Che naturalmente è diventato nel testo dell’editoriale, non bastando il dileggio fisico, il solito “pregiudicato amico dei mafiosi”.
Mario Draghi e l'incontro con Silvio Berlusconi: audio rubato, dopo le risate quella frase che svela molte cose. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. A sorpresa, Silvio Berlusconi è arrivato a Roma. Il leader di Forza Italia ha voluto condurre in prima persona il secondo giro di consultazioni con il premier incaricato, Mario Draghi, dopo aver disertato all'ultimo secondo il primo giro di incontri. Un faccia a faccia franco, quello tra il Cavaliere e l'ex governatore della Bce, al termine del quale Berlusconi ha posto dei paletti piuttosto chiari: gli azzurri chiedono un governo di unità nazionale, dunque non politico, e dagli orizzonti limitati, ossia che duri solo per il tempo strettamente necessario per superare la crisi di governo. Ma al di là dei paletti, dei dati politici, è spuntato anche il video dell'incontro tra Draghi e Berlusconi, il video che li mostra quando dopo tanto tempo si ritrovano faccia a faccia, l'uno davanti all'altro. E, come si vede nelle immagini qui sotto, sono subito risate, quasi da vecchi amici. Dunque il saluto gomito a gomito, così come imposto al tempo del coronavirus. "Come si deve salutare...", si sente la voce di Draghi. Dunque uno scambio di "ciao", infine sempre Draghi si rivolge a Berlusconi e afferma: "Grazie di essere venuto". Insomma, pochi secondi che dimostrano la grande confidenza che c'è tra Draghi e Berlusconi, due che si vedono e chi si frequentano da tanti, moltissimi anni. Dopo l'incontro, nel punto stampa, Berlusconi si è rivolto a Draghi parlando di "una risposta credibile di fronte all'Europa e al mondo, una risposta anche unitaria che avevamo chiesto per primi e che trova piena corrispondenza nell'invito rivolto dal Capo dello stato a tutte le forze politiche ad assumersi la loro responsabilità". E ancora: "Noi faremo la nostra parte con lealtà e spirito costruttivo. La gravità dell'ora impone a tutti di mettere da parte calcoli, tattiche e interessi elettorali per mettere al primo posto la salvezza del paese. Se questo avverrà sono certo che l'Italia riuscirà ancora una volta a risollevarsi e ad andare avanti", ha concluso Berlusconi.
Claudicante e con voce bassa e affannata: "Che Dio ce la mandi buona...". “Grazie di essere venuto”, Draghi sorride a Berlusconi: l’ex premier baciato e coccolato dai suoi. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. “Grazie di essere venuto”. Così il premier incaricato Mario Draghi accoglie il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi che ha guidato la delegazione azzurra al secondo giro di Consultazioni nella Sala della Lupa a Montecitorio. Il video, diffuso sui social, riprende i due entrambi che si salutano con il gomito ed, entrambi sorridenti, prendono posto a sedere. Nonostante l’età, 84 anni, e i recenti problemi di salute, che hanno reso necessario a inizio gennaio il ricovero in ospedale a Montecarlo per problemi cardiaci, Berlusconi non ha fatto mancare la sua presenza in un momento così delicato per il Paese. Seppur claudicante, visibilmente provato e con un un tono della voce basso e affannato, l’ex premier non ha risparmiato battute ai parlamentari di Forza Italia presenti all’esterno della sala Regina dove l’ex cavaliere ha incontrato la stampa.
“Che Dio ce la mandi buona…” ha detto sorridendo ai suoi deputati e senatori arrivati a salutarlo. Annagrazia Calabria, Francesco Sisto, Maria Tripodi, Annaelsa Tartaglione, Stefania Prestigiacomo, Giorgio Mule’, Alessandro Cattaneo, Renato Brunetta, Andrea Orsini. Così come riporta l’agenzia Dire, alcuni di loro tirano fuori i telefonini per riprendere la delegazione di Fi che parla dopo il colloquio con Mario Draghi. C’è chi, nonostante il Covid, lo bacia (una deputata forzista), altri invece sembrano tanti giovani ammassati in prima fila per un concerto, emozionati dalla sorpresa di Berlusconi. “Come state?”, domanda. La voce è bassa, per farsi sentire meglio mette via la mascherina per qualche secondo. “Torna presto presidente- gli gridano- come stai?”. “Tutto apposto”, risponde lui. Poi sorride: “Che Dio ce la mandi buona…”. In precedenza alla stampa, al termine dell’incontro con Draghi, ha dichiarato: “Faremo la nostra parte con lealtà e spirito costruttivo, mettendo da parte calcoli elettorali per pensare solo al bene del Paese. L’Italia saprà risollevarsi”. Berlusconi ha però chiarito che il sostegno largo a Draghi non sarà anche la nascita di una nuova maggioranza politica, perché i partiti “sono alternativi per loro natura e storia” e che quindi l’esecutivo “durerà solo per il tempo necessario a superare questa drammatica crisi”.
Crisi di Governo, Silvio Berlusconi: «Con Draghi senza calcoli di parte». Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. “Circostanze eccezionali richiedono risposte eccezionali. Impongono alla classe dirigente del Paese di mettere da parte le distinzioni, gli interessi di parte, i calcoli politici o elettorali e di dare una risposta di alto profilo, adeguata alla gravità della situazione. Il momento è davvero gravissimo, per l’Italia e per il mondo intero, certamente è la fase storica peggiore dopo la Seconda Guerra mondiale”. Così Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, in un’intervista al quotidiano La Repubblica, motiva il sì al Governo Draghi. Per Berlusconi il presidente del Consiglio incaricato “ha davanti un compito davvero difficile ma deve riuscire”. “Su Draghi non mi sono mai sbagliato. E sono certo di non sbagliare neppure questa volta”, aggiunge. Per l’ex premier “questo non è un governo tecnico, è un governo di unità nazionale per fronteggiare l’emergenza. I governi tecnici in passato hanno dimostrato di non avere il polso della realtà del Paese. Per questo auspico un giusto equilibrio di competenze tecniche e di rappresentanza politica. Ma soprattutto suggerirò al presidente Draghi di tenere conto delle indicazioni dei partiti, come è giusto, ma di decidere sulla base di un solo criterio: la qualità”. “Quando ho indicato la strada dell’unità delle migliori energie del Paese come unica soluzione possibile, ho espresso l’auspicio che tutto il centrodestra condividesse la scelta di privilegiare la salvezza della nazione rispetto all’interesse di parte – sottolinea Berlusconi -. Sono contento che un grande partito come la Lega abbia maturato questa scelta. Non so se definirla una svolta, in fondo la Lega ha già governato con i Cinque Stelle, ma è certamente un atto di saggezza che anche in Europa sarà apprezzato”.
Leu, Nicola Fratoianni apre a Draghi: "Governo solo senza Salvini e Meloni, coi razzisti mai". Giovanna Casadio su La Repubblica il 4 febbraio 2021. Il segretario di Sinistra italiana: "I timori di Mattarella sono molto seri. Ma ogni esecutivo è politico. Il nostro voto dipenderà dalle scelte del premier incaricato e dagli alleati".
"Considero impraticabile sommare i nostri voti a quelli della destra nazionalista di Salvini e Meloni. Perché con i razzisti proprio no: c'è un limite a tutto". Nicola Fratoianni, riconfermato segretario di Sinistra italiana e deputato di Liberi e uguali (Leu), vendoliano di formazione, chiude la porta a governi di unità nazionale.
Fratoianni, Leu è spaccata: voi di Sinistra italiana direte no a Draghi mentre i bersaniani sono propensi al sì?
"Vedremo cosa accadrà in queste ore. Intanto bene ha fatto il segretario dem Nicola Zingaretti a riunire gli alleati Pd-Leu-5Stelle. Scardinare questa alleanza è stato l'obiettivo principale dell'atto di vero e proprio teppismo politico di Renzi".
Insomma il no a Draghi non è ancora deciso?
"Non l'abbiamo ancora detto. L'evoluzione di questa crisi nata sotto il segno negativo di Renzi, ci ha fatto transitare da un governo politico con una maggioranza giallo-rossa a un lido che non conosciamo. Non credo personalmente che esistano governi tecnici o tantomeno neutri, perché ogni governo è un governo politico".
E lei come ritiene sarà il governo Draghi?
"Dipende evidentemente dalla maggioranza che lo sosterrà. Considero impraticabile sommare i nostri voti alla destra nazionalista di Salvini e Meloni. Perché con i razzisti proprio no: c'è un limite a tutto. E poi ci sarà da valutare l'aspetto dei contenuti, di programma".
Cosa vorreste nel programma?
"Se il governo che nasce continuerà nella difesa di chi è più debole dentro la crisi e quindi prorogherà il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione, il sostegno al reddito, gli investimenti nella sanità pubblica, è un conto. Se invece il governo a cui si lavora vuole il Ponte sullo Stretto, la flat tax ed è il governo di chi considera l'Arabia Saudita il nuovo Rinascimento, è tutt'altra cosa e non ci piace".
Fino al punto di lasciare cadere nel vuoto il drammatico appello del presidente Mattarella?
"Le preoccupazioni del capo dello Stato sono estremamente serie. Fintanto che è stato possibile, ci siamo battuti per difendere il governo Conte. In ogni caso è massimo il rispetto per il presidente della Repubblica, a prescindere dalla scelta se appoggiare o meno Draghi. Comunque noi non diciamo no a Draghi perché è un banchiere come ha sostenuto il grillino Di Battista: questa è una sciocchezza".
Preferireste andare alle urne?
"In questo momento è evidente che il voto sarebbe problematico, però appena possibile, può diventare una opzione necessaria".
In generale è la politica che ha fallito?
"Il rischio è che questa crisi per come si è svolta dia un colpo alla politica e alla sua credibilità. Perciò questo passaggio va politicizzato e il modo per farlo è rendere più evidenti le priorità su cui la politica si qualifica".
Immagina un governo tecnico o politico?
"Dico che serve un governo politicamente connotato. L'unità nazionale non mi convince. Non si può fare un governo "un po' e un po'", perché non può esserci un governo della flat tax e della riforma fiscale in senso progressivo, le due cose non stanno insieme".
Crede davvero che l'alleanza giallo-rossa possa continuare?
"È molto difficile. Ma difendere questa alleanza è uno sforzo che bisogna fare".
Ma la sinistra è diventata contiana di ferro per mancanza di leadership alternative?
"Conte ha lavorato bene in un momento di grande difficoltà ed è stato garanzia di sintesi dell'alleanza".
Ignazio La Russa: "FdI mai con gli ex stalinisti di LeU". Ospite in tv nel secondo giorno di consultazioni, Ignazio La Russa ha cercato scompiglio nello studio de L'aria che tira parlando di ex stalinisti in riferimento a LeU. Francesca Galici, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Ignazio La Russa è un politico di lungo corso, conosce perfettamente i meccanismi di Palazzo de quelli della politica. In queste frenetiche giornate di consultazioni, oggi è stato anche il turno di Fratelli d'Italia, che nel primo pomeriggio ha incontrato Mario Draghi. Un incontro cordiale e costruttivo, durante il quale però Giorgia Meloni ha ribadito al presidente del Consiglio incaricato la ferma volontà del suo partito di non votare la fiducia al governo nascente. Non è esclusa l'astensione, ma è un discorso di cui si parlerà successivamente. Per il momento il partito di Giorgia Meloni ha confermato le posizioni di contrarietà già ampiamente espresse nei giorni precedenti. Ed è proprio sulle posizioni di Giorgia Meloni che Ignazio La Russa è intervenuto in diretta su La7 a L'aria che tira, appoggiando la linea politica segnata dal leader di Fratelli d'Italia. "Noi non possiamo andare 'male accompagnati' in questo governo: il problema non è Draghi, che noi rispettiamo, ma il fatto che, problema per problema, dovrà mettere d'accordo partiti che la pensano in maniera opposta. Se è stato difficile per Conte. E più aumentano i partiti...", ha detto il vicepresidente del Senato. La Russa ha ricordato quali sono stati i principi di valore e di merito che hanno messo le basi alla nascita del partito di Giorgia Meloni: "Fdi è nato dicendo mai più un governo tecnico, mai con il Pd . È normale che adesso vada, male accompagnato, con il Pd e gli ex stalinisti di Leu, i Cinque Stelle, con Renzi...". Come spesso accade, Ignazio La Russa non si è lasciato condizionare dal contesto e ha espresso in maniera chiara e senza troppi giri di parole il suo pensiero. La parola "ex-stalinisti" ha creato qualche rumore in studio ma il senatore non ha fatto un passo indietro. Ignazio La Russa ha ribadito il suo pensiero: "Post stalinisti di Leu? Sì, ho detto qualcosa di strano? I comunisti erano stalinisti. Voglio vedere quando hanno preso le distanze da Stalin...". Ribadendo la richiesta di Giorgia Meloni di astensione per tutto il centrodestra, Ignazio La Russa non ha chiuso le porte a Mario Draghi ma a una condizione: "Se Draghi dovesse dirci fra tre mesi, cioè entro luglio, io faccio il Cincinnato, come avveniva nell'antica Roma e finisce il mio governo" e si va a votare...". Una condizione posta anche da Giorgia Meloni, che ha però sottolineato la volontà del presidente incaricato di non avviare un governo a termine.
Giorgia Meloni: "All'opposizione sarò una sentinella. Salvini? Escludeva il sì..." Intervistata dal Corriere della sera, Giorgia Meloni ha ribattuto quanto già detto ieri a seguito delle consultazioni e il suo "no" a Draghi. Francesca Galici, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Ieri, Giorgia Meloni ha ribadito a Mario Draghi che lei non appoggerà il suo governo. Non una presa di posizione contro il presidente incaricato, che Giorgia Meloni si augura possa fare il bene del Paese, ma una contrarietà al metodo e alla possibilità di essere insieme a Pd e M5S. Nell'intervista rilasciata al Corriere della sera, il leader di Fratelli d'Italia ha ribadito proprio questo concetto. "Si tratterebbe di tradire quello che siamo, fin dalla nostra nascita. Fratelli d'Italia fu fondato in polemica con il Pdl per l'appoggio al governo Monti. Sulla base di convinzioni profonde: non posso governare con il Pd e il M5S, dal quale mi divide tutto. E non voglio far passare per inevitabili troppe cose che non lo sono", ha spiegato. Le basi delle convinzioni di Giorgia Meloni sono molto forti: "Non è vero che non è possibile andare a votare, non è vero che governando con gente con cui non si condivide nulla si possa fare bene, non è vero che un esecutivo tecnico, seppur autorevolissimo, faccia per forza meglio di uno che nasce con un mandato popolare, come la storia degli ultimi anni ci ha insegnato. La nostra non è solo una posizione di principio, è una salda convinzione". Il presidente di Fratelli d'Italia ha rimarcato la coerenza che da sempre guida le sue azioni e si è già schierata all'opposizione di questo governo in formazione: "È sempre bene che esista un'opposizione in una democrazia. Lo è perfino per chi governa, e l'ho detto anche al presidente incaricato. E' bene avere una sentinella, una voce libera, qualcuno che non deve seguire una linea per forza, in un senso o nell'altro". Per la Meloni, però, opposizione non vuol dire ostruzione: "A Draghi ho assicurato che se un provvedimento ci convince ci saremo, anche se si tratterà di votare in passaggi difficili per altri. E lo faremo senza chiedere nulla in cambio". La leader di Fratelli d'Italia è l'unica che al momento ha risposto negativamente e in maniera decisa a Mario Draghi: "Mi stupisce non poco che tutti gli altri dicano entusiasticamente, ed acriticamente, sì senza sapere nulla sul programma o sulla squadra: un uomo solo, seppur di grande valore, può fare molta differenza nel contesto giusto, meno in quello sbagliato". L'analisi della Meloni è molto lucida: "Sarebbe stato più facile per noi entrare al governo, nessuno avrebbe potuto rimproverarci nulla, saremmo stati tutti nella stessa situazione, nessuno avrebbe potuto fare le pulci all'altro. Ma se io faccio una cosa di cui non sono minimamente convinta, contraria a quello che ho sempre sostenuto, come potrebbe domani un elettore fidarsi ancora di me?". Sul voto a Draghi, la coalizione di centrodestra è divisa. Forza Italia ha già annunciato il suo voto di fiducia a Mario Draghi e Matteo Salvini parlerà oggi con il presidente incaricato. Una spaccatura che non impensierisce Giorgia Meloni: "Sarà utile fare un punto tra di noi prima del secondo giro di consultazioni. Sulle divisioni poi: di là si detestano e stanno insieme per necessità, noi siamo sempre stati insieme per scelta. Io penso ancora che presto andremo al governo insieme". La leader di FdI non giudica le decisioni dei suoi alleati: "Se mi aspettavo che Berlusconi e Salvini avrebbero detto sì a Draghi? Da Berlusconi me lo aspettavo, lo aveva lasciato intendere. Dalla Lega meno, lo avevano escluso, sempre che poi finisca così come sembra in queste ore...".
Mario Draghi, o "l'abbraccio mortale del Loden" (Meloni unica a capirlo). Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 06 febbraio 2021.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
C’è un che di tenero e di irritante al tempo stesso in questa generale fascinazione per Mario Draghi. Emerge, rugiadosa, quell’infantile propensione dell’italiano medio verso l’”Uomo competente”, (sorta di upgrade postmoderno dell’”Uomo forte”) catalizzata in una voglia di rassicurante, avvolgente lana cotta che avevamo già conosciuto con il loden di Monti e che poi si è visto quali disastri abbia prodotto. Una propensione emotiva unita, però, a una seccante mancanza di visione strategica e di memoria storica. Infatti, oltre l’ipnotico scintillìo della “competenza”, appare imperdonabile come non si voglia approfondire al servizio di quali obiettivi questa – pur oggettiva - sia stata dedicata. Non staremo qui a ripercorrere il percorso professionale di Mario Draghi, ma ci limiteremo a raccogliere la spuma dell’attualità: guarda caso, dopo mille ritrosie negli anni scorsi, il banchiere oggi ha accettato subito, senza colpo ferire, la chiamata del Capo dello Stato. Ursula von der Leyen lo ha immediatamente sponsorizzato in un modo così goffo e spudorato che, ai più, avrebbe dovuto sembrare abbastanza sospetto. Per non parlare del fatto che Draghi, uno dei tanti allievi dei gesuiti (ormai è chiaro: se volete avere successo nella vita, che vogliate fare gli showman o i politici, studiate dai gesuiti) è uno dei beniamini di Bergoglio che lo ha da tempo nominato perfino membro dell’Accademia Pontificia delle Scienze sociali, un onore che non aveva ricevuto nemmeno Giuseppe Conte, cocco del cardinale Silvestrini, a sua volta membro della Mafia di San Gallo. Improvvisamente, tutti i poteri che mirano all’annichilimento della sovranità italiana, dal punto di vista economico, geopolitico, identitario, demografico, etnico, culturale portano Draghi sulla sedia gestatoria come se fosse l’Uomo della Provvidenza. Ma … farsi una domanda? Guarda caso, lo spread, la garrota con cui era stato strangolato Berlusconi, è calato improvvisamente, come se fossero le acque del Lago di Tiberiade calmate da Gesù Cristo. Per non parlare dei media generalisti che, ormai, riservano al banchiere toni messianico-agiografici da Tg nordcoreano, e già solo questo dovrebbe far scattare l’allarme rosso. L’unica ad aver colto strategicamente il quadro e ad essersi smarcata da tattiche di piccolo cabotaggio è Giorgia Meloni, che, con eleganza ha sostanzialmente detto a Draghi: “Egregio, molta stima per le Sue capacità, ma lei viene da un mondo che per noi è NEMICO, per noi Lei è l’antimateria”. Dopo un periodo in cui gli italiani sono stati portati oltre i livelli di nausea umanamente sopportabili da ogni sorta di tradimenti, trasformismi, elusione di promesse, cambiamenti di casacca, incoerenze, la Meloni ha ben intuito che gli italiani hanno fame di posizioni chiare, nette, granitiche e incorruttibili. Vogliono GENTE CHE NON FIRMA PATTI COL DIAVOLO, anche a costo di rimetterci. In breve: vogliono la DIGNITA’ della politica. Dopo che il centrodestra è stato trattato come una pezza da piedi prima, durante e dopo le elezioni (l’ipotesi della formazione di un sua possibile governo non è stata nemmeno presa in considerazione da Mattarella) la Meloni ha fin troppo educatamente detto “no grazie” o si va a elezioni, oppure tenetevi quello che vi meritate. Questa è strategicamente la strada giusta, a nostro avviso, che infatti sta premiando la giovane signora spinta da razzi nei sondaggi mentre Salvini, imborghesitosi da tempo sulle Nutelle, sui “papà e le mamme”, fiaccato dai processi, ha perso diversi punti. E troppi ne perderà accettando – agli occhi degli elettori - di far parte di un’ammucchiata che solo apparentemente è di salvezza nazionale, ma che nei fatti si tradurrà nella traduzione puntuale degli obiettivi di poteri sovranazionali. La Meloni sa che l’Italia è divisa in due grandi fazioni: una europeista e una che riconosce nell’euro e nella Ue la radice di tutti i mali. O con il mondo, o contro il mondo; o di qua, o di là: vedrete quanti voti intercetterà FdI – ormai proiettato verso il ruolo di unico partito credibilmente sovranista - non solo dall’elettorato della Lega, ma anche da una gran massa di ex elettori cinque stelle, poveri cittadini pieni di ideali e di aspettative, truffati da una corte dei miracoli che ha fatto tutto e il contrario di tutto di quanto si era prefissata. E su questa battaglia “escatologica” fra due modelli di pensiero, uno centrifugo e uno centripeto quanto all’Italia e ai suoi interessi, gli elettori sopra citati non sono più disposti ad accettare tatticismi. E’ uno scontro molto più profondo di quanto i fumogeni della immediata convenienza politica facciano percepire, ne abbiamo parlato qui (ed è comico che nella vera Apocalisse si parli del “grande drago rosso” (la Cina?) e che il nome del prossimo premier faccia appunto “Draghi”. Ci manca solo che il prossimo candidato euro-progressista si chiami “Luigi Anticristi”). Difficile convincere il piccolo imprenditore distrutto dall’euro e dalla concorrenza cinese o il commerciante fatto a pezzi da Amazon, della necessità di collaborare con Draghi per racimolare qualche miserabile ministero o qualche posticino di sottosegretario. In questo senso, la Meloni è l’unica che ha mantenuto il polso emotivo di una larghissima parte del Paese, cosa che alla fine conta più di tutte, a livello elettorale. Vedrete che nomi di ministri tirerà fuori Draghi. Già filtra quello della Bellanova, la promotrice della sanatoria per gli immigrati: da far tremare i polsi. Sarà un Conte Ter al quadrato, solo più apparentemente presentabile e molto più abile ed efficiente nel perseguire gli obiettivi di Ursula von der Leyen. Sarà un governo che piacerà all’Europa, alle borse, ai media conformisti, (cartina al tornasole infallibile) a Bergoglio, il quale, con l’ultima enciclica “Fratelli tutti” ha praticamente dichiarato guerra all’Italia come stato-nazione. L’agenda di quello che viene chiamato “il Grande Reset” proseguirà a tappe forzate. Anzi, a tal proposito, infischiandocene bellamente del sospetto di complottismo – dato che ormai la realtà supera di gran lunga la più fervida fantasia cospirazionista - segnaliamo un libro molto ben fatto, “Il Grande Reset”, della “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, dedicato al piano preciso, ufficiale e documentato, sul quale istituzioni internazionali, filantropi, organizzazioni non governative e mega-aziende private collaborano apertamente già da tempo per organizzare una società in cui “nulla sarà come prima”. Buon loden a tutti.
Sei meloniani su dieci tifano Draghi. Ma gli italiani condannano Renzi. Giorgia non cede alle pressioni: "Voteremo solo i temi condivisi". Fabrizio De Feo, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Reale o illusoria che sia, la luna di miele di Mario Draghi con gli italiani è certamente iniziata nel modo migliore. I sondaggi lo accreditano infatti di un consenso ampio e trasversale, condiviso da elettorati molti diversi. L'indicazione è chiara: l'ex presidente della Bce rappresenta una figura che ispira fiducia e autorevolezza, può essere l'uomo in grado di fare la sintesi di istanze e identità diverse. È la rilevazione di Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera a fotografare la percezione che gli italiani hanno in questo momento di Draghi: la maggioranza dei cittadini, il 60%, pensa che un governo di alto profilo guidato da una personalità di livello internazionale sia la giusta strada da percorrere. Una convinzione sposata da cittadini di tutte le convinzioni politiche, visto che il consenso non scende mai sotto il 50%. In particolare tra chi vota Pd il gradimento al governo Draghi sale all'80%, tra gli elettori di Forza Italia raggiunge il 78%, all'81% tra le altre liste di centrosinistra. Gli elettori dei Cinquestelle lo promuovono con un buon 55%. Il dato più sorprendente è, però, il 60% dei consensi che Draghi ottiene tra gli elettori di Fratelli d'Italia, l'unico partito che finora ha annunciato che non voterà la fiducia all'ex governatore di Bankitalia. Ultima la Lega con il 51%, una percentuale che comunque significa che più della metà degli elettori salviniani vede di buon occhio questo esperimento. Il sondaggio indaga anche sul modo in cui i leader politici hanno gestito la crisi. Chi esce meglio da questa fase? Il primo è Giuseppe Conte con il 28%, seconda Giorgia Meloni con il 10% e terzo Matteo Salvini con il 9%. Su chi esce peggio non sembrano esserci molti dubbi: Matteo Renzi, secondo il 48% degli italiani. Un altro risultato sorprendente visto che il merito dell'operazione Draghi ricade largamente sulle sue spalle e sui suoi azzardi politici. Secondo il sondaggio Ipsos, quasi un italiano su tre il 28% degli intervistati vorrebbe un governo sostenuto da tutti i partiti. Il 13% vorrebbe un governo formato da tutte le forze politiche eccetto il M5S, mentre il 9% vorrebbe la conferma della maggioranza uscente e l'8% auspica la formazione della cosiddetta «maggioranza Ursula» (Pd, M5S, Forza Italia, Italia Viva e liberali).
Nel giorno in cui a Bologna Fratelli d'Italia è costretta a registrare una aggressione ai danni dei suoi militanti, arriva anche una lettera-appello a Giorgia Meloni per convincerla a votare la fiducia a Draghi. È l'associazione Rifare l'Italia, presieduta da Viviana Beccalossi, con il contributo di ex parlamentari come Massimo Corsaro e Gennaro Malgieri a ricordare che «ventisette anni fa nasceva la destra di governo. Ventisette anni dopo sarebbe irragionevole assistere alla regressione di quella svolta storica». I dirigenti di Fdi, però non sembrano intenzionati a cedere alle pressioni. Ed è la stessa Giorgia Meloni a ribadire al Tg5 la posizione di Fratelli d'Italia. Con una apertura, però, a Draghi. «Nessuna pregiudiziale nei confronti di Mario Draghi - dice -: Anzi in caso il suo governo riesca a portare in Parlamento provvedimenti condivisibili non faremo mancare il nostro voto».
Ugo Magri per huffingtonpost.it il 7 febbraio 2021. A volte Giorgia Meloni, donna intelligente e capace, dà l’impressione di vivere in un mondo a sé, dove accadono cose che riesce a vedere soltanto lei e agli altri, invece, non risultano affatto. Per cui le capita di sostenere tesi magari coraggiose, certamente originali, però difficili da accettare in base al cosiddetto senso comune. Ad esempio Meloni motiva il suo «no» a Mario Draghi sostenendo che dovremmo precipitarci a votare. Le risulta inaudito che Sergio Mattarella, invece di dare immediatamente la parola al popolo, abbia richiamato dalla pensione l’ex presidente della Bce incaricandolo di mettere in piedi un accrocco. Giorgia non riesce a spiegarsi in base a quale arcano l’intero mondo dell’economia, l’intera trincea del lavoro, abbiano festeggiato unanimi l’arrivo di Draghi. Le sembra assurdo, e del suo stupore non fa mistero. Capisce l’entusiasmo del Cav, che è sempre stato in fondo un po’ comunista; meno comprende Matteo Salvini, il quale potrebbe sedersi al tavolo di governo con i grillini, col Pd, addirittura coi quelli di Leu. Come si permette? Chiaramente qualcosa non quadra, impossibile darle torto: ai suoi occhi tutti viaggiano contromano, tutti hanno imboccato la corsia sbagliata dell’autostrada, tutti tranne lei si capisce. Forse farebbe bene a domandarsi il perché. Mattarella ha provato a spiegarlo con le parole più semplici: andare alle urne ci costerebbe il Recovery Fund. Sciolte le Camere, come pretende Fratelli d’Italia, tra un impiccio e l’altro resteremmo senza Parlamento e senza governo fino a giugno; ma la richiesta dei 209 miliardi andrà messa in bella copia e presentata in Europa entro fine aprile, dopo le elezioni saremmo già fuori tempo massimo. Per il gusto di anticipare le urne, ci saremmo fumati i denari di una vita. Senza contare che, nei tre mesi successivi alla presentazione del piano, ci vorrà qualcuno in grado di trattare con Bruxelles e con le altre capitali Ue (dove sono in molti a non fidarsi di noi). Draghi viene reputato la persona più adatta a sconfiggere i pregiudizi, a rintuzzare i paesi cosiddetti «frugali», a farsi mettere il timbro finale perfino da chi ci ha sempre odiato. Aggiudicarci in fretta quei maledetti miliardi è la sua unica vera «mission», che ha poco di politico in senso mediocre. Anzi: un traguardo più patriottico, più nazionale, più «sovranista» di quello affidato a Draghi in questa fase storica sarebbe impossibile da immaginare. Dargli i pieni poteri dovrebbe essere il Santo Graal di una destra generosa e intelligente. Con l’aiuto di Giorgetti, il Capitano ha colto il problema; si rende conto che non ci sarebbe da vergognarsi a sedere insieme con gli avversari, semmai andrebbe giustificato il contrario. Giorgia ripete invece che è meglio andare a votare, insiste che non esistono ostacoli: come se potessimo permetterci il lusso di rinunciare a 209 miliardi tra gli sghignazzi di quanti, in Europa, scommettono che non riusciremo nemmeno a incassarli. Una leader giovane, dinamica, ambiziosa come Meloni sta perdendo l’occasione di mettere al primo posto l’Italia. Pensando di giustificarla, qualcuno ipotizza scenari politologici sofisticati tipo: in questo modo ruberà voti alla Lega. Profitterà dell’opposizione contro tutto e tutti per catalizzare la protesta anti-sistema, scavalcherà Salvini come candidato premier alle prossime elezioni. Forse andrà proprio così. Ma potrebbe accadere il rovescio: che una volta al governo, se ci tornerà, Salvini ritrovi la centralità politica smarrita al Papeete. E riesca a concentrare i riflettori nuovamente su di sé, relegando nel cono d’ombra i seguaci della Meloni. Difatti chi conosce Giorgia nega che, dietro la scelta di mettere radici all’opposizione, ci siano calcoli elettoralistici. Semplicemente ha seguito il suo istinto, è andata là dove la porta il cuore. Ecco, appunto: il cuore dove la sta portando? Nonostante gli apporti di moderatismo e le iniezioni di cultura liberal-democratica, recati da Raffaele Fitto e da Guido Crosetto, al fondo dei Fratelli d’Italia sembra prevalere qualcosa di irriducibile, di tuttora irrisolto. Negli accenti forti del «no» a Draghi si avverte uno spirito identitario mascherato da orgoglio; un rifiuto dei compromessi spacciato per coerenza; un richiamo della foresta distillato come coraggio; un timore di integrarsi pienamente nel sistema declinato come scelta “in purezza”; un gusto plebeo ostentato quale titolo aristocratico (Meloni giorni fa si vantava del titolo di «pesciarola»). Si percepisce l’orrore di contaminarsi, la perdurante voglia di sentirsi “altro”, la rassicurante sensazione di star chiusi nell’antico ghetto della destra-destra. Perfino quando le porte del mondo sono finalmente spalancate.
"Figlia prodotta col compagno": l'ira di FdI per l'attacco a Meloni. Dopo lo scoppio del caso, La Stampa chiede scusa. FdI si compatta attorno alla leader: "Offesa in quanto mamma". Francesca Galici, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Giorgia Meloni è l'unica leader che per il momento ha dichiarato apertamente di schierarsi all'opposizione del governo Draghi. Non ha ancora sciolto le riserve su come intenderà procedere, se con l'astensione o il "no" ma quel che è certo è che non parteciperà alla formazione dell'esecutivo istituzionale. Una decisione senza pregiudizi nei confronti di Mario Draghi ma figlia della linea che da sempre Fratelli d'Italia persegue e che nemmeno ora Giorgia Meloni vuole tradire. La sua presa di posizione ha scatenato le polemiche e La Stampa le ha dedicato un lunghissimo articolo dal titolo "Meloni, la lotta e non il governo. La sovranista del gran rifiuto". Un pezzo che ha fatto infuriare gli esponenti di Fratelli d'Italia, che si sono compattati attorno al loro leader. L'incipit del pezzo, tema portante dell'articolo, è la chiave attorno alla quale si sono innescate le polemiche da parte di FdI: "Nella corsa a dire di sì a Draghi, l'unico partito a dirgli di no è anche l'unico a guida femminile". Successivamente, il giornalista riporta alcune delle esternazioni degli ultimi mesi di Giorgia Meloni, tra le quali: "La differenza fra un uomo e una donna è che noi donne non ci facciamo prendere la mano dal successo. Il testosterone dà alla testa: noi restiamo con i piedi per terra". In un excursus tra le varie frasi della leader di Fratelli d'Italia riporta anche l'ormai celebre: "Io sono Giorgia. Sono una donna, sono cristiana". Tutto, ovviamente, condito dal commento giornalistico che pretende (senza riuscirci) di fare dell'ironia. Ma fin qui si tratterebbe di uno dei tanti articoli di esibizione del machismo. Il passaggio che ha maggiormente indignato Fratelli d'Italia arriva dopo: "[...]Comprensivo di sensi di colpa perché la politica la tiene lontana dalla figlia piccola, Ginevra, prodotta con la collaborazione del compagno autore Mediaset di quattro anni più giovane e mai sposato (però è curioso: tutti questi campioni della famiglia tradizionale ne hanno una irregolare, almeno davanti a Dio. Lei però ribatte che è colpa di lui, che non vuole sposarsi)". Quel "prodotta con la collaborazione", in riferimento alla figlia di Giorgia Meloni, proprio non è andato giù a Fratelli d'Italia. Tra i più combattivi al fianco di Giorgia Meloni c'è il senatore Giovanbattista Fazzolari: "Oggi il quotidiano 'La Stampa' del direttore Massimo Giannini tocca uno dei livelli più bassi mai visti nel giornalismo italiano con l'attacco a Giorgia Meloni 'colpevole' di non aver partecipato alla beatificazione del governo Draghi". Il senatore entra poi nello specifico: "Non avendo argomenti politici, questo giornalismo spazzatura si permette di attaccare il presidente di FdI in quanto donna e peggio ancora nella sua qualità di madre, arrivando a mettere in mezzo la piccola figlia parlando di lei come 'prodotta con la collaborazione del 'compagno'. Solidarietà a Giorgia Meloni per questo disgustoso attacco". Accalorato è anche l'intervento di Isabella Rauti, senatrice di FdI: "Esprimo solidarietà a Giorgia Meloni come madre e come donna per l'attacco di bassissimo profilo che giunge oggi dalle colonne de La Stampa, che pubblica un articolo dove pur di colpire politicamente il presidente di Fdi si entra nella sua vita privata e si argomenta addirittura sulla figlia. [...] Considerare un figlio, perché così si legge nell'articolo pubblicato da La Stampa, come il 'prodotto di una collaborazione' è quanto di più grave e degradante oltre che evidentemente meschino. E, aggiungo, che lo stesso trattamento non sarebbe tributato a nessun leader padre, solo perché uomo!". Le senatrice sottolinea anche la disparità nel difendere le donne in base al loro schieramento: "Senza dubbio assisteremo al solito silenzio delle femministe e in servizio permanente, che quando è una donna di destra ad essere sotto attacco scelgono di stare zitte, il che equivale a condividere quanto scritto". È intervenuto anche Edmondo Cirielli, presidente della Direzione di Fdi: "Siamo di fronte all'ennesimo atto di sciacallaggio mediatico contro Giorgia Meloni, che, questa volta, ha toccato il fondo arrivando a coinvolgere la sua vita privata e finanche la piccola figlia Ginevra. Un attacco, quello rivolto dal quotidiano 'La Stampa', davvero disgustoso e ignobile su cui è doveroso un intervento immediato da parte della Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), sempre pronta ad intervenire in altri casi riguardanti, però, politici di sinistra". Galeazzo Bignami, deputato di Fratelli d'Italia, incalza: "Con lo squallido articolo pubblicato oggi dal quotidiano 'La Stampa' che definisce la figlia di Giorgia Meloni "prodotto di una collaborazione", il giornalismo militante di sinistra mette a segno un altro squallido colpo. Mi domando cosa ne pensino non solo il direttore de 'La Stampa' ma anche le tante femministe di sinistra che sono sempre pronte a levate di scudi solo se chi viene colpito da tale violenza e disprezzo è una donna della loro area politica. A Giorgia Meloni e alla sua famiglia giunga la mia solidarietà". Il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, alla luce delle polemiche, è intervenuto personalmente per porgere le sue scuse, e quelle del quotidiano, a Giorgia Meloni: "In un pur ottimo articolo su Meloni e sul no al governo Draghi, oggi su La Stampa il nostro Alberto Mattioli usa parole inappropriate in un passaggio su sua figlia Ginevra. Ce ne scusiamo con la leader di Fdi. Non è il nostro stile".
L'attacco al trucco della Meloni. Bufera sull'incoerente Selvaggia. Lucarelli pubblica un post sull'ombretto della Meloni. Lei che definì "battuta scema" il servizio di Striscia sulla Botteri. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale. Che Giorgia Meloni non attiri le simpatie dei più è ormai cosa nota. Penso lo sappia pure lei, e credo anche se ne sbatta altamente. La “caciottara”, la pescivendola, la “calva” con eccesso di testosterone. Sono più le volte in cui viene denigrata per come è, o come lo dice, di quelle in cui le contestano ciò che fa o le idee che esprime. Ieri su una pagina social da 1,5 milioni di follower, nel pieno di una crisi politica, Selvaggia Lucarelli le ha dedicato un post. Poche parole. Non per commentare la scelta della leader di FdI di restare sola all’opposizione di Mario Draghi, ma per sottolinearne l’ombretto sfoggiato in stile “trousse Deborah dell’85”. Confesso subito a Dio Onnipotente che ho molto peccato: per me si può criticare il trucco della Meloni così come la pochette di Conte o le felpe poco istituzionali di Salvini. Non sopporto neppure chi ogni due per tre tira fuori frasi del tipo “se fossi un uomo non lo avresti detto”: fa talmente comodo prendersela col "sessimo machista" che ormai criticare una donna è diventato più pericoloso di fidarsi di Renzi. Quello che tuttavia sorprende, e a giudicare dai commenti ha colpito anche diversi follower, è la rapidità con cui Selvaggia è passata dal giudicare “sgradevole” il servizio di Striscia la Notizia sui capelli di Giovanna Botteri ad usare lo stesso identico metro contro Meloni. Se venisse eletta in Parlamento potrebbe accodarsi ai Responsabili: le giravolte le vengono discretamente bene. Ricordate cosa accadde a maggio dell’anno scorso? Striscia sbertucciò Botteri per la capigliatura mostrata in diretta ed esplose un finimondo. Era bodyshaming, dissero in molti, spesso a sproposito. Pure Selvaggia se ne occupò. Spiegò che il servizio di Ricci era sgradevole “perché è evidente” che “a casa ci dovremmo occupare semplicemente" di ciò che uno dice e non di come appare in video. Giusto. Certo Lucarelli difese il diritto di fare battute su chiunque, dalle "amazzoni di Berlusconi" alla "tinta di Cacciari", ma spiegò anche che tutto dipende dai contesti, dal momento, dal ruolo: il "buonsenso" dovrebbe far capire "da soli dove arrivare e dove fermarsi". Quindi la "battuta fessa" sulla Botteri "si poteva fare", ma "era meglio non farla". Perché "se una donna che va in tv a raccontare il mondo in un momento in cui il mondo è così difficile da raccontare si dimentica di pettinarsi, più che prenderla per il culo, merita un applauso". Amen. Viene automatico pensare che la nostra, sempre così pronta a seminare giudizi, applichi rigorosamente alle azioni i propri ideali. Invece ieri s’è seduta davanti alla tv, ha ascoltato quel che Meloni aveva da dire, e anziché criticarne le scelte politiche ha preferito puntare sul make up. Lecito, lo ripeto. Ma incoerente. Sui social infatti s’è scatenato un pandemonio con innumerevoli commenti di reprimenda. Selvaggia ha replicato piccata negando che "una battuta su un ombretto" possa essere considerato bodyshaming. Infatti è solo una "battuta scema", come lei stessa la definiva, contro una leader già oggetto di ogni sorta di offesa. Si poteva fare, ma era meglio non farla a poche ore dagli insulti de La Stampa. Scrive un utente: "Non sarà bodyshaming, ma fa comunque cagare che una donna della tua levatura faccia le stesse scemenze che fa mia figlia di 16 anni". Chapeau.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 9 febbraio 2021. Il 9 febbraio è una di quelle date da segnare sul calendario e da celebrare ogni anno perché ricorrenza di una grande scoperta. E cioè: Fratelli d’Italia e i suoi elettori e rappresentanti hanno una loro sensibilità. Un loro punto di fragilità. Un tema su cui si stringono commossi e compatti. Un argomento su cui non accettano cinismo e aridità: IL GLITTER. Ebbene sì, a loro non frega nulla dei migranti, delle navi delle ong che vanno affondate, dei gay che non devono adottare e delle famiglie tradizionali, di elettori e buona parte della classe dirigente nostalgica del fascismo, dei fratelli d’Italia finiti in galera per ‘ndrangheta. No. Loro si offendono se dici che la loro leader donna-mamma-cristiana è pure glitterata. Un’offesa indicibile. Una ferita insanabile. Un dolore inconsolabile, per la povera Giorgia, che da ieri, per il mio tweet sul suo ombretto glitterato che sfoggiava ieri in tv (“La Meloni ha rispolverato la trousse Deborah dell’85”) non chiude occhio. Forse anche perché non è ancora riuscita a struccarsi, tanta è la sofferenza che l’affligge. Dire che il suo trucco in tv era anni ’80, che frase terribile. “Bodyshaming”, “Cyberbullismo!”, “E la solidarietà femminile?”, tuonano i suoi. Ed è bizzarro per due motivi: primo perché non si capisce bene quale sia il concetto offensivo. L’anno 1985 è insultante? Ma è un anno incredibile il 1985! Sono nati Ronaldo, Mario Bros e Ritorno al futuro, nel 1985. Potrei capire, che so, se avessi fatto riferimento a una trousse del 1924, anno delle prime elezioni fasciste, ma cosa avete contro il 1985, amici di Fratelli D’Italia? Di sicuro non ce l’avete con la marca “Deborah”. Avrei potuto dire “Huda” ma ho privilegiato il made Italy, come piace a voi. Il glitter che ha di intrinsecamente offensivo? Cioè, se dico che una si veste anni ’50 è bodyshaming? Quando dicono “Monti col suo loden anni ’70” è cyberbullismo? Quando scrivono che un’attrice o una cantante ha un look vintage è accanimento? Ma siete tutti scemi? Ah già, no, siete Fratelli d’Italia. Viene da chiedersi con quale terrore affronteranno Sanremo i commentatori social di tutto il paese. Basta un “Nina Zilli ha rispolverato una pettinatura anni ’30” per finire sodomizzati con una rosa spinata sanremese a gambo lungo. La Meloni, per giunta, è un leader politico e non serve spiegare che la satira si fa sui potenti, mica sulle mezze calzette (fermo restando che questa era una blanda battuta, manco satira). E la satira, sull’estetica della Meloni parte dai tempi del suo amato photoshop, sulla faccia piallata, la luce mariana, la sua somiglianza con Charlize Theron sui 6×3. Una satira, direi, più che gentile, che non ha mai turbato nessuno, nemmeno la Meloni. Ma Fratelli d’Italia, col suo comprensibile complesso di avere un manipolo di commentatori aggressivi, sessisti, violenti spesso spalleggiati da vari esponenti del partito sia a livello locale che nazionale, collezionisti di figure di merda epocali e di ignobili frasi L’iste, è alla ricerca disperata di scuse per fare un po’ di vittimismo facile. La Meloni truccata anni ’80? Bodyshamiiiiiing. Tra parentesi, ora sappiamo che i fratellini d’Italia hanno imparato la parola “bodyshaming”, chissà che non imparino presto anche cosa significhi “antifascismo”. Tra i tanti indignati che stanotte hanno faticato a dormire, così in pena per la Meloni, c’è Guido Crosetto, uno che usa i social retwittando i suoi commenti, tanto per intenderci. Uno che dopo essersi comicamente inventato di avere una laurea tempo addietro, continua a inventarsi cose per dipingere la Meloni come una povera vittima dell’odio della rete, quell’odio da cui i fratellini d’Italia si dissociano, notoriamente. E quindi, l’ancello Crosetto commenta il mio osceno, imperdonabile insulto “Gorgia Meloni con quel glitter ci sta dicendo qualcosa”, così: “La "signora" Selvaggia ci da un’ennesima prova della sua capacità di scandalizzarsi il lunedì e dare scandalo il martedì, indignarsi per la violenza social la mattina ed esercitarla la sera. Odia e non riesce a nascondere il suo sentimento”. A parte che se c’è una cosa che io odio è quel “da” senza accento che fa venire il sospetto che si sia inventato pure il diploma, vedere il Crosetto fondatore del partito che dell’odio si abbevera e abbevera i suoi elettori, in versione femminista-pacifista-pacificatore è tra i momenti più comici degli ultimi anni. Quasi quanto quella volta che il direttore del Museo egizio Greco spiegò alla Meloni la differenza tra lingua araba e religione musulmana. Crosetto, quello che a una giornalista de la Stampa disse in un fuori onda: “L’argomento che devo usare con te lo sai qual è… È che a te non ti spoglierebbe nessuno”. Il femminista. Lui e le sorelline d’Italia, altrettanto indignate e femministe, quelle che meriterebbero di venire catapultate nel ventennio fascista e provare l’ebrezza di non contare nulla, di dover fare le mamme, le donne, le cristiane e la calza. Quelle che “povera Meloni, povera piccoletta mortificata da un riferimento orribile al suo glitter” ma non hanno nulla da dire sulla piccoletta indifesa che teme il cous cous nelle mense scolastiche, che vuole l’abolizione del reato di tortura perché impedisce agli agenti di LAVORARE, che preferirebbe non avere un figlio gay, che basta con questa identità lgbt, che i migranti se ne tornino a casa loro, che portano il Covid, che affondiamo le navi delle Ong, che no alle adozioni gay, che blablabla, povero angioletto indifeso, promotore di campagne d’amore e tolleranza. Quella che ha tra i cavalli migliori della scuderia il presidente della Regione Marche, quello che passava a salutare gli amici nel ristorante in cui accanto allo spallino di vitello al tartufo, sul menù, campeggiavano nell’ordine: un fascio littorio, un’aquila con la scritta “Per l’onore dell’Italia”, il motto “Dio, patria e famiglia”. Quella che ha tra gli elettori anche i tanti bandierini che attaccarono la migrante salvata in mare perché aveva lo smalto. Lo smalto, non il glitter. Ma lì non era bodyshaming, e ve lo dico io. Lì era schifo, e basta. Era delegittimare il dolore. Insomma, alla fine, in fondo, avete ragione voi: il problema della Meloni non è il suo glitter anni ‘80, il problema è la mentalità anni ’20. Quella brutta, quella peggiore, magari mascherata da indignazione femminista. Quella che in queste ore mi sta dando della puttana, vacca, zecca, comunista, per difendere la Meloni dagli attacchi sessisti. Certo. E no. Non sarà un po’ di glitter a mascherare quello che siete.
Governo, gli ex An contro il no di Meloni a Draghi: "È un suicidio politico, significa portare i voti di Fdi nel frigo". Giovanna Casadio su La Repubblica il 6 febbraio 2021. Cresce il malumore nella destra che fu: da Beccalossi a Landolfi, l'appello di 24 esponenti del vecchio partito di Fini affinchè la leader di Fratelli d'Italia cambi idea sul sostegno al nuovo esecutivo guidato dall'ex presidente della Bce. E sui social il dibattito si accende: botta e risposta tra Crosetto e Storace. Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni, uno degli ex colonnelli di Gianfranco Fini, la dice così: "Oggi è come una guerra e ci sarà chi l'ha combattuta e chi no. Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia devono combatterla. Non appoggiare Draghi è un suicidio politico, è portare i voti nel frigo". Nella destra che fu - poi sparpagliata in vari rivoli - c'è molto malumore per il no di Meloni a Draghi. Al punto che un gruppo di 24 ex An, che si riconoscono nell'associazione Rifare Italia - e capitanati dalla consigliera regionale lombarda ex Fdl, Viviana Beccalossi - ha inviato una lettera-appello a Meloni perché ci ripensi. Non solo. Sui social il dibattito si accende. Guido Crosetto, uno dei fondatori di Fratelli d'Italia, sostiene la posizione di Meloni. Francesco Storace, storico esponente della destra sociale e vice direttore del Tempo, lo bacchetta. Daniela Santanché, senatrice e coordinatrice lombarda di Fratelli d'Italia, convintamente sostiene la coerenza del no: "Saremo l'opposizione patriottica". E via così, fino ad accapigliarsi sul sondaggio di Pagnoncelli sul Corriere della sera, che fotografa un elettorato di Fdl al 50% a favore del sostegno a Draghi da parte di tutte le forze, senza esclusione. Nella lettera dell'associazione "Rifare Italia"- nata su iniziativa tra gli altri di Landolfi per il no al referendum sul taglio dei parlamentari - è scritto: "Ventisette anni fa nasceva la destra di governo". Era il marzo del 1994 (nel gennaio ci sarebbe stato il congresso di Fiuggi) e per la prima volta compare il simbolo Msi-An. Quindi "ventisette anni dopo sarebbe irragionevole assistere alla regressione di quella svolta storica astenendosi o addirittura negando la fiducia al costituendo governo guidato da Mario Draghi. Tanto più se si considera che allo stesso è affidata l'imponente missione di ricostruire una nazione funestata dalla pandemia e dalla crisi economica". La strada da imboccare è un'altra per gli ex aennini, che ricordano a Meloni l'eredità che Fratelli d'Italia non deve dimenticare. "Ostinarsi a invocare elezioni anticipate in un contesto come quello appena tratteggiato rischia di apparire come una fuga dalle responsabilità. Un atteggiamento che mal s'attaglierebbe a chi dice di avere il patriottismo nel proprio Dna politico-culturale. Per questo ci ostiniamo a ritenere non ancora definitivo l'annunciato no o la ventilata o la ventilata astensione di Fdl al governo Draghi. Ritirarsi sotto la tenda e di lì abbaiare alla luna equivarrebbe a un suicidio culturale, morale e politico. Un atteggiamento che gli italiani di oggi non capirebbero e che quelli di domani non mancherebbero di condannare". Gli ex aennini avvertono che "l'utilizzo di ingenti risorse europee richiederanno un forte processo di riforme e di innovazione. Da cui la destra non può escludersi, affinché tutto avvenga finalmente fuori dalle logiche clientelari che hanno caratterizzato il precedente esecutivo. In questo caso il tentativo affidato a Draghi è autenticamente patriottico: chiunque vi parteciperà, contribuendo al suo successo, avrà dato prova concreta di riuscire ad anteporre la nazione alla fazione". Ed ecco le firme, molti ex parlamentari della destra come Giorgio Bornacin, Antonio Cilento, Massimo Corsaro, Giovanni Collino, Nicola Cristaldi e poi Fabio Chiosi, Andrea Fluttero, Gennaro Malgeri, Lucio Marengo, Matteo Masiello, Giuseppe Menardi, Leo Merola, Riccardo Migliori, Giovanni Miozzi, l'ex presidente della Provincia di Roma Silvano Moffa, Sabino Morano, Franco Nappi, Rosario Polizzi, Cosimo Proietti, Daniele Toto, Vincenzo Zaccheo, Marco Zacchera. Su Twitter, Crosetto invece rilancia la scelta: "Veramente qualcuno preferirebbe che non ci fosse alcuna opposizione parlamentare? Mi pare che la posizione di Giorgia Meloni sia seria e coerente, qualsiasi governo vorrebbe avere una opposizione così". Storace contrattacca: "Se Fdl fosse entrata, l'opposizione sarebbe stata a sinistra". Santanché, dal canto suo: "Capisco che la coerenza è fuori moda: Draghi è un fuoriclasse, ma noi con Boldrini, Zingaretti e Di Maio non ci stiamo. Però se farà cose che condividiamo, le voteremo".
"Io sono della Lazio", "Io so' de la Roma": siparietto calcistico tra FdI e Mario Draghi. Giorgia Meloni ha detto no al governo Draghi ma con il presidente incaricato il clima è disteso e si è scherzato anche sulla rivalità tra la Lazio e la Roma. Francesca Galici, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Giorgia Meloni ha detto no al governo di Mario Draghi. Fratelli d'Italia ha mantenuto la linea che fin dal principio ha tracciato la leader del partito. Già dal primo giro di consultazioni, Giorgia Meloni ha annunciato al premier incaricato che lei e Fratelli d'Italia si schiereranno all'opposizione ma in modo responsabile, senza negare l'appoggio nel caso in cui le proposte dovessero essere in linea con quanto chiesto dal partito. "Per una ragione di metodo e di merito non voteremo la fiducia, ma non per un pregiudizio nei confronti del presidente Draghi", così il presidente di FdI al termine dell'incontro con il presidente incaricato. Non c'è ostilità, non c'è un clima d'odio che troppo spesso si respira nella politica italiana e lo dimostra il siparietto riportato da Repubblica quest'oggi. Gli animi sono stati distesi per tutto l'incontro tra la delegazione di Fratelli d'Italia e Mario Draghi. Al momento dei saluti, ormai sulla porta, il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida avrebbe fatto un ultima battuta al presidente del Consiglio incaricato, notoriamente di fede romanista. "Io comunque sono della Lazio", ha detto il deputato a Mario Draghi, chiudendosi la porta alle spalle. Un fuori programma simpatico, un modo per saldare ulteriormente i rapporti e dimostrare apertura. Repubblica riporta che il presidente incaricato abbia accolto bene l'esternazione di Lollobrigida. Draghi si sarebbe alzato dalla sua poltrona e avrebbe riaperto la porta per rispondere a tono a Lollobrigida: "Ma io so' de la Roma". Un siparietto in dialetto romanesco che ha strappato qualche sorriso, chiuso da un'ultima battuta da parte di Giorgia Meloni: "Presidente, lo lasci stare. È di Tivoli...". Tutto questo dimostra il clima comunque disteso con il quale si stanno svolgendo le consultazioni per la formazione della nuova maggioranza. La battuta di Giorgia Meloni rimarca ulteriormene le ancestrali rivalità calcistiche tra i tifosi della Roma e della Lazio. I primi sono notoriamente i tifosi dell'Urbe, i romani de Roma per i quali esiste un'unica fede nei colori della Maggica. Per i tifosi della Roma, chi tifa Lazio vive solitamente oltre i confini della Capitale, al di là del Raccordo anulare e da qui nasce la battuta di Giorgia Meloni nei confronti del suo capogruppo alla Camera nato, appunto, a Tivoli.
Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 5 febbraio 2021. Mario Draghi, domani alle 12.15, chiuderà il giro delle consultazioni incontrando a Montecitorio la delegazione del Movimento 5 Stelle guidata da Vito "orsacchiotto" Crimi (il copyright del soprannome è di Roberta Lombardi, raro esemplare di grillina ironica, nata ad Orbetello e però cresciuta a Boville Ernica, in Ciociaria). Draghi e Crimi. Uno di fronte all' altro. Qualcuno scatti una foto. Crimi, pazzesco, sempre lui. Immagini in dissolvenza: le consultazioni del marzo 2013, Bersani, i grillini che imposero un confronto in diretta streaming, la Lombardi e il nostro "orsacchiotto" dall' altra parte del tavolo a fare i duri e puri (dopo: al governo prima con Salvini e poi con il Pd, le auto blu, la bava da potere, le poltrone da prendere). Crimi ha preso anche qualche chilo. E, nel frattempo, è diventato il capo provvisorio, il reggente del Movimento: ma conta meno di un curatore fallimentare. La sua carriera, in questi irripetibili anni di governo a 5 Stelle, dopo un avvio promettente, si è fermata. Lo ignorano, lo mortificano. Mai invitato da Beppe Grillo nella suite dell' hotel Forum con vista sul Colosseo. Mai una citazione da Dibba nelle sue dirette Facebook. E poi Paola Taverna, ormai tutta in ghingheri, con la Louis Vuitton e il tailleur giusto, ma i modi di fare che sono sempre gli stessi: «A Vitooo! Ma che stai a dì? Nun te se capisce quanno parli». Lui allora viene avanti con questa aria da falso pacioccone, lo sguardo torvo, la vendetta covata. Un giorno lo beccano a Radio Luiss che confessa: «I giornalisti mi stanno sul cazzo». Se la prende con noi. Non sarebbe l' unico: c' è però il problemino che intanto l' hanno fatto Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all' Editoria. Populista, cattivello, minacciosetto. Ha un'idea efferata: chiudere una leggenda, Radio Radicale. «Sei un gerarca minore», lo gela Massimo Bordin, il fuoriclasse che la dirigeva. Polemiche, stupore. Crimi intuisce l' antifona, china il capo: «Chiedo scusa a tutti i giornalisti bravi e seri, che sono davvero tanti». Si specializza in gaffe: deve chiedere perdono anche all' allora Capo della Stato, Giorgio Napolitano. «Non volevo offenderlo quando ho detto di averlo trovato piuttosto sveglio». Due giorni dopo un fotografo appostato sulla tribunetta di Palazzo Madama punta il teleobiettivo su uno che dorme e russa a bocca spalancata. La testa ciondoloni. Le braccia corte, e conserte. Un orsacchiotto in letargo. È lui: Crimi. Cominciano a imitarlo: Crozza, Fiorello. Su twitter parte l' hashtag: #romanzocrimi. Lui reagisce innamorandosi: si fidanza con una collega del Movimento, la deputata Paola Carinelli, e insieme hanno un figlio. Ma un' anima pia a 5 Stelle spiffera: non avete idea del suo primo matrimonio. Una pacchianata. Spunta un raccontone: Vito il frugale che arriva davanti alla chiesa di Santa Maria della Stella, ad Albano Laziale, a bordo di una Rolls Royce Excalibur grigio perla. Ricevimento nella più lussuosa villa sull' Appia Antica, prato all' inglese, e lui - quello che ai meet-up si presentava scamiciato - in tight. Ha 48 anni, è nato a Palermo, quartiere Brancaccio: secondogenito di due genitori impiegati all' Upim, boy-scout nella parrocchia carmelitana San Sergio I, il liceo scientifico, la facoltà di Matematica lasciata per trasferirsi a Brescia («Avevo vinto il concorso nella locale Corte d' Appello»). Poi il rettilineo che porta diritto in Parlamento. Sei contento, adesso, Vito? No. Pensa che poteva andargli meglio. La fonte fa un po' di capricci, ma poi scodella un colloquio riservato. Primi di settembre di due anni fa (mentre accroccavano il nuovo governo giallo-rosso e Luigi Di Maio spiegava la scena). «Vito caro, allora: tu farai il vice ministro dell' Interno e». «Vice? No, scusa: e perché non il ministro?». «Per una ragione di equilibri. Però guarda che essere il vice al Viminale è tanta roba». «Ma io voglio essere ministro!». «No, Vito. Mi spiace, non è possibile» (Di Maio, se necessario, sa essere molto duro). «Persino Toninelli farà il ministro». «Vito, dai non fare così non piangere, Vito». La Lombardi ci aveva preso: immaginarselo che singhiozza deluso, proprio un «orsacchiotto». Però dai suoi occhi ecco che subito si sprigiona un guizzo di inatteso furore. Gli hanno appena riferito che Grillo e Di Maio, sia pure piantando qualche paletto, avrebbero aperto all' ex presidente della Bce. Vito scuote la testa. Ancora una volta: smentito (poche ore fa, la sua dichiarazione era infatti stata definitiva: «I 5 Stelle non voteranno la fiducia a Draghi»). Ma ormai è andata. Adesso scegli la cravatta giusta, Vito. E ricordati di chiedere una foto. Con Draghi, non ti ricapita.
Giuseppe Conte apre il tavolino in piazza, Luigi Di Maio si schiera con Mario Draghi. L'ex premier non si oppone al nuovo incaricato e si propone come leader dell'alleanza giallorosa: ma, più che un predellino, è una resa. Il M5S, crollate le resistenze, è in piena inversione a U. A breve, tutti con l'ex presidente della Bce purché sia un governo «politico». Ma Giggino si è posizionato prima di tutti. Susanna Turco su L'Espresso il 04 febbraio 2021. È la foto della débacle di Conte, la sua finale capitolazione: l'avvocato del popolo apre il tavolino in piazza, davanti a Palazzo Chigi. Parla in piedi, solo, giacca e mascherina, sembra un banditore. Dice che a lui Draghi va bene, e agli alleati che lui c'è. Provano a raccontarlo come un predellino: ma è al massimo un predellino-wanna-be. Fuori da un palazzo dove non tornerà più, e con un giorno e mezzo di ritardo rispetto ai normali tempi di cortesia istituzionale, il premier dimissionario Giuseppe Conte scioglie finalmente all'ora di pranzo quello che rischiava altrimenti di diventare un seccante inciampo nella costruzione del futuro. Assicura di non essere un ostacolo: «i sabotatori cerchiamoli altrove». A M5S dice: «Ci sono e ci sarò». A Pd e Leu: «Dobbiamo lavorare insieme». Fa sua, infine, la formula cui si è avviticchiato il Movimento: «Auspico un governo politico». È il via libera finale. Il segno che anche la più strenua fra le resistenze del mondo grillino è caduta, anche se naturalmente le polemiche interne e il dibattito continueranno ancora. Eppure ci aveva provato fino all'ultimo, il presidente del Consiglio uscente e l'intera cordata che lo sostiene. Una filiera trasversale di consiglieri, che va dalla comunicazione (Rocco Casalino) all'informazione (Marco Travaglio), dal partito che l'ha espresso (Rocco Crimi) a quella degli alleati (Goffredo Bettini, ma anche Andrea Orlando nel Pd, e poi Roberto Speranza di Leu). E che anche dopo che Draghi aveva ricevuto l'incarico esplorativo, ha continuato a lavorare, ognuno al suo livello: dentro ai Cinque stelle per provare a consolidare «l'o Conte o morte», magari addirittura un «no» al governo dell'ex presidente della Bce, nella speranza incongrua di far risorgere, ancora, il premier dimesso; fuori dai Cinque stelle, per ridimensionare l'operazione Draghi e la portata del governo che si prepara a costruire e, di nuovo, proporre Conte come «unico punto di equilibrio possibile» per M5S, Pd e Leu, come se il quadro generale fosse ancora quello di prima. Un'operazione, questa di Conte, uguale e contraria rispetto a quella di Luigi Di Maio. Favorevole alla prospettiva che Draghi porta con sé, più in asse anche quanto a traiettorie internazionali, il ministro uscente degli Esteri sin dalle prime ore dell'incarico ha lavorato a traghettare verso il sì i singoli deputati e senatori (contemporaneamente oggetto delle chiamate dell'altra sponda e d'obiettivo opposto). Tenendo anche informalmente, a quanto trapela, contatti con un Quirinale particolarmente attento a osservare il trattamento riservato al presidente incaricato. E lavorando anche per sé, naturalmente, come testimoniano le voci che danno un possibile suo ingresso nel nuovo esecutivo. Non è comunque affatto un caso che, alla fine di questo processo incrociato, di questo scontro sordo dentro al Movimento, la sospirata dichiarazione pro Draghi di Di Maio preceda di un'ora e mezza quella di Conte col suo tavolino: il ministro uscente degli Esteri dice che che M5S ha il dovere di ascoltare l'ex presidente della Bce e ringrazia il capo dello Stato Sergio Mattarella prima che lo faccia il suo ex premier. Un segno eloquente di come siano distribuiti i pesi tra i due in un Movimento comunque sempre più disorientato. Ecco dunque l'inversione a U di M5S, particolarmente vistosa nel caso del reggente Vito Crimi e del fondatore Beppe Grillo. Il comico genovese, che fino a mercoledì pomeriggio faceva trapelare «avanti con Conte, mai con Draghi», ha preso poi precipitosamente a telefonare tutti sostenendo la linea opposta della «grande opportunità» di tornare al governo. Crimi, che martedì sera a due ore dal messaggio di Mattarella aveva scritto su Facebook un chiaro e tondo no al «governo tecnico» dell'ex presidente della Bce, adesso è attestato su un assai più modesto: «porteremo al tavolo il M5S e la sua storia. Il reddito di cittadinanza è uno dei punti fermi». La questione del no al governo «tecnico», ma sì al governo «politico» è, alla fine, l'ultima ridotta dentro cui si stipa il Movimento Cinque stelle ormai persuaso ad accettare quello che Alessandro Di Battista chiama «apostolo dell'elite». L'aggettivo scelto («politico») è particolarmente paradossale, se pensiamo che i grillini erano entrati in parlamento proprio nel nome della fine della politica, con l'idea di arruolare «gli esperti» a suon di «curriculum» e aprire così i palazzi come tante scatolette, e arrivati a scannarsi per chi decide la prossima delegazione di governo senza nemmeno avere la soluzione.
Tutti i vaffa di Grillo a Draghi. Oggi il faccia a faccia col premier incaricato, con quello che fino a poco tempo fa apostrofava nei peggiori modi possibili. Domenico Ferrara, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Chissà se Beppe Grillo gli dirà che è "un banchiere mai eletto da nessuno" che lavora "per conto della finanza, di chi vuole la garanzia che gli investimenti nelle imprese italiane comprate in questi mesi per un pezzo di pane e la quota di debito pubblico non vengano perduti". Questo pensava il comico di Draghi nel 2014 etichettandolo come colui che "detta ordini al signor Napolitano che esegue prontamente nominando a destra e a sinistra tizio e caio senza passare dalle elezioni in funzione dell'obbedienza cieca e assoluta ai voleri della Troika e al trionfo della finanza sugli Stati sociali e sulle Costituzioni nate dalla guerra contro il nazifascismo e ormai considerate obsolete, come ricordato dalla JP Morgan". Non proprio sviolinate. Anzi. All'epoca il presidente della Bce era quello che "auspicava una diminuzione di sovranità nazionale" e che "ricompensa il crack finanziario azzerando il welfare dei paesi" perché "per loro la Sanità è un costo, la pensione è un costo, la scuola è un costo. Stanno tagliando tutto questo per pareggiare il crack finanziario con l'economia reale. Il ricatto sull'articolo 18 è sulla Bce. Noi siamo sotto scacco di questa gente qua. Che sia giusto o sbagliato non sta a me dirlo ma io non accetto nessun tipo di ricatto da una banca centrale". Chissà se oggi gli dirà anche questo. Chissà se gli rammenterà che lo definì "una Mary Poppins un po’ suonata che tira fuori dalla sua borsetta sempre le stesse ricette" (il riferimento era ai continui tagli del costo del denaro da parte della Bce). E soprattutto chissà se gli ricorderà che nel 2017 ospitò sul suo blog un articolo dall'eloquente titolo: "Comanda il popolo, non Draghi" in cui sostanzialmente si sosteneva la necessità di "rompere la gabbia, riappropriarsi della sovranità svenduta a cleptocrati, tecnocrati, oligarchi. Ricostruire dalle macerie l'Europa dei popoli. Chiamando i cittadini ad esprimersi col referendum. Il presidente Bce, invece di affermare che l'euro è irreversibile continuando a foraggiare le banche con migliaia di miliardi di euro, regalati ai banchieri 'amici' per taglieggiare le imprese e drogare i mercati, farebbe meglio a proporre una revisione dei Trattati europei "capestro". L'unica strada per il futuro dell'Italia è quella di uscire da questa gabbia di strozzinaggio europeo ad egemonia tedesca (non certo dall'Europa), che ha imposto il primato di una moneta 'l'Euro' a misura del 'marco', il dominio di banche e finanza sulla sovranità popolare". Chissà. Purtroppo, non ci sarà alcuna diretta streaming che possa rispondere a queste curiosità. Sono lontani i tempi del confronto con Matteo Renzi trasmesso sui social. I più informati dicono che Beppe Grillo si sia scapicollato a Roma per fare da scudo al Movimento 5 Stelle, per evitare la sua implosione e per accettare un governo politico. Il garante sarebbe pronto a scendere a patti col diavolo. Almeno con quello che fino a poco tempo prima era considerato così. Uno vale uno, ma Grillo vale più di tutti. La sua faccia è quella giusta da contrapporre a Draghi. Basterà a far digerire ai suoi elettori l'ennesima giravolta di un Movimento che negli ultimi anni ormai ha detto e fatto tutto e il contrario di tutto? Il rischio sembra calcolato. C'è da salvaguardare gli scranni dell'Aula, ancor di più che l'anima del Movimento stesso.
Francesco Bonazzi per la Verità il 7 febbraio 2021. «Penso che sia una brava persona, ma cosa fa tutto il giorno alla Bce, quando non alza i tassi dello 0,25%?». Parole di Beppe Grillo su Mario Draghi del 2013. Poi ci si chiede da quale recesso dell'inesplicabile umano sia spuntato uno come Luigi Di Maio, con il suo ormai leggendario: «Draghi? Mi ha fatto una buona impressione». Grillo comunque ha fatto il comico per larga parte della sua vita e adesso è planato sulla Capitale per diradare le nuvole sui giorni più bui del Movimento. Dovrà metterci la faccia Beppone, oggi, quando guiderà la delegazione pentastellata, in compagnia (da quanto si apprende) dell'ormai ex premier, Giuseppe Conte, per dare il via libera alla «brava persona» e impedire che il M5s venga polverizzato dalle elezioni. E pazienza se non solo il popolo grillino ricorda bene la quantità di insulti e prese in giro che in passato Grillo, il più puro dei puri, ha riservato a Draghi, che «andrebbe processato per il crac del Monte dei Paschi di Siena», al Pd («Gente sporca dentro») e a Matteo Renzi («buffoncello» ed «ebetino»). La verità è che la mossa di Sergio Mattarella ha frantumato tutti i principali partiti e la coerenza, ovviamente, al momento di negoziare le cadreghe va a farsi benedire. Per lunghi anni, Draghi è stato un bersaglio facile di Grillo e del grillismo. Ma Grillo stesso lo è stato, almeno nel caso del leggendario meeting sul Britannia del 1992, nel corso del quale l'allora direttore generale del Tesoro spiegò a una platea di investitori e banchieri anglosassoni perché dovevano puntare sulle privatizzazioni italiane. Negli anni, quel discorso per molti sarebbe stata la prova della «svendita» della nazione agli stranieri, ma è successo anche che a bordo di quel panfilo di Sua Maestà, le teorie complottiste abbiano fatto salire un po' chiunque, come se fosse una novella Loggia P2. Perfino Beppe Grillo è stato accusato di essere stato presente, anche se è un falso clamoroso. Non sono invece dei falsi le cosucce che l'ex comico di Sant' Ilario diceva sull'ex banchiere di Goldman Sachs. Uno dei primi dossier che Draghi dovrà affrontare, se riuscirà a formare un governo, è quello della privatizzazione del Monte dei Paschi di Siena. Beppe Grillo ne chiede la nazionalizzazione dal 2013 e negli anni non ha risparmiato neppure Draghi, che è stato anche governatore di Bankitalia. «Per il caso Montepaschi dovrebbero essere messi sotto processo», chiedeva sotto elezioni il 13 febbraio 2013, «i vertici del Pd dal 1995 a oggi, la Banca d'Italia, Draghi e la Consob». Un anno più tardi, il 29 aprile 2014, Grillo andò all'assemblea della «banca dei compagni», per dire che di quel disastro «sono responsabili la Consob, la Banca d'Italia e forse anche Draghi». Probabilmente, sul futuro premier, gli era cominciato a venire qualche dubbio, tipo che non facesse parte della «banda Mussari». Quello che Grillo non perdonava a Draghi era più che altro il perfetto allineamento con l'Ue. Grillo, quel che ha detto ha detto e ora ci si prepara al prossimo giro di valzer nel salone delle feste del Quirinale. Un Draghi in versione affamatore del popolo è quello che emerge da vari attacchi di Grillo sul suo blog. «Draghi e la Bce ricompensano il crac finanziario azzerando il welfare dei Paesi», attacca Grillo su La 7 il 22 settembre 2014, parlando di oscuri «ricatti della Bce» sull'abolizione dell'articolo 18, perorata da Matteo Renzi. Il capolavoro degli attacchi a Draghi, però, è quello all'apparenza più garbato. Intervistato dalla tv americana Cnbc International (17 maggio 2013), Grillo gli fa la seguente pubblicità: «Noi non contiamo nulla qua, non succede nulla che i grandi poteri finanziari non decidono. Decidono loro, Jp Morgan, le agenzie di rating, la Bce non proprio Draghi». Poi aggiunge: «Penso che lui sia una brava persona, ma quando non aumenta i tassi dello 0,25% che fa? Cosa fa tutto il resto della giornata?». Gli attacchi più diretti alla «brava persona» li ha sempre lasciati fare ad altri sul suo blog. A cominciare dal senatore Elio Lannutti, fondatore dell'Adusbef ed esperto conoscitore di magagne bancarie, per il quale «Mario Draghi è colui che nel marzo 2008, da governatore, autorizzò Monte dei Paschi ad acquistare Antonveneta per il prezzo folle di 9 miliardi». E poi, visto che il presidente della Bce aveva definito la scelta dell'euro «irreversibile», lo stesso Lannutti gli ricordò che «comandano i popoli, non Draghi» (Blog delle stelle, 7 febbraio 2017). Quanto alla storia di «Draghi massone», diretta conseguenza dell'epifania sul Britannia, in ambito M5s è stata evocata dal sedicente «massone democratico» Gioele Magaldi, intervistato dal blog di Grillo il 5 gennaio 2015 e ripreso dall'agenzia Ansa del medesimo giorno. Comunque, capita di cambiare idea. Ne sanno qualcosa nel Pd, vittime preferite delle intemerate grilline prima di governare tutti insieme appassionatamente. A marzo del 2017, il deputato pd Michele Anzaldi ne fece una raccolta sull'Huffington Post: «Il Pd è il partito preferito dalla Camorra» (14 gennaio 2016); «Partito di lotta e di massoneria» (28 ottobre 2014); «Il Pd? Tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di denaro e di petrolio» (31 marzo 2016); «Gli elettori tipo del Pd sono ex broker o ex Banda della Magliana» (20 gennaio 2015); «Il Pd? Gente sporca dentro» (22 aprile 2016). Quanto a Matteo Renzi, negli anni da premier si è beccato dell'«ebetino», dell'«ebolino», della «scrofa ferita». Di tutto questo, alla fine, è rimasto il tavolino di Giuseppe Conte davanti a Palazzo Chigi, che si candida a guidare M5s e Pd nel governo Draghi. Con la benedizione di Grillo, il quale, alla fine, è anche lui «una brava persona».
Il comico e la "Mary Poppins un po' suonata". “Draghi una bravissima persona”: anche Grillo, dopo Di Maio, ha avuto una buona impressione. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. “È proprio una bravissima persona”, Mario Draghi, il Presidente del Consiglio incaricato dl Capo dello Stato Sergio Mattarella. A pensarlo e a dirlo è Beppe Grillo, il garante del Movimento 5 Stelle sceso a Roma per partecipare alle consultazioni con il premier incaricato. “Proprio una brava persona”, avrebbe detto, come ha scritto in un retroscena Il Foglio. Una toccata e fuga, quella del comico, che terminato l’incontro non ha parlato con i giornalisti. Non è passato dalla Sala della Regina. È andato verso il garage della Camera, e via. Lasciando dietro di sé e in mano a un M5s a pezzi le sue buone impressioni e una consueta frase enigmatica. “Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti”. È di Platone, la citazione. Ignoti invece i destinatari: forse una Lega che dovrebbe essere esclusa dall’esecutivo, come vorrebbe il Partito Democratico; più probabilmente la fronda anti-governista guidata da Alessandro Di Battista interna al M5s. L’ermeneutica si spreca. Quello che sembra certo è invece l’idea di Grillo dei 5 Stelle del futuro, sul modello dei Verdi tedeschi, come ha scritto sul suo blog. Un partito cui mettere capo Giuseppe Conte. Subito però un ministero per la Transizione Ecologica da affidare allo stesso “avvocato del popolo”. Prima ancora dei Grunen in salsa grillina, quindi, la partecipazione all’esecutivo Draghi, “non possiamo non essere della partita, che dobbiamo imporre i nostri temi” avrebbe detto durante i 45 minuti di riunione pre-consultazioni. Draghi è “la nostra salvezza”, avrebbe aggiunto il garante, secondo il Corriere della Sera. Da uomo dei “vaffa-day” a sarto, artefice di cuciture all’interno e all’esterno del Movimento per formare il governo. Un altro Grillo. Altra idea per Conte è quella di ministro al Recovery Fund. Si vedrà: lunedì parte la seconda tornata di consultazioni. Davide Casaleggio intanto prova a tornare nel gioco spingendo per il voto su Rousseau. Un’accoglienza tiepida per il figlio del guru Gianroberto. Gli indecisi potrebbero essere ancora troppi, una 40ina al Senato, forse. Per niente indeciso Grillo che su Draghi è passato da una “Mary Poppins un po’ suonata” a una “bravissima persona”. Un’ottima impressione insomma, la stessa che l’ex Presidente della Banca Centrale Europea fece all’attuale ministero degli Esteri Luigi Di Maio. Chi l’avrebbe mai detto.
Niccolò Carratelli per la Stampa il 7 febbraio 2021. «Perché ci sono i giornalisti?», ha chiesto infastidito Beppe Grillo sbirciando dentro la sala della Regina di Montecitorio. È un fastidio atavico per lui, a meno che non siano giornalisti stranieri. Comunque, era appena uscito dal lungo colloquio con Mario Draghi, un' ora e un quarto di confronto, grande curiosità: cosa avrà detto il fondatore M5s al banchiere "Dracula" che fino a poco tempo fa voleva mandare in galera? Niente da fare, forse l' idea di apparire davanti alle telecamere in silenzio, a fianco di Vito Crimi, lo deprimeva. È comprensibile. Il punto è che le delegazioni, dopo aver incontrato il premier incaricato, sono tenute a presentarsi al completo per riferire all' opinione pubblica l' esito del colloquio. Vale per tutti ma non per Grillo, che sceglie a suo piacimento quando fingersi istituzionale e quando riesumare l' antico "Vaffa" che alberga in lui.
Fughe, urla e monologhi. Il triste teatrino di Grillo. Beppe Grillo è voluto tornare sulla scena politica con il suo solito stile. Il comico sta provando in tutti i modi a tenere unito il MoVimento. Serena Pizzi, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. Beppe Grillo è un comico. Quindi, è abituato a mettere in scena teatrini e show. Anche questa mattina lo ha fatto. Anzi, ha iniziato ieri sera quando ha fatto trapelare che era arrivato a Roma, ma non si è fatto beccare. Questa mattina, però, ha messo in atto quello che ha imparato nella sua carriera. Prima ha pubblicato sul suo blog un post dal titolo "In alto i profili", una sorta di piccolo documento programmatico (che proprio nel momento in cui scriviamo è stato allungato ulteriormente), chiuso con una classica frase ad effetto ("Le fragole sono mature. Le fragole sono mature"), poi ha incontrato alla Camera i vertici del M5S (con il nuovo ingresso di Giuseppe Conte) e infine sono partite le consultazioni con Mario Draghi. E se ciò che ha scritto sul suo blog si commenta da sé, è interessante capire cosa ha fatto dopo. Il vertice con il MoVimento è durato circa 45 minuti. L'Adnkronos riferisce che abbia "motivato i big con un monologo-show di 45 minuti" e che le sue urla si siano sentite anche a diversi metri di distanza. Tanto che giornalisti e videomaker hanno tentato in tutti i modi di allungare le orecchie per carpire le frasi, ma senza successo. Si sa: Grillo non ama passare inosservato. Il suo ritorno sulla scena politica deve fare effetto ed essere ad effetto. Altrimenti chi si accorgerebbe di lui? Chi starebbe ad ascoltare tutto e il contrario di tutto? Ma torniamo al vertice 5 Stelle. Come dicevamo, il comico pare abbia svolto principalmente il ruolo del motivatore e di colui che tiene compatta la squadra (?). "Vi voglio uniti e compatti! Dobbiamo difendere i nostri temi e mettere l'ambiente al centro", avrebbe detto. Secondo una fonte pentastellata riportata dall'Adnkronos, Grillo avrebbe anche citato "Radio Londra" come simbolo della "resistenza". Dopo il suo show, pochi altri avrebbero parlato. Giuseppe Conte avrebbe detto un timido "sarà importante il perimetro della maggioranza, al momento non è importante sapere se io farò parte del governo", mentre Roberto Fico - collegato telefonicamente - si sarebbe limitato a un "non possiamo stare a guardare, dobbiamo esserci e gestire il Recovery Plan". Fine. Terminato qui lo spettacolo? Macché. Dopo le consultazioni con Draghi (sembra che ci siano stati anche diversi momenti di ilarità durante l'incontro) e prima di riferire alla stampa, Grillo è scappato. O meglio, ha fatto finta di scappare in modo da attirare ancora di più l'attenzione su di sé. Un suo classico giochetto, insomma. Ma una volta lasciato Montecitorio non poteva far spegnere così - come se nulla fosse - i riflettori che lo puntavano con quelle luci abbaglianti. Per questo, è volato su Facebook e si è improvvisato filosofo. "Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l'insuccesso sicuro: voler accontentare tutti" (Platone). Wow, verrebbe da dire. Ma il senso di queste parole? Forse Grillo con questo messaggio vuole riferirsi alla fase travagliata che sta vivendo il MoVimento. Non tutti, infatti, sono entusiasti dell'apertura a un esecutivo guidato dall'ex presidente della Bce. Chi in chiaro e chi per bocca di altri fa sapere che non voterà la fiducia al nuovo governo. Ma il comico non può permetterlo. La sopravvivenza del 5 Stelle è legata al premier incaricato. Così si "giustifica" il suo ritorno a Roma tra i grandi palazzi. Così Beppe è ritornato a fare il suo triste show.
Da repubblica.it il 6 febbraio 2021. Show di Beppe Grillo durante il vertice con lo stato maggiore M5S alla Camera. Un lungo monologo (ben 45 minuti) in cui il garante pentastellato ha invitato il Movimento ad essere compatto: "Vi voglio uniti e compatti! Dobbiamo difendere i nostri temi e mettere l'ambiente al centro". Ad un certo punto la voce del fondatore si è sentita anche in strada, nella via sottostante alle finestre della sala Tatarella. Si sono sentite le urla dell'ex comico ma anche i suoi applausi. E, secondo una fonte pentastellata, Grillo anche citato "Radio Londra" come simbolo della "resistenza". "Sarà importante il perimetro della maggioranza, al momento non è importante sapere se io farò parte del governo", avrebbe aggiunto Giuseppe Conte. "Non possiamo stare a guardare, dobbiamo esserci e gestire il Recovery Plan", avrebbe detto Roberto Fico, collegato telefonicamente.
(Adnkronos il 6 febbraio 2021) "Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l'insuccesso sicuro: voler accontentare tutti". Beppe Grillo, cita Platone su Facebook al termine delle consultazioni con il premier incaricato Mario Draghi. L'apertura dei vertici M5S a un esecutivo guidato dall'ex numero uno della Bce sta creando infatti fibrillazioni e divisioni all'interno del Movimento e il messaggio di Grillo sembrerebbe proprio riferirsi a questa fase travagliata. Silenzio totale invece per Davide Casaleggio che oggi, a sorpresa, ha preso parte al vertice con i big del Movimento. Il presidente dell’associazione Rousseau dopo aver lanciato la proposta di far votare gli iscritti su un appoggio o meno a un eventuale governo Draghi, oggi ha mantenuto la bocca cucita. Fonti presenti all'incontro sostengono infatti che anche nel corso della riunione Casaleggio non abbia proferito parola, limitandosi ad ascoltare gli interventi che si sono susseguiti, a partire dal 'monologo' di Beppe Grillo durato ben 45 minuti e che abbia poi lasciato la Camera quando tutto il resto della 'truppa' era ancora dentro ad attendere il termine dell'incontro tra Draghi e la delegazione M5S.
Ritratto di Beppe Grillo: comico che non c’è più, politico che non c’è mai stato. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Febbraio 2020. In genere quando si fa il ritratto di un grande o anche di un ingombrante personaggio, si usa la ricetta agrodolce: ha fatto questo, questo e questo di bello. peccato che abbia avuto anche questo, questo e quest’altro difetto. Un’arguzia al cerchio e una alla botte. Così facendo si rischia il vizio ambientale dell’ipocrisia. Forse a Beppe Grillo stesso, parlandone da vivo, non piacerebbe. Perché, di certo, il comico è morto. Da molto. E il capo politico che era – un po’ Bertoldo e un po’ Fra’ Dolcino – è andato a fuoco lento insieme a tutta la biblioteca delle sue ardenti sciocchezze, alcune geniali, altre sciocche-sciocchezze, utili per la ribalta, pessime per questo inimitabile Paese che è il nostro. Ha preteso e recitato troppe parti in commedia: ha voluto essere la bocca della verità e un Lenin che non trova la porta del palazzo d’Inverno, il profetico rivelatore e l’organizzatore rivoluzionario saltando dal palcoscenico al carro del vincitore, senza neanche consultare su Google le condizioni del tempo storico. E adesso, con Luigi di Maio che lo batte in illusionismo con il numero della cravatta scomparsa, guardatelo: è finito fuori strada come finirono fuori strada per sua colpa coloro che morirono nell’incidente di cui porta la colpa penale che gli preclude i pubblici uffici e il diritto di rappresentanza. Il fatto che sia sparito può, potrebbe, essere un improvviso segnale di saggezza. O almeno, di prudenza. Persino, hai visto mai, di pudore. Ma non è una prova di coraggio. Grillo non ci mette mai la faccia, né il barbone o il naso da muppet. Ferocissimo con i perdenti, applica a se stesso la terapia dell’indulgenza. Una Spa di autoindulgenza. Dove prima ardeva il suo inferno dove lui se fosse stato foco e se fosse stato acqua, e persino morte… ma invece era Grillo Giuseppe e adesso tende a mimetizzarsi col paesaggio, che è sempre un a trovata ecosostenibile. Sarà nella casona al mare? Sarà col figlio che gli ha dato tante preoccupazioni? Risponderà al telefono criptato? Indovinala grillo. Per rispetto del lettore, devo confessare un pregiudizio che è un mio limite: da comico, non mi ha mai fatto veramente ridere. Da politico, ha fatto paura a molte persone sane di mente. La sua trovata-pretesa di aver arrestato appena in tempo una sanguinosa rivoluzione che avrebbe portato a un bagno di sangue ma che grazie al suo dirottamento si è trasformato in allegro hotel a cinque stelle movimento, è la dichiarazione di un codardo: in Italia non scoppia mai alcuna rivoluzione, mica siamo la Francia da Robespierre ai gilet jaunes. Al massimo, abbiamo avuto dei tristi brigatisti che sparavano alla nuca degli innocenti e poi chiedevano aiuto psicologico. Ma Grillo è stato amato dalle sue parti ed ha fatto ridere milioni di persone più intelligenti di me e dunque è colpa mia se non l’ho mai trovato irresistibile, azzardato, futurista, satanico, ma piuttosto un ragioniere diplomato che ha visto la vita da una bottega certamente pregiata, ma pur sempre bottega. La sua complicata macchina di scena è consistita in una costruzione alternata di banalità e verità curiose, poche genialità improvvise e poi tonnellate di plastica, una aritmetica planetaria da “Lo sapevate che?” alla capacità mimica di trasmettere stupore per la modernità che non capisce, ma che gli piacerebbe capire. Prova ansia e trasmette ansia, convinto di aver rivelato al mondo ciò che il mondo e l’umanità contengono. Così è nato il pollaio dei social, dei fan, dei like, della valutazione on line, dell’affratellamento con la piattaforma degli imprenditori che hanno costruito – loro sì – una start up che somiglia al Paese dei Balocchi in cui Pinocchio e Lucignolo vengono deportati dall’omino di burro per diventare somari e pelle per tamburo. Quando già aveva fatto il disastro e messo in ginocchio un Paese dalle caviglie di fango e la testa di legno, venne a Roma al Brancaccio per un ultimo spettacolone pieno di finta sincerità. Voleva incarnare il disarmato, il disincantato, il “davvero io ho fatto tutto questo e non me ne sono nemmeno accorto?”. I fedeli paganti battevano le manine, felici. Fece finta di prendere per il culo il pubblico chiedendo: ci avete preso sul serio? noi scherzavamo… Era una bugia di scena, naturalmente, ma conteneva una realistica confessione come capita a chi sviluppa un ego prostatico da Barone di Münchhausen e vuole spiegare l’ingombro che occupa. Ma dietro tutte le facezie abbiamo visto – intravisto – un uomo crudele, un individuo che adora insultare i cronisti, umiliare chi gli sta intorno, essere insomma veramente cattivo. È a nostro parere un tipo di cattiveria molto popolare in Italia perché ha radici cattoliche e comunarde: l’idea della “decrescita felice” non è soltanto una grandissima stronzata, ma un furto con scasso dell’altrui ingenuità. Ha cercato di incarnare il razionalizzatore che, seguendo un vago principio modernista, prometteva una posizione non ideologica, ma in realtà sempre ideologica ma anche auto-contraddittoria, con risultato differenza di potenziale zero, troppo fracasso per nulla. Ma si è preso, gli va riconosciuto, delle enormi soddisfazioni. Ha condotto una vita da predicatore e da dominatore e anche nel momento del tracollo ha sempre trovato una sala trucco dove andare a rifugiarsi. Sono finiti (chissà perché) i tempi in cui decine di sventurati giornalisti venivano comandati dalle loro testate di stazionare nel freddo e nel caldo e nella sabbia davanti alla sua casa per vederlo uscire e porgere implorando i microfoni e sentirsi trattati come pezzi di merda. Creò l’ideologia dell’antigiornalismo: non parlate ai giornalisti. Guai a chi va in televisione. Guai a chi parla, pensa, discute. Il movimento è come Scientology, ha le sue regole, sue di Grillo e di quelli della piattaforma in disparte. In suo nome è stato creato il terrorismo parlamentare: siete dei beneficati, non sarete mai più rieletti, dovete mollare quel che guadagnate. Ha cercato di sottoporre la natura umana a una prova da stress che si è conclusa in uno spettacolo ridicolo e, quello sì, risibile, se ci fosse da ridere. Certo, la legislatura va avanti e finché la barca va, la capra campa. Ma il comico non c’è più. E il politico non c’è mai stato. La sua visionarietà è scomparsa persino in teatro. Manca soltanto una mesta fanfara felliniana che giri intorno alla sua casa marina suonando le note più clownesche di Nino Rota, dei pagliacci che piangono e della donna cannone con le caviglie gonfie.
Francesco Curridori per ilgiornale.it il 7 febbraio 2021. "Ancora tu? Non mi sorprende, lo sai...Ma non dovevamo vederci più?". Le mosse politico-comunicative del portavoce per eccellenza, Rocco Casalino, ormai evocano la famosa canzone di Lucio Battisti. All'interno dei gruppi parlamentari Cinquestelle c'è una notevole insofferenza verso l'ex gieffino che, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, avrebbe spinto il premier Conte allo scontro finale con Matteo Renzi, sicuro del fatto di poter "asfaltarlo" in Senato attraverso la nascita di un gruppo di "responsabili". Come sappiamo, questo piano è miseramente fallito, ma ora Il portavoce (titolo della sua autobiografia che è stata subito ritirata dalle librerie) sembra intenzionato a ritornare presto in sella. "È partita l' 'operazione paracadute' per Giuseppe Conte", confida a ilGiornale.it una fonte di maggioranza che ha subito inquadrato la situazione. Il manovratore sarebbe "ovviamente Rocco Casalino", conferma la stessa fonte, che ci chiede di rimanere anonima. Sembrerebbe che il portavoce dell' 'avvocato del popolo', in queste ore, vada "dicendo a tutti che bisogna spingere per Conte dentro il Movimento 5 Stelle". Lo scopo è sempre lo stesso: ottenere una poltrona per l'ex premier. Una mossa che "comporterebbe una nuova posizione lavorativa per Casalino a capo della comunicazione dei 5stelle. Un ritorno alle origini per lui", ci spiega la nostra fonte. Secondo un parlamentare giallorosso il principale scoglio di una simile operazione è lo stesso Conte che "non vede di buon occhio una sua entrata nella bolgia grillina, tra peones da accontentare e big da tenere a bada". L'ex premier "ha una volontà diversa, manifestata anche apertamente, che è quella di fare da federatore alla coalizione di centrosinistra con PD, 5stelle e LeU". Le dichiarazioni, sia ufficiali sia 'rubate', ora come ora, andrebbero tutte nella stessa direzione. Da un lato c'è una versione 'materialista' della vicenda che vede Casalino banalmente in cerca di un nuovo lavoro e dall'altro lato c'è "Conte che, per opportunità politica' desidera avere un ruolo europeo o internazionale per continuare a fare politica attiva ma super partes", chiosa l'esponente della maggioranza del Conte bis. In alternativa, sono in molti a sostenere che l'avvocato di Volturara Appula sia intenzionato a correre come sindaco di Roma, appoggiato ovviamente da Pd e M5S. Non è un mistero, infatti, che Conte, avendo studiato nella prestigiosa Villa Nazareth, abbia notevoli addentellati Oltretevere. In questo scenario si inseriscono i gruppi parlamentari grillini che, secondo fonti beninformate sarebbero a dir poco "imbufaliti" nei confronti di Casalino. Più di un pentastellato avrebbe esternato il proprio disappunto per come è stata gestita la crisi sbottando in faccia al portavoce di Palazzo Chigi: "Hai sbagliato la strategia, ci siamo schiantati con Renzi e, adesso, siamo costretti a sorbirci un governo Draghi...Ancora parli?". Ai Cinque Stelle insomma, "Conte è rimasto sul groppone", per dirla con una voce autorevole di maggioranza.
Amedeo La Mattina per “la Stampa” l'8 febbraio 2021. Uno dei "miracoli" che dovrà fare Mario Draghi è quello di far convivere l' ambientalismo dei 5 Stelle e il partito del cantiere sempre aperto interpretato dalla Lega, da Italia Viva e da una buona parte del Pd. Non sarà facile per Beppe Grillo ottenere quel ministero per la Transizione Ecologica ipotizzato nei 10 punti programmatici proposti al presidente incaricato: un super dicastero che dovrebbe fondere l'Ambiente e lo Sviluppo economico. Non sarà facile soprattutto per la visione del Green Deal che ha il fondatore di M5S. Sicuramente diversa da quella della Lega. Bisognerà vedere se coincide con quella dell'ex numero uno della Banca centrale europea. Matteo Salvini è convinto che Mario Draghi abbia una visione dell'Italia e di come rimettere in moto l'economia italiana che coincide con la sua. Lo ha detto sabato dopo avere incontrato l'ex presidente della Bce, lo ha ripetuto a tutti i dirigenti della Lega che lo hanno chiamato per capire le vere impressioni del capo, al di là delle dichiarazioni di rito. E tutti si sono sentiti ripetere di avere trovato Draghi molto pragmatico, attento al tema delle opere pubbliche da far partire presto, sia quelle vecchie rimaste ferme al palo e le nuove da finanziare con il Recovery Fund. «La pensa come noi: va bene l'ambientalismo ma senza ideologie», ha confidato il capo del Carroccio. La Lega è pronta alle larghe intese per vari motivi, ma tra gli obiettivi di fondo c'è la spinta dei una base elettorale, di un mondo economico di riferimento che vuole vedere aprire i cantieri delle infrastrutture e neutralizzare l' ideologia ambientalista dei «signor no» che ispira i 5 Stelle, la stessa che ha portato al fallimento del primo governo Conte, quello della maggioranza giallo-verde. Ne sa qualcosa l' ex viceministro leghista Edoardo Rixi che per un anno ha dovuto ingaggiare un corpo a corpo quotidiano con Danilo Toninelli, allora responsabile delle Infrastrutture e i Trasporti. «Bloccava ogni iniziativa - ricorda il capo dei leghisti liguri - non nominava i commissari. Sono ancora fermi 14 miliardi di investimenti privati, nessuna iniziativa fino ad oggi sull' alta velocità, i corridoi europei, la Gronda, l'Ilva. Ecco - osserva Rixi - Draghi non è Conte: ha l'autorevolezza di mandare avanti tutti i nodi non risolti per crescere il Pil e creare occupazione. Per questo io sono d' accordo con Salvini che dobbiamo partecipare al governo Draghi». Rixi è convinto che anche Giorgia Meloni alla fine voterà i «provvedimenti giusti». «Grillo e i grillini cercheranno di bloccare tutto, come hanno fatto nel primo Conte e nel secondo dove c' era un Pd accondiscendente». Non sarà facile per Draghi mettere d' accordo tutti, ma Salvini si è fatto due conti: c' è una maggioranza schiacciante a favore del partito del Pil, della riapertura delle attività economiche, dei cantieri aperti sparsi per tutto lo Stivale. Somma i parlamentari della Lega, quelli di Renzi, ovviamente FI e buona parte dei Democratici. «Dietro quel partito c' è un mondo economico emiliano-toscano che non vede l' ora di mettersi a lavorare», spiega Salvini ai suoi.
Paolo Colonnello per “la Stampa” l'8 febbraio 2021. Per capire perché la base della Lega, nonostante qualche mal di pancia e nonostante tutto, alla fine non si metterà di traverso alla scelta di Matteo Salvini di appoggiare il governo Draghi, basta andare nelle anticamere dei sindaci del Nord. «E vedere - come spiega Giovanni Malanchini, ex sindaco di Spirano (Bergamo) e attuale responsabile degli enti locali lombardi del partito, 228 sindaci sul territorio - la gente che ha perso il lavoro e chiede aiuto. Allora si capisce che non è più tempo di fare gli schizzinosi o di campagne elettorali. Questo è il momento di lavorare tutti insieme per uscire dalla crisi». E le liti col Pd? E le incomprensioni con i 5Stelle? E la alleanza con la Meloni? La crisi morde le caviglie a tutti, ma tra il pragmatismo della Lega lombarda e le rivendicazioni autonomiste della "Liga" veneta, le differenze sono palpabili. «Loro, i lombardi, hanno meno problemi con queste cose...», dice Claudio Silvestrin, partita Iva e segretario di sezione di Oderzo, Treviso. Il quale, tossisce a lungo prima di rispondere: «Mi scusi, sono i postumi del Covid ma anche l' argomento, insomma». «Se devo essere sincero, è una decisione che mi sorprende questa di Salvini: abbiamo sempre dichiarato che eravamo contro l'euro e adesso andiamo a governare con il padre dell' euro? Diventa difficile da giustificare, soprattutto alla base Se poi andiamo a vedere le dichiarazioni di Borghi, mi cascano le braccia: prima Draghi era l' uomo nero dell' euro, ora dovrebbe essere il nostro allenatore Per me la via principale era andare al voto». Il segretario Silvestrin la vede dura: «Su Salvini bisogna stendere un velo pietoso, che poi non è tanto lui quanto Giorgetti. Non so come ne usciremo, ti voglio vedere governare col Pd e venire a parlare di assistenzialismo ai veneti. Oppure coi 5Stelle: il governo con loro è stato un abominio. Per non parlare delle autonomia, che solo noi siamo rimasti a volere». Non tutti ovviamente sono così duri e puri come Silvestrini. Il segretario della lega di Ormelle, sempre in provincia di Treviso è, per esempio, possibilista con riserva: «Io direi di aspettare martedì e vediamo cosa esce davvero da questo governo». Perché fidarsi e bene ma poi si sa a Roma le cose come vanno. «Spero che si mettano in chiaro nomi e principi, che ci siano dei paletti sul recovery, che questo Draghi sia un po' diverso da Monti e che i ministri non siano tutti "i loro". » Dove per "loro, s' intende il Pd, il partito con cui bisognerà digerire il governo. «Ma cosa ci possiamo fare, fijoi! Io per me rimarrei fuori e andrei a votare». C' è sempre qualcuno più puro degli altri. Ma anche più pratico, come Guido Dussin, sindaco di San Vendemiano (Treviso) un comune che, come si capisce dal nome, è leader nella produzione del prosecco docg «Ma è anche un distretto industriale dell' acciaio. E qui pensiamo che Draghi presidente del Consiglio sia una buona idea, penso che la virata fatta fare da Giorgetti sia una cosa giusta. È un momento storico e va interpretato così. Siamo tutti in difficoltà e piuttosto che rimanere in queste condizioni, vanno abbattuti gli steccati e messe in sicurezza le realtà produttive». Entusiasta, a conferma però delle differenze tra Lombardia e Veneto, è Matteo Bianchi, ex sindaco di Morazzone (Varese) parlamentare e segretario provinciale della Lega. «Questa è una svolta che condivido. Abbiamo colto l' occasione per mostrare il nostro senso di responsabilità verso il Paese. Ora dobbiamo sederci a tavolino e cercare le cose che ci accomunano non quelle che ci dividono». Per esempio? «La necessità di far ripartire il mondo del lavoro. Dopodiché, continueranno a dividerci i temi e i valori di natura ideologica ma prima di arrivare a quello bisogna sistemare l' essenziale».
Da repubblica.it il 6 febbraio 2021. Nell'ultimo giorno delle consultazioni, Matteo Salvini supera le incertezze e apre a Mario Draghi: "Siamo a disposizione, non poniamo veti", ha detto il leader leghista al termine del colloquio con il premier incaricato. E il Pd valuta ora l'appoggio esterno al governo. L'intenzione dei dem è di non indicare nessun ministro politico, votare la fiducia al nuovo esecutivo e appoggiare provvedimento per provvedimento. Dopo oltre un'ora di consultazioni i Cinquestelle hanno dichiarato il loro appoggio al governo Draghi: "Noi ci saremo con lealtà", ha detto il capo politico Vito Crimi nelle dichiarazioni post-incontro alle quali Beppe Grillo, che ha guidato la delegazione 5S, non ha partecipato. Prima di presentarsi al colloquio con Draghi i cinquestelle si sono riuniti con il fondatore, che ha pubblicato sul suo blog una sorta di mini documento programmatico in un post intitolato "In alto i profili. Le fragole sono mature". Al vertice pentastellato - durante il quale il garante del Movimento ha regalato ai big uno show di 45 minuti, urlando per motivarli e invitarli all'unità - hanno partecipato anche Giuseppe Conte e Davide Casaleggio, che vuole il voto su Rousseau per salvaguardare almeno formalmente il richiamo alla "democrazia diretta" e tenere insieme le diverse anime del Movimento, che rischia la scissione con almeno 30 senatori ribelli. In merito Luigi Di Maio ha lanciato l'ennesimo appello all'unità. "Oggi è un momento di compattezza con la presenza di tutti, di Grillo, Casaleggio e anche di Conte. Oggi la famiglia si allarga" ha detto prima di entrare al vertice. E su Facebook scrive: "La posta in gioco è alta, saremo responsabili".
Da huffingtonpost.it il 6 febbraio 2021. “Abbiamo ribadito il concetto che quando e se si formerà un nuovo governo noi ci saremo sempre con lealtà.” Lo ha detto il capo politico M5S Vito Crimi dopo le consultazioni con il premier incaricato Mario Draghi. “Abbiamo ribadito al presidente Draghi che in questo anno e mezzo alcune forze della maggioranza hanno lavorato insieme e ottenuto risultati importanti con esigenze e criticità reciproche e con capacità di mediazione e comprensione e tanta lealtà mai mancata da parte nostra. Questo ci ha consentito di superare contrasti con la giusta mediazione. Quindi si deve partire da questa base e su questa deve formarsi un nuovo governo”. Così Vito Crimi al termine delle consultazioni con il premier incaricato. Il nuovo governo deve avere “un’ambizione solidale, ambientalista, europeista. E partendo da quello che è stato già realizzato. Abbiamo trovato da parte sua la consapevolezza di partire con l’umiltà di chi accoglie quanto fatto prima. Abbiamo ribadito la nostra volontà che non siano indebolite misure come il reddito di cittadinanza”.
Simone Canettieri per il Foglio il 6 febbraio 2021. Non suda, si sa. E l' abito-sartoria napoletana del Vomero è immacolato. Nemmeno una piega. Ha questa cravatta blu poi, nodo scarpino. Perfetta. Eppure Luigi Di Maio sta guidando a mille all' ora il M5s verso l' ultimo bivio. "Mario Draghi è un nome di alto profilo -dice il ministro degli Esteri al Foglio-e di fama internazionale: ha salvato la zona euro, riconosciuto da tutti, e con un approccio alla politica economica...". Come? Pausa. Sorriso da guitto: "Un approccio distante da quello di Mario Monti". Il ragazzo di Pomigliano d' Arco c' è arrivato prima di Beppe Grillo, all' opzione Draghi. Ma alla fine anche il Garante si è convinto, e questa mattina alla Camera (ci sarà anche Paola Taverna che ha brigato tantissimo) guiderà la delegazione grillina al cospetto di "Dracula", come il Blog chiamava l' allora presidente della Bce. E' spuntato fuori anche Davide Casaleggio che ha rispolverato dal garage di casa (no, non è Steve Jobs) il suo carillon: la piattaforma Rousseau. L' Italia, Draghi e il Quirinale (rassegnato a queste liturgie) attenderanno il voto di qualche decina di migliaia di iscritti. Domenica o lunedì l' ordalia. Ma poi ci sono Alessandro Di Battista, che non ci dorme la notte, Danilo Toninelli, Nicola Morra, Barbara Lezzi e altri senatori - tipo Lele Dessì - che comunque vada non voteranno la fiducia. Con Vito Crimi che intanto chiede "spunti in giro" per cercare di "dettare le condizioni a Draghi ". Insomma l' aereo più pazzo del mondo. Più interessante parlare con il pilota: Di Maio. Un tutt' uno con la sua grisaglia da ministro degli Esteri, una muta.
Partiamo da Rousseau: vi fate sempre riconoscere.
"Ricordo che si è votato sia per il Conte I che per il Conte II, se sarà richiesto anche questa volta gli iscritti si esprimeranno in tempi rapidi".
Va bene ma questo sabato Grillo, arrivato trafelato a Roma, cosa dirà?
"Parteciperà alle consultazioni perché la posta in palio per il paese è altissima e Grillo in questi momenti ha sempre dimostrato di guardare oltre, di avere una visione".
Viene il dubbio che subito diventa una provocazione nel fissare Di Maio: ma cosa state diventando voi del M5s?
"Credo che il M5S non possa più nascondersi dietro ai pregiudizi. Da tempo ha intrapreso un percorso di maturità e questa maturità va condivisa. Aprirsi e dialogare non significa vendersi, il confronto è l' essenza della democrazia ". Quindi vi state rimangiando tutti i vaffa di una vita ?"È miope faredi tutta l' erba un fascio, è miope non considerare che il Paese sta attraversando uno dei momenti più bui della sua storia recente".
Lei sembra così rassicurante, ma il suo partito spruzza lapilli: finirete come Pompei?
"Il mio è stato un appello al rispetto istituzionale, per la carica che ricopro credo sia doveroso. E comunque a decidere saranno i parlamentari. Il parlamento è sovrano. Ma mi creda, sarebbe facile prendere una decisione o intraprendere una strada pensando solo ai propri interessi. È più difficile sforzarsi di capire che davanti a noi c' è molto altro, c' è il futuro, il futuro di tutti e quello della settima potenza mondiale. Dobbiamo puntare ad aumentare la nostra competitività internazionale e il M5S deve poter incidere in questo momento perché ne ha la possibilità, ma i temi vengono prima di tutto. Beppe affronterà i temi, la nostra visione di Paese, il M5S ce l' ha, glielo assicuro".
A Di Maio per sfruculiarlo si può provare a chiedergli di Conte, futuro leader del M5s, ma non ci casca.
"Ha un fatto grande lavoro, in un momento storico incredibile, ora una grande opera di mediazione. Lo sostengo". Sull' agenda del governo: "Vaccino, economia, debito buono". Perimetro del governo: "Salvaguardare l' alleanza del governo uscente, per il resto è tutto prematuro".
Lei potrebbe non far parte del governo :"In Farnesina ho trovato diplomatici e funzionari straordinari. Al segretario generale Elisabetta Belloni e al mio capo di gabinetto Ettore Sequi sono riconoscente". Il vestito è ancora intonso. Sorride. Composto.
Da repubblica.it il 6 febbraio 2021. "Volevo dirvi che non ho cambiato idea. Se fossi in Parlamento non darei la fiducia al Presidente Draghi". Lo scrive Alessandro Di Battista in un post su Facebook ricordando le "scelte, propriamente politiche, che il Professor Draghi ha preso in passato da Direttore generale del Tesoro (privatizzazioni, svendita patrimonio industriale pubblico italiano, contratti derivati) e da Governatore di Banca d'Italia, quando diede l'OK all'acquisto di Antonveneta da parte di MPS ad un valore folle di mercato". "Per quanto mi riguarda - conclude - io non posso accettare 'un assembramento parlamentare' così pericoloso. Non lo posso accettare perché la stragrande maggioranza delle forze politiche che si stanno inchinando al tredicesimo apostolo non rappresenta le mie idee".
DiMartedì, Concita De Gregorio ridicolizza Vito Crimi: "Quando Mario Draghi si trova davanti uno come lei..." Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Una sorta di pungiball, il povero Vito Crimi ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, il programma in onda su La7 ieri, martedì 9 febbraio. Il leader grillino prova a difendere le indifendibili posizioni del M5s nel corso delle consultazioni con Mario Draghi. Prova anche a giustificare e legittimare il voto sulla piattaforma Rousseau per decidere sul governo, tentativo davvero avventuroso. Dunque incassa i fendenti di Alessandro Sallusti, che nel corso di un intervento lo ha impallinato a ripetizione. Insomma, un incubo per il leader reggente. E a peggiorare l'incubo di Vito Crimi ecco anche il "fuoco amico" di Concita De Gregorio, la firma di Repubblica che si è recentemente fatta notare per la querelle con Nicola Zingaretti. Concita prende la parola e sottopone una serie di domande al grillino."È molto chiaro che Draghi a Grillo è molto piaciuto. A lei è piaciuto? E avete chiesto tre ministeri? Che impressione le ha fatto Draghi?". Crimi, dunque, risponde smentendo il fatto che il M5s abbia chiesto tre ministeri, derubricando le affermazioni di Grillo a una sorta di boutade. Successivamente, entrando nel merito delle domande di Concita, ecco che sull'ex governatore della Bce, Crimi afferma: "Devo dire che mi è sembrato una persona che ha ben chiaro cos'ha davanti. Secondo me le difficoltà le troverà in Parlamento". A quel punto, però, la De Gregorio lo interrompe: "Ma ha ben chiaro cos'ha davanti anche quando ha davanti lei?", chiede a bruciapelo. E Crimi: "Certamente, lo abbiamo rappresentato con chiarezza. Non siamo persone facili. Anche Giuseppe Conte ha dovuto confrontarsi con noi, con la nostra forza", chiosa il grillino. Insomma, se la cava. Ma quel "ha ben chiaro cos'ha davanti quando davanti ha lei" è un colpo da ko tecnico. Già, il M5s oggi è tutto e il contrario di tutto. Ovvero, il nulla politico.
Alessandro Sallusti a DiMartedì, stoccata a Vito Crimi: "Allora Toninelli vale Draghi?", gelo del grillino. Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Una sorta di pugile suonato, Vito Crimi, il leader del M5s che non sa più cosa dire per difendere e giustificare l'operato del suo partito alle prese con le consultazioni con Mario Draghi. Alla fine, pare, a decidere sarà il voto-pagliacciata su Rousseau, la fantomatica piattaforma dell'uno-vale-uno. Roba da mani nei capelli. E proprio di questo imminente voto si parla a DiMartedì, il programma condotto da Giovanni Floris su La7, dove troviamo il pugile suonato Crimi a confronto con Alessandro Sallusti. E il direttore de Il Giornale, contro il pentastellato, picchia durissimo, al solito senza scomporsi. "Glielo dico sinceramente, senza doppio senso: apprezzo il suo coraggio, perché mettere la sua faccia fuori stasera, per come è messo il M5s, ci vuole coraggio", premette un corrosivo Sallusti. Che a strettissimo giro di posta aggiunge: "La prendo alla lontana: lei è ancora convinto che uno vale uno in politica o che forse il merito vale più di uno vale uno?". "Sono sempre convinto che uno vale uno - replica Crimi -. L'uno non vale l'altro, ma uno vale uno quando c'è da prendere delle decisioni. In questi casi l'importanza dell'intelligenza collettiva non mi ha mai deluso". Ed ecco che Sallusti sgancia il montante decisivo: "Dunque Danilo Toninelli vale Draghi?". E Crimi, visibilmente imbarazzato: "Guardi, andare a fare questi paragoni... Io dico che Toninelli ha fatto bene il suo lavoro da ministro, lo sottoscrivo". "E perché non lo avete confermato?", lo incalza Sallusti. "Forse ha dimenticato che il ministero dei Trasporti era poi stato preso dal Pd", replica il grillino. A porre la pietra tombale ci pensa Floris: "Come se Toninelli fosse un esperto di trasporti...". Cala il sipario.
Da liberoquotidiano.it il 10 febbraio 2021. Una sorta di pugile suonato, Vito Crimi, il leader del M5s che non sa più cosa dire per difendere e giustificare l'operato del suo partito alle prese con le consultazioni con Mario Draghi. Alla fine, pare, a decidere sarà il voto-pagliacciata su Rousseau, la fantomatica piattaforma dell'uno-vale-uno. Roba da mani nei capelli. E proprio di questo imminente voto si parla a DiMartedì, il programma condotto da Giovanni Floris su La7, dove troviamo il pugile suonato Crimi a confronto con Alessandro Sallusti. E il direttore de Il Giornale, contro il pentastellato, picchia durissimo, al solito senza scomporsi. "Glielo dico sinceramente, senza doppio senso: apprezzo il suo coraggio, perché mettere la sua faccia fuori stasera, per come è messo il M5s, ci vuole coraggio", premette un corrosivo Sallusti. Che a strettissimo giro di posta aggiunge: "La prendo alla lontana: lei è ancora convinto che uno vale uno in politica o che forse il merito vale più di uno vale uno?". "Sono sempre convinto che uno vale uno - replica Crimi -. L'uno non vale l'altro, ma uno vale uno quando c'è da prendere delle decisioni. In questi casi l'importanza dell'intelligenza collettiva non mi ha mai deluso". Ed ecco che Sallusti sgancia il montante decisivo: "Dunque Danilo Toninelli vale Draghi?". E Crimi, visibilmente imbarazzato: "Guardi, andare a fare questi paragoni... Io dico che Toninelli ha fatto bene il suo lavoro da ministro, lo sottoscrivo". "E perché non lo avete confermato?", lo incalza Sallusti. "Forse ha dimenticato che il ministero dei Trasporti era poi stato preso dal Pd", replica il grillino. A porre la pietra tombale ci pensa Floris: "Come se Toninelli fosse un esperto di trasporti...". Cala il sipario.
Da huffingtonpost.it il 10 febbraio 2021. “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Questo il testo del quesito che domani verrà votato dagli iscritti M5s sulla piattaforma Rousseau. C’è tutto: il come, il dove e il quando. C’è anche qualcosa di molto di più in quel quesito secco - sì o no, senza previsioni di astensione - per votare domani su Rousseau sul governo Draghi. C’è, infatti, la soluzione del rebus sulla formula del governo (definito “tecnico-politico”) e anche una neanche troppo velata indicazione implicita di voto, laddove si descrive il governo che potrebbe essere vicino alla nascita non solo dotato “di un super-Ministero della Transizione Ecologica”, chiesto ieri da Beppe Grillo, ma anche con il compito di difendere “i principali risultati raggiunti dal Movimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”.
Da huffingtonpost.it il 10 febbraio 2021. “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Questo il testo del quesito che domani verrà votato dagli iscritti M5s sulla piattaforma Rousseau. C’è tutto: il come, il dove e il quando. C’è anche qualcosa di molto di più in quel quesito secco - sì o no, senza previsioni di astensione - per votare domani su Rousseau sul governo Draghi. C’è, infatti, la soluzione del rebus sulla formula del governo (definito “tecnico-politico”) e anche una neanche troppo velata indicazione implicita di voto, laddove si descrive il governo che potrebbe essere vicino alla nascita non solo dotato “di un super-Ministero della Transizione Ecologica”, chiesto ieri da Beppe Grillo, ma anche con il compito di difendere “i principali risultati raggiunti dal Movimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”.
La faida dei grillini. I 5 Stelle ostaggio di un sito privato, su Rousseau va in onda lo scontro finale tra Grillo e Casaleggio. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Il Movimento si muove su un terreno minato. Grillo e Casaleggio non vanno più d’accordo da tempo e Rousseau è l’ultimo duello tra il fondatore e il figlio del padre nobile. Alla fine il dissidio partorisce un didascalico quesito: “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Questa la domanda alla quale sono chiamati a rispondere gli iscritti al M5s. Si voterà sulla piattaforma Rousseau dalle ore 10 alle ore 18 di domani. Potranno votare solo gli iscritti da almeno sei mesi, con documento certificato. Ciascun iscritto può verificare il proprio stato di iscrizione facendo login e controllando il bollino colorato accanto al nome (in alto a destra): se il bollino è verde l’utente è certificato e abilitato al voto. Beppe Grillo vuole dire di sì a Mario Draghi, ma lo statuto gli impone di passare attraverso Rousseau. Marco Canestrari, ex socio di Casaleggio, la inquadra così: «Chiedono la ratifica della decisione a una piattaforma privata, tecnicamente manipolabile e gestita in maniera non trasparente». La base è in subbuglio: secondo sondaggi attendibili, ben pochi voteranno per l’ingresso nel governo. E sono guai. Beppe non può mandare il suo Vaffa ai grillini, mentre quelli sono pronti per il Vaffa a Draghi. Ed ecco che si cercano nuove bandiere, facili slogan da far digerire. La sola trovata è quella del Ministero per la transizione ecologica, il Superministero, lo chiama Grillo. Niente di originale, nessuna panacea: esiste in Francia da molti anni ed è l’accorpamento dei ministeri dell’Ambiente, energia e opere pubbliche. Il risultato che ha dato Oltralpe non è clamoroso: ha finalizzato la Tav nella tratta Marsiglia-Lione e ne sostiene la realizzazione nella tratta finale Lione-Torino, dopo aver fatto scavare la Francia in lungo e in largo. Ma poco importano i dati di realtà, è il momento della suggestione. E poi è tutta comunicazione interna, vanno rassicurati i dissidenti. Fonti parlamentari parlano di un incontro con Crimi, di un altro con Di Maio, riferiscono che Grillo ha sentito anche Casaleggio. Il partito di Grillo è lacerato ormai anche in streaming. Su Zoom si danno appuntamento i dissidenti, aizzati da Alessandro Di Battista e in aula da Barbara Lezzi e da Elio Lannutti (“Siamo al golpe”). Va in onda una chiassosa gazzarra che prende di mira i big. Dietro le quinte, succede che Mario Draghi ha fatto capire quale sarà la composizione dell’esecutivo: niente numeri uno, tanti tecnici scelti da lui e dal Movimento, un solo ministro noto. Il nome che circola è quello di Patuanelli. Lo stesso Di Maio tornerebbe al partito, come capo politico che deve sedare il conflitto interno. D’altronde si è fatto un’esperienza da diplomatico. E il ritardo con cui il Paese intero sta facendo i conti, con il governo che aspetta il via libera grillino, si dovrebbe proprio alle trattative che cercano di tenere in piedi i rapporti di forza interni e quelli – ormai notoriamente logori – tra Grillo e Davide Casaleggio. Rousseau sarebbe diventato il titolo di credito attraverso il quale l’azienda privata che ne è proprietaria tratterebbe la sua onorevole uscita. Se la proprietà si allineasse con la governance del Movimento, l’esito di Rousseau non sarebbe sfavorevole a Draghi. L’unica alternativa è per Grillo quella di ottenere subito un esito sbandierabile: come detto, il Superministero. Per questo, come animali in via d’estinzione, puntavano gli occhi colmi di speranza sul Wwf. Donatella Bianchi, la presidente, esce ieri sera dalle consultazioni con Draghi annunciando che il presidente incaricato ha dato la sua parola sulla nascita del nuovo dicastero verde. «Per noi è sufficiente questo», si affretta a sancire una fonte autorevole M5S. Passa la nottata, Draghi aspetta Rousseau, dunque Casaleggio. Questa sera alle 18 sapremo.
Sì da Rousseau a Draghi: finita la sceneggiata del M5s. Antonio Lamorte su Il Riformista il 11 Febbraio 2021. Il Movimento 5 Stelle approva la nascita del Governo di Mario Draghi. O almeno lo approva la piattaforma Rousseau. E’ stato comunicato intorno alle 18:45 il risultato, come era stato previsto. Hanno votato circa il 70 per cento degli iscritti. Circa il 59,3%, 44.177 voti, degli iscritti ha detto sì a Draghi. Il voto era partito alle 10:00 di stamattina, in corso fino alle 18:00. A spingere per il voto era stato il dominus della piattaforma, Davide Casaleggio, figlio del guru e fondatore dei 5Stelle Gianroberto Casaleggio. Lo stesso Casaleggio era arrivato a Roma la settimana scorsa in vista delle consultazioni con il Presidente incaricato Mario Draghi del partito, come era arrivato Beppe Grillo, il comico e garante che si era detto favorevole all’esecutivo, e che alle consultazioni ha partecipato. Tutto lo Stato Maggiore nella capitale evitare una frattura definitiva nei 5 Stelle. E stando ai risultati la frattura c’è, il Movimento spaccato quasi a metà. Lo stesso Grillo ha praticamente dettato il quesito esposto sulla piattaforma: “Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?”. Due le opzioni: Sì o No. L’ambiente era tra l’altro tra le 5 Stelle della fondazione. In un video messaggio il Garante aveva parlato, ieri sera, proprio del “super” dicastero, sui modelli di quelli che esistono in Francia e in Spagna, come la condizione primaria per formare l’esecutivo. Un veto poi sulla Lega, che di ambiente secondo Grillo non ci capisce molto, al governo proprio i grillini nel primo esecutivo Conte. Al dicastero si lavora, come confermato in conferenza stampa dalle associazioni ambientaliste che hanno incontrato Draghi ieri. A questo punto il premier incaricato potrebbe sciogliere la riserva e salire al Quirinale dal Presidente Sergio Mattarella e presentare la squadra di governo. Attesi sviluppi nel fine settimana se non prima. La prima reazione, via social, al risultato è stata quella del ministro degli Esteri ed ex Capo Politico Luigi Di Maio: La responsabilità è il prezzo della grandezza. Oggi i nostri iscritti hanno dimostrato ancora una volta grande maturità, lealtà verso le istituzioni e senso di appartenenza al Paese. In uno dei momenti più drammatici della nostra storia recente, il MoVimento 5 Stelle sceglie la strada del coraggio e della partecipazione, ma soprattutto sceglie la via europea, sceglie un insieme di valori e diritti di cui tutti noi beneficiamo ogni giorno e dietro ai quali, purtroppo non di rado, si nascondono egoismi e personalismi. La fedeltà alla Nazione, oggi, si è mostrata più forte della propaganda. Questo è il M5S. Questo è il Movimento che riconosco e in cui ho scelto di spendere tutto me stesso. Voglio ringraziare ogni singolo attivista e iscritto alla piattaforma Rousseau che ha espresso il proprio voto. L’intelligenza collettiva ha prevalso sul singolo e ha mostrato nuovamente la sua forza, una forza buona e adulta, che deve spronarci a fare meglio, ancora di più, per la nostra Italia. La legalità, la giustizia, lo stop ai privilegi, la protezione dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile, l’acqua pubblica e molto altro. Siamo ancora questo. Anzi, da oggi lo siamo con maggiore consapevolezza. Ringrazio anche Beppe Grillo per il grande contributo offerto in questa fase. Il pensiero è libero solo quando libere sono le persone. Viva il Movimento 5 Stelle. Viva l’Italia.
Povera Italia, costretta a prendere sul serio la buffonata di Rousseau. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Ieri mattina qui al Riformista abbiamo fatto un gioco. Ciascuno di noi ha scritto su un foglietto di carta quelli che prevedeva sarebbero stati i risultati della votazione sulla Rousseau. Qualcuno ha scritto 60 a 40, qualcuno 61 a 39, qualcuno 59 a 41. Tutta qui l’oscillazione dei pronostici. Che poi alle sette della sera si sono dimostrati tutti vicinissimi al risultato reale. Questione di decimali. Possibile che tutti noi redattori del Riformista siamo così attenti conoscitori della realtà del popolo a 5 Stelle, tanto da prevedere quasi al millimetro i rapporti di forza e le opinioni? È più probabile che semplicemente siamo dei discreti conoscitori del vertici dei 5 Stelle, in particolare di Grillo e Casaleggio. Che sono, in fondo, persone piuttosto semplici, non sofisticatissime, e quindi abbastanza prevedibili. Diciamo la verità: quasi nessuno crede che i risultati della consultazione con la piattaforma Rousseau siano stati spontanei. Siamo un po’ tutti convinti che l’esito del voto fosse stato trattato l’altra sera dai due capi del Movimento 5 Stelle e decisi a tavolino. Né Grillo né Casaleggio erano interessati a una roulette russa. In una situazione così delicata per il Movimento, affidarsi alla dittatura della sorte era troppo pericoloso. Grillo aveva bisogno di vincere il voto su Rousseau e dare il via libera a Draghi. Casaleggio – che è contrario all’ingresso nel governo Draghi – non poteva permettersi un clamoroso insuccesso. Meglio trattare e decidere un onorevole 59 a 41, giusto? Poi può anche darsi che le cose non siano andate così, e che il voto ci sia stato davvero e sia stato libero, e solo per puro caso si sia concluso con le cifre che un po’ tutti prevedevano. Il problema è che nessuno ci crederà mai. Soprattutto perché nessuno può controllare la piattaforma Rousseau se non chi la gestisce, cioè Casaleggio, e quindi non ci sarà mai una prova della correttezza di questa operazione. Poco male. Se esiste un movimento che decide di affidare le proprie sorti a una ditta privata alla quale consegna risorse e cervelli e che delega a pensare e a decidere al proprio posto, e se poi questo movimento si presenta alle elezioni e ottiene più del 30 per cento dei voti, bisogna prenderne atto e basta. Non si può impedire alle persone di rinunciare ai propri diritti politici e nemmeno alla propria libertà. Il paese dopo le elezioni del 2018 è andato alla deriva. Ha rinunciato ad avere una classe dirigente e si è affidato a piccole bande che si univano o si scontravano seguendo logiche che non avevano nessun rapporto con la politica. Così è nato il governo di estrema destra Salvini-Di Maio (che ha tagliato fuori il centro liberale berlusconiano) e poi è nato il governo rosso-bruno (come dicono i politologi per definire le alleanze tra reazionari e progressisti) con il Pd che ha accettato di accodarsi in posizione subalterna ai 5 Stelle. Naturalmente questa disinvoltura politica ha prodotto una situazione di ingovernabilità e anche notevoli danni sociali ed economici. Aggravati per altro dalla pandemia, che ha aperto, oggettivamente, una crisi molto profonda che comunque qualunque governo avrebbe faticato a dominare. Ora la mossa del cavallo di Mattarella e Renzi, e cioè l’incarico di formare il governo a una personalità di alto livello, come quella di Mario Draghi, può in parte essere una soluzione e può frenare lo sbando. Ma non sarà una cosa semplice. Perché a Draghi nessuno può dare un mandato in bianco, sarà in Parlamento che si combatteranno le battaglie politiche. E il Parlamento in questo momento è una bolgia dove piccole squadrette di 5 stelle o ex Cinque stelle o dissidenti 5 stelle si affrontano all’arma bianca e si fanno guerra fino all’ultimo sangue. Ed è proprio qui che nasce il secondo problema. Quello della democrazia. L’esperienza di questi tre anni ha provocato una caduta verticale del tasso di democraticità di questo paese. I Cinque Stelle hanno portato in tutte e due le alleanze (quella con il Pd e quella con la Lega) una forte dose di neo-autoritarismo. Che poi è la sostanza vera del populismo antico e moderno. Sia sul piano della tendenza a smantellare lo stato di diritto, sia su quello della lotta ai partiti, ai sindacati, al volontariato, all’associazionismo. E non hanno trovato molti oppositori. Prima la Lega e poi il Pd hanno assunto una posizione subalterna e reverente nei confronti del partito di Grillo e Casaleggio. Rinunciando alla propria identità, alla propria autonomia, a buona parte della propria storia. Forse il Pd lo ha fatto più ancora della Lega. E il Pd non è un partito qualsiasi: è l’unico vero erede della Prima Repubblica, del miracolo italiano, della stagione dello sviluppo del paese e delle grandi conquiste sociali. Cos’è rimasto di quel partito. Ha disperso una immensa eredità politica, di sapere, di tradizioni. Un giorno bisognerà ragionare bene sulle responsabilità di questo sfacelo. Al quale non sono estranei gli intellettuali e in particolare la macchina dei mass media, interamente sottomessa ai nuovi vincitori. Per ora però c’è una cosa più urgente da fare: provare a rimettere in moto la politica e a riaprire la battaglia politica. Anche quella tra destra e sinistra. Tra liberali e autoritari. Tra nazionalisti e europeisti. Non tocca certo a Draghi questo compito. Lui è stato chiamato per svolgere un altro ruolo. Rimettere ordine, riparare, rilanciare l’economia strapazzata per anni dal dominio dei moralisti e dei magistrati e dei burocrati. Non è lui che può ridare anima e linfa alla democrazia morente. I partiti che ancora esistono si limiteranno a dire signorsì al premier, o approfitteranno di questo grande armistizio, per ritrovare voce e pensiero? Altrimenti lasciamo ancora campo libero ai comici, ai commedianti che sono riusciti a impancarsi a maestri di politica e di cultura e ancora non smettono. Però allora sarà davvero la rovina del paese. Non basterà Draghi ad evitarla.
Uno schiaffo alla democrazia. Il voto sulla piattaforma Rousseau è uno schiaffo alla democrazia. Una duplicazione delle liturgie di una nazione dentro gli schemi di un movimento. Claudio Brachino, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Il voto sulla piattaforma Rousseau è uno schiaffo alla democrazia. Una duplicazione delle liturgie di una nazione dentro gli schemi di un movimento per creare una sorta di avvertimento al presidente incaricato Draghi. Ma possono 60 milioni di italiani dipendere, in una fase drammatica del paese, da meno di 200mila iscritti a una sorta di simulacro dell'abolizione del meccanismo rappresentativo che invece non ha nessuna autorevolezza istituzionale? Da un lato in sintesi c'è il sogno irrealizzabile dell'iperdemocrazia on line di Casaleggio padre, dall'altro la nostra democrazia reale, cristallizzata in una carta costituzionale. Imperfetta, in crisi, strattonata dalla rivoluzione tecnologica del nostro secolo, ma pur sempre il faro dei cittadini della penisola. A garanzia di questa democrazia c'è un signore, il capo dello Stato, che finalmente stanco delle liti in salsa giallorossa e della caccia ai Ciampolilli, ha chiesto a tutti uno scatto. La polis prima delle logiche di partito, i vaccini che salvano la vita, i progetti del Recovery fund che salvano l'economia e il futuro delle prossime generazioni. Quasi tutti hanno sentito questo richiamo. Il Pd si è liberato dell'ossessione piscoanalitica di Giuseppi e ha detto siamo Con te, intendendo Mattarella. Italia viva aveva questo, secondo me, come approdo fin dall'inizio, magari con il sussurro di Biden, tanto che per trovare un elogio all'intelligenza politico-machiavellica di Renzi si è dovuto scomodare il New York Times. Berlusconi è venuto di persona a Roma accolto come una pop star per suggellare la stima reciproca con l'ex capo della Bce e blindare un partito che per primo si era detto disponibile al bene del paese al di là degli steccati. Salvini, ricordiamolo ancora in testa ai sondaggi nazionali, ha fatto una scelta simile sul piano della maturità personale e della maturazione istituzionale della Lega. La Meloni segue legittimamente la sua coerenza, regge la dialettica dell'opposizione a tutti i costi (ma Draghi non è e non sarà Monti). E Grillo che fa? Prima lodi sperticate, poi colpo di freno. Sentiamo un po' che dice il grande banchiere e poi votiamo su Rousseau. Quando? Vediamo, lo dico io. Intanto rilancia l'idea di un superministero green, e siccome sulla rivoluzione sostenibile ci finiranno circa 70 miliardi di euro, chi ci mette il cappello... Fosse così, più che di iperdemocrazia parlerei di ipermercato!
Perché Grillo e Salvini sono passati con Draghi? “Se il tuo avversario è troppo forte passa dalla sua parte…”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Fanno finta tutti: eccellente di qua, competentissimo di là, bravo bravissimo per carità, lui sì che rimetterà in armonia le sgangherate opinioni, i gusti demenziali e le fragranze retoriche della banda di sciamannati che hanno agito come i Proci ad Itaca pensando che Ulisse non arrivasse mai con il suo arco e i suoi dardi. Mario Draghi non è un bravo messia sceso sulla Penisola per armonizzare la quadra e il punto di caduta, come dicono quelli della banda. Draghi è semmai il “fixer”, quello che affronta la scena del delitto per far sparire cadaveri, bossoli, impronte e anche un paio di sprovveduti che non avevano capito. È un uomo in “suit” per eccellenza: sempre in completo scuro con cravatta, mai un soprabito nemmeno quando si gela. Quando parla, usa segmenti di discorso sperimentati e tradotti dall’inglese. Lo ha mandato l’Europa, ovvero è stato mandato da se stesso, essendo il più pregiato “fixer” del mondo ed è stato spedito per riportare il Paese nella comunità, visto che la comunità sta per sganciare un malloppo che non vorrebbe veder sprecato. Matteo Renzi è stato il suo Giovanni Battista ma anche il suo cavallo di Troia. Renzi è in carriera per cariche internazionali ed ha accelerato il collasso già in atto, responsabile dello stato della pandemia e dell’economia, fuori controllo. Mattarella ha fornito al “fixer” le password d’accesso e ci sono voluti almeno tre giorni prima che il serraglio governativo per caso realizzasse che non era arrivato l’uomo angelico e provvidenziale venuto per mediare e rimettere insieme i cocci, ma quello che avrebbe ripulito la scena del delitto degli ultimi due anni e mezzo. Matteo Salvini l’ha capito al volo e anche Beppe Grillo, sorprendendo il suo popolo di zombie di provincia, ha colto il concetto ed è corso a Roma, ricorrendo all’antica massima secondo cui quando il tuo avversario è troppo forte, passa dalla sua parte: “Noi siamo con Draghi, proprio perché che è venuto per farci fuori e dobbiamo stare dalla sua parte per sopravvivere”. È lo scenario dei film di Quentin Tarantino, o del filone francese di Nikita o Leon. Il povero Pd, non sapendo che faccia fare, simula di aver battuto Salvini sull’Europa e anche Salvini recita a soggetto. L’importante è far finta di non aver capito e simulare di chiedersi se il governo Draghi sarà tecnico, politico o ibrido. Il punto è che questo governo, se ce la farà come sembra a passare gli esami di ammissione, ha il compito di liquidare la stagione dei populisti resettando la politica italiana, con il cortese aiuto dei condannati. Soltanto così si spiega lo straordinario fenomeno della corsa olimpionica per saltare sul carro del vincitore prima ancora che lui arrivi e sempre a favore di telecamera. Che l’Europa accompagni l’operazione Draghi è sotto gli occhi di tutti perché a Bruxelles sono terrorizzati all’idea di sganciare all’Italia il Piano Marshall di duecento e passa miliardi, così come aveva fatto una pessima impressione l’appropriazione indebita dei servizi segreti da parte dell’avvocato Conte e del suo circolo di amici. L’insistenza di Renzi su questo punto è stata chiarissima. È poi toccato a Mattarella compiere tutti i riti e gli accertamenti per giustificare l’assunzione dell’uomo in grado di chiudere la partita dell’avvocato Conte e dei suoi amici di studio. La colonna sonora è quella del vecchio western di Sergio Leone quando tutti capiscono che se un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto. Ma senza alzare la voce e con garbo istituzionale.
Francesco Merlo per “la Repubblica” l'8 febbraio 2021. Forse potremmo chiamare "paternalismo buffo" il potere totale che Beppe Grillo ha sul suo "popolo" , un potere che nessun capo partito in Italia ha mai avuto, neppure Silvio Berlusconi che, ricco e padrone, si è sempre imposto anche grazie a un prurito di interessi, a un conflitto di pruriti, a un conflitto di interessi pruriginosi. E invece a Beppe Grillo, pur essendo il leader che fisicamente non c' è, basta parlare, vale a dire urlare, ghignare e tossire che è appunto il suo modo burlesco di vivere, di recitare e di comandare. Grillo, che non partecipa più alla vita politica perché - spiegò lui stesso - lo rendeva "stanchino", gli scaricava cioè le pile, lo mandava in luna calante che per un comico è crisi creativa, è però l' uomo del momento fatale. Stefan Zweig ne aveva contati 14: quattordici vite che riassumono il mondo. Ebbene Grillo è il quindicesimo Momento Fatale. E infatti sabato, nel quarto giorno dell' era Draghi, il Garante, carica a vita non sfiduciabile e non revocabile, ha lasciato la sua tenda nera nella spiaggia di Bibbona e in soli 45 minuti di scorreria romana ha imposto "un contrordine grillini" che neppure a Togliatti sarebbe riuscito senza almeno un congresso e un lunghissimo dibattito su Rinascita e sull' Unità. Grillo è invece arrivato, ha riunito tutti i frati del convento, da Di Maio sino a Conte, e li ha subito scaldati. Con quella tonalità in escalation che tutti gli conosciamo e con la recitazione epica e giullaresca della "Banda dei sospiri" descritta nel racconto di Gianni Celati, li ha maltrattati e conquistati. Quale leader politico picchia per sedurre (condurre a sé) i suoi devoti? Non ha risparmiato a Conte l' ironia da Bagaglino, «per rilanciarti ci vorrebbe un Recovery fund apposta per te», e a tutti ha imputato la sconfitta come un delitto, «se si vota adesso, il Movimento è finito, e la colpa è solo vostra, tutta vostra; senza Draghi siete fi-ni-ti"». Ma sicuramente non ce l' avrebbe fatta senza quella grande sintonia che a volte si crea tra chi le dà e chi le prende: più Grillo li malmenava e più i loro applausi soffocavano le sue parole. E infatti il suono di quest' accordo arrivava ai cronisti in strada sotto forma di urla e di risate, che non erano scoppiettii di liti e di scontri ma al contrario la prova dell' armonia tra chi convinceva e chi voleva essere convinto, tra l' aggressività paternalistica del capo e la remissività gregaria dei figli bastonati, proprio come a teatro dove il capocomico e il suo pubblico si ingravidano a vicenda. Escludendo ovviamente i modelli dittatoriali, da Stalin a Mussolini, davvero nessuno è mai riuscito a dissuadere e a persuadere e dunque a rovesciare in 45 minuti un piccolo grande mondo come ha appunto fatto Grillo sabato scorso a Roma: «Nunzia Catalfo e Federico D' Inca, davvero credete che un giorno vi faranno di nuovo ministri?». E non pensiate che sia un caso irripetibile. Grillo ci riesce sempre. Era già accaduto, per esempio, nel 2019 (sembra una vita fa) quando impose l' accordo con il Pd a tutti i 5stelle, anche a Di Maio che si piegò nonostante Salvini gli avesse promesso la presidenza del Consiglio: «Lo so, non sei d' accordo e mai lo sarai, ma si fa così». E davvero non è disciplina militare, comando cieco e sordo, ma è leadership, forza e politica, sia pure sciamannata. Ovviamente Grillo non somiglia all' idea che Grillo ha di se stesso , vale a dire di scienziato della politica, una somma di Totò e del professor Sartori, ma c' è qualcosa che, per strade ancora inesplorate dalla dottrina, ha pur sempre a che fare con il carisma in questo suo tenere il comando, nella velocità con cui impone la linea e dà ogni volta una forma al movimento informe. Davvero, neppure Enrico Berlinguer poteva disporre del proprio mondo come ne dispone Beppe Grillo. E pensate a quanta fatica impiegò e di quanti anni ebbe bisogno Berlinguer prima per convincersi e poi per portare il partito alla discontinuità, allo strappo dell' amicizia con la Dc. Pensate alle parole per dirlo, pensate a quel giorno in cui, in casa e in pigiama, come raccontò Tonino Tatò ( pagina 312 , Qualcuno era comunista di Luca Telese,), Berlinguer fumando mille Turmac, trovò finalmente l' aggettivo epocale da aggiungere alla parola compromesso: storico. E invece , come sono le fragole?, si è chiesto sabato Grillo per spiegare l' accordo con Draghi, l' odiato banchiere, «il nostro Mary Poppins suonato». Ed ecco la frase che ha consegnato alla storia: «Le fragole sono mature». Aldo Moro impiegò otto ore per scrivere il discorso sulle convergenze parallele che avrebbe cambiato l' Italia. Più svelto, Grillo ha beccato un Platone nel dizionario delle citazioni: «Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l' insuccesso sicuro: volere accontentare tutti». Diciamo la verità, Platone ha scritto di meglio. In questa estenuante fine dell' epoca a 5stelle, Grillo si è dunque rivelato il leader politico più solido d' Italia ma alla testa del partito più fragile d' Italia. A Draghi ha regalato i voti come un dono personale, e al Paese ha dimostrato che quel piccolo universo di sbandati solo grazie a lui è ancora maggioranza relativa. Ha pure ricordato agli aspiranti scissionisti che non c' è fallimento senza tentativo di rifondazioni, di restyling, di lifting, sempre spacciati come ritorno agli ideali e ai valori delle origini (vaffa, gogna, turpiloquio.). Grillo ha infine fermato il "referendum su Draghi" che era previsto su quella piattaforma Rousseau che, inventata per sostituire la democrazia parlamentare, sarebbe invece diventata non l' Arca di Noè dei sopravvissuti, ma la Zattera della Medusa, il dipinto che racconta tutti i naufragi.
La farsa è finita: il 59,3% dice sì a Draghi. Di Maio: “Vince l’intelligenza collettiva”. Gli altri tutti cretini. Stefania Campitelli giovedì 11 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Abbiamo scelto la strada del coraggio e della partecipazione“. Alle 19,03 Luigi Di Maio dà il grande annuncio. Il popolo grillino ha detto sì all’ingresso nel governo Draghi. Un’ora dopo la chiusura dei ‘seggi’ virtuali sulla piattaforma Rousseau il leader azzoppato dei 5Stelle canta vittoria. E spaccia un esito scontato, eterodiretto dai capi, come uno straordinario successo di democrazia. Senza un minimo di decenza. Ma davvero qualcuno poteva pensare che le consultazioni online degli iscritti pentastellati potessero dare un risultato diverso? Con quel quesito imbarazzante? Prodotto dalla mente furbetta e pericolosa del duo Grillo-Casaleggio junior. Con il sì già annunciato. Con il calendario del premier incaricato già pronto. Governo e fiducia lampo per dare subito lo start al "governo della provvidenza". Su oltre 74mila votanti la percentuale dei sì è stata pari al 59,3 per cento. Tanto basta, meglio non strafare, per far vincere la linea governista. Favorevoli all’esecutivo di “alto profilo” 44.177 mentre, contrari 30.360. Non proprio una schiacciante vittoria per la nomenklatura 5Stelle. Nessuna percentuale bulgare come per le passate consultazioni online. Quella sull’alleanza di governo con la Lega e sulla successivo abbracci con il Pd. Una volta spalancate le porte all’esecutivo dell’amico delle banche, l’odiato ex numero uno della Bce, i vertici 5Stelle hanno messo in scena la solita arlecchinata. “Faremo decidere gli iscritti”. Ma certo, saranno loro a sciogliere i nodi della posizione del primo partito in Parlamento (non certo nel paese, visti i sondaggi). Tutto secondo copione. La piattaforma dei miracoli intitolata al filosofo del bon sauvage, i ritardi cronici, lo slittamento del voto appeso al ministero ‘green’. Lo stupore finale. Sullo sfondo quel rompiscatole di Di Battista ad abbaiare alla luna. Non cambio idea – ha detto fino all’ultimo. No al governo dei tecnocrati. Il primo step è andato. Ma ora per Grillo sarà impossibile evitare la scissione. Giggino da il meglio di sé. Gongolante per l’esito che gli permetterà, forse, di restare ancora in sella con un ministero. “Voglio ringraziare ogni singolo attivista e iscritto alla piattaforma Rousseau che ha espresso il proprio voto”, scrive su Facebook parlando di ‘intelligenza collettiva’ che prevale sul singolo. E ancora. “La legalità, la giustizia, lo stop ai privilegi, la protezione dell’ambiente. Lo sviluppo sostenibile, l’acqua pubblica e molto altro. Siamo ancora questo. Anzi, da oggi lo siamo con maggiore consapevolezza”. Infine, noblesse oblige, il ringraziamento a Beppe. “Per il grande contributo offerto in questa fase”. “Non ho ancora parlato con Grillo, adesso lo chiamo”. Così Davide Casaleggio dopo il voto degli iscritti sulla piattaforma che ha dato il via libera all’esecutivo Draghi. Lo stesso che poco prima aveva messo le mani avanti nel caso, molto remoto, il no a fosse stato maggioritario. “Le valutazioni politiche le rimando agli organi politici del M5S” ha aggiunto. Senza svelare il suo voto.
Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2021. La tentazione di ricorrere a facili giochi di parole va sempre evitata. Ma che qualcosa potesse generare confusione fu chiaro fin dall'inizio, quando all'improvviso i bordelli divennero una priorità del M5S. La piattaforma Rousseau debuttò il 5 luglio 2016 chiedendo agli iscritti di formulare proposte da portare al più presto in Parlamento. Al secondo posto si piazzò a sorpresa la riapertura delle case chiuse. Quel risultato, accolto con qualche sconcerto dai vertici di allora, non scalfì la mitologia nascente della struttura tecnologica che all'epoca si definiva Sistema operativo del Movimento 5 Stelle. «Una formica non deve sapere come funziona il formicaio, altrimenti tutte le formiche ambirebbero a ricoprire i ruoli migliori e meno faticosi, creando un problema di coordinamento». Questo passaggio di Tu sei rete , il libro di Davide Casaleggio che è una summa del pensiero paterno, rappresenta anche l'ambiguità concettuale di una struttura che viene presentata come simbolo di democrazia diretta ma in realtà ha funzione di reclutamento, profilazione dei dati, raccolta di fondi. E non di vera e propria partecipazione. Perché a decidere infine sarà solo il Capo, al quale infatti è affidata la possibilità di capovolgere gli esiti sgraditi delle votazioni, oppure di indirizzarle scrivendo i quesiti in un certo modo. Rousseau nasce nella tempesta. Lo statuto dell'associazione viene scritto nella stanza dell'ospedale Auxologico di Milano dove Gianroberto Casaleggio si sta spegnendo. L'ultima telefonata con Beppe Grillo è una lite feroce, senza riappacificazione finale, il culmine negativo di un rapporto ormai logorato. La piattaforma, destinata a prendere il posto del blog dell'ex comico, risente di questo dissidio feroce, perché viene concepita soprattutto per blindare il Movimento da ogni tentativo di scalata, per conservarne lo spirito delle origini, e da ultimo per affidarne controllo e gestione in via dinastica. È uno strumento di potere interno, che come tale funziona alla perfezione, anche in tempi di declino e di relativa rappresentatività. All'interno del M5S non è certo un mistero il fatto che nel gennaio del 2020 Luigi Di Maio si dimetta da capo politico anche a causa dello scarso risultato ottenuto dalla votazione sul «team del futuro», il suo ultimo tentativo di mediazione con l'ala più radicale rappresentata da Davide Casaleggio. Poco riscontro, poco entusiasmo, addio. Eppure, c'è stato un tempo in cui queste tare così evidenti non contavano, e i destini del Movimento sembravano sovrapponibili a quelli di Rousseau. I primi due anni di vita sono il momento di massimo splendore. La piattaforma accoglie l'eredità del Sacro blog e dei Meet up, i 391 gruppi virtuali dai quali si è generato il M5S. Alla vigilia delle elezioni politiche del 2018, concentra il lavoro sulla selezione dei candidati, con le Parlamentarie che a oggi restano il suo maggior successo. Poco importa se la piattaforma presentata come un prodigio di tecnologia mostra falle e distorsioni evidenti. Nel 2017 tre attacchi hacker ne dimostrano la vulnerabilità, con tanto di sberleffi assortiti, come l'inserimento nel database di una falsa donazione da un milione di euro fatta dall'allora segretario del Pd Matteo Renzi o la finta vendita dei dati in cambio di bitcoin. Vengono cambiate le password, salvo poi scoprire che gli espulsi del Movimento, definiti «utenti dormienti» da un curioso comunicato, hanno ancora accesso a Rousseau. L'anno seguente, l'istruttoria del Garante della privacy stabilisce che i nomi degli iscritti sono stati comunicati «a soggetti terzi, in mancanza del consenso degli interessati», stigmatizza «l'indiscutibile obsolescenza tecnica» ed evidenzia come «le misure di sicurezza per il controllo delle operazioni di voto destino perplessità». Ma il garante si chiama Antonello Soro, ex deputato del «Pd meno elle», il nemico giurato. Così va la vita. A prevalere è piuttosto l'alone di purezza che circonda Rousseau. La piattaforma diventa un simulacro del vecchio M5S, è il cordone ombelicale che lega il Vaffa alle nuove grisaglie governative, le giustifica con la sua esistenza. E proprio per non toccare uno statu quo che va in direzione opposta all'intransigenza di Casaleggio, aumenta le sue contraddizioni. Il quesito sul caso della nave Diciotti, che vede coinvolto l'alleato Matteo Salvini, viene cambiato nottetempo per essere trasformato in un rebus da Settimana enigmistica, chi vuole dire sì all'imputabilità del ministro dell'Interno deve votare no, e viceversa. Ma siamo già nel 2019. L'era del bieco realismo è cominciata da un pezzo, le case chiuse non sono mai state riaperte. Tanto più che Rousseau non decolla. Gli iscritti sono sempre quelli, poco più di centomila, i parlamentari sono insofferenti a questo collo di bottiglia virtuale e ai suoi costi. La mitica piattaforma diventa ben presto un orpello, un passaggio obbligato utile giusto a togliere il M5S dall'imbarazzo certificando scelte indigeste. E comunque se qualcosa non va come deve, a norma di statuto non è solo possibile rivotare, ma anche annullare la decisione. Mario Draghi può dormire tranquillo.
Rousseau travolge i 5 Stelle. Dibba se ne va: "Inaccettabile". Il voto della base per l'ok a Draghi apre la frattura tra i grillini. Di Battista annuncia l'addio. Altri già pronti a seguirlo. Francesco Boezi, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Gli iscritti della piattaforma Rousseau hanno detto la loro sul prossimo esecuvito, ma le previsioni non parlano di concordia interna: il MoVimento 5 Stelle è nel caos. E il rischio dietro l'angolo è quello di una scissione bella e buona. L'ala purista - quella per intenderci che guarda ai valori fondativi della formazione pentastellata - non ci sta. Dopo l'espressione del 59% circa degli iscritti, che hanno guardato con favore del governo con Mario Draghi premier, le strade, per i massimalisti, sono due: restare all'interno del grillismo pur mantenendo dei distinguo ideologici, dovendo però sottostare alla volontà politica dei vertici e della base che ha votato su Rousseau, oppure fuoriuscire, dando vita ad una scissione. Le acque sono agitate: nulla può essere dato per scontato. La frattura arriva con l'annuncio del pasionario, Alessandro Di Battista, che ha usato i social per comunicare la sua posizione: "Rispetto il voto degli elettori – ha fatto sapere attraverso un video – ma da ora in poi non parlerò in nome del M5s, perché il M5s non parla a nome mio. Questa scelta non riesco a superarla. Non posso fare altro che farmi da parte. Vedremo se un giorno o l’altro le nostre strade si rincroceranno". "Questa scelta politica di sedersi con determinati personaggi, in particolare con partiti come Forza Italia, con un governo nato essenzialmente per sistematizzare il M5S e buttare giù un presidente perbene come Conte... questa cosa non riesco proprio a superarla. D'ora in poi non posso far altro che parlare a nome mio e farmi da parte. Se poi un domani la mia strada dovesse incrociarsi di nuovo con quella del M5S, vedremo: dipenderà esclusivamente da idee politiche, atteggiamenti e prese di posizione". "Grazie a Beppe Grillo, è lui che mi ha insegnato a prendere posizione, anche controcorrente. E io oggi non ce la faccio proprio ad accettare un Movimento che governa con questi partiti, anche - per l'amor di Dio - con le migliori intenzioni del mondo", ha detto. "È stata una bellissima storia d'amore, con gioie e battaglie vinte, ma anche diverse delusioni e qualche battaglia disattesa o persa. Io, con tutto l'impegno del mondo, non possono non considerare determinate mie convinzioni politiche. Poi magari mi sbaglierò su questo governo, ma non posso proprio andare contro la mia coscienza", aggiunge Dibba. Bisognerà attendere, adesso, l'eventuale principio di un percorso che porti alla formazione di un'altra forza politica. L'ultimo a parlare è stato Pino Cabras, un parlamentare pentastellato. Il gioco ormai è a carte scoperte: "Non voterò la fiducia a Draghi se le premesse sono queste, nessuno conosce il programma. Per convincermi, Draghi dovrebbe stupirmi con effetti speciali", ha esordito il deputato, che ha rilasciato dichiarazioni all'Adnkronos. Poi un avvertimento neppure troppo velato dal punto di vista politico: "Quello di oggi su Rousseau è un referendum che non è avvenuto con le regole del referendum, dal momento che il quesito era inquinato dalla risposta che implicava. E' stata una manipolazione", mentre l'esito "dà una indicazione del fatto che il M5S è spaccato. C'è un evidente orientamento di moltissimi iscritti". Ventilare l'esistenza di una spaccatura è di solito un buon modo per veicolare una scissione. Anche su questo Cabras non si nasconde: Il parlamentare gillino ha confidato di non essere tra i fautori di una divisione intestina, aggiungendo tuttavia che quando si parla di scissione ci si riferisce ad "una dinamica che non è da escludere. Io - ha aggiunto il deputato del MoVimento- non sto lavorando per la scissione. Fin dall'inizio ho lavorato per sostituire una politica che ci ha portati a cedere su tutto. Ora bisogna vedere quali sono le condizioni. Crimi dice che l'indicazione degli iscritti è vincolante. Per me è vincolante il voto di 11 milioni di persone che non volevano quei governi in cui ora ci impelaghiamo!". Rispetto alla parabola politica ormai conclusa (almeno quella con i grillini), Di Battista ha aggiunto che è stata una "bellissima storia d'amore, piena di gioie e battaglie vinte. Anche con diverse delusioni e qualche battaglia disattesa o persa però questa è la politica. Non posso andare avanti, non posso non considerare determinate mie opinioni, determinate mie convinzioni politiche. Non posso proprio andare contro la mia coscienza", ha chiosato. Due visioni, dunque: chi intravede nel risultato della piattaforma Rousseau il lasciapassare in grado di fornire qualunque giustificazione politica ai grillini e chi, invece, proprio non riesce a sedersi al tavolo con altre forze che verranno coinvolte nella costruzione di una solida maggioranza parlamentare in grado di reggere il governo Draghi. Il MoVimento 5 Stelle non è mai stato così vicino all'implosione. Difficile che qualcuno faccia questo nome dinanzi alle telecamere dei giornalisti, ma è chiaro che tra i palazzi romani si guarda soprattutto all'atteggiamento di Alessandro Di Battista. Ma quanto è rimasto delle convinzioni del primo grillismo? La risposta è nei fatti politici della giornata. Sì, ma i vertici potrebbero rispondere, sottolineando come Draghi abbia immediatamente annuito dinanzi alla richiesta posta da parte grillina: quella della istituzione di un ministero per la transizione ecologica. Un punto che Beppe Grillo ritiene con tutta evidenza fondamentale. Cabras però ha argomenti da esibire pure in relazione a questo punto: "Ma cosa significa in concreto? Semplice: un decreto-legge sposterà dipartimenti e direzioni generali che adesso sono in altri ministeri (con tanto di strutture, risorse e personale) e li accorperà sotto un'unica nuova sigla. Saranno cambiate alcune targhe in ottone e la carta intestata. In cambio di questo Tetris di ufficetti, si cede su tutto quello per il quale erano stati chiesti e ottenuti i voti". Da giorni, peraltro, si parla di una ventina di parlamentari pronti a salutare la formazione politica con cui sono stati eletti o comunque fortemente contrariati dall'ipotesi di votare la fiducia ad un governo Draghi. L'area massimalista qualcosa farà, Oppure, in questo processo di normalizzazione politica, le beghe verranno messe da parte, favorendo la dialettica correntizia. Come farebbe un partito tradizionale. Quello che il MoVimento 5 Stelle, stando alla visione promossa, non sarebbe mai dovuto diventare.
Un Ministero per la Transizione ecologica.
Finalmente la politica parla di transizione ecologica: perché l’Italia è già (troppo) in ritardo. Il passaggio a un’economia più sostenibile è il primo punto del nuovo governo, e il 37 per cento dei fondi del Recovery Plan servono a questo. Ma il nostro Paese al ritmo attuale mancherà gli obiettivi europei. Stefano Liberti su La Repubblica l'11 febbraio 2021. La strada l’ha indicata chiaramente il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Nominando un inviato speciale per il clima, nell’autorevolissima persona dell’ex segretario di stato John Kerry, ha fatto seguire alle parole della campagna elettorale i fatti. Nel “climate plan” da 1.700 miliardi di dollari che dovrà essere supervisionato proprio da Kerry, si prevede tra le altre cose il raggiungimento della totale neutralità climatica per il 2050 e il superamento dell’utilizzo di combustibili fossili nel settore elettrico già nel 2035. Che detto dagli Stati Uniti, primo produttore al mondo di petrolio, non è poco. Anche l’Unione europea nel suo Green New Deal ha indicato l’orizzonte del 2050 per raggiungere la neutralità climatica, prevedendo per il 2030 una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. La transizione ecologica e il contrasto alla crisi climatica sono tra le priorità dei governi in diversi paesi europei. In Germania, la cancelliera Angela Merkel - soprannominata “klimakanzlerin” per la sua attenzione al tema - ha lanciato un programma di de-carbonizzazione estremamente ambizioso. In Francia e in Spagna è stato istituito un ministero per la transizione ecologica. In Italia siamo ancora parecchio indietro: la questione ha difficoltà a trovare spazio nel dibattito pubblico. Compare nelle agende delle principali forze politiche in modo episodico, sempre in posizione ancillare rispetto a quelli che sono considerati temi più stringenti. Per questo la proposta del fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo di istituire anche da noi un super-ministero simile a quelli francese e spagnolo, che governi le politiche ambientali ed energetiche, ha avuto il merito di mettere la questione al centro delle discussioni alla vigilia della nascita del nuovo governo presieduto da Mario Draghi. Quanto il tema della transizione ecologica dominerà l’azione del prossimo esecutivo? Quanto si sceglierà di utilizzare i fondi del Next Generation-Eu per disegnare effettivamente un nuovo modello di sviluppo, basato su de-carbonizzazione, economia circolare, mobilità sostenibile e cura dell’ambiente? I fondi europei - 209 miliardi di euro, di cui il 37 per cento vincolati a “progetti green” - rappresentano da questo punto di vista un’opportunità unica per recuperare il terreno perduto. Se nell’ultima bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da presentare a Bruxelles una parte cospicua di risorse (67,5 miliardi di euro) è destinata alla transizione verde, come prevedono i vincoli europei, nel documento sembra mancare una visione sistemica, che dia un reale indirizzo alle politiche da realizzare. Manca, come fa notare il Forum disuguaglianze e diversità che fa a capo all’ex ministro Fabrizio Barca, un’indicazione di obiettivi da raggiungere e una misurazione degli impatti. «Nella sua bozza attuale, il Piano non usa il linguaggio dei risultati attesi, l’unico che interessa non solo l’Unione europea ma anche le persone comuni, impegnate a ricostruire le proprie vite nei tempi difficili che ci troviamo a vivere», sottolinea Barca. I tempi che viviamo - con la duplice crisi pandemica e climatica in pieno svolgimento, quella sociale ed economica alle porte - imporrebbero scelte radicali. La transizione ecologica dovrebbe tradursi in un ripensamento delle modalità di produzione dell’energia, della mobilità, del sistema agricolo e industriale, del modo in cui sono organizzate le nostre città. Richiederebbe un approccio olistico, visionario e ambizioso, che sappia guardare al mondo del futuro. «Purtroppo per ora la politica non ha colto la profondità della sfida che abbiamo di fronte. Il Next Generation-Eu è stato interpretato come una grande legge di bilancio pagata dall’Europa e non per quello che in realtà è: un piano volto a promuovere un cambiamento strutturale delle società secondo linee guida ben precise», rincara Edo Ronchi, ex ministro dell’ambiente e presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile. «Il pilastro principale di queste linee guida è proprio la transizione ecologica, a cui nella bozza del piano italiano sono destinate risorse tutto sommato limitate e in buona parte per progetti pre-esistenti», continua Ronchi. A ben guardare, esclusi i progetti già in essere, alla cosiddetta rivoluzione verde sono dedicati 6 miliardi l’anno. «Una cifra», sottolinea ancora l’ex ministro, «del tutto insufficiente per raggiungere l’ambizioso target di riduzione delle emissioni indicato dalla Commissione europea». Uno degli ambiti cruciali per la futura de-carbonizzazione è quello energetico, ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili. All’attuale ritmo di crescita delle fonti rinnovabili difficilmente raggiungeremo i nuovi obiettivi fissati dall’Ue. «L’anno scorso i Paesi Bassi hanno installato impianti fotovoltaici per una potenza di 2.9 Gigawatt, circa quattro volte di più di quanto si è fatto in Italia. Il fatto che un paese infinitamente più piccolo e meno soleggiato del nostro ci sorpassi in modo così vistoso è un segno inequivocabile del nostro ritardo», analizza Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola. «C’è un problema di farraginosità nel sistema nei permessi. Se per avere l’autorizzazione per un piccolo parco eolico devi attendere cinque anni, hai già sforato gli orizzonti temporali fissati dal Next Generation-Eu». Oltretutto, la tanto decantata rivoluzione energetica viene sistematicamente contraddetta dal mantenimento di politiche anacronistiche, come i sussidi ai combustibili fossili - che, secondo quanto calcolato in un recente rapporto di Legambiente, ammontano complessivamente a 35,7 miliardi di euro tra sussidi diretti e indiretti. Una cifra astronomica, che pregiudica investimenti in altri settori e difende rendite di posizione di aziende inquinanti. Anche sulla mobilità sostenibile c’è molta strada da fare. Dopo il piccolo Lussemburgo, l’Italia è seconda in Europa per densità di auto private. Secondo uno studio Eurostat, nel nostro paese circolano quasi 40 milioni di autoveicoli, per la precisione 646 ogni 1000 abitanti (compresi i bambini). Per ridurre questo numero esorbitante, si dovrebbe puntare su mobilità dolce, sharing e trasporto pubblico. Invece, nell’ultima legge di bilancio si è scelto di sussidiare nuovamente con fondi statali (circa 700 milioni di euro per l’anno in corso) l’acquisto di nuove autovetture. Se da una parte favorisce lo svecchiamento del parco auto con veicoli meno inquinanti, la misura esacerba quello che rimane il principale problema della nostre città: la congestione. «Per la mobilità urbana sostenibile sono stati previsti 760 milioni di euro l’anno, che dovrebbero servire per un numero elevato di misure (le piste ciclabili, il rinnovo della flotta autobus, le tranvie, i treni e i trasporti navali regionali) con quasi nulla sul tema cruciale della sharing mobility», analizza ancora Ronchi. La scarsa sensibilità ecologica della classe politica si rispecchia insomma in una serie di misure contraddittorie e, per quanto riguarda il Pnrr, in un elenco di progetti poco articolati che in larga parte non sembrano frutto di una visione d’insieme ma quasi una forzatura imposta dall’Europa. «Per un vero cambiamento, bisognerebbe far passare il messaggio che l’ambiente non è una materia di nicchia, ma una questione strategica per la buona società e pure per l’economia», sostiene Paolo Pileri, professore di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano. Una convinzione che in realtà innerva già da tempo una parte non marginale del mondo produttivo. Se la politica ci sente poco da questo orecchio, sono molte le imprese in sintonia con l’aria del tempo. Nel settore agricolo, l’Italia ha raggiunto ragguardevoli traguardi nella diminuzione nell’uso di pesticidi e nell’abbattimento delle emissioni. Nel settore industriale, tanti sono gli esempi di aziende grandi e piccole che hanno fatto della sostenibilità una bandiera. «Negli ultimi 5 anni, 432mila imprese hanno investito in prodotti e tecnologie green. L’Italia è una super-potenza dell’economia circolare: è il paese europeo con la più alta percentuale di riciclo di rifiuti. È una propensione che fa parte del nostro Dna di paese tradizionalmente manifatturiero ma privo di materie prime», sottolinea ancora Realacci. «Questi record andrebbero messi a sistema, valorizzati e incentivati». Saprà la politica cogliere l’occasione? Riuscirà il governo Draghi a guidare il paese attraverso l’attuale contesto di crisi e promuovere una transizione ecologica seria, in linea con gli obiettivi europei e con le tendenze globali? L’Italia ha fino al 30 aprile per presentare a Bruxelles il nuovo Pnrr. A novembre si terrà a Glasgow la Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, di cui il nostro paese è co-organizzatore. Il tempo stringe e il momento delle scelte radicali sembra non più rinviabile.
Paolo Baroni per “la Stampa” il 12 febbraio 2021. L' idea non è nuova: già nel 2018 il portavoce dell' Alleanza per lo sviluppo sostenibile, l' ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, in un saggio pubblicato da Laterza intitolato «L' Utopia Sostenibile», proponeva di creare un ministero per la Transizione ecologica. E non a caso oggi Giovannini è dato in pole position per guidare questo nuovo dicastero, il classico coniglio tirato fuori dal cilindro da Draghi giusto in tempo per tenere bene agganciati i 5 Stelle e che a tutti gli effetti rappresenta la vera novità del nuovo governo che si sta formando. Non solo questa operazione segna un netto salto di qualità delle politiche di governo ma metterà a disposizione del nuovo ministro una potenza di fuoco notevole, sia in termini di competenze che di risorse. Ai 68-70 miliardi stanziati col Recovery plan, posto che Bruxelles raccomanda di investire non meno del 37% delle risorse nelle politiche green, vanno infatti aggiunti altri 19 miliardi di sussidi «ambientalmente dannosi» che ora si conta di cancellare e reimpiegare meglio.
Il modello francese. Nel suo saggio, oggi quanto mai attuale, Giovannini proponeva di «ripensare la distribuzione delle competenze dei diversi ministeri alla luce del "modello" dello sviluppo sostenibile» richiamando esplicitamente la scelta fatta dalla Francia, dove «il ministero dell' Ambiente è stato trasformato in ministero della Transizione Ecologica e Inclusiva, con competenze anche nei campi dell' energia, della prevenzione dei rischi, della tecnologia e della sicurezza tecnologica, dei trasporti e della navigazione, della gestione delle risorse rare». Un altro modello a cui ispirarsi è quello spagnolo, dove il «vecchio» ministero dell' Ambiente è diventato ministero della Transizione ecologica e della Sfida demografica, con competenze che vanno dalla lotta al cambiamento climatico alla prevenzione delle contaminazioni, dalla protezione del patrimonio naturale allo spopolamento dei territori.
Gli accorpamenti. Nel nostro caso si tratterebbe di accorpare al ministero dell' Ambiente le competenze nel campo dell' energia che oggi fanno riferimento al ministero dello Sviluppo, e volendo aggiungervi le competenze sui trasporti in capo al Mit e le politiche forestali che oggi sono sotto il Mipaf. Ma non si esclude nemmeno la possibilità di fondere Ambiente e Sviluppo e creare per davvero un nuovo superministero. La formula finale, come tutte le altre alchimie di governo, ce l' ha in testa però solo Draghi e per ora se la tiene ben stretta. Di certo non si parte da zero perché già oggi all' Ambiente c' è un Dipartimento per la transizione ecologica, mentre da inizio anno il Comitato per la programmazione economica si è evoluto nel nuovo Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile, col preciso scopo di assicurare un migliore orientamento degli investimenti pubblici agli obiettivi dell' Agenda 2030. Il primo obiettivo del nuovo dicastero sarà allineare il nostro Recovery plan al Green new deal europeo che di qui al 2030 punta a ridurre del 55% le emissioni di gas serra con programmi che spazieranno dall' agricoltura sostenibile all' economia circolare, dalle energie rinnovabili a idrogeno e mobilità sostenibile, dall' efficienza energetica degli edifici alla tutela di territorio e risorse idriche. «Un ministero della transizione ecologica alla francese - ha spiegato la vicepresidente della Commissione Ambiente della Camera Rossella Muroni - aiuterà a coniugare il rispetto dell' ambiente con lo sviluppo sostenibile, a tenere insieme programmazione, investimenti pubblici, politiche di sviluppo, lavoro di qualità e tutela degli ecosistemi ed ad affrontare con una visione complessiva e competenze trasversali tutte le questioni ambientali aperte, a cominciare dalla crisi climatica». In pratica la «rivoluzione verde» interesserà tutti i settori produttivi, la manifattura, la meccanica e l' acciaio. «Per noi - sostiene la responsabile ambiente del Pd Chiara Braga - l' emblema è il rilancio dell' ex Ilva di Taranto dove accanto al rilancio della produzione e del lavoro è necessario gestire le ricadute ambientali e sulla salute dei cittadini».
Applausi e critiche. Dopo l' annuncio arrivato mercoledì al termine dell' incontro del premier incaricato con Wwf, Legambiente e Italia nostra, tutto il mondo ambientalista ha festeggiato. Qualcuno ha però avanzato anche dubbi sull' efficacia dell' operazione, come il presidente dei costruttori dell' Ance Gabriele Buia «molto preoccupato» per la creazione di un superministero. «È un sforzo titanico - ha spiegato - e conoscendo i tempi con cui si muovono i nostri ministeri avrei paura ad unificare così tante competenze. Immaginatevi la bolgia».
Diodato Pirone per "Il Messaggero" l'11 febbraio 2021. Un feticcio. O un drappo rosso. Supercazzola o cosa seria? Un'idea valida per alcuni, molto meno per altri, spuntata sul palcoscenico politico con l'obiettivo evidente di spingere una parte del popolo dei 5Stelle a inghiottire il rospo Draghi. Comunque sia, il progetto di istituire un ministero della Transizione Ecologica ieri è montato come la panna. Legittimato persino dal meno ecologico dei partiti, la Lega di Salvini («Potremmo essere d'accordo anche se non basta emulare la Spagna», ha dichiarato Paolo Arrigoni, responsabile Energia del Carroccio) nonostante al momento nessuno sia in grado di stabilire cosa sia e soprattutto cosa farà questo nuovo ministero. Nelle ultime 24 ore sono persino spuntati due possibili ministri per il nuovo dicastero. C'è chi ha fatto girare il nome di Walter Ganapini, fra i fondatori di Legambiente, con una enorme esperienza nella gestione delle aziende di raccolta rifiuti (è stato anche presidente dell'Ama nel 1997). A sera è spuntato anche il nome di Catia Bastioli, amministratrice delegata di Novamont, inventrice della cosiddetta chimica verde. La Bastioli è notissima per la fabbricazione dei sacchetti di plastica riciclabile (tecnicamente fatti con un materiale vegetale che si chiama Mater-Bi) che dal 2018 sono obbligatori per la frutta sfusa venduta nei supermercati. I sacchetti riciclabili Novamont, un vanto del made in Italy, sono esportati in tutto il mondo. La Bastioli finì nel tritacarne della polemica politica perché fu nominata da Matteo Renzi alla presidenza di Terna, la società che trasporta l'energia elettrica, ma alcuni mesi dopo fu molto elogiata da Beppe Grillo dopo una visita alla Novamont. Ma quale dovrebbe essere il profilo di questo ministero della Transizione Ecologica? Le scuole di pensiero sono due. I 5Stelle caldeggiano - sia pure a grandi linee - l'idea di accorpare ministero dello Sviluppo, ministero dell'Ambiente e quella parte del ministero delle Infrastrutture che si occupa di Trasporti. I detrattori di questa ipotesi sottolineano che si tratterebbe di far nascere un moloch della spesa pubblica che, oltre a concentrare una quantità di fondi pubblici perlomeno anomala, sommerebbe competenze che con l'ambiente ci azzeccano poco come ad esempio la gestione dei regolamenti del commercio o del profilo giuridico dei trasporti. Per i poco esperti di profili burocratici va detto che già oggi il ministero dello Sviluppo gestisce molti progetti ecologici come quegli degli incentivi per chi riduce i consumi energetici delle abitazioni oppure quello della produzione di idrogeno verde. La seconda ipotesi sulla quale il professor Draghi starebbe lavorando è invece un allargamento delle competenze del ministero dello Sviluppo che avrebbe una missione ecologica mentre il ministero dell'Ambiente manterrebbe l'attuale missione forse con un nuovo nome. A far pendere il bilancino delle probabilità verso questa soluzione c'è il fatto che già nel 2019 il governo Conte presentò un progetto in Parlamento, poi abbandonato per decisione della stessa maggioranza, per trasformare il ministero dell'Ambiente in ministero della Transizione ecologica. Del progetto resta traccia nella struttura del dicastero che prevede tre l'altro un Dipartimento per la transizione ecologica e gli investimenti verdi (DiTEI) articolato nei seguenti quattro uffici di livello dirigenziale: Direzione generale per l'economia circolare (ECi); Direzione generale per il clima, l'energia e l'aria (CLEA); Direzione generale per la crescita sostenibile e la qualità dello sviluppo (CreSS); Direzione generale per il risanamento ambientale (RiA). Sul sito del ministero la missione del Dipartimento è descritta così: «Il Dipartimento esercita le competenze in materia di: politiche per la transizione ecologica e l'economia circolare e la gestione integrata del ciclo dei rifiuti; strategie nazionali di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; mobilità sostenibile; azioni internazionali per il contrasto dei cambiamenti climatici, efficienza energetica, energie rinnovabili, qualità dell'aria, politiche di sviluppo sostenibile a livello nazionale e internazionale, qualità ambientale». Decisamente un super-ministero. O no?
Il dipartimento fantasma (per i 5 Stelle). Ministero della Transizione ecologica, l’ultima trovata di Beppe Grillo che in realtà già c’era (guidata da un altro Grillo). Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Era la richiesta principale del Movimento 5 Stelle, la creazione di un “superministero” della transizione ecologica “come lo hanno in Francia, Spagna, Svizzera, Costarica e altri paesi”, aveva strillato sul suo blog il fondatore e garante Beppe Grillo. E Mario Draghi, l’ex numero della Banca centrale europea incaricato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella di formare un governo di “alto profilo”, è intenzionato a seguire il “consiglio” grillino, come anticipato dalle associazioni ambientaliste ricevute ieri dal presidente incaricato per le consultazioni, con la presidente del WWF Donatella Bianchi che ha anticipato l’intenzione di Draghi di creare nel futuro esecutivo “il ministero della Transizione ecologica”. Una notizia che il Movimento 5 Stelle si è subito intestato come una vittoria e utilizzato in chiave strumentale per dare il via al voto sulla piattaforma Rousseau in merito alla fiducia all’esecutivo dell’ex numero uno dell’Eurotower di Francoforte. Peccato però che questo ministero della Transizione ecologica in Italia ci sia già. Esiste infatti in forma di dipartimento e fa parte del ministero per l’Ambiente guidato da Sergio Costa, ex Generale di brigata dei Carabinieri Forestali entrato in politica proprio con il Movimento 5 Stelle. Il colmo? A guidarlo come dipartimento è un altro Grillo, Mariano. Il dipartimento guidato dal quasi omonimo Grillo si occupa, come si legge dal sito del dipartimento, di “investimenti verdi” e “cura le competenze del Ministero in materia di economia circolare, contrasto ai cambiamenti climatici, efficientemente energetico, miglioramento della qualità dell’aria e sviluppo sostenibile, cooperazione internazionale ambientale, valutazione e autorizzazione ambientale e di risanamento ambientale”. Al di là delle facili ironie sui due Grillo, per ora l’unica certezza sul tema del futuro ministero della Transizione ecologica è l’incertezza: attualmente non solo Draghi non ha confermato la creazione del ministero, ma non è chiaro neanche come potrebbe essere strutturato. Le ipotesi vedono la possibilità di unire i ministeri di Ambiente e Sviluppo Economico, oppure potenziare radicalmente il ministero guidato attualmente da Sergio Costa per fare fronte ai tanti miliardi a disposizione col Next Generation EU. Proprio il piano sul Recovery presentato dal governo Conte prevede di stanziare 67,5 miliardi di euro per l’economia verde e la transizione ecologica, ma è stato pesantemente criticato in questa parte delle stesse associazioni ambientaliste.
Da video.corriere.it il 12 febbraio 2021. “C’è per tutti quanti noi un elemento di grande consolazione. Abbiamo appreso da Beppe Grillo che si realizzerà il Ministero della transizione ecologica, nulla di meno. Ministero della transizione ecologica. Dunque dovremmo aspettarci questa grande novità in Italia avremo il Ministero alle Galassie che credo sarà affidato a una persona di alto profilo - Giordano Bruno, credo, che sta aspettando a Campo dei fiori da qualche tempo di essere convocato.” Così il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca in un video in diretta su Facebook.
La Transizione ecologica esiste già. È al Ministero e la guida proprio un Grillo. Il Tempo il 10 febbraio 2021. Beppe Grillo vuole creare un Ministero nuovo di zecca da dedicare alla Transizione ecologica. Lo ha detto personalmente al premier incaricato Mario Draghi durante le consultazioni. Un ministero che dovrà essere al centro della svolta ambientalista del Movimento 5 Stelle, uno dei capisaldi su cui Grillo vorrebbe basare l'appoggio al nuovo esecutivo. Ciò che probabilmente Grillo non sa è che il suo nuovo cavallo di battaglia non è affatto una novità. La Transizione ecologica esiste già, ed è un dipartimento del Ministero dell'Ambiente. E chi guida questo dipartimento della Transizione ecologica? Il dirigente, guarda che coincidenza, si chiama proprio Grillo, nome di battesimo Mariano. Il dottore Mariano Grillo si occupa, come si legge dal sito del dipartimento, di "investimenti verdi" e "cura le competenze del Ministero in materia di economia circolare, contrasto ai cambiamenti climatici, efficientemente energetico, miglioramento della qualità dell’aria e sviluppo sostenibile, cooperazione internazionale ambientale, valutazione e autorizzazione ambientale e di risanamento ambientale". Inoltre, " il Dipartimento esercita (...) le competenze in materia di: politiche per la transizione ecologica e l’economia circolare e la gestione integrata del ciclo dei rifiuti; strategie nazionali di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici; mobilità sostenibile; azioni internazionali per il contrasto dei cambiamenti climatici, efficienza energetica, energie rinnovabili, qualità dell’aria, politiche di sviluppo sostenibile a livello nazionale e internazionale, qualità ambientale, valutazione ambientale, rischio rilevante e autorizzazioni ambientali; individuazione e gestione dei siti inquinati; bonifica dei Siti di interesse nazionale e azioni relative alla bonifica dall’amianto, alle terre dei fuochi e ai siti orfani; prevenzione e contrasto del danno ambientale e relativo contenzioso; studi, ricerche, analisi comparate, dati statistici, fiscalità ambientale, proposte per la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi". Bastava che Grillo avesse alzato il telefono e avesse chiamato il ministro dell'Ambiente Sergio Costa, il quale tra l'altro è stato scelto proprio dal M5s.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2021. Parlano come se il famigerato e inventato Ministero della «transizione ecologica» dovessero darlo a uno di loro, a un grillino, parlano come se questo ministero dovesse avere una rilevanza rispetto alla missione che Mario Draghi è chiamato a compiere, ma soprattutto parlano come se il ministero parente stretto, quello dell'ambiente, non l'avessero gestito loro sino a ieri: coi meravigliosi risultati a tutti noti. Certo che no, non possiamo ascrivere al macchiettistico ministro Sergio Costa tutti i macro-disastri nazionali che per il grillismo hanno rappresentato un fallimento perfetto rispetto alle velleità sbandierate in campagna elettorale: però - prima ancora di chiedersi verso che cosa si possa ecologicamente transigere, se dicono sempre di no a tutto - qualche catastrofe va menzionata, così, velocemente. I grillini dovevano bloccare ogni trivellazione petrolifera nell'Adriatico e nel 2016 avevano sostenuto il referendum sulle trivelle, costato 300 milioni: poi, dopo non averne bloccata nessuna, il governo ha autorizzato altre tre trivellazioni nel mar Ionio: che in effetti non è l'Adriatico. Tre decreti di fine dicembre 2018 hanno accordato a una compagnia americana trivellazioni per 2.200 km quadrati tra Puglia, Basilicata e Calabria: tutte zone dove i grillini avevano preso consensi facendo gli ecologisti integerrimi, tanto che in tutta la Puglia «No-Triv» presero quasi il 43 per cento. A proposito di Puglia: il famoso Tap, il Gasdotto Trans-Adriatico che attraverserà Grecia e Albania per approdare nella provincia di Lecce, «con il governo a 5 stelle, in due settimane non si farà più» dissero Di Maio e Di Battista. Beh, si farà. A Lecce i grillini avevano conquistato il 67 per cento, poi, dopo il via all'opera, nell'ottobre 2018, un gruppo di militanti bruciò le bandiere del Movimento. Del Tav, per pietà umana, non diremo nulla. Diciamo qualcosina del famoso «Terzo Valico» a cui, secondo i grillini, andava preferito «un potenziamento della linea ferroviaria esistente», disse Di Maio: si farà anche quello, perché «l'analisi costi-benefici ha previsto che il totale dei costi del recesso ammonterebbe a 1 miliardo e 200 milioni di euro, di conseguenza non può che andare avanti». Si farà. E «Taranto senza Ilva, pienamente bonificata»? Con relativa «chiusura delle fonti inquinanti, senza le quali le bonifiche sarebbero inutili»? l'Ilva c'è ancora ed è più forte di prima, mezza statalizzata e bonificata solo dalle inchieste giudiziarie. Ma queste sono sciocchezze da poche decine di miliardi di euro. Veniamo alla «transizione ecologica» in senso stretto (?) e alla famosa economia circolare, la raccolta differenziata, le energie alternative, la direzione verso cui dovremmo transigere (nota: nell'accezione usata, il sostantivo transizione in realtà non accetta coniugazioni) e insomma vediamo che cazzo hanno fatto, oltre al niente. Risposta a sorpresa: niente. Inceneritori, termoutilizzatori o termovalorizzatori, rigassificatori: niente, non li volevano e non li vogliono. L'entourage eco-giustizialista, capitanato da Sergio Costa, ha escluso ogni lontana ipotesi di termovalorizzatore anche quando c'è stato il dramma della monnezza a Roma (di Napoli non parliamo più) e sono rimasti fedeli al film del «rifiuto zero» che in concreto significa immobilismo; lo dimostrano anche i dati sulla raccolta differenziata per cui l'Europa seguita a sanzionarci. La media italiana è 58 per cento, con estremi in Veneto (74 per cento), Campania (52) e Sicilia (29). Forse si potrebbe aggiungere che poi, la sera, si corre a guardare qualche gomorresco serial tv in cui la malavita organizzata ingrassa proprio per la mancanza di impianti: dello stoccaggio abusivo si occupano loro. Ma dicevamo la transizione. Verso dove, verso che cosa? «No agli inceneritori, incentivi alle rinnovabili» è sempre rimasto il motto. Nell'attesa, il ministro Costa ha cercato di aumentare il costo dei prodotti petroliferi per rendere il gasolio più caro della benzina, ciò che avrebbe aumentato anche il costo del petrolio agricolo. Senza contare - notizia Ansa - che la produzione mondiale di litio, fondamentale per produrre le batterie per auto elettriche, rischia di far aumentare la produzione di anidride carbonica (CO2) di almeno 6 volte, tra estrazione, produzione, trasporto e fabbricazione: ciò che triplicherebbe entro il 2025 le emissioni di CO2. Quanto alle energie rinnovabili, che per ora sono poca cosa, si registra un prevedibile fenomeno: le centrali energetiche alternative sono tutte (tutte) contestate indipendentemente dal loro potenziale di inquinamento, anche le più pulite. Non importa se sono centrali a biomasse o impianti eolici o fotovoltaici: è la vicinanza fisica a far scattare la protesta. I comuni attigui a una centrale progettata - ha notato l'osservatorio Nimby - si oppongono il 50 per cento delle volte, mentre i comuni confinanti nel 90 per cento dei casi. Ma forse sono comuni di destra.
Il ministero buffo...Il ministero della transizione ecologica esiste già, l’ultimo sketch del comico Grillo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Il più bel castello – marcondiro-ndirondella- è lo sfolgorante Nuovo Ministero Immaginario che ora tutti giurano di riuscire a vedere lassù, sulla collina. In realtà, la miracolosa visione consiste soltanto un’accorpata di vecchie baracche, legate dal miracoloso collante della “narrazione” che, come la vernice di Pier Lambicchi, lega e nasconde quel che si vuole: lavoro, energia, strade, treni, mulattiere, meccanica quantistica e politiche agricole inevitabilmente verdi come l’insalata, trasporti per trasbordi, visioni ambientali anche di ambienti malfamati ma ecosostenibili, cioè fuffa. La trattativa sull’oggetto misterioso funziona come il test delle macchie d’inchiostro di Rorschach le quali, in sé, non significano nulla, ma in cui ciascuno può – se crede – vedere quel che vuole e poi lo racconta allo psichiatra – o al drago – che ne prende diligente nota e riassume: «Lei desidererebbe dunque una transumanza ecologica con connotazione energetica verde ma sostenibile, così da promuovere sviluppo industriale e posti di lavoro nel più scrupoloso rispetto dell’ambiente?». «Sìì», risponde l’interlocutore dalla vasta capigliatura a macchia mediterranea: «Come ha fatto a saperlo?». «Psicologia, anzi sintonia. Vada pure e consideri la cosa fatta». La buona novella fiabesca viene subito diffusa: esisterà il Ministero di tutti i Ministeri ed esso stesso sarà sia mistero che ministero, laddove lo spazio-tempo di Einstein si incontrerà con i nativi Inps ed Empas dei sotterranei e sarà festa grande. È evidente che si tratta di uno sketch per vendere ciò che già esiste, comunque la si chiami, ma è utile per l’acchiappo di un’ottantina dei miliardi europei. Però, il maquillage teatrale permette di soddisfare le esigenze di scena di Beppe Grillo il quale sa anche di poter contare sulla comprensione dello stesso circo mediatico-televisivo che ha sempre tifato per il governo più bello del mondo, lo stesso che è stato appena fatto cadere con un calcio nel sedere ben concordato e teleguidato da Renzi; e solo a partire da quel momento dichiarato nefasto, da sostituire di corsa con l’arrivo di un demiurgo che è anche un chirurgo. E poiché tutti sanno che la narrazione del mistero dei ministeri accorpati in una trasudazione ecologica dei luoghi comuni è soltanto una chiacchiera con cui i grillini possono convocare quarantamila insetti sulla tastiera, ecco che il circolo mediatico-televisivo evolve in un movimento decorativo e dadaista che drappeggia questa scemenza teatrale con bofonchiamenti pensierosi ma positivi. Però, ancora non basta, perché occorre un altro elemento di supporto: il dirottamento su un obiettivo finto, ovvero l’astuta ma inattaccabile conversione a U di Matteo Salvini che ha aderito al governo senza se e senza ma, alla maniera dei gesuiti “perinde ac cadaver”: passivo come un cadavere, seguendo la prescrizione del Quirinale. Più che una mossa da cavallo, è stata quella dell’alfiere: dritto come una diagonale. A questo punto lo schieramento che aveva in precedenza steso tappeti rossi al governo Conte e poi si era istantaneamente dichiarato mario-draghista, ha avuto un cenno d’infarto: come sarebbe a dire che Salvini ci sta? Bisogna assolutamente opporsi a questo indegno stato delle cose perché, va bene il “bene del Paese”, ma qui si rischia di perdere la faccia davanti a un elettorato pronto a spacchettarsi. È stato così che alla questione irreale del ministero immaginario è stata garantita realtà, mentre la scelta di Salvini è stata declassificata al rango di realtà non accettabile, ovvero di provocazione. I lettori sanno quanto poco ci piaccia Salvini e la sua paccottiglia dei pieni poteri, madonne crocefissi e tequila, ma la doppia manipolazione cui abbiamo assistito ci fa trasalire perché ha finora castigato il principio di realtà e premiato il comedian, il cantastorie proprio quando ci avevano fatto sognare il ritorno alla competente concretezza, il che è più preoccupante che frustrante, ma abbiamo pazienza e aspettiamo, non perinde ac cadaver, ma a orecchie dritte e occhi spalancati.
Non sarà un inutile Ministero della Transizione ecologica a salvare l’ambiente. Carmine Gazzanni su Notizie.it l'11/02/2021. Il M5s vincola il sì a Draghi alla nascita del super-Ministero, ma un Dipartimento per la Transizione ecologica esiste già e in tre anni di governo il Movimento non ha saputo mantenere nessuna promessa in ambito ambientale. La domanda è d’obbligo: che cos’è e cosa sarà il ministero per la Transizione ecologica, così fortemente voluto da Beppe Grillo? E soprattutto: era così necessario? Il dubbio, infatti, è che il Movimento cinque stelle abbia posto una condizione tanto di facciata e poco impattante nel concreto soltanto per mettere sul governo di Mario Draghi la propria bandierina più in alto delle bandierine degli altri partiti. Il dubbio nasce per varie ragioni. Innanzitutto pare strano che la questione ambientale – di cui, seppure sia uno dei temi cardine dell’anima M5S, non si è mai parlato fino a due settimane fa – proprio ora diventi così esiziale, al punto da oscurare un tema centrale nell’agone politico come quello della giustizia. Detta in altri termini: un ministero per la Transizione ecologica val bene una prescrizione? Già, perché uno dei primi scogli della nuova maggioranza sarà in Parlamento con la conversione in legge del decreto Milleproroghe, provvedimento al cui interno c’è lo stop alla prescrizione voluto dal Guardasigilli uscente Alfonso Bonafede. Già sono stati presentati da varie forze politiche emendamenti per cancellare la norma vessillo del Movimento. Cosa succederà allora? Difficile pensare che Forza Italia e Italia Viva (e lo stesso Pd) possano confermare (e dunque prolungare) lo stop alla prescrizione. Molto più facile supporre che la norma salterà. E a quel punto cosa farà il Movimento? A sentire le voci che si rincorrono tra i pentastellati “critici”, più di qualcuno è convinto che si metterà una toppa. E questa toppa risponde per l’appunto al nome di “Transizione ecologica”. Ecco perché l’insistenza sull’ecologia in questo frangente sembra tanto una sorta di “velo di Maya” finalizzato a coprire i potenziali nervi scoperti dell’esecutivo del tutti dentro. E non possono sfuggire altri curiosi dettagli. Pochi sanno che all’interno del ministero dell’Ambiente già c’è un dipartimento specifico, il “Dipartimento per la Transizione ecologica e gli investimenti verdi”. Sarà forse che il capo dipartimento si chiama Grillo (ma Mariano, non Beppe), ma ciò non giustifica che un dipartimento interno a un Ministero ora assurga a ruolo di dicastero sintetizzando peraltro due Ministeri centrali come Ambiente e Sviluppo economico. Ultimo appunto, ma forse il più importante. Se proprio i pentastellati avessero voluto rendere l’ambiente centrale nell’azione di governo avrebbero potuto farlo già nei due e più anni in cui sono stati al governo. E invece abbiamo assistito nell’ordine: all’ok alla Tap in Puglia, alla mancata riconversione ambientale nell’area dell’Ilva a Taranto, all’ok definitivo alla Tav Torino-Lione. Tutte opere che, piaccia o non piaccia, sorridono semmai agli interessi economici, industriali e infrastrutturali ma che non tengono per nulla in conto (o poco) l’aspetto ambientale. Non è un caso che in campagna elettorale i candidati del Movimento – e in primis Luigi Di Maio – avevano chiaramente detto che non ci sarebbe stata alcuna Tap ma politiche di tutela degli uliveti pugliesi; che lo stabilimento siderurgico di Taranto sarebbe stato completamente riconvertito; e infine che l’alta velocità non avrebbe mai avuto il parere favorevole dei 5 Stelle. Alla fine, nonostante dettagliati report di analisi costi-benefici di cui tanto abbiamo sentito parlare, nessuna promessa è stata mantenuta. Ma c’è di più. A scorrere per bene i dati dell’Ufficio per il Programma di Governo (che fa capo direttamente a Palazzo Chigi), si scopre che tanti altri piccoli (ma importanti) provvedimenti “ambientali” sono stati annunciati, messi su carta, approvati e poi bloccati. Tutta colpa dei cosiddetti “decreti attuativi” che rappresentano una sorta di secondo tempo legislativo: molto spesso dopo che una norma viene approvata occorre che il ministero di riferimento (in questo caso quello dell’Ambiente) intervenga per rendere quel provvedimento operativo. E invece? Invece niente. Doveva a esempio nascere un Comitato per la finanza ecosostenibile e non è mai nato; dovevano essere predisposte nuove modalità per gli studi di impatto ambientale e non è mai avvenuto; mai partito il progetto delle autostrade ciclabili né quello per la rete urbana delle ciclabili, due idee lodevoli per cui peraltro erano stati stanziati decine di milioni di euro. Annunciato e mai partito anche il “Programma strategico nazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici e il miglioramento della qualità dell’aria”. La “transizione ecologica”, insomma, poteva avvenire senza annunci eclatanti nel corso di questi due anni. E invece, ancora una volta, abbiamo l’annuncio eclatante col dubbio che poi i fatti restino a zero. Purtroppo, non basta un nome o un titolo per fare una politica.
Dagospia il 12 febbraio 2021. Ferdinando Cotugno: Piccoli smottamenti ideologici: qui Di Maio con i gilet gialli nel 2019, la cui protesta era nata avendo come bersaglio le nuove tasse sul carburante, proposte dal Ministero per la transizione ecologica, lo stesso che oggi è la bandiera politica del Movimento 5 Stelle.
Marco Antonellis per Dagospia il 10 dicembre 2018. Beppe Grillo pare proprio essersi innamorato dei gilet gialli: "Sono come noi" ha tuonato dalle pagine del Fatto Quotidiano. "I Gilet gialli hanno venti punti di programma, non parlano solo di tasse, vogliono il reddito di cittadinanza, pensioni più alte...tutti temi che abbiamo lanciato noi", dice il fondatore del Movimento 5 Stelle. Ma l'innamoramento non è destinato a fermarsi qui. Perché tra i pentastellati più vicini al leader c'è chi confida che "ci si possa alleare con i Gilet gialli a livello europeo dato che hanno espresso l'intenzione di trasformarsi in Movimento politico". Capito i 5Stelle dove vogliono andare a parare? Perché i sondaggisti d'oltralpe danno gli anti Macron addirittura in doppia cifra se si candidassero alle prossime elezioni europee. Insomma, ne verrebbe fuori un bottino notevole che messo assieme a quello dei pentastellati nostrani potrebbe diventare "ago della bilancia" nel prossimo europarlamento per decidere, di volta in volta, se stare con i sovranisti alla Salvini o con i partiti tradizionali. "Cambiare l'Europa, che è quello che ci proponiamo di fare, con i Gilet gialli sarebbe molto più facile" spiegano dal Movimento che nel frattempo ha già iniziato la stesura del programma elettorale in vista delle elezioni di fine Maggio: tra i punti qualificanti dovrebbe esserci l'abolizione del Fiscal Compact (bye bye Mario Monti), l'esclusione dal limite del 3% per gli investimenti in innovazione così come -si sta ragionando- la modifica dello Statuto della Bce con buona pace di Angela Merkel e per la gioia di Donald Trump: si vorrebbe una Bce sul modello dell'americana Fed, la banca centrale degli Stati Uniti d'America. Intanto, i 5Stelle si stanno già attrezzando anche sotto il profilo delle candidature in vista delle elezioni per il parlamento di Strasburgo: tra i probabili candidati, in molti danno per sicuro il sindaco di Livorno Nogarin che già ne avrebbe parlato con il numero uno del Movimento, Luigi Di Maio.
Alberto Clò per rivistaenergia.it, fondata con Romano Prodi, il 26 novembre 2018. Le violente proteste dei "gilet gialli" francesi contro l’aumento dei prezzi dei carburanti deciso dal governo di Edouard Philippe dicono molto sullo scarto nella popolazione francese (ma non solo) tra il dichiararsi contro i cambiamenti climatici ed accettarne le misure per combatterli. Le proteste sono scaturite nei territori agricoli ma a dire dei sondaggi godono del sostegno del 74% della popolazione. Eppure, il gasolio aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt. Prezzi comunque inferiori, e di non poco, a quelli medi italiani: 1,63 €/lt per la benzina e 1,55 €/lt per il gasolio (dati al 15 novembre, Staffetta Quotidiana). Dichiararsi contro i cambiamenti climatici è una cosa, accettarne le misure per combatterli un’altra. A fine agosto il Ministro francese per la "Transizione ecologica e solidale" si dimise perché non aveva più intenzione di ‘mentire a sé stesso’, non essendo riuscito ad adottare misure significative, a partire dal rinvio della riduzione del nucleare nella generazione elettrica. Fu sostituito da Francois de Rugy, Presidente del Parlamento francese e a lungo membro del partito "Europe ècologie – Les Verts", moderato ma comunque desideroso di agire. Da qui, la decisione del governo, col sostegno del Presidente Emmanuel Macron, di aumentare la carbon tax, denominata, "Contribution Climat Energie" (CCE), nella complessiva ‘Taxe interieure de consommation sur le produit energetique’ (TICPE). La tassa sul carbonio fu introdotta nel 2014 – Presidente Francois Hollande, Ministro dell’ambiente Segolene Royal – e da allora è aumentata di oltre 6 volte, da 7 a 44,6 €/tonn CO2, con la previsione di portarla a 55 € nel 2019 sino a 100 nel 2030. Attualmente la TICPE è pari a 0,94 euro/litro (di cui fa parte la CCE per il 63%) su un prezzo finale medio intorno a 1,50 €/lt Prezzo grosso modo simile tra benzina e gasolio, per la decisione del governo francese di ridurre gli sgravi fiscali a favore delle auto diesel, motivato dai loro presunti danni ambientali e dal prossimo avvento dell’auto elettrica. Motivazioni entrambe inconsistenti. Il gasolio in Francia aumenterà di (appena) 6,5 cent €/lt e la benzina di 2,9 cent €/lt, portando il prezzo medio a circa 1,53 €/lt: prezzi comunque di non poco inferiori a quelli medi italiani. Cosa insegna la protesta dei gilets jaunes? Più cose.
Primo: “la transizione energetica come ogni altra rivoluzione, perché di questo si tratta – scrivevo oltre un anno fa nel mio ‘Energia e Clima’ (pag. 32) – attraverserà in modo diseguale le varie componenti economico-sociali interne ad ogni paese […]. Si avranno vincitori e vinti nella distribuzione dei costi e dei benefici – tra imprese, industrie, lavoratori, consumatori, contribuenti – con tensioni politiche e sociali”. Come va accadendo e sempre più accadrà.
Secondo: la benzina o il gasolio sono un bene essenziale per una larga parte della popolazione, specie quella pendolare che ogni giorni deve andare a lavorare o studiare. In Italia ammonta a 29 milioni di persone. La maggior parte usa l’automobile. Questo accade anche in Francia, nonostante la maggior efficienza del suo sistema ferroviario. Da qui la rabbia dei ‘rurali contro i parigini con il metrò sotto casa’. I cittadini/consumatori non fanno poi solo il pieno, ma usano l’elettricità o il metano, i cui prezzi in Italia stanno diventando sempre più insopportabili per milioni di famiglie. L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta.
Terzo: l’accettabilità sociale della transizione energetica diminuisce con l’intensificarsi delle misure per realizzarla. Non solo prezzi, ma anche restrizioni, proibizioni, sanzioni. Sarà allora interessante vedere, ad esempio, come reagiranno i 2,2 milioni di parigini al Piano ambientale approvato lo scorso anno dal loro sindaco Anne Hidalgo dal suggestivo nome ‘Paris change d’ère. Vers la neutralité carbone en 2050’ che mira a ridurre le emissioni clima-alteranti del 50% al 2030 e dell’80% al 2050 in larga parte con una miriade di misure coercitive.
Ne riportiamo le principali:
limitare l’aumento degli abitanti nel 2030 a non più di 160.000 (come?);
dimezzare le 600 mila vetture in circolazione (chi e come deciderà?), che dovranno avere dal 2030 almeno 1,8 (sic!) occupanti (idem);
aumentare in ogni modo i "costi di utilizzazione delle autovetture";
eliminare i parcheggi;
incoraggiare l’andare a piedi o in bici;
puntare a un’“alimentazione meno carnosa” col divieto di distribuire la carne due giorni la settimana;
“orientare più massicciamente le scelte dei parigini verso regimi alimentari plus durables” (?);
bloccare la circolazione nei week-end organizzando grandi feste popolari per le strade.
Il tutto, mirando a “conquistare i cuori e gli spiriti” dei parigini e a “nutrirne l’immaginario […] mutualizzando gli acquisti o sincronizzando le decisioni”. Non so quanti dei circa 34 milioni di turisti che visitano annualmente Parigi o gli stessi parigini gradiranno queste restrizioni dei gradi di libertà individuale. Rivoluzionare dall’alto economie e modi di vivere richiederebbe rigidi sistemi di pianificazione scarsamente accettabili dalle società moderne. L’economia dei divieti e della burocrazia realizzata col pretesto dell’ecologia è un’economia percepita come punitiva e perciò stesso respinta. I gilets jaunes anche questo insegnano.
(ANSA l'11 febbraio 2021) "Accetto la votazione ma non posso digerirla. Da tempo non sono d'accordo con le decisioni del Movimento 5 Stelle e ora non posso che farmi da parte". Così Alessandro Di Battista in un video su Fb dove saluta e ringrazia i suoi ex colleghi e Beppe Grillo. "Non posso far altro, da ora in poi, che parlare a nome mio e farmi da parte, se poi un domani la mia strada dovesse incrociare di nuovo quella del M5s lo vedremo, dipenderà esclusivamente da idee politiche, atteggiamenti e prese di posizione, non da candidature o ruoli. Faccio un grande in bocca la lupo ai miei ex colleghi". Lo ha detto Alessandro Di Battista su Facebook. "Questa scelta di sedersi con determinati personaggi, in particolare con partiti come Forza Italia, in un governo nato per sistematizzare il M5s e buttare giù un presidente per bene come Conte non riesco a superarla". Lo ha detto Alessandro Di Battista su Facebook
Paolo Mieli a PiazzaPulita: "Alessandro Di Battista, il dittatore del M5s. Ecco quando tornerà a farsi avanti". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. Che cosa significa l’addio di Alessandro Di Battista al Movimento 5 Stelle? È l’interrogativo che Corrado Formigli ha posto a Paolo Mieli, ospite nello studio di La7 di PiazzaPulita. “Di sicuro non creerà problemi al governo di Mario Draghi, ma sia Dibba che Giuseppe Conte si sono messi di riserva perché pensano che prima o poi le elezioni arriveranno”, è stata l’analisi dell’editorialista del Corriere della Sera, che ha poi aggiunto: “Il M5s è l’unico partito che ha un gruppo dirigente di riserva solido. Conte ufficialmente non ne fa parte, però io sono malizioso e lo vedo come il Prodi dei 5 Stelle”. E Di Battista invece? “Lui è il loro dittatore, quello che in caso di tracollo della leadership è pronto a farsi avanti. Tra l’altro per la prima volta si è espresso in maniera alternativa a Beppe Grillo, che in questo caso si è speso molto per il governo Draghi”. Non riuscendo però a convincere uno sponsor del calibro di Marco Travaglio della bontà dell’operazione, dato che il direttore del Fatto Quotidiano ha espresso un giudizio molto severo da Lilli Gruber a Otto e Mezzo. “Per i 5 Stelle è più grave andare al governo con Berlusconi che con Salvini”, ha dichiarato Mieli ricordando che il Cav rappresenta tutto ciò che il Movimento ha sempre combattuto: “Alla fine con il leghista ci sono stati per un anno e anche il Fatto ha difeso ciò che accadeva nel Conte uno. Berlusconi, invece, è una questione identitaria forte, è colui il quale ha caratterizzato la seconda Repubblica e anche gli anni in cui si è sviluppato il M5s”.
(ANSA l'11 febbraio 2021) "Da Dell'Utri a Bontate: il curriculum di Berlusconi ci impone di dire No al nuovo governo". E' questo il titolo del nuovo articolo di Alessandro Di Battista su Tpi. "Non è accettabile dividere questioni economiche da questioni morali. Perché nella nostra Italia vi sono stati esempi virtuosi: imprenditori che hanno chiuso, non solo per scelte politiche sbagliate, ma perché assassinati per essersi opposti al pizzo. E l'hanno fatto mentre un imprenditore che oggi viene ricevuto con tutti gli onori nelle stanze del potere romano non ha fatto altro che pagare, pagare e ancora pagare. Ed oggi rischia di tornare al governo del Paese". "Oggi su Rousseau ho votato NO. Per evitare di sedersi al tavolo con certi personaggi che sono tra i motivi per cui è nato il Movimento 5 Stelle". Lo scrive Danilo Toninelli in post su Fb in cui riporta la prima pagina de 'il Giornale' che titola "In mano ai Toninelli". "Ricordo che il quotidiano , che mi dedica la prima pagina di oggi 11 febbraio, è di proprietà della famiglia Berlusconi. Di cui fa parte quel Silvio Berlusconi che potrebbe diventare nostro futuro alleato di governo se prevalesse il sì nel voto su Rousseau".
(ANSA l'11 febbraio 2021) La senatrice M5s, Barbara Lezzi, sostenitrice con Alessandro Di Battista dell'opzione "astensione" del M5s al governo Draghi, torna in campo e rilancia sui social la posizione espressa in proposito da Casaleggio ("Qualora vincesse il no, ci sarà da stabilire se il voto sarà negativo o di astensione"). Anche Lezzi ricorda il governo della "non sfiducia" del '76 e dice: "ora siete voi, iscritti al M5S, che potete decidere se accomodarvi accanto a Berlusconi, Salvini, Renzi, Calenda e gli altri oppure pretendere che tutto passi dal M5S che avrebbe forza e mani libere per negoziare e trattare ogni voto". "La storia ci riporta a chi si assunse responsabilità senza entrare nel governo e lo fece per senso di responsabilità verso un paese piegato dalla crisi economica e dal terrorismo. Lo fece perché aveva la consapevolezza che la rilevanza politica l'avrebbe potuta esercitare al meglio costringendo il Governo a negoziare e a trattare ogni singolo provvedimento per conquistare il voto di chi aveva scelto l'astensione", scrive Lezzi che ricorda: "Era il 1976, nacque il governo della non sfiducia grazie all'astensione di Berlinguer che non si andò a sedere con Andreotti". "Caro Giuseppe Conte, il tuo appello di ieri a votare Sì al quesito Rousseau ha, ancora una volta, dimostrato che sei un vero signore. Dato il tuo ruolo, dato il tuo garbo istituzionale non avresti potuto fare altro . Per me è diverso. Voterò un NO convinto". Così la senatrice Barbara Lezzi in un lunga 'lettera aperta' indirizzata dal suo profilo Fb all'ex premier, in cui "motiva" le regioni del suo voto contrario. "Giuseppe, ora tu non puoi dirlo, ma non posso credere che tu sia convinto che questa accozzaglia sia fatta per il bene del Paese. Un Paese stremato, stanco e indebolito, al quale non possiamo restituire i Renzi, Salvini e Berlusconi potenziati, senza alcuna forma di controllo parlamentare. La responsabilità impone di far tutto ciò che serve per impedirlo" scrive Lezzi.
La profezia di Travaglio invecchiata malissimo. Travaglio e la "rosicata" sul M5S al governo con Draghi: “Grillo si è fatto intortare, non conteranno nulla”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Il Movimento 5 Stelle? Nel governo Draghi “non conteranno più niente” e “prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più”. Marco Travaglio è un fiume in piena nel salotto televisivo di ‘Otto e mezzo’, dove è praticamente di casa, nel commentare il "Sì" sulla piattaforma Rousseau alla fiducia all’esecutivo dell’ex numero uno della Banca centrale europea. Il direttore del Fatto Quotidiano, ideologo-ombra del Movimento 5 Stelle, è visibilmente sconvolto dalla svolta di “responsabilità” dei grillini e in particolare dei loro vertici, da Luigi Di Maio a Vito Crimi, fino al fondatore e garante Beppe Grillo. Proprio sul comico genovese arrivano le parole più dure: “Si è trattata di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi con la supercazzola del super-ministero della Transizione ecologica”, accusa Travaglio. Quanto al futuro del Movimento, il direttore del Fatto prevede una spaccatura, perché “ci sarà qualcuno che non ha lo stomaco così forte da andare al governo con Berlusconi e con chi gli ha buttato giù i due precedenti governi”.
LA PREVISIONE SBALLATA DI TRAVAGLIO – Nello studio di "Otto e mezzo" riecheggiano ancora le parole di Travaglio smentite dai fatti di queste ultime ore. Giovedì 5 febbraio, soltanto una settimana fa e prima della chiamata al voto degli iscritti sulla piattaforma Rousseau, Travaglio era certo delle future mosse del Movimento: nessuna fiducia a draghi perché “il tabù numero uno dei Cinque Stelle è Berlusconi, un pregiudicato”, diceva il direttore del Fatto scandendo ogni sillaba e mettendosi le mani alla bocca a mo’ di megafono. Non solo. Per Travaglio, che si rivolgeva alla Gruber, era letteralmente impossibile vedere in futuro prossimo i grillini al governo con ministri forzisti: “Te li vedi che fanno i ministri insieme agli uomini di Berlusconi che vogliono cancellare la riforma della prescrizione. Cioè, ma pensate veramente che la politica sia una pagliacciata a questi livelli? È evidente che devono trovare un altro modo se vogliono evitare la scissione, che potrà essere l’astensione o un appoggio esterno. Ma certamente la gente se vede dei Ministri dei Cinque Stelle con i Ministri di Berlusconi gli sputerà in faccia”, diceva il buon Marco. Ebbene, come da risultato della piattaforma Rousseau, il Movimento 5 Stelle sarà al governo proprio col “pregiudicato Berlusconi”. Vedremo se i sostenitori grillini avranno la saliva pronta…
Otto e Mezzo, “e allora quei voltagabbana del Pd?”: Marco Travaglio, crisi di nervi per difendere la farsa-Rousseau. Libero Quotidiano l'11 febbraio 2021. Marco Travaglio ha rispolverato un grande classico: “E allora il Pd?”. Ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo, il direttore del Fatto Quotidiano ha sparato sul partito di Nicola Zingaretti per difendere la votazione-farsa sulla piattaforma Rousseau che ha sancito il via libera da parte degli iscritti all’ingresso del M5s nel governo di Mario Draghi. “Far votare 74mila persone - è la versione di Travaglio - è sempre meglio che far decidere a 3-4 persone. Quanti hanno deciso nel Pd che la linea che Andrea Orlando ha enunciato due settimane fa fosse cambiata?”. Il riferimento è alla dichiarazione “non aggiungeremo mai i nostri voti a quelli leghisti neanche se il premier fosse Superman”. “Ma questa è democrazia rappresentativa, Marco”, ha provato a ricordargli la Gruber. Ma Travaglio ha tirato dritto per la sua strada: “No, quello significa essere dei voltagabbana a casa mia. È meglio sentire ogni tanto anche i propri iscritti: in Germania Spd li fa votare per posta, il M5s li fa votare online”. Poi il direttore del Fatto ha risposto alla domanda della conduttrice di La7 su una possibile spaccatura tra i 5 Stelle dopo il voto su Rousseau: “Credo che ci sarà per forza qualcuno che non avrà lo stomaco così forte da votare un governo con Berlusconi e con quello che gli ha buttato giù i precedenti due”.
Travaglio demolisce il MoVimento: "Si è calato le brache, non conterà più niente". È un Marco Travaglio critico contro il Movimento 5 Stelle quello che ha parlato da Lilli Gruber e che non ha risparmiato commenti al veleno per i grillini. Francesca Galici, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Marco Travaglio in rotta con il Movimento 5 Stelle? Uno dei più leali sostenitori del partito di Beppe Grillo sembra aver cambiato idea e ospite di Otto e mezzo non ha risparmiato critiche, anche ben argomentate, al M5S che fino a pochi giorni fa elogiava. Il pomo della discordia per Marco Travaglio è la decisione di appoggiare il governo di Mario Draghi, soprattutto perché in quella stessa maggioranza ci saranno anche Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, che i grillini da sempre contestano. Solo pochi mesi fa sembravano rabbrividire all'idea, escludevano categoricamente l'ipotesi di un'alleanza e adesso l'appoggio a Draghi ha cambiato tutto, facendo storcere il naso a Marco Travaglio. "Prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più", ha sbottato Marco Travaglio con Lilli Gruber, commentando il voto du Rousseau che ha di fatto dato il via libera al Movimento 5 Stelle di appoggiare Mario Draghi. "Non conteranno più niente", ha sottolineato il direttore de Il fatto quotidiano ai microfoni di Otto e mezzo, forse anche mettendo in evidenza il malumore di gran parte dei grillini, che quando iniziò l'avventura del M5S decisero di appoggiarlo proprio perché in apparenza diversi dalla politica classica. Marco Travaglio è molto duro nel suo giudizio sull'appoggio al governo nascente: "Grillo è tutt'altro che scemo. Si è trattata di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi che lo ha intortato con la supercazzola del super-ministero della Transizione ecologica". Per Marco Travaglio, quindi, i grillini si sarebbero fatti abbagliare da promesse e da piccolezze che hanno però fatto perdere al MoVimento il suo slancio e la sua identità. Ma non è solamente l'appoggio a Draghi a infastidire Marco Travaglio, è soprattutto la composizione della maggioranza: "Una spaccatura ci sarà per forza, ci sarà qualcuno che non ha lo stomaco così forte da andare al governo con Berlusconi e con chi gli ha buttato giù i due precedenti governi". Secondo l'analisi del giornalista, quindi, prossimamente si assisterà a una scissione importante all'interno del MoVimento, soprattutto perché secondo lui con il nuovo governo "i 5 stelle non toccheranno palla, non contano più niente". Travaglio ha un pensiero anche per Giuseppe Conte: "È una fortuna il fatto di tenersi a distanza da questa ammucchiata. A prescindere da Draghi che è un santo e cammina sulle acque, fa la fila al supermercato invece di farsi largo con il machete, ma tutto il resto ci riserverà tali spettacoli che chi ha la fortuna di avere un mestiere, un bel mestiere come insegnare all'università, è un bene se si tiene fuori".
Marco Travaglio a Otto e Mezzo, "non conteranno più niente" e insulti a Berlusconi: crisi di nervi dopo aver perso il M5s. Libero Quotidiano il 12 febbraio 2021. La disperazione e la rabbia di uno sconfitto, ovvero Marco Travaglio. Il "suo" M5s si è ribellato al re dei Manettari e, dopo la farsa del voto su Rousseau, si è consegnato a Mario Draghi. Tutto ciò che il direttore del Fatto Quotidiano, a suon di insulti contro Silvio Berlusconi e Matteo Salvini e deliri sul "complotto dei giornaloni", non avrebbe mai voluto vedere. E così, il direttore capo-ultrà di Giuseppe Conte, mostra tutta la sua disperazione ospite in collegamento con Otto e Mezzo di Lilli Gruber, nella puntata in onda su La7 ieri sera, giovedì 11 febbraio, proprio pochi minuti dopo la chiusura del voto sulla piattaforma pentastellata. "Prima di calarsi le brache avrebbero dovuto chiedere qualche garanzia in più", ha sbottato il Travaglio disperato. E ancora: "Non conteranno più niente". Brutto colpo, per Travaglio, prendere atto che il suo partito di riferimento è ridotto al nulla. Dunque, su Beppe Grillo: "È tutt'altro che scemo - ha premesso -. Si è trattata di una circonvenzione di capace. È stato intortato da quel volpone di Draghi che lo ha intortato con la supercazzola del super-ministero della Transizione ecologica". E qui, Travaglio, mente sapendo di farlo. Cerca infatti di spacciare la vicenda del ministero "verde" come un argomento in grado di persuadere il M5s, quando in verità è stato semplicemente uno strapuntino chiesto e ottenuto dai pentastellati per poterselo rivendere ai votanti su Rousseau per ottenere il "sì". E ancora, il Marco Manetta scaricato dai grillini punta il dito per la composizione della maggioranza: "Una spaccatura ci sarà per forza, ci sarà qualcuno che non ha lo stomaco così forte da andare al governo con Berlusconi e con chi gli ha buttato giù i due precedenti governi". Insomma, il M5s destinato allo scissione per colpa della presenza di Berlusconi, quel Berlusconi che Travaglio è tornato a insultare con violenza dalle colonne del suo Fatto Quotidiano. Insulti che sarebbero dovuti servire a convincere i vertici M5s a non andare mai al governo con Berlusconi. Ma Travaglio ha fallito.
Da liberoquotidiano.it il 6 febbraio 2021. Matteo Salvini e la delegazione della Lega a Montecitorio ha parlato con il premier incaricato anche di Europa, e quello che è emerso è un quadro sorprendente, sicuramente spiazzante per Pd e M5s che vorrebbero usare il tema come alibi per tenere fuori dalla maggioranza il Carroccio. "Noi europeisti e difendiamo interessi Italia a testa alta. Siamo atlantisti, stiamo con gli Usa, Israele e l'Occidente democratico, pur mantenendo buoni rapporti con tutti". Il riferimento alle sbandate filo-cinesi del Movimento 5 Stelle è evidente. "Noi vogliamo un governo che vada a trattare a Bruxelles per difendere gli interessi dell'Italia, e su questo la condivisione col professor Draghi è totale". Con Salvini c'erano anche i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo.
Quelle chat dei leghisti: "In gioco il futuro dei nostri figli". Ancor prima dell'uscita di Salvini dal confronto con Draghi i parlamentari già si dicevano convinti di ciò che sarebbe stato deciso a favore di un governo Draghi. Federico Garau, Sabato 06/02/2021 su Il Giornale. L'entusiasmo di Giorgetti ("Draghi è un fuoriclasse, come Cristiano Ronaldo, non può stare in panchina") deve aver contagiato tutti nella Lega, che pare proprio intenzionata a spalancare le porte all'ex vice presidente e managing director della Goldman Sachs: così tanto che anche nelle chat di deputati e senatori pare evidente il giubilo, se si esclude qualcuno più prudente. Il "pragmatismo" dell'ex presidente della Bce ha quindi convinto i più accaniti euroscettici, mandando letteralmente nel pallone anche coloro che, nella ex maggioranza giallorossa, mai si sarebbero attesi un'apertura del genere. "Siamo a disposizione, non poniamo veti", ha detto il leader del Carroccio dopo il confronto con Draghi. Quindi l'ex vicepremier torna sulla stessa linea d'onda del partito dell'ex collega con cui aveva creato il primo governo Giuseppi. "Noi ci saremo con lealtà", ha infatti spiegato Vito Crimi dopo l'incontro con Draghi. "Abbiamo chiesto di non indebolire il reddito di cittadinanza per un nuovo esecutivo solidale, ambientalista ed europeista". A patto, ovviamente di essere protagonisti nella gestione del Recovery Fund: "Con le nostre caratteristiche valoriali verificheremo che l'attuazione di quei fondi sia fatta con onestà, traparenza e nell'interesse dei cittadini". Insomma, "pragmatismo" a gogò. Ancora prima dell'uscita di Matteo Salvini, tuttavia, deputati e senatori del Carroccio, come riportato da AdnKronos, avevano iniziato a discutere del confronto in corso con Mario Draghi e di ciò che sarebbe potuto accadere al partito dopo il faccia a faccia. La linea prevalente tra i leghisti, come spiega l'agenzia di stampa, è quella del "va bene così". Qualcuno in chat avrebbe invece invitato i colleghi alla calma:"La partita è lunga, andiamoci piano". O ancora: "Siamo all'inizio del percorso, la mossa è di responsabilità e di ascolto del Paese, ma lo scenario è ancora apertissimo". Tra le varie posizioni assunte dai parlamentari del Carroccio anche quella di chi esprime il suo consenso per un 'meglio dentro che fuori'. "Tanto un governo lo fanno, per cui val la pena esserci", spiega ai colleghi un leghista, ricalcando le parole dello stesso segretario, che ha dichiarato di preferire trovarsi all'interno, ovvero"dove si decide come spendere i 200miliardi del Recovery". Un altro parlamentare "verde" dichiara che lo scopo è quello di "decidere insieme il futuro dei nostri figli", ecco perché aprire a Mario Draghi. Aprire all'ex vice presidente e managing director della Goldman Sachs significa dimostrare"coesione e responsabilità", spiega in chat un altro rappresentante del Carroccio. Ed il concetto di "credibilità" viene ribadito in più di un'occasione, per puntare sui "contenuti e sui risultati" dell'ormai prossimo governo Draghi. La svolta del Carroccio ha sorpreso positivamente anche Andrea Marcucci, capogruppo in Senato del Partito democratico:"La nostra posizione e le nostre priorità sono note. Se la Lega combia idea, diventa europeista e capisce che ha sbagliato per anni, meglio per tutti", ha cinguettato il dem sul suo profilo Twitter. Più cauta la Bonino, che a SkyTg24 ha dichiarato: "La trovo una giravolta molto rapida, spero non sia solo di facciata. È chiaro che la Lega ha visto fino ad ora un atteggiamento molto antieuropeista".
I miserabili. La destra italiana è una barzelletta che non fa ridere. Il leghista Borghi, noto alle cronache per le grottesche enormità su euro e lotta alla pandemia, ora sfotte in modo indecente e disumano sia i disperati sbarcati a Lampedusa sia i siciliani costretti da quelli come lui a rivivere in zona gialla. Christian Rocca il 30 Agosto 2021 su L'Inkiesta. Ci sono Miserabili e miserabili. Ci sono i perseguitati e i derelitti, i profughi e gli ultimi della terra alla ricerca di riscatto e di redenzione, come li raccontava Victor Hugo e come li vediamo all’aeroporto di Kabul e sui barconi dei migranti. E poi c’è Claudio Borghi, la cui epica al massimo può essere materia da talk show di La7 e di Retequattro. Borghi è uno dei più stravaganti prodotti dell’improbabile talent show politico di dilettanti allo sbaraglio Made in Padania, ai cui impresari va riconosciuta la primogenitura merceologica rispetto a quella dei colleghi di bipopulismo grillini. Ho conosciuto per caso il Borghi a una cena di ricconi milanesi cui l’allora ex candidato presidente sconfitto alle regionali toscane annunciava le mirabili e progressive sorti per l’economia che avrebbe generato ai commensali l’uscita dell’Italia dall’euro. I ricconi milanesi, meno baluba degli americani immortalati da Tom Wolfe in Radical chic, non lo hanno coccolato al modo di Lenny Bernstein con le Pantere Nere invitate nel suo attico sulla Fifth Avenue, si sono limitati a compatirlo come si usa fare con i matti del villaggio mentre a mezza bocca hanno spiegato ai vicini di portata che se a un allocco del genere avessero dato una qualche responsabilità di governo certamente avrebbero trasferito bagagli e capitali in sicure zone euro. Borghi è un No Euro e No Vax o No GreenPass, che è la stessa cosa, perché le scemenze non agiscono mai da sole, noto per le sue favolose figure di palta sull’Internet dove si vanta come un personaggio di Carlo Verdone di cantarla chiara a tutti, soprattutto sui temi di cui dice di essere esperto. E più dice di essere esperto, più dice enormità, tra i fragorosi applausi di anonimi bandierini sovranisti e di saltimbanchi vari. A un certo punto, durante il governo più stravagante della storia repubblicana, il Conte uno, Borghi è stato eletto presidente della Commissione Finanze della Camera, un incarico dove Salvini lo ha relegato perché ritenuto meno pericoloso per il paese rispetto a posti più esecutivi cui il mitomane aspirava. Ma Borghi è dotato di un innato talento per le figuracce, sicché anche da quel ruolo istituzionale periferico le sue insensatezze quotidiane riprese dalle agenzie di stampa hanno fatto danni, parecchi danni, contribuendo ad alzare lo spread dei nostri titoli rispetto a quelli tedeschi a discapito dei risparmi degli italiani che lui voleva ricompensare con mini Bot e altre corbellerie. Cose che a scriverle in una sceneggiatura da commedia all’italiana verrebbero scartate per eccesso di fantasia e di sospensione dell’incredulità. L’asticella Borghi è notoriamente rasoterra, ma ieri l’onorevole è andato oltre commentando su Twitter una foto tragica dei disperati in attesa di sbarco a Lampedusa. Un’immagine di migranti ammassati su un barcone nel mare di Lampedusa può suscitare indignazione e compassione o anche indifferenza e paura, tutto è legittimo e tutto comprensibile, ma la reazione di Borghi appartiene a una sfera politica e morale di disumana indecenza. Borghi ha commentato l’assembramento dei migranti a Lampedusa con un «Mi raccomando, in Sicilia zona gialla quindi non più di quattro al tavolo al ristorante e mascherine all’aperto», con il suo classico spirito di patate che non faceva ridere nemmeno in terza media e legando in un unico tweet la ferocia contro i disperati e il negazionismo sul Covid (avesse aggiunto una battuta delle sue sui mini Bot avrebbe fatto triplete di stronzate, ma – come detto – è incapace anche sulle sue cose). A chi, su Twitter, gli ha fatto notare quanto fosse miserabile per un deputato della Repubblica inveire contro chi ha attraversato prima il deserto e poi il mare per mettersi in salvo e poi sfottere chi, come i siciliani, a partire da oggi è costretto dalla propaganda antiscientifica dei tanti Borghi di questo paese a rimettere la mascherina anche all’aperto a causa della diffusione dei contagi, l’onorevole ha replicato con un perfetto (e sgrammaticato) non sequitur: «Lei grande uomo quanti ne ospiterà a casa sua di questi?», dimostrando ancora una volta di essere stato assente quando a scuola spiegavano i rudimenti di logica. Il dramma della destra è questo: o è neo, ex, post fascista oppure è una barzelletta alla Borghi. Fosse un problema soltanto della destra, non sarebbe così grave. Ma è un guaio per la democrazia italiana.
Claudio Borghi, "ma quale scroccone del tampone?". Pubblica la busta paga e poi cancella tutto: la figuraccia. Libero Quotidiano il 23 settembre 2021. Claudio Borghi non ci sta a passare per "onorevole scroccone". Se è vero, è il suo ragionamento, che per i parlamentari senza green pass i tamponi, sono gratis, c'è anche da dire che gli stessi pagano il fondo di solidarietà e l'assistenza sanitaria integrativa. E pubblica i cedolini. "Scusate, posto che l'argomento mi interessa il giusto, però vedo il solito grillismo trasversale che si indigna perché i tamponi per i parlamentari sarebbero gratis perché a carico del fondo di solidarietà. Il prelievo per alimentare il fondo è 780 euro al mese", scrive il leghista indignato su Twitter. Post che è stato tolto da Borghi in fretta e furia - forse si è vergognato della "indennità parlamentare"? - ma non abbastanza perché passasse inosservato. Tanto che il leghista no green pass è stato quindi costretto a metterci una pezza (che è risultata peggio del buco): "Niente, tolto tweet con cedolino e prelievo fondo di solidarietà perché tanto vedo che il grillismo è così stratificato che non basta mai. Proponiamo che i parlamentari invece che con il fondo di solidarietà paghino i tamponi il doppio e direttamente così tutti contenti...". Inutile ironia. Forse Borghi dovrebbe prendere in considerazione tre cose. Innanzitutto qualsiasi assicurazione sanitaria non copre al cento per cento i tamponi così come altre prestazioni. Di solito c'è un limite massimo di visite, esami, eccetera e un tetto per i rimborsi. Che difficilmente corrispondono al 100 per cento della spesa. Non solo, qualsiasi assicurazione sanitaria ha un peso considerevole sulla busta paga. Non è un problema che riguarda solo i parlamentari. In secondo luogo, la cassa mutua che viene pagata dai parlamentari è di fatto pagata con i nostri soldi. Infine, un'ultima riflessione: conti alla mano, un tampone costa 15 euro. Considerando che i deputati lavorano quattro giorni a settimana, spenderanno circa 120 euro al mese. "Cifra rilevante per chi guadagna 1200 euro, irrisoria per chi, come loro, viaggia attorno ai 15mila netti più benefit", come sottolinea Alessandro Sallusti nel suo editoriale su Libero. Osservazione che in forma diversa viene rivolta a Borghi dal popolo social: "Si ma Claudio... In proporzione un operaio da 1200 euro al mese e paga Inps regolarmente...non ha gli stessi privilegi no? Con massimo rispetto per le cariche dello stato e i deputati e senatori.... Non puoi fare questo paragone", commenta uno. "Il problema non è certo questo. Il problema è che chi 780 euro li prende di stipendio i tamponi a pagamento non li può proprio fare. Ma anche 1000 o 1500 con famiglia monoreddito. Dica al Capitano di fare un po’ di più. Non è grillismo è tentare di sopravvivere", sottolinea un altro. Ma Borghi non vuole capire.
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 3 settembre 2021. «Certo che sono contrario», ha scandito ieri pomeriggio quando in tanti l'hanno chiamato per chiedergli che cosa pensasse dell'obbligo vaccinale appena prospettato da Mario Draghi in conferenza stampa, tra l'altro a ventiquattr' ore dal suo voto in commissione Salute contro il green pass che ha fatto pericolosamente zigzagare la macchina della maggioranza. «Suo», s' intende, di Claudio Borghi, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, «Signor No» apparentemente più inflessibile del vecchio giudice di Rischiatutto e frontman di quell'anima della Lega che presidia il fronte del pollice verso mentre il resto della ciurma, magari dalle postazioni di governo, quello stesso pollice l'ha appena alzato. Gli ultimi tre anni da testa di ponte leghista nel mare di tutte le opposizioni possibili - all'Europa, all'euro, a Conte, a Mattarella, qualche volta a Draghi, alla Lamorgese, a Speranza, a tutti i Cinquestelle, ai lockdown, alle chiusure, alle zone rosse, arancioni, gialle e a volte anche a quelle bianche - l'hanno consegnato in perfetta forma all'ultima trincea, quella pericolosamente prossima al fronte no Vax, in cui si eleva a massima difesa della libertà individuale il no al lasciapassare verde che diventerà presto, Draghi dixit, una misura ancora più stringente. Ecco, quando succederà, Borghi potrà dire di averlo detto in anticipo, «l'avrà deciso il governo»; ma di essersi mosso in direzione ostinatamente contraria, come pedina della tattica di un partito di governo (in questo caso, la Lega) in cui il leader (in questo caso, Salvini) prevede l'occupazione di tutti gli spazi, maggioranza e opposizione, governo e lotta, green pass sì e green pass no, lasciando che parte dello spazio - quella di tutti No possibili - sia occupata per l'appunto dall'irriducibile Borghi. D'altronde, che possa vantare un'abilità retorica fuori dal comune, unita a una fantasia rara in termini di elaborazione politica, lo si era capito qualche anno fa con l'ingiustamente dimenticato teorema dello sfilatino a credito. Teorizzando uno dei tanti scenari della retromarcia euro-lira, di fronte a chi gli prospettava i rischi per l'economia delle banche bloccate nel ricalcolo della valuta, Borghi scrisse: «Scusi, eh, non è che se le banche chiudono un mese, il panettiere lascia seccare gli sfilatini. Si segna a credito». A segnare le volte che un suo disegnino politico-economico è finito fuori dall'album, non basterebbe la carta di cento panettieri. «L'uscita della Grecia dall'eurozona è inevitabile, una cambiale a tempo determinato», disse sei anni fa. «Probabilmente accadrà già ad aprile», aggiunse subito dopo, evitando prudentemente di indicare l'anno dell'aprile in questione, tanto si sa di aprile ce n'è uno ogni dodici mesi e ogni aprile è buono per celebrare una Grexit. Stessa storia su Mario Draghi, dove s' è cimentato in uno slalom tra porte strettissime, da «Draghi dovrebbe smetterla di parlare di euro» (ottobre 2018) a «Draghi premier è la scelta più sovranista che potessimo fare» (febbraio 2021). Qualcuno, anche dentro la Lega, sostiene che Borghi faccia di testa sua, che molte delle sue uscite non siano concordate con Salvini e che nemmeno l'ultima, votare contro il Green pass, lo fosse. Di certo, all'alba del sodalizio, è stato il secondo a cercare il primo. Era una sera di otto anni fa, 10 luglio 2013, il telefono dell'economista squilla. «Buonasera, scusi per l'orario, sono Matteo Salvini. Disturbo?». Il giorno dopo erano di fronte a un caffè a discutere dell'impatto sui mutui sulla prima casa del ritorno alla lira. L'inizio di una serie infinita di scenari immaginati, teorie elaborate, cospirazioni temute e sentieri battuti, tutti rigorosamente all'insegna del No. E che poi sono finiti nel bel mezzo del nulla, proprio come l'opposizione al green pass.
Fabrizio Roncone per corriere.it il 6 febbraio 2021. I convertiti della Lega vengono giù per via degli Uffici del Vicario, uno avanti e l’altro dietro. Ogni conversione di solito scatena tormento, dubbio, ansia da martirio. Ma su questi due ha sortito l’effetto del Lexotan, almeno 20 gocce. Rilassati, positivi, di ottimo umore. Dopo aver odiato l’euro e la Bce, aver scritto e detto cose terrificanti sull’Unione Europea, i due economisti adesso camminano in completa letizia verso Mario Draghi. Quello basso (Claudio Borghi): eccolo che arriva davanti alle telecamerine, ai microfoni, il sospiro e lo sguardo di uno che prova fastidio per questi idioti di giornalisti che fanno sempre domande idiote. «Io avrei cambiato idea? In che senso?». Santo cielo: come in che senso? «Draghi è Ronaldo, è un fuoriclasse». Allora c’è uno di noi che si volta e camminando all’indietro dice no, scusate, ragazzi, mi sa che non ho capito: ha detto che Draghi è come Ronaldo? Quello più alto e dall’aspetto elegante (Alberto Bagnai, però poi vedremo cosa nasconde questa sua scorza oxfordiana): «Draghi? Ma io Draghi l’ho sempre stimato». Cala un brevissimo silenzio di stupore, si sentono i passi sui sampietrini. Un giovane cronista prova a dire che beh, forse, veramente. Allora Bagnai diventa arrogante, è proprio così, arrogante e grifagno, gli viene naturale: «Provate a fare un piccolo sforzo visto che sicuramente avete studiato...». La scorsa estate Bagnai è subentrato a Borghi alla guida del «dipartimento economia» della Lega. Salvini, all’epoca, voleva che il partito continuasse ad essere decisamente orientato: e Bagnai, 58 anni e modesto suonatore di clavicembalo ai festival di musica barocca, senatore e docente all’università di Pescara, è noto alla comunità scientifica e politica solo ed esclusivamente per la sua forsennata battaglia contro l’Eurozona. Una pubblicazione di successo: Il tramonto dell’euro, otto anni fa (quindi scarsamente profetica). Poi convegni e interviste. Sempre con tono minacciosetto. Contro chiunque osi criticarlo. Il collega Tommaso Monacelli della Bocconi ci prova. E Bagnai, su Twitter: «Gli facciamo un bel cappottino di abete» (per alludere a una bara). Un’altra volta, soliti toni cimiteriali, sul suo blog: «L’unica Bce buona è quella morta». Su Draghi, all’epoca presidente della Banca europea: «Dice sciocchezze. Non ha alcun titolo per dettare la linea economica di uno Stato sovrano». Poi se la prende con i partigiani dell’Anpi: «Sono pro euro... Da antifascisti a piddini, il passo è breve, per gli amabili vegliardi». Chiarissimo con un autore tivù: «Stampati bene in testa che a me, se non mi invitate più, non me ne frega un beneamato cazzo». Claudio Borghi è meno iracondo, meno volgare. Un furbacchione con la parlantina del furbacchione (in tivù, nei talk, va fortissimo): ex fattorino, ex agente di cambio, ex broker, ex agente della Deutsche Bank, ex docente a contratto di Economia e mercato dell’arte all’Università Cattolica e, per hobby, a sua volta mercante d’arte. La vita gli cambia una notte. Con il cellulare che inizia a vibrare. Voce leggermente impastata. «Ciao, sono Matteo: hai voglia di spiegarmi queste tue strane idee sull’euro?». La mattina dopo, Borghi gli tiene una lezioncina. E gli suggerisce: leggiti il libro che ha scritto il mio amico Bagnai. Salvini comincia a fidarsi di Borghi. E Borghi prova a incassare: si candida con il Carroccio alle Europee del 2014, però non ce la fa. Un anno dopo cerca di diventare governatore della Toscana, ma niente: riperde. Nel 2017 si accontenta del consiglio comunale di Como, però poi eccolo subito, finalmente, sbarcare a Montecitorio con il suo mantra: dobbiamo uscire dall’euro. Che tipi. Economisti sempre con un pensiero buono per il prossimo. Alle 21.10, Borghi twitta: «Sto vedendo Travaglio che sta per avere un travaso di bile. Sempre meglio. #ottoemezzo». Bagnai prova invece a farci il gioco delle tre carte (ma quelli bravi li trovate sulla Roma-Napoli, nell’area di servizio Teano): «Draghi? Io e Draghi veniamo dalla stessa scuola... E non ho mai trovato nulla da obiettare sulle sue scelte e analisi di politica economica». Nemmeno mezzo tentativo per nascondere il trucco. Zero. Vogliono quasi convincerci che la sera s’addormentano con la biografia di Altiero Spinelli sul comodino. Va bene: sono giorni frenetici, complessi, memorabili. La Moleskine è piena di appunti. Draghi incontra Grillo, Conte con un banchetto davanti a Palazzo Chigi, Renzi che non cambia idea da 48 ore, il silenzio di Bettini, Unterberger delle Autonomie che assicura: «Draghi? È più tedesco dei tedeschi» (pensando di fare una battuta divertente). Però, davvero: questa storia dei leghisti convertiti. Che storia. Bagnai e Borghi. Meno male che non vi avevamo mai preso sul serio.
Quando Salvini era "razzista e cafone". Il Capitano era il bersaglio preferito della sinistra per le sue uscite. Massimo Malpica, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Ieri insulti, domani alleati nel governo che verrà. Lo scenario che vede il Pd fianco a fianco a Salvini nell'esecutivo guidato da Draghi manda i dem sull'orlo di una crisi di nervi. Difficile spiegare al proprio elettorato, e pure a se stessi, come si può governare insieme all'oggetto di tanti strali e attacchi, visto che Salvini è stato un bersaglio privilegiato del Pd, a tutti i livelli, sia quando era al governo che come leader del Carroccio all'opposizione. Restando solo alla storia recente, basta ricordare gli attacchi sui temi come immigrazione e sicurezza, che sono valsi al segretario leghista epiteti come squadrista, fascista, razzista. Ma ogni tema era terreno di possibile scontro con l'avversario per antonomasia. A giugno 2018, quando Salvini si dice contrario all'obbligatorietà dei 10 vaccini, ecco la senatrice dem Simona Malpezzi ironizzare sullo «sceriffo Salvini» e sul suo «delirante spaghetti western». Quando il leader del Carroccio era al Viminale, ecco Delrio punzecchiarlo perché più che al ministero era in giro per comizi, ricordando che «il problema di Salvini in Europa e al ministero dell'Interno in Italia, è sempre lo stesso: è sempre assente», mentre altri nel Pd lo inseriscono ad honorem tra «i furbetti del cartellino». E Salvini è «cialtrone» e «irrispettoso delle istituzioni» quando lascia il governo ad agosto 2019, secondo la deputata Pd Chiara Gribaudo, che pure su Facebook esulta per la «buona notizia». Così buona che, mesi dopo, il capogruppo al Senato dei dem, Andrea Marcucci, commentando una vecchia foto di Salvini con un estremista di destra, sospira per «i rischi che l'Italia ha corso fino all'agosto scorso». Ci va pesante, sotto Covid, anche il governatore campano Vincenzo De Luca, che dopo le polemiche di Salvini per i festeggiamenti in strada a Napoli dopo la vittoria degli azzurri in Coppa Italia, replica pur non citandolo mai per nome, definendolo un «somaro che ricominciato a ragliare», un «cafone politico» con una forte «propensione allo sciacallaggio e al razzismo» e con «la faccia come il suo fondoschiena peraltro usurato». E se sul sito web del Pd erano frequenti le foto di Salvini contornate da «vergogna», anche il segretario dem Zingaretti non si è tirato indietro. Ipotizzando, ad agosto scorso, che se sotto Covid avessimo avuto al governo il leader leghista e Giorgia Meloni «che ogni giorno attaccano l'Europa e che sul virus hanno gli atteggiamenti negazionisti dei loro amici Bolsonaro e Orban», probabilmente oggi saremmo «con le fosse comuni sulle spiagge». E se i big non ci vanno leggeri, la base pesta anche peggio. Come il vicesegretario Pd di Bareggio, nel milanese, che in un post a giugno scorso bolla Salvini come «suino razzista». O come il gruppo consiliare Pd di Foggia, furioso per il passaggio del sindaco alla Lega, tanto da definire in una nota il primo cittadino «ducetto» e Salvini «razzista». Celebre anche la vicesindaca di Proserpio, provincia di Como, che immortala in video e pubblica su Facebook un battibecco in spiaggia a Milano Marittima tra lei e il «cazzaro verde», apostrofandolo perché «rovina il nome di questa bellissima città». Ultima, l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che pochi giorni fa ha spiegato su twitter come la pensa. Sì a una «maggioranza ampia e coesa», ma «mai» con la destra sovranista, «come ha detto Zingaretti». E invece, stai a vedere che aveva ragione James Bond: mai dire mai.
Giancarlo Giorgetti, l'uomo dietro la svolta europeista di Matteo Salvini: ecco come lo ha convinto a dire si a Mario Draghi. Libero Quotidiano il 07 febbraio 2021. Il 16 dicembre Giancarlo Giorgetti, in una intervista al Corriere della Sera, faceva tre considerazioni: il governo Conte cadrà, il centrodestra non è pronto a governare, un governo "con dentro i migliori, guidato dal migliore", che poi sarebbe la descrizione di Mario Draghi. In pratica il numero due della Lega aveva previsto tutto e proprio per questo motivo stava lavorando ai fianchi Matteo Salvini per fargli accettare l'idea di entrare al governo con cinquestelle (con cui c'era già stato) ma anche con l'odiato Pd. E di non preoccuparsi di lasciare scoperta l'ala destra a Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia. Giorgetti voleva far capire a Salvini che in questo modo si poteva far cambiare l'immagine internazionale della Lega, "e dare a Salvini la credibilità e l'affidabilità che ancora non ha", scrive il Corriere della Sera. Salvini, infatti, dopo aver incontrato Draghi per le consultazioni ha insistito sul fatto che con SuperMario si può parlare di cantieri, di lavoro, di taglio delle tasse. "Non puoi governare l'Italia se non fai parte delle forze di governo in Europa", gli spiegava da tempo Giorgetti. Il quale ha cercato proprio questo; cercare di far capire i punti politici in contatto che Salvini poteva avere con Draghi. C'è chi sottolinea, per dare un segno a questa svolta liberale di Salvini, che il leader del Carroccio potrebbe guidare nel prossimo giro di consultazioni una delegazione unitaria del centrodestra di governo, con Berlusconi e i popolari, e senza la Meloni: così dimostrerebbe di non avere paura di avere un concorrente a destra. E p0i, ricorda sempre il Corriere, quando Matteo Salvini è stato al governo, titolare del dicastero dell'Interno ha visto raddoppiare i suoi consensi elettorali, portando la Lega a quella che è oggi: il primo partito italiano. Per Salvini potrebbe essere una altra scommessa da vincere.
DAGONEWS l'8 febbraio 2021. Occhiali tondi, barba, panciotto di rigore, un’innata capacità di mediazione ed uno spiccato senso delle istituzioni: sono i segni particolari di Raffaele Volpi, il “gregario” di Giancarlo Giorgetti nell’operazione che ha portato Matteo Salvini ad assicurare il consenso “whatever it takes” della Lega a Mario Draghi per la formazione del nuovo governo. Bresciano, riservato per vocazione e per “ufficio” (è il presidente del Copasir), l’ex sottosegretario alla Difesa nel governo Giallo-Verde è un mediatore nato: un’arte che ha imparato militando in Franciacorta nella corrente di Emilio Colombo della Democrazia Cristiana. Quando per la Lega c’è da mediare e da scegliere, Volpi c’è sempre. “Obelix”, come lo chiamano affettuosamente alcuni giovani deputati della Lega di cui Matteo Salvini gli ha affidato la “formazione istituzionale” non appena eletti alla Camera, ascolta, parla sottovoce, fuma decine di sigarette seduto sulle panchine del Cortile d’Onore di Montecitorio. Sempre un passo indietro a Giancarlo Giorgetti, lui soppesa, valuta, media e parla dentro e fuori il Carroccio. Al fianco del 'capo' Giorgetti, che nel governo del cambiamento giocò da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il ruolo a suo tempo svolto da Gianni Letta, in tutta la partita delle nomine c'è stato lui. Stava al fianco di Giorgetti in tutti i tavoli di maggioranza. A partire da quello, in un afoso sabato di inizio luglio, in cui è stato deciso chi avrebbe dovuto occupare le caselle più importanti nel 'risiko' delle nomine. Davanti a loro, a trattare per il Movimento Cinquestelle c'erano il capo politico Luigi Di Maio, Vincenzo Spadafora e Alfonso Bonafede. Da quel tavolo uscì un impianto di nomine che alla fine è stato sostanzialmente rispettato fino alla fine. Teorico dell'understatement ad ogni costo, Volpi approda alla Lega tanti anni fa, dopo aver imparato la politica nelle file della Democrazia cristiana della Franciacorta. Preciso fino alla maniacalità, talent scout naturale, è stato lui a far muovere i primi passi nel Sud alla Lega. Nella scorsa legislatura in Senato si è 'smazzato' le riforme costituzionali, sempre con un filo diretto aperto con Giorgetti e Matteo Salvini. E sempre un passo indietro rispetto al “Capo”.
Massimo Franco per il "Corriere della Sera" il 9 febbraio 2021. La Lega che a Bruxelles difende Mario Draghi dall' attacco dell' ultradestra tedesca, sua alleata, magari è un episodio minore. Eppure potrebbe suonare come il primo sintomo di un avvitamento del gruppo sovranista: una nebulosa della quale il partito di Matteo Salvini è da almeno due anni, dalla vittoria alle Europee del 2019, la formazione di punta; e che ora, in nome dell' ingresso nella maggioranza guidata dall' ex presidente della Bce, promette di diventarne l' anello debole. La contraddizione esiste da sempre. Molti dei referenti di Salvini rimangono i più ostili agli aiuti all' Italia. Ma in precedenza il Carroccio non voleva vedere i contrasti. La virata successiva alla caduta del governo di Giuseppe Conte, però, ha cambiato lo schema. E il gruppo che appena l' 11 gennaio scorso si era astenuto sul piano anti-crisi europeo, Lega inclusa, bollandolo come rigorista, ora entra in tensione. I ventinove eurodeputati salviniani sono osservati con sospetto da tutti. Se dicessero sì a quel piano eviterebbero l' imbarazzo per la delegazione del Carroccio, attesa oggi per la seconda volta da Draghi. In caso contrario, destabilizzerebbero il gruppo a cui appartengono anche con Marine Le Pen. Si tratta di un passaggio delicato. AfD smentisce la rottura con la Lega. Ma fonti leghiste a Bruxelles fanno sapere che decideranno dopo l' incontro odierno con Draghi. La tensione sottolinea quanto le sponde estremiste del Carroccio aspettino di capire se sia una svolta tattica, o strategica: quella che dovrebbe avvicinarlo al Ppe. La strada è irta di incognite. Ma fa impressione assistere alla polemica con AfD, che ieri ha attaccato Draghi alla Bce «per la spesa senza controlli» di cui «la Germania pagherà il conto». Marco Zanni, leghista e presidente del gruppo Identità e democrazia, gli ha replicato: se Draghi ha difeso «economia lavoro e pace sociale», ha detto Zanni, senza privilegiare interessi nazionali, è «un titolo di merito». Sono scarti che riflettono quello in politica interna, e il tentativo di ridefinire un' identità. È una virata tardiva e in qualche misura obbligata; simile, peraltro, a quella che il Movimento 5 Stelle fece nel 2019 in occasione dell' elezione della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Ma va registrato lo slittamento di due forze fino a pochi anni fa contrarie all' euro, verso posizioni filoeuropee. Ieri Salvini è arrivato a dire: «Se qualche potere forte dell' Europa aiuta l' Italia a curarsi, evviva». Le prossime mosse faranno capire quanto ci sia di tatticismo e di opportunismo; e quali altri passi dovrà compiere. Una volta preso atto di un cambio di scenario e di fase sul piano internazionale, dall' Europa agli Usa, tornare indietro comporterà un costo alto. La domanda è se il vertice della Lega saprà interpretare un europeismo che non sia solo decorativo e posticcio.
Non è l'arena, "Mi stai riprendendo?". Vittorio Sgarbi, indiscreto clamoroso: cos'ha risposto a Draghi durante le consultazioni. Libero Quotidiano l'8 febbraio 2021. "Che fai mi riprendi?". Vittorio Sgarbi ricostruisce in studio a Non è l'Arena su La7 il divertente siparietto con il premier incaricato Mario Draghi alla Camera, per le consultazioni. Massimo Giletti lo stuzzica: "Ma che è successo nel vostro incontro ravvicinato?". La vicenda è nota: il telefono di Sgarbi si è illuminato e l'ex governatore della Bce, insospettito, gli ha chiesto: "Non è che mi stai riprendendo?". Quello che non si conosceva era la risposta di Sgarbi: "Avevo il telefono dove tengo gli appunti, si è accesa la luce perché stava morendo. Glio ho detto: Sono talmente narciso che lo farei con me e non con te". Il faccia a faccia è andato benissimo: "Un dialogo di persone che si vedono, e la cui intesa è immediata. Aveva gli occhi che brillavano, io gli dicevo devi aprire i musei sabato e la domenica e i teatri, dando il contingentamento di cui loro (l'ex governo, ndr) non sono stati in grado". Ultima immagine: "Gli ho dato il libro di mio padre, il quarto e ultimo, in cui parla con mia madre dopo la sua morte. Draghi voleva una dedica, io gli ho risposto 'Ma l'ha fatto mio padre...". Però mio padre era una persona talmente dolce e gentile, farmacista, si sarebbe fatto sicuramente vaccinare, mi è sembrato bello che la discussione tra me e Draghi abbia riguardato non i fatti contingenti ma le cose eterne".
Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” l'8 febbraio 2021. Mario rosica per Mario. Alla faccia della sobrietà, del Loden e dell' austerità. Di fronte al successo raccolto da Draghi, ancor prima di essersi insediato, Monti si scompone e si scalda, perdendo qualche grado della sua celeberrima freddezza. Da quando l'ex numero uno della Bce è stato convocato al Colle una sorta di quiete e di speranza hanno avvolto l'opinione pubblica. Certo, Salvini è ancora troppo brutto e cattivo perché le educande del Pd possano sedersi tranquillamente al tavolo con lui, la Meloni si mette cautamente di traverso, i Cinque Stelle sono allo sfascio e Giuseppe Conte non è felice di vedersi sostituito e scavalcato nei sondaggi così, in quattro e quattr'otto. Ma quello che rosica di più è l' altro Mario. Quello che nessuno, non a caso, ha mai chiamato Supermario. Pure lui economista, pure lui professorone, pure lui con solidi studi negli Stati Uniti e importanti esperienze politiche nelle istituzioni europee. Anche lui presidente del Consiglio. Profili simili, ma contesti totalmente diversi. Uno (al momento) amato, l' altro (da tempo) detestato. Monti fu paracadutato a palazzo Chigi da Giorgio Napolitano per imporre agli italiani una politica di sacrifici e austerità, passata alla storia come un periodo di lacrime e sangue. Non che adesso ci si aspettino sorrisi e tsunami di champagne, ma lui era stato chiamato per tagliare (cosa che, ammettiamolo, ha fatto anche con un certo sadico e malcelato compiacimento) mentre Draghi è stato convocato per gestire, senza sperperare, gli oltre 209 miliardi del Recovery fund. Vedremo cosa combinerà. Ma questa cosa, al professore, proprio non va giù. Parliamoci chiaro: se il suo governo è stato considerato come uno dei più impopolari di sempre, qualche motivo ci deve essere. Gli italiani, e le loro tasche, ne sanno qualcosa. Ma Monti non lo accetta e ieri, ospite a In mezz' ora in più su Raitre, si è tolto un acidissimo macigno dalla scarpa: «Questo non è il momento di fare le puntualizzazioni, ma all' epoca del governo di Mario Monti (prende anche lui le distanze da se stesso?, ndr), la punta di diamante dell' austerità in Europa era proprio la Bce, prima con Trichet e poi con Draghi per un certo periodo». Insomma, signori, se Monti ha dissanguato gli italiani la colpa non è sua, ma di Draghi, dopo quasi un decennio ha avuto il coraggio di vuotare il sacco: il vampiro era l'altro. Non pago, inizia a gufare: «La campana di anestetico, creata dalla Bce, si ridurrà, riemergerà la realtà dei problemi. Penso che si presenteranno dei momenti difficili». Un'uscita poco austera e alquanto menagrama per un ex premier. Anche perché al governo dei professori gli italiani hanno già consegnato la loro pagella nel 2013, quando Scelta Civica, la lista di Monti, si assestò sotto un misero 10 per cento. Tutti bocciati. Lui, da allora, non ha smesso di rosicare.
Filippo Facci, "vince chi lecca di più Mario Draghi". Premier assediato dai partiti: "La differenza tra lui e l'omino Conte". Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. C'è un premier incaricato di nome Mario Draghi che viene descritto come se avesse camminato sul lago di Tiberiade (soprattutto se raffrontato al suo predecessore) e che per colpa di una banale legge fisica - il tempo terrestre non è comprimibile o dilatabile - avrà giusto modo di fare tre o quattro cose importanti: tra queste c'è una gestione decente del Piano vaccini, che per ora naviga a vista, e la preparazione del cosiddetto Recovery plan, un piano che serve a finanziare una ripresa economica degli stati europei con progetti strutturali; l'Italia figura tra i maggiori beneficiari di questo fondo (209 miliardi) ma a differenza degli altri stati non ha ancora elaborato un'idea. Draghi, nel tempo disponibile della residua legislatura, cercherà ovviamente di prendere altre misure importanti per rilanciare l'economia, magari investire, insomma rendere più presentabile il nostro Paese agli occhi dell'establishment europeo e globale; magari cancellerà qualche eminente stronzata fatta dal governo precedente (esempio: una bella sbianchettatura sull'ignobile riforma della prescrizione) ma per il resto abbiamo una gradita certezza: che non avrà tempo né voglia di occuparsi delle rogne tra i partiti e dentro i partiti, dei veti e controveti, delle singole pretese dei singoli partiti cui non è chiaro, forse, che il premier potrebbe formare un governo anche senza di loro, e che in questo potrebbe avere tutto l'appoggio dell'unico alleato fondamentale del premier, cioè il capo dello Stato Sergio Mattarella. Le rogne dei partiti, gli stessi veti e controveti e le varie pretese partitiche sono probabilmente le stesse che Mario Draghi ha dovuto e dovrà sorbirsi in questi giorni di cosiddette «consultazioni», ciò sarebbe stato bello evitare, ma per un tecnico esterno al Parlamento, che varerà un governo essenzialmente tecnico, forse sarebbe sembrato troppo. Le consultazioni con partiti e partitini e parti sociali e presidenti ed ex presidenti (due settimane perse) tuttavia non sono obbligatorie: sono solo una consuetudine e un galateo istituzionale, ma la Costituzione non impone questa procedura. Draghi, guardando il bicchiere mezzo pieno, potrà trarne beneficio assistendo rispettivamente ai vari baci dell'anello (una gara a chi lo elogerà di più, prima di avanzare pretese) e poi comprendendo meglio perché questi partiti hanno costretto a ricorrere a uno come lui. Da quanto inteso, ci sono ancora forze e movimenti convinti davvero di poter dettare delle condizioni, discutere su chi possa fare il ministro e comporre una maggioranza, infinite e frammentate delegazioni (basti pensare all'arcipelago della sinistra) che sbrodolano e sbrodoleranno dopo essersi prostrati davanti a un uomo a cui in realtà avrebbero continuato a preferire un omino, Giuseppe Conte.
Mal di pancia - Così il secondo giro di consultazioni è iniziato con un censimento dei vari mal di pancia partitici (sui giornali, più che altro) che per Draghi si sarà tradotto in un terribile bagno di consapevolezza. I vari leader sono lì che, di ora in ora, segnalano insormontabili difficoltà, ostacoli alle possibili alleanze, veti riveduti e corretti, tattiche e pretattiche in un gioco a cui in realtà non giocano più: sono stati espulsi. C'è chi non l'ha inteso, e ancora cerca di ottenere condizioni, regole d'ingaggio, poltrone e sgabelli, ma ciò che più conta è già accaduto. Il leader della Lega Matteo Salvini ha aperto al governo Draghi senza troppi preamboli, pur precisando che gli sarebbe difficile governare con chi «vuole mandarmi in galera», e cioè i grillini: ma tutti a parlare di «svolta europeista» di Salvini e al tempo stesso a dire che Salvini vuole imporre al nuovo dicastero delle scadenze.
Rispunta pure Conte - I grillini come al solito sono i più dilaniati e ridicoli, e l'intervento di Beppe Grillo pro Draghi ha solo parzialmente ricomposto l'eterna riunione condominiale dei cento satelliti grillini: chi a parole è possibilista e chi viceversa è contrario (nomi non val la pena di farne) e chi pone come condizione che non ci sia la Lega, altri che Draghi faccia una riforma elettorale, altri che, comicamente, invocano un voto decisivo della «base» che vota sulla piattaforma Rousseau; c'è persino Giuseppe Conte che si è autoannesso ai grillini e fa il possibilista pur ponendo anche lui dettami e condizioni. I Cinque Stelle e il Partito Democratico sono quasi una coalizione, ma ciascuno pone veti alla Lega in modo diversamente variegato: e magari uno come Draghi dovrebbe tenerne conto, come se ne gliene importasse qualcosa. Ospite del programma Mezz' ora in più di Lucia Annunziata (Rai3) il segretario del Pd Nicola Zingaretti vedeva ancora come problematica un'alleanza di governo che unisse centrosinistra e Lega. Tutti problemi che ufficialmente non esistono, visto che nessuno sa dire che cosa Draghi voglia fare: se un governo solo di tecnici (speriamo) o se uno tutto politico (difficile) o se uno misto tecnici-politici (sconsigliabile). Figurarsi che senso possa avere il totonomi che circola e cambia repentinamente in questi giorni: sottosegretari, nuovi ministri, ministri riconfermati, tecnici d'area: come se dell'ultimo governo, e delle indicazioni dei rispettivi partiti, ci fosse molto di cui salvare. Ma fa niente: aspettando l'unica cosa che conta (il programma) la Lega parla di tasse e preferibilmente di Flat Tax (invisa al Pd) e il Pd parla di lavoro e di fisco più equo e progressivo, i grillini parlano di un po' di tutto ma difendono strenuamente il reddito di cittadinanza (altro disastro epocale da sciogliere nell'acido) e in ordine sparso c'è chi tira in ballo ancora l'immigrazione. Se scoprissimo che durante le consultazioni Mario Draghi avesse avuto dei tappi di cera nelle orecchie, no, non ci stupiremmo e anzi: saremmo contenti, perché abbiamo capito, almeno noi, che l'unico in grado di porre delle condizioni è proprio lui, assieme a un certo Sergio.
Tutti alla corte del drago. Con diverse motivazioni (e c’entra anche Biden). Cristiano Puglisi il 9 febbraio 2021 su Il Giornale. Tutti alla corte del drago. Nessuno escluso. L’epilogo dell’agonia del Governo Conte bis, giunto al termine di una gestione dell’epidemia che, negli ultimi mesi, si era fatta addirittura imbarazzante (incomprensibile il continuo andirivieni di aperture e chiusure) non poteva forse essere più scontato, per chi minimamente “mastica” i grandi e i piccoli misteri del potere. Che sarebbe stato Matteo Renzi a staccare la spina era piuttosto evidente fin dalle prime battute dell’esperimento “giallo-rosso”. Che a rimpiazzare l’avvocato pugliese a Palazzo Chigi sarebbe stato un tecnico gradito al mondo della finanza, pure (i nomi che circolavano erano quelli di Mario Draghi e dell’ex Fmi Carlo Cottarelli, che del primo potrebbe diventare ministro). Altrettanto scontato era che questo tecnico, stante la riduzione incombente dei seggi parlamentari per effetto della legge votata in corso di legislatura (tale che neppure i partiti con maggiore consenso avrebbero potuto confermare con certezza tutti gli attuali eletti), avrebbe raccolto un elevato consenso parlamentare. E, così, al termine di due giri di consultazioni, l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Banca centrale europea, Draghi appunto, sembra pronto a nascere con una maggioranza bulgara, che potrebbe andare dagli iper-progressisti di Leu alla Lega, da Laura Boldrini a Matteo Salvini. Ma a cosa (o, per meglio dire, a chi) è dovuta la scelta di Draghi? Davvero Sergio Mattarella ha operato in totale autonomia, spiazzando i contendenti dell’agone politico nazionale? Un’interessante disamina è quella proposta su Formiche.net da Germano Dottori, consigliere scientifico della rivista di geopolitica Limes, che collega l’avvento di Draghi con l’avvio dell’era Biden negli Stati Uniti d’America. Quando si tratta di vicende politiche italiane, infatti, non bisognerebbe mai dimenticare il fattore “c”. Che, in questo caso, non sta per un volgare sinonimo del termine “fortuna”, ma, piuttosto, per “colonia”. “Per quanto Washington sia lontana – scrive Dottori – quanto vi accade è destinato a ripercuotersi prima o poi anche da noi. Lo dimostra bene quanto è successo negli anni della nostra cosiddetta Seconda Repubblica, durante i quali i periodi di asimmetria cromatica tra le amministrazioni americane e i governi italiani sono stati l’eccezione piuttosto che la norma. (…) Va sottolineato altresì come il clima da guerra civile strisciante affiorato in America abbia potuto acuire l’urgenza di promuovere la rimozione di un premier che aveva cercato sin dal proprio insediamento di stabilire un’interlocuzione privilegiata con Trump, per sostituirlo con una personalità più vicina al mondo dei liberal d’Oltreoceano. (…) Draghi soddisfa al meglio anche questa esigenza di discontinuità. È infatti un economista keynesiano con importanti trascorsi accademici a Boston, un progressista che gode di un’ottima reputazione presso tutti coloro che fecero parte delle amministrazioni Obama”. L’uomo del “whatever it takes”, tornando a Dottori, “sarà sostenuto da tutti coloro che intendono assicurarsi l’accesso al nuovo arco costituzionale in gestazione attorno al rigetto internazionale del populismo, che sarà atlantista ed europeista come quello storico”. Un’altra lettura è quella data dal professor Giulio Sapelli, per il quale “gli Stati Uniti sono preoccupati per i rapporti che l’Ue (vedi Germania e Francia, nda) ha intrapreso con la Cina e così Draghi per loro è l’argine che può mettere fine a questa deriva”. Tra chi aderisce a questa visione, purtroppo per chi si era illuso circa una possibile concretizzazione della svolta sovranista (mai realmente decollata con un reale progetto culturale se non nella propaganda), c’è anche la Lega di Matteo Salvini. Che, con il pressing di un esponente di peso e notoriamente filo-atlantista e apprezzato nelle stanze che contano, quale Giancarlo Giorgetti, che già a novembre 2020 aveva chiarito che la Lega sarebbe stata vicina a Washington anche con Biden, ha cambiato radicalmente linea. Dallo scontro con Bruxelles e i “poteri forti” al “ci interessa che si faccia l’interesse italiano in Europa con spirito europeo” del dopo-consultazioni di oggi, c’è una svolta clamorosa. Evidente l’imbarazzo di chi, in testa l’economista Alberto Bagnai, oggi senatore del Carroccio, era entrato nel partito sulla scia delle critiche alla moneta unica e all’austerità. Tempi lontani. Anche perché oggi di austerità non si parla più. Ci sono da gestire i (tanti) fondi del Recovery fund. Che, però, sono vincolati da linee di investimento ben definite: economia green e digitalizzazione su tutte. Sono le linee (ben note ai frequentatori di questo spazio) del “Grande Reset” auspicato, sulla scia del Covid, dalle multinazionali hi-tech e dall’olimpo della finanza mondiale riunito nel World Economic Forum di Davos. Un futuro utopico per i “big”, ma distopico per i “piccoli”, che è stato sposato ante-litteram dal Movimento Cinque Stelle, che spinge in questa direzione fin dal suo concepimento. Non è un caso che, pare, si stia pensando di chiedere per Giuseppe Conte, “mister lockdown”, un “Ministero della Transizione ecologica” (lo riporta, tra gli altri, Liberoquotidiano.it). Del resto che il fattore Draghi per i pentastellati sia importante lo testimonia la presenza del fondatore in persona, Beppe Grillo, alle consultazioni con l’ex Bce. Con il quale, peraltro, secondo alcune ricostruzioni mai confermate, avrebbe presenziato alla famigerata riunione sul panfilo Britannia del 1992, durante la quale, secondo la vulgata, furono dettate dai “British Invisbles“, il gotha della finanza britannica, le linee guida per le privatizzazioni del patrimonio industriale italiano, nel bel mezzo della tempesta di Tangentopoli. Per questo a Draghi toccarono, nel 2008 e nel corso di una trasmissione televisiva, le “picconate” (a posteriori) dell’ex presidente della Repubblica democristiano Francesco Cossiga, che lo definì un “vile affarista”. “Non si può nominare premier – disse allora Cossiga – chi è stato socio della Goldman Sachs, grande banca d’affari americana“. “Male, molto male – proseguì – io feci ad appoggiarne, quasi a imporne la candidatura a Silvio Berlusconi, male, molto male!“. Questo perché, per Cossiga, Draghi era “il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica” italiana. Ma i tempi, da allora, sono probabilmente cambiati. Certo, per capirci qualcosa di più sarebbe utile apprendere quale sarà il programma del nuovo inquilino di Palazzo Chigi, al momento piuttosto nebuloso. Chi vivrà saprà.
Alessandro Rico per “la Verità” l'8 febbraio 2021. Roberto D'Agostino celebrerà, il 23 maggio, i 21 anni di Dagospia, che ha fondato e che dirige.
Il sì di Matteo Salvini a Mario Draghi è una mossa astuta. Manda in tilt i giallorossi.
«Salvini è un miracolato che deve solo accettare in maniera umile tutto ciò che Draghi proporrà alla Lega».
Per quale motivo?
«Fa parte del tirocinio obbligatorio che gli serve per ottenere il semaforo verde di Bruxelles».
Un'agibilità politica?
«Esatto. Palazzo Chigi lo vedrà col tavolino a tre gambe, se non rientra nell'ovile dell'Unione europea che ha tanto schifato con il suo sovranismo al caviale (made in Russia)».
Lo vede subordinato?
«Intanto, per evitare la rissa dei veti incrociati, Draghi sceglierà i suoi ministri fuori da partiti e appartenenze. Quindi le indiscrezioni su Salvini che pretende ministri sono mere cazzate giornalistiche. Deve stare lì, buono e tranquillo come una pecorella, e ringraziare Giancarlo Giorgetti: con il sì a Draghi, Salvini riporta la Lega Nord al governo».
Se lo dice lei...
«Non avete capito una cosa».
Ci faccia capire, allora.
«Il famigerato addio di Salvini al governo, nell'agosto 2019, mica ebbe origine dall'ubriacatura di mojitos al Papeete: era vicepremier e ministro dell'Interno, Giuseppe Conte era un semplice passacarte e i 5 stelle venivano asfaltati nei sondaggi dalla Lega. Il Truce aveva tutto il potere: perché mandare tutto all'aria, sapendo bene che Sergio Mattarella era contrarissimo al voto prima dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica?».
Perché?
«Mettiamola così. A Bruxelles un sovranista filo Putin, alleato con Marine Le Pen e Alternative für Deutschland in Europa, cioè i due partiti che stanno sul gozzo a Emmanuel Macron e ad Angela Merkel, rappresentava un incubo. Magari saranno arrivati dei tipini "nerovestiti" che gli hanno detto: "O esci da Palazzo Chigi, o entri da un'altra parte un po' meno gradevole..."».
Allude ai processi?
«Secondo me, non si è dimesso: è stato costretto a dimettersi».
Quindi?
«Ora, con il sì a Draghi, fa il primo passo del tirocinio per ritornare nelle grazie di Merkel e Macron. A seguire, prima che sia troppo tardi, deve mollare Le Pen e Afd».
Il problema dell'Italia è Salvini?
«Fa parte anche lui di quella classe politica italiana che ha ricevuto in tre minuti, in diretta tv, da parte del capo dello Stato, la più clamorosa bocciatura che abbia visto nella mia vita. E io ho 73 anni».
Mattarella ha sfiduciato tutti? Destra e sinistra?
«Li ha tutti buttati nel cesso, ha tirato la catena e ha chiamato Draghi per formare "un governo di alto profilo che non debba identificarsi in alcuna forza politica". Amen».
E questo cosa comporta?
«Che possono sparare tutte le cazzate che vogliono, ma questi politici scappati di casa non vanno da nessuna parte. Perché non sarà un governo Draghi, ma il governo del presidente con il contributo di Draghi. Mentre talk e giornali sparavano "Conte o voto" e "Draghi non accetterà mai", su Dagospia l'avevo detto, come sarebbe andata a finire».
A che si riferisce?
«Non era pensabile che l'Europa lasciasse i 209 miliardi del Recovery fund in mano a gente buona a niente ma capace di tutto come Conte, Casalino, Arcuri, Azzolina, Paola De Micheli e compagnia cantante. Ovvero: l'incompetenza al potere che ha rovinato il Paese».
La vedo molto soddisfatto dell'arrivo di Draghi.
«Scusi: è come se a casa oggi dicessi a mia moglie: "Non preparo io la carbonara, arriva Carlo Cracco". Beh, sarebbe festa».
Non è esagerata, la retorica dell'uomo della provvidenza?
«Draghi non è Gesù Cristo, ma di fronte a questa marmaglia di nani e ballerine è una personalità che ha uno standing internazionale. È amico di Janet Yellen, ex capo della Fed e ora segretario al tesoro per Joe Biden. Alza il telefono e parla con Macron e Merkel... E questi qua, con la terza media, iniziano a discutere su chi può stare in maggioranza e chi deve fare il ministro? Si mettano in testa una cosa».
Che cosa?
«Se questi qui, dopo aver fallito con la loro asineria politica, fanno i bulletti sborroni, Mattarella fa un governo pure senza fiducia».
È un'iperbole.
«Tranquilli, non succederà. La maggioranza a sostegno c'è: appecoronato il Pd, il M5s umiliato, Silvio Berlusconi è quello che mandò Draghi alla Bce, Salvini serve e apparecchia. Resta fuori Giorgia Meloni: rasperà un po' di voti ma è impresentabile».
Il Parlamento resta quello uscito dalle politiche del 2018.
«Dopo aver ricevuto il cartellino rosso da Mattarella, i partiti credono di poter andare da Draghi a dettare le loro condizioni. Devono solo inginocchiarsi e dire: "Ave Mario, morituri te salutant"».
La composizione del governo, allora, sarà solo tecnica?
«La cazzata più grande che può fare il duplex Mattarella-Draghi è un governo misto alla Ciampi, con dentro tecnici e politici».
Lei crede?
«Sì, perché a quel punto inizieranno i veti incrociati e le risse. Faccia un governo di tecnici. Chi ci sta, ci sta, chi non ci sta se lo prende in quel posto perché non va più da nessuna parte: un altro passo e c'è il baratro».
Tecnici per fare cosa?
«Le priorità le ha indicate Mattarella. Bisogna mandare in porto in tempi brevi il Recovery plan e occuparsi del piano vaccinale. Draghi questo farà».
Un governo di scopo?
«Un governo d'emergenza, che deve fare quattro cose e basta. Questi disgraziati non sono riusciti a chiudere nessuna partita, da Alitalia a Ilva, dalla Rete unica ad Autostrade; politici dementi che non riescono ad aprire un cantiere, a rimettere in moto l'economia, a dare un futuro ai giovani. Gli Zinga e i Di Maio non riescono ad aprire nemmeno le raccomandate».
Draghi approderà al Colle?
«Io lo metterei pure al posto di Bergoglio».
Non è Cristo, ma il suo vicario?
«È una delle poche persone serie che ha questo Paese. Infatti, mi domando come sia possibile che sia nato a Roma, che di solito esprime una classe dirigente così cafonal che confonde allegramente i Medici di Firenze con gli infermieri della Usl, che scambia il Parmigianino con il pecorino, che è convinta che Tintoretto sia il gestore di una tintoria e rifiuta sdegnata l'Ultima cena di Leonardo perché ha già mangiato».
A chi sta pensando?
«Soprattutto ai 5 stelle, alle Azzolina, ai Fraccaro, ai Buffagni, alle Castelli e "Tontinelli" vari. Certo, Marco Travaglio replicherebbe: prima avevamo i ladroni».
Non è così?
«Ma almeno i "ladroni" sapevano scrivere una legge, capire un bilancio, costruire l'Autostrada del Sole. Noi vogliamo andare avanti con Arcuri? Zingaretti? Bettini? Orlando? Franceschini? Speranza? Ma che stamo a fa', Striscia la notizia?».
Inadeguati?
«Sarà antipatico, ma io ringrazio Matteo Renzi, che ha mandato all'aria tutto, svelando questo bluff dei Conte, dei Casalino, dei Travaglio. Invece di andare a fare i pavoni dalla Gruber, preparate il Recovery plan! Gli altri Paesi l'hanno già presentato».
Senza dubbio.
«Siamo un Paese senza vergogna, senza palle, senza dignità. Vorrei dire una cosa a Salvini e Meloni».
Cosa?
«Voi dite che l'Europa fa schifo? Ma l'Italia fa ancora più schifo: metà Paese che non paga tasse e poi frigna se manca un posto in ospedale. Un Paese di magliari».
La Meloni è coerente.
«È quell'opposizione che non serve né apparecchia».
Perché?
«Almeno, ai tempi del Pci, l'opposizione portava all'attenzione dell'opinione pubblica un governo ombra. Il Recovery plan non va bene? Ne scrivo uno io alternativo. Lei è stata solo capace di dire: «Vojo vota', vojo vota'». Alla fine andrà a vota' il secchio dell'immondizia».
Be', in democrazia si vota.
«Ma dove va con i La Russa e le "Santadechè"? Ma che è, La famiglia Addams?».
Che hanno di male?
«Gianfranco Fini scivolò sulla buccia di banana di Elisabetta Tulliani. Ma aveva creato una destra con Franco Cardini, Filippo Rossi, Pietrangelo Buttafuoco, Alessandro Campi... Qual è la classe dirigente della Meloni? La destra italiana è "cerebrolesa"».
«Cerebrolesa»?
«Non ha classe dirigente, non ha quadri, non ha gente in grado di creare un partito conservatore. Gliel'ho detto alla Meloni».
Che le ha detto?
«Se si va a votare e lei e Salvini per caso vincono, durano mezza giornata. La Bce chiude i rubinetti e loro rimangono a trastullarsi con le macerie».
Anche quando arrivò Mario Monti, c'erano aspettative messianiche. E poi andò come andò.
«Monti era un professore ed è arrivato in un momento in cui i tagli servivano, avendo il Paese accumulato un debito pubblico enorme. Draghi, il contrario di Monti».
Cioè?
«A parte che conosce meglio la politica, arriva nel pieno di una pandemia globale in cui non occorre tagliare, ma rilanciare l'economia, investire e garantire un Paese agli occhi dell'establishment euroglobale».
È una fase in cui ci è consentito fare «debito buono»?
«Fosse per me, a gente come Roberto Gualtieri non avrei dato un euro da gestire. Ma qui il punto cruciale è un altro».
Quale?
«Se non riparte l'economia, s'indebolisce anche la democrazia. Ecco perché mai prima l'Europa aveva concesso risorse ai Paesi membri con tale generosità. L'Europa vuole una cosa soltanto».
Ovvero?
«Un Paese serio, un Paese normale. Senza tipini fini che si presentano in piazza con la pochette e il banchetto per truffare la gente con il gioco delle tre carte».
Raffaele Marmo per “Quotidiano Nazionale - la Nazione - il Resto del Carlino - il Giorno” l'8 febbraio 2021. Il gruppo dirigente del Pd poteva fare peggio? Pausa. «No». Altra pausa. Altra botta. «Sarebbe stato davvero difficile fare peggio. E, ora, fatto il governo, scoppierà un conflitto mai visto nel partito». A bocciare senz' appello e senza fronzoli mosse, strategie e uscite di Zingaretti, Bettini & Co. è uno che li conosce bene, da vicino e da lontano: Claudio Velardi, gioventù comunista, l'Unità, eterno spin doctor e uno dei Lothar di Massimo D'Alema a Palazzo Chigi («ma è roba di venti anni fa»), però anche riformista duro, puro e flessibile, sdoganatore a sinistra del lobbysmo all'americana, soprattutto eretico napoletano.
Perché questa deriva «peggiorista»?
«Dietro ci sono ragioni di fondo che attengono alla cultura politica dominante attualmente nel Pd: che è quella post-comunista, quella della 'ditta', per capirci. Una cultura straordinariamente politicista, regolata dalla logica ottocentesca e novecentesca della lentezza, dei processi, dei tempi lunghi. Mentre oggi la politica è veloce, è comunicativa. È rapsodica, è fatta di momenti, di scarti. Tant' è vero che, quando hanno dovuto subire la guida di Matteo Renzi, con le sue sollecitazioni quotidiane, impazzivano. Ma, quando lo hanno potuto ridimensionare, è tornata la loro cultura. Dietro questi fallimenti, però, non c'è solo questo».
Quale altra ragione, più o meno oscura, c'è dietro?
«C'è che il Pd, dal '94 a oggi, in molteplici forme, è stato al governo per circa sedici-diciassette anni. Il Pd è nel bene e nel male l'architrave del sistema: il garante non solo della politica, ma anche dell'alta burocrazia pubblica e degli apparati dello Stato. Questa è tutta roba del Pd. E, dunque, il gruppo dirigente non concepisce proprio la possibilità di perdere il potere del quale è innervato».
Tiriamo le somme.
«Mettendo insieme queste due cose, deriva che quelli che guidano il partito si muovono come un pachiderma. Mentre il mondo va velocissimo. E da qui tutti gli errori di questi mesi. Diciamolo, le hanno sbagliate tutte: O Conte o morte, mai più con Renzi, mai con Salvini, fino a Draghi. Non ne hanno imbroccata una».
Facciamo nomi e cognomi: perché la regia è stata in mano a Goffredo Bettini, che Renzi definisce il «capo della corrente thailandese del Pd»?
«Goffredo Bettini, che è mio caro amico da quarant' anni, senza alcun titolo, senza essere stato eletto a nessun ruolo, ha dettato e detta la linea in maniera sempre più esplicita e anche in maniera arrogante. Dietro la schiena di Bettini si intravede l'ombra di Massimo D'Alema, che ha decretato all'inizio della crisi che non era possibile che l'uomo più popolare venisse cacciato da quello più impopolare».
E però è finita che «l'uomo più impopolare» ha cacciato «quello più popolare». Che cosa non ha funzionato nello schema degli ex comunisti di scuola romana?
«Sono brave persone. Ma sono fuori dal mondo. La loro inadeguatezza nella comprensione della realtà deriva dalla loro cultura politica morta e sepolta. E però continuano a pensare di saperla più lunga degli altri. Questa è la lue della sinistra: la presunta superiorità morale, che ha fatto diventare la conservazione del potere un assoluto totem, senza che vi sia un fondamento reale».
Abbiamo lasciato alla fine Nicola Zingaretti: che parte gioca?
«È una brava persona. Ma è una figura debole. Come gli altri della 'ditta' che guidano il partito, si tratta di professionisti dell'amministrazione e della politica, ma non hanno assolutamente né il taglio della leadership né una visione. Hanno fatto del Pd un partito di gestione, senza un'idea dell'Italia di domani. Ora, però, fatto il governo, si aprirà il grande conflitto nel Pd: gli ex renziani e quelli di derivazione cattolica non staranno né zitti né fermi».
GIALLOROSSI ADDIO. Bettini, Crimi, Rocco Casalino: quanti sono i Gattopardi sconfitti. La fine dei governi Conte ha lasciato un mucchio di macerie. Susanna Turco su L'Espresso il 9 febbraio 2021. In momento di distrazione e rischiamo di trovarceli candidati sindaci nelle città: a Roma Roberto Gualtieri oppure perché no lo stesso Nicola Zingaretti che già era atteso tredici anni fa, Andrea Orlando a La Spezia, Vito Crimi pronto l’anno prossimo per Palermo (a Volturara Appula si voterà solo nel 2024). Chi può escluderlo, a questo punto. Ammonisce, infatti, l’eterno Ciriaco De Mita: «Nei momenti di difficoltà ritìrati dove sei più forte. Se è la tua regione, fai il leader regionale, se è la tua città, fai il sindaco. Se non sei forte da nessuna parte, torna a casa da tua moglie. E aspetta». Un adagio praticato da colui che infatti oggi, ultranovantenne, fa il sindaco nella natìa Nusco, una parabola che in questi giorni potrebbe ispirare molti in evidente difficoltà. Assieme al balzo oltre i governi Conte - che per un attimo sono parsi moltiplicabili modello Invasione degli ultracorpi - l’arrivo in carne ed ossa di Mario Draghi ha lasciato macerie come dopo un uragano. Là dove una volte era tutta Speranza. Ostinatamente avviticchiata attorno a Giuseppe Conte come non avrebbe fatto nemmeno per un Salvator Allende, la sinistra sembra accogliere la sua fine con uno sperdimento da svolta della Bolognina. La spaccatura, rito d’ordinanza, celebrata subito, neanche il tempo per Draghi di accettare l’incarico dalle mani di Sergio Mattarella: e già Nicola Fratoianni si diceva arroccato sul no, modello movimentista anti tecnocratico, già Roberto Speranza, ministro uscente, cognome degno di miglior causa, si stringeva ancor più alla famosa alleanza Pd-M5S-Leu. O a quel che ne resta, vista pure la reattività di ciascun partito preso per sé. Spaventoso l’effetto accartocciamento che ha colto il Pd guidato da Nicola Zingaretti, più che ogni altro partito. Roba da far riecheggiare, dopo secoli, il famoso urlo di Nanni Moretti che echeggiò a Piazza Navona il 2 febbraio del 2002, esattamente 19 anni prima dell’arrivo di Draghi («Con questi dirigenti non vinceremo mai», attualissimo). Oltre al soffice, etereo immobilismo del segretario in persona - di cui già quasi tutto s’è detto, non potendosi come al solito dire granché - eccezionale in questi giorni è stato lo slancio verso la costruzione del futuro da parte di un politico pure non privo di abilità, come Andrea Orlando. Mentre Zingaretti, pensoso, rifletteva sull’asserita imminenza del ritorno alle urne, il suo vice, pur di affacciarsi nel nuovo governo, s’era risolto a mettere da parte il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, 35 anni, eccezione totale in un partito a vocazione gerontocratica - e giudicato, quindi, sacrificabile. Un gesto insomma di grande lungimiranza e generosità politica: e che non ha potuto realizzarsi soltanto perché poi il crollo del Conte ter ha tirato giù anche le ambizioni orlandiane (provvisoriamente, sia chiaro). Strepitosi certi toto-nomi, che val la pena di ricordare come emblema di un’epoca. Nel pomeriggio in cui l’alleanza giallorosa si arenava, una manciata di ore prima che Mattarella convocasse l’ex presidente della Bce, un nome si ostinava a brillare sul tavolo-fantasma del rimpasto: Goffredo Bettini, dirigente nazionale del Pd cui è stata informalmente affidata quasi una grossa fetta di gestione della crisi, era infatti in predicato di entrare nel mai nato Conte ter nientemeno che come sottosegretario alla presidenza: «in quota Conte» naturalmente. E di chi altri sennò? Del resto Bettini si è fatto alfiere, in queste settimane, di una delle più spettacolari previsioni clamorosamente smentite dalla cronaca. Una previsione che ha plasmato con maggior decisione quando, alla vigilia del ritiro della delegazione di Italia viva dal governo, diede all’opzione responsabili un peso e una credibilità che sin lì non aveva: «Ci sono delle forze che vogliono contribuire nel segno di un rapporto con l’Europa e penso che al momento opportuno queste forze possano palesarsi», spiegò in tv a Barbara Palombelli che gli chiedeva di eventuali arrivi a sostegno di Giuseppi da parte di Forza Italia. Ecco, nel concreto, l’apporto azzurro si è incarnato nelle persone di Maria Rosaria Rossi, Renata Polverini, Andrea Causin. Non propriamente una folla. E il resto è andato come sappiamo: l’alternativa «o Conte, o voto» è stata per settimane agitata alla stregua di una minaccia in telefonate parallele: Bettini di qua, Gianni Letta di là. Con quale credibilità è stata la storia a stabilire. Quanto al Pd di Zingaretti (o si dovrebbe dire di Bettini) è arrivato a prestare direttamente una sua senatrice, Tatjiana Rojc: passata di botto ai responsabili perché avessero il decimo soggetto per formare il gruppo, l’ha dovuto fare con una tale fretta da trovarsi a celebrare in Aula i cento anni del Pci da esponente non del Pd ma degli Europeisti-Maie-Centro democratico. Ed in questa veste ha citato in aula Antonio Gramsci: «L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera (…) ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare» eccetera, ha detto in Aula. Parole che potrebbero risuonare come clave contro quel Pd che, in nome dell’alleanza coi grillini e del premierato di Conte «unico punto di equilibrio», ha accettato di approvare all’ultima lettura il taglio dei parlamentari, dopo aver votato per tre volte no. Salvo che nessuna rivolta arriverà ad abrogare quella legge, soprattutto dopo una così intensa dimostrazione di abilità politica, da parte degli eletti. Proprio con la fine di Conte, si è avuta del resto riprova di quanto possa essere virtuoso l’apporto di soggetti mitologici come Massimo D’Alema. Ricomparso quatto quatto dalle parti del premier-avvocato, come consigliere occasionale ma di rango, l’ex premier è finito anche lui nel grande vortice di anti-materia che a un certo punto ha cominciato a girare su Palazzo Chigi. E meno male che, come ebbe a dire in un’intervista a Repubblica, «non si manda via l’uomo più popolare del Paese per volere del più impopolare». Rottamato di nuovo da Renzi, direbbero i renziani. Risucchiato per l’ennesima volta dalla solita ambizione - comune al suo mondo - che ha il nome collettivo di egemonia culturale («Io impegnato a salvare Conte? No, ci pensa Bettini, uomo serio», chiarì nella stessa leggendaria intervista). Debolezze alle quali uno d’altra formazione, come il capodelegazione dem Dario Franceschini, ha saputo sottrarsi per tempo: un attimo prima dell’ingresso nell’Ade, se non altro. In questo senso, a ben pensarci, è ancora più mostruoso l’esito della crisi innescata da Matteo Renzi, con l’obiettivo poi riuscito di rosolare Giuseppe Conte (obiettivo al quale uno come l’ex capo dei Cinque stelle Luigi Di Maio è meno estraneo di quanto non abbia smentito lui stesso, dacché ci sono stati giorni in cui a parlare di una fine prossima dell’avvocato del popolo erano solo due aree: renziani e dimaiani). In pratica quell’alleanza di governo tra M5S, Pd, Leu (e Iv), ancora non davvero incarnata e articolata in liste e voti - erano infatti in alto mare le trattative sulle prossime elezioni amministrative - si è cementata e trasferita nell’anti-materia, giù nel vortice di nulla che ha avvolto il piccolo impero di Rocco Casalino a Palazzo Chigi, portando via con sé coloro che ambivano governare quell’anomalia. Così, al momento buono, non c’era nessuno - tra tanti consiglieri - pronto a pensare di esprimere il proprio istituzionale sostegno al Quirinale, quando Mattarella proclamava fallita l’esplorazione di Roberto Fico e convocava Draghi. Sarebbe stato cerimoniale, mero sostegno tra istituzioni ma niente: da Palazzo Chigi non è volato un comunicato. E anche il Pd ha faticato non poco, a riprendersi dalla sorpresa: tanto che uno lesto come il governatore dem dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, è arrivato a ringraziare il capo dello Stato prima del vicesegretario dem Orlando. Coincidenza che si può tranquillamente indicare come il precoce segno del prossimo congresso Pd, quello chiamato ad archiviare l’era Zingaretti. E se il mondo di Casalino è in caduta libera - un effetto liberazione salutato persino dal leader della Lega Matteo Salvini - il post-Conte ha gettato nella disperazione i Cinque Stelle. La crisi, e il suo esito, ha naturalmente favorito, e tiene al riparo, personaggi che giocano a fare i battitori liberi tentando di trarre vantaggio da uno svantaggio, come Alessandro Di Battista (non a caso si è affrettato descrivere Draghi come «apostolo dell’élite»). Leggiadria, quella dell’ex deputato, che deriva dalla certezza di non dover votare in Parlamento pro o contro un governo guidato dall’ex presidente della Bce. Si apre al contrario un baratro di dubbi per chi, nel M5S, ha sostenuto l’alleanza coi dem e, in ultimo, la sua versione dannunziana «o Conte, o morte». A partire dal leader accantonato Beppe Grillo, primo fautore della svolta giallorosa nell’estate del 2019, fino al perenne reggente Vito Crimi. Primo degli imbarazzi: chi è il capo? Chi parla a nome di chi? In una nave già in estrema difficoltà, i 191 deputati e 92 senatori sembrano in balia di un’alternativa impossibile, due strade sbarrate entrambe. Né con Draghi, né senza. Anche di questo, la notte in cui l’«apostolo dell’élite» arrivò rappresenta un emblema che vale la pena di tenere a mente. I vertici grillini s’affannavano infatti ancora, in quelle ore, a far di conto, tra gruppi e sottogruppi, per vedere se fosse stato possibile rimettere insieme quello che si era appena rotto. Arrivando persino a contattare le prime file del Pd, per sondare la possibile convergenza su ulteriori governi politici. «Ma voi ci state a votare no al governo Draghi?», si domandava ai dem. Come chi non sappia che si è fatta un’ora tarda, e cerchi ancora di racimolare i soldi per il biglietto di un treno che è già arrivato a destinazione.
Qual piume al vento. La giravolta dei giornaloni: Corriere, Repubblica e Stampa scaricano Conte e diventano zerbini di Draghi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Stavo facendo uno sforzo di memoria per provare a ricostruire quale fosse lo schieramento politico dei giornali, delle Tv, dei partiti, all’inizio della settimana scorsa. Già, la settimana scorsa, dico: non il secolo scorso. Ho le idee un po’ confuse, però mi pare che fosse piuttosto netto. In Parlamento, se non sbaglio, la destra si opponeva a Conte e chiedeva elezioni; tutti gli altri – sinistra, centro e grillini – come una testuggine a difesa del premier. Addirittura si iniziava ad aprire qualche breccia filo-Conte, o persino filo-Di Maio, persino nella destra storica. Qualcuno sussurrava che Di Maio fosse uno statista. Il Pd era il partito più granitico. Conte o Morte, diceva. È lui – sostenevano i suoi leader – l’unico punto di equilibrio. È lui che salverà l’Italia. Lo dicevano sostenuti da un bel dispiegamento di cannoni da parte dei mass media. La7, naturalmente, guidata da Lilli Gruber e da Travaglio. E poi quotidiani di massa o di elite, storicamente anche molto distanti tra loro, come Corriere – schieratissimo – Repubblica, Stampa, e in sinergia l’ex quotidiano berlusconiano Il Foglio e il comunistissimo il manifesto. Il manifesto, addirittura, fece inorridire molti suoi ex pubblicando un appello a favore del governo e contro gli intellettuali disfattisti. I quali intellettuali disfattisti non si sa bene chi fossero. A parte quelli di destra, non molti, credo che ci fossero solo quelli che scrivono su questo giornale. I quali, isolatissimi, osservavano che tre anni di governo a Cinque stelle aveva prodotto essenzialmente tre risultati: la scomparsa dello Stato di diritto; la trasformazione del welfare in un centro confusionario di clientele e di distribuzione di mance e di favori elettorali; il passaggio dal metodo di governo democratico e parlamentare a quello degli editti e dei pieni poteri al premier. Timidamente facemmo notare che dal 1943 in poi nessun presidente del Consiglio aveva goduto di poteri così pieni come questo avvocato pugliese, fino a poco tempo fa sconosciuto e titolare, a occhio, di doti politiche modeste. Ci sentivamo molto soli in questa denuncia. Lontani dal Pd, lontani dalla sinistra radicale, lontani dai giornali che consideravamo i più simili a noi per impostazione politica. Cominciavamo anche a pensare di avere sbagliato tutto. Quando in qualche trasmissione Tv provavamo a fare il nome di Draghi, venivamo sommersi dalle contumelie o dall’ironia. Ci dicevano – anche con molta gentilezza mista a disprezzo – che noi non capivamo niente di politica, che la politica è un’altra cosa, che Draghi tutto può fare ma non il premier e anche che – oltretutto – aveva confidato ai suoi amici – moltissimi – che lui neanche ci pensava a Palazzo Chigi. Poi c’è stato il miracolo. L’impressione è che il miracolo lo abbia fatto Matteo Renzi, ma questa cosa è meglio tenerla riservata, perché se dici una cosa su Renzi che non sia una buona insolenza, ti prendono a schiaffi e dicono che sei un vassallo del bullo, dell’impostore, del manigoldo, dell’innominabile, del narciso. Perciò non lo diciamo. Shhhh. Però il miracolo c’è stato. Conte è caduto. C’è chi dice che sia caduto sulla giustizia, chi dice che sia caduto sui servizi segreti, chi dice che sia caduto perché era diventato evidente che mai e poi mai sarebbe stato in grado di organizzare l’operazione vaccini. Comunque è caduto. Mattarella ha chiamato quel bravissimo ragazzo che ora fa il presidente della Camera – al posto di Pertini e Ingrao – parlo di Roberto Fico, il quale doveva mettere insieme una operazione di acquisto senatori a destra per realizzare il Conte ter. Tutti dicevano che solo il Conte ter era la soluzione. E che meglio di Conte, in Italia, non c’è nessuno. Ok. Fico, che probabilmente è una persona assai onesta, tornò da Mattarella e gli disse che comprare parlamentari non era il suo mestiere e che una maggioranza per Conte non si vedeva neanche col cannocchiale. E oplà. Mattarella chiamò Draghi. E noi pensammo: poveretto, ora si troverà sommerso dalla furia dei contisti, solo noi lo difenderemo. Lo bastoneranno. Macché. Saranno trascorsi sette o otto minuti, e tutte le majorette di Conte erano passate con Draghi. Possibile? Sì, sì. Non solo, ma tra loro – come gli asini di Collodi – si prendevano in giro: che orecchie lunghe che hai…, si dicevano. Cioè si dicevano l’un l’altro – Gruber, Travaglio, Il Foglio, i giornalisti del Corriere, della Stampa, di Repubblica – ma tu stavi con Conte, perché ora sostieni Draghi? Per carità, rispondeva l’altro: fingevo. E così tutti giù a prendere in giro il povero Casalino, messo alla gogna immediatamente, lui che i grandi giornali non avevano mai neppure sfiorato per tre anni, e poi tutti a sbeffeggiare Conte, e Di Maio, e Bonafede, e l’intera compagnia. In primis Travaglio, naturalmente, che da deus ex machina del giornalismo italiano, in dieci minuti è stato trasformato in zimbello, e lui ha subito reagito prendendosela col Pd: ma come – ha detto al Pd – sei capace di accettare un governo con la Lega, cioè con il partito che aveva combattuto le Ong? Indignato, Travaglio. Caspita, ma non era Travaglio quello dei taxi del mare, che difendeva a petto nudo Di Maio e il procuratore di Catania che aveva scacciato tutte le navi di soccorso dal Mediterraneo? Lo spettacolo più singolare e inedito, comunque, è stato proprio quello offerto dal Pd. Pare che abbia presentato a Draghi, molto impettito, il suo programma di governo. Dice che bisogna smontare le leggi sulla sicurezza, e la Bossi Fini, e bisogna riformare il carcere, ristabilire la prescrizione, ridurre la carcerazione preventiva… Insomma, bisogna fare tutte le cose che il governo col Pd non ha fatto, anzi ha fatto al contrario. Il Pd ha detto tutto questo con l’aria molto seria. Come quella che spesso assumono le persone che tengono poco ai giochetti in cortile e fanno cosa sacra dei principi. Intangibili.
Mario Draghi circondato da lacchè: "politici morti che si fingono vivi", la danza macabra secondo Renato Farina. Renato Farina su Libero Quotidiano il 06 febbraio 2021. In numerose chiese medievali, specie quelle delle valli alpine, singolari affreschi inghirlandano l'edificio sacro. Scheletri sfilano in attitudine ballerina. I teschi appaiono persino sorridenti. Ai tempi la danza macabra, o trionfo della morte, scegliete voi come chiamarla, aveva un intento pedagogico. Era un invito per il viandante che scorgeva questa processione sepolcrale a comportarsi tenendo conto del giudizio divino. Ed eccone un''altra. A cosa paragonare se non a quella sfilata di ossa traballanti il corteo dei venditori della propria anima a Mario Draghi? Che pena. Sono morti che fingono di essere vivi. In prima fila Giuseppe Conte e Beppe Grillo si producono nella «mossa» inventata da Ninì Tirabusciò e resa sublime da Maurisa Laurito. Resta inspiegabile, essendo gli scheletri notoriamente privi di lingua, come costoro riescano a praticare il leccaculismo da cui la parola lacchè, ma forse la funzione ha creato l'organo. A ridosso del duo, che siccome sono 5 Stelle si credono étoile, ecco l'altra coppia: Nicola Zingaretti e Andrea Orlando mimano simpatici inchini, e indicano con il dito i grillini per far sapere a Draghi: te li abbiamo portati noi, adesso devi accettare i nostri aut-aut, guai se includi la Lega. Non è finita la processione. Dispiace, e duole il cuore osservare persino il più amabile dei comunisti, Pierluigi Bersani, osare il tip tap in compagnia della gentilissima senatrice Loredana De Petris che aveva appena detto: «O avanti con Conte o elezioni».
DISCIPLINA OLIMPICA. Proprio così. Era un coro. Tutta gente che ritmava: o Conte o morte. Dopo Conte il diluvio. E ora professano fede assoluta e incrollabile nel neo-salvatore della patria. Hanno cambiato solo la prima paroletta dello slogan e il gioco per loro è fatto: o Draghi o morte. Il problema è che sono loro la morte, sono stati i protagonisti di un naufragio che ha affondato la nave degli italiani, e ora vogliono proporre i loro servizi da ciurma di annegati quasi arrivassero profumati di gloria olimpica. Ehi figlioli. Gloria olimpica un par di balle. Siete campioni di salto sul carro del vincitore, ma è uno sport che non è previsto alle prossime Olimpiadi di Tokio. Peccato, perché sarebbe stata una tripletta tricolore, specie nella specialità acrobatica, con avvitamento e capriola tripla prima di accomodarsi sulla biga del nuovo imperatore. Chi li scusa fa riferimento a una tradizione nazionale in fondo identitaria: naturale perciò che questo esercizio ginnico della coscienza sia praticato pure davanti a Mario Draghi. Il contorsionismo da bambole snodabili è stato inaugurato infatti ai vagiti della neonata Repubblica: il giorno prima (quasi) tutti fascisti, quello dopo (quasi) tutti partigiani. Dunque perché stupirsi? Nessuna meraviglia, ci mancherebbe. Ma qui sta accadendo qualcosa di speciale e peggiore. Questa gente sta perpetrando una truffa con la sua danza macabra. Vuole assecondare Draghi pretendendo che indossi la maschera di Conte-ter: come se le elezioni ci fossero state davvero e le avessero vinte loro. Una settimana fa erano unanimi nel respingere l'ipotesi di un governo dei migliori con Draghi in testa. Ora vogliono farci bere il filtro della dimenticanza e ripetono: ci stiamo, siamo d'accordo, evviva il Governo Draghi + i migliori, cioè noi (Pd, M5S, Leu), ovvio.
CAMBIARE IDEA. Zingaretti, nel colmo di questa immotivata arroganza, è stato lesto a mettere in testa il suo cappello rosso a Draghi. Non ha aspettato neppure di sentire le proposte di Super-Mario. Pretende già di trattarlo come roba di famiglia. Radunando la direzione, oltre a maledire Renzi e a porre veti alla Lega, ha detto: «È tempo di un nostro protagonismo per mettere in campo i contenuti e una visione chiara». Il tono è quello del bollettino della vittoria da Maresciallo Diaz, invece è Cadorna dopo Caporetto. È convinto con Draghi di poter dirigere la sua biga e la nostra sfiga. È lecito cambiare idea. Tutti noi siamo vedovi di qualche opinione. In tanti abbiamo perduto scommesse e toppato pronostici. Ma i tipi di cui a mo' di esempio abbiamo fatto il nome non stavano all'opposizione, la quale aveva e ha il diritto di chiedere al presidente della Repubblica la dichiarazione di fallimento della legislatura e il voto. No, questi qua avevano il potere. E ora pur di non perderlo, dato che l'esito del voto li vedrebbe annichiliti, cercano di incartarsi Draghi e portarselo nel loro club. Ma va' là, la danza macabra è finita.
DiMartedì, Edward Luttwak fa a pezzi Mario Draghi: "Vietato decidere per la misera plebe", il paragone da brividi con Mussolini. Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Nella minuscola riserva indiana di chi spara ad alzo zero contro Mario Draghi c'è Edward Luttwak, tra i pochissimi a criticare apertamente il premier incaricato. L'affondo del politologo americano arriva nel corso di un collegamento a DiMartedì, il programma di Giovanni Floris in onda su La7, la puntata è quella del 9 febbraio. Nel mirino di Luttwak, ci finisce l'assenza di programma ma anche una certa attitudine "finanziaria" di Draghi. "Io non ho visto il suo programma economico, non ho visto la riforma della giustizia: io attendo una sentenza di Cassazione da cinque anni. Non c'è la riforma dell'amministrazione pubblica, che dimostra considerevole arretratezza. Quindi non ha nessun programma ma tutti lo vogliono", parte in quarta Luttwak. E ancora: "Si vede che lui è uno che non ha un programma, a parte ascoltare Beppe Grillo attentamente, su ogni oggetto. Non ha un programma, quindi è Babbo Natale - si lancia nel peculiare paragone -. Infatti voglio prendere il libro di Bruno Vespa e voglio vedere se si può sostenere il nome di Benito Mussolini con quello di Draghi", picchia durissimo Luttwak, riferendosi all'ultimo libro di Vespa (ospite in studio) sul Duce. "Cioè, c'è la persona - riprende Luttwak: non lasciamo alla misera plebe di decidere. Non lasciamo alla plebe la possibilità di eleggere: per carità, poi eleggono persone sbagliate", rimarca con evidente sarcasmo. "E invece generiamo Conte, generiamo Draghi. Draghi è Babbo Natale: ha le chiavi della Bce, quindi non bisogna riformare lo Stato, non bisogna riformare le banche. C'è Babbo Natale: va col suo sacco alla Bce, porta soldi, dà da mangiare a tutti", rimarca. Infine, una considerazione su come il premier incaricato sarebbe visto negli Stati Uniti: non nel migliore dei modi, secondo il politologo. "Forse Barack Obama rispettava Draghi, ma la finanza americana no. La finanza americana vuole dare soldi a chi investe in aziende. Il sistema che Draghi ha creato è che la Bce dà soldi alle banche italiane, che poi comprano Bot e non prestano agli imprenditori", conclude Luttwak. Insomma, una bocciatura a tutto tondo per Draghi.
La complessa parabola di Draghi alla Bce. Andrea Muratore su Inside Ober il 27 febbraio 2021. Yannis Varoufakis in queste settimane è molto aperto al confronto con i media italiani, e ha un bersaglio preciso: Mario Draghi. Prima ai microfoni di Radio Popolare e poi in un’intervista al Fatto Quotidiano l’ex ministro delle Finanze greco e fondatore di Diem 25 si è espresso in maniera critica sull’ascesa a Palazzo Chigi dell’ex governatore della Bce, definendolo nel primo caso come un uomo “al servizio dell’ordine finanziario” di Bruxelles, Francoforte e Berlino che “eseguirà tutti i loro imperativi” e caricando a testa bassa nel secondo sul comportamento tenuto da Draghi verso il suo Paese nel 2015. Draghi, ricorda Varoufakis, è stato accusato dal governo greco di aver delegittimato l’esecutivo di Alexis Tsipras tagliando fuori a inizio febbraio le banche greche dalle linee di credito e facendo pressione per evitare che Atene sfuggisse dai memorandum firmati con la Troika nell’estate successiva. Ma la sinistra radicale non è l’unico mondo da cui Draghi, su scala europea, ha ricevuto critiche. Nel momento del suo insediamento dopo la chiamata da parte di Sergio Mattarella, in Germania la Bild, quotidiano solito parlare alla “pancia” dei tedeschi, ha ironizzato sull’ascesa al potere del “Conte Draghila” accusato di aver, in passato, succhiato il sangue ai connazionali con le politiche monetarie espansive; la Frankfurter Allgemeine Zeitung, quotidiano di riferimento del mondo finanziario germanico, ha invece chiosato sottolineando di “non aspettarsi miracoli” dall’uomo del Whatever it takes. Questi due casi esemplificano la natura estremamente complessa del giudizio sull’operato di Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea, un giudizio sulla cui effettiva costruzione si fonda, in sostanza, la visione che diversi ambienti politici, economici e mediatici hanno del nuovo premier italiano. Raramente era successo che una figura tanto apicale in una grande istituzione internazionale passasse in seguito a un ruolo istituzionale nel suo Paese d’origine, a meno che si parlasse di figure di precedente estrazione politica (come è stato il caso di Romano Prodi). E l’eterogeneità di giudizi sul lungo mandato di otto anni con cui Mario Draghi, dal 2011 al 2019, ha condotto la Bce testimonia la complessità e la rilevanza di un incarico che sarebbe ingenuo definire estraneo alla politica. Draghi è stato un governatore della Bce divisivo e innovativo. Ha ereditato i limiti e le problematiche della gestione di Jean-Claude Trichet, il banchiere francese suo predecessore che seppe avviare timidissime operazioni monetarie espansive (le Outright monetary transitions) ma incappò in errori macroscopici come l’aumento del tasso d’interesse europeo nel 2011 che avviò la tempesta dello spread sull’Italia. Ha dovuto barcamenarsi tra la tenacia del partito del rigore a guida tedesca, che non concedeva sconti sull’austerità, e la disorganizzazione dei Paesi del Sud sul fronte politico. Pragmaticamente, con il discorso del “Whatever it takes” nel 2012 e con l’avvio del quantitative easing tre anni dopo Draghi ha preso atto del fatto che un’Unione Europea costretta al rigore senza nemmeno il ristoro di uno stimolo monetario continuo era destinato all’implosione. E ha creato le condizioni politiche perché nell’Unione venissero importate le politiche monetarie espansive che Paesi come Giappone, Regno Unito e Stati Uniti praticavano già da anni su vasta scala per rispondere alla Grande Recessione. Del resto anche il Premio Nobel Joseph Stiglitz nel 2016 riconosceva che consentire maggiore flessibilità nella variazione dei valori della moneta unica aumentando la base monetaria rappresentava uno dei pochi strumenti rimasti a disposizione dell’Unione per salvare l’euro e le sue economie asfissiate dalla crisi. Né funambolo né improvvisatore, Draghi ha avuto in mente un preciso progetto politico: trasformare l’Eurotower nell’autorità commissaria per eccellenza dell’Unione, spezzare le indecisioni e il pantano venutosi a creare puntando sull’agilità esecutiva garantita alla Bce, il cui governatore può attuare politiche in maniera meno ingessata della Commissione, e fornire un controbilanciamento all’ideologia tedesca del rigore. Complessivamente, la Bce nell’era Draghi ha investito 2,15 trilioni di euro e diretto 362 miliardi verso i titoli italiani, tra i più sostenuti, espandendo oltre i 4mila miliardi il suo bilancio. Un diluvio di denaro che ha, senz’altro, ridotto i tassi di sconto, che ha funzionato da antidoto all’austerità e restituito fiducia alle economie. Anche il rivale per eccellenza di Draghi, il ministro delle Finanze di Angela Merkel, Wolfgang Schauble alla cerimonia d’addio del banchiere romano ne ha riconosciuto i meriti e la visione, e salutandolo come il salvatore dell’euro. Ma da chi, in fin dei conti, Draghi ha salvato l’euro? Dal rigorismo tedesco, ça va sans dire. E per farlo ha dovuto mettere in campo un progetto politico-finanziario capace di apparire positivo anche per Berlino e i suoi partner nordici oggi riuniti nella Nuova lega anseatica. Va da sé che l’obiettivo di Draghi era salvare l’euro, non le economie dell’Eurozona. Non avrebbe del resto potuto farlo, mancando la Bce di uno strumento per il finanziamento diretto dei deficit nazionali. E i limiti del quantitative easing che i tedeschi hanno (con grande ipocrisia!) a lungo stigmatizzato come un regalo sostanziale alle “cicale” del Sud Europa sono invece legati principalmente al fatto che esso ha fornito un volano alla Germania per consolidarsi in Europa. Portando buona parte dei denari lontano dall’economia reale, nel gioco finanziario, e favorendo con la svalutazione dell’euro la piattaforma commerciale tedesca. Vengono in questo modo meno le dure critiche provenienti da Paesi che si trovano agli antipodi nel contesto degli equilibri di potere europei. Dalla fragile e depauperata Grecia, Varoufakis ha accusato Draghi di essere un esecutore, quasi un sicario per conto dell’Europa per l’economia italiana. Nulla di più fuorviante. Chiaramente, ampi sistemi di potere su scala globale riconoscono in Draghi un loro insider e dalle cerchie politiche di Bruxelles a quelle della finanza internazionale il nuovo premier è considerato un punto di riferimento. Ma di questi gruppi di potere Draghi è, semmai, un uomo di punta e non un portavoce. Al contempo, la Bild esagera nel paragonare Draghi a un Dracula intento a prosciugare l’economia tedesca con le politiche monetarie espansive. Pur in un contesto di stagnazione della domanda interna, il Qe ha tenuto a livello elevato, sopra il 45% il rapporto tra le esportazioni tedesche e il Pil in un contesto segnato da un euro sempre più competitivo perché svalutato dalla politica monetaria espansiva. Come ogni progetto politico, quello di Draghi è occorso in contrasti e in errori. Più volte la fronda nei suoi confronti in seno alla Bce è venuta da Jens Weidmann, inflessibile falco tedesco del rigore a capo della Bundesbank, a cui si sono accodati i governatori di Paesi come Olanda e Finlandia. E sul fronte greco, Varoufakis non ha torto a ricordare come controversi lo stop alle linee di credito che mise in difficoltà le banche greche e l’allineamento di Draghi alla Commissione Juncker e al Fmi in occasione del referendum del 2015. Purtroppo per Atene, il quantitative easing della Bce non era nel primo caso ancora iniziato (sarebbe partito a inizio marzo 2015) e stava, nel secondo, iniziando a far dispiegare i propri effetti: dunque il governatore della Bce necessitava del capitale politico negoziale per poter dar forma al suo progetto. Sul fronte politico e umano siamo assolutamente comprensivi del dramma del popolo greco e capiamo anche la frustrazione e lo scoramento di chi, come Varoufakis, si è trovato defenestrato dal governo che ha finito per applicare i più violenti e duri memorandum di austerità. E la Bce ha a lungo trattato Atene in maniera meno comprensiva anche sul fronte dell’acquisto titoli rispetto a quanto fatto con gli altri Paesi mediterranei. Ma non possiamo dare a Draghi tutte le colpe di questo processo, iniziato sei anni prima con la commissione Barroso e Trichet e già avviato da tempo quando, tra il 2012 e il 2015, Draghi ha spostato verso la Bce il baricentro della politica europea. Responsabilità ed errori si riconoscono e vanno identificati: ma nella carriera di una figura istituzionale essi sono l’ordinarietà e, nel quadro di Draghi, si inseriscono in un bilancio complesso. Che, è bene ricordarlo, è frutto del lavoro compiuto con gli strumenti operativi e la potenza di fuoco di un’istituzione come la Bce. Ben diversa da quelli di cui può avvalersi lo Stato italiano.
La ragazza che mise paura a Draghi. Daniele Castellani Perelli su La Repubblica il 26 febbraio 2021. Josephine Witt è l'attivista tedesca che nel 2015 saltò sul tavolo dell'allora capo Bce. Oggi lo rifarebbe? "No, ma con il dovuto rispetto gli chiederei: sicuro che io avessi torto?". La ragazza che sfidò il drago. La ricordate? In queste settimane è tornata in auge la foto che l'ha resa famosa: nelle gallery dei giornali dedicate al neopremier Mario Draghi, sfila subito dopo lo scatto al liceo con Giancarlo Magalli e quello al supermercato con la moglie. Era il 15 aprile 2015, e Josephine Witt, studentessa 22enne di Amburgo, durante una conferenza stampa a Francoforte saltò sul tavolo dell'allora presidente della Banca centrale europea per protestare contro le misure imposte alla Grecia dalla Troika: "Bce, master of the Universe, non siamo fiches sul tuo tavolo da gioco" aveva scritto nei fogli che lanciò. Ex Femen, in precedenza aveva manifestato in topless davanti a Vladimir Putin, poi a Tunisi per la liberazione della compagna di lotta Amina Tyler (sarebbe stata lei stessa tenuta in carcere per un mese), in un talk-show tedesco contro i Mondiali di calcio in Qatar (in studio c'era pure un divertito Giovanni Trapattoni), e nella cattedrale di Colonia durante la sacra messa di Natale. Abbiamo rintracciato Josephine Witt, che per le sue performance è stata minacciata di morte dall'estrema destra tedesca, e le abbiamo chiesto di rievocare quel giorno. E cosa prova, da attivista europea e di sinistra, nel vedere Draghi in questa sua nuova veste.
Sono passati sei anni.
"E sono ancora sorpresa per come riuscii a entrare, fingendomi giornalista, alla prima conferenza stampa nel nuovo palazzo della Bce. Un paio di settimane prima c'era stata una manifestazione anti-austerity contro le politiche della Bce e della Troika. I miei amici dicevano: 'Non ce la farai mai'. Tra me pensavo: si sbagliano. Draghi era scioccato, paralizzato dalla paura. Deve aver pensato volessi ucciderlo. Diversamente da Putin, per fare un esempio, non era preparato a difendersi, non ebbe la prontezza di alzarsi".
Però non perse neppure l'aplomb e continuò a spiegare il quantitative easing. Perché gli tirò dei coriandoli?
"A differenza di un frutto o di un uovo sarebbero passati ai controlli. Poi non fanno male e non è reato lanciarli. Mi sembrava anche una metafora per il 'lancio' di euro con cui la Bce decide il destino dei Paesi europei".
Non è neppure un po' pentita?
"No. Sono felice di aver fatto scoppiare per un attimo la bolla astratta in cui è immersa la finanza internazionale. Mi dispiace però non sia servito a nulla, che nulla sia davvero cambiato".
Qual era il suo messaggio?
"Volevo ricordare come la Troika, e dunque anche la Bce di Draghi, istituzione non democratica, avesse ricattato la Grecia. Ovviamente Atene aveva bisogno di riforme, ma le condizioni dell'aiuto europeo hanno umiliato i greci. A pagare non è stato chi aveva provocato la crisi, ma i lavoratori e la classe media. In termini di disoccupazione, risparmi e copertura sanitaria, per non parlare dei suicidi".
La sua azione si spiega anche con una specie di senso di colpa da tedesca per la linea dura di Berlino?
"Più con un senso di solidarietà. Sono nata nel 1993 e ho sempre pensato a me stessa come a un'europea".
Draghi apprezzerà. Ma torniamo a lui. Come sa, è diventato primo ministro, alla guida di una grossissima Koalition. È lì in quanto tecnocrate al di sopra dei partiti e adorato da Bruxelles. In Germania sarebbe impossibile. Che effetto le fa?
"Mi sembra che ci siano delle somiglianze con il 2015 e le ragioni della mia protesta di allora. Davanti a un'emergenza economica ci si affida a dei tecnici. Sembra il trionfo dell'astrattezza del neoliberalismo, un regime senza volto guidato da decisioni prese dietro le quinte. Non sono un'economista, ma da quanto ho letto il mito di Draghi che ha salvato l'euro, e il suo Whatever It Takes, è appunto un mito. Nessuno può salvare l'euro da solo. Il presidente della Repubblica Mattarella ha detto che non si poteva votare. Ma perché?".
La Costituzione lo consente. C'è la pandemia. E ci metta pure che avrebbe vinto Salvini...
"Capisco che la politica italiana sia un caos. E anche in Germania, per la presenza di forze populiste come l'Afd, il sistema si giustifica con la 'mancanza di alternative'. Ma è una narrazione preoccupante a livello democratico".
Ora lei è regista di teatro a Berlino. Fosse ancora attivista full time, per cosa si batterebbe nell'Europa di oggi?
"Contro le disuguaglianze economiche, di genere, etniche e nazionali. La crisi dei rifugiati, ad esempio. Mi ispirano persone come Carola Rackete, la capitana tedesca pro-migranti. E Greta Thunberg, sì, certo. E poi i giornalisti investigativi, come quelli che in Germania hanno rivelato lo scandalo finanziario Wirecard".
Da ex Femen è contenta che oggi ci siano così tante leader donne? Quel giorno sulla sua maglietta c'era un attacco alla "Dick-tatorship" della "fallica" Bce, ma oggi alla sua guida c'è una donna, Christine Lagarde.
"E lei pensa che la battaglia delle Femen si riduca a una questione di quote femminili nelle classi dirigenti?".
Che cosa direbbe a Draghi se lo incontrasse?
"Gli parlerei seriamente, con il rispetto dovuto a un primo ministro. Lo ascolterei e gli chiederei di difendere le categorie che più stanno soffrendo la crisi: lavoratori essenziali come insegnanti e infermieri, e poi madri e bambini. Che non succeda come in Grecia, insomma. Gli direi che ho poca fiducia, ma che spero possa dimostrarmi che avevo torto".
Non è che gli salterebbe sul tavolo. Può stare tranquillo?
"Eh, ormai ho smesso".
Sul Venerdì del 26 febbraio 2021
Scaramucce e intolleranze: l'ira di Sergio Mattarella verso i partiti. L'appoggio di Matteo Salvini a Mario Draghi ha spiazzato il centrosinistra, che ora fa le bizze e mugugna mettendo a dura prova la pazienza di Mattarella. Francesca Galici, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Tutti i partiti, tranne Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni, hanno dato il loro consenso alla formazione del governo istituzionale di Mario Draghi, fortemente voluto da Sergio Mattarella per risolvere la crisi di governo. In apparenza un buon risultato per il presidente della Repubblica se non fosse che tra i partiti della nuova maggioranza in composizione permangono acredini e vecchie ruggini che già lasciano presagire sportellate per far fuori gli antagonisti. Uno scenario che, come riporta Marzio Breda sul Corriere della sera, lascia interdetto e innervosisce Sergio Mattarella. D'altronde la sua richiesta nell'ultimo discorso pubblico, fatto subito dopo la constatazione del fallimento di Roberto Fico, era stata molto chiara. Il capo dello Stato vuole "un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica". Invece si sgomita per mettere la firma politica e, ancora peggio, si pongono condizioni. "Se ci sono loro non possiamo starci noi", hanno detto in più occasioni alcuni partiti e il più delle volte "loro" era la Lega. Tutto questo è contrario all'idea di Sergio Mattarella e alla richiesta di responsabilità ai partiti, che sta alla base della decisione di optare per un governo di alto profilo senza sciogliere le Camere. In queste ore c'è chi ha proposto di offrire a Mario Draghi solo un appoggio esterno e c'è chi si dice interdetto per la forma che sta prendendo la nuova maggioranza. Un atteggiamento che toglie qualsiasi fondamento al principio alla base della scelta di Mattarella, che pare non stia vivendo con serenità la tensione tra i partiti. L'ex maggioranza era convinta di poter giocare la parte del leone in quella nuova al fianco di Mario Draghi, ricostruendo gli equilibri del governo precedente. "Tutto cambia per non cambiare mai", si saranno detti dalle parti del Nazareno. Invece no, Matteo Salvini ha riferito al presidente incaricato la decisione della Lega di rendersi disponibili con un "sì convinto, privo di pregiudizi o nomi". Una mossa inaspettata che ha completamente disorientato il Pd, il M5S e i loro alleati. Berlusconi, Salvini e Renzi hanno sparigliato le carte di Zingaretti e dei grillini e sarà ora compito (arduo) di Mario Draghi raffreddare il clima per costruire quanto più serenamente possibile la nuova maggioranza. Mario Draghi in tal senso ha carta bianca. Non ci sono veti, come hanno ripetuto tutti i leader dopo averlo incontrato e non ci sono paletti per le sue decisioni. Marzio Breda riferisce che in queste ore l'ex governatore della Bce sente con frequenza Sergio Mattarella. Sono colloqui informali, ricchi di consigli da parte del presidente della Repubblica, volti soprattutto a trovare una quadra per la squadra di governo. Le prime indicazioni sono in direzione di un governo misto tra politico e tecnico, che ricalchi le orme di quello messo in piedi da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. Il totoministri di queste ore pare indisponga il Colle e non è escluso che ci possano essere importanti conferme nell'esecutivo, soprattutto nei ministeri chiave nella lotta alla pandemia.
Marzio Breda per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2021. Resistenze, riserve, incompatibilità e ansie di esclusioni, con il terrore però di autoescludersi. C'è sorpresa, al Quirinale, per i tormentati umori politici emersi alla chiusura del primo giro di consultazioni di Mario Draghi. Vedere i partiti quasi unanimemente (tranne FdI, di Giorgia Meloni) concordi sul sostegno al premier incaricato, ma fra loro contrapposti e ansiosi di tagliare fuori dal perimetro della maggioranza qualche vecchio «nemico», è un esito che sconcerta Sergio Mattarella. Perché aveva chiesto «a tutti» un impegno diverso: dare la fiducia a «un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica». Ecco il punto. La guerra a mettere il proprio sigillo sull' esecutivo, alzando un veto su qualcun altro pronto alla coabitazione e obiettando che «se ci sono loro non possiamo starci noi», va contro i presupposti da cui il presidente della Repubblica ha maturato questa soluzione d' emergenza. Infatti, si ragiona sul Colle, stavolta non sono gioco le diverse famiglie politiche con le loro identità, ma l' Italia. E se non si spezza la catena degli interdetti e si minaccia magari di offrire a Draghi solo un appoggio esterno, si rischia di insidiare alla radice il suo tentativo. A far salire la tensione è stato Matteo Salvini, con il «sì convinto, privo di pregiudizi o nomi» della Lega. Una mossa che ha spiazzato il centrosinistra. Tuttavia sentimenti malmostosi serpeggiano pure nel centrodestra verso i 5 Stelle (già pronti a «lealtà totale») e tra i grillini verso altri potenziali partner, come Berlusconi e Renzi, tralasciando i leghisti. Sarà Draghi stesso, osservano gli intimi di Mattarella, a stemperare le tensioni con l' autorevolezza della sua proposta. Cioè con quel che si dice «la forza delle cose». Dopotutto non è forse un successo che, grazie a lui, le due prime formazioni politiche di questo Parlamento (5 Stelle e Lega) abbiano mutato opinione e si siano convertite all' ancoraggio europeo? Per il resto deciderà lui come gli parrà meglio, senza vincoli o preclusioni, senza un disegno precostituito e senza i citatissimi «paletti». Nessuno insomma, tantomeno al Quirinale, gli lega le mani anche se, certo, con il capo dello Stato Draghi si sente continuamente al telefono, per consigli che toccano i temi della squadra e della formula di governo. Chiarito che non avrà la natura di un esecutivo di coalizione, al momento sembra probabile che l' ex presidente della Bce opti per un mix tra tecnico e politico, su modello e con lo spirito) di quello che mise in piedi Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. E, mentre imperversa un totoministri irritante per il Colle, non è escluso che, per garantire una continuità in alcuni dicasteri chiave nella pandemia (come quello della Salute) ci sia qualche conferma del gabinetto Conte 2. Alla fine, come gli ha raccomandato Mattarella e come Draghi ha ripetuto ai suoi interlocutori, l' importante è «risolvere tutti insieme i problemi che abbiamo davanti».
Giuseppe Marino per il Giornale il 7 febbraio 2021. Clemente Mastella signorilmente non gongola. Ma ammette che sì, la scelta di sua moglie di non salire sul carro dei «contiani» diretto verso l' irrilevanza «è stata giusta». I 15 minuti di notorietà evocati da Andy Warhol per i «volenterosi» del Senato sono stati quasi letterali: un quarto d' ora sotto i riflettori e poi i «costruttori» si sono trasformati in umarell. Si apprestavano a entrare da protagonisti nel cantiere del Conte Ter, si sono ritrovati a guardare i lavori del Draghi Uno da dietro la rete, come pensionati della politica. Sembra incredibile, ma sono passati appena otto giorni dalla sera in cui la senatrice Sandra Lonardo ha sorpreso con il suo gran rifiuto i nuovi compagni di avventura. Fiuto, fortuna, o la semplice constatazione che il nuovo gruppo di Palazzo madama, Europeisti-Maie-Centro democratico, aveva più nomi che componenti. «Si sono mossi troppo presto», spiega Mastella che di esperienza in materia ne ha da vendere. Per qualche ora è parso che il destino dell' Italia dipendesse da loro. Nomi semi sconosciuti si sono ritrovati sulle prime pagine dei giornali, con schiere di analisti pronti a scrutarne i gesti, a interpretarne le motivazioni, a giustificarne filosoficamente le ragioni. Altri finiti in secondo piano, hanno ritrovato centralità. Il comandante Gregorio De Falco che ha incitato a «salire a bordo, cazzo» e poi si è ritrovato alla deriva. O Renata Polverini che, dopo l' adesione al gruppo di Tabacci alla Camera, si aggirava instancabile a Palazzo Madama, in coppia fissa con l' altra transfuga di Forza Italia, Maria Rosaria Rossi, in cerca di senatori vacillanti. Da onnipresenti a sparite. A ogni allargamento della maggioranza, gli «Europeisti» perdono peso. Perfino lo statuario Andrea Causin, il senatore ex montiano che, dopo quattro cambi di casacca era approdato nel centrodestra. Contro di lui si era scatenato sul web il responsabile di Forza Italia in Veneto Michele Zuin: «Sei un gigante fisicamente...ma sei proprio un piccolo uomo». Ma ora prevale l' ironia. «L' anatema del presidente Berlusconi non si smentisce mai -scherza, ma non troppo, Giorgio Mulè- tradire Forza Italia non porta fortuna». C' è chi la prende con ironia, come il capo del Maie, l' italo-argentino Ricardo Merlo. «In aula ho detto che stava per nascere il governo Di Maie -racconta Maurizio Gasparri- e lui poi mi ha ringraziato, dicendo che sua moglie aveva molto apprezzato la battuta». Ma il destino più singolare è quello di Tatiana Rojc, la senatrice che il Pd ha dato «in prestito» per sostituire Sandra Lonardo in extremis e far nascere il gruppo. Il suo sacrificio le è valso anche il sarcasmo via web di Giorgio Gori: «Ma la povera @tatjana_rojc è rimasta ostaggio dei Costruttori per #Conte? Liberatela!». Costruttrice. Della sua prigione.
Da video.corriere.it il 18 febbraio 2021. Sembra una s